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Anthony Blunt. Le teorie artistiche in italia dal rinascimento al manierismo.

Leon Battista Alberti


Nuovo stile che rivela una nuova visione del mondo, una nuova fiducia nell’uomo e nei metodi razionali:
 In pittura e in scultura  naturalismo basato sullo studio scientifico del mondo esterno;
 In architettura  ritorno alle forme  stile che soddisfaceva le esigenze della ragione umana.
Un tale mutamento nell’esercizio delle arti si accompagnò a un mutamento analogo nelle teorie elaborate attorno
ad esse:
 Per i trattatisti medievali le arti erano assoggettate all’autorità della Chiesa, accettandone la gerarchia dei valori
(esaltazione dello spirito e trascurava la materia),  l’artista non imita il mondo esterno, ma elabora una
simbologia adatta a esprimere gli insegnamenti morali e religiosi della Chiesa  pittore era un artigiano che
svolgeva un mestiere sotto la guida della Chiesa (come qualsiasi altro artigiano).
 Per le generazione del 1420 la pittura consisteva nel rappresentare il mondo esterno in armonia con i
principi dell’umana ragione.
Le nuove idee compaiono negli scritti di Leon Battista Alberti, tipico esponente del primo umanesimo. Scrisse vari
trattati. Quanto alle arti, praticò e scrisse di pittura, scultura e architettura. La sua visione della vita corrisponde al
concetto della città-stato  per lui il bene supremo è l’interesse pubblico. Il principe deve governare nell’interesse dei
cittadini, tutelarne la libertà e obbedire alle leggi civiche, perché altrimenti diventerebbe un tiranno. Fine principale
dell’uomo è di essere un buon cittadino, ossia rendersi utile il più possibile ai propri concittadini. Si può ottenere tale
scopo soltanto perseguendo le virtù (dedica gran parte dei suoi scritti di carattere etico ai metodi per raggiungerla).
Ciascuno deve tendere alla virtù esercitando la volontà, servendosi della ragione e assecondando la natura:
1. La volontà fornisce la forza motrice.
2. L’uomo può ottenere tutto ciò che vuole, ma soltanto per mezzo della ragione può sapere a che cosa deve
aspirare e che cosa deve evitare.
3. L’uomo deve assecondare la natura, deve conoscere il fine per cui è stato creato e cercare di raggiungerlo.
Alberti ritiene che l’uomo debba tendere alla perfezione spirituale e non essere schiavo dei sensi e
delle passioni; deve porsi al di sopra delle cose materiali e sottrarsi così alla legge del fato. L’uomo
deve moderare i suoi affetti e godere delle cose terrene senza diventarne schiavo. La moderazione
(aspetto più significativo e ricorrente nella dottrina di Alberti) conduce alla pace dello spirito,
condizione necessaria per una retta condotta di vita. Questo razionalismo, basato più sulla filosofia
classica che sugli insegnamenti del cattolicesimo, è caratteristica della sua concezione della vita.
Ma ciò non significa che Alberti avversi il cristianesimo, manifesta il suo rispetto verso di esso; ma è in favore di una
religione tipicamente umanistica, in cui elementi della filosofia classica e pagana si mescolano con i dogmi cristiani.
Le teorie artistiche di Alberti sono esposte in tre opere:
• “Della Pittura di Leon Battista Alberti Libri Tre” - scritto nel 1436;
• “De Re Aedificatoria” - iniziato nel 1450 ma a cui continuò a modificare fino alla morte (1472);
• “De Statua” - composto poco prima del 1464.
Poiché l’architettura è l’arte più strettamente connessa alle necessità pratiche dell’uomo, è in esse che si riflettono le
idee sociali dell’autore. Egli considerava l’architettura come una attività interamente civica. (architettura non limitata a
scopi ecclesiastici o a soddisfare il committente privato). I primi 3 libri del trattato sull’architettura sono dedicati ad
argomenti strettamente tecnici, poi Alberti affronta i problemi che riguardano la città come un tutto organico:
A. Il problema della località in cui deve sorgere;
B. La città deve avere una pianta ben tracciata e suggerisce che gli edifici si dispongano simmetricamente ai lati
delle strade;
C. Considera i vari tipi di edifici dividendoli in 3 gruppi: edifici pubblici, case dei cittadini più autorevoli,
abitazioni del popolo. La sua concezione dell’architetto è espressa con la massima chiarezza nel proemio al
trattato sull’architettura.
La sua concezione dell’architetto è espressa nella prefazione del trattato di architettura: architetto è colui che sia con il
raziocinio, che con l’animo, sia con l’esperienza, crea opere che si accomodano all’uso degli uomini. + Definizione del
pittore  sia dotto in tutte le discipline attinenti alla sua arte. Si tratta della più completa definizione dell’artista che si
possa riscontrare all’inizio del Rinascimento.

Ogni trattato sulle arti incomincia con un’esposizione delle basi scientifiche dell’arte di cui si discute. L’artista deve
impadronirsi dei principi fondamentali della sua arte mediante la
ragione e studiare le opere migliori di quelli che lo hanno preceduto; in tal modo riuscirà a esercitare le arti, che
dovranno però essere uniti all’esperienza pratica.
L’orientamento scientifico dell’Alberti non è che un aspetto del suo umanesimo, essendo la scienza
il frutto più pregiato dell’applicazione della ragione umana allo studio del mondo. Le sue definizioni
delle arti non comprendono alcun riferimento alla religione e sono interamente formulate in termini
umani.  es. pittura di storie colpisce profondamente lo spettatore poiché suscita in lui le emozioni che vi sono
rappresentate. Per questa ragione l’Alberti attribuisce grande importanza all’abilità del pittore nel rappresentare
un’azione e nel rendere le emozioni per mezzo del gesto e dell’espressione del viso.
Nel campo delle arti, il suo umanesimo si accompagna a una grande ammirazione per l’antichità classica.  La
descrizione della città ideale prevede elementi tratti dall’antichità. I modelli scelti per gli edifici sono quelli che
l’Alberti ha visto a Roma/ letto negli scrittori antichi. Considerava gli antichi come i modelli migliori, MA mai
l’architetto contemporaneo deve imitarli. Egli consigliava di cercare sempre d’introdurre nei suoi progetti qualcosa che
fosse interamente di sua invenzione.
Il metodo razionale e scientifico che l’Alberti segue in architettura riappare nel campo della pittura e della scultura sotto
forma di una nuova concezione del realismo: teoria dell’imitazione della natura. Definisce la pittura come
l’imitazione di una sezione della piramide che ogni corpo
sottende rispetto all’occhio dell’osservatore. Egli inventò perfino un sistema, cioè un reticolo che il pittore pone tra sé e
l’oggetto da dipingere che tuttavia ha lo svantaggio di poter essere applicato soltanto a quanto l’occhio può vedere
direttamente.
 Il primo compito della pittura è la fedele imitazione della natura
 Il pittore deve eseguire un’opera tanto bella quanto accurata, e la bellezza non è la conseguenza necessaria di
un’imitazione esatta. La bellezza non è una qualità necessariamente insita in tutti gli oggetti esistenti in natura.
Perciò l’artista deve fare un processo di selezione.
Nel De Re Aedificatoria Alberti dà due definizioni della bellezza che corrispondono abbastanza a quelle che si possono
trovare in Vitruvio In pittura la mente deve controllare la disposizione, la mano operare con destrezza e la natura
contribuire con la ricchezza del materiale. L’Alberti ritiene che la bellezza dia piacere all’occhio e che in tal modo la si
possa riconoscere. Egli distingue i due processi.
1. la bellezza si riconosce non soltanto in base al gusto, il quale, di carattere del tutto personale e variabile,
giudica secondo l’attrazione, ma in base a una facoltà razionale comune a tutti gli uomini, che porta al
consenso generale sulle opere d’arte da ritenersi belle.
2. La bellezza è infatti percepita grazie alla facoltà di giudicare da un punto di vista artistico. Nelle sue opere
l’artista deve preoccuparsi d’inserire quanto più gli è possibile il bello e quanto meno il brutto: eliminare ogni
imperfezione del suo modello + scegliere accuratamente fra i vari modelli di cui dispone tutte le parti più belle
allo scopo di fonderle in un tutto unico privo di difetti.
3. Un altro aspetto della teoria albertiniana mostra il desiderio di creare figure conformi non soltanto a quanto di
più bello è in natura, ma a quanto è più consueto, generale o tipico.

Il significato attribuito al termine “natura”. Nel trattato sulla pittura esso sembra indicare l’insieme di tutti gli
oggetti materiali non fatti dall’uomo. Alla base di tutto ciò sta la concezione che la natura
opera secondo determinate leggi generali e seguendo un metodo preciso. I principi a cui egli si riferisce sono costituiti
da qualità come l’armonia (concinnitas), la proporzione e la simmetria. Alberti distingue le leggi di origine filosofica
che regolano la bellezza degli edifici nel loro insieme, da quelle leggi relative alle singole parti delle costruzioni, le
quali, essendo basate sull’esperienza, costituiscono il campo particolare dell’architetto e il vero fondamento
dell’architettura. Le caratteristiche più salienti dell’Alberti sono il razionalismo, il classicismo, il metodo scientifico e la
fede assoluta nella natura. Tutto è attribuito alla ragione, al metodo, all’imitazione e alla misurazione, nulla alla facoltà
creativa.

Negli ultimi anni di vita, riprese contatto con la società fiorentina. Sotto la signoria medicea Firenze era “fastosa” e
dominava il neoplatonismo misticizzante (Accademia Platonica) che non promuoveva la vita attiva e che forse per
ragioni politiche è stato vantaggioso per Lorenzo de Medici. L’Alberti reagisce scrivendo la sua ultima opera: De
Iciarca in cui attacca il fasto dei Medici. Soltanto nel secolo successivo le dottrine neoplatoniche furono applicate alla
teoria della pittura in modo notevole da Michelangelo con lui l’artista diventa “divino” e la concezione pratica
delle arti dell’Alberti è sostituita da un’altra dottrina.

Leonardo. Escluso Michelangelo, Leonardo è l’unico grande pittore del Rinascimento italiano che abbia lasciato un
certo numero di scritti sulle arti. Leonardo aveva intenzione di scrivere un grande trattato sulla pittura Rimangono
molti schemi del piano generale dell’opera. Ciò che ci è rimasto degli scritti di Leonardo è un’enorme quantità di
appunti.
Leonardo nacque nel 1452 e crebbe a Firenze quando questa città era sotto l’influenza predominante
dei neoplatonici. Essi dominavano nel campo filosofico, ma in quello artistico il vecchio metodo
scientifico sopravviveva sotto forma di una tradizione di bottega come per esempio in quella del
Verrocchio, sotto la cui guida Leonardo fece il suo apprendistato. Alla base delle indagini scientifiche
di Leonardo stava una fede profonda nel valore dell’esperimento e dell’osservazione diretta. In molte occasioni
Leonardo esprime la sua fiducia nel metodo sperimentale. Egli rovescia il canone medievale, secondo cui la scienza è
certa soltanto se è puramente speculativa ed è semplicemente meccanica se viene a contatto con l’universo materiale.
Egli era contrario alla speculazione non basata sull’esperienza.
Leonardo per certi versi continuava a seguire i principi scientifici dell’Alberti, ma con alcune differenze: Leonardo si
attiene rigorosamente all’osservazione dei fenomeni. Quando generalizza, però, si attiene all’opera dei suoi
predecessori, ovvero i filosofi medievali. Per Leonardo la pittura è una scienza, essendo basata sulla prospettiva
matematica e sullo studio della natura. L’arte di dipingere deve essere giudicata in base alla certezza delle sue premesse
e dei suoi metodi e al grado di conoscenza espresso dai suoi prodotti. La certezza in pittura dipende da vari elementi, in
particolare la vista: il pittore non deve avere fiducia totale nella vista, ma deve controllarne il giudizio procedendo a
misurazioni. La pittura è basata sui principi della geometria.

In polemica con i sostenitori della poesia, egli afferma che la pittura è l’arte più nobile. Rivendica anche la superiorità
della pittura sulla scultura, perché quest’ultima non si può servire del colore o della prospettiva aerea, oppure
rappresentare corpi luminosi o trasparenti. La pittura è un genere della scienza, e il suo sviluppo deve essere controllato
in ogni fase servendosi della ragione.

Pittura come imitazione scientifica di alcuni aspetti della natura. Leonardo disapprova coloro che per giungere ad
un’esatta imitazione della natura ricorrono a stratagemmi, come il sistema a reticolato dell’Alberti o l’abitudine di
dipingere su un pezzo di vetro opposto a ciò che si vede.
Parte dei suoi appunti è dedicata all’osservazione scientifica di fatti che interessano il pittore. Appunti relativi al
rapporto luce-ombra: al rapporto tra luce e ombra egli attribuisce grande importanza perché senza la loro giusta
distribuzione un dipinto non offre l’apparenza del rilievo. Notò che le ombre gettate dal sole su una superficie bianca
sono azzurre: questa osservazione fu ripresa solo nella seconda metà del XIX secolo, e costituì una delle scoperte
fondamentali dell’impressionismo.
Per ciò che riguarda la prospettiva aerea, gli scrittori precedenti non si erano accorti che i contorni degli oggetti
diventano sempre meno netti e precisi allontanandosi. Leonardo raccomanda all’artista di portare con se uno specchio
per controllare se l’immagine riflessa corrisponda esattamente a quella dipinta. L’artista deve cercare di imitare la
natura, e non di superarla perché potrebbe diventare artificioso.
A differenza di Alberti, parla della bellezza della natura senza formulare distinzioni tra i diversi gradi di bellezza: tutto è
ugualmente meritevole di imitazione da parte del pittore. Inserire la bruttezza giova anche a uno scopo preciso, perché il
contrasto tra parti belle e brutte serve a far risaltare maggiormente ciascuna di esse. Elemento molto importante della
sua teoria non è il bello, ma l’individualizzato e il caratteristico. Se l’Alberti aveva tentato di fissare un canone di
proporzioni applicabile a tutte le figure umane, Leonardo pone in rilievo la varietà della natura nella figura umana.
Dopo studi, Leonardo ammette che le proporzioni umane sono immutabili in altezza, ma esorta il pittore a variarle in
larghezza. Il contrasto tra Alberti e Leonardo è da collegare a cambiamenti del corso del XV secolo: al tempo
dell’Alberti, dopo lo stile non-realistico del Medioevo, si stavano adoperando per un ritorno al realismo, ed era
necessario stabilire quali fossero le proporzioni dell’uomo. Le teorie dell’Alberti sulla proporzione costituirono uno
strumento per l’attuazione del realismo. Una volta trionfato il realismo gli artisti conoscevano perfettamente le
proporzioni, tanto che tendevano a servirsene in modo meccanico. Leonardo si oppone alla stilizzazione e alla
monotonia. Leonardo disapprova l’imitazione lo stile altrui: eccezione fatta per i giovani pittori, ma è pericoloso copiare
lo stile di altri perché in tale modo si giunge al manierismo, uno dei peggiori difetti, perché generalmente il manierismo
deriva dalla ripetizione costante di un qualsiasi espediente senza rifarsi alla natura. Sorte analoga a quelli che fanno
affidamento sulla memoria anziché studiare la natura. La qualità più importante di un dipinto è la sensazione del rilievo,
che supera la bellezza del colore e l’esattezza del disegno.

La visione di Leonardo è antropocentrica, ma nonostante ciò egli imita tutta la natura, e oltre all’uomo include
animali, alberi, piante e paesaggi.

La pittura delle storie è il genere più alto e nobile della pittura. Per essa occorre un sapere universale, quantunque
l’elemento di gran lunga più importante sia la rappresentazione dell’uomo. Questa consiste nel ritrarre non soltanto il
corpo, ma anche lo spirito.  E’ per questa ragione che Leonardo sviluppa completamente la sua teoria
dell’espressione. Leonardo ritiene che sia importante rivelare le emozioni e i pensieri di una persona mediante i gesti e
le espressioni del viso. Strettamente connessa con quella dell’espressione è un’altra teoria che riscosse in seguito grande
successo e che si trova per la prima volta in Leonardo: la teoria del “decoro”. I gesti fatti da una figura devono non solo
esprimerne i sentimenti, ma essere appropriati all’età, al rango e alla posizione. In mano a Leonardo il decoro è soltanto
un elemento per la rappresentazione completa del mondo esterno, senza il quale la pittura di storie risulterebbe
imperfetta e non convincente.
Tutti gli appunti di Leonardo finora citati si basano sull’artista concepito come scienziato. Ma in contrapposizione a
questa figura vi è quella dell’artista come creatore e inventore. Per quanto senta che la pittura è un’attività scientifica,
Leonardo comprende che non si tratta soltanto di una scienza e che a un buon pittore occorrono certe qualità che non
sono necessarie allo scienziato. Il giovane artista non può fare a meno di un talento naturale, mentre secondo Leonardo
lo studioso di scienze matematiche può apprenderle grazie all’ applicazione. Il pittore non è unicamente uno
scienziato che copia la natura, è anche un creatore. Leonardo non incoraggia mai l’artista a dare libero corso alla
fantasia. Ciò che inventa deve sempre trovare il più esattamente possibile la propria base e giustificazione in natura.
Questa doppia concezione della funzione dell’artista, che osserva da scienziato e crea per mezzo della fantasia, è
espressa nei dipinti e soprattutto nei disegni di Leonardo.

Colonna, Filarete, Savonarola


Francesco Colonna, nato nel 1433 e monaco a Venezia fu autore del “Hypnerotomachia Poliphili”. Questo libro è
l’unica opera veneziana del Quattrocento che tratta delle arti e costituisce quindi l’unica fonte per conoscere le opinioni
che circolavano a quel tempo a Venezia in materia di estetica. Numerosi
elementi gotici sopravvivono nella pittura e nell’architettura veneziana dell’ultima parte del XV secolo, poiché la
tradizione gotica era troppo profondamente radicata per essere eliminata del tutto
dal culto dell’antichità che si stava diffondendo a Venezia. Si accoglieva lo stile classico, ma
trattandolo con uno spirito romantico e irrazionale. La stessa mescolanza di elementi medievali e
classici si riscontra nella Hypnerotomachia. Ma l’autore si è servito di questa forma medievale per
esprimere soprattutto la sua struggente passione per l’antichità. Ogni episodio, ogni allegoria sono
rivestiti di una fraseologia classica. La lingua e i nomi sono una rozza contaminazione di parole
italiane, latine e greche; gli edifici descritti sono in stile classico; ogni cerimonia è dedicata a un dio
o a una dea dell’antichità classica. Il Colonna interpreta in modo fantastico la propria conoscenza
dell’antichità senza molto curarsi dell’esattezza dei particolari. Non lo interessano le opinioni
filosofiche e morali degli antichi: egli vuole soltanto trarre dall’antichità quegli elementi che lo
aiuteranno a narrare un sogno. Ma quello da lui inventato era un sogno dolcissimo, nel quale poteva godere di tutte
le cose che non avrebbe potuto conseguire nella vita reale. Tutto di solito è rivestito discretamente di allegoria, ma
talvolta il velo diviene sottilissimo e il simbolismo è del genere più evidente. L’atteggiamento immaginoso dell’autore
si estende anche a temi di carattere schiettamente archeologico, in cui non sembra che egli si preoccupi dell’esattezza né
della
consistenza di quanto espone. Le descrizioni architettoniche non contengono lo stesso miscuglio di
elementi non classici, ma, in confronto alle metodiche analisi dell’Alberti sono fantastiche e
irrazionali. A prima vista l’autore sembra molto preciso nell’indicare con abbondanza le dimensioni
per ogni edificio descritto; lo scopo è solo di fornire al lettore un’impressione di grandiosità e
complessità. Da una parte in alcune descrizioni vi è qualcosa del timore che gli uomini medievali
provavano davanti alle grandi rovine dell’epoca romana, ma unito a un intenso desiderio di farne
rivivere la gloria, sebbene soltanto con la fantasia. In altri casi il Colonna mostra un diverso modo di
sentire nei riguardi dei resti dell’antichità. Gran parte degli edifici che descrive sono in rovina e nel
parlarne egli tradisce una sensibilità romantica completamente diversa dall’atteggiamento
scrupolosamente archeologico dei fiorentini del primo Quattrocento. Il Colonna trae un vero diletto
dal fatto che si tratti di rovine e non di edifici intatti. Ne descrive la decadenza con sentimento
sincero, prendendo spunto per riflettere sulla fragilità della vita umana e dell’amore e sull’azione
deleteria del tempo. La Hypnerotomachia non servì molto agli architetti desiderosi di apprendere
qualcosa sui metodi di costruzione degli edifici antichi, ma costituì una sorgente inesauribile di temi
per pittori, scultori, incisori e decoratori di ceramiche. Il romanzo poté servire in vari modi a quanti
consideravano l’antichità come uno stato ideale di esistenza che poteva essere ricostruito con la
fantasia. Non fu invece molto utile a coloro i cui interessi erano di carattere più nettamente
archeologico o più severamente moralizzante.

Alcuni degli stessi elementi che appaiono nella Hypnerotomachia si possono ritrovare nel trattato sull’architettura
scritto da Antonio Averlino detto il Filarete, scultore e architetto fiorentino nato verso il 1400, che lavorò in prevalenza
a Roma e a Milano, e la cui opera più nota è costituita dalle porte in bronzo del vecchio San Pietro. Il trattato scritto tra
il 1460 e il 1464 a Milano, è in forma semifantastica e vi è descritta la costruzione di una città immaginaria, Sforzinda.
Vi è maggiore razionalità che nel Colonna. Il Filarete fu un difensore dell’architettura antica in una città dove il gotico
continuò a dominare fino al XVI secolo. Le sue teorie sulla pianificazione urbanistica sono antimedievali. Il trattato
termina con tre libri sul disegno, in cui però il Filarete ripete soltanto i luoghi comuni di carattere matematico e tecnico
di precedenti scrittori. Nella stessa città del Trattato del Filarete venne alla luce il libro del matematico Luca Pacioli.
Provenendo da una tradizione di artisti scienziati che si servivano della matematica per lo studio della natura, egli ne
assorbì l’insegnamento, ma lo volgendo la propria attenzione al lato astratto delle scienze matematiche e pensando
soltanto a elaborare una teoria senza curarsi di cercarne il fondamento nella natura. Gli scritti del Pacioli costituiscono
un esempio di applicazione alla teoria pittorica delle idee medievali e neoplatoniche che si diffondevano gradualmente
in Italia mentre crollavano gli antichi comuni ed erano sostituiti dalle signorie. Girolamo Savonarola: su di lui gli storici
riferiscono le sue opinioni sull’arte quando ricordano i roghi savonaroliani di quadri e statue che egli considerava
peccaminosi. Nelle “Prediche” Savonarola teme le influenze nocive dell’arte immorale.  Opinioni quasi medievali:
protesta contro il pontificato mondano di Alessandro VI. Predicazione rivolta al ceto artigiano, non all’aristocrazia
feudale. Concezione di bellezza fondata sul fatto che lo spirito è superiore alla materia: la bellezza presiede un Dio.
Alcune definizioni sono analoghe a quelle di San Tommaso. La bellezza sta nella proporzione, armonia dei colori e
delle forme. Idee neoplatoniche. Secondo Savonarola la pittura deve essere la Bibbia degli analfabeti. Pittura come arma
potente per indurre al bene o al male. Tutti i quadri mondani e sconvenienti devono essere tolti dalle chiese, e anche i
dipinti che suscitano ilarità. Il “De Simplicitate Vitae Christianae “ è invece un trattato in tono scolastico sulla bellezza.
Savonarola parla come un esponente della fine del Medioevo.
In ogni manifestazione di opinioni tardi medievali sull’arte si deve riscontrare una mescolanza di teorie idealistiche e
ingenuamente naturalistiche.

La posizione sociale dell’artista. Gli artisti iniziano a rivendicare la propria superiorità rispetto agli artigiani e cercano
di ottenere migliore posizione sociale. Nel ‘400 la loro considerazione era cresciuta enormemente, quando a
Michelangelo venne dato l’attributo di “divino”. Però si continuava a negare che la pittura e la scultura facessero parte
delle arti liberali. Le rivendicazioni per una migliore posizione sociale si manifestavano dimostrando che in passato
l’arte era tenuta in grande considerazione; negli scritti teorici del Quattrocento si andava a scovare nell’antichità. La
differenza tra arti liberali e arti meccaniche era che le prime erano esercitate da uomini liberi, mentre le seconde da
schiavi. Gli artisti si vogliono dissociare dagli artigiani. Negli scritti dell’ultima parte del XV secolo divenne luogo
comune che la pittura dipendesse dalla conoscenza delle scienze matematiche. La matematica faceva parte delle arti
liberarli, e dimostrarne la correlazione con la pittura e la scultura avrebbe reso anche queste liberali. Leonardo è il primo
a farlo. Nel rivendicare la conoscenza di altri rami della scienza i pittori erano probabilmente spinti a una maggiore
audacia dal loro antagonismo nei confronti degli architetti. Secondo il Cellini lo scultore deve conoscere l’arte della
guerra e deve essere egli stesso un uomo coraggioso per riuscire a scolpire la statua di un eroe. Pittori e scultori
chiedevano l’uguaglianza ai poeti: la poesia e la retorica erano accolte tra le arti liberali; gli artisti pensavano che
dimostrando la nobiltà delle arti pari alla retorica o alla poesia, queste sarebbero diventate liberali. Leonardo sostiene
che il pittore può ottenere risultati non inferiori a quelli del poeta, e la pittura può rappresentare un’azione altrettanto
completa della poesia. In uno degli appunti di Leonardo, egli si richiama alla frase attribuita a Simonides, che definisce
la pittura come una “muta poesis” e la poesia come una “pictura loquens”. Quando le arti vennero accettate come
liberali, iniziò la disputa su quale delle arti fosse la più nobile e liberale. Leonardo si dedicò alla difesa della pittura: egli
osserva che la pittura descrive la natura in maniera più completa di quanto faccia la scultura.
Secondo Benedetto Varchi, che si espresse nelle “Lezioni”, pittura e scultura sono arti ugualmente nobili, poiché gli
scopi e metodi sono gli stessi. Nel corso dell’esposizione accenna però al fatto che l’arte scultorea sia più difficile
(distinzione tra difficoltà di ordine materiale e difficoltà di ordine intellettuale). Leonardo fa una descrizione di pittori e
scultori, di come questi lavorino: il primo è ben vestito, con la stanza in ordine, che si muove leggiadro e senza fare
fatica nel dipingere; il secondo fa un lavoro estenuante, si copre di polvere, e sudore.
La pittura e la scultura e l’architettura furono accettate fra le arti liberali, e formano un gruppo di attività strettamente
connesse, fondamentalmente lontane dai mestieri manuali: nasce così il concetto di “Belle Arti”.

Verso la fine del XV secolo gli artisti erano quasi completamente emancipati, liberi e istruiti. Tanto Alberti quanto
Leonardo parlano dell’importanza di piacere agli altri; Leonardo pensa ancora soltanto ad un pubblico colto. Verso il
primo del Cinquecento fu generalmente accettato il fatto che un profano esprimesse un’opinione in materia di arte, e
apparvero perfino trattati sulle arti scritti da profani. L’artista ora doveva sforzarsi di conquistare con la sua arte un
pubblico vasto; inizia l’idea dell’artista come creatore che lavora solo per se stesso.
Quando si abbandonano le organizzazioni fu necessario agli artisti un’istituzione per salvaguardare i propri interessi e
addestrare le nuove leve. Nella seconda metà del XVI secolo incominciarono a sorgere quindi le accademie: la prima fu
l’Accademia del Disegno, fondata a Firenze da Vasari nel 1562, e la seconda a Roma, quando la corporazione di San
Luca si trasformò in Accademia. La differenza tra corporazioni e accademie era che queste trattavano le arti come
materie scientifiche da insegnare sia con la teoria che la pratica, mentre alle corporazioni interessava solo consolidare la
tradizione tecnica.

Michelangelo Oltre agli scritti di Michelangelo ci restano testimonianze di tre dei suoi contemporanei: Francisco de
Hollanda,  fece parte della cerchia di Michelangelo; nelle “Vite” di Vasari, e Ascanio Condividi, discepolo di
Michelangelo, che nel 1553 pubblicò una biografia dell’artista, e corregge alcuni punti del Vasari. Fra i suoi scritti le
lettere offrono assai scarso interesse dal punto di vista teorico. Le poesie invece sono di notevole importanza poiché è
possibile dedurne in quali termini egli concepisce la bellezza.

Michelangelo visse a lungo e le sue idee andarono continuamente evolvendosi e mutando: è impossibile considerare le
sue teorie come un tutto unico e coerente.
Nato nel 1475, studiò sotto maestri che appartenevano ancora al Quattrocento. Le sue prime opere
romane costituiscono la piena fioritura del Rinascimento maturo, ma prime della sua morte, nel
1564, il manierismo si era già solidamente affermato. Le sue opere e le sue teorie si possono riunire
in modo approssimativo in tre periodi.
 Nel primo periodo, che termina all’incirca nel 1530, il pensiero di Michelangelo sulle arti è quello umanistico
del Rinascimento. Di esso costituiscono un’evidente espressione la volta della cappella Sistina, la Pietà di San
Pietro e le prime poesie amorose. Egli si riallaccia alla tradizione scientifica, ma fu anche influenzato
dall’atmosfera di neoplatonismo in cui crebbe. Egli dava maggiore importanza alla bellezza che alla verità
scientifica; pur pensando che per raggiungere la bellezza occorresse conosce la natura, non sentì però
l’impulso a intraprendere la ricerca delle cause naturali come fine a se stessa. Lo studio della natura, a cui era
stato abituato nella bottega del Ghirlandaio, poté fondersi abbastanza facilmente con le teorie sulla bellezza
apprese nella cerchia di Lorenzo de’ Medici.
A Roma Michelangelo trovò una città all’apice dell’opulenza e in posizione predominante rispetto al
resto dell’Italia. In una simile atmosfera l’artista si sentiva a suo agio con il mondo. L’educazione
neoplatonica portava alla fede nella bellezza dell’universo visibile, e soprattutto nella bellezza
umana. La grandiosità delle figure della volta della cappella Sistina non deriva solo dall’imitazione
delle forme naturali, ma la loro idealizzazione si fonda su una conoscenza e uno studio approfondito
di tali forme. I mondi apparentemente contrastanti della cristianità e del paganesimo si fondono
ancora completamente nella Roma del primo quarto del Cinquecento. In Michelangelo entrambe le
fedi erano perfettamente sincere. Egli era divenuto un buon seguace della Chiesa cattolica. Persuaso dalla bellezza del
mondo materiale, le sue prime poesie amorose riflettono questa convinzione con forti slanci sentimentali e spesso anche
dei sensi, suscitati sia dalla bellezza visibile che da quella ideale di cui parlava il neoplatonismo. Michelangelo non si
limitò a osservare la natura, ma la studiò per tutta la vita in modo scientifico. Tuttavia Michelangelo non credeva
nell’imitazione fedele della natura. L’Alberti agiva in conformità di una scelta rigorosamente razionale e cercava il
tipico, Michelangelo inseguiva il bello. Michelangelo afferma che l’artista giunge, mediante la fantasia, a una bellezza
superiore a quella che si trova in natura. La bellezza è il riflesso del mondo divino in quello terreno. La figura umana è
la forma in cui si manifesta più chiaramente la bellezza divina. In altri casi parla dell’immagine interiore che la bellezza
del mondo visibile suscita nella sua mente. L’idea della bellezza nata in tal modo è superiore alla bellezza materiale,
perché la mente perfezione le immagini che riceve e le avvicina maggiormente alle Idee che esistono in esse per diretta
ispirazione divina. Le vedute di Michelangelo nel primo periodo sono ancora affini a quelle dell’Alberti, pur con
un’accentuata tendenza all’idealismo neoplatonico. Per l’Alberti l’artista dipende
interamente dalla natura e può perfezionarla soltanto cercando di avvicinarsi a quel modello ideale
a cui essa tende. Per Michelangelo invece l’artista, sebbene sia ispirato direttamente dalla natura,
deve conformare quanto vi scorge a un modello ideale esistente nella sua mente.
 Verso il 1530 circa i tentativi del papato di formare in Italia un potente stato secolare erano falliti. La Riforma
aveva colpito la Chiesa e indebolito enormemente la posizione del pontefice. Tutta la struttura sociale su cui
era basata l’arte umanistica di Roma nel primo quarto del Cinquecento fu spazzata via. Gli umanisti più vecchi
si erano accorti che la Chiesa aveva bisogno di una riforma. Gli umanisti italiani erano troppo strettamente
legati alla Chiesa di Roma per seguire Lutero quando si giunse a uno scisma, ma, finché sembrò possibile
conciliare con la fedeltà a Roma le dottrine riformatrici più moderate, molti di loro guardarono con simpatia
alle richieste dei riformatori tedeschi. Fra gli umanisti si era formato un gruppo che aspirava a una riforma
interna della Chiesa cattolica e a un compromesso con i protestanti; a questo gruppo si unirono come seguaci e
sostenitori Vittoria Colonna e Michelangelo. La religione di quest’ultimo divenne allora fervida e prese la
forma di una devozione profonda. Egli faceva parte di quel gruppo di persone che volevano dar vita a un
nuovo cattolicesimo, più spirituale, mediante dottrine riformatrici tali da non distruggere le basi su cui
poggiava la Chiesa di Roma. Un simile mutamento di vedute influì naturalmente sull’arte di Michelangelo e
ciò è evidente nel capolavoro di questo periodo, l’affresco del Giudizio Universale.
Questo affresco è opera di un uomo scosso nel suo senso di sicurezza, incerto nei suoi rapporti con
il mondo e incapace di affrontarlo in modo deciso. Michelangelo ora non si occupa direttamente
della bellezza visibile del mondo fisico. Nel Giudizio Universale appaiono dei nudi, ma sono pesanti
e goffi, le loro membra sono grosse e prive di grazia. La verità non è che la mano di Michelangelo
andasse indebolendosi, ma che egli non si interessava più della bellezza fisica come fine a se stessa,
servendosene invece come di un mezzo per esprimere una idea o rivelare uno stato spirituale. Gli
ideali di bellezza classica esaltati nella volta non sono più validi nel Giudizio. Il principio su cui si
basava il Rinascimento nel primo quarto del Cinquecento sembra qui essere stato trascurato perché
il mondo esterno è ricostruito con ben scarsa fedeltà e non vi si riconoscono lo spazio materiale, la
prospettiva e le proporzioni tipiche. L’artista è unicamente intento a esprimere una sua particolare
idea.
La nuova visione della vita e dell’arte che si nota nel Giudizio Universale si riflette anche negli
scritti di Michelangelo. Un nuovo atteggiamento verso la bellezza e il problema dell’amore è visibile
nelle poesie scritte tra il 1530 e il 1540 circa. In questo periodo uno dei temi più frequenti è la
caducità della bellezza fisica: l’amore sensuale non può quindi soddisfare completamente ed è
degradante per lo spirito. L’amore per la bellezza fisica è un inganno, ma il vero amore, quello per la bellezza spirituale,
soddisfa pienamente, non si affievolisce col tempo e innalza la mente alla
contemplazione del divino. La bellezza visibile ha ancora per lui un significato grandissimo perché è
il simbolo più efficace della vera bellezza spirituale, e la bellezza umana conduce più facilmente di
qualsiasi altro mezzo alla contemplazione di quella divina. Lo stimolo più facile all’amore giunge
attraverso l’occhio. Solo attraverso l’occhio l’artista è sollecitato a creare e lo spettatore a
contemplare la bellezza divina. Ed è nel corpo umano che la bellezza divina si manifesta con la
massima completezza. In questo periodo della sua vita, i versi di Michelangelo mostrano l’influsso
degli elementi più mistici del neoplatonismo. La violenza passione fisica delle prime poesie amorose
ha ceduto il posto a dottrine che identificano l’amore con la contemplazione di una bellezza
incorporea. Nella parte più strettamente estetica degli scritti sull’arte di questo periodo, l’impronta
predominante è quella del neoplatonismo, che influenza il suo pensiero sul rapporto della pittura
con il mondo visibile. Non si parla più della pittura come di un’imitazione della natura e lo interesse
dell’artista è deviato quasi interamente verso la immagine mentale interna, che supera tutto ciò che
si può trovare nel mondo visibile. L’idea che si trova nella mente dell’artista è più bella dell’opera
definitiva, la quale ne è soltanto un debole riflesso. In questo periodo Michelangelo pone in grande
rilievo l’ispirazione divina dell’artista. Dio è la fonte di ogni bellezza. E l’arte è un dono che l’artista
riceve dal cielo. Grazie a questo dono divino, l’artista può infondere vita al marmo da cui ricava la
statua. E quanto al marmo, parte materiale dell’opera, è cosa inutile e morta finchè la fantasia non
abbia agito su di esso. Per Michelangelo la caratteristica essenziale della scultura è che l’artista parte
da un blocco di pietra o di marmo, da cui asporta via via il superfluo fino a rivelare o a scoprire in
esso la statua. Questa statua è l’equivalente materiale dell’idea che l’artista aveva in mente; e, dato
che la statua esisteva in potenza nel blocco prima che l’artista incominciasse a lavorarvi, è in un certo senso esatto
affermare che anche l’idea esisteva in potenza nel blocco e che, scolpendo la statua, egli l’ha soltanto rivelata. Il
“duplice parto” corrisponde esattamente a quanto conosciamo sui metodi di Michelangelo scultore. In genere egli non si
servì mai di una versione di creta di grandi dimensioni per le statue in marmo, lavorò invece con un minuscolo modello
per oggettivare
l’immagine che aveva in mente. In tal modo egli si accingeva a lavorare direttamente il blocco
marmoreo, letteralmente portando alla luce la statua. Alcune delle teorie di Michelangelo riportate
dai suoi diretti seguaci dimostrano che egli si era quasi consapevolmente allontanato dagli ideali
degli umanisti che lo avevano preceduto. Era contrario ai metodi matematici su cui si fondava gran
parte la dottrina dell’Alberti o di Leonardo. Michelangelo disapprova inoltre l’importanza che
l’Alberti e gli artisti del primo Rinascimento assegnavano alle regole in pittura, e a quanto pare non
condivideva affatto la loro opinione che la natura si basasse su leggi e su un ordine generale.
Michelangelo valutava più la fantasia e l’ispirazione del singolo che l’obbedienza a qualsiasi
immutabile canone di bellezza. Nella metà del Cinquecento c’era l’opinione generalmente diffusa
secondo la quale Raffaello era il pittore ideale, perfettamente equilibrato, dal talento universale,
strettamente aderente a tutti i canoni prestabiliti, che obbediva a tutte quelle norme che si
supponeva governassero le arti, mentre Michelangelo era il genio eccentrico, più valente di qualsiasi altro nella sua
specialità, il disegno del nudo virile, ma, quanto ad altre qualità essenziali per un grande artista, come per esempio la
grazia e la misura, instabile e difettoso. Negli ultimi 15/20 anni di vita si nota un ulteriore cambiamento nell’arte e nel
pensiero di Michelangelo, benché in un certo senso tale cambiamento consista nell’accentuarsi di quelle caratteristiche
che avevano improntato la sua arte e il suo pensiero all’inizio dell’età matura. Il contrasto tra cattolici e protestanti era
entrato in una fase più critica e era apparsa evidente l’impossibilità di un qualsiasi compromesso. Quindi la
posizione della fazione moderata, a cui apparteneva Michelangelo, s’indebolì. In questo periodo
l’opera più rappresentativa di Michelangelo è l’ultimo gruppo da lui scolpito, la Pietà Rondinini,
lasciato incompiuto alla sua morte; in esso sembra aver spogliato i simboli umani di qualsiasi qualità corporea ed essere
finalmente riuscito a esprimere con immediatezza un’idea puramente spirituale.
Michelangelo aveva abbandonato i soggetti classici, ma anche i temi religiosi da lui trattati non sono
più quelli che aveva preferito in gioventù. La sua visione del mondo e della arti diviene più
accentuatamente spirituale, ma al tempo stesso più specificatamente cristiana. Il suo sentimento
religiose unisce ora alla dottrina mistica del neoplatonismo la ferma credenza nella giustificazione
per mezzo della fede. Ma egli parla più di un Dio a cui si rivolge di persona che di un’essenza divina
concepita astrattamente. Egli aspira all’abbandono del mondo e desidera concentrare tutti i suoi
pensieri in Dio, ma si rende conto che nulla potrà ottenere senza la grazia divina. Occorre liberarsi
da tutti gli affetti terreni. Sembra che Michelangelo non abbia più fede nella bellezza umana in
quanto simbolo di quella divina; piuttosto la teme come una funesta distrazione da tutto ciò che
rientra nella pura sfera dello spirito. Odia e teme quanto è terreno, poiché lo tenta o almeno lo
distrae da un più altro dovere. Si volge non soltanto contro il mondo e la bellezza terrena, ma contro la stessa fantasia e
contro le arti a cui questo lo aveva sospinto. I mutamenti sopra descritti non sono soltanto quelli di un unico individuo,
perché in Michelangelo si può ravvisare il prototipo di quegli uomini che, pur appartenendo al Rinascimento, vissero
fino al primo periodo della Controriforma.
L’evoluzione del suo pensiero, quindi, riflette il passaggio da un’epoca all’altra e prepara il terreno all’arte e alle
dottrine manieristiche.

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