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Introduzione.

Quando si parla di stile si fa riferimento all’impronta, che permette di spiegare il nostro modo
di pensare e di esprimere il nostro carattere di fondo, fino alla definizione del nostro stile di
vita, e alla rappresentazione esteriore del carattere interiore.

Per il popolo italiano il problema è tutt’altro che facile, essendo un popolo erede di almeno
tremila anni di storia e cultura centrali nell’Occidente e del passaggio costante di etnie e
culture che hanno lasciato impronte significative, contribuendo alla creazione dello stile
italiano. Quest’ultimo, che è di fatto uno delle chiavi migliori per comprendere l’etica, i valori e
le regole italiane, va studiato proprio per il suo valore etico e i valori che la stessa bellezza
porta con sé.

Ci sono dunque delle connessioni tra etica ed estetica, rapporto che ha un valore sia civico che
spirituale, e che ha portato oggi anche all’affermazione nell’economia italiana delle produzioni
artigianali e nell’importanza del settore del bello e benfatto nell’industria manifatturiera.

L’Italia resiste cioè alla separazione tra etica ed estetica, e ciò fa sì che il Paese si rendi
attraente in un sistema globale basato al contrario su beni privi di valori, destinati tral l’altro ad
una grande produzione di rifiuti e scarti.

In questo modo si comprende come dal termine stile si possa passare all’altro che permette di
spiegare bene l’Italia agli occhi del mondo, ossia il gusto. La parola, che non trova un’adeguata
traduzione nelle altre lingue, indica sia il sapore sia l’apprezzamento, il godimento per
un’esperienza o un evento, e più in generale la percezione della bellezza.

Dunque, se lo stile italiano conserva la connessione estetica-etica, è attraverso l’affermazione


del buon gusto che gli italiani provano a trasportare nell’esperienza quotidiana e nello stile di
vita il senso del rapporto tra ciò che è bello e ciò che è buono. I due sensi, del gusto e dello
stile, sono così entrambi alla base della capacità attrattiva che i prodotti Made in Italy hanno
sul mercato mondiale.

Le due parole rimandano infine ad altri due termini, da un lato troviamo il saper comprendere
(intelligencia), con il fine di saper scegliere (elegantia), alla cui origine troviamo il termine
logos che identifica nella cultura classica la ragione primaria, facendo capire come
nell’eleganza e nell’estetica la cultura italiana (figlia proprio della clssica) individua e coglie dei
valori etici di fondo.

Parte prima:

1. Gli Etruschi, la prima civiltà della bellezza.

La prima civiltà ad aver rappresentato nella penisola italiana la civiltà della bellezza è stata
quella etrusca, definita ancora oggi con il termine raffinata, costruita con l’obiettivo primario
della diffusione del benessere tra i cittadini, anziché con quello dell’espansione militare o
politico, mostrando così la prevalenza della volontà di bellezza sulla volontà di dominio. Gli
Etruschi andarono in qualche modo ad anticipare buoni tratti del Rinascimento, che si
mostrano nelle città autonome, organizzate su una pianta urbana precisa e collegate tra loro
attraverso una federazione di popoli, con una rete stradale ed una lingua comune; ma anche
un popolo dedito più alle attività manifatturiere piuttosto che alla conquista militare, una
società formata da gruppi familiari con una cultura matriarcale, votata alla convivialità e
all’incontro, una religione basata sul rispetto degli antenati e sull’idea dell’immortalità
dell’anima.

Gli Etruschi sono stati uno dei pochi popoli che sono riusciti a far convivere nello stesso
contesto la tensione tra l’importanza della bellezza e il culto dei morti. Nonostante siano
rimasti pochi resti delle abitazioni e dei luoghi della vita civile etrusca ci retano invece delle
vere e proprie città dei morti, come la necropoli di Cerveteri, che contiene più di ventimila
tumuli e si estende per un’area superiore a quella di qualsiasi altra città dei vivi.

Al loro interno, sono solitamente due gli oggetti che più degli altri richiamano l’attenzione: da
un lato i sarcofaghi, dove vengono rappresentati in modo realistico i due coniugi, dall’altro dei
contenitori di profumi ed ungenti, che le donne etrusche depositavano nella tomba della
defunta, in modo che potesse farsi bella al momento del risveglio dopo la morte. Di fatto, il
mondo etrusco esprime al massimo l’equilibrio tra ragione ed emozione, equilibrio alla base
dell’idea di stile e benessere.

Nello stile etrusco si trovano già molti aspetti che sono alla base dello stile italiano, a partire
dal gusto per il cibo e la convivialità, la produzione vinicola, il commercio, la scultura o
l’oreficeria, tutte attività realizzate con tecniche e competenze molto elevate.

Si comprende dunque come il primo tratto distintivo etrusco si rintraccia nell’eleganza, che è
prima di tutto uno stile di vita, fatto della ricerca della bellezza nelle relazioni, nel cibo e nel
divertimento. La bellezza etrusca, sia nella vita che nella morte, risponde per gli Etruschi alla
necessità di realizzare un ordine che corrisponda all’ordine celeste; abiti, gioielli e acconciature
sono cioè un modo per raggiungere in vita e anche nell’oltretomba quella bellezza che ci
permette di corrispondere all’ordine soprannaturale e alla sua armonia.

L’attenzione per l’immagine di sé spiega la vera e propria ossessione etrusca per lo specchio,
inventato secondo le parole di Seneca perché l’uomo conoscesse a fondo sé stesso. Era un
vero e proprio status symbol, ma anche utilizzato per poter predire il futuro e per svolgere una
funzione magica, quella di riflettere la propria immagine, creando un doppio. Per questo
motivo, diventa anche uno strumento di comunicazione con il mondo dei morti.

Ulteriore oggetto simbolico di grande importanza è la maschera; gli Etruschi, come i Greci e i
Romani, sapevano bene che ogni individuo, nel rapporto co n gli altri e con il mondo, debba
assumere un atteggiamento adeguato, come la maschera usata per l’appunto da un attore,
motivo per cui risulta chiara sin dall’antichità quella distinzione tra il carattere individuale e la
personalità sociale dell’uomo contemporaneo.

2. L’eredità romana: persona, diritto ed etica.

Nella descrizione degli aspetti che vanno a costituire lo stile italiano, sono almeno tre concetti
chiave che sono stati definiti ai tempi di Roma antica e che ancora oggi fanno parte
dell’identità italiana, ossia la personalità, il diritto e l’etica.

Se erano stati i Greci ad aver scoperto l’individualità, attraverso l’idea di psiche, sono proprio i
Romani che “creano” la personalità, definibile come la dimensione sociale e giuridica
dell’individuo, avendo appreso dagli Etruschi e dai Greci la distinzione nell’azione degli
individui la sfera privata dall’ambito pubblico, distinzione sulla quale si forma il sistema
giuridico romano.
La persona nel mondo latino diventa letteralmente la maschera teatrale, la rappresentanza
pubblica di un tipo caratteriale. Si forma così nel mondo romano la consapevolezza
dell’individuo che agisce in relazione con gli altri e della necessitò di definirne le caratteristiche,
i limiti e i poteri attraverso proprio il concetto di personalità. Questa tensione ha anche una
valenza etica, in quanto alla stessa maschera-persona si attribuisce un compito da assolvere;
infatti, alla personalità si affianca una funzione, uno status, un sistema fatto di diritti e
responsabilità, che a sua volta determina la collocazione sociale e professionale, definendo
l’habitus, ovvero quell’insieme di comportamenti e di funzioni che viene richiesto all’individuo
nell’agire sociale.

Ai Romani è infatti molto chiaro il fatto che l’individuo si personalizza, cioè acquisisce
consapevolezza di sé nel rapporto con gli altri. Questo è un principio che deriva dal pensiero
greco, in particolare dal pensiero di Platone, in base al quale l’individuo può cogliere soltanto
ciò che lo distingue e caratterizza solo osservando sé stesso nello sguardo dell’altro, in cui
viene riflesso il proprio demone. Quest’ultimo non si ha la possibilità di conoscerlo, trovandosi
alle nostre spalle, ma possiamo farlo nell’incontro con l’altro. Il demone costituisce così il
nostro io più profondo.

A Roma si forma così la nozione di persona, come entità autonoma e definita sul piano
giuridico, e risulta qui chiaro come la percezione che l’individuo ha di sé e la coscienza della
propria unicità, si possa definire solo nel rapporto con l’altro e con la propria sfera spirituale.
Di qui l’unitarietà necessaria tra individuo e l’altro, tra la società e la natura, tra l’uomo e Dio.

Allo stesso tempo, il concetto di persona come maschera teatrale introduce un altro aspetto,
proprio dello stile italiano, quello della teatralità, dell’agire sociale come una sorta di
palcoscenico in cui siamo chiamati a compiere un rito e a svolgere un ruolo.

Accanto a questo concetto si sviluppa, sempre nel mondo romano, quello di coscienza, come
consapevolezza della propria funzione sociale, e insieme si afferma il ruolo dell’apparenza del
sé, inteso come modo attraverso cui comunicare la propria funzione sociale.

Momento fondamentale nella storia della civiltà è quello in cui i Romani stabiliscono il
cosiddetto diritto alla persona, ossia la personalità civile e l’essere un cittadino titolare di diritti
e di dovere. Ovviamente ciò rende necessario il fatto di essere identificati attraverso
un’identità pubblica, mediante nomen, cognomen, e praenomen.

Ciò determina l’importanza nel mondo romano del concetto di cittadinanza, del pieno
godimento dei diritti civili e politici; è infatti proprio la cittadinanza che attribuisce
all’individuo la propria personalità e status sociale.

Oltre ai diritti civili, alla funzione indicata dalla personalità è correlato anche un sistema di
doveri e un vero e proprio ruolo. L’individuo che entra nel sistema sociale diventa quindi una
persona, ma non può credere di esercitarne uno solo, identificando così un concetto
fondamentale, ossia quello del non essere una persona, ma al contrario avere una persona, nel
senso che le personalità si assumono, si possiedono, si mostrano e si cambiano, in ragione del
tempo e del contesto.

La cultura romana afferma così che per comprendere la molteplicità che agisce al di fuori di noi
dobbiamo saper cogliere la molteplicità presente al di fuori di noi dobbiamo saper innanzitutto
cogliere la molteplicità presente in noi ed imparare ad assumere le diverse funzioni che ci
vengono chieste, e allo stesso tempo giocare con i ruoli. Questa consapevolezza permette che
l’individualità si esprima in diverse forme, ma ancor più importante permette che ci si osservi e
veda da un punto di vista esterno, al di sopra del ruolo tipicamente svolto. Esiste tra l’altro nel
mondo romano anche un dio, Vertumno, che spiega proprio come la grazia e il sapersi
comportare non stiano tanto nel saper indossare una personalità, ma soprattutto nel sapere
modificare le personalità, adattandosi al cambiamento, senza modificare il proprio stile, il
carattere e l’individualità. SI tratta cioè di formare un’identità in grado di cogliere i mutamenti
in modo tale da trarre vantaggio dai cambiamenti, fino ad ispirarli.

Se la grandezza romana si rintraccia da un lato nella nascita di Roma come luogo in cui dare
asilo ad ogni persona o popolo in cerca di riscatto, emancipazione o realizzazione, dall’altro
nell’incontro continuo tra il mondo romano e le varie culture che contribuiscono alla creazione
dell’Impero. Di fatto l’inarrestabile sviluppo romano si deve principalmente al suo modello di
assimilazione e inclusione, che nel momento in cui viene meno porta difatti all’inizio della crisi
romana, derivante proprio dall’incapacità di accogliere le popolazioni visigote pressate dagli
Unni dentro i confini romani (quando la stessa origine della città si fa al contrario risalire
all’incontro di Sabini, Latini, Etruschi).

Lo stile romano è quindi la combinazione di un’etica (=diritto) e un’estetica (=stile di vita) di


grande impatto e forza, che sarà il punto di riferimento fondamentale per andare a costruire la
civiltà occidentale.

Per quanto riguarda i benefici derivanti dalla forza della civiltà romana, questi si esprimono al
massimo livello soprattutto a Roma e nelle sue undici regioni italiche, facendo capire come i
territori italiani, nell’affermazione del proprio stile di vita e della propria cultura, siano riusciti a
godere di una prosperità e un benessere di gran lunga maggiore rispetto quello vissuto dai
vicini, in particolare grazie a: un’affermazione soprattutto in Italia di un ceto medio di
professionisti, imprenditori, mercati ed artigiani; la definizione del primo mercato globale della
storia umana con un vasto spazio economico ed una produzione su larga scala; la costruzione
di grandi opere pubbliche e la presenza di città ordinate assieme ad un commercio ben
organizzato.

Si diffonde così, soprattutto nelle classi più elevate, forme e stili di vita particolarmente
raffinati, come il vizio degli abiti di seta accompagnato dall’obbligo per le donne romane di
sottoporsi a ginnastica quotidiana, di seguire la moda e dedicare più tempo possibile alla cura
della propria immagine estetica.

È solo con l’avvento della morale cristiana che la libertà nel farsi belle delle donne romane
viene limitata e censurata; tuttavia, in tutti i secoli della storia romana, lo stile agisce e si
definisce costantemente nel rapporto tra etica ed estetica.

4. L’invenzione dell’economia del vino.

Una delle principali attività organizzata e promossa nei territori dello stesso Impero Romano è
quella dell’economia del vino, accompagnata da una vera e propria politica pubblico di
pianificazione e di sostegno, talmente importante che Tucidide affermò che “I popoli del
Mediterraneo cominciarono ad uscire dalla barbarie quando impararono a coltivare l’olio e la
vite”.

Dunque, è proprio con Roma che si definisce la civiltà del vino, che rappresenta al giorno
d’oggi un tratto saliente del carattere, delle abitudini e dell’economia italiana dei giorni nostri.
La diffusione del vino e il suo largo consumo devono infatti molto all’espansione romana, da un
lato perché i legionari ne consumavano in grandi quantità, sia perché proprio questi ultimi, una
volta stanziati nei confini, amavano coltivare la vite per poter produrre il proprio vino.

Inizialmente era sufficiente la produzione di vino campana ma, una volta avvenuto il processo
di espansione e di crescita territoriale, venne richiesta una produzione ben maggiore e
vennero utilizzate anche alle le coltivazioni del Nord, in particolari quelle del Veneto. Inoltre, la
produzione restò per ben buona parte del tempo nelle mani italiane, determinando un enorme
giro di affare, visto l’aumento del consumo e la domanda sempre crescente. Ciò causò molti
malumori soprattutto in Gallia, cui era stata esplicitamente proibita la produzione di vino e che
aveva subito l’espianto di migliaia di viti a causa della decisione di Domiziano che temeva che
ciò compromettesse la produzione agricola di altri beni di prima necessità, come i cereali.

Questa situazione venne meno nel 291 d.C. quando l’imperatore Probo decise di selezionare
un vitigno ed affidarlo ai suoi legionari affinché lo impiantassero in tutta Europa e, dal
momento in cui la maggior parte dei legionari si trovavano nei confini del Nord, il vitigno era
particolarmente resistente al freddo e al giorno d’oggi è l’antenato di quasi tutti i vitigni usati
in Europa.

L’impianto trasformò i confini nei territori attualmente tedeschi, austriaci, ungheresi, numeni e
caucasici, in grandi e floride attività viticultrici.

Questa scelta ha fatto sì che l’origine dell’attività di produzione di vino avesse una matrice
romana ed addirittura un vitigno-madre di riferimento. Probo aveva voluto investire sul vino e
non su altri prodotti perché, come visto precedentemente, i legionari e le truppe al confino
domandavano in maniera forte e costante il prodotto. Dall’altro lato esisteva anche un forte
motivo simbolico, rintracciabile nel bastone del comando del centurione romano, la vitis;
difatti, gli elementi simbolici hanno nella cultura romana un significato fondamentale in quanto
riflettono la sacralità. Inoltre, nella scelta si può rinvenire anche una motivazione politica: il
vino è cioè una sorta di biglietto da visita della cultura romana e la coltivazione della vite da
parte dei legionari o degli ex legionari diventati contadini dopo venti anni di servizio militare
diventa proprio un modo per affermare la presenza sul territorio del potere romano.

Un altro grande aspetto della civiltà romana stava nell’unitarietà dell’Impero; un cittadino
poteva cioè compiere migliaia di chilometri ed incontrare altri milioni di cittadini che usavano
la stessa moneta, parlavano la stessa lingua, avevano gli stessi diritti e pagavano tasse
identiche. Se ciò funzionava era soprattutto in vista dell’atteggiamento aperto ed esclusivo dei
Romani nei confronti degli altri popoli era soprattutto aperto ed inclusivo, vedendo
nell’incontro con l’altro un possibile cittadino romano con cui confrontarsi, piuttosto che un
possibile nemico da sconfiggere, collocandosi molto più avanti dalla posizione attuata al giorno
d’oggi dall’Unione europea.

5. All’origine del diritto alla felicità.

Con diritto alla felicità si intende l’assunzione della felicità quale principio e fondamento della
vita morale e il ritenere che la politica e le norme debbano proprio promuovere questo
obiettivo. È soprattutto derivante dalle civiltà greche e romane, indicato nella prima con il
termine eudaimonia (eu; daimon), con cui si indica che si voglia fare in modo che il proprio
daimon (la coscienza) stia bene.

Il daimon costituisce cioè il nostro io più profondo, quello che definisce il nostro carattere e
che può assumere diverse personalità attraverso personalità soprattutto attraverso la relazione
con gli altri e l’eudaimonia riguarda qualcosa di particolarmente significativo, facendo
riferimento all’acquisizione completa della coscienza di sé.

Secondo Platone il concetto alla base di questa eudaimonia è la ricerca del Bene e del Bello,
ossia la kalokagathia; per distinguere però il bene dal male ciò che risulta necessario è una
vera e propria disciplina, che sia in grado di farci riconoscere ciò che sia effettivamente il bene
e che sia veramente degno. Non basta tuttavia la morale personale per poter raggiungere (o
pensare di farlo) il bene e il giusto o la felicità, in quanto ogni persona è un essere sociale e
relazionale: ciò fa sì che il tema della felicità si tramuti in una questione politica, e serve cioè
una politica per il benessere, benessere che nel vocabolario latino viene indicato con il termine
gaudium, cioè il provare gioia (intesa in senso collettivo e non individuale) e che prevede una
vera e propria sensazione da un lato fisica, dall’altro mentale.

Per consentire il gaudium è dunque necessaria una politica per la bellezza e per il benessere, e
un sistema sociale che abbia come scopo principale quello di garantire la felicità dei cittadini,
partendo dal presupposto che l’uomo, come animale sociale, possa essere felice anche se
circondato da persone infelici. (?). Questo lato politico è evidentemente in relazione con la
disciplina e l’educazione, e permette di capire come l’aspirazione alla felicità non possa
realizzarsi da sola. Quest’aspirazione prevedeva che lo Stato fosse guidato dai filosofi, in grado
di creare le condizioni adatte per la felicità dei cittadini.

Fondamentale, nel pensiero di Aristotele, un altro aspetto determinante per il raggiungimento


della felicità è quello della vita activa, con cui si intende l’attuale capacità di agire.

È proprio nel pensiero greco che si trovano aspetti di fondo del bene e del bello e del diritto
alla felicità, che saranno assimilati dalla civiltà romana e che saranno poi reinterpretati dal
Rinascimento e in particolare il fatto che:

 La felicità corrisponde alla coscienza di sé, ed è un concetto che richiede educazione,


disciplina e ricerca dell’armonia;
 Esiste una relazione tra la felicità e la ricerca di ciò che è Bene e Bello;
 È fortemente necessario che la vita sia attiva e collegata alla ricerca del buono e del
bello;
 Si devono possedere beni esteriori e materiali nella giusta misura per far sì che la vita
possa essere impegnata nella ricerca della felicità;
 Queste condizioni vanno promosse attraverso politica ed etica, in particolare proprio
perché la felicità è un bene comune;
 Il buon governo è quindi quello che sa attivare i cittadini verso il Bene e il Bello.

Nel pensiero antico non mancava comunque chi insegnava l’edonismo, ossia la ricerca del bel
piacere fisico e momentaneo, nella convinzione che la fugacità del tempo e il continuo
movimento e che allo stesso tempo il saggio deve sì poter godere dei piaceri, ma deve farlo in
maniera controllata per non diventarne schiavo.

Dall’altro lato lo stoicismo è quello che più influenza il mondo romano, soprattutto con Seneca.
L’obiettivo è quello di conseguire la piena padronanza di sé, motivo per cui la felicità è
possibile solo se si acquisisce una forte consapevolezza. Bisogna anche qui conoscere se stessi
ed individuare la propria ragione interiore, comprendendo come la felicità derivi da noi e da
tutte quelle azioni che possano migliorare le nostre condizioni generali.
Altra dottrina che insieme allo stoicismo influenza il modo di pensare o di agire dei romani è
quello dell’epicureismo, la cui consapevolezza principale è che per raggiungere la felicità sia
necessario innanzitutto liberarsi dalle paure. È utile saper godere dei beni materiali e del
piacere, ma bisogna farlo con la consapevolezza di non diventarne schiavo e di non averne
bisogno, e il piacere più solido è quello del saper godere di ogni momento come se fosse
l’ultimo. Nel mondo latino il più grande interprete di questa corrente è Lucrezio, per cui l’unica
legge che governa il mondo è quella naturale e l’unico principio divino risulta quello della dea
voluptas, ossia Venere, il piacere e il gusto. Non esiste cioè la provvidenza divina, ma l’uomo
che crea il suo destino e lo può migliorare solo evitando ogni forma di oppressione e segue le
leggi naturali.

Nel pensiero neoplatonico, di cui Plotino è il principale rappresentante, al momento dell’anima


l’anima perde coscienza del suo rapporto con l’Uno, come principio unificante e originario da
cui tutto proviene. La ricerca, la tensione verso la bellezza durante la nostra vita altro non è
che il nostro tentativo di ricordare la suprema bellezza da cui tutto proviene.

La bellezza diventa quindi un ideale filosofico e spirituale che trova nella cultura latina una
piena cittadinanza. Non si tratta solo della virtù, ma anche dell’aspetto esteriore e della
relazione tra etica ed estetica che è fondamentale nella civiltà greca e latino. La filosofia
neoplatonico arriva proprio a recuperare e a rinnovare il concetto della kalogakathia,
considerando il bello come visione interiore e come esperienza al tempo stesso naturale e
spirituale, che spinge a cercare l’origine ultraterrena della bellezza che vediamo nel mondo,
anche nel corpo umano. La ricerca della felicità avviene attraverso la bellezza, ma rappresenta
una sfida continua, con lo scopo di trovare il senso della propria esistenza.

L’ultimo tratto distintivo della civiltà latina è che essa afferma una cultura dell’incontro, in cui
l’identità si definisce e si consolida nel continuo scambio con altre culture, dimostrando di
avere una mentalità inclusiva, portata sì al guardare al bello, ma anche ad affermare un
sistema di valori definito nel principio della cittadinanza, da estendere a tutti coloro che si
sentissero Romani, secondo il concetto per cui Romani si nasce, ma si può anche diventare.

6. Dante Alighieri e il lavoro. La vita attiva come energia spirituale.

Importante riferimento per la cultura occidentale e per la comprensione di molti aspetti


distintivi del processo di formazione dello stile e della cultura italiana, Dante Alighieri analizza
tre concetti fondamentali nei suoi studi:

1. La ricerca necessaria della felicità come tensione umana inevitabile;


2. L’azione e l’autonomia individuale per raggiungere la felicità;
3. La disciplina e lo studio individuale e la funzione della politica e del governo per
migliorare la condizione umana e realizzare il benessere sociale.

Fondamentale nel pensiero di Dante la necessità di sostenere la spinta naturale dell’uomo


verso la conoscenza, considerata dall’autore come la caratteristica di fondo di un essere
umano ma al tempo stesso quella di unire il sapere alla virtù.

Questa necessità che l’uomo esprima la sua voglia di conoscenza attraverso l’azione viene
ripresa e chiarita in un canto dell’Inferno, attribuendo alla spinta stessa un significato
spirituale, in grado di collegarci a Dio, considerando così che l’uomo realizzi sé stesso e svolga il
suo compito solo imitando lo sforzo creativo della Natura e di Dio. In questo senso, l’atto
creativo dell’azione umana diventa atto generativo, poiché l’opera dell’uomo in realtà non fa
altro che intervenire sull’opera già messa in atto dalla Natura, e quindi da Dio.

L’azione creativa diventa così il modo con cui l’essere umano partecipa alla grande Bellezza
della creazione, ed è proprio nel risultato della sua vita activa e nella creazione di bellezza che
diventa partecipe del disegno divino. Questo concetto fondamentale si ritrova nel De
Monarchia in cui Dante afferma che “Il genere umano si trova in uno stato di benessere e
felicità quando, nei limiti delle sue possibilità, è simile a Dio”.

È proprio il De Monarchia che permette di cogliere il senso più ampio di queste riflessioni, che
in realtà hanno una dimensione psicologica, sociale e culturale che diventano un vero
programma per una politica umanistica; proprio qui Dante si sofferma sui significati profondi
della spinta dell’uomo verso l’azione, affermando che in ogni azione lo scopo principale di chi
agisce è quello di realizzare se stesso e di rivelare la propria immagine, e facendo in questo
modo apparire il proprio io più nascosto.

L’azione generativa è dunque fondamentale per ogni uomo che voglia realizzare la sua libertà e
scoprire e conoscere sé stesso, realizzando l’identità dell’individuo e svelandone il carattere,
ma non solo: nello svelare me stesso attraverso l’azione, il lavoro, la creazione e le opere, io
rivelo il divino che si trova dentro di me.

Sul lato della riflessione politica dantesca, si rintraccia qui l’eredità del modello greco e latino
di benessere per cui la ricchezza economica è giusta solo se deriva dal progresso culturale e
da relazioni sociali condivise.

Anche qui Dante effettua una distinzione tra il saper agire e il saper far, che in realtà allo stesso
tempo è una connessione; difatti, se intendiamo l’azione ciò che si realizza per uno scopo, e il
fare la semplice esecuzione di quanto richiesto, la relazione tra saper agire e saper fare è
necessariamente presente nel modello umanistico, in quanto il fine del lavoro è la
realizzazione di sé. Si afferma il ruolo dell’homo agens e il campo dell’azione acquista così una
dimensione politica, con conseguenze nella società.

Sempre nel De Monarchia si riafferma il fatto che la vita contemplativa è vana senza un’azione
che muove nella società e che realizza risultati pratici e che ogni pensiero richiede un’azione e
realizzazione. La politica ha per Dante, il compito di promuovere un benessere che provenga
dal rapporto tra azione e relazione, tra competenza e organizzazione sociale.

La riflessione continua quindi ad avere come oggetto il tema dello sviluppo umano e dei suoi
limiti, parlando di agibilia et factibilia, intendendo cioè cosa si può agire e fare, rapporto tra i
due regolato dall’intelletto (che agisce nel campo della politica) e dalla consapevolezza degli
effetti del proprio comportamento su di sé e sugli altri.

Attraverso il pensiero di Dante si fissano altri due aspetti fondamentali, che sono il necessario
legame tra la conoscenza tecnica e quella umanistica e il concetto di lavoro come opera,
come atto generativo, nell’affermazione di una etica dell’operosità.

7. L’economia civile tra mercanti e artigiani.

L’ultimo medioevo è risultato per l’Italia un periodo fertile, ricco di scoperte ed invenzioni,
basti pensare alla riapertura da parte di Marco Polo di contatti con l’Oriente che erano stati
chiusi nel periodo dell’invasione araba, o all’arrivo dei fratelli Vivaldi in Africa, testimoniata nel
secolo scorso dalla fotografia di Franco Prosperi su una roccia in cui si trovava l’incisione VV AD
1924.

In queste vicende e in tante altre ciò il fattore comune è quello della seta di conoscenza, che
accompagna viaggi ed invenzioni italiane dell’ultima fase del medioevo, periodo in cui, oltre
alla diffusione dei libri e del sistema dei numeri arabi, si definiscono le prime istituzioni
finanziare, si creano le prime banche, e vengono inventati gli orologi meccanici, di grande
importanza nel definire un tempo più regolare e meno legato ai momenti dedicati alla
preghiera.

Lo stile che si afferma inoltre, riguarda anche il costume e l’abbigliamento, vista la creazione di
bottoni e pantaloni.

La moda degli ornamenti nel vestiario ben presto dilago e viene censurato da un’altra pratica
del periodo, ossia le leggi contro il lusso eccessivo. Sempre in questo periodo il secolo in cui gli
abiti maschili iniziano a distinguersi nettamente da quelli femminili e si inizia a valorizzare il
corpo maschile, mentre la donna in pubblico deve avere il capo coperto e le vesti femminili
sono provviste di veli.

In materia di possesso o meno di beni Frate Bernardino da Siena è uno dei maggiori
protagonisti che, in una sua predica Contra mundanas vanitates et pompas, esorta le donne ad
evitare il desiderio di adornarsi di seta, perle e pietre, sostenendo che la moda (intesa come
ricerca della novità del vestire), rechi offesa a Dio. Altro personaggio fondamentale che tenta
una moralizzazione rigida dei costumi e abitudini popolari, e che promuove il falò della vanità,
dove vengono dati alle fiamme numerosi oggetti d’arte e beni di lusso è Savonarola, frate
domenicano, poi scomunicato dal papa, processato e bruciato vivo dai sostenitori dei Medici.

Grazie alla ripresa dell’utilizzo dell’acqua per produrre energia si ha uno slancio dell’economia
del tempo e si diffondono ovunque i mulini ad acqua.

In quegli anni l’Italia inventa il capitalismo e difatti anticipa la democrazia moderna, motivo per
cui si può parlare già di egemonia italiana, a dimostrazione di una capacità organizzativa, che
si esprimeva nell’organizzazione di grandi navi da guerra, e nella costruzione di grandi reti
commerciali. Tuttavia, si tratta di un’egemonia principalmente culturale e non militare: fin dal
XII secolo, infatti, le Repubbliche del Mare e i Liberi Comuni, costituiscono un sistema in cui la
conoscenza promuove istituzioni sociali, economiche e finanziarie, mossi dalla ricerca del
prestigio, del benessere e della bellezza.

Tutto questo avviene soprattutto nel Centro-nord, facendo sì che si creasse un sistema in cui il
Mezzogiorno restava agricolo e feudale, vendendo grano al Nord Italia per comprare utensili e
manufatti.

Nell’umanesimo rinascimentale si consolidano così alcuni aspetti che disegnano un agire


economico in cui la dimensione del guadagno si afferma prima che in altri contesti europei,
guadagno che allo stesso tempo viene ritenuto lecito entro i limiti definiti dall’etica e dal
peccato di avaritia, e i beni necessari per il benessere comprendono anche gli aspetti culturali
e sociali, che sono la premessa per i risultati economici.

Si afferma non solo un’idea di benessere e capitalismo, ma si considera l’homo economicus


come innanzitutto un homo agens et faber, ossia un uomo che agisce e crea, i cui ambiti di
azione sono la felicità, il benessere e la realizzazione di sé.
9. L’umanesimo civile e la spinta a intraprendere: l’umanesimo economico.

L’umanesimo italiano si innesta in una grande fase di sviluppo delle conoscenze e dei modelli
di organizzazione sociale, in un periodo di grande espansione culturale, sociale ed economica,
che dall’Italia arriva fino al resto del mondo. Ci si trova però anche in un clima di insicurezza,
dato dalle pestilenze, dalle invasioni e dalle guerre.

Con il Rinascimento si va a studiare quell’etica civile che ha così permesso la realizzazione di


una delle fasi più significative nella storia del progresso dell’uomo, definita appunto come
umanesimo, e che ha la caratteristica principale di essere stato un periodo di sviluppo generato
soprattutto dalla relazione tra gli uomini, e non dal conflitto o sopraffazione.

È stato un caso esemplare di benessere in cui il progresso culturale determina un lungo


periodo di crescita economica e di sviluppo sociale, dove i presupposti etici risultano
importanti tanto quanto la creazione di bellezza.

Questo periodo determina importanti realizzazioni sul piano dell’organizzazione sociale ed ha


un impatto nella creazione di ricchezza sicuramente notevole; difatti, tra l’anno Mille e il 1500,
L’Europa riprende a percorrere con forza la crescita economica raddoppiando addirittura il
proprio PIL procapite.

Questa fase di crescita italiana è sicuramente lunga e duratura, appoggiandosi sul valore del
capitale umano e dell’organizzazione sociale, non dipendendo (se non in modo limitato)
dall’acquisizione di territori all’estero e dalla depredazione di ricchezze altrui.

In questo secolo l’umanesimo si afferma anche come stile di pensiero e di vita, grazie a decine
di intellettuali e artisti di enorme talento, che affermano la centralità della ricerca del bene e
del bello e della necessità di sostenere la conoscenza come principale espressione dell’agire
umano. Gli umanisti italiani seguono così una combinazione tra dottrina neoplatonica e
gnosticismo cristiano che vede la salvezza dell’anima e un senso da dare all’esistenza solo con
il raggiungimento di livelli più alti di conoscenza e tramite la creazione di bellezza.

Gli umanisti in questa fase vivono inoltre il loro essere cittadini in senso molto vivo,
partecipando attivamente alla politica e alle responsabilità civili, sentendosi sempre parte di
una comunità di riferimento, di una città e di un sistema sociale.

10. La finanza, il gusto e i libri: tre invenzioni del Rinascimento italiano.

Nella società italiana del Rinascimento andarono acquistando sempre maggior importanza tre
aspetti fondamentali, rintracciabili nell’utilizzo del denaro, nella diffusione dei libri stampati e
nell’affermazione del gusto nell’alimentazione, tutti aspetti determinanti e fondamentali nella
formazione della cultura e dello stile italiano.

A livello finanziario, la diffusione della moneta e l’utilizzo di strumenti finanziari e di sostegno


agli investimenti risultano importanti sia per la crescita economica, ma anche per lo sviluppo
sociale e culturale, basti pensare a come una parte significativa delle risorse finanziarie
disponibili fosse stata utilizzata per promuovere scienza, cultura, arte e bellezza.

Anche sotto questo aspetto, la diffusione delle istituzioni finanziarie tiene conto del peccato di
avaritia e del divieto di usura (prestito ad interesse), essendo fondamentale la funzione morale
della Chiesa, che a quel tempo svolgeva un ruolo abbastanza influente nell’affermazione della
cultura collettiva.
L’utilizzo di una moneta comune all’interno di uno Stato faceva capire la solidità economica, la
forza e il prestigio dello stesso, prestigio che per lo Stato italiano era iniziato già con l’utilizzo
degli aurei romani, anche nei mercati più lontani da Roma, soprattutto in India e nei territori
dell’attuale Cambogia. Le ultime due monete che invece dominarono i mercati dell’ultima fase
del medioevo e del Rinascimento sono il fiorino di Firenze e il ducato di Venezia, che
condividevano con le altre monete italiane quella che può essere considerata come
caratteristica principale: non solo hanno un valore intrinseco, ma sono anche esteticamente
molto belle, tanto che gli orafi italiani erano e sono i più richiesti al mondo.

Diventa importantissimo il sistema e il ruolo del cambiavalute, visto che ai tempi non esisteva
un rapporto costante tra una valuta e l’altra.

Le prime banche appartengono a grandi famiglie di mercanti finanziatori (vista la


corrispondenza tra la finanza e la mercanzia), tra cui i Bardi e i Peruzzi, che possiedono gli
istituti di credito più grandi di Europa, con sedi nei maggiori mercati finanziari, operando
all’epoca soprattutto nello scambio internazionale di materie prime. I banchieri qui arrivavano
ad intraprendere relazioni direttamente con i sovrani e a muoversi all’interno delle relazioni
politiche internazionali, e le società arrivavano a contare fino a centinaia di membri.

In questo periodo si afferma anche il mercato delle assicurazioni, che sostengono i traffici
commerciali e soprattutto i rischi presenti durante il carico delle navi, in relazioni a merci
perdute o ad attacchi subiti da pirati o predoni. Inoltre, in Italia diventano di uso comune la
cambiale e l’assegno, con cui si effettuano i pagamenti dei lavoratori impegnati a Firenze nel
settore delle costruzioni.

Avviene qui la nascita delle prime banche pubbliche e fondamentale il Banco di San Giorgio,
istituito dalla Repubblica di Genova nel 1407, banco che andò a determinare e decidere
riguardo la concessione dei prestiti alla Repubblica e gestendo la fiscalità e il debito pubblico,
esercitando così una forte influenza sulle decisioni politiche, militari e commerciali.ell

A livello di supremazia finanziaria italiana tra il Duecento e il Cinquecento vede l’alternarsi dei
territori e delle città di Siena, Firenze, Genova, Venezia e la Lombardia.

In ogni caso la presenza italiana e sui mercati dei secoli del medioevo e del Rinascimento va
considerata come assolutamente egemonica.

Per quanto riguarda il progresso culturale, questo si lega nella storia in particolare alla
diffusione dei libri e della stampa. È in particolare Venezia che, con i suoi stampatori e le
cartiere, che diventa la città di riferimento per la promozione della lettura e la capitale europea
dei libri; allo stesso modo, la diffusione nel mondo della lingua e della cultura italiana deve
moltissimo agli stampatori e editori veneziani del Rinascimento e al loro genio negli affari, vista
anche come la percentuale delle persone che sapevano leggere e scrivere fosse in Italia
fortemente maggiore rispetto la media europea.

Ciò che a Venezia poteva garantire le condizioni necessarie per far sì che il libro diventasse un
buon affare, si rintracciava soprattutto nella libertà di stampa e di espressione, ma anche sul
fatto che il Veneto e la sponda bresciana del lago di Garda fornivano l’energia idraulica
necessaria per muovere i mulini delle cartiere, in modo che Venezia divenne presto leader
della produzione della carta.

Ultimo tratto distintivo e più noto al mondo riguardo l’identità italiana è quello della cultura
gastronomica, facendo sì che si parli dell’Italia come la terra del cibo, soprattutto grazie a
diversi aspetti sedimentati nel corso di molti secoli: biodiversità del territorio, dove vengono
prodotti centinaia di prodotti; presenza di popolazioni ed etnie diverse; tecniche della
trasformazione dei cibi e delle bevande ed incontro continuo tra popolazioni italiane e
straniere.

Nonostante questi aspetti siano fondamentali, il vero fattore centrale è quello dell’arte
dell’incontro, rintracciabile nel fatto per cui la cucina è soprattutto un modo di riconoscersi ed
ha una funzione rilevante di scambio sociale, facendo sì che così si spieghi il tempo passato a
tavola dagli italiani, dove si affrontano questioni relative agli affari, dove si discute, e dove si
affrontano le decisioni di famiglia.

La diversità culturale delle varie cucine presenti in Italia porta ad affermare l’esistenza di tante
cucine regionali italiane, ognuna con un suo specifico carattere, piuttosto che di una unica
cucina nazionale, con la presenza di almeno una ventina di diverse cucine regionali, ognuna
con centinaia di pietanze tipiche.

Caratteristica tipica della cucina italiana è quella delle portate e della loro sequenza a tavola;
infatti, in tutte le famiglie durante le occasioni di festa e nelle famiglie più ricche il pasto si
consuma con diverse portate, con una sequenza che normalmente si apre con l’antipasto e si
conclude con i dolci.

L’arte culinaria si propone soprattutto come un’arte delle combinazioni e il gusto quindi altro
non è che la capacità di individuare la giusta relazione e l’equilibrio tra i sapori, che ad esempio
si vede con gli abbinamenti che si individuano tra vino e cibo, rapporto che nella cultura
italiana è fondamentale e che in genere viene assecondato dalla natura, proprio perché spesso
il cibo di un territorio si adatta bene ai vini della sua stessa provenienza.

Questa civiltà del cibo ha creato oggi una fiorente industria agroalimentare che va gestita
soprattutto con grande attenzione al rispetto dei requisiti di qualità e di rispetto alla tradizione,
soprattutto quando il controllo finanziario di queste aziende non è italiano.

La dieta mediterranea si propone così come il risultato della migliore combinazione di gusto,
sapore e benessere, rappresentando un antidoto a quella disastrosa bulimia consumistica che
è una delle peggiori conseguenze e abitudini della modernità a tavola.

11. Leon Battista Alberti e la santa masserizia.

Quando si parla di Rinascimento si fa inevitabilmente riferimento ad un periodo di creazione


progressiva di condizioni di benessere, che partendo dall’Italia si diffondono poi al resto del
mondo, realizzando così un’espansione economica che, in Italia, era affiancata da strumenti di
regolazione pubblica del mercato.

Nei Comuni e nelle Signorie si trovano ad esempio regole molto efficaci per garantire che dalla
crescita economica si realizzi una progressiva eguaglianza, con corrispondenti effetti positivi
sulle società. Vengono infatti introdotte norme che riducono l’eccesso di spesa privata per
attività quali le feste o i banchetti, assieme all’aumento di tasse sui beni di lusso. Gli effetti
furono tuttavia abbastanza limitati, ma ciò che importa era il significato attribuito alle leggi,
che si rintracciava nella propensione italiana del tempo a ricercare il bello, che si doveva
trovare in costante equilibrio con il bene.

Di forte interesse erano inoltre le norme a tutela della qualità dei prodotti, che cercavano la
regolamentazione delle attività manifatturiere, con le corporazioni artigianali che si andavano
a proporre direttamente alla protezione della qualità del prodotto stesso, nel tentativo di
salvaguardare la propria categoria. Allo stesso tempo, vengono prodotte regole per evitare che
le stesse corporazioni blocchino il mercato e/o l’accesso alle professioni, ad esempio
stabilendo l’impossibilità per alcuni mestieri nel crearle o l’impossibilità per ogni corporazione
di fissare norme per l’accesso alla professione o prezzi per i beni prodotti.

In questo periodo, fondamentale la figura di Leon Battista Alberti, umanista toscano che
pubblicò i quattro libri del De familia, al cui interno affronta i temi della famiglia,
dell’educazione, dei rapporti sociali e della gestione del patrimonio, fissando come principi
della cultura italiana sia il ruolo di riferimento della famiglia che della virtù personale.

Contrapponendo la virtù alla fortuna, Alberti stabilisce l’importanza dell’azione umana, l’unica
in grado di contrastare la cattiva sorte, facendo emergere nel cammino verso il benessere la
necessità di stabilire un forte equilibrio tra interesse privato e il ruolo della famiglia e della
comunità di appartenenza.

In materia di ricchezza, l’autore afferma invece che colui che non sa spendere inevitabilmente
diventerà un cittadino pericoloso, arrivando a parlare di santa masserizia, ossia la corretta
amministrazione dei propri beni, consistente nel non serbare le cose, ma usarle a bisogni (tra
cui le comodità per la propria famiglia e la reputazione sociale), e contrapponendo così il
concetto a quello di avaritia, l’accumulo di beni improduttivi e fine a sé stessi.

12. Utile e bello. La manifattura italiana nel Rinascimento e la nascita del design.

Fin dal Trecento Milano è stata considerata come una delle capitali del saper fare italiano e
luogo di innovazione e di sperimentazioni, dove venivano prodotti una vasta varietà di beni di
grande valore artistico e di qualità, e dove cioè si afferma l’arte del disegno.

Il disegno e il progetto iniziano ad elevare l’artigianato da arte applicata ad arte liberale in


quanto esprimono l’ideazione, e quell’azione che in particolare rendeva simili a Dio. A Milano
si diffonde così una grande energia creativa e produttiva, che porta i prodotti delle piccole
botteghe della Lombardia nei mercati di tutta Europa, dove ottengono grande successo.

Per alcuni prodotto si inizia a sviluppare il concetto di made in Italy, ma tutta la produzione in
generale si distingue per l’avere come aspetti di fondo il disegno e i vari materiali utilizzati.

Nasce la figura del battiloro, ossia quell’artigiano che realizza sottili lamine d’oro, utilizzi ad
esempio per impreziosire i tessuti, e la domanda del lavoro di questo particolare tipo di
artigiani comincia ad aumentare soprattutto a partire dal Quattrocento, a conferma del fatto
che si andava a ricercava sempre di più lo sfarzo e la ricchezza.

Milano diventa così la capitale dei battiloro, un’attività che rese lavoro ad almeno ventimila
persone e si basava principalmente sull’esportazione; difatti la produzione delle foglie d’oro si
legava all’arte della sete che costituiva uno dei principali settori tessili italiani, che occupava
centinaia di migliaia di addetti.

Quella dei battiloro era un’attività che prevedeva tra l’altro una forte presenza femminile,
essendo le donne le maestre più brave nell’arte della filatura della seta e dell’oro, e le vere
coordinatrici del lavoro.

L’Italia diventa in questi secoli così il principale centro occidentale di produzione dei tessuti e
una parte della domanda di questi beni proviene dalle corti signorili, dalla Chiesa, dai ceti
emergenti e da quella attenzione al bello e al benfatto presente in ogni ceto sociale.
A seguito dal boom dei settori tessili, gli abiti e gli ornamenti ricamati si diffondono in tutta la
penisola, insieme a botteghe, laboratori e imprese di confezionamento, tra i quali di
fondamentale importanza quelli di Milano, Firenze e Ferrara. Proprio a Firenze, Sandro
Botticelli e Antonio del Pollaiolo, due artisti rinascimentali, si dilettano come creatori di abiti,
anticipando la figura degli stilisti moderni. L’importanza del disegno rendeva infatti possibile
realizzare opere in pittura, in oro o sui tessuti, attraverso l’attività dello stesso atelier.

Quest’epoca che va dalla fine del medioevo all’età barocca non è soltanto un periodo di grande
crescita sociale e economica, ma anche un periodo di continue guerre e battaglie, dal
momento in cui l’espansione rinascimentale si avvia e si conclude con la guerra dei Cent’anni
di inizio Trecento e la guerra dei Trent’anni di inizio Seicento. In questi secoli, anche a causa
delle altre guerre non citate, iniziano a diffondersi le armi da fuoco e si crea una vera e propria
industria bellica, che trova il suo principale centro europeo nella Lombardia.

Le due principali città per la produzione armiera sono Milano, specializzata in armi da difesa e
offesa ed armi leggere, e Brescia, che diviene presto la città più importante per la produzione
di armi da fuoco. La produzione delle armi raggiunge uno dei più elevati livelli di equilibrio tra
l’accuratezza delle tecniche usate e la bellezza delle decorazioni e, da Milano e Brescia, le armi
arrivano fino in Spagna, in Francia, in Inghilterra e in Turchia, mentre i regni tedeschi
preferivano fornirsi dell’opera degli armaioli di Norimberga. L’organizzazione della metallurgia
poteva prevedere sia la presenza di artigiani autonomi, proprietaria della bottega e dei mezzi
di produzione, che una manifattura accentrata o decentrata (quindi o realizzata tutta nella
bottega del proprietario o realizzata da diverse botteghe satelliti). Si andava cioè ad anticipare
alcuni aspetti del capitalismo italiano moderno, ossia la vocazione produttiva territoriale e la
divisione in reti del distretto attraverso il coordinamento di più imprese con diverse
specializzazioni, prevedendo una notevole divisione del lavoro e un forte uso del contratto di
cottimo (salario riferito alla quantità di produzione lavorata), che di fatto andava a trasformare
l’artigiano in un lavoratore dipendente.

Un altro settore produttivo che ebbe origini antiche, ma che ancora oggi è una componente
importante del made in Italy è quello della lavorazione di utensili di metallo per cucinare e
mangiare. Nelle fonderie operavano diversi artigiani, ognuno con una propria specializzazione,
e spesso i maestri artigiani che vi lavoravano percepivano salari molto alti, soprattutto nel caso
di attività che richiedevano competenze tecniche abbastanza particolari, dal cui possesso o
meno si determinava appunto il salario corrisposto.

Ancora, di grande importanza per le attività produttive è il settore della lavorazione del vetro,
la cui industria si espande e assume una nuova funzione soprattutto a partire dalla diffusione
dell’utilizzo delle vetrate anche per le abitazioni civili e per le chiese. Inoltre, la realizzazione
del vetro cristallino permise il perfezionamento di due altre grandi invenzioni italiane, ossia gli
occhiali da sole e il cannocchiale.

Tutti questi settori permettono di capire come in Italia fosse sempre più vivo un mondo in cui
le tecniche dovevano essere necessariamente al servizio della bellezza e della conoscenza e in
cui è sentita la necessità che l’utile sia sempre unito al bello. È necessario cioè che il buon
funzionamento si accompagni alla qualità nei materiali usati e all’estetica nelle forme del
prodotto finale, per cui il Bene e il Bello devono stare necessariamente insieme.

13. L’ideale di stile e bellezza rinascimentale.


La bellezza può essere considerata come l’estrinsecazione di un ideale e di un pensiero, da
realizzare attraverso la tecnica. Il Rinascimento si configura così come quel periodo in cui gli
italiani tentano di dare forma a diversi pensieri ideali e questo processo di dare forma arriva a
definire uno stile ben preciso, fatto di luoghi, opere d’arte, modelli di comportamento e di
organizzazione politica e sociale. Difatti questa combinazione in Italia si verificò e fa sì che al
giorno d’oggi l’Italia è uno di quei pochi paesi al mondo che può vantare migliaia di borghi
costruiti non solo come insieme di abitazioni, ma anche per realizzare nella realtà un pensiero
o per sperimentare geometrie ideali ed esprimerle in luoghi ideali.

Allo stesso tempo si afferma anche un ideale di bellezza umana, che trova culmine nel corpo
femminile, rappresentata al massimo nella pittura italiana, soprattutto nel Rinascimento e nel
Barocco, dunque il periodo che va dal Quattrocento al Seicento.

I dipinti del Rinascimento e del Barocco mostrano comunque diverse forme di bellezza, che
riconducono tutte all’ideale di riferimento. È in particolare il periodo delle Veneri e di un’idea
che considera la bellezza non come armonia tra le parti, ma come strumento per riconoscere
nella natura e nella realtà l’ideale spirituale. Sul piano filosofico e spirituale, nel pensiero
neoplatonico diffuso in Italia, la bellezza è allo stesso livello del bene.

La bellezza e l’armonia devono, nel loro significato ontologico, attrarre la totalità


dell’individuo, la mente e il corpo, e provocare emozioni che muovano e commuovano tutti i
sensi.

14. Il gusto del paesaggio e dell’architettura tra Rinascimento e Barocco.

Una delle ricchezze più importanti che ancora oggi risiede in Italia e verso la quale purtroppo si
sente ancora poca consapevolezza, è quella del paesaggio e delle città. Difatti, i luoghi in Italia
sono stati indubbiamente pensati prima che realizzati, figli di un’idea e dell’immaginazione e
spesso ambienti ideali perché portatori di un’ideazione specifica che trova conferma a livello
estetico e trova conforme a livello emozionale.

C’è da dire che senza ombra di dubbio che il popolo italiano ha avuto la sorte di trovarci in un
territorio in cui risplende al cento per cento la bellezza della natura, che esprime per tutta la
penisola le sue più straordinarie manifestazioni. Questo fa sì che la creazione di bellezza
italiana viene intesa già come un dato di fatto, come qualcosa che si instaura su una base già
presente e come tentativo di trovare uno spazio adatto all’espressione umana che sia allo
stesso tempo conforme e coerente con l’espressione della Natura, dando così forma a un’idea
di architettura generativa.

Infatti, è quasi impossibile non notare l’importanza dell’architettura nella cultura italiana,
materia che trova al suo interno svariate altre discipline, tra cui la pittura, la scultura,
l’arredamento, il cinema e la musica, rispondendo tutte ad un’idea ed evoluendosi insieme alla
stessa. Questo vuol dire che in Italia, anche solo osservando un certo monumento o una certa
opera, riusciamo a capire in che periodo sono stati costruiti e la zona geografica in cui ci si
trova. Nella penisola cioè gli stili, le forme, le geometrie e le tecniche cambiano in
continuazione e essendo i simboli di mutamento, anche lo stile lo è, e allo stesso tempo è
possibile, nello stesso stile e nello stesso periodo, avere forme del tutto diverse, come per
esempio nelle chiese romantiche, che vanno ad affiancare la pianta longitudinale a quella
rotonda.
La città italiana va vista esattamente come se si stesse guardando un singolo edificio o
un’opera d’arte, definita e plasmata dalla storia, dai materiali e dai vari stili esistenti.

Ovviamente il punto di partenza è Roma, la cui stessa idea viene concepita come quella di un
bene comune, nei cui riguardi non basta una vita per poterne cogliere gli aspetti di fondo e
comprenderne l’eredità a noi lasciata. Le città italiane successiva dipenderanno e
confermeranno difatti proprio i principi di fondazione delle città romane, che si ripetono anche
delle più antiche ed importanti città dell’Europa occidentale, ma non solo; ciò riguarda anche i
borghi e le città, ciascuna delle quali possiede una propria identità, un proprio stile e una
propria conformazione estetica, sempre avendo alla base l’idea che la progettazione e
costruzione abbia come fine quello della ricerca del benessere e della felicità, dando forte
importanza alle relazioni sociali, attraverso la costruzione di molte piazze e spazi aperti.

Nell’età contemporanea si assiste tuttavia a delle logiche che vanno a mancare di rispetto ai
luoghi e alla loro funzione originaria, oggi conseguenza della prevalenza del consumismo e
della speculazione, che rischiano di mettere in pericolo sia la bellezza naturale del paesaggio
italiano che di compromettere quell’obiettivo originario di ricerca di benessere e felicità.
Dovrebbe essere di assoluta importanza fare in modo cioè che le città italiane, i borghi e le
città d’arte in primo luogo siano luoghi reali, che vivano insieme ai cittadini senza rischiare di
diventare meri prodotti destinati al commercio senza qualità.

L’architettura delle città italiane, oltre ad essere sempre una storia di idee e di pensiero,
avendo molto a che vedere con la dimensione politica della cultura, resta sempre portatrice di
un’energia creativa.

Fondamentale il Barocco, con cui sembra venir meno la ricerca dell’armonia esteriore e
prevale il movimento, fino ad arrivare ad un uso addirittura eccessivo delle decorazioni, e che
trova i suoi massimi esponenti in Caravaggio e Borromini.

La bellezza assume così un’altra delle sue funzioni fondamentali: il bello come strumento che
rende contemplabile il dolore e la disperazione, generando emozione e partecipazione e
comprensione e partecipazione, facendo comprendere così come sia possibile avvicinarsi al
dolore per capirlo e per sanarlo. Questo comportamento di comprensione del dolore è
presente e fondamentale anche nella pedagogia cattolica, dal momento in cui chi non
contempla il dolore rischia di non capirlo e infliggerlo conseguentemente agli altri.

L’idea barocca che dal Seicento definisce lo stile italiano fissa un nuovo ordine, sintesi di
tensione e movimento e vuole dare un’idea di potenza in atto, segno dei nuovi tempi, di crisi e
di passaggio, che preparano l’età moderna, attraverso un’espressione artistica forte, che lascia
un’impronta in Italia talmente forte ed evidente da permettere di capire le tensioni presenti
nella società.

15. La definizione dello stile italiano. Castiglione, Della Casa e gli altri autori.

È già stato affermato in precedenza che uno stile è un sistema complesso, fatto di forme e
atteggiamenti e in grado di esprimere un comportamento, ma anche un pensiero e un’idea, e a
volte con il termine stesso si indica il cosiddetto stile di vita, definito in particolare all’interno
del Cortegiano di Castiglione e del Galateo della Casa.

Nella prima di questa due opere, Castiglione, in forma di dialogo, si pone come obiettivo quello
di descrivere i modi ideali e lo stile necessario per poter esser un perfetto uomo di corte.
L’opera ottenne un successo straordinario e venne presa di riferimento dal re di Francia
Francesco I, che lo fece tradurre e lo considerò come ispirazione per la vita nella corte
francese. Il teso aveva comunque finalità ben precise nella mente dell’autore: si voleva cioè
dare delle indicazioni ben precise per affrontare al meglio la vita, assicurandosi serenità e
benessere, attraverso l’intelligenza emotiva che richiede cioè una capacità di comprendere
l’animo umano. Non si analizzano dunque i rapporti pubblici, tra le istituzioni o tra Nazioni, ma
le relazioni tra le persone, descrivendo così l’arte della conservazione e della convivialità,
soffermandosi su ciò che risulta fondamentale nella vita civile. Si ricorda l’importanza del non
avere atteggiamenti troppo astratti e filosofici, invitando ad un approccio esistenziale più
leggero, e che apprezzi la sua vita nei suoi aspetti più rilassati.

L’autore suggerisce inoltre di nascondere l’arte, nel senso di non dare evidenza, non esibire,
quasi dissimulando le proprie capacità, non mostrando l’eventuale sforzo fatto, non piacevole
da vedere. Deve quindi apparire l’eleganza, senza che traspaia la fatica. Questo concetto viene
definito con il termine sprezzatura, con cui si intende per l’appunto un’eleganza naturale, che
richiede un atteggiamento profondamente inciso nell’anima italiana e che vuole piacere senza
mostrare di voler piacere, obbiettivo che si ottiene solo guardandosi da fuori, con un certo
distacco e ironia.

Ciò che si comprende da questa indicazione è che la personalità si afferma nel mostrare un
atteggiamento esteriore sintomo di una serena consapevolezza interiore. Se la nostra azione
avviene senza fatica o senza eccessi questo vuol dire quindi che quanto facciamo ci appartiene
e proviene dalla nostra natura e che lo sappiamo governare e ben dirigere; altrimenti, bisogna
almeno cercare di non ostentare questo sforzo e far trasparire la propria tranquillità d’animo.

L’opera, dunque, riprende e sviluppa in modo molto interessante il principio della giusta
misura nel rapporto tra essere ed apparire, definendo come principio di riferimento quello
della naturalità e della disinvoltura, nella convinzione che ars est celare artem.

La seconda opera di grande importanza è quella del Galateo, di Giovanni della Casa, che risale
anche in questo caso alla metà del Cinquecento, e che costituisce uno dei testi più importanti
della letteratura italiana. L’idea qui è quella di un dialogo (nello stile platonico) in cui l’autore,
diplomatico e cortigiano, esprime valutazioni e indicazioni che provengono da un grande
esperienza di vita e di cultura. L’opera fornisce quindi regole di bon ton e consigli
sull’atteggiamento da tenere e sul modo di vestire e le indicazioni riguardano anche l’arte della
conversazione, evitando di parlare di sé e della propria famiglia con gli altri o di argomenti che
non siano graditi a chi partecipa alla conversazione. Difatti, per l’autore i cattivi costumi vanno
considerati come delle vere e proprie malattie e per questo è fondamentale insegnare la
buona educazione fin dalla tenera età, facendo sì che una volta uomini, le proprie azioni
vengano svolte non solo con nel senso di giustizia, ma anche fatte con eleganza.

Della Casa sa così che un vestito deve coprire, ma allo stesso tempo svela e dice molto delle
caratteristiche di chi lo indossa, motivo per cui il Galateo, richiede che vadano abbandonate le
pose e le eccentricità, adottando uno stile medio, conforme all’ambiente di cui si fa parte.

Un concetto chiave è quello di schifare la noia, evitando i fastidi e i problemi. Il consiglio


dell’autore per contrastare questo concetto è quello di agire con descrizione, attraverwso il
perseguimento della giusta misura e del piacere, ma senza eccedere in vanità e in quei rituali
cerimoniosi attribuiti al gusto spagnolo del tempo.
In questo modo, il manuale di stile di Della Casa diventa un vero e proprio riferimento per
comprendere non solo la cultura italiana, ma anche quell’attenzione al gusto e alla buona
educazione che erano ormai entrati a far parte della comune civiltà europea.

16. Dal Barocco all’età moderna. Dalla bellezza inquieta allo stile uniforme.

Il Seicento viene considerato per l’Occidente il secolo della grande transizione, in particolare la
transizione del passaggio all’età moderna e della lenta definizione di un nuovo ordine.

Viene considerato un secolo in cui viene meno l’egemonia politica ed economica italiana,
periodo al termine del quale si assiste ad un vero e proprio passaggio di testimone rispetto alla
cultura e alle arti tra l’Italia e la Francia.

In questo periodo viene ad affermarsi uno stile che vuole trasmettere un’idea di bellezza
inquieta ed energetica, e le forme e le geometrie diventano complesse, anche se la ricerca
dell’armonia rimane costante. L’uomo si trova non più al centro dell’Universo e questo
sentimento viene emerge nella rappresentazione artistica della malinconia, dello stordimento,
dell’immaginazione e della ricerca del nuovo. Si afferma un atteggiamento estetico che vuole
quindi mostrare la tensione verso l’assoluto, ma anche la dimensione del sogno e della
fantasia. Si sostituiscono ai colori accesi del Rinascimento quelli che tendono alle gradazioni
del grigio, del nero, del bianco e di colori tenui.

Il pensiero illuministico fa qui propria la grande consapevolezza per cui deve essere necessario
legare l’etica e l’estetica e connettere profondamente il Bene e il Bello, e ciò che è giusto e ciò
che è spirituale. In questo ambito lo stile francese è in perfetta continuità culturale con quello
italiano, e rappresenta un pensiero e un atteggiamento che hanno solide radici comuni. Dopo
l’egemonia culturale italiana si propone dunque quella francese, che finisce tuttavia con la fine
del periodo di Napoleone.

L’Ottocento e il Novecento rappresentano successivamente i secoli dell’affermarsi della


Rivoluzione industriale e del modello economico culturale angloamericano, che influenza il
costume e la moda, affermando uno stile sicuramente diverso dal precedente.
Nell’abbigliamento lo stile angloamericano si distingue per uniformità e praticità, rompendo
soprattutto con la tradizione continentale, italiana e francese.

Con l’avvento dell’industrializzazione di massa e delle grandi produzioni cotonieri inglese


cambia anche il modo di vestire degli uomini, definendosi, sulla spinta della cultura inglese, un
cosiddetto non stile, composto da un tre pezzi (pantalone, giacca e gilet), a volte
accompagnato da un cappello. La moda così a fine Settecento diventa industria e si afferma la
produzione di massa e l’abito pronto, soprattutto dopo l’invenzione nel 1769 del filatoio ad
acqua. Tuttavia, proprio la possibilità di aumentare la quantità delle produzioni porta di
conseguenza ad una minore cura rispetto la qualità della materia prima e soprattutto
all’affermazione di uno stile comune e non personalizzato. L’uomo rinuncia così alla moda
come espressione del gusto personale e prende il via una fase storica in cui la
personalizzazione delle scelte, del gusto e dell’espressione di sé trova forti limiti e resistenti in
quelli che sono i modelli politici e culturali prevalenti.

A questo fenomeno di massa di rinuncia alla personalità e alla dimensione estetica si opposero
alcune persone, come avvenne con il fenomeno del dandismo, che non si afferma come una
scelta di eccentricità nel vestiario, ma al contrario per affermare un diritto al gusto, alla
possibilità di scelta e di personale eleganza, pur nel riferirsi sempre alla sobrietà.
Considerando fondamentale il fenomeno del cambiamento, alcuni dei maggiori esponenti della
sociologia del secolo scorso, tra cui Weber, Simmel e Sombart, tentano di spiegare quei
mutamenti nell’atteggiamento e nelle scelte che, a partire dall’Ottocento, hanno definito
quell’uomo di massa, prodotto del modello economico-sociale passato e costituisce il
paradigma dell’uomo moderno.

Sombart, in quest’analisi, tenta di dimostrare come la storia economica si divida in due fasi,
caratterizzate da stili differenti:

 La prima fase vede l’egemonia prima italiana, poi francese, con una diffusione per il
gusto estetico e la ricerca di forme distinte e colte;
 La seconda, avviata dalla Rivoluzione industriale anglo-tedesca e imposta dal modello
statunitense nell’Occidente a partire dal secolo scorso, vede l’affermazione della
società borghese, con un consumo privo di stile. Ciò secondo Sombart avviene a causa
dell’affermazione per l’appunto di questa nuova classe sociale, che non è più dotata di
gusto e di capacità di giudizio indipente.

Ciò fa sì che già dall’Ottocento si avvii il consumo di massa che rende la moda non più uno
strumento per affermare il proprio stile personale, ma come vera e propria strategia
commerciale dell’industria a scopo di lucro, che richieda cioè prodotti uniformi, destinati a
consumatori anch’essi uniformi, privi di stile o di gusto personale.

La fase successiva, quella di matrice inglese, tedesca e americana, fa invece leva sulla
spinta all’omologazione degli individui, più adatta a quelle logiche che regolano
l’economia di massa e i bisogni del capitalismo industriale. Sombart studia quindi già
all’inizio del secolo scorso quello che sarebbe stato il fenomeno di riferimento dei secoli
successivi, ossia l’affermazione di un modello economico e sociale basato sulla
standardizzazione dei bisogni, che a sua volta trova nella moda il suo riferimento estetico;
con l’emergere della moda come fenomeno industriale viene cioè a ridursi lo spazio della
costruzione del sé, nella relazione tra essere e apparire.

Questo passaggio rappresentò per molti, un vero e proprio cambio di scena, destinato a
durare fino all’attualità, sicuramente alimentato dal fenomeno della globalizzazione.

I primi decenni del secolo scorso accompagnano l’affermazione del capitalismo industriale
e dell’economia di massa con la crescita di una borghesia che fa propri i valori del senso
pratico, della comodità, dell’organizzazione, dell’uniformazione del gusto e della grande
produzione in serie. Nell’area del vestiario, è solo a partire dagli anni Sessanta del secolo
scorso (soprattutto nel mondo giovanile) che riappare un’idea di moda che riafferma
fortemente la propria personalità, specie in quella relazione tra moda giovanile e spirito di
ribellione, ben presto però normalizzata dalla dimensione industriale dei consumi
generazionali, facendo così che il ribellismo giovanile produca a sua volta comportamenti,
oggetti ed abbigliamenti facilmente standardizzati.

Quest’affermazione dell’utilitarismo pratico e del materialismo consumistico, di matrice


angloamericana, si accompagna alla fondamentale conseguenza per cui si verifica
l’abbandono della bellezza per la mera utilità nella moda, collegata alla mancata
comprensione del senso intrinseco del rapporto tra il Bene e il Bello.

Con la Rivoluzione industriale e con l’epoca fordista perdono importanza due principi
fondamentali dello stile italiano ed europeo che si erano affermati nel Rinascimento (e che
si erano comunque affievoliti durante l’età barocca), ossia il piacere e la bellezza da
considerare come esperienze collettive, e la necessità di affermare il benessere comune.

Nasce la borghesia moderna, che fa del denaro (non della cultura) la forma principale di
distinzione e per la quale i poveri, principalmente visti come persone da aiutare, sono ora
considerate come simbolo del peccato e della colpa. Il valore non viene più percepito come
atto generativo, ma vale in sé e si misura esclusivamente per il suo risultato economico che
reca al lavoratore, e si afferma dunque una cultura che vede la ricchezza come l’obiettivo
di riferimento, considerando il debito come la massima espressione della colpa.

Nella cultura di matrice protestante la bellezza può invece diventare qualcosa da cui
diffidare, motivo per cui gli edifici religiosi protestanti sono spesso spogli e disadorni, e per
cui esistevano nelle culture spesso forme estreme dell’ideologia puritana.

In molti ceti sociali, intrisi di puritanesimo protestante, si sostiene una natura quasi
deviante dello stile personale, come se fosse un segnale di allarme da cui la comunità si
deve difendere.

Nel secolo scorso lo stile personale si va a definire come un fattore distintivo di interi
gruppi sociali e alcune caratteristiche vengono esaltate per segnalare la propria distanza
dal gruppo sociale prevalente, soprattutto a livello giovanile. Si suppone che l’adulto, per
appartenere alla sfera pubblica, debba vestire una sorte di uniforme convenzionale e non
ostentare gusti troppo personali, e ciò passò dal secondo dopoguerra ad essere previsto
anche per il lato della donna, definendosi così anche uno standard femminile, che
richiedeva quantomeno a lavoro l’adozione di un atteggiamento e di abiti che non
esprimano troppa femminilità.

La prima metà del Novecento costruisce invece un’estetica di riferimento nella progressiva
affermazione in Europa dei regimi dittatoriali, con l’omologazione del pensiero che
definisce un’estetica prevalente in modo tale che in molti paesi governati da dittature
l’abito più elegante è quello dell’uniforme militare, rispondendo a quel concetto espresso
da Simmel per cui la moda ha la funzione di fare società, e va considerata quindi nel suo
lato politico.

A questa logica del consumo di massa si contrappone negli ultimi tempi l’aspirazione a uno
stile che richiami creatività e libertà di scelta, con una riscoperta del valore intrinseco dei
materiali e della sartorialità su misura. Questo cambiamento è stato promosso soprattutto
dagli stilisti italiani e francesi nel dopoguerra, e va visto in particolare come l’espressione di
un atteggiamento e di una cultura più complessiva, che ritrova le sue tracce
nell’umanesimo. Lo stile postmoderno può accompagnare sintomo di un allentamento
della logica del controllo e del consumo di massa.

Lo stile post-moderno sembra quindi accompagnare un’estensione della democrazia ed


essere sintomo di un allontanamento dalla cultura di massa e dalla logica del controllo,
trattandosi tuttavia di un qualcosa che ancora fatica a prevalere nell’Occidente, che resta
spesso in difficoltà nel contrastare quegli ideali economico-politici affermatisi nel secolo
scorso.

1.2. L’affermazione del Made in Italy ed il valore economico del senso del bello.

Il secondo dopoguerra ha portato senza dubbi quasi ovunque in Occidente una forte
crescita economica, in particolare proprio in Italia, Germania e Giappone, ossia i tre paesi
che, nonostante fossero usciti sconfitti dalla Seconda guerra mondiale, diventeranno poi, a
partire dagli anni Cinquanta, le tre nazioni guida della fase di espansione economica che
accompagna l’Occidente, sino alla crisi petrolifera degli anni Settanta.

Per quanto riguarda l’economia italiana del dopoguerra, questa risultava dotata di
caratteristiche proprie e di importanti aziende pubbliche, che erano capaci di dialogare e
operare nel tentativo di realizzazione di una società complessa e con forti aspirazioni
all’autonomia. Difatti, tra gli anni Cinquanta e Settanta l’Italia divenne il quinto paese al
mondo per produzione manifatturiera, ma contemporaneamente le aspirazioni italiane
vengono limitate da scelte internazionali, come quelle sul terreno dell’energia e della
tecnologia, indebolendo così il tessuto produttivo del Paese che si stava affermando
proprio in quel momento.

La crescita italiana e la rispettiva produzione si lega all’affermazione di uno stile che


definisce la sua manifattura in un modo molto distintivo, facendo sì che il Belpaese si
distaccasse dal resto delle nazioni. Negli anni dell’egemonia delle produzioni di massa e del
fordismo come modello occidentale prevalente, l’economia italiana continuava a
distinguersi per caratteristiche proprie, che spesso avevano poco a che fare con il modello
dominante in Occidente, ma che allo stesso tempo miravano a raggiungere standard
assolutamente alti a livello di qualità, design e risultato estetico.

Quando si verificò la crisi energetica degli anni Settanta, assieme al ridimensionamento


delle logiche dell’economia di massa, l’Italia ha potuto reagire affermando le proprie
vocazioni produttive territoriali, le reti delle storiche piccole imprese e il valore
dell’artigianato di qualità. Questa nuova aggregazione economica è stata trainata dai
distretti produttivi del Made in Italy, quei settori più capaci di esprimere quell’operosità e
lo stile italiano che al giorno d’oggi si sono affermati nel mondo come sinonimo di qualità.

Nell’economia italiana del post-guerra si hanno quindi due fasi: una prima che termina alla
fine degli anni Settanta e che vede il prevalere della grande produzione industriale
(analogamente a quanto accadeva nel resto dell’Occidente), una seconda, che termina con
la crisi del 2008, dove prevalgono invece i sistemi di piccola impresa e i servizi.
Attualmente si ha la cosiddetta Quarta Rivoluzione Industriale, che sta rappresentando per
l’Italia un’occasione importante per riaffermare le potenzialità del proprio stile non più
solo in prospettiva economica, ma anche in quella culturale e politica.

Il made in Italy ha quindi portato nel tempo l’affermazione di un vero e proprio marchio
globale, che va a riguardare diversi aspetti, tra cui i luoghi, le forme, e i contenuti della
produzione, distinguendone i tratti distintivi.

Per quanto riguarda i luoghi si fa qui riferimento al fatto per cui le diverse attività
produttive si legano, in linea di massima, a contesti territoriali specifici, facendo sì che
molti aspetti delle produzioni siano diretta espressione dei saperi che si sono sviluppati in
certi territori, dimostrando una continuità evolutiva tra le attività antiche con le attuali.

Inoltre, con un territorio così fortemente diversificato si è realizzata una moltitudine di


competenze e tradizioni che si riflette sul lato delle varie produzioni realizzate,
dall’agricoltura, all’artigianato e a tutte le produzioni manifatturieri, che al giorno d’oggi
sono vincenti sul mercato internazionale.
Proprio questo saper fare ha poi permesso che la storia economia italiana costituisca un
importante riferimento, sia dal lato della promozione e vendita sul mercato dei prodotti
made in Italy, che sulla necessaria resilienza che le fasi di crisi impongono ai sistemi
economici.

Per capire al meglio l’aspetto legato alle varie produzioni e la relazione con determinate
zone del territorio, bisogna innanzitutto comprendere cosa sia un territorio nel sistema
italiano. Il concetto ha un’importanza fondamentale, essendo risalente ai Latini che, oltre
ad aver affermato il concetto di personalità, avevano fatto riferimento alla possibilità di
cogliere la personalità dei luoghi proprio all’interno dei territori; questi non erano
considerati come meri luoghi geografici, ma come ambienti creati dagli uomini e plasmati
dai saperi, dalle aspirazioni, dalle attività e dalle relazioni delle comunità che ci vivono.

Le aree dell’economia italiana meno legate alle vocazioni territoriali e le iniziative


produttive che si sono proprio realizzate al di fuori di esse hanno difatti sperimentato una
maggiore esposizione alla concorrenza internazionale, ma anche maggiore difficoltà
nell’organizzazione delle proprie attività produttive, motivo per cui si sono trovate
obbligate a richiedere interventi esogeni di promozione dello sviluppo tramite investimenti
e risorse esterne. Al contrario, i prodotti made in Italy più radicati all’interno dei sistemi
locali che erano i più esportati e che meno risentivano della rivoluzione industriale, proprio
perché non vi era tecnologia che sapesse riprodurre il saper fare manuale caratteristico
dello stile italiano, ricchezza insostituibile e che l’Italia deve promuovere e saper custodire,
in quanto patrimonio dell’umanità.

Secondo concetto fondamentale è quello per cui la natura, i modi e le forme delle
produzioni e dei servizi del Made in Italy implicano un forte legame con la società e
l’ambiente circostante, di cui costituiscono un’emanazione. Ciò significa che esiste nel
modello economico italiano una relazione necessaria tra produzione e benessere e tra
economia e società, che mette in relazione le scelte dell’economia con quelle della politica,
e che tende a favorire l’aggregazione tra persone e gruppi per la realizzazione di iniziative
economiche che promuovono la specializzazione produttiva.

Questo fa sì che nei sistemi locali del made in Italy le infrastrutture, le tecnologie e le
innovazioni siano sì importanti, ma vano allo stesso tempo necessariamente collegate al
ruolo delle competenze, all’organizzazione, alle relazioni sociali e alle caratteristiche
specifiche dei vari territori. Difatti, alla base della dimensione locale dello sviluppo italiano
troviamo: condizioni naturali; infrastrutture produttive; competenze dei lavoratori;
funzionamento dell’intervento pubblico e della democrazia territoriale. (…..)

Una delle caratteristiche del sistema economico italiano è inoltre la varietà dei prodotti,
cosa che si nota anche solo considerando l’interscambio commerciale e il valore sui
mercati dell’export italiano: da un lato ci si rende conto di come il Made in Italy sia
caratterizzato da una grande varietà e da una riconosciuta qualità, sia da una forte
capacità di penetrazione sui mercati internazionali, fattore che ha permesso la tenuta
dell’economia italiana durante gli anni della crisi dal 2008 al 2014 e il progressivo
miglioramento avviato nel periodo successivo al 2015.

I grandiosi risultati raggiunti dall’Italia in questo senso sono stati resi possibili dagli
investimenti in creatività, che sono necessari per accrescere il valore simbolico delle
produzioni, e dagli investimenti in innovazioni, trasversali a tutti i settori dell’economia
nazionale.
Inoltre, bisogna considerare il fatto che una gran parte dei prodotti italiani si collocano al
vertice delle vendite sul mercato globale e il buon posizionamento dell’Italia nell’ambito
degli interscambi internazionali è confermato anche dall’Indice delle eccellenze
competitive nel commercio internazionale (fondazione Edison), secondo cui, su un totale
dei principali 5000 prodotti presenti sul mercato internazionale, l’Italia figura prima in circa
200 prodotti, seconda in 350, terza in 300.

Ciò che risulta fondamentale in realtà è il fatto che la forza del made in Italy risiede
principalmente nell’elevata diversificazione delle sue specializzazioni, passando dagli
alimentari-vini, all’abbigliamento-moda, all’arredo-casa e all’automazione-meccanica-
gomma-plastica (i cosiddetti macrosettori delle 4A). Le protagoniste di questo successo
sono le imprese medio-grandi, medie e piccole, che permettono all’Italia di competere con
paesi che possono schierare molti più gruppi di dimensioni ben maggiori e di rilievo
multinazionali ma che, alla fine dei conti, non possiedono la capacità delle imprese italiane
di essere flessibili e operative in centinaia di prodotti, rendendo così vincente il Made in
Italy.

2. L’economia a sovranità limitata.

Una caratteristica inconfutabile del popolo italiano è sicuramente quella relativa alla
capacità inventiva e creativa; difatti, la mancanza di materie prime altro non ha fatto che
contribuire ad attivare l’ingegno degli italiani, permettendo di diffondere conoscenze in
tutta la penisola.

Il carattere inventivo degli italiani ha dovuto tuttavia sempre scontrarsi con il sostegno
della politica e dell’economia, che in particolare nel Novecento non è stato
particolarmente attento al sostegno all’evoluzione della capacità italiana nel campo delle
tecnologie e dell’innovazione, e si può notare come, ancora oggi, sia le imprese italiane che
il sistema pubblico investano meno del dovuto in ricerca ed innovazione, non dando cioè al
settore la giusta importanza che merita.

Tuttavia, si verificò nel post-guerra una forte spinta all’innovazione e il cosiddetto miracolo
italiano, che ebbe a che vedere in particolare con l’investimento nel sistema scolastico,
formativo e nella ricerca, e con l’autonomia energetica e tecnologica, non può essere
spiegato con l’elemento sociale della spinta italiana a risollevarsi dopo la guerra o con gli
aiuti finanziari del piano Marshall, ma soprattutto con un processo di modernizzazione,
che si basava sull’accessi alla conoscenza, portando l’Italia ad assumere una grande
autonomia nei campi dell’energia e della tecnologia, che però verrà meno a partire dagli
anni Settanta.

Questo progressivo indebolimento dell’autonomia italiana si verificò innanzitutto a causa


di forti condizionamenti internazionali che il Paese soffri durante la guerra fredda e che
andarono ad influenzare le caratteristiche del proprio sviluppo.

Inoltre, la crescita avviene in un contesto storico molto chiaro, ossia quello della divisione
del mondo in due blocchi contrapposti (USA-URSS), cui spettava decidere le sorti della
politica ed influenzare le condizioni economiche e sociali dei paesi di riferimento, e per
l’Italia la situazione di libertà vigilata sperimentata si verifica ancor di più in quanto si
tratta di un paese sconfitto, posto per lo più a confine con il blocco sovietico.
Tre casi in particolare sono stati di grande importanza nella definizione dell’economia e
della società italiana nel post-guerra:

 Il caso Eni. Nel dopoguerra personaggio fondamentale è stato Enrico Mattei,


giovane industriale e partigiano democratico, uno dei protagonisti della lotta
antifascista. Mattei è uno dei padri fondatori della Repubblica e nel 1947 riceve da
De Gasperi l’incarico di commissario liquidatore dell’Agip, quell’azienda petrolifera
pubblica creata durante il fascismo.
Durante gli anni Mattei la trasforma in un’impresa moderna organizzata, e crea
l’Eni, Ente nazionale idrocarburi, trasformandosi da imprenditore a politico: il suo
obiettivo non è qui quello di rendere soltanto autonoma l’economia italiana dal
pdv delle risorse energetiche, ma di espandersi a livello internazionale, a partire da
una politica espansiva nei paesi arabi. Successivamente Mattei avvia relazioni di
interesse con il governo sovietico, rompendo l’embargo commerciale con l’Urss,
arrivando ad operare anche nella Cina comunista e definendo un importante
accorso con l’Iran. Alla fine degli anni Cinquanta, grazie proprio alle sue azioni,
L’Italia è al primo posto al mondo per impianti e al terzo per capacità di
raffinazioni.
Con il passare del tempo Mattei diventa però un problema, vista anche la sua
dichiarazione fatta al New York Times, dove sostiene di non essere favorevole al
ruolo della NATO e di supportare un’Italia neutrale nella scena politica
internazionale. Il primo così che arrivò a denunciare l’imprenditore fu Indro
Montanelli, firmando nel 1962 sul Corriere della Sera una serie di articoli in cui
denuncia l’autonomia di Mattei rispetto alle indicazioni della politica e la sua
capacità di tenere relazioni anche con il governo sovietico.
L’azione di Mattei (che agiva per rafforzare contemporaneamente la crescita
economica e il benessere del paese, e che fu soggetta di varie minacce di morte, fu
determinante per la modernizzazione dell’economia italiana. Con la sua morte l’Eni
viene normalizzata ed arriva ad essere una delle maggiori aziende internazionali
italiani che, nei paesi produttori e fornitori di energia costituisce un elemento
dell’autonomia italiana nel panorama mondiale.
 La fisica. Anche la fisica nucleare deve molto all’Italia e al periodo post-guerra,
periodo nel quale venne riorganizzata da Edoardo Amaldi (uno dei maggiori
protagonisti della scuola id via Panispera), che lavora con altri scienziati al primo
reattore nucleare italiano. Viene a crearsi un centro di ricerca dove collaborano
molte aziende italiane del settore manifatturiero e dell’energia e grazie ad Arnaldi
l’Italia diventa uno dei primi paesi nel sostegno dell’autonomia europea nel
nucleare e nel 1953 l’Istituto nazionale di fisica nucleare decide che l’Italia doceca
diventare una potenza nucleare e creare un suo acceleratore di particelle e viene
promosso il ruolo del Cnrn, Centro nazionale per le ricerche nucleari, che diventa
poi Cnen, Comitato nazionale per l’energia nucleare.
L’obiettivo principale era qui quello di avvicinare l’Italia agli investimenti nel
settore promossi da USA, Inghilterra e Francia e nel 1962 avvenne la
nazionalizzazione dell’energia elettrica, che diede via alla strategia italiana per il
nucleare e la creazione delle prima centrali. In poco tempo l’Italia diventa così la
terza potenza nucleare occidentale ed inizia ad utilizzare la potenza
elettronucleare, che diventa una componente importante per il settore energetico.
Tuttavia, anche l’autonomia italiana del nucleare viene ridimensionata e all’interno
dell’Enel nascono polemiche contro il ruolo del nucleare e contro il suo maggior
promotore, il professore Ipppolito, che finirà in arresto nel 1964 e condannato
successivamente a undici anni. Il suo maggior accusatore, Saragat, divenuto
Presidente della Repubblica, gli concederà poi la grazia, ma nel frattempo l’Enel
decise di ridimensionare gli investimenti e il ruolo del sistema pubblico nucleare.
Ippolito, allo stesso modo di Mattei, ha il merito di aver compreso come il Made in
Italy,, le produzioni ed i brevetti avessero bisogno di una maggiore autonomia
energetica e tecnologica, anche se il tutto non venne sostenuto dalla politica di
una nazione a sovranità limitata.
 Il caso Olivetti. Camillo Olivetti e la sua azienda, la Olivetti di Ivrea (una delle
aziende europee informatiche più innovative e dinamiche), crea nel 1991 la prima
macchina a scrivere italiana, con quella combinazione tra funzionalità ed estetica
che rappresenta al meglio lo stile italiano. Il modello M-20 conquista i mercati
mondiali e in breve la Olivetti diventa una multinazionale presente in ventidue
paesi, e nel 1940 lancia il primo calcolatore meccanico, facendo sì che l’azienda
diventi una realtà leader del settore.
Di fronte alla logica dominante della contrapposizione ideologica tra capitalismo e
socialismo, l’ingegner Olivetti propone un modello di società diverso, basato su
alcuni elementi di fondo della democrazia italiana e dell’umanesimo, tra cui
democrazia reale, partecipazione, comunità, competenze e bellezza, attraverso i
quali dirige la sua azienda. In pochi anni vengono inaugurate sedi basate su
migliori idee di spazio e vengono sperimentate forme di partecipazione e di
autorganizzazione dei lavoratori in anticipo di almeno cinquant’anni rispetto ai
modelli più avanzati di welfare e organizzazione aziendale.
Ben presto anche Olivetti diventa un italiano scomodo, vista la sua azienda non
come semplice luogo di produzione, ma soprattutto di socializzazione e
formazione.
L’azienda diventa presto leader mondiale delle macchine da scrivere meccaniche,
ma Olivetti ha ben chiara la necessità di sviluppare le proprie attività nel settore
dell’elettronica e della nascente informatica, motivo per cui crea il Centro studi ed
esperienza, un centro di ricerca ad Ivrea.
In pochi anni il suo laboratorio si riempie di giovani laureati e dei migliori talenti
dell’area informatica del mondo e viene progettato il primo mega-calcolatore
elettronico italiano. Dopo essere entrata così con forza nel settore dell’elettronica
e dell’informatica, nel 1957 Olivetti fonda la Sgs, Società generale semiconduttori,
la prima industria europea che progetta e costruisce circuiti integrati.
Fondamentale l’invenzione della Elea 9003, il primo calcolatore a transistor
commerciale della storia, ben funzionante e con un design innovativo, capace di
operare in multiprogrammazione, e dunque capace di svolgere calcoli in parallelo,
avendo una unità di calcolo centrare in grado di elaborare centomila istruzioni al
secondo.
Grazie alla sua invenzione l’Italia viene considerata il primo paese al mondo
produttore di computer per finalità industriali e la Olivetti diventa un’azienda
italiana, che sviluppa tecnologia così avanzata al punto di pensare di voler entrare
nel mercato USA.

3. Genius loci e Made in Italy: cultura locale e vocazioni produttive.


Il made in Italy può essere considerato dunque il risultato di un processo, di una
storia, e come tale va compreso per le sue caratteristiche di fondo, che
permettono cioè di cogliere gli aspetti determinanti nella sua formazione, tra cui il
genius loci, che si è trasferito nello stile e nelle forme di produzioni italiane.
Decenni di economia industriale basata sulle produzioni di massa di beni e di beni
con scarso valore aggiunto e facilmente riproducibili hanno fatto spesso pensare
che tutto sia realizzabile ovunque e in qualsiasi condizione. Tuttavia, la prima crisi
dell’economia italiana mondiale (dopo la crisi energetica della metà degli anni 70)
ha ridimensionato questa convinzione e le politiche conseguenti.
Gran parte della ripresa italiana ha quindi puntato sul valore aggiunto presente nel
territorio, spesso attraverso l’innovazione di capacità, di tradizioni e di saperi
collettivi secolari.
Il fenomeno di riscoperta della distinzione e dell’eccellenza nei prodotti e nei
servizi riporta i luoghi e le diversità al centro dell’economia e della politica e
costituisce una grande opportunità, soprattutto per paesi come l’Italia, trattandosi
di un fenomeno di rilievo in quanto l’aspetto del cambiamento culturale precede
quello economico e costituisce un segnale in controtendenza rispetto alle forme
liquide della realtà contemporanea. È proprio lo stile che si afferma a fissare la
stabilità del valore.
In un quadro simile diventa interessante provare a capire se attualmente si possa
ancora parlare di genius loci e cioè se esista un fattore distintivo, un genius loci per
l’economia italiana ed europea, che sia in grado di rispondere alle sfide globali
riaffermando il valore delle vocazioni territoriali.
Il concetto latino di genius loci accompagna da sempre molte vicende della storia
italiana ed europea e può essere definito come il sistema dei significati che è
presente in un luogo. È uno spirito del territorio che riguarda le forze naturali,
l’ambiente, il linguaggio e la cultura e che si possa dire costituisca quell’energia
generativa che è data dall’incontro tra gli uomini e l’ambiente in cui vivono.
Per il caso italiano, se risulta indubbia la presenza nel territorio di centinaia di
luoghi con una forte identità storico-culturale, viene di conseguenza che non sia
semplice ricondurre l’Italia ad un unico genius loci di riferimento, proprio a causa
della grande diversità delle forme di espressoine dei suoi territori e delle anime
che la compongono e la definiscono.
Una dimensione tipica e condivisa attraverso cui si afferma il carattere e lo spirito
di un luogo, è quella dell’architettura, ed è proprio l’originalità e la riconoscibilità
italiana che è data dall’enorme rilevanza dell’esteitca e delle forme
architettoniche.
Tuttavia, anche in questo caso la situazione non è sicuramente semplice, a causa
proprio della grande diversità delle forme di espressione architettonica, derivanti
dalla contaminazione di migliaia e migliaia di anni di storia, facendo sì che ogni
città o borgo italiano sia del tutto originare e in grado di interpretare in modo
diverso ogni singolo stile. Difatti, la definizione del genio italico si propone oggi in
quasi novecento diversi prodotti collocati al vertice dell’esportazione mondiale,
tutti definiti dallo stello elemento comunitario dello spirito italiano, che permette
di ottenere tanti risultati, ossia la convivialità, aspetto distintivo ed essenziale del
genius loci italiano.
Senza dubbio, infatti, sin dall’origine è l’elemento essenziale a determinare in Italia
i risultati economici e l’aspetto di fondo dello stile italiano è dato quindi dalla
prevalenza, dalla relazione, dall’aggregazione e dalla consapevolezza che il
benessere è in primo luogo il risultato di una comunità operosa.
Questa dimensione comunitaria, avviata nei municipia romani ed elevata a sistema
sociale nelle città e nei borghi medievali, è rilevante da tutti i punti
dell’osservazione: l’Italia difatti produce soprattutto beni da consumare insieme,
quali il cibo e il vino, o beni destinati all’incontro, quali l’abbigliamento o
l’arredamento, e i suoi spazi sono segnati dalla prevalenza dei luoghi di incontro,
con le città italiane nate e costruite attraverso la presenza e il ruolo delle piazze. Il
tratto comunitario dello spirito italiano è quindi l’elemento di fondo del rapporto
tra persone e territorio, tra uomini e luoghi, ed è all’origine di un altro elemento
distintivo dello stile italiano, ossia quello per cui è necessario che il bello sia
accessibile e che questo abbia un carattere pubblico e popolare.
Il fatto che le città italiane siano musei a cielo aperto deriva proprio da questa
funzione attribuita alla bellezza: i luoghi in cui si manifesta il genius devono
evidentemente esprimere armonia e mostrare la bellezza nel suo significato
collettivo e comunitario, accessibile e comprensibile per tutti.
L’Italia risulta così un museo a cielo aperto proprio perché la dimensione originaria
della bellezza italiana risulta in antitesi con la stessa idea di museo e di tutti i luoghi
chiusi, in cui le opere sono protette e in cui si perde l’originaria funzione spirituale
e politica della creazione artistica, quella pienamente pubblica e che invece è
determinante nella concezione estetica del carattere e dello spirito dei luoghi
italiani.

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