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La prosa del mondo

Il linguaggio indiretto

La problematica moderna di come il pittore riesca a far rinascere la sua intenzione nello spettatore
non viene considerata, poiché per assicurare la comunicazione ci si rimette alla percezione come
strumento di comunicazione naturale tra gli uomini.
L’arte ha sempre in realtà non solo rappresentato ma sempre sin qualche modo creato, solo che con
l’arte moderna questa creazione è diventata evidente allo spettatore, mentre al pittore era sempre
stato noto anche se non concettualizzato. I nostri occhi che si rivolgono al dipinto operano una
trasformazione che l’arte rivendica successivamente come suo vero scopo.
Dunque la cultura classica non ci colpisce in modo così naturale per mezzo della percezione,
dobbiamo ancora legare in essa l’elemento di creazione a quello di rappresentazione.
Esaminiamo ora la prospettiva. Essa è stata inventata dall’uomo e non deriva dalla percezione. Le
regole della prospettiva sono facoltative e arbitrarie ma più probabili di altri sistemi di
rappresentazione: il punto è che il mondo percepito non le smentisce mai del tutto, poiché non ne ha
bisogno, sono su due piani differenti. Gli psicologi ci dicono che la grandezza di un oggetto lontano
non ha una grandezza definita nella nostra percezione: la luna e la moneta non sono percepite come
comparabili in termini di grandezza, ma la prima è di una grandezza “assoluta” e la seconda di una
piccolezza “assoluta”. Nella tela non riporto l’antagonismo degli oggetti presenti nel mio campo
visivo ma dimensioni che io attribuisco agli oggetti della mia percezione presi singolarmente.

Tutto il quadro è al passato, compiuto ed eterno, e le cose non richiedono più il mio intervento. La
prospettiva è dunque un modo tecnico di costruire un mondo in cui ogni elemento percepito è
dominato dallo sguardo dello spettatore e dal tratto del pittore. Si tratta di un certo modo di
organizzare il contenuto sensibile che si offre al pittore. Questo modo è quello dell’uomo empirico e
razionale, che domina il mondo e vede nel mondo percepito un modello dal carattere identificabile.
Il pittore moderno invece sembra allontanarsi dal mondo percepito, rivolgendosi all’individuo e non
più agli dei o alla città. Il moderno sembra tollerare meglio l’incompiuto, il frammento rispetto al
classico, la cui opera bastava a sé stessa.
Il momento in cui l’opera è compiuta risiede nello spettatore, nel modo in cui questo si ricongiunge
al mondo interiore del pittore attraverso l’osservazione. C’è anche l’improvvisazione artistica che è
espressione a volta più efficace della parola. Uno dei massimi meriti della modernità è distinguere
l’opera valida da quella finita. Anche la percezione non è mai finita, ma non solo perché il non-
significante eccede le possibilità della significazione o rispetto al significante, ma anche perché
alcune espressioni significanti che non esauriscono ma si limitano ad inaugurare o introdurre
l’oggetto di cui parlano. La pittura moderna ci pone il problema se sia possibile una comunicazione
prima di sistemi predefiniti.
Malraux che nella sua opera aveva fino a quel momento descritto in termini razionalistici la pittura
classica arriva a formulare un concetto fondamentale. Ciò che il pittore mette in un quadro non è il
sé immediato, ma il suo stile, che è ottenuto da molteplici tentativi su di sé e sulla pittura del
mondo.
Mano a mano che un autore crea opere, il suo accento iniziale diventa sempre più marcato e si
arricchisce di nuovi dispositivi. Questo gli fa sperimentare l’eccesso di ciò che è da dire su quello
che può dire, e questo fa da motore all’automa spirituale creativo che è l’artista. La vita dell’artista
esce dal silenzio per diventare mezzo di comprensione.

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Prima di diventare significanti i segni devono dare forma all’esperienza. Il momento cioè in cui un
senso latente è stato reso veicolabile da un qualche emblema.
Chiedersi l’origine della significazione significa chiedersi come un certo oggetto o un insieme di
oggetti possa acquisire un significato, e sotto quali condizioni. Malraux dice che lo stile è una
modalità di creazione, la visione del mondo dell’artista, una significazione prestata al mondo,
richiamo di una visione. Tutte queste definizioni sono a posteriori. Quando lo stile è al lavoro
infatti, l’autore non sa nulla dell’antitesi io-mondo, del senso e del non-senso, poiché questa
divisione è effetto dello stile. lo stile non è né mezzo della rappresentazione né fine di essa, ma è
all’opera nel contatto tra pittore e mondo.
Lo stile è una flessione di una determinata percezione, una modulazione del fenomeno per cui la
percezione destina gli elementi di un corpo ad una norma che è esclusivamente mia, e nel caso del
pittore la significazione percettiva ne ispira un’altra: tutto ciò che trovai osservabile viene
sottomesso ad un filtro che farà emergere nella tela un certo modo di significare, un certo modo di
essere al mondo. Dunque facciamo emergere delle significazioni dalle cose quando queste vengono
inserite in un sistema, quando le sottoponiamo a una deformazione coerente. Ma da cosa è data
questa coerenza? Cosa li rende tutti convergenti verso la stessa x? È ili mondo percepito ad essere
tale da permettere una riorganizzazione dei dati al fine di produrre emblemi dei nostri modi più
intimi di esistere. Il mondo percepito è tale che non è possibile inserire un elemento senza che
questo assuma significato. Ciò che fa emergere il senso è la cura del vuoto, delle fessure del
linguaggio. C’è stile e dunque significazione appena ci sono delle figure e degli sfondi, non appena
certi elementi del mondo diventano dimensioni secondo le quali misuriamo tutto il resto. Lo stile è
un sistema di equivalenze tra i significanti con cui esprime la significazione che aveva trovato nel
mondo percepito. Questo sistema di equivalenze appare al pittore come da sempre già sepolto sotto
le cose del mondo, e dunque per lui ha valore di verità. Dunque è il senso ad investire il quadro e
non è il quadro ad esprimere un senso. Il quadro così esige quel colore e quel tratto come se fosse
una logica o una sintassi. Il senso degli elementi del quadro come quello dei colori sono più
leggibili ma non sono sovrapponibili al senso del quadro.
Il quadro non è un modo di guardare il mondo ma l’espressione di un mondo da cui provengono i
colori e i dati della nostra percezione. Questo perché ogni frammento del mondo dispiega un
numero illimitato di figure dell’essere, mostra un certo modo che ha di rispondere sotto l’attacco
dello sguardo, che evoca ogni sorta di varianti e che infine insegna un modo di parlare.
Si tratta così di un equilibrio di un altro mondo, quello del pittore che comunica con il suo
linguaggio ma privo del peso senza nome che lo trattiene nell’ambiguità. Il pittore dunque descrive
il suo rapporto col mondo, il modo in cui lo nega e lo rifiuta, portando uno sconvolgimento che però
fonderà un nuovo ordine, sconvolgendo quello che lo precedeva.
Il poeta è colui che ha ricevuto il compito di tradurre queste parole provenienti dalle cose. Non
obbedisce al linguaggio ordinario ma la sua obbedienza ha un metodo.
L’obiettivo dei moderni non è descrivere una realtà sotto le cose, ma esprimere al meglio il conflitto
con il mondo. Questo non può avvenire rassomigliando esseri del mondo.
La pittura moderna ci obbliga a riconoscere una verità che non sia dell’ordine della corrispondenza
con le cose.
I pittori non sono dei che creano dal nulla, ma hanno davanti a loro stessi sempre ciò che devono
manifestare, ciò che devono esprimere, appare loro nello spettacolo del mondo. Egli non ne vede
che la trama e solo gli altri ne vedono il dritto, poiché a lui è implicito e non appare con lo stesso
rilievo con cui gli appare la vita altrui. Non crede ex nihilo ma non si limita neanche a portare a
vanti un solco che ha già tracciato: egli riesce a continuare oltrepassando e a conservare
distruggendo, e così infonde nuovo significato ciò che anticipava questo senso. Husserl inimica con
Stiftung l’infinita fertilità di ogni istante nel tempo, dato che non potrà mai cessare di essere stato o
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di essere universalmente, ma non solo: anche la fertilità della cultura e della tradizione che
continuano a valere nel tempo. È così che il mondo crea per il pittore una tradizione, ovvero
secondo Husserl l’oblio delle origini, potendo così dare al passato non la sopravvivenza, che è la
forma ipocrita dell’oblio, ma il dovere di ricominciare e di ripetersi: la ripetizione è la forma nobile
della memoria. Noi possiamo imporre una metamorfosi ai dati sensibili perché loro stessi a loro
volta attestavano una asimmetria rispetto alle nostre forme espressive precedenti.
La pittura non è dunque una somma di segni, ma un nuovo organo della cultura che rende possibile
un nuovo tipo di movimento, e apre un orizzonte di indagini.
Malraux dice: la metamorfosi che ci permette di ravvisare elementi di creazione moderna in opere
classiche non è fortuita, poiché i classici erano già anche moderni, così come un’opera religiosa era
anche razionale una volta ricondotta all’interrogativo a cui tentava di rispondere.
Un quadro è un “Vermeer” se reitera la struttura dei quadri di Vermeer, ovvero se riproduce il
sistema di equivalenze contenuto nei suoi quadri. Non rende un Vermeer il fatto che l’abbia dipinto
l’individuo Vermeer ma l’essenziale della sua struttura, così come lo storico deve trovare il senso
della rivoluzione francese distinguendo in essa l’essenziale dal contingente, lo storico dell’arte deve
dividere lo strutturale dall’accessorio.
Oltre alla storia empirica dei fatti e degli eventi vi è un’altra storia che accomuna ciò che l’evento
divide e separa ciò che nell’evento è tenuto insieme. È così che diviene possibile una storia degli
stili artistici. Ci sono due storie, la prima è ironica ma ignorante, in cui ogni tempo è in
competizione con gli altri e impone ad essi i suoi timori, ma vi è una seconda storia senza la quale
la prima sarebbe impossibile, che è l’interesse che ci lega a ciò che non siamo, la vita del creatore
che è condotta dal passato verso la ripresa di una tradizione.
Il museo ha l’aspetto positivo di porre alla nostra attenzione la pittura come uno sforzo collettivo e
continuo, di individuare i legami che intercorrono fra le opere di epoche diverse, ma sarebbe meglio
assistere all’opera di un artista nel suo lavoro, che non è mai finalizzato a finire in un museo.
Il museo sottrae le opere alle causalità in mezzo alle quali sono nate, fa apparire gli stili ma
aggiunge alle opere un falso prestigio, facendoci credere che vi fosse una strana fatalità a muovere
la mano degli artisti. Se gli stili sono nei cuori e nelle interiorità degli artisti il museo fa apparire
questa storia privata e interiore come ufficiale e pomposa. Il museo trasforma le opere in prodotti
provenienti da un altro mondo e il soffio che le reggeva non è più, sotto le vetrine, che un debole
palpito sulla loro superficie. Il museo è storicità di morte, mentre vi è una storicità di vita di cui è
solo l’immagine più decaduta: è questa che abita il pittore al lavoro quando con un solo gesto
collega la tradizione che segue e quella che inaugura, è quella che congiunge il pittore a tutto quello
che si è mai dipinto nel mondo. La storia della pittura è sempre al presente, ed è la storia della
fratellanza dei pittori, ma forse in generale degli artisti.
Ogni artista fonda le condizioni alle quali deve essere giudicato, e dipinge sempre per rendere
visibile il quadro, coinvolgendo lo spettatore.
Il pittore non è solo una vittima della sua infanzia, ma non è nemmeno una persona priva di
corporeità e di storia personale: semplicemente ha trasformato in linguaggio i dati che egli aveva
subito. Così in un sistema significante i dati vengono privati dell’impatto che avevano su di noi.
Nonostante non smettano di essere là, questi dati ora illuminano i quelli simili a loro e anche gli
altri, vi è una metamorfosi che oltrepassa conservando. Ogni cosa che accade richiede di essere
espresso. L’arte dunque non è mai l’effetto ma la risposta agli eventi biografici del pittore.

Esiste uno Spirito della pittura che governa la mano dell’artista? Secondo Merleau Ponty, no, il
mistero della costanza con la quale la mano riproduce stili anche a distanza è immanente al
miracolo dell’espressione umana, che avviene senza che l’uomo abbia coscienza delle proporzioni
degli elementi dipinti, dei muscoli richiesti per realizzarli, della forza con la quale imprimerli. È
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tutto racchiuso nel corpo, lo stile si esprime senza che l’artista prenda coscienza dei dati obiettivi
del problema o delle coordinate della meta che deve raggiungere. Dunque il mio corpo fisico
obbedisce alle esigenze di questo piccolo dramma che non cessa di produrre miracoli di questo tipo.

Non sono gli oggetti a imporre ai miei occhi la conformazione atta a vederli, ma sono i miei occhi
che io dispongo in modo da vedere l’oggetto. Dunque dobbiamo vedere nel corpo un insieme di
sistemi portati all’indagine del mondo, capace di oltrepassare le distanze, di rivelare il futuro
percettivo, di disegnare nella banalità delle distanze e delle differenze un senso. L’espressione è il
modo in cui il corpo esprime esternamente il mondo per conoscerlo. Anche il nostro primo gesto ha
introdotto al nostro comportamento un campo indefinito, poiché era stata inaugurata la relazione di
un qualcuno con la sua situazione. Ogni percezione è espressione primordiale e non atto derivato
che assegna un segno a ciò che è espresso, è l’operazione che costituisce i segni in quanto segni, fa
vivere in essi ciò che è espresso, non sotto una condizione ma con l’eloquenza della loro stessa
disposizione. Così viene introdotto un senso in ciò che non ne aveva, e così apre un campo o fonda
una tradizione.
La domanda non è perché ci sono somiglianze in opere molto lontane nello spazio o nel tempo, ma
perché certi artisti si sono posti lo stesso problema espressivo. La somiglianza delle opere diventa
un problema se le concepiamo come punti isolati in uno spazio-tempo, quando in realtà si dovrebbe
riconoscere l’ordine del significato e della cultura come non derivabile dagli avvenimenti. La verità
è che dobbiamo considerare caratteristica comune dell’uomo la potenzialità di creare senso al di là
della semplice esistenza di fatto, e dunque ne risulta che ogni gesto sarà sempre paragonabile ad
ogni altro, sin quanto ognuno di essi è un inizio che comporta una serie di azioni sintattiche in
relazione fra loro. Ogni atto espressivo è imparentato con gli altri, ed è compossibile ad esso ma
non solo: se la tradizione di tramanda e l’elemento è trasmesso, allora altera la situazione del
tentativo universale. Ogni atto espressivo trasforma nuovi segni in segni e apporta novità al mondo
della cultura.
Così come non ci si deve stupire della presenza di tratti stilistici in dimensioni miscroscopiche
poiché il corpo non ragiona in base a dimensioni di grandezza ma esprime sé stesso in tutto ciò che
fa, allora le concordanze delle opere tra cui non esiste rapporto di vicinanza fisica o temporale sono
spiegabili a partire dalla concezione del mondo della cultura come un unicum. Non vuol dire che il
mondo della cultura è comune perché gli uomini hanno gli stessi corpi: infatti la caratteristica del
corpo umano è quello di escludere a priori uno stato di natura.

Non esiste un altro mondo al dii sopra di quello degli avvenimenti, con le proprie cause e i propri
effetti come il mondo della grazia di Malebranche. La creazione culturale può avvenire solo nel
mondo degli avvenimenti e non ha alcun potere su di esso. Nonostante questo le opere hanno
influenze molto importanti e che vanno ben al di là della loro conformazione fisica e pittorica. Il
significato di un’opera eccede le condizioni materiali. Nonostante questo il campo del significato
non è un piano separato nel senso di uno Spirito che governa gli eventi.
Oltre agli eventi storici vi è un tentativo comune degli uomini che accumula i gesti individuali in
una storia e in una cultura comune.
L’ipotesi dello Spirito della pittura non è ammissibile poiché le opere non poggiano che sugli sforzi
degli individui. La somiglianza delle opere emerge da uno sforzo espressivo che non segue
perfettamente la storia empirica, ma essendo un atto di significato segue una propria sintassi e
dunque comporta un determinato ordine di processo. L’arte è costitutivamente innovativa, in quanto
rende impossibile la ripetizione con ogni nuovo atto che altera il sistema significante in cui si
immerge. Il punto è che l’arte torna in sé stessa sotto forma di storia della pittura, in cui il
significato emerge retroattivamente ad ogni aggiunta di nuovi elementi. Tornare in sé stessi
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significa descrivere una traiettoria retroattiva verso ciò che si è tramite elementi nuovi appena
aggiunti al sistema di cui si fa parte. È dunque l’individuale a governare l’universale, ma questo non
esclude l’eternità anzi la richiede, poiché ogni atto espressivo inizia una tradizione basandosi su una
precedente: persino le pittura rupestri si basavano sulla tradizione della percezione.
La storia per il filosofo dovrebbe dunque diventare il centro delle sue riflessioni ma non in quanto
una natura evidente a sé stessa bensì il luogo stesso delle nostre domande e dei nostri stupori. La
storia e la dialettica sono oggi concepite come una potenza esterna. Tra lei e noi occorre scegliere la
storia, sacrificandoci a un uomo futuro, rinunciare ad ogni giudizio di valore e a ogni giudizio sui
mezzi. Questa è una Storia-idolo che secolarizza le concezioni più rudimentali di Dio, infatti molte
nostre riflessioni contemporanee sulla storia si riducono ad un parallelismo tra trascendenza
orizzontale e trascendenza verticale, e sembriamo così dimenticare che l’Europa è da venti secoli
che ha dimenticato la trascendenza verticale, dato che il cristianesimo è precisamente una teologia
del rapporto uomo-Dio: non vi è trascendenza verticale di Dio nel cristianesimo, dato che noi siamo
già in Dio, siamo i suoi strumenti e senza di noi lui è impotente. D’altronde nessuna filosofia della
storia ha mai sacrificato in questo modo il presente al futuro: questa sarebbe una nevrosi
dell’avvenire che consisterebbe nel rifiutare a priori di sapere ciò in cui si crede, l’esatto opposto
della filosofia. La Storia hegeliana non è una forza esterna che annulla la volontà ma ne è la
realizzazione. In Hegel ciò che è reale è razionale e dunque giustificato ma solo relativamente al
flusso in cui è inserito come momento. Non c’è un punto assoluto di realizzazione fisso e
immutabile in Hegel. Per esso non si poteva distinguere il mezzo dal fine, e così non si poteva
giudicare una azione solo dai risultati o solo dalle intenzioni.
inoltre, pensare la dialettica esclusivamente come fonte di errore e di inganno che fa nascere il male
dal bene è una concezione parziale di essa: per Hegel essa poteva anche essere la grazia che fa
emergere il bene dal male, che ci porta all’universale quando pensiamo di perseguire l’individuale.
Non era mai né l’uno né l’altro, ma sempre un cammino che non ha altra guida che la sua propria
inziativa, un percorso che si crea da sé e che torna su di sé, un altro nomee per l’espressione di cui
si è parlato, che si rimette in moto sempre in forza di quello che appare come un enigma della
razionalità.
La dialettica di Hegel dice che nella comunicazione linguistica io mi sottopongo ad qualcuno che io
ritengo degno del mio messaggio. Ciò che pongo negli altri è la stessa cosa che pongo in me stesso,
questo è il significato di “nella comunicazione non c’è concessione né dal per sé che sono né dal per
gli altri che mi trovo davanti”. La storia è giudice non perché sia un Potere che sovrasta le azioni
empiriche degli individui, ma proprio perché è il luogo in cui queste si accumulano e che ospita il
giudizio dei vari individui in modo libero, sia dall’arte che dalla politica che sono in realtà
influenzati da ciò che susciterà il pittore e il politico nel pubblico. Dunque la Storia e l’umanità con
cui è alle prese l’uomo non è un potere davanti al quale deve piegare le ginocchia, ma è il colloquio
perpetuo che si allaccia tra tutte le parole, tra tutte le opere e le azioni valide, ognuna nel suo luogo
e nella sua situazione singolare, che si confronta con tutte le altre e le ricrea dal suo punto di vista.
La Storia è un presente che dispone della forza di riprendere al presente tutto il resto. L’altro vive
dii me come io di lui. La Filosofia della storia mi impone dunque di pormi il problema di situazioni
diverse dalla mia, e di creare una via del mio volere a quello degli altri, ovvero l’espressione. È
attraverso l’azione della cultura che assumo responsabilità, che sono consapevole di una
conoscibilità delle esistenze rispetto alla mia. Oltre a questo, la comunicazione ci trasporta sempre
più in avanti poiché non si ferma mai al significato fisso che noi possiamo dare ai vari significanti,
facendoci andare oltre le nostre limitazioni. Questo avviene perché i miei gesti non sono io, sono
strappati da me tramite l’espressione.
Partendo da queste riflessioni e da quelle di Malraux si può capire come la pittura sia un linguaggio,
vincolato dal visibile ma anche recante in sé sedimenti di tradizioni passate. Questo può aiutarci a
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mettere in luce un linguaggio che vive dietro gli enunciati e le significazioni. È formato da parole
che si uniscono o separano in base a loro significazioni indirette o laterali. L’efficacia del linguaggio
parlato nell’esprimere un significato puro tramite un suono che è la parola è il risultato cumulativo
di un’accumulazione tacita o implicita simile a quella della pittura.
Il linguaggio non opera dunque in modo diverso dalla pittura. Per esempio non è necessario
descrivere tutto quello che si vuole sia espresso in un romanzo: basta introdursi nel soggetto e così
gli si faccia tenere un monologo, fare scorrere agli occhi gli ostacoli del suo viaggio e non dire un
particolare anziché dirlo può esprimere qualcosa di nuovo che non sarebbe stato raggiunto tramite
nessuna descrizione. La volontà del soggetto non si trova nel testo ma emerge negli spazi fra le
parole.
Se lo scrittore è capace di trovaree le cesure del comportamento il lettore risponde alla
convocazione e lo raggiunge nel cuore del mondo immaginario che egli governa e anima. Il
romanzo come resoconto di eventi e come significato obliquo sono in relazione di omonimia. Marx
seguì Balzac non per via delle sue tesi, ma per via del realismo con cui descriveva la società del
tempo e dunque portava a conseguenze che lui stesso ignorava. Il formalismo è spesso criticato ma
non perché dà troppo valore alla forma ma perché gliene si da troppo poco, separandola dal senso. Il
vero opposto del formalismo è una buona teoria della parola che la distingua da ogni tecnica o da
ogni strumento, poiché essa non è solo un mezzo ma ha in sé la sua morale, la sua visione del
mondo così come un gesto rivela tutta la verità di un uomo. Questo uso vivente del linguaggio è
all’opposto di una letteratura dei soggetti. È un linguaggio che tenta di esprimere le cose stesse e
che esaurirebbe il suo potere negli enunciati di fatto. Un linguaggio che offre la nostra prospettiva
sulle cose inaugura una discussione sulle cose che non termina con lui e suscita la ricerca. Ciò che è
insostituibile nell’opera d’arte, ciò che ne fa non solo un’occasione di piacere ma un organo dello
spirito, il cui analogo si ritrova in ogni pensiero filosofico o politico, se esso è produttivo, è che essa
più che delle idee contiene delle matrici di idee. L’opera d’arte ci fornisce degli emblemi di cui non
finiremo mai di sviluppare il senso. Il pensiero analitico non può mai trovare nel pensiero niente di
più di ciò che vi abbiamo messo, è per questo che si basa su definizioni così rigorose: può
funzionare solo appellandosi al significato esplicito delle parole. L’ambiguità della letteratura non è
un difetto ma il prezzo da pagare per avere un linguaggio che ci apra nuove esperienze, prospettive
che non saranno mai le nostre e che ci sbarazzi dei nostri pregiudizi. Allo stesso modo l’artista ci
sottopone qualcosa che non può essere analizzato guardando i muscoli coinvolti nell’atto, e ci
sottopone un mondo nuovo, una riorganizzazione degli elementi visibili del mondo.

Il pensiero critico e la filosofia puntano a conferirci pieno possesso di ciò che può essere solo
intuito nella letteratura.
La filosofia tiene in mano il proprio oggetto in modo da non lasciare desiderare null’altro. Le
metamorfosi di Cartesio tramite i prismi Spinoza, Malebranche e Leibniz sono note. Cartesio è sia
un personaggio sia, come Vermeer, una specie di istituzione del pensiero che si era costituita prima
della sua apparizione in un uomo. Allo stesso modo è inseparabile dalle filosofie che ha ispirato e
che ha preceduto. Cartesio ha esplorato a fondo il rapporto tra corpo e anima e dunque si è
confrontato con i paradossi di questo rapporto nella vita quotidiana. Non ha senso chiedersi se
Cartesio ha concepito ad un certo punto l’idealismo perché anche se l’avesse fatto non sarebbe stato
un punto fisso e immutabile, ma solo un momento del suo pensiero, e così tutti i filosofi se presi in
sé stessi non sono una raccolta di pensieri ma un cammino che anticipa il suo futuro.
Quando entriamo nel dettaglio delle filosofie post-cartesiane di Spinoza e Malebranche e come si
combattevano a vicenda arriviamo al punto in cui non possiamo più concepirle come una lotta fra
due pensieri polarizzati ma come la filosofia di Cartesio che combatte contro sé stessa, colta nella
tensione fra essenza ed esistenza. Questo non implica nessun relativismo ma solo che in uno stesso
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mondo culturale ogni avversario conduce una vita segreta nell’altro, che ognuno smuove l’altro. È
grazie a questo meccanismo che per noi può esserci verità, e che possiamo dirci dello stesso mondo.
L’enigma Descartes era tale anche a Descartes stesso, in quanto in lui non era stato risolto il
problema della fede religiosa, o della ragione dei suoi comportamenti. Niente esclude che non
fossero enigmi anche per lui e che noi possiamo solamente interpretarli. Il fatto che la vita di
Descartes assuma significati molteplici a seconda delle interpretazioni, dato che si è legato a diversi
eventi e contesti storici, mostra come essa fosse già significazione. Essa era già come uno stile,
partecipabile agli altri, più che individuale. Anche il filosofo dunque si esprime non senza sottintesi,
come il romanziere.

L’educazione autoritaria non genera veramente figli ribelli, ma figli che saranno ribelli da giovani
solo per diventare genitori autoritari. Il fanciullo non eredita la tradizione paterna consapevolmente
ma porta con sé spesso solo gli effetti che questa ha su di lui, per poi tramandarla da adulto. La
pittura e le opere d’arte in generale non tramandano semplicemente una cultura ma la fanno
ricominciare. Le opere traggono la cultura fuori dal circolo della tradizione. La pittura può essere
nuova solo se non ripudia troppo quella che la precede, ma la fa sembrare mancata, incompleta, fino
a che la pittura in sé non apparirà come sforzo abortito di qualcosa che rimane sempre da dire. Qui
si scorge il proprio del linguaggio.
Questo avviene quando lo scrittore non vuole più sostituire la lingua con una nuova di sua
invenzione, ma quando vuole realizzare la lingua distruggendola o viceversa. Deve distruggerla
come lingua chiusa in sé dotata di proprie significazioni e introdurne di nuove, ma la realizza
perché in sé la lingua contiene già la potenzialità di adattarsi al cambiamento che vuole apportare lo
scrittore. La parola a differenza della pittura vuole contenere il passato da cui proviene. Vuole
dunque conservare il passato nel suo significato.
Le formulazioni scientifiche del passato non sono errate, esse sono esatte per ciò che affermano, ma
errate per ciò che negano ma comunque sono anticipazioni delle formulazioni del futuro.
Lo scrittore concepisce sé stesso solo in una lingua stabilita mentre il pittore ricostruisce la propria.
Ciò significa che l’opera del linguaggio si pone già come inclusa nella lingua. Le trasformazioni
apportate da uno scrittore rimangono anche nei suoi successori mentre la traccia del pittore sparisce
dalle opere dei suoi. Il passato del linguaggio dunque è un passato compreso. La pittura è muta.
Il filosofo non pensa di scoprire per primo la verità ma la scorge come quella di tutti da sempre. Se
lo stile può apparire solo in un Museo come una specie di Super-artista è perché lo Spirito della
Pittura è esterno a sé stesso, mentre il linguaggio si possiede, e riesce attraverso la critica e la
filosofia a parlare della parola, lo spirito del linguaggio attinge solo da sé.
Inoltre la differenza è anche riguardo al rapporto con il tempo: la pittura si esprime a prescindere
dalle circostanze in cui prende forma, mentre i romanzi li possiamo comprendere veramente solo
quando siamo già stati introdotti alle circostanze della loro stesura. Tuttavia l’eternità dell’opera
d’arte non mostra la storia come invece fa la scrittura. Le opere d’arte riconsegnano una immagine
idealizzata del passato mentre gli scritti resistono al tempo poiché vi si confrontano. Questo non
perché gli scritti rimangono: un frammento di Eraclito può dire molto più sulla Grecia che non le
rovine del Partenone poiché nel primo la significazione è collocata in maniera più duttile. La prima
pittura apre un mondo, la prima parola apre un universo. Il linguaggio dice e la pittura è muta.
Nel Dire troviamo l’intenzione di andare oltre l’enunciato verso le cose stesse, verso ciò che
<<vuole dire>>.
Dunque la parola come dice Saussure non contiene le significazioni ma le distingue dalle altre
andando a comporre il sistema del linguaggio. Ogni atto linguistico parziale non esaurisce il potere
della lingua, ma lo ricrea perché attesta la capacità dei soggetti parlanti di oltrepassare i segni verso
il significato di cui il linguaggio è solo il risultato visibile. I segni non evocano solo altri segni per
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noi e il linguaggio non è come una prigione, perché nell’uso dei segni linguistici appare ciò che
vogliono significare e verso cui i segni ci indicano la via. Questo rimane valido anche quando non
abbiamo raggiunto la cosa stessa. Anche se comprendiamo che lo spazio euclideo è una scoperta
parziale questo non la invalida.
Il linguaggio non è come l’intenzione dello scimpanzé che è capace solo di assegnare a un oggetto
un solo significato e solo un uso possibile, poiché il linguaggio si libera di ogni legame. Quando
pere ricavare l’area del parallelogramma lo prendo come un rettangolo non sto semplicemente
sostituendo dei sensi ma dei sensi equivalenti: la nuova struttura era già presente nella prima e la
prima nella nuova. Questo tipo di trasformazione comprende il passato e non lo dimentica, mentre
lo scimpanzé che capisce il bastone come strumento è l’apertura di un paesaggio che nulla ha a che
vedere con quello di prima.
Quando Galileo riuscì a riunire sotto una significazione comune tutti i moti uniformemente
accelerati e ritardati e quello rettilineo uniforme di un corpo che non è sottoposto a nessuna forza i
tre ordini diventano tre varianti di una sola dinamica e ci sembra di aver fissato un’essenza di cui
essi sono esempi. Ma questa significazione può emergere solo a partire dalle figure concrete. Essa
non è una significazione al di là dei fatti che la significano quanto il mezzo che usiamo per passare
dall’uno all’altro. La verità da cui li vediamo scaturire non si trova dietro di essi ma è in essi.
Significare qualcosa è compiuto quando le elaborazioni si applicano al percepito come a ciò di cui
vi è significazione o espressione e il percepito con le sue significazioni è in un duplice rapporto con
ciò che è compreso: da un lato ne è lo schizzo e l’abbozzo ed esige una ripresa che lo faccia essere,
dall’altro ne è il prototipo e rende il compreso la verità attuale. Se il sensibile puro è introvabile
nella nostra esperienza è altrettanto introvabile qualcosa che possiamo pensare senza legarlo al
nostro ambito di presenza. Non vi è verità che sia fuori da un campo di presenza, fuori da limiti di
situazione o struttura. Possiamo astrarre dalla nostra situazione ma non tagliarne le radici.

Una struttura scientifica può essere ampliata solo se mantiene un legame con la nostra esperienza e
se ricominciamo da questa per ricostruirla. La nuova teoria scientifica può conservare la teoria
passata solo rendendo trasparente ciò che prima era un opaco dato di fatto. Facendo questo però
forse si lascia indietro qualcosa che può però sempre essere recuperato alla prossima svolta
scientifica.
Hegel nel suo sistema pensa di contenere le verità di tutti i filosofi venuti prima di lui, anche se
conoscendo i filosofi solo attraverso lui non li conoscerebbe affatto. Possono certamente esserci
caratteristiche del pensiero dei filosofi che emergono solo tramite la sintesi hegeliana. Per questo la
sintesi per non essere morte del pensiero non può limitarsi a riassumere per filo e per segno quello
che ha detto un certo filosofo.
Hegel dice che la sintesi conserva il passato nella sua profondità presente. Se con questo si intende
che la storia è un cammino a metà strada tra un regno di nature immutabili e uno di istanti temporali
che si spingono l’un l’altro, in cui noi possiamo rintracciare un cammino delle idee riprendendo il
passato nel nostro presente allora è vero, ma a una condizione: la storia del pensiero filosofico e|o
intenzionale che si viene a tracciare è così aperta al confronto con significazioni aperte.

Un presente che contenesse perfettamente il passato non avrebbe più avvenire perché non avrebbe
più essere da cui attingere. La storia esiste finché il presente si inserisce e non vi è più storia se il
significato che compare nel quadro temporale non è quello di una genesi accessibile solo a un
pensiero aperto.
La letteratura dal canto suo accetta senza problemi di non essere mai totale e di offrirci solo
significazioni aperte. La lingua da cui lo scrittore parte è una lingua che offre solo una segnaletica
esteriore delle cose, degli deve ancora fare sua la lingua ed è solo alla fine di questo sforzo che
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arriverà al contratto delle cose, per questo la lingua all’inizio ci nasconde la vera funzione della
parola.
L’uomo si sente più a casa nel linguaggio che nella pittura. Il linguaggio ordinario procura
l’illusione di un’espressione trasparente. Anche l’arte passa ed è capace di una tale evidenza,
diventa così generale, si generalizza e non ne rimane molto.
Sembra che l’inferiorità della pittura rispetto al linguaggio sia che essa non si esprime al di là delle
opere e non possa così fondare i rapporti degli uomini mentre il linguaggio fondandosi sul suono
vocale di cui ognuno è dotato e ricco si concede il commento della lingua parlata. Qui non si
contesta il potere del linguaggio di trovare più significanti per la stessa significazione o di riunire le
sue operazioni in un unica verità, bensì ci si limita a dire che questo sistema istituisce una verità la
cui energia fa sembrare la pittura come un modo di espressione muto. Tale sistema non è libero
dall’espressione sensibile e non fa che spostarne i limiti più lontano. La luce naturale che lo rende
manifesto è la stessa che rivela il senso del quadro e come quella non riesce a superare il mondo
senza residui. Così quando il linguaggio diventa cosciente di ciò e vuole designare la significazione
senza nessun segno, raggiungendo secondo lui stesso il massimo della chiarezza, allora smette in
quel momento preciso di essere una sfera come la pensava Parmenide e diventa un linguaggio
identificabile di un mondo della cultura con le sue lacune e le sue fessure.
Occorre dire dunque del linguaggio ciò che Simone de Beauvoir dice del corpo rispetto allo spirito:
esso non è né primo né secondo. Il corpo non è né fine né mezzo, è sempre legato a qualcosa che va
al di là di sé stesso.
Quando abbiamo coscienza di essere noi stessi il corpo si presta a ciò che vogliamo si lascia incitare
e la sua vita coincide con la nostra. Anche il linguaggio non ha controllo sul significato, tra l’uno e
l’altro non vi è un rapporto di subordinazione ma solo di secondaria distinzione. Nessuno comanda
e nessuno obbedisce; parlando o scrivendo non ci riferiamo a qualcosa che sta davanti a noi, distinta
dalle parole; ciò che abbiamo da dire è solo l’eccesso di ciò che viviamo su ciò che è già stato detto.
Noi siamo insieme al nostro linguaggio sempre in una situazione determinata e i nostri enunciati
sono solo il bilancio finale di questi scambi. I valori e le idee si offrono al nostro sistema
significante solo come invarianti, nuclei resistenti in un ambiente confuso.
Non bisogna neppure dire che i fini qui prescrivono i mezzi, poiché i fini sono i significati totali dei
mezzi di ogni giorno e i mezzi l’aspetto momentaneo di questo significato. Anche le verità più pure
presuppongono dei punti di vista marginali e devono il loro significato all’orizzonte che la
sedimentazione e il linguaggio predispongono intorno a loro. La spiegazione avviene quando arriva
a fondarsi sulla natura empirica nel momento in cui si pone domande riguardo alla natura pura.
Quando si tratta della parola, del corpo o della storia, pena la distruzione di ciò che si cerca di
comprendere, si può solo mostrare il paradosso dell’espressione. La filosofia è l’inventario di questa
dimensione in cui principi e conseguenze, mezzi e fini fanno cerchio. Essa può solo mostrare come
la deformazione coerente dei gesti e dei suoni, l’uomo arrivi a parlare una lingua anonima, e con la
deformazione coerente di questa lingua arrivi a esprimere ciò che esisteva solo per lui.

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L’algoritmo e il mistero del linguaggio

Il linguaggio è un insieme di gesti preoccupati di differenziarsi più che una tabella di enunciati. La
vita sub-linguistica è studiata dai fonologi, ed è responsabile della strutturazione della lingua. Le
parole non sono sostituti dei pensieri, le parole suscitano parole e parlare è come pensare. Le parole
riempiono il nostro spirito in modo da non lasciare nulla che non sia linguistico. Nel momento in
cui il linguaggio è così ossessionato da sé stesso gli viene dato un sovrappiù di significazione. Si
potrebbe dire che è una legge dello spirito quella di trovare solo ciò che non ha cercato. Noi non
pensiamo alle parole mentre parliamo, così come non pensiamo ai muscoli che muoviamo quando
salutiamo qualcuno. La significazione del linguaggio è tanto meno equivoca quanto meno pensiamo
alla significazione, ribelle a ogni approccio diretto ma docile all’incanto del linguaggio, sempre
presente quando si chiede al linguaggio di evocarla ma sempre un po’ più lontana.
Paulhan ha scritto che il linguaggio non si realizza senza qualche negligenza. Egli è il primo ad aver
osservato che la parola in uso non si accontenta di designare dei pensieri come un numero nella
strada indica la casa del mio amico Paolo ma si trasforma in essi.
Se il linguaggio si offre a chi non lo cerca e si nasconde a chi lo interpella, allora come si può
osservarlo? Sembra rimanere solo l’opzione di essere il linguaggio cercando di manifestare il suo
mistero, ma questo non può funzionare perché il linguaggio non si presta a imitazioni o
manifestazioni, o impersonificazioni, dunque si può solo parlare di lui come succede in filosofia.
Se il linguaggio fosse l’orizzonte ultimo della nostra comprensione del mondo allora non si
potrebbe dire nulla su di esso, eppure se ci basiamo sulla semplice esperienza che mi si parla e io
capisco ciò che mi viene detto non c’è bisogno di cercare cosa la renda incontestabile poiché essa lo
è già. La filosofia è confrontare questa esperienza con le idee precostituite che abbiamo del
linguaggio e dato che la comunicazione ci sembra andare da sé è solo questione di restituirgliela
fornendo uno sforzo opportuno che possa risaltare la sua paradossalità. Il modo per conservare il
significato prodigioso del linguaggio non è quello di tacere ma continuare a interrogarsi su di esso.

Serve una nuova idea diproiezione che non sia semplicemente il. ritrovar ei miei pensieri nelle
parole dell’altro o viceversa, poiché io posso capire anche cose che non avevo mai sentito prima. La
proiezione deve essere tale da spiegare il modo in cui vengo condotto verso significazioni nuove.
Nell’esercizio della parola io divengo colui che ascolto. Occorre capire come la parola possa essere
pregnante di un significato. Si tratta di constatare la potenza parlante, di circoscrivere questa
significazione che non è nient’altro che il movimento unico di cui i segni sono la traccia visibile.
La potenza parlante non è individuabile a partire da un linguaggio-algoritmo e in cui di principio la
verità non ha più quello spirito fluttuante che permea il linguaggio della letteratura e della filosofia
ma sia una sfera immutabile di relazioni che non erano meno vere prima delle nostre formulazioni.
Il problema dell’approccio algoritmico è che è troppo simile al linguaggio degli animali, in quanto
gli scmipanzé assegnano agli oggetti un solo ed unico significato in base all’uso che ne fanno,
questo lo porta a non acquisire mai nuova conoscenza. Questa dipende solamente da un io penso, un
riconoscersi che attraversa la successione degli avvenimenti conoscitivi e la rende reiteratile per
qualsiasi altro soggetto dotato di coscienza. Questo non basta però: serve che l’operazione
scientifica sia legittimata dalla natura dell’oggetto sul quale verte. L’algoritmo deve dunque
contenere in sé l’oscurità congenita del linguaggio.
Quando si dice che una proprietà appena scoperta di un ente matematico era già presente in lui fin
dal principio, si sottintende un certo significato della parola essere e appartenere, e dunque una
nostra concezione della verità. A rigore vediamo solo talune relazioni che implicano logicamente
altre relazioni. Queste relazioni costituiscono un sistema che ignora il tempo.

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Noi non scopriamo esattamente delle proprietà degli oggetti matematici, poiché la nostra
comprensione di questi deriva da una decisione iniziale dalla quale siamo poi limitati in base alla
logica che essa inaugura. Noi constatiamo la possibilità di principio di precisare i rapporti che sono
serviti a definire il nostro oggetto. Di proseguire la costruzione di insiemi matematici coerenti, solo
abbozzati con le nostre definizioni. Questa possibilità non è cosa da poco e la validità delle regole
matematiche non è illusoria. Non si può dire che le prime relazioni introducano all’esistenza le
successive, se non ipostatizzando le prime relazioni in qualche realtà fisica, mentre in realtà la
matematica non è un sistema eterno ma un divenire di conoscenze. Un divenire però che non è
fortuito ma determinato ad ogni passo secondo una logica interna. Il divenire della conoscenza è
indirizzato ad un significato che è paragonabile all’essenza. L’essenza come futuro di sapere non è
essenza ma struttura. La struttura in relazione alla conoscenza è come la cosa percepita in relazione
alla percezione, appare come qualcosa che esisteva da prima dell’azione. Se sembra affermare la
preesistenza del mondo è perché il soggetto è già coinvolto nei significati del mondo per via del suo
corpo.
Ciò che stimola l’apparato percettivo risveglia tra questo e il mondo una familiarità primordiale che
noi esprimiamo dicendo che il percepito precede la percezione. I dati attuali significano ben più di
ciò che manifestano e trovano nel soggetto percipiente una eco smisurata e permette ai dati di
diventare prospettive su una cosa attuale, quando invece se si rimanesse all’esplicitazione della cosa
non si saprebbe dove finire. La verità matematica è di questo tipo: noi pensiamo che la
circonferenza contenga già tutte le sue proprietà è perché la nostra concezione dell’essenza è
formata a contatto e a imitazione di della cosa percepita, così come la percezione ce la presenta,
puro essere prima del soggetto. Questo è il funzionamento della percezione, un avvenimento che ci
apre su una verità, essa ci fa anche capire la verità al servizio delle matematiche. Non si tratta dii
dire che la conoscenza matematica non è originale rispetto al percepito ma di ritrovare le vie della
sublimazione che mantiene e trasforma il mondo percepito in quello parlato. La parola allora
sembra essere una riconquista della tesi del mondo. Ogni idea matematica ci si presenta come una
riconquista tuttavia le verità della cultura non sono mai solide come quelle naturali; vi è ogni
mattino, dopo l’interruzione della notte, un contatto da riprendere con esse; rimangono impalpabili,
vagano nell’aria della città ma la campagna non le trattiene. Se nel pensiero le verità della cultura ci
sembrano la misura dell’essere e se così tanti filosofi fanno poggiare il mondo su di esse è perché la
conoscenza continua sullo slancio della percezione e utilizza la tesi del mondo come suo
fondamento. Crediamo che la verità. Sia eterna perché esprime il mondo percepito e perché la
percezione implica un mondo che funzionava già prima secondo principi che essa ritrova ma che
non stabilisce.
Il significato delle cose non è che l’ombra delle operazioni che ci apprestiamo a compiere sulle
cose, non è che il nostro rilevamento su di esse e la nostra situazione nei loro confronti. Ogni
vettore dello spettacolo percepito pone al di là del suo aspetto momentaneo, l’inizio di alcune
equivalenze nelle variazioni dello spettacolo. Quel linguaggio muto o operazionale mette in
movimento un processo conoscitivo che non riesce a completare. Per quanto sia chiusa la mia presa
percettiva sul mondo, essa è completamente dipendente dal movimento centrifugo che mi getta
verso di esso; non lo riprenderò mai se non a condizione di porre io stesso delle dimensioni nuove
della sua significazione. Qui inizia lo stile della conoscenza, la parola, la verità logica. Essa è
richiesta dall’evidenza percettiva, essa la prosegue e non vi si riduce.
Il riferimento alla tesi del mondo è sempre sottinteso al pensiero matematico e che gli consente di
darsi come il riflesso di un mondo intelligibile, come possiamo capire la verità matematica e
l’espressione algoritmi nel suo darsi?
Le varie proprietà aritmetiche che rinvengo nei numeri interi possono emergere solo di fronte ad
una mia interrogazione, in quanto la serie dei numeri interi è una struttura aperta, da conoscere.
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ogni nuova teoria matematica è un rimaneggiamento di una struttura preesistente che finisce per
contenere coerentemente la disposizione di partenza. Le geometrie non euclidee contengono quella
di Euclide come caso particolare e non il contrario. La verità non è l’identità di ipotesi e
conclusione o la derivazione di una dall’altra: non vi è significazione che non si circondi di un
orizzonte di convinzioni ingenue e non richieda altre spiegazioni e non c’è espressione che
esaurisca il suo oggetto. Il luogo della verità è quello della conservazione dell’oggetto di pensiero
nella sua significazione nuova anche se l’oggetto mantiene ancora nelle sue pieghe delle relazioni
che utilizziamo senza vederle. Nel momento in cui qualcosa è acquisito la struttura si spinge verso
queste trasformazioni.
La novità non riguarda il risultato poiché la formula algebrica è derivata dalle tesi che la
precedevano. La significazione nuova è rappresentata dai segni delle significazioni date, senza che
questi come succede nel linguaggio, siano sviati dal loro significato iniziale.
L’espressione algoritmica è esatta a causa dell’esatta equivalenza che stabilisce tra le relazioni date
e quelle che ne deduce. La formula nuova tuttavia non è formula della nuova significazione, la
esprime realmente solo a condizione che diamo al termine n dapprima il significato ordinale e in
seguito il significato cardinale e ciò è possibile solo se ci riferiamo alla configurazione della serie
dei numeri sotto il nuovo aspetto che la nostra domanda le ha appena dato. Qui appare il rimosso
della ristrutturazione che è caratteristico del linguaggio e che dimentichiamo non appena troviamo
la formula e così crediamo alla preesistenza del vero. Ma esso è sempre presente, solo lui dà senso
alla formula. L’espressione algoritmica è dunque seconda, un caso particolare della parola.
Crediamo che i segni ricoprano esattamente l’intenzione, che la significazione venga conquistata
senza residui e infine che lo stile che prescriveva alla struttura le modificazioni che le abbiamo
apportato sia interamente dominato da noi. Ma ciò accade perché omettiamo di menzionare il
superamento della struttura e non le particolarità contingenti di un tratto o di una forma. Ma si tratta
di un superamento e non di u’identità immobile e qui come nel linguaggio la verità non è
adeguazione ma anticipazione, ripresa e slittamento di senso che si attinge solo in una sorta di
distanza, il pensiero non è il percepito e la conoscenza non è la percezione, la parola non è un gesto
fra tutti i gesti, la parola è il veicolo del nostro movimento verso la verità così come il corpo è la
verità dell’essere al mondo.

La percezione dell’altro e il dialogo

L’algoritmo e la scienza esatta parlano delle cose presupponendo nell’interlocutore la conoscenza


delle definizioni, non cercano di sedurlo ma lo conducono da ciò che sa a ciò chee deve imparare
senza che egli debba abbandonare l’evidenza interiore per la forza trascinante della parola. Se anche
in questo ordine di pure significazioni e di puri segni il significato nuovo deriva dal significato
antico solo per una trasformazione che si compie fuori dall’algoritmo stesso ma ne è sempre
presupposta, se la verità matematica appare dunque solo a un soggetto per cui ci sono delle
strutture, delle situazioni e una prospettiva, a maggior ragione si deve ammettere che una
conoscenza linguistica suscita nelle significazioni date delle significazioni che vi erano comprese
solo nella misura in cui la letteratura francese è compresa nella lingua francese. Caratteristica
peculiare della parola è la capacità di voler dire oltre il suo significato letterale, il suo potere di
anticipare sé stessa, sia che proietti l’altro verso ciò che io conosco e che egli non ha ancora capito
sia di condurre me stesso verso ciò che sto per comprendere.
Nella letteratura e in filosofia è la parola a realizzare quell’anticipazione con la quale traccio una
figura in uno schema, le faccio diventare ciò che sono o le trasformo in sé stesse.
Certo non più di quanto in geometria il fatto fisico di una nuova linea non sia una costruzione più di
quanto nelle arti della parola la resistenza fisica del suono sia sufficiente per conferire il significato.
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La significazione nuova risplende solo di riflessi istantanei nella profondità del sapere passato,
affronta questo sapere solo a distanza. Dall’uno all’altra vi è invocazione, risposta e consenso. Ciò
che in un libro unisce la serie delle parole di cui è composto un libro è una medesima impercettibile
deviazione rispetto all’uso, è la costanza di una certa originalità. Il significato del libro è relativo al
linguaggio e all’uso che si fa di esso. Alcuni pensieri cartesiani erano già presenti in Sant’Agostino
ma non vi conducevano la stessa vita poiché la significazione di un pensiero dipende anche da quale
ruolo gioca rispetto agli altri pensieri.
La verità è dunque prospettiva, dalla quale siamo colpiti e raggiunti. Lo scrittore non parla ad un
soggetto razionale e puro ma ai soggetti così come vivono e ponendo tra gli oggetti, gli avvenimenti
e gli uomini degli intervalli, dei piani e dei chiarimenti li raggiunge nelle più intime disposizioni,
combatte i loro legami fondamentali con il mondo e trasforma in strumento di verità la loro più
profonda parzialità. L’algoritmo parla delle cose e arriva agli uomini mentre la letteratura parla agli
uomini e raggiunge la verità attraverso di essi.
Occorre entrare nel dialogo e nel rapporto silenzioso con l’altro se si vuole capire ili potere
autentico della parola.
L’altro non si presenta mai di fronte, non è mai nel volto che ho di fronte da cui proviene
l’intenzione che mi colpisce. Le parole del mio interlocutore sono solo una messa in scena, un
effetto, una cerimonia. L’altro non è il suo corpo che mi colpisce ma conduce una strana esistenza di
fianco a me, è una replica di me stesso, un doppio errante, frequenta il mio ambiente più che
comparirvi. L’altro è sempre ai margini di ciò che vedo e sento, è vicino a me, di fianco o dietro.
Ogni altro è un altro me stesso, e differiamo solo per un leggero e misterioso spostamento. Questo
imparentarsi è forse ciò che ci permetterà di capire il rapporto all’altro che altrimenti è
inconcepibile se tento di abbordare l’altro di fronte.
L’altro non è me e bisogna arrivare all’opposizione. Io faccio l’altro a mia immagine, ma come può
esserci un’immagine di me? Se sono consensivo a tutto ciò che vedo del mondo come potrei
vedermi come un oggetto? È però quello che succede quando l’altro mi appare. Nel mondo io non
mi accontento di sentiree, ma sento che mi si sente, e che mi si sente mentre sto sentendo.
Il problema non è capire che ciò che appare davanti a noi è un altro, poiché quello che appare è
sempre un oggetto. Il problema è capire come sia possibile lo sdoppiamento e il decentramento del
soggetto: lo spettacolo si dà uno spettatore che non sono io e che è copiato su di me.
Il problema è capire come possano introdursi sino a me le testimonianze degli altri soggetti
percipienti. Il problema è dove collocare la percezione altrui che mi colpisce, se nel mio corpo, se
nel tragitto dalle cose a me, o nella mia mente. Ciò che mi rende capace di riconoscere un altra
percezione è l’esperienza della mia presa sul mondo. È lo stesso morso del mondo che io esperisco
a svegliare il dormiente. La mia identificazione con l’altro si basa su un’universalità del sentire. Il
corpo che percepiscono trascina con sé la mia corporeità perché la mia percezione ed è la presa dei
miei gesti su di lui e la stessa presa intercorre tra i gesti del dormiente e i suoi oggetti. I gesti
dell’altro sono interni al mio campo, che costituisce l’apertura tramite la quale come corpo io sono
esposto al mondo, perché non possiede quell’assoluta densità.
Per questo motivo tutto ciò che è per me è mio e vale per me come essere solo, a condizione che
venga a trovarsi nel mio campo. Questo rende possibile l’apparizione dell’altro poiché il mio
rapporto a me stesso è già generalità. Da ciò deriva che l’altro si inserisca sempre all’articolazione
del mondo e di noi stessi, che sia sempre al di qua delle cose e più dalla nostra parte che non in esse.
L’altro è un me generalizzato, ha il suo luogo non nello spazio obiettivo main quella località
antropologica nella quale la percezione irriflessiva si mette a proprio agio, sempre a margine della
riflessione e impossibile da costituire. Da quando lo guardiamo in faccia egli si riduce alla modesta
condizione di un qualcosa innocente che si può tenere a distanza.

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Le parole dell’altro non infrangono ilnostro silenzio, non possono darci niente di più dei suoi gesti:
così come non capiamo come delle parole possano significare qualcosa di diverso dal nostro
pensiero, o come dei movimenti di un corpo possano presentarci qualcuno di d diverso da noi.
Come possiamo trovare in questi spettacoli qualcosa di diverso da ciò che vi abbiamo messo. La
soluzione in entrambi i casi è la stessa. Consiste per ciò che riguarda il nostro rapporto nel capire
che era nostra sensibilità al mondo cioè il nostro corpo toglie alla nostra esistenza la densità di un
atto assoluto e univo, fa della corporeità una significazione trasferibile, rende possibile una
situazione comune e la percezione di un altro noi stesso se non nell’assoluto della sua esistenza
effettiva, almeno nel disegno generale che è alla nostra portata. Allo stesso modo la soluzione per
la parola consiste nel riconoscere che nell’esperienza del dialogo la parola dell’altro raggiunge le
nostre significazioni, e che le nostre parole stanno per raggiungere nell’altro le sue significazioni.
Sconfinano l’uno nell’altro in quanto apparteniamo allo stesso mondo culturale e in primo luogo
alla stessa lingua. Questo uso generale della parola ne presuppone un altro, come la mia coesistenza
con i miei simili presuppone che io li abbia riconosciuti come simili. Così come la nostra esperienza
comune a uno stesso mondo presuppone un rapporto primordiale tra me. E la mia parola, rapporto
che dà il valore di una dimensione dell’essere, partecipabile con x. Attraverso questo rapporto
l’altro me stesso può divenire altro e può divenire me stesso in un senso molto più radicale.
La lingua che parliamo è come la corporeità che condivido con gli altri organismi. Il semplice uso
della lingua e dei comportamenti mi danno solo un altro in generale diffuso attraverso il mio campo
attraverso uno spazio uno spazio antropologico, un altro individuo della specie ma non una
presenza.
L’operazione espressiva e in particolare la parola presa allontano nascente stabilisce una situazione
comune che non è più solo comunanza di essere ma di fare.
È qui che avviene la comunicazione: la differenza tra un gesto naturale e la parola è che il primo
mostra ai sensi degli. Oggetti dati altrove mentre il f sto. Dell’espressione è incaricato di rivelare
non solo dei rapporti tra termini dati altrove ma persino gli stessi termini di questi rapporti, la
sedimentazione della. Cultura che dà ai nostri getti e alle nostre parole un fondo comune ha
richiesto che essa fosse completata dai gesti e dalle parole. Qui non si può più invocare la nostra
appartenenza a uno stesso mondo poiché è questa appartenenza ad essere in questione. È possibile
dire che il nostro radicamento sulla stessa terra è ciò che ci lancia nell’impresa.
La parola ci fa andare oltre la preistoria comune anche se ne prolunga il movimento: è questa parola
conquistatrice che ci interessa è questa parola a rendere possibile la parola istituita, la lingua.
Occorre che insegni essa stessa il suo significato, sia a chi parla sia a chi. ascolta, non basta che
indichi un significato già noto a entrambi, occorre che lo faccia essere; gli è essenziale oltrepassarsi
come gesto e affermarsi come significato. Si deve pensare la sua operazione fuori da ogni
significazione già istituita, come l’atto unico col quale l’uomo si dà un ascoltatore e una cultura
comune. Certo essa non è visibile come per l’altro non posso assegnarle un luogo ma non posso
nemmeno dire che sia in me dato che essa è anche nell’ascoltatore; essa è ciò che ho di più proprio
ma è tutto ciò solo per comunicarne il significato. L’altro che ascolta mi raggiunge in ciò che ho di
più individuale; come se l’universalità del sentire, di cui abbiamo parlato, terminasse di essere
universalità per me e si raddoppiasse in un’universalità riconosciuta.
Le mie parole non si limitano a suscitare reminescenze; occorre che il loro svolgimento abbia potere
di lanciarmi a mia volta verso una significazione che né lui né io possediamo. Così come nel
percepire un organismo che fa dei gesti nei dintorni io giungo al percepire percependo, in quanto la
loro organizzazione interna è la stessa dei miei comportamenti e in quanto essi mi parlano delle mio
proprio rapporto al mondo, allo stesso modo quando parlo all’altro la mia parola è confermata da
quella dell’altro, io mi sento in lui e lui parla in me. L’espressione letteraria rinnova
ininterrottamente la mediazione dello stesso e dell’altro, essa ci fa verificare che vi è significazione
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solo tramite un movimento, prima violento che supera ogni significazione. Il mio rapporto col libro
inizia con la familiarità con la lingua e le idee che fanno parte della nostra cultura. Ma se il libro mi
insegna realmente qualcosa occorre che a un certo punto io sia sorpreso e che ci ritroviamo in ciò
che abbiamo di differente. Questo presuppone una trasformazione di me stesso come dell’altro:
occorre che le nostre differenze siano divenute significato. Nella percezione dell’altro si erica
quando invece di comportarsi come me l’altro fa uso di uno stile che in un primo tempo mi è
misterioso ma che mi sembra subito uno stile, che risponde a certe possibilità di cui le cose del mio
mondo erano aureolate.
Allo stesso modo mi serve che mi sfugga l’intenzione dell’autore, bisogna che questa si escluda,
allora ritorno indietro, riprendo slancio oppure passo oltre e più tardi una parola felice mi farà
raggiungere, mi condurrà al cuore della nuova significazione e io vi accederò attraverso quello dei
suoi aspetti che fa già parte della mia esperienza. La razionalità non esige che si giunga alla
medesima idea per la stessa strada o che le significazioni possano essere racchiuse in una
definizione; essa esige solo che ogni esperienza comporti dei punti d’innesto per tutte le idee e che
le idee abbiano una configurazione. Questo doppio postulato è quello di un mondo ma siccome qui
non si tratta più della unità attestata dall’universalità del sentire, siccome quella di cui si parla è
invocata più che constatata ed è quasi visibile costruita sull’edificio dei nostri segni, la si chiamerà
mondo culturale e si chiamerà parola il potere di che abbiamo di far servire alcune cose
adeguatamente organizzate, a differenziare le significazioni del mondo sensibile, o ancora a
infondere nell’opacità del sensibile quel vuoto che le renderà trasparenti ma che possiede come
l’aria soffiata nel vetro una qualche realtà sostanziale. Così come la nostra percezione degli altri
viventi dipende alla fine dall’evidenza del mondo sentito che si offre a dei comportamenti diversi,
così la percezione di alter-ego presuppone che il suo discorso nel momento in cui lo comprendiamo
abbia il potere di rifarci a propria immagine e di aprirci ad un altro significato. Egli non possiede
questo potere davanti a me. Come coscienza; una coscienza saprebbe trovare nelle cose solo ciò che
vi ha messo.
Tra me come parola e l’altro come parola non c’è più alternativa che fa del rapporto una rivalità. Io
non sono solo attivo quando parlo ma precedo la mia parola nell’ascoltatore; non sono passivo
quando ascolto ma parlo in seguito a ciò che dice l’altro. Parlare non è solo una mia iniziativa,
ascoltare non è subire l’iniziativa dell’altro e ciò in ultima analisi perché come soggetti parlanti noi
continuiamo, riprendiamo un medesimo sforzo, più antico di noi, sul quale siamo innestati entrambi
e che è la manifestazione della verità. Noi diciamo che il vero è sempre stato vero ma così diciamo
solo che tutte le espressioni precedenti rivivono la loro collocazione nell’espressione attuale il che
fa sì che si possa ritrovare in questa espressione attuale quelle precedenti. Il fondamento della verità
non è fuori dal tempo, è nell’apertura di ogni momento. Della conoscenza a quei momenti che lo
riprenderanno e lo cambieranno nel suo significato. Ciò che chiamiamo parola non è altro che
questa anticipazione e questo recupero, questo toccare a distanza, i quali non saprebbero concepire
se stessi in termini di contemplazione; parola è convivenza del tempo con sé stesso.
Ciò che maschera il rapporto vivente tra i soggetti parlanti è il fatto che si prende sempre quale
modello della parola l’enunciato o l’indicativo perché si crede che ci sia solo insensatezza fuori
dagli enunciati. Questo significa dimenticare tutto ciò di tacito ci sia nel linguaggio scientifico, tutto
ciò che ne determina il significato e che dà alla scienza di domani il campo di ricerche. Significa
dimenticare l’espressione letteraria dove dovremo ripetere ciò che si potrebbe chiamare sovra-
signficazione e dovremo distinguerla dal non-senso. Fondando la significazione sulla parola si
intende dire che il proprio della significazione è di non apparire mai solo come seguito di un
discorso già iniziato, o come iniziazione a una lingua già istituita. La significazione sembra
precedere gli scritti che la manifestano poiché ogni parola non è solo espressione di qualcosa ma si

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da al primo approccio come frammento di un discorso universale, annunciando un sistema di
interpretazione.
Sono gli afasici che hanno bisogno per sostenere una conversazione di punti di appoggio scelti in
anticipo, o che, per scrivere su una pagina bianca hanno bisogno di qualche indicazione, di una
linea tratteggiata precedentemente o anche solo di una macchia di inchiostro sulla carta che li
sottragga al vuoto.
Lo scrittore felice e l’uomo parlante non hanno così tanta o così poca coscienza. Non si chiedono,
prima di parlare, se la parola è possibile, non si fermano alla passione del linguaggio che significa
essere obbligati a non dire tutto se si vuol dire qualcosa. Continuano a voce alta il monologo
interiore, il loro pensiero diventa parola, sono capiti senza averlo cercato, divengono altri dicendo
ciò che hanno di più intimo. Lo scrittore felice e l’uomo parlante sono in se stessi, non si sentono
esiliati dall’altro e, poiché sono pienamente convinti che ciò che sembra loro evidente è vero,
semplicemente lo dicono, attraversano i ponti di neve senza vedere come sono fragili, fanno uso
fino alla fine di quel potere inaudito di ogni coscienza coestensiva al mondo di convincerne gli altri
e di entrare nel loro intimo. Ognuno, in un certo senso, è per sé la totalità del mondo e quando ne è
convinto ciò diviene vero, perché allora parla e gli altri lo capiscono e la totalità privata fraternizza
con la totalità sociale. Nella parola si realizza l’impossibile accordo delle due totalità rivali, non
perché essa ci faccia rientrare in noi stessi o perché ci faccia trovare qualche spirito unico al quale
parteciperemmo, ma perché ci raggiunge indirettamente, ci trascina, ci trasforma nell’altro e
trasforma l’altro in noi, perché abolisce i limiti del mio e del non-mio, di ciò che è non-senso per
me, di me come soggetto e dell’altro come oggetto. È bene che alcuni tentino di fare ostacolo
all’intrusione di questo potere spontaneo e vi appongano il loro rigore e la loro cattiva volontà. Ma
il loro silenzio finisce ancora con delle parole e a buon diritto: non esiste silenzio che sia pura
attenzione e che, iniziato nobilmente, resti uguale a se stesso. Si accetta dunque sempre il
movimento dell’espressione, non si smette di esserne dipendenti per il fatto di averlo rifiutato.
Come chiamare questo potere al quale siamo votati e che trae da noi, volenti o nolenti, delle
significazioni? Non è certo un dio, perché la sua operazione dipende da noi; non è un genio
maligno, perché porta verità; non è la “condizione umana”, o, se è “umana”, lo è nel senso in cui
l’uomo distrugge la generalità della sua specie e lascia entrare gli altri nella sua singolarità più
remota. È ancora chiamandola parola o spontaneità che si designerà al meglio quel gesto ambiguo
che fa l’universale con il singolare e il significato con la nostra vita.

L’espressione e il disegno infantile

Dopo l’avvento dei modi di espressione non-canonici quelli canonici ci sono sembrati quelli che
erano sempre stati, ovvero delle creazioni storiche, che prima credevamo coestensive al mondo.
Letteratura e arte sono significanti solo in una certa sfera della cultura, la loro significazione
dipende da un gesto sovra-significante che si è aperto al rischio nel campo della contingenza di ogni
creazione. Poniamoci ora di fronte ai rischi dell’azione espressiva.
L’illusione della rappresentazione oggettiva ricade anche nell’osservazione delle espressioni del
bambino. Con questo postulato sii descriverà l’evolversi del disegno del bambino come un
cammino verso la prospettiva. In ogni caso la prospettiva planimetrica non potrebbe rivendicare un
privilegio di conformità all’oggetto; questa considerazione obbliga a riconsiderare il disegno del
fanciullo. La prospettiva planimetrica non è realismo dato che è comunque una costruzione
dell’immagine e dunque le fasi che la precedono non sono difettose o dovute a errori. Bisogna
considerare le espressioni primordiali dell’infante come già piene in sé stesse. Disegnare un cubo
richiede determinate misure dei lati e dei tratti aggiuntivi per via dell’intenzione del disegnatore,
ovvero quella di riunire il maggior numero di informazioni sulle invarianti dello spettacolo
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percettivo. Viene costruita un’immagine determinata da un indice di deformazione caratteristico
della mia posizione e dunque traducibile nell’ottica di qualsiasi punto di vista. È la costruzione di
un immagine umana vista da Dio. Si può anche tentare di disegnare il nostro rapporto col mondo e
non in rapporto a una coscienza infinita, e così la prospettiva planimetrica viene abbandonata: è
quello che fa il bambino. L’obiettivo è quello di segnare sulla carta una traccia del nostro tatto, le
nostre orecchie, il nostro senso del rischio, del destino o della libertà. Si tratta di una testimonianza.
Porterà l’impronta della nostra finitudine ma per questo ci condurrà alla sostanza segreta
dell’oggetto di cui prima non avevamo che l’involucro. Nella prospettiva la nostra percezione finita
era diventata prosa sotto lo sguardo di un Dio, mentre nell’arte fanciullesca emerge la risonanza
segreta con la quale la nostra finitudine si apre all’essere del mondo e si fa poesia.
Anche l’espressione del tempo cambia: infatti il bambino raffigura una successione cronologica in
un unica immagine. Questo può sembrare un metodo lacunoso ma nel tempo che viviamo il
presente ha ancora un contatto col passato e le ellissi della dimensione grafica possono solo
esprimere questo movimento della storia che sconfina il proprio presente verso il proprio avvenire,
come il ribaltamento esprime la coesistenza degli aspetti visibili e invisibili dell’oggetto. Certo vi è
differenza tra il disegno del fanciullo che è residuo di una esperienza indivisa e l’autentica
espressione delle apparenze che non si accontenta di sfruttare il mondo precostituito del corpo e vi
aggiunge quello di un principio d’espressione sistematica.
Ma ciò che è prima dell’oggettività simbolizza come ciò che è sopra e il disegno infantile rimette il
disegno “oggettivo” nella serie delle operazioni espressive che cercano, senza alcuna garanzia, di
recuperare l’essere del mondo, e ne è un caso particolare. Il problema con un pittore non è di sapere
se usa o no la prospettiva planimetrica, ma è di sapere se la segue come un’infallibile ricetta di
fabbricazione – ed è allora che dimentica il suo compito e non è più un pittore – o se la ritrova sul
cammino di uno sforzo d’espressione col quale essa si trova a essere compatibile o, anche, in cui
gioca il ruolo di un utile ausiliario, ma di cui non offre l’intero significato. Cézanne rinuncia alla
prospettiva planimetrica durante tutto un periodo della sua carriera perché vuole esprimere con il
colore e perché la ricchezza espressiva di una mela la fa debordare dai suoi contorni ed egli non può
accontentarsi dello spazio che i contorni gli prescrivono. Un altro – o lo stesso Cézanne dell’ultimo
periodo – osserva le “leggi” della prospettiva, o piuttosto non ha bisogno di contravvenirla, perché
cerca l’espressione con il tratto e non ha più bisogno di riempire la sua tela. L’importante è che la
prospettiva, anche quando c’è, sia presente solo come le regole della grammatica sono presenti in
uno stile narrativo. Gli oggetti della pittura moderna “sanguinano”, spargono sotto i nostri occhi la
loro sostanza, interrogano direttamente il nostro sguardo, mettono alla prova il patto di coesistenza
che abbiamo concluso con il mondo attraverso tutto il nostro corpo. Gli oggetti della pittura classica
hanno un modo più discreto di parlarci, qualche volta è un arabesco, un tratto di pennello quasi
senza materia che fa appello alla nostra incarnazione, mentre il resto del linguaggio si installa
ragionevolmente a distanza, nel compiuto o nell’eterno, e si abbandona alle buone maniere della
prospettiva planimetrica. L’essenziale è che, in un caso come nell’altro, l’universalità del quadro
non risulti mai dai rapporti numerici che può contenere, che la comunicazione del pittore a noi non
si fondi mai sull’oggettività prosaica e che la costellazione dei segni ci guidi sempre verso una
significazione che non esisteva in nessun luogo prima di essa. Queste osservazioni sono applicabili
al linguaggio.

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