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ARTE IN EUROPA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO

Gabriel Albert Aurier, Scritti d'arte 1889 – 1892


1) Tusini
GABRIEL ALBERT AURIER E LA DIVINITÀ DELL’ARTISTA
Il testo che segue, "Essai sur une nouvelle méthode de critique" (Saggio su un nuovo metodo di critica 1892), è senza
dubbio il più corposo tra i contributi di Aurier qui riuniti per definire le caratteristiche e gli attori del simbolismo nelle
arti figurative. Pubblicato incompiuto nel 1892 nel Mercure de France, anno della morte, con un titolo che ne
prevedeva evidentemente ulteriori sviluppi (Préface pour un livre de critique d’art), non si tratta propriamente di un
manifesto (quale ad esempio quello di Alphonse Germain, Du symbolisme dans la peinture, 1890 o del più celebre
Manifeste du Symbolisme di Jean Moréas) ma di un testo dalla infiammata polemica, che si concentra sulla
contestazione delle teorie estetiche che il metodo critico generato dal positivismo definiva tassonomico-
comparativo. Aurier mostra chiaramente come ci sia un fronte comune dove riunire le forze e combattere, al di là
dell’indubbia varietà delle poetiche letterarie artistiche che dibattevano in Francia a fine Ottocento sulle agguerrite
riviste, pur nella consapevolezza che nelle teorie e prassi legate al Simbolismo l’esperienza individuale diventa ethos
collettivo, vedendo quindi prevalere valori generalizzanti, plurali e ideali, lontani da ogni ordine analitico. Si tratta di
una battaglia non più procrastinabile, dove c'è in gioco il destino dell'uomo e dei suoi principi morali. L'autore in realtà
esporrà altrove la vera e propria parte fondamentale della sua teoria in modo efficacemente sintetico, articolando i
cinque fondamenti intuitivi dell'arte simbolista nel celebre testo dedicato a Paul Gauguin, Le Symbolisme en
Peinture. In questo testo infatti si concentra precisamente sull'estetica positivista: il bersaglio sono soprattutto le
idee di HIPPOLYTE TAINE esposte nella monumentale Philosophie de l'art, frutto del suo ventennale insegnamento
all’Ecole des Beaux-arts. Poste che, seguendo Schiller, il regno dell’arte e dell’immaginazione perde terreno via via
che la scienza progredisce, le prime confutazione che Aurier muove a Taine riguarda l'uso assoluto del metodo
comparativo, proprio di una ragione scientifica solo apparentemente inoppugnabile, contestando l'affabilità delle
stesse naturali, a suo (Aurier) dire scienze figlie illegittime della sola scienza possibile, cioè la matematica. Ma il nodo
fondamentale è l'inaccettabile opinione che fa dell'opera d'arte un prodotto di un determinato momento storico
(la storicità del processo artistico), lungo un processo evolutivo in cui l'ambiente, fisico, morale e sociale, esprime
inevitabilmente la propria determinante influenza. Taine aveva infatti teorizzato che “l'opera d'arte è determinata a
un insieme che è lo stato generale dello spirito e dei costumi circostanti”. Per illustrare il proprio assunto si serve in
modo sistematico di un paradigma fitologico su cui Aurier ironizza, decretandone l’improduttività in termini critici ed
estetici (è una trattazione troppo enciclopedica). La tesi di Taine si snoda con la naturalezza di un racconto assai
convincente, narrando di un piccolo seme di arancio che, portato dal vento assieme a semenze di altre specie, dovrà
trovare un suolo adatto dove possa affondare le radici per un adeguato nutrimento godendo, contando poi su estati
lunghe e corti inverni e al riparo da calamità naturali. Ma se si fossero determinate condizioni ambientali totalmente
differenti, esse sarebbero state avverse al nostro arancio e ha molte specie simili, ma avrebbero probabilmente
favorito la nascita e la propagazione di piante con caratteristiche totalmente diverse: ne consegue dunque che, in
seguito alla variazione di un certo tipo di temperatura, anche la specie diventa un'altra. Per metafora, passando al
discorso dello stato dell'arte, bisognerà definire questa temperatura, una temperatura morale prodotta da una
curiosa termodinamica della storia, in realtà semplificata in modo piuttosto imbarazzante tanto da rendere ancor
meno accettabili e obsoleti luoghi comuni storiografici sulle epoche di decadenza che Taine non manca di esporre.
Assistiamo al prodursi di stati d’animo collettivi piuttosto omogenei indotti dalle congiunture storiche, come ad
esempio il fatto che secondo lui, ad esempio, uno stato di infelicità e tristezza generale avrebbe afflitto l'Asia alcuni
secoli prima dell'era volgare o l’Occidente dal tardo antico al X secolo, ripercorrendo, il solito pregiudizio storico sugli
“evi” declinanti, concentrandovi tutte le disgrazie possibili. L'artista in queste condizioni, e cresciuto in tale ambiente,
non potrà che produrre opere con soggetti tristi e il pubblico apprezzerà solo quelle, emarginando gli artisti
diversamente ispirati, secondo un fatale principio di selezione etico estetica. Al polo opposto è quel Rinascimento,
“un caso inverso, stato di prosperità e gioia generale”. Un'azione ambientale è qualcosa di solo apparentemente più
storicamente circostanziato ma in realtà assai più grossolano rispetto alla raffinata e meno rigida fenomenologia
degli stili teorizzata da HEINRICH WOLFFLIN tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo e in seguito sviluppata
tramite le ben note categorie stilistiche, modellate per certa parte sulla tipologia kantiana, che diventano al tempo
stesso categorie della visione. Wölfflin concepisce una visibilità creatrice delle forme, poiché il problema non si
esaurisce solo con l'analisi dei valori qualitativi e dell'espressione. Ogni artista si trova di fronte a determinate
possibilità ottiche a cui è vincolato. Non tutto è possibile in ogni tempo. Il modo di vedere ha di per sé una sua storia
e la scoperta di questi strati ottici deve essere considerata il compito della storia dell'arte e ogni stile parla del senso
vitale di un'epoca. Tornando alla teoria di Taine sull'influsso dell'ambiente, pecca chiaramente di insano
determinismo a differenza della tesi di Wölfflin. Lo stesso Aurier, pur concedendo più volte il fatto che l'ambiente
influenza la vita dell'uomo, disconosce però a tale ascendente qualsiasi valore gnoseologico riguardo al dominio
dell'arte, poiché sarà l'artista stesso, a differenza dei comuni mortali, ad esserne immune. Non potrà dunque
essere ammissibile una filogenesi fatta di influenze, scuole, eredità, rapporti, proprio perché, arrivata a tal punto,
Aurier è costretto ad agire sull'ontologia stessa dell'uomo artista, sdoppiandone l'anima per farne un essere
semidivino. Lo scrittore sembra quasi meditare la sostanza di una futura teoria che darà corpo al suo nuovo metodo
critico. Non senza ragione si può pensare che egli sia stato vagamente suggestionato dalla classica gerarchizzazione
aristotelica riguardo all'anima, o dalla necessaria Liberazione dell'anima platonica dal corpo per raggiungere le idee, o
da Plotino con la dualità tra anima sensibile ed intellegibile. Non solo, ma egli pare estremizzare il raddoppiamento
che l'uomo hegeliano attua di sé medesimo come spirito, nel rappresentarsi, nell’essere coscienza pensante, di fronte
alle cose della natura che invece sono date immediatamente e una volta sola. Questa scissione dell'artista in una sua
parte celeste, incorruttibile, appare essere il controcanto a quella declinata verso il basso che Taine attribuisce alla
natura umana forgiata dall'ambiente. La disapprovazione sostanziale che Aurier muove a Taine riguarda il suo
silenzio sul problema della situazione estetica o addirittura del bello, o meglio, in modo più circostanziato, in che
cosa consiste la bellezza dell'opera d'arte, trattata da Taine come semplice reperto su cui operare analiticamente con
distacco. Taine in definitiva lavora come uno scienziato cui non spettano giudizi personali; di ciò egli è ben
consapevole, dichiarandosi pure felice di non dover pronunciare sentenze definitive, evidentemente apprendendo dal
pensiero hegeliano (il metodo moderno che cerco di seguire, e che comincia ad essere introdotto in tutte le scienze
morali, consiste nel considerare le opere umane, in particolare le opere d'arte, come fatti e prodotti di cui bisogna
indicare i caratteri e cercare le cause: niente più). Nella sua teoria, l'importanza del genio è senza dubbio ammessa
ma solo con l'immersione nel sistema dell'arte nella pratica del mondo. Tuttavia secondo Aurier, il Taine trova
nell'arte solo motivi intellettuali non passionali. Inoltre la sua trattazione dell'ideale soffrirebbe di una parcellizzazione
tipicamente analitica e quel che peggio, declinata solo sulla realtà percepita dall'artista. Taine infatti parla
concretamente di un'artista che, nell’atto poetico, per manifestare in modo più chiaro un carattere essenziale o
evidente di un oggetto, si forma un'idea di tale carattere e trasforma esteticamente l'oggetto medesimo: “questo
oggetto, così trasformato, viene essere conforme all'idea, in altri termini ideale”. Ma naturalmente anche l'ideale non
potrà sottrarsi alla necessità di una precisa classificazione per specie, non sfuggendo neppure ad una graduatoria di
merito e addirittura banalmente morale che infatti Aurier critica nella sua inutilità: in altre parole contesta l’idea
oggettivata, cioè l'idea che l'artista si fa pertinente all'oggetto, come sostanzialmente improduttiva, poiché rimane
inerte se non fecondata da uno strato ideale più profondamente personale, più soggettivo, più alto. È proprio la
rivendicazione di una soggettività ultima e più genuina, anch'essa doppiata come l'anima, disancorata
dall'ambiente dalle cose stesse, sarà uno dei pilastri del suo pentalogo sull'opera d'arte simbolista. Dunque
anche l'ideale nella trattazione di Taine è visto all'interno di un quadro evolutivo, biologico e storico, confrontandosi
con l'estetica concepita da Hegel, per il quale la bellezza è certo universalità, idea che non può essere disgiunta dalla
verità, ed il bello è appunto l'apparire sensibile dell'idea, però sempre in una dialettica costante tra le varie forme
ricorrenti, tra arte e non arte, tra autonomia ed eteronomia, costantemente calata nell'imminenza della storia.
Appunto la storia. Ma l'artista per Aurier è un eroe fuori dalla storia, è un isolato, è l’eletto, il sommo vate creatore che
nutre le anime belle e l'arte auspicata sarà ideista e non idealista, quindi non compromessa con la canonica storia
della bellezza. Nelle ultime righe Aurier invoca all'amore: forse l'amore salverà l'arte e l'amore salverà il mondo
gravemente compromesso della cultura scientifica e dall'utilitarismo dell’homo oeconomicus che comportano declino
morale o una regressione antropologica. Un’ amore mistico e angelicato visto che questa è l’unica chiave per
comprendere Dio, la donna e l’arte. Anzi probabilmente, solo l’amore per l’arte, un amore mistico e non sensuale,
riuscirà a ricomporre quell’universo così parcellizzato e abbruttito dalle analisi delle scienze esatte e presunte tali.
Quasi fosse una disposizione testamentaria in vista della sua prematura scomparsa, Aurier consegna ai posteri il
proprio incompiuto metodo critico che diventa un itinerarium mentis, un viatico per transumanare verso la suprema
intuizione e la salvezza (praticamente questo è un contributo incompiuto che avrebbe dovuto concepire una sorta di
pars costruens più organizzata, dopo la infervorata opera di smantellamento delle idee di Taine e dei suoi
correligionari).
GABRIEL ALBERT AURIER, PREFAZIONE PER UN LIBRO DI CRITICA D’ARTE
*Introduzione scritta da Aurier per il suo testo del 1892 (Essai sur une novelle..). Qui le parole in prima persona; le
parti in corsivo sono citazioni dal testo di Taine.*
Eccezione fatta per la critica dei quotidiani, la critica di questo secolo si è pretesa scientifica. Sarà forse una
caratteristica prettamente ottocentesca quella di voler introdurre la scienza ovunque e quando parlo di scienze, non si
deve intendere la matematica ma le ottuse figlie illegittime della scienza, le scienze naturali. Ebbene, poiché le
scienze naturali e scienze inesatte per definizione non possono offrire soluzioni assolute, conducono fatalmente allo
scetticismo e alla paura del pensiero. Si deve dunque imputare loro l’aver reso la nostra società senza fede, incapace
delle mille manifestazioni intellettuali o sentimentali che potrebbero essere classificate come devozione. Sono
dunque responsabili della povertà della nostra arte, che hanno confinato nel campo dell'imitazione (come aveva
constato Schiller: i confini dell'arte si restringono quando più si allargano quelli della Scienza. Schiller in “ L’educazione
estetica” dice: “l’utile è il grande utile del tempo che tutte le forze debbono servire e a cui tutti i talenti devono rendere
omaggio. Su questa rozza bilancia le conquiste spirituali dell’arte non hanno peso alcuno e, priva di ogni
incoraggiamento, essa scompare dallo schiamazzante mercato del secolo. Lo stesso spirito della ricerca filosofica sottrae
all’immaginazione una provincia dopo l’altra e i confini dell’arte si restringono quanto più si allargano quelli della
scienza”). Conferire all'arte questo fine in contraddizione con l'arte stessa, non significa semplicemente sopprimerla?
Proprio questo è successo, ad eccezione dei rari artisti che hanno avuto la forza di isolarsi. Una volta constatato ciò,
non è forse arrivato il momento di reagire, ricacciare la scienza, e di chiudere gli invadenti scienziati nel loro
laboratorio? Per ciò che pertiene alla critica, vediamo dunque in primo luogo in cosa consiste il famoso metodo della
critica scientifica. Esso è rappresentato da tre uomini, di grande valore e di grande intelligenza ma il cui ruolo è stato
nefasto per l'arte contemporanea. HIPPOLYTE TAINE, il teorico del metodo; SAINTEBEUVE che spreca le sue qualità
accontentandosi di insipidi pettegolezzi da portiere; ÈMILE HENNEQUIN, spirito profondo e chiuso, morto troppo
presto. Poiché fu Taine a esporre in modo sistematico l'insieme della dottrina della critica scientifica nella sua filosofia
dell'arte, conviene discutere di lui per primo. La sua dottrina si basa sull'idea che un'opera d'arte sia un fenomeno
essenzialmente relativo e contingente, che non esista autonomamente, il cui unico valore consisterebbe nel
costituire una testimonianza dello stato fisiologico di un popolo in una data epoca. Egli fa in qualche punto,
alcune condizioni estetiche dell'opera d'arte, ma sono le condizioni per cui un'opera diventa un buon documento
storico, piuttosto che le condizioni che la rendono bella in sé stessa. Ad esempio la Kermesse fiamminga di Rubens è
un capolavoro perché sintetizza meravigliosamente lo stato psicologico e sociale delle Fiandre durante la sua epoca.
Taine, senza ammetterlo, non dà alcun peso al valore estetico assoluto intrinseco delle opere. Il suo metodo insomma
è logico. Paragona l’estetica alla botanica, che studia con uguale interesse l’arancio e l’alloro, come se fosse una
botanica applicata alle non piante ma alle opere umane (nelle sue note Aurier, annota un passaggio di Schiller in cui
egli scrive: si possono ricondurre tutte le proprietà per mezzo delle quali un oggetto può farsi estetico a quattro classi, le
quali, tanto per la loro differenza oggettiva quanto per le loro diverse relazioni col soggetto, producono sulle nostre
facoltà passive e attive piaceri ineguali, non solo in intensità, ma anche valore: classi che hanno un’utilità ineguale al fine
delle belle arti. Esse sono il piacevole, il buono, il sublime e il bello. Di queste quattro categorie, solo le ultime
appartengono propriamente all’arte. Il piacevole non è degno dell’arte né tantomeno il buono ne è lo scopo, giacché lo
scopo dell’arte è il piacere, il buono, che lo si consideri in teoria e in pratica, non può né deve servire da mezzo al
soddisfacimento dei bisogni sensibili. Un oggetto può, per la sua natura profonda, al contempo rivoltare il senso morale,
piacere all’immaginazione che lo contempla ed essere bello”). Non perderà tempo a spiegare perché un'opera d'arte è
bella anzi vi parlerà ben poco dell'opera stessa. Si limiterà a considerazioni logiche di psicologia e storia, convinto
di aver fatto così critica d'arte. Il punto di partenza di questo tipo di critica è l’analisi degli elementi dell’opera
che danno la sensazione del bello. Se la vecchia politica consisteva nel penetrare quando possibile nell'opera, la
nuova consiste nell'allontanarsene quanto è possibile in modo metodico. Seguendo questa direzione, si constata
prima di tutto che l'opera in questione appartiene alla produzione globale dell'artista che ne ha l'autore, e che anche
questa produzione globale fa parte di un insieme che è la scuola, famiglia di artisti dello stesso paese è dello stesso
tempo a cui egli appartiene. Se per Taine può essere capito solo attraverso una riunione del fascio di talenti a lui
contemporanei per cultura e per geografia, da parte mia non credo affatto che sia impossibile ammirare e capire
Rubens per chi ignora il nome degli artisti del suo “circolo”. È necessario rimarcare che spesso le somiglianze che ci
sono indicate originano da una formazione comune, allievi di un maestro comune il cui genio e successo hanno
annullato qualsivoglia originalità negli artisti in questione (i quali pertanto devono essere giudicati rispetto a loro
stessi). Taine prosegue dicendo che questa famiglia di artisti è compresa essa stessa in un insieme più vasto, vale a
dire il mondo che la circonda e il cui gusto è conforme al suo. Infatti lo stato dei costumi e dello spirito è lo stesso per il
pubblico sia per gli artisti, i quali non sono uomini isolati. Certamente no! Gli artisti purtroppo, si, subiscono l'influenza
dell'ambiente, in grado maggiore o minore a dispetto della loro volontà. La critica scientifica ha dunque ragione di
volersi preoccupare solo delle macchie di fango sulle loro ali bianche? Siete davvero certi che tutti gli artisti siano così
inzaccherati dal fango dell’ambiente? Non credete che esistono ali che il fango non può sporcare? E non pensate,
come me, che questi sono gli arti superiori, oserei dire i soli veri artisti? Pensate che l'Angelico abbia subito molto
l'influenza dell'Italia dissoluta e sensuale del XV secolo? Credete che una personalità come Gustave Moreau abbia
molto da spartire con il suo secolo di analisi terribilmente industriale e utilitarista? Ma, lo ripeto, anche se questa
influenza esistesse, rimane comunque assurdo pensare che questa constatazione rappresenti la risposta definitiva
alla comprensione di un'opera d'arte, come afferma Taine, che senza esitazione giunge a “stabilire la seguente regola:
per comprendere un’opera d’arte, un artista o un gruppo di artisti, è necessario farsi una fedele rappresentazione
dello stato generale dello spirito e dei consumi del tempo a cui essi sono appartenuti. Là troveremo la spiegazione
ultima. Là risiede la causa prima che determina tutto il resto”. Taine aggiunge: “avremo così una spiegazione
esauriente delle belle delle Belle Arti, è questo ciò che si chiama un'estetica. È proprio questa, signori, l'estetica alla
quale aspiriamo e non un'altra. La nostra è moderna e differisce dall'antica in quanto è storica e non dogmatica, in
quanto non consiste nelle impostazioni di precetti, bensì nella constatazione di leggi.” Non credo occorra ripetere che
questa cosiddetta estetica, per prima cosa non constata leggi ma coincidenze, del resto rare e difficilmente
dimostrabili; che sarebbe facile trovare un numero maggiore di fatti che la confutino; e infine che non è affatto
un’estetica poiché come principale preoccupazione non ha l'arte, ma il contorno dell'arte. Hennequin che condivideva
i suoi errori, lo comprese vagamente, poiché propone di rifiutare la parola estetica e di sostituirla con Estopsicologia.
Ma il nome non cambia la sostanza, il metodo di Taine darà e ha dato opere curiose, interessanti, ma non raggiungerà
mai il rigore scientifico al quale ambisce. Taine mi sembra un osservatore ingenuo che ritiene che, ad aver
determinato la forma, la dimensione e la colorazione del quadro, siano state la forma, la dimensione il colore
della cornice. Tuttavia, lui stesso si accorge dell'impossibilità pratica del tuo metodo. Si rende vagamente conto
del fatto che se il critico scientifico non si serve di qualche principio dogmatico, la critica diventerà
semplicemente impossibile, giacché egli sarà obbligato per essere logico ad accettare come opera d'arte,
indistintamente, tutte le produzioni cerebro manuali dell'umanità. Perché quindi Taine sarebbe partito proprio da
Rubens e Michelangelo invece di un qualsiasi imbrattatele? Forse perché sono opere consacrate e universalmente
ammirate? Certamente no. Sarà perché proprio quelle lo hanno commosso per certe qualità speciali in loro
immanenti? Indubbiamente Sì. Insomma, non era necessario porre il problema del bello della sensazione estetica
prima di quello delle contingenze che condizionano l'opera d'arte? Probabilmente sarebbe stato più simile ai trattati
di estetica dogmatica ma Taine non sarebbe stato costretto ad arrendersi alla sua dottrina, e obbligato ad ammettere
di aver esagerato nell'affermare che ogni manifestazione dello spirito umano è degna della simpatia del critico.
D’altro canto, egli evita con grande destrezza questo passo falso e avverte la necessità di tornare ai procedimenti
della critica dogmatica e lo fa con apparente indifferenza. Arriva a dire che “l'opera d'arte ha come scopo quello di
manifestare qualche carattere essenziale o saliente E pertanto qualche idea importante. Essa riesce in tale scopo
servendosi di un insieme di parti collegate tra loro nelle quali modifica sistematicamente i rapporti.” Definizione che,
per quanto povera, permetterà a Taine di unire al suo metodo di investigazione storica psicologico un metodo
selettivo senza il quale nulla sarebbe potuto essere più inattuabile. Ma si era osserverà immediatamente quanto la
definizione sia strana, giacché trova nell'arte soltanto elementi intellettuali e nessun elemento emotivo. L’assurdità
deriva dal fatto che avrebbe dovuto porre il problema della sensazione estetica e forse anche quella del bello, prima di
risolvere il problema dell’arte. Ma ciò avrebbe comportato l’introduzione del famoso metodo scientifico non di
un’unica formula della critica dogmatica, ma di due o persino tre. E Taine non l’avrebbe voluto, preferendo essere
incompleto e all’occorrenza assurdo anziché essere accusato di dogmatismo. Hennequin, su questo aspetto meno
eccessivo e logico del maestro, non cede a questa debolezza. Se non analizza l'opera d'arte nella sua essenza,
l'analizza almeno nella sua azione e pone apertamente il problema della sensazione del bello, che studia in modo un
po' superficiale. L'opera d'arte dice “ha come fine produrre un'emozione speciale, l'emozione estetica ha questo di
particolare, che non si traduce in azioni, che è fine sé stessa. Più avanti aggiunge, tutti i sistemi di classificazione delle
emozioni mettono da parte le emozioni estetiche e ne fanno una divisione speciale separata dalle emozioni ordinarie.
All'emozione estetica quindi, manca il carattere distintivo delle emozioni ordinarie: il piacere e la sofferenza; è infatti
necessario distinguere in tutte le emozioni ordinarie due elementi: l'eccitazione neutra che la costituisce e il
fenomeno interno che aggiunge immagini dolorose o felici. Ora, aggiunge Hennequin, se ammettiamo questa ipotesi
l’emozione estetica di uno spettacolo rappresentato si distinguerà dalle emozioni di uno spettacolo reale percepito
nel fatto. Al contrario nell'emozione reale le immagini hanno tutta l'intensità che conferisce loro la certezza della loro
esistenza. Ora se si accetta la teoria di Spencer secondo la quale i piaceri sono sentimenti estremi, si capirà subito la
ragione per cui le opere più commoventi e apprezzate rappresentino spettacoli o idee tristi. In quest'ultime
l'emozione provocata da immagini fittizie, dolorose sarà estrema; e allo stesso modo in queste l’emozione di natura
estetica sarà estrema come eccitazione non come dolore. Hennequin conclude: le parole sensazione del bello
sembrerebbero dunque disegnare questa condizione dello spirito: eccitazione intensa di uno più sentimenti ordinari,
assenza di immagini personalmente dolorose che di solito accompagnano e segnano questa eccitazione intensa. In
altre parole trasporto, l'urto del dolore senza terrore. Gli stessi seguaci di Taine sono consapevoli della lacuna
fondamentale del suo sistema. Ad ogni modo, dopo averci dato l'illusione di una solida base di ragionamento con la
sua definizione, Taine riprende l'esposizione del suo sistema di critica. Con il pretesto di studiare le leggi che regolano
la creazione dell'opera d'arte, ribadisce la teoria dell'influenza dell'ambiente. Due formule sostiene sono sufficienti a
spiegare la creazione di quella cosa sublime e complessa che è un'opera d'arte. La prima è: l'opera d'arte è
determinata da un insieme che è lo stato generale dello spirito e dei costumi circostanti. A sostegno di questa tesi
mette due prove, uno sperimentale e l'altra teorica. La prima consiste nell'enumerare diversi casi in cui tale legge può
essere constatata. E’ possibile osservare quanto, da parte di un critico convinto a priori di tale verità, sarà parziale, e,
di conseguenza, quanto il suddetto critico sarà tentato di raccogliere i fatti accidentali e casuali che paiono
corroborare il principio in questione per addurli come prove assolute. Rispondo dicendo che un'artista fisicamente
sensualista abbia prodotto un'opera sensuale, non si può quindi supporre che tutti gli artisti sensualisti produrranno
opere sensualiste. Credo infatti che per quanto riguarda quest'ultimo caso, vi sia motivo per distinguere nell'artista
una duplice anima, l'anima dell'uomo e l'anima dell'artista. A sostegno di ciò gli esempi sono molteplici. Si pensi al
Perugino, la cui arte apparteneva alla fede ma si dice essere nella vita di tutti i giorni, un ateo e un materialista. Ne
consegue dunque che se nell'artista una parte dell'anima subisce l'influsso dell'ambiente, l'altra parte, l'unica che
conta per noi, può isolarsi e non lo subisce affatto. Ascoltiamo a tal proposito una frase di Taine che ammette proprio
questo e che per giunta da parte sua è una contraddizione comica in attesa. Egli si riferisce a Ingres: egli ha vissuto,
Parigi, come un palombaro sotto alla campana, chiudendo le fessure attraverso le quali l'aria esterna sarebbe potuta
entrare, non considerando come questa sia stata in larga parte, la situazione della maggior parte degli artisti
smentendo dunque la sua dottrina dell’ambiente come influenza per l’artista.
La seconda prova a sostegno dell'affermazione precedente è del tutto teorica. Essa consiste nel dichiarare
l'inevitabilità dell'azione dell'ambiente sull'artista e di conseguenza sull'opera d'arte. Sì osserverà che ho già risposto:
che l'ambiente agisca sull'uomo artista è possibile probabile, ma che lo faccia sulla parte inviolabile della sua anima,
ovvero quella dell'artista, io lo nego, e credo si possa sostenere tale negazione andando alla ricerca nel corso della
storia dell'arte di prove sperimentali. Inoltre da un punto di vista puramente teorico, credo si possa affermare che un
artista è, in una data epoca un essere eccezionale. Essere eccezionali significa essere al di fuori della propria epoca
un'artista è perciò, sempre per definizione, un essere sufficientemente forte da reagire al l'influsso dell'ambiente della
sua epoca e si può riconoscere che tanto più un artista avrà reagito contro questi influssi, tanto più la facoltà interna
che lo costituisce sarà sviluppata e di conseguenza più sarà artista. Possiamo quindi giungere a questa formula: il
valore di un'opera d'arte è inversamente proporzionale all'influenza dell'ambiente che ha subito . E questa è la
confutazione sufficiente della seconda prova che Taine ha sostenuto della sua tesi. Aver indicato lo sdoppiamento
dell’anima dell’artista, constatabile di fatto e logicamente necessaria, significa aver mostrato che sebbene l’artista
possa subire in quanto uomo l’influenza dell’ambiente, può benissimo e deve non subirla in quanto artista e che, di
conseguenza, le sue opere possono e devono non serbare alcuna traccia di tale influenza. Taine stabilisce l'esistenza
in ogni epoca di quello che chiama personaggio dominante, un essere sintetico che racchiude in sé i sentimenti e le
attitudini del periodo storico. L'atleta per i greci, il cavaliere nel Medioevo, Werther all'inizio del secolo. In qualche
modo, il personaggio dominante fa da modello all'artista, che lo raffigura senza sosta. Si osserverà qui, ancora una
volta, che se qualcosa di veritiero è contenuto in questa formula, lo è soprattutto per gli artisti mediocri, quelli che
sono, in verità meno artisti, quelli che sono incapaci di scoprire in sé stessi un ideale che sono costretti a cercarlo fuori
di sé. Uno degli esempi citati dallo stesso Taine è pure errato: Goethe ha creato Werther dal nulla. Egli meraviglio la
Germania per la sua originalità ed ebbe indiscutibilmente, un’azione modificatrice sullo spirito e gli usi europei. In
questo caso fu l'opera d'arte avere un'influenza sull'ambiente. E se successivamente il tipo di Werther divenne nel
periodo romantico il personaggio dominante, fu perché i romantici non erano davvero artisti. Il vero artista era il
creatore e non il profittatore, era Goethe. Altri mille esempi possono essere addotti; come i poeti e gli artisti
medievali hanno imposto alla loro epoca il tipo del cavaliere, molto prima che la massa comprendesse questo ideale.
Una volta esposte le due formule Taine, ritenendole sufficienti per spiegare la genesi di un'opera d'arte, intraprende
lo studio dell’opera d'arte realizzata, ossia la qualità speciale che fa sì che il reale non è solo reale ma l'ideale. “in tal
modo, quando l'artista riproduce le cose, modificandole secondo la propria idea, le cose passano dal reale all'ideale,
ed egli le modifica secondo la propria idea quando, dopo aver scoperto e tratto da esse qualche carattere notevole,
altera sistematicamente i rapporti naturali tra le loro parti, per rendere questo carattere più visibile e più dominante”.
La prima obiezione che mi viene in mente è una: si tratta forse di una definizione accettabile per quanto un po' rigida
ma essa trascura la distinzione del valore delle diverse realtà logicamente modificate. Un imbecille, provvisto di una
buona scienza acquisita o innata, che abbia modificato i rapporti di certi oggetti reali secondo una sua idea, ma
un'idea stupida, ha certo idealizzato questa cosa, ma quale sarà il valore di questo ideale? È evidente che il valore così
inteso dipenderà da un altro elemento, il grado di logica e perfezione delle modifiche delle deformazioni sistematiche
di cui parla. Questa duplice obiezione non è sfuggita a Taine. Ad un primo sguardo egli afferma che tutte le idee e le
idealizzazioni si equivalgono ma non è affatto così se si va ad approfondire. Il consenso universale prima, l'analisi della
critica scientifica dopo, riescono a convincerci che le idee hanno valori diversi e che un certo ideale è superiore a un
altro. E procede a dimostrare che la gerarchia dell'ideale è subordinata da tre fattori: il grado di importanza del
carattere dominante, il grado di azione benefica del carattere dominante, il grado di convergenza degli effetti. Ma
subito ci accorgiamo di essere stati ingannati dato che ci era stata promessa una gerarchia dell'ideale fondata sulla
distinzione delle idee. Infatti in questa enumerazione non si tratta più di idee propriamente dette, ovvero di fenomeni
soggettivi che l'artista può realizzare per mezzo di realtà oggettive. Al contrario l'idea non indica che i modi di essere
e di pensare realtà oggettive. In breve, Taine, definisce l'ideale dell'arte che ha la pretesa di fare a meno dell'ideale: il
naturalismo. Quando poi è questione del grado di azione benefica del carattere ci viene detto che a parità di
condizioni, l'opera che esprime un carattere benefico è superiore all'opera che esprime uno malvagio. Prendiamo due
quadri che rappresentano dei fiori in modo ugualmente abile: in uno ci sono fiori velenosi, nell'altro dei fiori curativi. Il
grado di realizzazione è più elevato in quest'ultimo che nel primo. Infatti se per esempio, tra due opere che
rappresentano, con la stessa perizia esecutiva, delle forze naturali di uguale intensità, quella che rappresenta un eroe
è migliore di quella che rappresenta un codardo. È un'affermazione infantile secondo me. Supponendo che due
soggetti si equivalgono per quanto riguarda tutto il resto: in cosa Don Rodrigo è superiore a Tartufo. Ci sono indicati
poi procedimenti per servirsi dei soggetti malefici; ma non capisco come questa morale abbia a che fare con
l’estetica. Se Tartufo non fosse stato arrestato dagli Arcieri del re nell'atto V, la creazione di Molière sarebbe stata
peggiore? Sosterrei quanto il contrario. Comunque sia, nella questione dello studio dei gradi di azione benefica del
carattere, si tratta ancora soltanto dei modi in cui gli oggetti esistono, considerati obiettivamente e null’affatto delle
idee, come ci era stato promesso in apparenza.
Infine quando si cita come ultimo criterio del valore di un ideale la misura del grado di convergenza degli effetti e
viene detto “Non solo è necessario che essi possiedano di per sé il più grande valore possibile, ma è inoltre necessario
che, nell'opera d'arte diventino anche il più possibile dominanti. Si ammette implicitamente di preoccuparsi poco di
un'arte in cui le idee soggettive dell'artista abbiano spazio; si ammette di volere solo un’arte realista, anzi, ultra-
realista, perché il suo obiettivo sarà non soltanto rappresentare la realtà, ma rappresentarla esagerata e visibile. Ora
Traine può concludere: le opere d'arte risultano tanto più belle quanto più il carattere riesce a imprimersi e
manifestarsi in esse con un ascendente che è riconosciuto come il più dominante di tutti. Per lui quindi
l'idealizzazione è solo la maniera di rendere più evidenti i nodi essenziali delle cose. Una concezione che torna a
negare l'arte idealista in favore dell'arte realista. Taine cita le parole di Cellini “Tutta l’importanza di queste tali virtù
consiste nel fare bene un uomo e una donna ignudi”. Se l'ideale consiste inizialmente prima di tutto nelle
deformazioni che gli oggetti reali subiscono sotto l'azione delle idee dell'artista, e non di tutte le sue idee, ma di
quelle belle, non è nemmeno vero che le cose hanno in sé caratteri che sono in realtà i modi delle idee incluse in sé
stesse, e che queste idee oggettive retroagiscono in maniera diversa sulle idee soggettive, e che nella genesi
dell'ideale contribuiscono due lavori che alterano il reale, compiuti in modo simultaneo da due tipi di idee e per
l'espressione definitiva dei due tipi di idee sintetizzate in modo definitivo nell'opera d'arte. Ma per accorgersene era
necessario avere una concezione del mondo meno materialista.
La dottrina di Taine ebbe un considerevole successo. I critici dell'800 l'hanno accolta con gioia, troppo pigri per
metterla in discussione. D’altronde era perfettamente appropriata per lo spirito di un'epoca scettica e materialista,
un'epoca che non potendo amare l'arte più di quanto possa credere in una religione, si consola, per vanità, amando la
storia delle religioni e la storia dell'arte. Sainte-Bauve fu il grande fautore della dottrina. Si rivolgeva ad un pubblico
incapace di amare o capire un'opera d'arte e che nonostante ciò rifiutava di ammettere quest’incapacità. Il
pubblico fu affascinato e non si accorse che invece di parlare loro di opere d'arte parlava degli artisti, cosa ben
diversa, della loro vita privata, dei loro genitori, dei loro amici, cosa ancora più diversa. Credevano di leggere
articoli di critica ma in realtà erano aneddoti biografici, considerazioni storiche, filosofiche etnografiche e
psicologiche ma che nulla avevano in comune con l'estetica o la critica d'arte. Sì osserverà che il suo metodo è poco
diverso da quello di Taine: “Quando si è proceduto ad informarsi sulle origini, sulla parentela immediata e prossima di
uno scrittore, occorre determinare, dopo il capitolo degli studi e della formazione, un punto essenziale ovvero il primo
ambiente, il primo gruppo di amici contemporanei nel quale si trovava quando il suo talento è sbocciato. Ogni opera
di un autore così esaminato, una volta inserito nel suo ambiente circondato da tutte le circostanze che l'hanno visto
nascere, acquisisce tutto il significato, storico e letterario, riprende il giusto grado di originalità, di novità e di
imitazione e non si corre il rischio di inventare erroneamente bellezze di ammuinare da lontano, come inevitabile
quando ci si limita alla sola retorica.” Qui vediamo intervenire timidamente un elemento nuovo, quasi del tutto
assente nel metodo di Taine, un elemento che sembra dover essere il fondamento primordiale necessario di qualsiasi
critica: il giudizio. Sante-Beuve ammette il diritto di giudicare un'opera mentre Taine mette il solo diritto di
constatare con imparzialità i suoi elementi costitutivi. Hennequin, d’altro canto, critica aspramente la pretesa di
Sante-Beuve e dichiara formalmente che il critico non deve mai giudicare né apprezzare. Tutti gli altri critici moderni
hanno inteso la critica in questo modo. Hanno perennemente dimenticato di parlare dell'opera d'arte per
accontentarsi di parlare dell'artista. Questo tipo di critica non fa che produrre album di autografi e di fotografie,
pettegolezzi biografici, sproloqui storici e sociologici. E ciononostante, per incapacità di crearsi un’altra teoria, o per
altro, tutti i critici moderni hanno accettato questo metodo. Poche sono le eccezioni. Ad ogni modo, voglio, per
completezza, segnalare un nuovo orientamento della critica scientifica, di nascita piuttosto recente: l'opera d'arte è
un essere nuovo che non solo ha un'anima, ma un'anima duplice (quella dell'artista e quella della natura, padre e
madre). L'unico mezzo per penetrare qualcosa è l'amore. Per capire Dio occorre amarlo, per capire la donna occorre
amarla; la comprensione è proporzionale all'amore. L'unico mezzo per capire un'opera d'arte e perciò diventarne
l'amante. È possibile diventarlo, perché l'opera ha un'anima e la manifesta con una lingua che non possiamo
apprendere. È persino più facile provare il vero amore per un'opera d'arte che per una donna, poiché nell’opera d'arte
la materia esiste a malapena e non farà mai degenerare l'amore in sensualità. Questo metodo sarà forse considerato
ridicolo o sarà forse considerato mistico. In quest'ultimo caso dirò che si probabilmente c'è del misticismo, ma oggi il
misticismo è necessario, perché solo lui può salvare la società dall’abbruttimento, dal sensualismo e dall'utilitarismo.
Le facoltà più nobili della nostra anima si stanno atrofizzando. Tra 100 anni saremo dei bruti il cui unico ideale sarà
l'agevole soddisfazione delle funzioni corporali. Occorrere reagire. Occorre coltivare nuovamente in noi le qualità
superiori dell'anima. Occorre ritornare a essere mistici. Occorre imparare l'amore, fonte di ogni comprensione. L’
autore termina dicendo che è troppo tardi per riconquistare l’amore in tutta la sua integralità primitiva perché il
sensualismo del secolo ci ha fatto dimenticare come vedere in Dio qualcosa di diverso da un’astrazione nominale
forse inesistente. L’unico amore concesso è quello per le opere d’arte, così diventando dei mistici dell’arte.
2) Virelli
GABRIEL ALBERT AURIER, “CRITICO PROFETA” DEL SIMBOLISMO
La pubblicazione degli scritti di Gabriel Albert Aurier riguardante il simbolismo è un'importante opportunità per
tornare a riflettere su una serie di problematiche legate a una delle correnti artistiche più importanti e operanti a
cavallo fra il XIX e il XX secolo. A tutt'oggi infatti nonostante gli innumerevoli studi dedicati a questo fenomeno,
sussistono interpretazioni così diverse a riguardo da non permettere una chiara definizione, col risultato di cadere
nell'errore di fare coincidere questo ismo con quasi tutta la fin de siècle. Ad assecondare questa confusione è
l'inserimento del simbolismo, da parte di molti critici, all'interno dell'ampia etichetta di post-impressionismo. Se
questa definizione da un lato permette di individuare più o meno il termine temporale di questo movimento, dall'altro
non chiarisce i confini della ricerca, con rischio di far perdere di vista le peculiari differenze esistenti fra le diverse linee
di ricerca artistiche. Ad affrontare la questione ci vengono appunto in aiuto i testi del critico letterario francese, in
particolar modo lo scritto Le Symbolisme en peinture. Paul Gauguin, il quale benché non sia stato né il primo né
tantomeno l'unico testo a cercare di definire gli aspetti caratterizzanti di questa arte, può essere considerato il
manifesto ufficiale del simbolismo. La lucidità critica dell'autore affianca in maniera estremamente funzionale una
prosa intrisa di linguaggio filosofico e letterario e un carattere di stampo più programmatico, inventando così un
modello di grande successo, adottato successivamente da quasi tutte le più importanti avanguardie storiche del 900
(dal manifesto del futurismo a quello del surrealismo). Il testo si apre con una descrizione dell'opera la Lutte de Jacob
avec l'Ange, (vision après le sermon) di Paul Gauguin, 1888, redatta con uno stile prettamente poetico sostenuto
da un tono quasi fiabesco. Conclusa questa evocazione lirica della celebre tela, Aurier entra quasi direttamente nel
dibattito artistico contemporaneo e, assumendo il lessico più concreto, affronta in maniera diretta la definizione il più
possibile rigorosa del simbolismo. Innanzitutto egli cerca di distinguere il nuovo movimento degli altri in voga, in
primo luogo dall'impressionismo, poiché rispetto a quest'ultimo l'arte di Gauguin è esattamente l'opposto. Gli
impressionisti infatti sono portatori di un programma estetico fondato esclusivamente sulla sensazione, il che li
condanna ad essere nient'altro che una sorta di variante dilettantesca del realismo. I simbolisti, al contrario,
rigettano con forza il concetto di impressione e con esso quello più generale di mimesis della natura per aprirsi invece
al mondo delle idee. “l’arte non è altro che la materializzazione rappresentativa di quello che c’è di più elevato e di
quello che di più c’è vero nel mondo, l’Idea. Per il critico francese, il simbolismo deve evitare il più possibile la verità
concreta, l’illusionismo, il trompe d’oeil, affinché non dia attraverso il suo quadro, un’impressione fallace della
natura che potrebbe fare l’effetto della natura stessa sullo spettatore e andare invece alla ricerca di una natura
più profonda e spirituale. Di quest’ultima però, l’artista simbolista non deve avere la pretesa di svelarne il volto ma
più sommessamente deve accontentarsi di tracciarne le corrispondenze (*Baudelaire, les corrispondances, anche
riferimento al filosofo svedese Swedenborg nella cui opera, l’autore definisce corrispondenza la relazione che
intercorre fra le cose del nostro mondo materiale e quelle del mondo spirituale). secondo modi e stilemi astratti (qui
inteso nel suo significato etimologico, in quanto si tratta di trarre fuori dalle forme naturali un senso, un segno altro
rispetto a quello materiale in cui l’Idea si è incarnata). Dì qui le famose 5 regole redatte dal critico:
- IDEISTA. L’opera d’arte dovrà essere ideista perché il suo fine ultimo è l’espressione dell’idea (dell’artista) (quindi
idea non ideale= l’idea è qualcosa di intangibile molto simbolica. Mentre l’ideale è l’idea che si incarna nelle esigenze
del popolo. Es. Libertà che guida il popolo nel quale la libertà ha le sembianze di una donna). L'idealismo si
contrappone infatti al naturalismo soltanto nella scelta dei temi, l’ideismo invece, oltre a confermare la necessità di
temi non mimetici nei confronti della volgare realtà utilitaria di tutti i giorni, impone anche la necessità aggiuntiva di
unificare i dati, di stilizzarli, di trasformarli in icone, di passare cioè dall'individuo al genere, di tornare a schemi
essenziali aperti e indeterminati.
- SIMBOLISTA. Il pittore deve essere simbolista poiché esprimerà l'idea con le forme.
- SINTETICA, perché esprimerà quest’idea attraverso dei segni essenziali (simboli). Il simbolo per essere capito da un
vasto pubblico deve essere reso in maniera sintetica quindi togliendo quei dettagli fenomenici che sono cari alla
cultura modernista. Poiché traccerà queste forme, questi segni, secondo un modo di comprensione generale.
- SOGGETTIVA. La pittura deve essere soggettiva perché l’oggetto non sarà mai solo l’oggetto ma sarà il segno
dell'idea percepita dal soggetto. La pittura cessa di essere la riproduzione istantanea e circoscritta di una fetta di vita,
ma si propone come trattamento globale di un ambiente, un fare, più che un contemplare o fotografare. - è una
conseguenza delle precedenti.
- DECORATIVA. La pittura decorativa propriamente detta, così come fu intesa dagli egizi e molto probabilmente dai
greci e dai primitivi, è la manifestazione di un’arte allo stesso tempo soggettiva, sintetica, simbolista e idealista: a ben
rifletterci la pittura decorativa è la vera pittura. Essa è stata creata proprio per decorare con pensieri, sogni e idee i
banali muri degli edifici umani. La pittura da cavalletto è una raffinatezza inventata al fine di soddisfare la fantasia o lo
spirito commerciale delle civiltà decadenti. Nelle società primitive, i primi tentativi pittorici potevano essere solo
decorativi. La decorazione comporta una fuoriuscita dal quadro e gestione dell’ambiente: rapporto sinestetico,
sollecitazione di più sensi dell’osservatore e non solo la vista (sarà definitiva in modo netto dai futuristi e dalla volontà
di coinvolgere anche il pubblico al cento del quadro). Questa sinestesia comporta anche un raffreddamento: medium
caldi sono la vista mentre medium freddi sono gli altri sensi.
Con il termine ideismo (neologismo definito da Aurier) egli vuole caratterizzare tutto un filone di ricerche artistiche
volte ad allargare gli orizzonti conoscitivi dal dato sensibile. Gli idealisti, per quanto si sforzino di fatturare nelle loro
opere valori alti o trascendenti, lo fanno rimanendo però ancora troppo fedeli alla loro semplice manifestazione
materiale, ossia anch'essi non sono nient'altro che l'ennesima variante del realismo. Per gli ideisti invece non si
tratta più di rappresentare le cose quanto piuttosto di presentare le idee celate in esse. Queste idee però non
potendole esprimere attraverso la presa diretta della realtà, devono necessariamente presentarsi sotto forma di
simboli (simbolismo. A livello etimologico s'intende il significato approssimativo di mettere insieme due parti, segno
e contenuto (suv=insieme e ballo=gettare)), i quali a loro volta, non sono delle semplici allegorie ma più precisamente
segni corrispondenti a valori particolari e universali. Detto ciò il discrimine che passa fra idealismo e ideismo non è
solo a livello gergale ma costituisce una distinzione semantica che trova diretto riscontro nelle opere dei simbolisti e
nel ricorso che essi fanno alle tecniche dell’a plat e del cloisonnisme, le quali portano l'artista a realizzare immagini
estremamente semplificate, spogliate di ogni riferimento aneddotico in favore delle sue forme a generali
(sintetismo). Nell'usare forme, linee e colori l'artista ideista, proprio perché scevro dal riferimento mondano, ha la
facoltà di usarli in modo arbitrario: esagerarli, attenuarli, distorcerli secondo i bisogni dell'idea da esprimere. Si
dichiara definitivamente conclusa la dittatura della prospettiva rinascimentale. Per quanto riguarda il soggettivismo,
Aurier asserisce che soltanto l’illuminato è in grado di cogliere l'idea che si nasconde dietro gli oggetti apparenti.
Tuttavia la sola illuminazione in sé non è sufficiente a rivendicare il titolo di artista simbolista in quanto vi è comunque
il bisogno di un ulteriore dono, l'emotività trascendentale, senza la quale sarebbe solo un magnifico erudito. In
conclusione l’arte simbolista è decorativa in quanto più l'immagine è generale, più essa è inevitabilmente sottoposta
a un processo di stilizzazione che trasfigura le figure naturali in pure cifre ornamentali. Particolarmente interessante è
qui il continuo riferimento dello scrittore ai cosiddetti primitivi che lo scrittore francese non identifica solo con i
maestri della tradizione europea del XIV e XV secolo ma anche con le culture più antiche, egizia, sumera e greca, e
persino quelle extraeuropee contemporanee come quella giapponese. Questo approccio onnicomprensivo anticipa
quella percezione sincretica verso i medesimi fenomeni attuata dalle avanguardie prima fra tutta la corrente
espressionista. Con il simbolismo dunque si allarga il campo d'azione degli artisti, i quali, forti appunto di un
linguaggio astratto, sono liberi di fuoriuscire dagli stretti confini della cornice tradizionale per andare ad invadere lo
spazio, infrangendo così la consueta divisione gerarchica delle arti. Non è un caso che molti artisti simbolisti si
cimentino anche in pratiche delle cosiddette arti applicate come la ceramica, l'ebanisteria e la progettazione di
suppellettili e abiti vari. In definitiva per Aurier il simbolismo si qualifica non tanto per i suoi caratteri puramente
iconografici quanto piuttosto per precisi elementi stilistici (ideismo-sintetismo). Pertanto se è vero che la
rappresentazione di temi mistico religiosi, misteriosofici, costituiscono un leitmotiv condiviso da buona parte degli
artisti simbolisti, non è tuttavia questo aspetto il loro lato peculiare: per il critico francese non è il significato che conta
ma il significante. Quest'ultima precisazione ci permette di restringere il campo di indagine, distinguendo gli artisti
simbolisti veri e propri, ideisti, da quelli più semplicemente simbolici, idealisti. Questa distinzione è facilmente visibile
in un altro celebre testo dello scrittore intitolato significativamente Les Symbolistes, 1892. Il critico francese cambia
leggermente il registro sia dal punto di vista della metodologia critica adottata, sia dal punto di vista dei contenuti. A
quel sapiente mix di toni fiabeschi egli sostituisce qui una prosa basata essenzialmente su un discorso dal forte
impianto filosofico di stampo squisitamente neoplatonico. Per quanto riguarda i contenuti invece lo scrittore attenua
la sua indole polemica contro quei movimenti artistici da lui considerati opposti al simbolismo, in primis
l'impressionismo che non condanna più in maniera così severa ma anzi è pronto a riconoscere ad artisti come Monet,
Sisley Pissarro e Renoir il merito di avere svolto loro malgrado un certo ruolo nell'evoluzione dell'arte simbolista
stessa. Tuttavia, le sue riserve mentali verso i presupposti e soprattutto gli esiti formali di questi pittori ancora legati a
un solido naturalismo rimangono molto forti. Un ulteriore differenza rispetto allo scritto nel 1891 è l'uso disinvolto del
termine idealismo. Anche in questo caso però il critico francese, nonostante venga meno a una distinzione lessicale a
lui cara, non manca di fare le dovute puntualizzazioni a riguardo. Egli afferma che le forme visibili non sono null’altro
che il segno tangibile delle idee significanti. Accettare questa verità vuole dire accordare all’arte simbolista la volontà
e la capacità di fermare nella propria opera il sostrato ideista che è in tutto l’universo attraverso un sofisticato lavoro
di purificazione. Tutto ciò implica che esista nell’arte un simbolismo più profondo, più generale che quello che
abbiano implicitamente ammesso i naturalisti. Successivamente Aurier è pronto a distinguere vecchi e nuovi
simbolisti: pittori di fama come Puvis De Chavannes, Gustave Moreau o August Rodin (definiti dal critico come
precursori), avevano già fatto ricorso al simbolo per dare corpo ai loro sogni ma lo avevano fatto attraverso
un'operazione di placcaggio, ossia accontentandosi di fermarsi a un simbolismo di superficie in cui la
“rappresentazione” dell'oggetto simbolico prevale ancora sulla sua “presentazione”(in termini di astrazione formale).
I simbolisti della nuova generazione invece hanno saputo perfezionare questa nuova estetica interpretando il
simbolo attraverso codici formali ben precisi grazie ai quali è possibile andare oltre l'apparenza reale dell'oggetto per
rivelarne il valore altro o alto. Aurier nomina capo di questo rinnovamento artistico il suo idolo, Paul Gauguin, il
quale per primo ha saputo rinnovare profondamente lo stile pittorico del tempo, al di là dei contenuti. Il critico, infine,
chiude il saggio fornendo un breve elenco della nutrita schiera di giovani artisti tutti appartenenti alla generazione dei
nati sotto gli anni 1870, i quali legheranno il loro nome indissolubilmente al Simbolismo d’oltralpe (Van Gogh
sarebbe stato un nobile deuteragonista di Gaugain ma la sua morte prematura non ne fa valutare in modo corretto il
suo contributo): Paul Sérusier ( di un simbolismo poetico, di una bella sintesi di linee e colori)1\, Emile Bernard (che fu
nonostante la sua giovinezza, uno dei primi insieme a Gaugain a reagire contro la tecnica complicata degli
impressionisti), i “mistici-cattolici” Charles Filigier, Maurice Denis e Ker Xavier Roussel (“uno stile così perfetto, una
visione semplice, calma e grane”), Paul Ranson, Pierre Bonnard ( un delizioso ornamentista, abile ed ingegnoso come
un Giapponese) , Edouard Vuillard ( un singolare colorista pieno di charme e di imprevisto, un poeta che sa dire, non
senza qualche ironia, le dolci emozioni della vita), Jen Ferdinand Willimsen..
GABRIEL ALBERT AURIER. IL SIMBOLISMO IN PITTURA, PAUL GAUGUIN.
*Testo di Aurier del 9 febbraio 1891 Le Symbolisme en peinture. Paul Gauguin. lotta biblica di Giacobbe e l'angelo.
Che risolve per il buon lettore, l'eterno problema psicologico nella possibilità delle religioni, delle politiche delle
sociologie. Di fronte ad essa si disquisisce su quanti sia impressionista. Ma chi lo dice che si tratti d'impressionismo? È
forse giunto il momento di fare chiarezza sulla parola impressionismo. Per il pubblico che si interessa di arte, esistono
solo due categorie di pittori: i pittori accademici che smerciano il bello ufficiale, nel genere antico, moderno o altro
brevettato con garanzia governativa; e dall'altra i pittori impressionisti, ovvero tutti coloro che, in rivolta contro i
gusti dei critici da strada e contro gli ignari formulatori scolastici, si permettono la tracotante libertà di non copiare.
L'impressionismo sarebbe questo, a prescindere dal nome, che purtroppo implica un significato preciso, che fuorvia il
pubblico. Il vocabolo impressionismo che lo si voglia o no suggerisce tutto un programma di estetica fondata sulla
sensazione. L'impressionismo non è e non può essere altro che una variante del realismo, un realismo perfezionato,
più spirituale, più dilettantesco ma pur sempre realismo. Il suo scopo rimane l'imitazione della materia. Pissarro e
Monet, traducono certamente le forme e i colori in modo diverso rispetto a Courbet ma infondo, come quest'ultimo,
traducono solo la forma e il colore. Il fine ultimo della loro arte è la cosa materiale, reale. Il pubblico considera
l’impressionismo come una vaga nozione di un realismo speciale; si aspetta opere che saranno solo una fedele
traduzione, che non supera in alcun modo la sola impressione sensoriale. La lotta di Giacobbe con l'angelo, che ho
cercato di descrivere all'inizio di questo studio, dimostra a sufficienza, a mio parere, l'esistenza di questa tendenza, e
si deve capire che i pittori impegnati in un nuovo percorso hanno tutto l'interesse a sbarazzarsi dell'assurda etichetta
di impressionisti la quale implica un programma direttamente opposto al loro. Dunque, che si inventi un nuovo
vocabolo in ista per gli ultimi arrivati, in testa ai quali marcia Gauguin: sintetisti, ideisti, simbolisti, quel che più
piacerà, ma che si rinunci anzitutto all'inetto nome generale di impressionisti e che lo si riservi esclusivamente ai
pittori per i quali l'arte è solo una traduzione di sensazioni e impressioni dell'artista. Paul Gauguin mi sembra un
sublime veggente, l'iniziatore di un'arte nuova. È evidente che nella storia dell'arte esistono due grandi tendenze in
contraddizione l'una con l'altra: la tendenza realista e quella idealista. Arte realista, il cui unico fine è la
rappresentazione delle forme materiali, delle apparenze sensibili, rappresenta certamente una manifestazione
estetica interessante. Ci rivela l'anima del suo creatore, giacché mostra le deformazioni che ha subito l'oggetto
passando attraverso di lei. D'altra parte nessuno mette in dubbio che il realismo ha talvolta prodotto anche indiscussi
capolavori che risplendono nel museo di tutte le menti. Eppure è altresì vero che l'arte idealista appare più pura ed
elevata. Si potrebbe perfino affermare che l'arte suprema potrebbe essere solo ideista, giacché l'arte, per definizione
è solo la materializzazione rappresentativa di ciò che vi è di più elevato, di veramente divino del mondo, di ciò che
solo esiste davvero: l'idea. Coloro che non sanno vedere l'idea, né crederci, sono dunque degni della nostra
compassione, così come lo erano per gli uomini liberi i poveri stupidi prigionieri della caverna allegorica di Platone?
Eppure, se si esclude la maggior parte dei primitivi e alcuni dei grandi maestri del rinascimento, la tendenza generale
in pittura si sa, è stata fino ad ora quasi esclusivamente realista. Molti confessavano di non arrivare a comprendere
come la pittura, arte rappresentativa per eccellenza, in grado di imitare fino all'illusionismo tutti gli attributi visibili
della materia, possa essere altro dalla riproduzione fedele dei tratti degli oggetti. Gli stessi idealisti il più delle volte
furono, a dispetto delle loro affermazioni, soltanto idealisti-realisti. Hanno voluto presentarci oggetti belli, ma belli in
quanto oggetti, giacche l'interesse delle loro opere risiede sempre nella qualità della forma, ossia nella realtà. Quello
che hanno chiamato ideale era solo l'astuta maschera delle sgradevoli cose tangibili. In breve, hanno dipinto
un’oggettività convenzionale, ma pur sempre oggettività. Anche loro sono i poveri stolti prigionieri della allegorica
caverna. Lasciamoli dunque istupidire nella contemplazione delle ombre che credono siano la realtà e torniamo agli
uomini che lontani dal crudele carcere natio contemplano estasiati il cielo radioso delle idee. Scrivere il proprio
pensiero, la propria poesia con i segni, ricordando che il segno, per quanto sia indispensabile non è nulla in sé stesso e
che solo l'idea è tutto, questo sembra essere il compito dell'artista, il cui occhio sa discernere la sostanza degli
oggetti. Conseguenza di questo principio è una semplificazione nella scrittura del segno. È vero che il più delle volte,
ai nostri miopi occhi gli oggetti appaiono oggetti, nient'altro che oggetti, indipendentemente dal loro significato
simbolico. La nefasta propensione a considerare, nella vita pratica, l'oggetto solo un oggetto è palese, che si
potrebbe dire quasi generale. L'uomo superiore, solo, illuminato dalla suprema virtù sa di essere un segno gettato in
una innumerevole folla di segni. È necessario quindi che nell'opera idealista il pubblico sia messo in condizione di non
poter dubitare che gli oggetti, nel dipinto, non abbiano nessun valore in quanto tale, che siano solo segni, verbi,
sprovvisti di qualsiasi altra importanza in sé stessi. La prima conseguenza di questo principio è una necessaria
semplificazione nella scrittura del segno. Di conseguenza alcune leggi appropriate dovranno regolare l'imitazione
pittorica. L'artista avrà il compito di evitare con cura l'antinomia di tutte le arti, la verità concreta, l'illusionismo, il
trompe l'oeil, in modo tale da non dare con il suo dipinto l'impressione fallace di natura. Il rigoroso dovere del pittore
ideista è di selezionare in modo razionale tra i molteplici elementi combinati nell’oggettività, utilizzare nella sua
opera solo le linee, le forme, i colori generali e distintivi necessari per scrivere nettamente significato ideico
dell'oggetto. È facile dedurre che l'artista avrà sempre il diritto di esagerare, attenuare, deformare i caratteri
significanti, non solo secondo la sua visione individuale ma anche di esagerare nel formarli secondo i bisogni dell'idea
da esprimere. Quindi l’opera d’arte sarà Ideista: poiché il suo unico ideale sarà l’espressione dell’Idea
Simbolista: poiché esprimerà l’idea con le forme
Sintetica: poiché traccerà queste forme secondo un modo di comprensione generale
Soggettiva: poiché l’oggetto non vi sarà mai considerato in quanto tale, ma in quanti segno dell’idea percepita dal
soggetto.
Decorativa: poiché la pittura decorativa è la manifestazione di un’arte allo stesso tempo soggettiva, sintetica,
simbolista e ideista, così come fu intesa dagli Egizi e dai Greci e Primitivi. La pittura decorativa è la vera pittura. Essa è
stata creata proprio per decorare con pensieri, sogni e idee i banali muri degli edifici umani. La pittura da cavalletto è
una fantasia illogica, inventata per soddisfare la fantasia o lo spirito commerciale delle civiltà decadenti. Nelle società
primitive, i primi tentativi pittorici potevano essere solo decorativi. L’arte che si intende proteggere con la difesa
finora operata, è la formula di un’arte semplice, spontanea e primordiale. Così l’arte ideista è l’arte vera ed assoluta
poiché legittima dal punto di vista teorico e risulta inoltre identica all’arte primitiva, come fu intuita dai geni istintivi
dei primordi dell’umanità. Sì, forse, l'artista, se non possiede qualche altro dono psichico, si limiterà a essere un
comunicatore espressivo. Gli occorre infatti il dono dell'emotività, non ovviamente l'emotività che tutti conoscono
davanti alle lussuose combinazioni passionali degli esseri e degli oggetti ma l'emotività trascendentale, così grande
preziosa che fa tremare l'anima davanti al dramma ondeggiante delle astrazioni. Oh quanto sono rari coloro i cui
corpi e i cui cuori si commuovono di fronte al sublime spettacolo dell'essere e delle idee pure. Grazie a questo dono,
simboli, ovvero le idee, escono dalle tenebre e si animano. Grazie a questo dono, l'arte completa, perfetta, assoluta,
finalmente esiste. Questa è l'arte, credo, che ha voluto instaurare il grande artista genio: PAUL GAUGUIN. Eppure,
per quanto magistrale e meravigliosa sia la sua opera (il Calvaire, La lutte de jacob avec l’Ange, il Christ jaune,
paesaggi della Martinica e della Bretagna dove ogni linea e ogni forma e ogni colore è il verbo di un’Idea), è poca,
paragonata a quello che Gauguin avrebbe potuto produrre, posto in una civiltà diversa. Gauguin, occorre ripeterlo,
come tutti i pittori idealisti, è prima di tutto un decoratore. Le sue composizioni sono come rinchiuse nel ristretto
terreno delle tele. Talvolta, si è tentati di prenderle per frammenti di affreschi immensi e quasi sempre sembrano
pronte a far esplodere i quadri che ingiustamente le delimitano. Ebbene, nel nostro secolo agonizzante, abbiamo un
solo grande decoratore, forse due, contando Puvis De Chavannes, e la nostra solida società di banchieri e dotti si
rifiuta di dare a questo artista il più misero castello. Signori, come rideranno i posteri, come vi schernirà e sputerà su
di voi il senso dell'arte, se un giorno si sveglierà nell'umanità! Vediamo, un po' di buon senso, avete in mezzo a voi un
decoratore geniale: Dategli dei muri!
GABRIEL ALBERT AURIER. I SIMBOLISTI.
*Testo di Aurier del 1 aprile 1892 Le Symbolistes. Dopo aver proclamato per 80 anni, nel suo entusiasmo infantile,
l'onnipotenza dell'osservazione e della deduzione scientifica, dopo aver affermato che non esiste nessun mistero di
fronte alle sue lenti, il XIX secolo sembra infine accorgersi della vanità dei suoi sforzi. L'uomo avanza ancora in mezzo
agli stessi enigmi, ha mille volte meno certezza della teogonia più bizzarra, della fantasticheria metafisica più folle, e
presagisce che la scienza, che si chiamava positiva, è solo la scienza della relatività, delle apparenze, delle ombre,
come diceva Platone. Occorrerà bene dunque che ritornino nella città coloro che ne erano stati scacciati, i depositari
dell'eterno sapere, i supremi distributori di conforti e speranze, i creatori di dei, i Poeti. Sarà il secolo dell'arte, della
gioia, della verità, che sostituirà il secolo della scienza. L’arte esclusivamente materialista, l’arte sperimentale e
immediata, si dibatte contro gli attacchi di un’arte nuova, idealista e mistica. Da ogni parte si rivendicava il diritto al
sogno, ai pascoli azzurri; in letteratura migliaia di giovani poeti bellicosi proclamarono di non poter essere soddisfatti
dalle rozze osservazioni fisiche dei laboratori naturalisti. La copia degli aneddoti sociali, l'imbecille imitazione della
natura, la piatta osservazione non soddisfa più nessun pittore o scultore degno di questo nome. A costo di spezzarsi il
collo, come l’avaro Icaro, si vuole lasciare il suolo paludoso per tuffarsi nell’etere, esplorare il cielo delle idee, le sfere
dei simboli. Non dimentichiamo il clamore sorto tra il pubblico intorno a questi termini nuovi e poco compresi come
scuola simbolista, pittura ideista, neotradizionalismo proprio in occasione di una vendita di certe opere di Gauguin e
della sua partenza per Tahiti. Anzitutto occorre capirsi e non credere che gli artisti che sono stati o si sono denominati
simbolisti abbiamo la pretesa di aver inventato il simbolismo o di averlo monopolizzato. Molti artisti prima di loro ne
sono consapevoli, ma potremmo spingerci fino a dire che tutti i veri artisti, sono stati simbolisti per il semplice fatto
che non c'è arte senza simbolismo. Questo è addirittura l'unico criterio che permetta di affermare in un'opera la
qualità artistica. Puvis de Chavannes, Gustave Moreau, Rodin hanno cercato evidentemente di rappresentare altro
dalle realtà concrete e immediate. Si sono sforzati di capire il significato misterioso delle linee, delle luci e delle ombre
per scrivere le belle poesie dei loro sogni e idee; sono stati simbolisti non certo, senza saperlo, ma senza dircelo, nel
modo in cui lo furono tutti gli Angelico, Mantegna, Memling, Durer, Rembrandt e da Vinci. Questi artisti sono giunti
portatori di linguaggi dimenticati, in un’epoca di scetticismo, di pedante ignoranza, di falsa scienza, un’epoca
materialista, industriale, utilitarista, in cui nessuno poteva sospettare che l’arte potesse non essere solo un mestiere,
un commercio lucrativo. Bisognava reagire, dunque occorreva opporsi all’errore generale e presuntuoso di un intero
secolo felice e fiero della sua quieta cecità e per questo sono stati allo stesso tempo artisti e teorici. Le loro teorie
rivoluzionarie spiegano e legittimano non solo le opere dei simbolisti di oggi ma, per quanto diverse, anche quelle dei
grandi maestri del passato. Talvolta la nuova scuola è stata chiamata “neo-tradizionista” e probabilmente è molto più
prossima alla tradizione dei maestri e dei classici che degli artisti del passato recente. Quando si parla di estetica, è
necessario tornare al problema iniziale e conclusivo di tutti i trattati: CHE COS'È UN'OPERA D'ARTE? Non possiamo
negare che un'opera d'arte non è il mero risultato di un'imitazione più o meno esatta della realtà materiale delle cose.
Se molti, la maggior parte dei pittori attuali hanno ricondotto l'arte a servile imitazione, nessuno tra i teorici, persino
quelli realisti, ha nemmeno sognato di accontentarsi di quella ridicola definizione. Quindi: un’imitazione della realtà
materiale delle cose, come percepita dai diversi temperamenti degli artisti, nella loro infinita diversità. Questa
definizione, certo elementare, lascia però desumere la necessaria presenza, nell'opera d'arte, di una sorta di
simbolismo, rudimentale, è vero, ma indispensabile. Infatti se la realtà deve essere deformata da un temperamento,
cos'è in quest'ultimo analisi l'opera realizzata se non un segno visibile di quel temperamento, cos'è se non un
SIMBOLO di quel temperamento, il SIMBOLO dell'insieme ideico e sensibile dell'artista? Evidente, l'arte realista per
come è stata concepita è definita, vive senza saperlo di simbolizzazioni, forse molto immediate e ristrette ma sempre
simbolizzazioni. I pittori accademici non si preoccupano del secondo elemento, che è però la conditio sine qua non
della definizione. Gli artisti realisti, poiché privi di temperamento o per averlo banalizzato, si accontentano di esporre
opere che testimoniano un abile scimmiottamento della natura, tal volta sistemata secondo il catechismo
dell'accademia o secondo la moda del paese, ma che è sempre percepita attraverso la visione e l'anima più
impersonali. In altre parole non fanno ARTE, a prescindere da quale sia la loro conoscenza tecnica. Poiché una
semplice imitazione del reale non rivela mai la presenza di una benché minima spiritualità, essa non è mai Arte. In
altre parole, non c'è anzi, NON C'È MAI ARTE SENZA SIMBOLISMO. Sarebbe così possibile accettarla se dovessimo
rispondere a puri idealisti che non disdegnano ammettere l’identità di anima e insieme cosmico. Ma resta ancora da
determinare se una tale concessione sia soddisfacente, se la parte accordata alla simbolizzazione sia sufficiente da
applicare tutte le opere d'arte, ovvero se per esempio il piccolo San Giovanni al Louvre, debba essere interpretato
come un efebico profeta che simboleggia gli stati d'animo di Leonardo Da Vinci e se questo significa averlo definito in
modo completo e perentorio. Ma poiché è noto che gli esteti realisti accettano ben volentieri l’esistenza oggettiva
delle cose, che negano con piacere l’entità del pensiero e che per loro il reale, il dimostrato, è l’oggettivo piuttosto
che il soggettivo, è importante porsi sul loro stesso campo di discussione e accettare in via provvisoria con loro
l’eterogeneità dell’anima e delle cose, la realtà delle esteriorità. La definizione data dei naturalisti è incompleta e
insufficiente. Non possiamo infatti persuaderci che l'arte, modo supremo di espressione, non possa esprimere
l'universalità della psiche. Non possiamo persuadersi che possa esprimere solo questa cosa miserabile e infinitesimale
nell'infinito: l'uomo. L’insieme cosmico considerato in modo soggettivo sembrava una serie di disparità il cui termine
più forte è il soggetto, l’io Pensante, e i cui termini più deboli, fino allo zero, sono gli oggetti. Tale insieme cosmico,
invece, considerato per ipotesi in modo oggettivo, diventa una serie di unità, se non uguali, almeno equivalenti.
Quindi se ammettiamo che posti di fronte a un punto di vista puramente oggettivo, l’entità di un oggetto equivale
sempre all'entità di un altro oggetto qualsiasi, per quanto diversi siano i suoi attributi, saremo costretti a credere che
per quello che non è attributo, per tutto quello che è essenza, un oggetto qualsiasi deve essere considerato conforme
alle modalità d’essere del solo oggetto che possiamo conoscere: noi stessi. Una delle modalità di essere più certe del
nostro io è la conoscenza del proprio essere, ossia il pensiero. Questa conoscenza non è certo un attributo dell'essere
ma piuttosto una delle sue modalità necessarie, senza la quale non esisterebbe più. D'altronde l’Io ci appare ancora
essenzialmente limitato nello spazio, da una forma definita, identica a sé stessa, che è sé stessa. La forma è il corpo,
segno tangibile dell’Io. Occorre dunque ammettere che perché esiste la legge logica delle equivalenze, che la forma,
che il corpo di ogni altro oggetto, è allo stesso modo la modalità del suo essere, ossia il significato visibile del suo pensiero .
Insomma, ricapitolando, in natura, tutti gli oggetti sono idee significate. Significa ammettere la possibilità e la
legittimità per l’artista di essere preoccupato, nella sua opera, dal sostrato ideista che è ovunque nell’universo e che,
secondo Platone, è l’unica vera realtà giacché il resto non è che apparenza, ombra. Significa infine ammettere la
possibilità nell'arte, di un simbolismo più profondo, più generale di quello che i naturalisti avevano implicitamente
ammesso. Sarebbe temerario affermare che noi tutti abbiamo una perfetta visione della realtà ideica, che tutti
sappiamo leggere, attraverso le apparenze, le radiose Verità che esse significano. La maggior parte di noi ne è
incapace per ingenuità o, piuttosto, per l’atrofizzazione di questa facoltà a opera dell’educazione; più incapaci degli
stessi selvaggi il cui linguaggio, le cui religioni, i cui schizzi artistici barbari dimostrano spesso una comunione molto
intima con il pensiero immanente della natura, con l’anima delle cose. Quasi tutti noi siamo come prigionieri della
caverna platonica, che potendo vedere solo le ombre, negano il cielo luminoso e la realtà degli esseri. Ma che
importa? Per quanto rare siano le intelligenze dotate di questa visione perfetta, esistono e sono le intelligenze
superiori della povera cieca umanità. E infatti l'arte è prima di tutto la necessaria espressione materializzata di
qualsiasi combinazione spirituale, bisogna ammettere che solo colui che conosce il significato dei termini utilizzati
potrà scrivere dall'espressione. Il pittore che sprovvisto di questa facoltà indispensabile fa comunque un quadro,
somiglia all'uomo che si diverte unire parole a caso di una lingua sconosciuta, per lui prive di senso. Nell'arte così
intesa, giacché il fine non è la riproduzione diretta immediata dell'oggetto, tutti gli elementi della lingua pittorica,
lingue, piani, ombre, luci, colori diventano elementi astratti che possono essere combinati, attenuati, esagerati,
deformati, secondo il loro modo espressivo, per raggiungere l'obiettivo generale dell'opera: L'ESPRESSIONE DI UNA
CERTA IDEA, SOGNO O PENSIERO. (lo scrittore sottolinea come sarebbe troppo complesso e lungo affrontare la
simbologia degli elementi astratti del disegno ma cita la ricerca di Charles Henry). L'opera d'arte è quindi la
traduzione, in una lingua speciale, di un dato spirituale che è un frammento della sensibilità dell'artista, o l'intera
spiritualità dell'artista con in più la spiritualità essenziale dei diversi esseri oggettivi. L'opera d'arte completa è dunque
un essere nuovo, si potrebbe dire vivente, poiché ha un'anima propria che lo anima, ed è la sintesi di due anime,
quella dell'artista e quella della natura. L'essere nuovo, quasi divino, poiché è immobile e immortale, deve essere
ritenuto suscettibile di ispirare emozioni, idee, sentimenti speciali. Chiamiamo questo influsso, questo irradiamento
avvertito di fronte ad un capolavoro nel sistema simpatico, sentimento del bello, emozione estetica. Questo
sentimento, così spiegato dalla comunione delle due anime, una inferiore e passiva, l'anima umana e una superiore
attiva, l'anima dell'opera, appariranno forse molto simili a quello che chiamiamo AMORE, ancora più amore
dell'amore umano, sempre imbrattato di una qualche fangosa sessualità. Capire un'opera d'arte significa amarla
d'amore. È soltanto con l’avvicinamento intimo che tutti cominciamo davvero a sentire l’armoniosa lingua delle
sublimi immagini, a conversare con loro, presagendo che avranno sempre una nuova e miracolosa gioia da rivelarci.
Queste che lui ha esposto sono le teorie d’arte che interessano una schiera di giovani, nauseata dalla “piazzetta”
dell’arte realista, dalla banalità della pittura commerciale. Gustave Moreau, Puvis De Chavannes, i preraffaelliti inglesi
avevano già rivendicato con coraggio, l'eccellenza della tradizione vera e buona, quella dei primitivi. Come loro, i
simbolisti di oggi invocano i primitivi di tutte le scuole (assiri, Egitto, Grecia, i discendenti dei Fiorentini del XIV secolo,
dei tedeschi dell’XI, dei Goti del Medioevo, un po' anche i cugini dei giapponesi). L'incontestabile inauguratore di
questo movimento artistico fu Paul Gauguin. Allo stesso tempo pittore, scultore, decoratore e ceramista ha
affermato la necessità di semplificare i modi espressivi, il diritto per l'artista di preoccuparsi dello spirituale e
dell’intangibile. La sua opera è improntata a una filosofia altamente idealista espressa con mezzi elementari, si
potrebbe quasi trattare di un Platone interpretato plasticamente da un selvaggio geniale. C’è in Gauguin qualcosa di
selvaggio, di primitivo come nell'indiano che istintivamente scolpisce nell’ebano sogni strani meravigliosi.
Probabilmente una vaga coscienza di tutto questo lo ha spinto a partire lontano dalle nostre civiltà e di esiliarsi in
quelle isole lontane ancora incontaminate, nella natura selvaggia di Tahiti. Accanto a Gauguin, dobbiamo citare il suo
amico e il suo appassionato ammiratore, Vincent Van Gogh, artista estremo e squilibrato in modo sublime (potente
originalità, folle furia di lavoro, ricerche febbrili, tele di intensità accecante che sono simboli folgoranti dell’anima
tormentata che fu). Sarebbe necessario nominare un altro artista altrettanto originale, ancora più bizzarro è
spaventoso: Odilon Redon, le cui litografie, sono incubi. Opera terribile di vertigine di angoscia e di negazione del
metafisico: la mano dell'artista sembra strappare intorno a noi il velo di tutti i misteri che ci imprigionano al fine di
mostrarci terrori nebulosi, ancora ombra in cui brulicano sinistri enigmi oscuri. La sua bocca sembra gridarci il
prodotto di ogni scienza, di ogni pensiero e un brivido di paura. Per essere completi ed esaustivi, sarebbe forse
necessario menzionare anche gli impressionisti e i neoimpressionisti, da Manet a Renoir e dei loro soffi di sintesi
espressiva, dall'infelice Seurat e della sua scienza sterile ad Anquetin ed i suoi tentativi di giapponismo. Ma il presente
studio non richiede simili sviluppi. Che sia sufficiente indicare, dopo i grandi nomi già citati, quelli di alcuni giovani
che, pur non essendo ancora usciti dal periodo delle prove, non sono meno interessanti per l'entusiasmo e
l'intelligenza che apportano all’auspicata instaurazione dello spiritualismo nell'arte. Innanzitutto c'è Paul Sérusier
(simbolismo poetico, sintesi di linee e colori) e c’è poi Emile Bernard (uno dei primi a reagire alla complessa tecnica
impressionista, molto vigile e troppo duttile, manca di perseveranza nella direzione delle sue ricerche, rinuncerà poi a
goffaggini e ingenuità che lo avevano sedotto per orientarsi ad opere davvero magistrali). Nella loro opera poteva
essere già notata la tendenza al misticismo, ma un misticismo deviato dalle sue caratteristiche storiche, un
misticismo ancora un poco pagano e più evocatore delle scuole di Alessandria che dei monasteri medievali. Al
contrario Charles Filiger e Maurice Denis dimostrano un misticismo più ortodosso, lontano dal dilettantismo religioso
di oggi. Roussel. A eccezione di Redon, che è a parte, tutti coloro che ho appena citato spiccano chiaramente come
decoratori senza paragoni, ai quali mancano solo i muri. Essi tenevano in considerazione infatti come dogmi principali
il simbolo e la sintesi, ovvero l’espressione delle idee e la semplificazione estetica e logica delle forme. Un altro
giovane di grande talento, Ranson, manifesta le stesse capacità nel creare quasi uno stile decorativo a parte grazie a
una spiccata immaginazione teratologica. Bonnard, delizioso decoratore, abile e ingegnoso come un giapponese e
capace di ornare tutte le brutte cose quotidiane con i cangianti rami della sua fantasia. Infine citerei Vuillard, un
singolare colorista pieno di fascino e di imprevedibilità. Wuillumsen, un caricaturista che lo confesso non mi affascina
affatto.

3) Tusini
IMPRESSIONISME, NÉO-IMPRESSIONISME E CARACTÉRISME
Alcune note critiche che Gabriel Aurier scrive sui principali attori della pittura francese. Anzitutto gli impressionisti
propriamente detti, cioè Claude Monet e Pierre Auguste Renoir. Tuttavia la pittura di MONET è per Aurier pittura
fugace, troppo fugace per poter essere simbolico addirittura simbolista, per poter collegare un lato mondano,
un'idea. Dal punto di vista tecnico le sue pennellate sono troppo pennellate, smodatamente rapide. Conclude con un
ultimo, sincero tributo al valore dell'arte monetiana, che si sostanzia soprattutto di armonia, di spirito estatico e
felice. Il che tuttavia sembra essere condizione forse necessaria ma non sufficiente a raggiungere le sfere supreme
proprio perché l'arte di Monet è impastata di materie mondana dunque inabile a spiccare quel balzo verso i regni dello
spirito. Nel caso di Auguste RENOIR il nostro Aurier compie un'abile manovra retorico critica giungendo quasi a
trasfigurare l'opera del maestro per portarla verso le logiche più consone. L'universo del Renoir maturo è certo
lontano dal misticismo di Monet. Renoir non è un uomo tutto concentrato in una retina fantasmagorica ma fu uno
sperimentatore, preferendo i corpi, le sinuosità femminili, le soffici chiome e le vesti, i dati tattili, materici, memore a
un suo modo della lezione dei grandi maestri primo fra tutti il Raffaello della Farnesina. Ammaliato da queste
caratteristiche, il critico sfugge a ogni equivoco piattamente naturalistico tanto che legge le fanciulle seducenti di
Renoir come marionette meccaniche, bambole vaporose evidenziando così nella sua produzione, un universo di
finzione, anzi una fictio esasperata che cambia la stessa natura dei soggetti viventi trasformandoli in simulacri. Renoir
preferisce dunque l'aneddotica di una umanità civettuola e sofisticata, evitando piuttosto soggetti di ispirazione
rurale coubettiana rispondenti alla categoria del joli, che ben si può tradurre con grazioso, sembra essere la più
consona per Aurier, tanto da usare molto la parola, declinandone diversi aspetti dell'attività di Renoir. Nella lingua
italiana il termine è un derivato di grazia che nel lessico storico artistico fa riferimento al classicismo e alle sue varie
riedizioni, volto a definire un tipo di bellezza soave e delicata. Ma la graziosità che Aurier vede nelle figure di Renoir
è sottoposta ad una sorta di décalage verso una pseudo realtà oggettificata, priva di afflato vitale. A CAMILLE
PISSARRO, Aurier dedica una recensione che avrebbe dovuto contenere anche un articolo su SEURAT che però non
fu mai scritto. Molta è la sincera ammirazione dello scrittore per Pissarro artista ma anche per le qualità morali
dell'uomo, sempre pronta a spendersi per gli altri. Questo contributo fu redatto a caldo dopo il vernissage della
mostra ideata da Theodore van Gogh che gestiva la galleria Boussoud & Valadon. È un artista della continua ricerca,
pronto ad accogliere le novità, attenta a non irrigidirsi con formule invecchiate, inclini a contrastare il divario
generazionale che lo separa dai più giovani accostandosi a costoro con voglia di imparare ma disposto anche a
dispensare consigli. L'ammirazione dello scrittore per il maestro gli fa anche digerire la tecnica puntinista che lui
sperimenta, con successo, ripartendo verso nuove mete dopo aver già consolidato la propria fama con un
sensibilismo impressionista dalla leggera pennellata. Una tale scelta comporta una coscienza “scientifica”, per
amministrare al meglio possibile luce e colore per farne un uso ragionato “chiaro e distinto” ,per non perdersi in deliri
visionari e panici. Aurier comprende però che la svolta divisionista di Pissarro è soprattutto una prova della sua fede
nel mestiere della pittura verso la quale Aurier nutre non poca diffidenza che rischia sovente di produrre risultati
arlecchineschi. Inutile la complicazione, lo spreco di risorse, sottointesa ma chiara avversione alla sintesi,
superficialità edonistica nel godimento visivo e contrarietà a “le style”, nella sua incompatibilità col disegno ben
delineato. Lo scopo di Pissarro non è una pedante indagine sulla psicologia della percezione e le lunghezze d’onda dei
colori come potevano essere quelle applicate da Seurat, su indicazione di Chevreul. Aurier poi passa a censire
rapidamente alcuni dipinti presenti in una mostra fissandone con sottile intelligenza, in pochi tratti essenziali, colori e
forme, parlando più volte di linea e di sintesi, quasi fossero silhouette ostinatamente cercate ed individuate in un
denso luminoso pullulare cromatico: l’occhio di Aurier va ben oltre i limiti di una siffatta tecnica, agli antipodi rispetto
alle proprie idee che sembra indicare la strada nuova del formalismo e della decorazione. Il capitolo V è dedicato al
Parigino JEAN FRANCOIS RAFFAËLLI. Troppa minuziosa la sua arte, e non è certo una festa per gli occhi, né
possiede generalmente le qualità più apprezzate dallo scrittore sia per i toni generalmente grigi e fumosi che per i
soggetti legati alla povertà e ai bassifondi cittadini, per il suo realismo livido; tutti attributi che non lo fecero accettare
neppure agli impressionisti stessi che non lo accettarono alla quarta esposizione del 1878, ove invece esposte
Gaugain. Lo scrittore pare tuttavia volersi sintonizzare sullo spirito di Raffaëlli. Aurier proprio all'inizio del suo
contributo, con una prosa prolissa, un interminabile elenco di soggetti di atmosfere frequentati dal pittore tra la
Francia e l'Inghilterra. Si tratta di un cangiante caleidoscopio, non così colorato, anzi cromaticamente smorto, fatto di
macchiette, di personaggi curiosi, bassifondi, insomma il gran teatro del mondo che il nostro autore delinea con
l'immediatezza di uno scherzo; vuole farne un'istantanea, giornalistica ekphrasis della produzione dell'artista. E
difatti le qualità migliori che Aurier riconoscere nell'opera di Raffaëlli sono proprio quelle della rapida annotazione,
delle illustrazioni, talvolta della caricatura. Raffaëlli è un pittore troppo analitico, troppo attratto dalle minuterie per
poter incontrare l'approvazione dello scrittore. Tuttavia, il suo pur vistoso scrupolo mimetico che va di pari passo con
una curiosa tendenza all’esagerazione, l'onestà visiva intellettuale, ne fanno, secondo Aurier un artista apprezzabile,
modesto pittore ma ottimo illustratore.
AURIER: CAMILLE PISSARRO
(in “Revue Indépendante” n. 41, mars 1890, pp.503-515 poi in Oeuvres posthumes col titolo “Le Néo-
impressionisme: Camille Pissarro”, pp.235-244)
Non Auguriamo a Pissarro di essere lodato presto dalla critica, poiché la critica inizierà ad amarlo solo dopo la sua
morte. È questo per una serie di valide ragioni: anzitutto la critica notoriamente miope non ha mai brillato nell'arte di
scoprire i talenti né di capire le opere veramente originali. Inoltre questa vecchina ha la mania di affibbiare al nome
dello sfortunato nuovo artista nel quale si è imbattuta per pura casualità una definizione, perentoria e immutabile,
come nei dizionari. Pissarro invece si presenta di fronte alla critica con tutte le peggiori raccomandazioni
immaginabili. Invero, la sua stessa opera, personale, nuova, profonda, non era fatta per accordargli la simpatia dei
vecchi occhiali d'oro. Forse lo avrebbero potuto tollerare per quanto scandalosamente originali fossero le sue formule
artistiche, se avesse acconsentito a restare per sempre immutato. Purtroppo nulla di ciò è avvenuto. La critica qui ha
commesso l'imperdonabile sciocchezza di credere che un artista non è un pony che percorre sempre la stessa pista,
con gli occhi bendati. Ha immaginato che la vita di un grande artista debba essere una serie di tappe verso un ideale
sempre più vicino, ma sempre troppo lontano. Pissarro non si accontenta di essere un talento che segue un cammino
in avanti costante ma ha dei cambi di rotta assolutamente bruschi. Non temette di lasciare il diritto cammino in cui la
critica lo seguiva tanto faticosamente, né di lanciarsi nel sentiero più imprevisto. Da molto tempo ormai vista non era
più un giovane debuttante. Sebbene il pubblico e i giornalisti non si protrassero in estasi di fronte alle sue tele,
almeno la sua pittura cominciava a essere capita e amata da un numero piuttosto nutrito di persone. A furia di studi
era riuscito a precisare in modo adeguato le forme necessarie per il suo genio, il suo temperamento artistico. Si era
creato un modello. Lo stile delle sue figure contadine, l'emozione profonda di certi paesaggi, facevano pensare a un
Millet, più dedicato, meno religioso, altrettanto poetico. Era riuscito a fissare sulla tela la malinconia solenne che
sorvola le cose e gli esseri nei campi. Ma all'improvviso decise di andarsene verso campi lontani e gli amici che lo
osservavano se ne meravigliarono. Colui che era già quasi un maestro, si faceva nuovamente allievo, sembrava
rinnegare tutto il sapere acquisito. Ma questo rifiuto era solo apparente in quanto l'artista conservava per intero il
grande bagaglio conoscitivo che già possedeva. Quel che aveva cercato e trovato nella natura fino a quel momento
era il carattere profondo delle cose e degli esseri, l'emozione, il profumo, la poesia degli ambienti, la psicologia delle
forme. Pensava che il pittore non dovesse essere solo uno psicologo e un poeta e né che dovesse parlare
esclusivamente all'anima ma che dovesse parlare agli occhi e il più intensamente possibile. Il suo ruolo è in primo
luogo fare la gioia delle nostre pupille, far cantare al colore, sorta di stregone, la sua vera canzone gioiosa e
splendente; tramutare per mezzo di una sapiente alchimia, in luce reale, i materiali opachi e fangosi di cui dispone la
pittura; metaforizzare le resine sporche della tavolozza e limpidezza: questo è l'obiettivo che Pissarro si prefisse nei
suoi nuovi studi. In quel periodo il gruppo dei pittori neoimpressionisti si andava formando. Sedotto dalle teorie
audaci, l'artista si unì a loro e si rivelò un temerario esploratore dell'ignoto. Devo ammettere da parte mia di aver più
volte sorriso ironicamente davanti ad alcune di quelle tele. A poco a poco però Pissarro padroneggiò la nuova tecnica,
il procedimento puntinista che mi sembra il procedimento più complesso e difficile di tutti. Di giorno in giorno
realizzò miglioramenti inaspettati. Lo scopo evidente dell'artista era immergere gli oggetti nella luce vera, vibrante e
chiara come la luce del sole. Oggi non si può negare che lo ha raggiunto (Aurier dice di lui “le tele attuali di Pissarro
sono dipinte con il sole”). Per quanto riguarda la nuova tecnica: consiste nel non miscelare i diversi elementi tonali ma
di giustapporli sulla tela con macchie proporzionalmente frazionate essendo esse combinate solo nella retina. Aurier
non vorrebbe che gli artisti adottassero questa tecnica perché implica molti inconvenienti: complica la fattura,
l’esecuzione e contraddice l’assioma del’actio minima che è uno dei più incontestabili dell’estetica: “Si deve ottenere
il massimo effetto con il minor numero di mezzi”. Inoltre essa rende più superficiale l’opera, abituando l’occhio a
soddisfarsi dell’armonia dei colori brillanti e scintillanti, senza preoccuparsi del resto. Infine, essa è poco compatibile
con la precisione del disegno, con la purezza delle linee. Ad ogni modo questo metodo imperfetto ha portato alcuni
artisti a risultati davvero incredibili. La mostra di ieri (Boussod e Valadon) in cui eravamo invitati a vedere le sue opere
più recenti ne è la dimostrazione. Mi aspettavo di ritrovare gli incoerenti vestiti di Arlecchino di un tempo invece ho
scoperto dei delicati capolavori, traboccanti di luce e poesia. Aurier fa poi un elenco di opere che ritiene capolavori
dell’artista: Un beau jour d’hiver à Eragny, in un ampio e calmo prato, delimitato in lontananza da una distesa di alberi
brinati, si trovano una fanciulla dalla gonna sferzata dalla tramontana e un giovane che accendono un fuoco dal legno
scoppiettante nell’aria fredda e secca. Un sole di gennaio, allegro e poco anemico, illumina il paesaggio e fa brillare
ciò che il gelo ha dipinto di bianco. Le figure – diversamente dal metodo puntinista- sono disegnate con abilità. La
tela infonde una sensazione di tranquillità, poetica e di dolce malinconia contadina. Alcuni amici di Pissarro si
sforzarono affinché lo Stato acquistasse questa tela ma fu loro risposto che P. non ha alcuna medaglia d’oro (non è
inscritto nelle sovrastrutture di mecenatismo dell’amministrazione delle Beaux-Arts). Altra tela “Les Faneuses”:
paesaggio ricoperto di verde, inondato di luce, alcune contadine scuotono con i forconi i fasci di erba fresca, con gesti
severi e ritmati. Tutti i colori, gli aranci, i versi e gli azzurri si fondono in un inno profondo di allegria. Le “Femmes
causant” presentano una composizione così felice, così ricco e armonioso da rappresentare un’opera dalla quale
sprigiona un’adorabile impressione di salute e placidità rurali. “Les Glaneuses” ricurve e accucciate, avvolte da una
diafana polvere rosa e oro di un tramonto, raccolgono le ultime spighe, unendole in fasci (qualità ritmica dei corpi e
contorni). “Prairies de Saint-Charles”: grande colorista, disegnatore armonioso, sole basso l’orizzonte diffonde sulle
cose una luce calda e un po' selvaggia; il verde degli alberi e dell’erba è ricoperto di una polvere arancione.
Commovente pace rurale. Una tranquillità soave, una malinconia gioiosa, un raccoglimento idillico. Accanto alle
pitture olio, Pissarro espone alcune pitture a tempera, altrettanto notevoli e forse meno sconcertanti per il pubblico.
L’artista infatti non vi applica in modo ortodosso il metodo della divisione del colore. Il tono vi perde in luminosità ma
la linea ne guadagna in purezza e precisione e l'animo si rallegra tanto di trovare una tecnica artistica più semplice che
si consola con piacere del sacrificio di un po' di colore e luce. La mostra nata dall'idea di Theodore Van Gogh sarà
credo una vera rivelazione per molti del grande valore di Pissarro. Dimostra che l’artista, il cui spirito inquieto ci aveva
spaventati, non era affatto il lunatico sconsiderato che credevamo, ma era un cercatore saggio, convinto e tenace che
ha trovato ciò che cercava. Ha ritenuto necessario servirsi di una formula nuova, forse inutile, in ogni caso tanto
difficile da sembrare impraticabile da mani umane. È riuscito a padroneggiarla. Non pensiamo più allo strumento,
perché l’operaio ha saputo utilizzarlo con abilità. Aurier constata ingenuamente che Pissarro ha dimostrato in modo
irrefutabile che non è impossibile creare cose belle.
RAFFAËLLI
(in “Mercure de France”, n.9, septembre 1890, pp.324-329 poi in Ouvres posthumes, col titolo Le caractérisme:
Raffaelli, pp.245-253)
Cieli grigi, noiosi, sporchi della fuliggine proveniente dalle fabbriche... Operai sudati, neri abruttiti dalla fatica... Tipici
piccoli interni di impiegati in pensione... Ambulanti, saltimbanchi, serve pidocchiose, bettole, mendicanti, tutti i
miserabili che abitano un mondo cupamente variegato, che è la periferia. Poi all'improvviso, l'Inghilterra. Cieli Foschi,
la flemma, l'ipocrisia, i gentlemen e gli altri man ancora, Rossi altezzosi... Le carrozze, i vagabondi, le pale-ale whisky
e tè... Infine, è nuovamente la Francia, non più la periferia, ma Parigi stessa nel suo polimorfismo caleidoscopico, la
vita febbrile, rumorosa, l'eterna calca e l'eterno tumulto. Tutte queste scene di Banlieue, di Angleterre, di Paris, notati
e colti nella loro peculiarità, nel loro carattere essenziale, nel loro aspetto abituale, con la necessaria esattezza, un
pittoresco pandemonio che evoca solo per il nome di Raffaëlli. Egli è tra i pittori degni di questo nome, uno di quelli
che presentano la commissione di difetti e pregi più sconcertante. Tuttavia per quanto imperfetto sia il suo talento
esso poteva fregiarsi di tante rare virtù come la sincerità, l'odio del banale, la falsa eleganza; uno spirito curioso,
ironico e patetico, paziente nella ricerca e pronto a inseguire le annotazioni più istantanee. Raffaëlli si definì
caratterista, cercando perfino di creare una scuola in -ista e di precisarne l'estetica nei suoi libretti. Di tutto ciò ci resta
soltanto l'epiteto “caratterista” che lo descrive con una certa esattezza. Il suo animo infatti è molto materialista,
molto realista e al contempo analitico, è in sommo grado attirato dall'esteriorità degli esseri e delle cose, dal
carattere delle loro superfici che l'artista passa la vita a osservare, ad annotare, con una tecnica stupefacente. A
interessarlo sono i segni del pensiero più che il pensiero stesso, e lo interessano più per ciò che vi è di pittorico che per
il loro significato rappresentativo. Raffaëlli osserva e nota gli incidenti epidermici, ma lo fa come un artista, non come
un erudito. Annota minuscoli dettagli estrinseci che a noi sembrano vani e puerili e che invece per lui sono del più alto
valore. Grazie alla sua sensibilità, della sua anima di artista, i fenomeni per quanto insignificanti, acquisiscono colore e
ciò che ci permette di interessarci al minuzioso esterno dell'opera. Né l’attenzione esclusiva a ciò che è in superficie,
né la mania della futile ricerca implicano necessariamente freddezza. Ciononostante, occorre ammetterlo, nemmeno
l'emozione che constatiamo nelle sue opere pare mai profonda o solenne. Si tratta di una gaiezza che si sparge sui
dettagli, che scivola sul derma, che penetra appena, secondo la sua intelligenza che si consuma in superflue analisi.
Per questo di fronte ai dipinti di Raffaëlli ci si ritrova a rimpiangere qualcosa, un non so che... forse l’immensa visione
penetrante, l'impressionabilità di tutto l'essere, di un Rembrandt! In Raffaelli vi è una vasta sintesi delle forme
generali, del gesto, della figura, solo un’indicazione delle linee generali al fine di fissare il carattere, solo lo stesso
indispensabile. Forse è meno esatto, ma di certo è più vero. Rispetto ad un Degas che è meno prolisso e più
eloquente, più chiaro e penetrante e dunque più artista di un Raffaelli. Cionondimeno, lo ribadisco, l'opera di Raffaëlli
resta, nonostante tutto, molto interessante e seducente. La superficialità, la mania dermatografica a oltranza, la
potenza visiva, la passione del vero del pittoresco distintivo, hanno avuto il singolare risultato di farne il primo e forse
il solo pittore aneddotico dei nostri giorni. Le sue sono più illustrazioni che quadri, ma illustrazioni miracolose e
incomparabili. Raffaëlli, e bisogna confermarlo con forza, è un illustratore geniale. È un artista troppo cosciente, un
teorico troppo logico e dotto per percorrere alla cieca la via artistica che segue. Come pittore infatti, come colorista,
esso esiste a malapena. La sua tavolozza è sporca, torbida, fosca. Nonostante alcuni lodevoli sforzi tesi alla chiarezza
la maggior parte delle sue tele rimangono grigie. Troppo spesso non sa distinguere il solido dal fluido. Ma che
importa? Come ho già detto può tranquillamente farne a meno. La composizione dei suoi schizzi più minori è quasi
sempre felice. Sa Fare a meno dei luoghi comuni e delle formule, contentandosi della perspicace osservazione della
realtà, in cui tutto trova posto senza sforzo. Perciò i suoi schizzi sono logicamente delineati, caratteristici, imprevisti,
divertenti come apparizioni troppo vere. Gli occorre piuttosto la scienza della composizione, del disegno. È bene a
questo riguardo non ha nulla da invidiare a nessuno. Gli si rimprovera di non riuscire sempre ad adattarsi all'animo dei
diversi soggetti, di rimanere canaglia, plebeo, quando invece dovrebbe diventare elegante ad aristocratico. Il disegno
di Raffaëlli è spesso così bizzarramente personale che si è tentati di chiedersi se l’originalità non sia premeditata,
l'eccentricità voluta invenzione di sana pianta, in spregio delle vecchie formule, di una formula diversa ma non meno
artificiale di tutte le altre. Qualunque sia il motivo, lo preferisco comunque a tutte le discussioni e banalità degli eterni
allievi dell’eterne scuole. Raffaëlli è anche scultore, le sculture presentano gli stessi pregi e gli stessi difetti di suoi
dipinti. Si tratta di figure di bronzo fissate a pochi centimetri con sottile lastra di marmo o legno. Sono facili e comodi
da utilizzare persino in viaggio. Una scultura di appartamento, tascabile! Questi bassorilievi imitano, difatti le ombre
cinesi. La loro ingegnosa e fantasiosa giocosità si concilia poco con lo stile alto, per la solennità, la decorativa solidità
di cui l’arte statuaria necessita. L'unica cosa che posso fare augurare all'autore è che la sua invenzione gli porti un
successo lucrativo tra i circoli mondani e che comporti una rivoluzione completa dell'arte... industriale!
RENOIR
(in “Mercure de France”, n.20, aout 1891, pp.103-106 poi in Ouvres posthumes, col titolo L’Impressionisme:
Renoir, pp.245-253)
Davanti al microcosmo grazioso infiocchettato dall'aspetto così piacevolmente artificiale, così adorabilmente
fantasioso, che seppero evocare i pennelli quasi lascivi di Renoir devo, mio malgrado, immaginare un'anima artistica
ingenua, buona, indulgente, gioiosa, ironica; un'anima fanciullesca, che si meraviglia, si rallegra e gioisce del mondo e
del reale. Nell'immenso e grazioso negozio di giocattoli che è stato per lui l'universo, Renoir è stato prima di tutto
attratto dalle guance imbellettate, dalle labbra rosse perennemente sorridenti, dai begli occhi smaltati di azzurro
delle bambole, adorabili bambole, con la carne di porcellana rosa, dagli abiti scintillanti di satin. Egli volle dipingere la
donna, lo squisito, grazioso balocco chiacchierino, saltellante, che adorava e la cui anima, immaginava, non doveva
certo essere molto diversa da un movimento di orologio; tra tutte le donne, tra tutti i giocattolini automatici, tra tutte
le delicate macchine artificiali, sono state quelle in cui l’artificialità era più distinta che lo hanno attratto e sedotto di
più. Disdegnando le robuste contadine, troppo vicine alla natura, esso vuole la bambolina graziosa, la bambola più
bambola: la parigina. L'interpretazione originale forse molto saggia del famoso eterno femmineo non sembra forse
essere, in Renoir, la necessaria conseguenza di uno scetticismo acquisito per mezzo di amare esperienze? Mi sembra
più spontanea, più ingenua, più istintiva, e anche se dovesse essere nata da qualche tipo di scetticismo, si tratterebbe
di uno scetticismo non del tutto amaro, non del tutto razionale o derivato dall’esperienza. Con tali idee Renoir non è
stato affatto superficiale, anzi è stato profondo in quanto ha soppresso in modo quasi assoluto l'intelletto delle
modelle, e glielo ha compensato prodigando nei suoi dipinti il suo stesso intelletto che era eccezionalmente originale.
Tuttavia il grazioso di Renoir, che è il grazioso spinto al massimo grado dell’artificialità, diventa prodigiosamente
interessante grazie alla sua eccessività e in secondo luogo perché è in un certo senso un grazioso filosofico, simbolico
del suo spirito artistico e delle sue idee, delle sue conoscenze cosmologiche. Data la sua impostazione psicologica,
come avrebbe potuto percepire le cose diversamente dalla loro graziosa esteriorità dato che secondo lui il solo fine
degli esseri e delle cose è affascinare e divertire la sua anima di bambino? A cosa servirebbero qualità più intime della
donna? La vede, la vuole graziosa, solo questo. Perché dovrebbe essere bella giacché è graziosa? Perché intelligente,
perché stupida, perché falsa, perché maligna? Ella è graziosa. Ella ha un sesso? Si, ma lo immaginiamo sterile, buona
soltanto per i nostri puerili divertimenti. Ella non vive, non pensa. Noi tutti vogliamo attribuirle i nostri sentimenti, le
nostre emozioni. Vogliamo credere che abbia un cuore complesso, un’intelligenza contorta. Giocate con la vostra
bambola, attribuitele sentimenti che non può avere, datele vita con le vostre fantasticherie, ma fate attenzione a non
prenderla sul serio, perché sareste ridicoli come fanciulli che inveiscono contro un gioco senza colpe. Ad ogni modo,
Renoir ha saputo trarre da questa filosofia, probabilmente inconscia, un'opera curiosa e seducente. Chi non
desidererebbe frequentare questo mondo incantevole di graziose figurine dall’eterno sorriso, per metà donne e per
metà bambine che hanno quel tanto che basta di vita per far credere che possiedano un corpo vero, un’anima, che
possano capirci e amarci? Questa tendenza dell'artista di definire cose delicate in cui unico scopo è di servire da
giocattoli all'uomo bambino, lo riconosciamo nei fiori, nelle nature morte proprio come nelle figure femminili: non
sono quasi più frutti, fiori, con funzioni e scopi nella realtà fisica ma sono diventati semplicemente dei graziosi oggetti
di piacere se deliziano la pupilla. La stessa bizzarra deformazione può essere osservata nei suoi paesaggi cui unico
scopo è costituire un gradevole decorazione del negozio di giocattoli. Come si può immaginare tutto questo dà vita a
un’arte singolare, semplice e complessa, ammaliante. È davvero un caso paradossale sconcertante, quello di questo
pittore, candido come un fanciullo, eppure tanto complesso, che ha, senza premeditazioni perverse, gusti artificiosi; è
un pittore ingenuo e spontaneo, consapevole di filosofie tanto sofisticate, uno scettico un poco credulo, istintivo, il
quale, convinto della futilità della vita, della vanità della donna, della falsità del mondo, ben lontano dal cadere, per
questo, nell’amaro pessimismo, se ne rallegra, glorifica la loro futilità, la loro vanità, la loro falsità e le dichiara
lodevoli, preziosi e graziosi balocchi necessari alle fanciullesche ricreazioni della sua anima.
CLAUDE MONET
(in “Mercure de France”, n.28, avril 1892, pp.302-305 poi in Ouvres posthumes, col titolo L’Impressionisme:
Claude Monet, pp.221-225)
Le sue opere sono inni ammirevoli, inteneriti, diretti all'aspro dispensatore di vita e di gioie di bellezza, quindi forse un
po' più brevi di quanto vorremmo, inni di un pontefice frettoloso senza molto fiato, e tuttavia sinceri e splendidi. Non
si chieda all'innamorato della divina luce, altro che l'amore per la divina luce. La voluttuosa passione che lo esalta, le
sensazioni ineffabili che conosce lo autorizzano a non sognare, non pensare né quasi a vivere. Le idee, gli esseri, le
cose non esistono più per lui. Vero mistico dell’elioteismo e niente affatto scolastico, non vuole argomentare, non
vuole spiegare nulla, gli basta amare, fondersi negli effluvi bollenti del globo glorioso. Il resto, ovvero il suo corpo e la
sua anima, l'anima e il corpo degli altri, non hanno importanza per lui. Non sa forse che con la complicità del suo dio il
nulla stesso si illuminerebbe, per diventare un tempio di gioia e sfarzo? Così, sceglie, pretesti insignificanti, soggetti
banali per trasformare questi nulla in incanti, in poesie radiose: un covone in mezzo alla pianura, la valle della Creuse,
le onde del Mediterraneo. Claude Monet ha avuto una notevole influenza sui pittori contemporanei. Ha insegnato
loro a conoscere le allegre naturali luci degli esterni, provare vergogna del bitume, dei neri, dei seppia. È responsabile
della piccola rivoluzione della tecnica pittorica così come lo fu Manet. Ma nell’arte dipingere in modo chiaro, non ha
un’importanza capitale. Ad affascinarsi dell'opera di Monet è sopra ogni cosa, più della chiarezza, la sintesi e
l'armonia, così come lo spirito artistico, ingenuo, vitale, felice che ne emerge. Ci è forse concesso di criticare l’opera
nella quale mancano comunque elementi indispensabili per raggiungere la bellezza perfetta, di constatare
l’elementarità delle pennellate istantanee, spesso troppo pennellate, troppo istantanee, di biasimare il costante
sacrificio delle forme significanti e il partito preso di immergere gli esseri in atmosfere così splendidamente luminose
che sembrano smaterializzarsi; inoltre forse legittimo auspicare un’arte meno immediata, meno legata alle
sensazioni, un’arte del sogno e delle idee. Sarebbe ingiusto, tuttavia, non amare il grande pittore che seppe allietare
le pupille e rallegrare i cuori, che traduce in modo eccellente le gioie della vista.
4) Baldini
COSÌ ORIGINALI E COSÌ ISOLATI
(Aurier: “Les isolés, Vincent Van Gogh” in “Mercure de France”, n. 1. Janvier 1890, pp 24-29)
Pubblicato sul primo numero del nuovo Mercure de France, Les isolés, Vincent Van Gogh è il primo e l'unico articolo a
interessarsi del lavoro dell'artista prima della sua tragica morte. L'attenzione di Aurier si concentra sulle opere
realizzate dal pittore ad Arles e a Saint Remy ed evoca i grandi temi della sua pittura dando grande evidenza alle
caratteristiche che ne contraddistinguono il temperamento. In particolare si rileva come egli percepisca il cromatismo
con un’intensità esasperata, resa, secondo Il critico, attraverso un particolare tono “gemmique”. È possibile che l'idea
del testo sia maturata nel critico a partire da l’Oeuvre maudit del 1889, componimento dedicato agli artisti non
allineati, ribelli, da sempre in conflitto con il loro tempo. Presentato ad Aurier da Emile Bernard, Vincent Van Gogh al
momento dell'uscita dell'articolo può dirsi pressoché sconosciuto al di fuori delle frange simboliste.
Nell'analizzare il lavoro, lo studioso dimostra di aver compreso i fondamenti della sua poetica. Egli riconosce
all'olandese rare qualità inventive tali da renderlo estremamente originale ma anche da stare isolato. Due gli assunti
basilari: l'opportunità che il critico sia prima di tutto un poeta, sola figura in grado di tradurre le opere in un idioma
comprensibile ai più e la necessità che questi si spinga poi oltre l'interpretazione poetica per giungere all’insieme di
idee che caratterizza le vere opere d'arte. La concezione di Aurier relativamente allo statuto del critico d'arte richiama
le posizioni di Baudelaire che dato il suo ruolo di iniziatore della disciplina, non potevano essere ignorate. Recensendo
il salone del 1846 Baudelaire sostiene che la vera critica deve essere parziale, appassionata, politica, condotta da un
punto di vista esclusivo, tale da aprire il più ampio degli orizzonti. La sua influenza può essere ravvisata anche
nell’esigenza di sincerità che contraddistingue il vero artista. Bisogna però rilevare che la sua posizione ostile
all'accademia e alle situazioni ufficiali è abbastanza peculiare e che le sue valutazioni originali e strutturate a favore
del simbolismo non possono dirsi sempre condivise. Coerente con le sue speculazioni, Aurier segue dunque uno
schema riconoscibile in almeno due dei quattro testi presi in esame, quello su Van Gogh e quello su De Groux. Meno
strutturato l'impianto dell'articolo su Carriére mentre il brano su Hennér sembra essere più una riflessione sul
percorso dell'artista che una disamina dei suoi lavori. Lo schema adottato per l'analisi dell'opera di Van Gogh e
dell'altro, può dirsi composto di due parti distinte, la prima, costituita da un testo descrittivo con l’elenco di metafore
liriche che scaturiscono dalla percezione oggettiva del critico, e resa attraverso una prosa appassionata e visionaria.
Nella seconda parte del testo le opere vengono sottoposte ad una lettura critica in senso più stretto. Ma Aurier, usa
per la prima sezione, tecniche letterarie di derivazione simbolista, per esempio, attraverso la ripetizione ritmata dei
suoni egli mira ad un effetto ipnotico. Principale modello di riferimento in questo senso è l'opera di Stephane
Mallarmé, figura importante nella propagazione dell’interesse diffuso in quegli anni per l’occultismo e l’alchimia.
Dopo l’iniziale narrazione magniloquente e appassionata, lo scrittore procede dunque con un'analisi più razionale. Nel
caso di VAN GOGH colpisce come il critico parta dal confronto con gli antichi maestri fiamminghi. Apparentemente
inconciliabile questa affermazione trova un equilibrio alla luce della definizione del realismo di Van Gogh. Egli ci dice
infatti che il pittore, lungi dall'essere aneddotico e fenomenico, trascende la realtà distillando da essa il
simbolismo. Nella sua pittura la natura è elemento inquietante. Il ruolo dell'idea, vero fondamento di ogni
composizione, è dissimulato dalla squisita selezione di linee e colori che per quanto peculiari dell'individualità
espressiva di Van Gogh, restano pure i mezzi del suo processo di simbolizzazione. Suggestione delle idee
generali impastate nei colori (“egli è molto cosciente della materia, della sua importanza e della sua bellezza e la
considera come una sorta di meraviglioso linguaggio destinato a tradurre l’idea”). Il critico poi sottolinea il
temperamento genuino e violento che accarezza l'idea di una pittura semplicissima e quasi infantile nella sua
verità. La differenza sostanziale tra il vero e la soggettiva versione di esso resa nella mediazione pittorica di VG,
risiede nel fatto (l’Idea, essenziale substrato dell’opera, che è nello stesso tempo la causa efficiente e finale).
[Van Gogh risponde nel 1890 esprimendo la sua sorpresa il suo apprezzamento: per quanto lusingato dalle attenzioni,
l'artista pare non gradire l'etichetta di isolato attribuitagli. Scrivendo alla madre infatti egli afferma di essersi
rattristato nel leggere l'articolo, e prosegue affermando che ciò che maggiormente lo sostiene nel suo lavoro è invece
proprio la sensazione che ci siano diverse persone che stanno facendo esattamente la stessa cosa, chiedendosi infine
perché Aurier abbia scelto lui e non quegli altri 6 o 7]
Il testo che più si avvicina alla struttura compositiva di Van Gogh è quello dedicato a HENRY DE GROUX che
presenta però una significativa peculiarità, infatti è una delle pochissime volte nella quale Aurier descrive i dipinti
esaminati in termini letterari. Parlando di Le Meurtre, per esempio, egli avverte lo spettatore di trovarci di fronte
all’orribile racconto di un viaggiatore ingannato e brutalmente assassinato dai ladri. Lo scrittore elogia il quadro
perché il suo significato va oltre il singolo episodio narrato ed esprime un contenuto profondo e universale.
L'argomento macabro suggestiona il critico fino a fagocitare nel discorso le qualità formali del lavoro. Fortemente
attratto dei soggetti scioccanti dell'artista, egli esamina anche L’Assassine, Le Pendu, Les Trainards, e attribuisce il
loro impatto alla manipolazione che l'artista fa degli elementi pittorici astratti, insistendo su quando l'emozione che
ne derivi sia di natura puramente estetica riprodotta dalla contemplazione di queste astrazioni (Definisce il suo lavoro
spaventoso, evoca suggestioni di illustri precedenti quali un Delacroix pazzo furioso, un Goya ebbro e un Caravaggio
sanguinolento. Conclude con un deciso apprezzamento del pittore che viene definito molto peculiare, oltremodo
geniale). Ancora una volta l'ammirazione di Aurier per il realismo di molti artisti appare incompatibile con la sua
risoluta opposizione a un’arte imitativa, anche se l'apparente contraddizione assume toni meno stridenti alla
luce di due precetti fondamentali del pensiero del critico: la possibilità dell'arte di descrivere la realtà, purché
non si tratti della riproduzione della sua concretezza materiale, e l'urgenza di mezzi di rappresentazione diversi
dall’imitazione. Entrambe premesse fondamentali nella lettura del lavoro di EUGÈNE CARRIÉRE. Fondamentale
anche l'esempio di HENNER che secondo il critico francese, tende spontaneamente alla sintesi. L'uso della parola
sintesi in Aurier è quasi sempre da mettere in relazione con una forma di semplificazione o con la visione soggettiva
dell'artista, la correlazione di queste due posizioni è uno degli aspetti più complicati della sua teoria che solo negli
scritti più maturi egli si sforzerà di chiarire. Scrivendo di Herrer, Aurier si riferisce alla sintesi in entrambe le accezioni.
Nella prima parte del testo il termine compare nell'ambito di un discorso teso a formalizzare la distinzione tra
l'idealizzazione soggettiva e l'applicazione di un ideale pre formulato. Nel caso della sublimazione personale, (l’unica
sostenuta al critico) l'artista è autorizzato a modificare l'aspetto naturale degli oggetti in base alla sua personale
percezione intellettuale. Nella seconda parte del testo il termine è associato alla semplificazione che è uno dei doni di
tutti i decoratori. Compare per la prima volta uno dei fondamenti del sistema critico di Aurier, la convinzione che è
che esista una connessione ineludibile tra decorazione e arte simbolico-sintetista. La sintesi, passando da
un'accezione all'altra, sembra diventare il codice del processo di trasposizione dell'idea (o stilizzazione),
principio di semplificazione formale che restituisce il concetto, il risultato di questo personale processo di
riduzione formale atto a esprimere in maniera simbolica l'idea è lo stile. Il quadro che emerge da questi iscritti,
oltre a palesare come le teorie enunciate trovino applicazione nella pratica di Aurier, mostra la sua prospettiva
riguardo gli artisti e alle opere a lui contemporanei, rendendo i suoi studi espressione lucida ma empatica del nuovo
modo di osservare il mondo.
GABRIEL ALBERT AURIER
J.F. HENNER
Henner è da circa due anni un accademico. Come è risaputo, oggi, per far parte dell'accademia de beaux-arts, è
sufficiente essere privi di qualsiasi genio, di qualsiasi originalità, essere un imitatore molto anonimo e soprattutto non
avere mai inventato nulla. Henner non aveva quindi nessun diritto a questo onore. Tuttavia, sebbene ora appartenga
all'Istitut, Henner non è affatto un pittore accademico, poiché possiede talento, evidente personalità e disprezzo delle
formule banali. Fu sì allievo dell’Ecole de Rome, ed ha quindi ricevuto l'istruzione superiore del perfetto pittore che ha
imparato a disegnare e spennellare secondo la regola, l'unica buona e che gli è stato dimostrato matematicamente
che era inutile affaticarsi con ricerche personali, giacché Tizio e Caio hanno scoperto molto tempo fa l'unico bello, la
grande arte, la ricetta infallibile per confezionare senza dolore, su misura capolavori immortali. Henner ascoltò i suoi
maestri ma non appena si sentì abbastanza sicuro con le sue ali per prendere il volo si mise in salvo lontano, molto
lontano. Richiuse in fondo a un vecchio armadio tutti i cliché, tutti gli infallibili principi e le formule che gli erano stati
tanto generosamente elargite. Capendo che il valore di un'opera d'arte dipende meno dal livello di tecnica e abilità di
esecuzione che dall'originalità del concerto, dell'emozione, dalla visione dal pensiero, si disse che il problema da
risolvere era produrre un'opera che fosse la sintesi delle sensazioni, delle idee, delle impressioni morali. Tuttavia,
tutto questo si potrebbe dire, non è che il famoso motto dei realisti: dobbiamo essere sinceri. Ebbene, se un’artista
strettamente naturalista, che copia in modo servile soltanto le sue sensazioni, è un'artista sincero, potremmo
attribuire lo stesso epiteto a Henner, il quale incontestabilmente, realizza la visione che ha delle cose. Lo strumento
percettivo dell'artista è essenzialmente modificabile dall'artista stesso. L'artista quindi ha diritto di provare a
modificarlo, perfezionarlo, a condizione però di perfezionare i caratteri che appartengono solo a lui che lo
contraddistinguono, che costituiscono il suo io distintivo. In breve, il perfezionamento dovrà avvenire solo per mezzo
dell'esagerazione di ciò che è già originariamente presente. Il frutto di questo lavoro intellettivo costituirà il suo
temperamento non quello originario, che conta poco, ma il temperamento di artista. È una volta appurato ciò, la
parola sincero potrà indicare sia le opere di Courbet, un feroce realista, sia quella di Henner che è un poeta. Henner
dedicò i pochi anni successivi al ritorno da Roma a questo lavoro intimo, alla ricostruzione del suo io di artista. Come
la maggior parte dei veri poeti, l'artista mancava completamente di un seppur minimo spirito di analisi. Per natura
vedeva in modo semplice senza dettagli, senza la complicazione di inutili minuzie. Quasi sempre gli artisti dotati di
questo talento innato sono predestinati alle grandi opere simboliche decorative. Henner invece, e questa anomalia è
peculiare del suo temperamento, aveva un’innata tendenza alla restrizione dei concetti, alla semplificazione dei
soggetti, al restringimento della cornice. Il risultato fu un talento molto particolare, quasi unico nella storia dell'arte.
Non ci si imbatterà mai nella sua produzione in una di quelle grandi macchine sapientemente complicate, di un'analisi
meschina e miope. Una Ninfa, una semplice testa femminile o due figure nude distese su un prato, sulle rive di un
ruscello con uno sfondo di foglie scure, gli bastano per riuscire a commuoverci e a farci sognare. Della sua produzione
ciò che preferisco di gran lunga sono le linfe e le Naiadi e le pastorelle nude sui prati. Per quanto seducenti siano i suoi
ritratti così poetici, per quanto deliziosamente intrisi di leggenda mi sembrino le sue Maddalene i suoi San
Sebastiano, sono un poco sconcertato da questa arte, che, dal Cristianesimo, non prende che pretesti che paganizza
e sensualizza, con un fascino alquanto inquietante, anche i soggetti più spirituali persino e Gesù. Mi turba, per quanto
sia delizioso, come uno squisito paradosso non troppo lontano dalla blasfemia e torno quindi rapido al vero Henner, il
poeta sensuale pagano, il nipote dei Correggio e dei Giorgione. Non si cerchi però in questa mitologia la traduzione
allegorica delle idee cosmogoniche dei popoli passati, la conoscenza dei dogmi, il significato filosofico delle fiabe, dei
simboli, dei segni degli emblemi e delle allegorie. La mitologia di Henner è meno colta più spontanea e meno fredda
degli artisti di oggi e di ieri. Henner non è un prete dotto, egli è un pastore di Teocrito, un bravo suonatore di flauto e
poeta. Henner siete riuscito a proteggere la vostra personalità dalle vecchie gelide formule accademiche! Vi auguro di
proteggerla dalla reiterazione delle formule Henneriane.
GLI ISOLATI, VINCENT VAN GOGH
L'estensione inquietante e conturbante di una natura strana, soprannaturale, di una natura eccessiva nella quale
tutto, esseri e cose, ombre e luce, forme e colori, si impenna, si erge in una volontà rabbiosa di urlare la sua essenziale
canzone, con il timbro più intenso, più selvaggiamente acuto: sono alberi attorcigliati come giganti in lotta, che
proclamano con i gesti delle loro braccia l'orgoglio della loro muscolatura l'eterna sfida contro l'uragano. La materia,
la natura freneticamente attorcigliata; la forma diventa incubo, il colore diventa fiamma, luce si fa incendio, la vita
calda febbre. Questa è l'impressione, niente affatto esagerata, che lasciano sulla retina al primo sguardo le opere
bizzarre, intense e febbrili di Vincent Van Gogh, compatriota e non indegno erede dei vecchi maestri olandesi.
Quanto siamo lontani dai delicati colori sempre un poco torbidi e sfocati dei paesi del nord e da quell’arte
onestissima, coscienziosa e scrupolosa genialmente banale degli impareggiabili vecchi maestri. Tuttavia, non si cade
in errore, Vincent Van Gogh non si posiziona tanto lontano dalla sua razza: egli è pienamente olandese. Infatti prima
di tutto è, come tutti i suoi illustri compatrioti, un realista, un realista in tutta la forza del termine. Ars est homo
additus naturae, disse chiaramente il Bacone, ed Emile Zola ha definito il realismo la natura vista attraverso un
temperamento (è l’homo additus), la deformazione che varia secondo le personalità. Ritengo che nel caso di Van
Gogh nonostante la stranezza talvolta sconcertante delle sue opere, sia difficile negare e contestare l'autenticità
genuina della sua arte, l'ingenuità della sua visione. Indipendentemente dall’indefinibile profumo di buona fede, di
veritiero che emanano tutti i suoi dipinti, le scelte dei soggetti, il rapporto costante delle note più eccessive, la
consapevolezza dello studio dei caratteri, la continua ricerca del segno essenziale di ogni cosa, mille dettagli
significativi affermano in modo inconfutabile la sua profonda e quasi infantile sincerità, il suo grande amore per la
natura e per il vero: IL SUO PERSONALE VERO. A caratterizzare la sua intera produzione è l'eccesso della forza, del
nervosismo, la violenza dell'espressione. Nella categorica affermazione del carattere delle cose, nella semplificazione
temeraria delle forme, nel suo insolente fissare il sole, si rivela un individuo potente, audace e brutale talvolta
ingenuamente delicato. Inoltre, come si evince dagli eccessi quasi orgiastici di tutto ciò che egli ha dipinto, è un
esaltato, nemico delle sobrietà borghesi e delle minuzie, una sorta di gigante ebro, un genio terribile, dissennato,
spesso sublime, a volte grottesco, sempre al limite del patologico. Infine egli è soprattutto un iperestesico, dagli
evidenti sintomi, che avverte con intensità anormale i caratteri impercettibili e segreti delle linee e delle forme. Il
motivo del suo realismo, il nevrotico, è questo ed è inoltre il motivo per cui la sua sincerità e verità sono così diverse
da quelle dei grandi borghesucci olandesi che furono i suoi avi e maestri. Egli è molto consapevole della materia, della
sua importanza, della sua bellezza ma anche il più delle volte considera la materia incantatrice solo una sorta di
linguaggio meraviglioso, destinata a tradurre l'idea. Egli è quasi sempre un simbolista. Certo non un simbolista alla
maniera dei primitivi italiani, ma un simbolista che sente la necessità di rivestire le idee di forme precise, ponderabili,
tangibili. Vincent Van Gogh non è solo un grande pittore entusiasta della sua arte, della sua tavolozza della natura, è
anche un sognatore, un credente esaltato, un divoratore di belle utopie che vive di idee e di sogni. In quasi tutte le sue
tele, sotto al rivestimento morfic0, sotto la carne estremamente carne, giace per lo spirito che lo sa vedere, un
pensiero, un’Idea essenziale sostrato dell’opera, la quale ne è contemporaneamente la causa efficiente e finale. Le
sinfonie di colori e linee non sono che semplici mezzi espressivi per lui, processi di simbolizzazione (il gesto e il lavoro
hanno sempre ossessionato VG e che dipinse e ridipinse tanto sovente sotto tramonti di cieli rubescenti o nella
polvere dorata dei mezzogiorni infuocati, se non pensando all’ossessione che gli tormenta il cervello riguardo alla
venuta di un uomo, di un messia, di un seminatore di verità che darebbe nuova vita alla decrepita arte e forse alla
nostra società imbecille e industriale/ la passione ossessiva per il disco solare che egli ama fa rutilare nell’esplosione
dei suoi cieli e allo stesso tempo, per l’altro sole, l’astro vegetale, il girasole che ripete senza stancarsi= gloriosa
allegoria eliomitica?). Indulse a lungo immaginando un rinnovamento dell'arte, possibile per mezzo di uno
spostamento della civiltà: un’arte delle regioni tropicali. Giacché i popoli reclamano imperiosamente opere che
corrispondano ai nuovi ambienti abitati, mentre i pittori, trovandosi faccia a faccia con una natura fino ad allora
sconosciuta, si confessano l’impotenza dei vecchi trucchi scolastici e iniziano a cercare con ingenuità, la candida
traduzione di tutte le nuove sensazioni (La Berceuse, Emplyé des postes, Pont-levis, Fillette à la rose, lo Zuave, la
Provencale= indicano tendenza verso la semplificazione dell’arte che si ritrova in tutta la sua riproduzione) Inoltre,
come conseguenza della convinzione del bisogno di ricominciare tutto da capo nell'arte, a lungo accarezzò l'idea di
inventare una pittura semplicistica ma, popolare, quasi infantile, capace di commuovere gli umili privi di raffinatezze.
TECNICA: La parte esterna della sua pittura è in correlazione assoluta con il suo temperamento di artista. In tutte le
opere l'esecuzione è vigorosa, esaltata, brutale e intensa. Il disegno furioso e potente spesso impacciato e un poco
pesante è unito ad un colore incredibilmente brillante. Eppure non riesce sempre ad evitare certe crudezze
sgradevoli, certe disarmonie, e dissonanze. Quanto alla fattura propriamente detta, ai procedimenti immediati volti
ad illuminare la tela, sono esuberanti, molto potenti e nervosi. Il suo pennello opera pe rmezzo di enormi mescolanze
di toni purissimi, pennellate curve, interrotte da tocchi rettilinei ciò che conferisce alle sue tele il solido aspetto di
mura brillanti fatte di cristalli e di sole. Questo artista, robusto e vero, di razza, delle mani brutali da gigante, dai
nervosismi da isterico, dall'anima da illuminato, così originale, così isolato, nel mezzo dell’arte di oggi conoscerà forse
un giorno le gioie della riabilitazione e le carezze pentite della moda? Forse. Van Gogh è allo stesso tempo troppo
semplice e troppo sofisticato per lo spirito borghese contemporaneo. Sarà compreso pienamente solo dai suoi fratelli
artisti. ( come già detto sappiamo che Van Gogh risponde ad Aurier ringraziandolo molto dell'articolo in cui dice di
ritrovare le sue tele molto migliori di quanto siano in realtà, sentendosi in imbarazzo in quanto le caratteristiche
(percepire il cromatismo delle cose con una tale intensità, con una tale qualità metallica, da gemma) che gli imputa lo
scrittore, si addicono ad altri piuttosto che a lui: cita il nome di Monticelli. Cita Gaugain come ispirazione, un amico a
cui far capire che un buon quadro deve essere equivalente ad una buona azione. Egli non si capacita come trattando
la questione della “pittura tropicale”, e del colore, Aurier avesse tralasciato le personalità di Gaugain e Monticelli
poiché lui dice “ciò che gli appartiene o apparterrà, resterà assolutamente secondario (rispetto alla produzione di
questi due)”. Nel voler individuare nei suoi girasoli, un simbolismo che rimandi alla gratitudine, VG non si spiega come
questo principio non possa essere applicato anche a quadri di fiori di altri artisti, convinto che sia difficile distinguere
l’impressionismo dalle altre cose ed aggiunge inoltre, che non vede alcuna utilità nello spirito settario che sta
vedendo negli ultimi anni. Si dichiara incapace di comprendere la critica di Aurier a Meissonier dato che lui nutre
verso di questo, un’ammirazione sconfinata. Infine aggiunge: “Alla prossima spedizione per mio fratello, aggiungerò
uno studio di cipressi per lei, se mi farà l'onore di accettarlo” ci stava lavorando perché voleva aggiungere una piccola
figura. Il cipresso è tipico del paesaggio provenzale. Fino a quel momento non lo ha potuto raffigurare come desidera,
proprio perché la visione della natura lo fa arrivare sino allo svenimento tanto che per riprendersi ha bisogno di 15 gg
in cui è impossibilitato dunque a lavorare. Lo studio per Aurier raffigura un gruppo di cipressi all’angolo di un campo di
grano mosso dal maestrale estivo. C’è una nota di nero avviluppata in un blu mosso dal forte vento che circola e a
questa nota di nero si oppone il vermiglio dei papaveri-accostamento di toni dei graziosi tessuti scozzesi a quadri
verdi, blu, rossi, gialli, neri-).
EUGÈNE CARRIÈRE
Fino a questo momento, avevamo potuto vedere le opere di Carrière solo separatamente, persi nello sfoggio della
fiera dei salons annuali. Oggi, ci è concesso guardare e studiare un certo numero di quadri e disegni di questo artista
raro, ben scelti, raggruppati in sale speciali, lontane da qualsiasi vicino disdicevole. Dobbiamo ringraziare Carrière per
aver avuto l'idea di questa mostra particolare che ha permesso alla gente di giudicare l'insieme della sua opera, di
capire meglio le tendenze e il significato della sua arte. In questo secolo di realismo furioso, in cui l'unica
preoccupazione è tradurre la materia esteriore, copiare i gesti, i costumi e gli ornamenti con trucchi da illusionisti,
Carrière è una dolce e imprevista sorpresa. Ci si aspettava di trovare un pittore, forse un fotografo e invece si incontra
un'anima, una pittura ed è un sogno poetico... La realtà piatta e brutale, nella quale viviamo avventure banali, è forse
uno spettacolo così interessante bello, da giustificare lo sforzo di imitarlo all'infinito? Non sarebbe forse meglio che
l'artista ci mostrasse l’abbietta oggettività il meno possibile? Carrière lo ha capito. Si sforza di affrontare la realtà
nauseabonda, causa della quale probabilmente la sua delicata anima da poeta deve avere spesso sofferto. Per partito
preso allontana da noi la detestabile natura e la sporca e banale vita. Solo le anime lo interessano. I suoi quadri sono
davvero delle evocazioni, non vediamo mai sotto al suo pennello nessun paesaggio, nessun cielo, nessun accessorio
decorativo. Tuttavia, l'opera di Carrière origina dalla vita. È misteriosa e inquietante, ma sfugge al fantastico grazie a
una logica sapiente nella trasposizione delle forme e soprattutto della luce: è ancora realtà e già sogno. Egli riesce a
evocare il perturbamento indeciso di ciò che è svanito, fissare le malinconiche visioni intraviste nella foschia di una
memoria incerta, raccontare le sensazioni vaghe di un passato quasi dimenticato e tuttavia fertile di commozioni
squisitamente dolorose (“il pittore delle profondità della vita”). E tutto questo, il ricordo, non è vita, la vita intera?
Carrière ha capito questa legge dell'esistenza, ha voluto essere il poeta delle cose ricordate, ossia di ciò che è
immutabile e vero nella vita. Odia il futuro, il presente, e li teme perché sono brutti, banali e brutali. Si guardi ad
esempio una qualunque delle molte maternità e si indovinerà nell’espressione di tenerezza un poco selvatica della
madre il terrore della terribile vita, dolorosa e stupida, che le vuole sottrarre il povero piccolo (bassorilievo terracotta
Michelangelo del Louvre: la Vergine tiene il bambino sulle ginocchia e le loro teste sono lontane, molto diversamente
dalle stesse iconografie della chiesa del Saint Suplice. Abbiamo una Maria emaciata, pallida, con gli occhi sbarrati, la
bocca aperta dal terrore, la pupilla dilatata che fissano un punto lontano in cui forse è appena emersa la visione
sinistra di un corpo molto amato inchiodato ad una forca… e le mani stringono il corpo del bambino come per, allo
stesso modo delle madri di Carrieré, contenderlo alla tragica e vana vita che già lo tira a sè. E il piccolo dio, con la
fronte corrucciata, fissando la stessa visione lontana, sembra pensare con l’anima piena di rassegnazione addolorata).
Invero, esso ha nel sorriso, la malinconia rassegnata di una vittima ingenua e nonostante questo cosciente. Per una
simile comprensione della vita e dell'arte, che forse è quella di tutti i veri artisti, Carrière si rivela un altro pensatore e
un grande poeta. Il suo mestiere di artigiano infallibile, la sua comprensione delle progressioni della luce, dei suoi
chiaroscuri, i suoi grigi argentati ricordano Velázquez.
HENRY DE GROUX
(in “Mercure de France”, n.10, octobre 1891, pp.223-229, poi in Oevres posthumes, pp.269-277)
Guardando quest'opera singolare e straziante, non si provocano solo i banali sentimenti di terrore, di pietà che
un'analoga atrocità reale, vista per caso, ispirerebbe, non è la sensazione dei nervi sconvolti dallo scontro con una
visione particolarmente agghiacciante, ma è un'emozione misteriosa, di natura più intellettuale, un'emozione che
senza colpire nervi né sensibilità, sconvolge solo le facoltà superiori dell'anima, un'emozione simile alla confusione
ideale, non sensoriale. Nel Meurtre, a emozionare non è il banale incidente del banale viandante sconosciuto. Fuori
dal suo contesto quest'opera non è che la narrazione di un crimine particolare. È una poesia, una commovente
terribile poesia nella quale leggiamo il dolore di vivere, la paura di vivere, l'angoscia dello sconosciuto avventuroso, la
maligna stupidità del caso, la miserevole vanità della galoppata umana in mezzo alle dolorose congiunture
dell'esistenza. Lo ripetiamo, quest’opera non è affatto la rappresentazione di un semplice fatto di cronaca che
emoziona per la sua atrocità. L'azione rappresentata non importa affatto, poiché è solo il segno materiale di un
pensiero, interessante e filosofico in modo diverso rispetto a una volgare questione di coltellate. Sì subisce, davanti a
quest'opera, inevitabilmente la suggestione delle idee generali che ho cercato di delineare e che il pittore ha
impastato insieme ai colori. Il dramma smette di essere un dramma speciale, per diventare un dramma umano,
puramente intellettuale, simbolo appassionante dei sogni dolorosi di un'anima artistica. Le idee che costituiscono
essenzialmente l'opera davvero d'arte e che ho chiamato il prolungamento spirituale, sarà precisato dal poeta che lo
traduce nel suo linguaggio speciale, versi o prosa, linguaggio evidentemente più chiaro poiché più familiare alla
massa degli uomini, rispetto al linguaggio universale fatto di linee e colori. Comunque sia, lo devo dichiarare sin da
ora, ho potuto constatare tale prolungamento spirituale in tutti i dipinti, purtroppo poco numerosi, che ho potuto
vedere di Henry De Groux. Come può un fatto particolare trasformarsi istantaneamente in un’idea generale, in un’alta
sintesi. Questa opera diversa se un soggetto identico venisse trattato da un abile pittore aneddotico, osservatore
perfetto ma privo di qualsiasi facoltà di fantasticheria filosofica. Poiché è la testa che guida la mano, non vi è nulla di
sorprendente nel fatto che la mente di un sognatore guidi la sua mano in modo tale da tradurre il suo sogno e per fare
questo, gli dia la forza necessaria a combinare a modificare linee e colori quasi impossibili da analizzare. L’evidente
subordinazione dei contorni delle superfici, delle luci, delle ombre, il ritmo disperato, tragico, delle linee, di tutte le
linee, che cadono in curve dolorose, talvolta spezzate, dalla metà superiore della tela agli angoli inferiori,
concordanza lugubre dei colori, la sinistra armonia del verde scuro, del blu scuro, del nero, i ritmi delle linee e dei
colori di cui si sarebbe necessariamente servito il realista aneddotico. Ora parliamo di un'altra tela, ancora più terribile
è strana, i Trainards, gli sciacalli. Somiglia ad una spaventosa tappezzeria fiamminga che interpreta un riluttante
incubo di Brugel degli inferi. Ricorda un sogno macabro di Callot ritoccato dal Goya, che si dibatte in un regno di
decomposizione, si estende, ripugnante, con tonalità gialle, nere e verdi e con venature di muffa. Il contrario della
gloria è questo. Un silenzio sepolcrale aleggia ora intorno all’odore di putrefazione. Il cielo a sinistra è solcato dal volo
vorticoso di innumerevoli corvi. Ed ecco che arrivano a scaglioni, numerosi come i corvi che vorticano nel cielo, gli
sciacalli, corvi terrestri, distruttore dei morti. Un altro quadro è l'Assassinè. Una tela che per quanto molto
interessante è un po' inferiore agli altri dipinti di questo strano artista. Sarà sufficiente dire poche parole anche su, Le
Pendu. Si tratta ancora una volta di una tragedia solitaria e banale il cui eroe è un viandante, un pellegrino che
rappresenta il pellegrinaggio della vita. Forse, era da molto in cammino, il povero monaco vagabondo, forse
disperava di raggiungere l'obiettivo, il suo santo sepolcro o il santo Graal, forse i piedi avevano sanguinato troppo a
causa delle ortiche e delle pietre della strada, forse aveva perso, uno ad uno, i suoi cari desideri, i bei sogni, la
disperazione l’aveva reso stanco e senza forze, ora che non aveva più fede. Attraversando un bosco i cui rami
sprezzanti gli sferzavano le guance, le cui spine gli laceravano le gambe, proferendo verso il cielo impassibile una
suprema blasfemia, si impicca. Il corpo magro ora dondola, tragico, alla forca di un vecchio albero. Ma la natura
crudele non ha nemmeno voluto piangere sul suo misero cadavere. La natura si esalta in una fragorosa gioia di vivere:
gli uccelli cantano, sbocciano i fiori, il sole inonda i fogliami, colori ilari ovunque, come se la natura si fosse dimostrata
insensibile e ottusa, come a voler dimostrare la sua indifferenza o forse il suo odio di fronte alla morte spaventosa. Le
quattro tele di de Groux che conosco sono queste, le uniche 4 che credo abbiamo ad oggi raggiunto la Francia, poiché
le altre si trovano in Belgio. I quattro singolari dipinti nei quali si indovina una parentela di genio con i maestri del
dramma eccessivo e truculento, con i Caravaggio, i Brugel degli inferi i Callot, i Goya e soprattutto, i Delacroix, i
quattro singolari dipinti mi sono sembrati, nonostante le insignificanti mancanze tecniche e una chiara predilezione
per la drammaticità esasperata, originali in modo molto suggestivo. Un'arte così robusta che non ho potuto
trattenermi dal dilungarmi.

CRONACHE SEMPLICI
La pittura all’esposizione
(agosto-settembre 1889). Meravigliosa Monsieur! Le ripeto meravigliosa. Posso affermare ad alta voce che
l'esposizione universale des Beaux-Arts è me-ra-vi-glio-sa! Questo viene continuamente ripetute e non voglio, da
parte mio contraddirlo, sebbene in fondo non sia molto convinto e pensi che molti capolavori che vi vengono
pomposamente sistemati in bella mostra sarebbero più adatti da mettere in bagno. Forse severo, ma giusto. Ad ogni
modo, per il momento posso concedere l'epiteto meravigliosa, ma solo a condizione che mi sia concesso che questa
meraviglia sia incompleta, fatalmente incompleta. Nel Beaux-arts manca una piccola sezione per i pochi artisti
indipendenti che quasi sconosciuti o disprezzati dal pubblico, silenziosi e disinteressati a qualsiasi guadagno, lavorano
lontano dalle scuole, dall’accademia, cercando e lavorando a un'arte nuova che forse sarà l'arte del futuro. - ma
signore, non esistono uomini simili, alla nostra epoca, si sarebbe saputo altrimenti! Quante persone hanno ripetuto
questa assurda frase. Per fortuna, ho saputo che l'iniziativa individuale ha tentato quello che la stupidità
amministrativa non avrebbe mai accettato di fare. Un ristretto gruppo di artisti indipendenti è riuscito a forzare le
porte dell'esposizione, creando una minuscola concorrenza all'esposizione ufficiale. L'istallazione è un poco primitiva,
molto bizzarra, come forse si dirà bohemien. Ad ogni modo intendevo segnalare l'iniziativa prima di addentrarmi
nell'esposizione e, dopo questo saluto amichevole e sinceramente ammirato rivolto alle belle tele di Gauguin e
Bernard, ora addentriamoci nelle gloriose sale ufficiali. Le esposizioni generali, che se ne dica, delle opere d'arte di un
intero secolo, non sono affatto vane. Rappresentano infatti utili sommari e permettono di giudicare le opere dei
nostri contemporanei e, nel loro insieme e in modo più equo e rispettoso impedendoci la condizione necessaria di
qualsiasi critica ampia e imparziale: la lontananza. Questa, per quanto minima possa essere, è spesso sufficiente a
darci un'idea piuttosto netta di ciò che potrà essere il verdetto definitivo dei posteri, verdetto che temo sarà terribile
per molti. Guardate con attenzione un centinaio di tele prese alla cieca dall'esposizione decennale. Ne riconoscerete
alcune che viste già in qualche salone passato in qualche mostra di un tempo vi erano parse lavori onorabili e che ora
saranno per voi mediocrità. Se sono sufficienti 10 anni per questa metamorfosi, quanti dei nostri capolavori
resisteranno alla prova dei secoli? Al contrario, le vere opere d’arte possono solo guadagnare da questa distanza, dal
forzato indietreggiare dello spettatore. Inizialmente, al momento della loro comparsa, il pubblico e la critica
potevano essere stati sconcertati dal brusco emergere di un'opera nuova e inaspettata. Il tempo però, è passato,
attenuando e cancellando tali scandalosi anomalie superficiali. I Delacroix e gli Ingres, tanto fraintesi da una sfilza di
cosiddetti allievi, i Courbet e i Manet, tanto discussi, ridicolizzati, negati in passato, i Millet, i Corot, i Troyon, o
Gustave Moreau e in sommo grado i Puvis de Chavennes, si trovano in mezzo alla desolante senilità dei falsi
capolavori di ieri a testimonianza della continua giovinezza della vera arte. Con questo, tuttavia non intendo dire che
tutto il resto sia esecrabile o indegno della minima attenzione. Come sempre naturalmente le consorterie ufficiali si
sono sforzate di chiudere il più possibile le porte agli artisti coscienziosi che hanno rotto alla luce del sole con le
tradizioni e le convenzioni della scuola. La loro, sistematica esclusione deplorabile non permette di ammirare le
manifestazioni più interessanti dell'arte contemporanea. A malapena qualche Raffaelli, due Pissarro e solo un Monet,
persi nelle sale del palazzo des Beaux-Arts. Nessun Degas, nessun Gauguin, né Seurat, né Renoir. Quanto alle
selezioni straniere mi hanno provocato una grande delusione. Mi aspettavo di trovare creazioni originali, lontanissime
dai cliché amati dai nostri connazionali, opere che emanassero un profumo esotico. Invece, ho incontrato solo insipidi
scimmiottamenti delle sciocchezze parigine. Eccezioni di certi rarissimi pittori inglesi, italiani e nordici, ho trovato
solo insignificanti imitatori delle nostre banalità. Come tutti sono andato a visitare il Palazzo e come molti ho
constatato che, se non fosse stato per le lastre indicatrici sulle pareti, nessuno avrebbe potuto immaginare che una
sala era dedicata alla sola pittura belga, quella americana, olandese, italiana o greca. Evidentemente la Francia
trionfa. Ebbene, se ne rallegri chi vuole, mentre io da me me ne dolgo. Per quanto riguarda l'arte Infatti non vi è cosa
che odi di più dell’imitazione, anche se vaga e spirituale, della copia, dell'abdicazione di un cervello davanti a un altro.
La visione, la tecnica, la maniera di un certo pittore non è mai il risultato del caso, ma la conseguenza fatale delle
diverse qualità naturali che fanno il suo temperamento e le diverse influenze dell'ambiente in cui vive. Quando,
dunque, vediamo degli imbrattatele che vivono sulle latitudini più esotiche dare alla luce piccoli capolavori in linea
con gli attuali gusti Parigini, dobbiamo forse alzare le spalle più che rallegrarci. Povera Europa. Quando sarà
irrimediabilmente imputridita dalla sifilide dell'alto borghesismo pittorico, che cosa faremo noi poveri imbecilli di
un'altra epoca, giungi troppo tardi in un mondo troppo vecchio, noi, che avremo conservato la ridicola fede nella
grandezza delle cose inutili e l'assurdo culto del bello? Cosa faremo? Temo che ci siamo ridotti a doverci confinare
lontano, molto lontano, a rifugiarsi nei paesi d'Oriente in cui l'arte ha mantenuto l'integrità della sua purezza
originale, in Giappone, in Cina. Soprattutto, non dimenticate di dare uno sguardo a un angolino che ha rischiato di
farmi morire di indignazione, un angolino riservato all'esposizione scolastica coloniale. Potrete ammirare centinaia di
orribili piccoli blocchi da disegno, composti da modelli e pagine bianche destinate alla copia dell'allievo. Tutti i blocchi
sono stati riempiti di allievi di quei paesi. Si, lacchè patentati e diplomati, che sono stati convinti che li risiede il
massimo del buongusto e dello stile e che la grande arte sintetica simbolica orientale era (sbagliata). Ancora mezzo
secolo e l'arte nazionale di quegli imperi lontani non sarà che un ricordo.
GLI ACQUARELLISTI
Febbraio 1890. Cari membri della Società degli acquarellisti francesi, e in particolare voi, Vibert, presidente
dell'associazione, vi siete mai chiesti cosa sia l'acquerello, quale sia la sua ragione di esistere, il suo scopo? Poiché, se
l'acquerello non avesse uno scopo diverso da quello della pittura a olio, se differisce da questa per il solo
procedimento, allora non vedo quale sia la sua grande utilità. Ha mezzi di traduzione molto meno potenti e precisi
della pittura olio, non ha le stesse dimensioni e le è inferiore anche per solidità e durata. Occorre dunque che vi sia
altro, perché, se così non fosse, gli acquerellisti sarebbero folli. Ebbene signori membri, voglio rivelarvi questo altro
poiché non è un così un gran mistero. È un cosiddetto segreto di Pulcinella e voi siete i soli in Francia a esserne
all'oscuro. L'acquerello signori (e non parlo affatto di quello che ne fate voi, ma di ciò che dovreste farne) è stato
inventato non per competere con l'olio, cosa che gli è impossibile, ma per completarlo, per dare ai nostri occhi la gioia
di schizzi tanto delicati che la pittura non può cogliere. Non le è richiesta la profondità artistica, ma la sottigliezza
dell'impressione, non il pensiero ma la forza, meno l'equilibrio e l'annotazione delegata delle percepibili ondulazioni e
le sfumature più vaghe. In altre parole, è l'arte deliziosa, forse inventata da qualche fata ammaliatrice per tradurre ciò
che vi è di più leggero fugace e transitorio. Insieme alla musica e alla poesia, è l’arte i cui materiali sono i più ideali.
Questo è ciò che tutto il mondo sa, signori della società degli acquarellisti, e che voi sembrate ignorare tanto da aver
rovinato questa pittura degli angeli. Anzi tutto, ecco Adrien Moreau, uno dei maestri del genere. Si è impegnato, ha
sofferto e ha sudato e ha portato a termine un enorme acquerello, un quadro definitivo, rifinito con scrupolo,
ritoccato con miopia, preziosamente banale. È orrendo. Van Eyck ha dato il nome a un rosso, il Veronese a un verde,
Maurice Courant avrà credo lo stesso onore. Ha invero scoperto un colore, sconosciuto fino a questo momento, che è
sicuramente uno dei colori più blando, più nauseante che esista. Si tratta di una sorta di viola che non è un vero Viola,
di lillà che non è Lilla, la cui caratteristica principale è far male al cuore se lo guardate a lungo. - Dopo una serie di
critiche rivolte agli esponenti e membri dell'associazione degli acquarellisti l'autore riprende- ma fermiamoci un
momento, un bel respiro, riprendiamoci, un momento di raccoglimento dovuto a quando si è in presenza di un
capolavoro. Ebbene sì, ci troviamo davvero di fronte a un capolavoro: Vibert ha trovato il modo, tra tutti questi
meravigliosi obbrobri, di superarli, di realizzare il massimo della bruttezza, di raggiungere il brutto assoluto. La storia
dell'arte, mi auguro, riconoscerà il suo impegno. Forse è colpa di un effetto inconscio della legge del contrasto, ma in
mezzo a questo caos di orrori, le opere di Besnard sembrano vivaci e belle. Si è talmente felici di poter riposare i
poveri occhi su qualcosa che si avvicina così tanto all'arte che si finisce per ammirarlo con sincerità. Infine, perché
bisogna pur determinare questo penoso pellegrinaggio, gli eterni gattini di Eugène Lambert: povero Lambert, siete
destinato a continuare a dipingerli per tutta la vita, senza averli mai capiti. Voi non siete un poeta. Non vi ostinate a
dare arie di pecore incurabilmente stupide a quegli esseri misteriosamente diabolici.
MEISSONNIER
(in “La Revue indipéndante”, n.42-22, aprile-giugno 1890)
Uno dei dogmi di fede del pubblico afferma che Meissonier è il più grande pittore del secolo; le sue geniali secrezioni
sono vendute a prezzi incommensurabilmente più elevati dei dipinti dei suoi più celebri colleghi. L'Inghilterra e
l'America se lo contendono. Il salone ufficiale non lo soddisfaceva: ne ha creato uno tutto suo, il Salon Meissonier di
cui è il sovrano assoluto. Quando si degna di esporre uno dei suoi capolavori, lo copre con il vetro, come una reliquia.
La stampa parla di lui con venerazione. Dunque è incontestabilmente il più grande pittore del secolo. Sarebbe
blasfemo dire il contrario. Eppure mi si permetta di spogliare questo vecchio idolo e di tentare di spiegare le cause del
suo culto universale, il cieco feticismo di cui è oggetto. L’uomo non è capace di fare a meno del piacere estetico più di
quanto possa farlo del cibo o nel sonno. Può essere; ma allora bisogna constatare che ci sono diversi tipi di piacere
estetico, adeguati ai diversi gradi di intelligenza. I contadini e i bambini sono soddisfatti dalla contemplazione di
alcune stampe, gli operai e i portieri cercano le cromolitografie da mercato e l'élite intellettuale si compiace di
ammirare le tele incantatrici di veri maestri. Un'altra classe ancora richiama la sua porzione di arte, la classe più ricca e
la più potente: la borghesia. Si, anche il Borghese è affamato d'arte e necessità di un'arte tutta sua, un'arte Borghese
in apparenza buona pittura, costosa, molto costosa, che fosse appropriata e gradevole e non sconcertante. Ecco
descritto Meissonier. I dipinti che produce sono lisci, lindi e stucchevoli. Sono proprio come delle cromolitografie
senza esserlo davvero. Esse si intonano perfettamente alle dorature e al lusso vistoso del salotto di un banchiere.
Hanno la stupida esattezza della fotografia. Tutto ciò per affascinare il dilettantismo nel signor per bene, il quale si
meraviglierà voluttuosamente guardando i peli del cavallo dell'imperatore che cammina in lontananza. Il più grande
pittore del secolo è infatti dolorosamente privo del dono che rende un artista tale (quello di gloriare le banalità
oggettive con l’aureola dei raggi della sua intelligenza e sensibilità). L’obiettivo di Nadar ha più anima di lui. Mai un
soggetto da lui trattato ha ispirato il più infimo sussulto del cuore, l’apparenza di un’idea. Dovrei parlare ora della sua
tecnica, che molti considerano suprema ma altro non è che l’abilità di mano, un paziente imbroglio da miniaturista
industriale. Il colore e della sua assenza che fa digrignare i denti; la composizione rudimentale e impacciata dei
disegnatori dei giornali illustrati. Il disegno arido e legnoso, privo di stile, vecchio= prosastica piattezza. Del resto,
nonostante tutti quei piccoli difetti, e sebbene sia, a prestar fede ai suoi intimi, rabbioso come un cane da guardia,
scontroso come la rogna, stupido come un pavone più insopportabile in assoluto, mi assicurano essere anche n uomo
molto simpatico ed eccellente padre di famiglia. Durante la guerra fu addirittura colonnello della Guardia Nazionale.
Baudelaire ha scritto di lui: è un fiammingo senza bonarietà... O una pipa! Forse sarebbe più corretto dire che egli è
rimasto, in pittura, colonnello della Guardia Nazionale.
MONTICELLI, PAUL GAUGUIN
( in “La Revue indipéndante”, n.53, marzo 1891, pp.418-422)
Ascoltate i fenomeni inauditi, stravaganti che da qualche settimana, senza interruzioni si susseguono. I giornali
scrivono di letteratura, con l'aria di chi la sa lunga. Vengono organizzati banchetti, su tutti i tavoli dei salotti ci sono
libri di Jean Moreas. I reporter hanno abbandonato i politici per intervistare furiosamente giovani esoterici che si
fanno vanto di essere maghi. Ammettiamolo: sono sintomi gravi. E non è tutto, in pittura, in musica, il pubblico
sembra ancora più affamato di cose nuove. Il mio portiere, ad esempio, possedeva un quadro musicale. Quando il
piccolo orologio segna mezzogiorno, un ingegnoso carillon suona. Ebbene, un mese fa, anche al mio portiere è
venuto il chiodo fisso del modernismo artistico. Ha fatto ridipingere il quadro a un allievo di Signac ad ha realizzato
quindi un quadro impressionista della sinfonia wagneriana: è il colmo della modernità. Ad esempio, l'altro giorno alla
vendita Burty, ci si contendeva a colpi di banconote alcuni Monticelli, si, proprio dei Monticelli. Poveraccio. Ancora 10
anni fa, magro e misero, vagava per il caffè marsigliesi offrendo a chi li volesse i suoi meravigliosi quadretti. Glieli
compravano per 3 Franchi, 100 soldi, per burla o per pietà, perché si potesse permettere l'assenzio. Non vi è alcun
dubbio che d'ora in avanti, tutti i salotti dei Borghesi arricchiti che si rispettano avranno, appese ai muri, in una bella
cornice, una di queste meravigliose vocazioni dei passati sognati, pagati a peso d'oro. Monticelli, vero, ha la scusa di
essere morto e l'ossessione del pubblico nei suoi confronti è spiegata: il pubblico ama i morti. Che il pubblico
però si avvicini spontaneamente un pittore sconosciuto, vivo e vegeto e che si contenga la sua opera è
certamente più strano e scandaloso. È bene, questo bizzarro scandalo è avvenuto. Ritengo che il pubblico sia
impazzendo e che a breve sarà necessario internarlo in qualche manicomio. Circa 15 giorni fa, era esposta al Drouot,
alla fine della vendita, una trentina di tele di quell'artista misconosciuto e meraviglioso che è Paul Gauguin, il quale,
tra i primi, comprese la futilità delle ricerche di realismo, dell'illusione ottica e dell'impersonale fotografismo. Egli ha
tentato di reintrodurre nella società, impreparata di fronte a questa rivoluzione, la vera arte, l’arte delle Idee
incarnate in simboli vivi, l’arte di Giotto, degli Aneglico, Mantegna e Da Vinci. Un anno fa il pubblico avrebbe chiesto
la testa del pittore, se non qualcosa di peggio. Mentre quest'anno nulla di tutto ciò, il pubblico è venuto, ha sorriso,
raffinato, da buon pubblico intelligente sofisticato molto al passo con i tempi. Ha fatto ancora di più: ha comprato.
Non avevo ragione, quando affermavo che da qualche giorno avvengono a Parigi fatti incredibili? Grazie al successo
della sua vendita, Gauguin è potuto andare a Tahiti, vivere la vita selvaggia e libera a lui necessaria, studiare gli esseri
primitivi e l'esuberante natura tropicale. Forse ci porterà delle opere straordinarie perché darà loro i mezzi materiali di
fare ricerche estetiche, di creare i capolavori attesi. Tuttavia, temo le profanazioni future, può darsi che il fatto che le
opere d'arte finiscano nel mondo della borghesia non sia poi così positivo. Non è che un giorno scopriremo in una
bottega di un droghiere, uno dei capolavori di Gauguin trasformato in orologio musicale?
RAGIONAMENTI FAMILIARI, COMUNQUE FUTILI, A PROPOSITO DEI TRE SALON DEL 1891
Luglio 1891.
Forse non sono abbastanza acuto per cogliere sfumature di bellezza e di novità all'interno dei vari Salon ma lo
confesso, ammetto di essere del tutto incapace di questi giudizi. Secondo me, tutti gli articoli, senza eccezione
alcuna, fabbricati secondo gli stessi identici procedimenti al medesimo scopo, ossia la vendita e le ricompense
ufficiali. Sono forse cose lodevoli dal punto di vista dell'economia ma di certo nulla hanno a che fare con l'arte. So
bene che è possibile obiettare che talvolta, qualche opera di valore può finirvi esposta. Quanto sono rare tali opere.
Parliamo della pittura per il Salon, della scultura per il Salon. Tutti senza eccezioni hanno talento ma allo stesso
tempo è vero che non hanno un'anima. Colpisce immediatamente la prodigiosa somiglianza di tutte le tele tra loro.
In passato la similarità dei talenti aveva una spiegazione lampante: il Salon era riservato quasi esclusivamente a
pittori accademici e ai loro allievi. Oggi però, gli accademici sono diventati decisamente una minoranza. Da dove
origina dunque questa somiglianza di risultati? Non sarà invece semplicemente che nonostante questa ostentata
reazione alla vecchia arte accademica, i nuovi arrivati seguono gli stessi errori dei loro predecessori? Si sono limitati a
cambiare le formule e mode, non hanno saputo accontentarti di interrogare le profondità delle loro anime, nel caso in
cui ne abbiano una, dimentichi di ogni sapere. Ma del resto il pubblico pretende il talento, solo questo, assimilabile
all'abilità della mano, l'abilità da prestigiatore che tutti possiedono all'incirca allo stesso modo e che era stata
definita scienza. Scienza dell'impersonale e del banale, è ovvio. Naturalmente è ovvio che non esiste una sola
scienza del disegno, del colore, ma mille, così come mille anime di artisti; e queste non sono affatto entità astratte,
uniche e invariabili che possono essere studiate come la matematica, nel manuale nelle scuole. Esse sono linguaggi,
esattamente come la parola articolata, giacché servono come la parola a tradurre la psiche. Ebbene, quello che viene
chiamato possedere la scienza non significa aver perduto, a causa di uno studio pedissequo, proprio queste
particolarità di linguaggio? Allo stesso modo, dobbiamo stupirci dell'universalità della falsa scienza. In tutta sincerità,
dovremmo ignorare il modo in cui viene reclutato l'esercito formidabile e ingombrante di apprendisti e apprendiste
incoraggiati/e dai genitori. Questo perché il pubblico si convince sempre più che la pittura è meglio di un’arte. I pittori
da salon si somigliano perché sono tutti inizialmente dotati della stessa assenza di originalità. Allo stesso modo
dei vecchi, i giovani damerini sono incapaci di avere anche solo l'ombra di un'idea e si accontentano di fare ciò che
tutti i damerini del mondo considerano il culmine del buongusto: seguire la moda! Ebbene, la moda è il gradevole, un
gradevole che non è comune a tutti i secoli, un gradevole che può essere bruttissimo ma che cionondimeno è il
gradevole del presente. Cercherò di mostrare le caratteristiche più salienti: L'opera deve dare l'impressione di
qualcosa fatto senza il minimo sforzo, senza inciampi. Il signore che con una serie di pennellate ci dà la sensazione di
una cosa finita ha creato una cosa graziosa, il signore che fa il gradevole dipinge i toni chiari, perché il bitume è
passato di moda, ma evita i colori sgargianti perché confonderebbero il pubblico. Ama i toni grigi, i quali hanno fama
di essere raffinati. Il disegno, la colorazione, l'effetto, la composizione che vuole essere sempre impersonale e
imprecisa per quanto riguarda il soggetto; esso importa poco, già che tutti i soggetti possono essere trattati in modo
tale da dare l’obbligatoria impressione di gradevole. Si capisce subito che il motivo non gli ha ispirato nessuna
emozione, nessuna ricerca profonda e che egli ha scelto quello solo seguendo la volontà di meravigliare. Il gradevole,
è evidente, rappresenta in fondo la negazione di qualsiasi emozione personale, di qualsiasi ricerca naturale. Somiglia
molto allo chic definito da Baudelaire. Tanto talento e abilità, di questi artisti del salone, per celare un tale vuoto di
idee ed emozioni che vi farà forse rimpiangere la cara ingenuità dei primitivi, che traducevano come potevano, con
una così commovente ignoranza che io chiamo LA VERA SCIENZA, psicologie così grandi e profonde. Infine, presento
l'ultima condizione dell'opera detta d'arte al Salon: avere una concezione particolare e assolutamente falsa del
realismo, il quale consisterà in un'analisi tanto più possibile meticolosa, nell’ottusa convinzione che riprodurre la
natura servilmente significa essere artista. I fotografi avrebbero qualcosa da spartire con l’estetica?

Aubrey Beardsley
L’enfant terrible de l’Art Nouveau Di Giuseppe Virelli
PROLOGO
Beardsley simbolista
Il Simbolismo: alle origini del movimento
Tutti i più importanti studi dedicati ad Aubrey Beardsley concordano nell’inserirlo nelle fila del Simbolismo, finanche
a considerarlo uno dei maggiori esponenti del movimento tanto da coniare l’espressione The Beardsley period.
Cionondimeno, è proprio la definizione stessa di Simbolismo a generare confusione e fraintendimenti: si potrebbe
quindi partire dal Manifesto, redatto nel 1891 da Albert Aurier (Le Symbolism en peinture. Paul Gauguin) e pubblicato
nelle pagine del Mercure de France. Dopo una lunga disamina intorno all’opera di Gauguin “La visione dopo il
sermone” (1888) Aurier riassume, con programmaticità, i tratti caratteristici del Simbolismo. La pittura simbolista è:
1. Ideista, poiché il suo scopo sarà l’espressione dell’idea; 2. Simbolista, perché l’idea sarà tradotta in forme e simboli;
3. Sintetica, poiché essa ascriverà le sue forme a segni, a modi di comprensione generale; 4. Soggettiva, perché
l’oggetto non va considerato in quanto oggetto, ma come idea filtrata dal soggetto; 5. Decorativa, come
conseguenza dei punti precedenti, perché la pittura decorativa, come l’hanno concepita i popoli primitivi, gli egizi e i
greci, è manifestazione di un’arte ideista, sintetica, soggettiva e simbolista. Aurier, pertanto, evidenzia un modo di
fare arte che vada al di là del semplice dato oggettivo, allargandone i parametri conoscitivi a una sorta di “occhio della
mente”. Ne discende un netto rifiuto all’arte impressionista, legata al realismo, alla sensazione, il cui obbiettivo è
ancora l’imitazione della natura attraverso la luce, il colore e la forma in t0. Contrariamente, per gli ideisti, l’urgenza
non è più quella di rappresentare il dato fenomenico, ma è quello di restituire la realtà a partire dall’idea che di essa si
ha. Il discrimine che si crea tra idealismo e ideismo giace nell’utilizzo della forma sintetica che il secondo termine ha
nei confronti del primo, che qualitativamente parla di un’economia semiotica nella scrittura del segno. Espressione
formale di questa semplificazione è l’adozione di due tecniche di alleggerimento aneddotico: l’à plat e il
cloisonnisme (che si riferisce all’uso di contorni netti e marcati). Questo comporta anche l’assenza della
prospettiva albertiana, risolvendo la scena in istanze bidimensionali, talvolta paratattiche, e superficiali, nel
regno di Flatlandia. Questa riduzione, tuttavia, ha la necessità di incarnarsi in qualcosa di tangibile, pena la
perdita stessa di referenza (simbolismo). Per quanto riguarda il soggettivismo, Aurier, in perfetta sintonia con la
poetica di cui si fa censore, precisa che soltanto un ‘iniziato’, un ‘illuminato’ è in grado di leggere in ogni oggetto
il suo significato più astratto, l’idea primigenia, usando poi un alfabeto sublime per rendere la rivelazione. Ma
questo non è sufficiente: per essere veramente degno di questo titolo di nobiltà, è necessario possedere un’emotività
trascendentale che elettrizza l’anima di fronte al dramma ondeggiante dell’astrazione. Emblematico in tal senso
l’appellativo Nabis (profeta in ebraico), usato dal gruppo di artisti francesi racconti intorno alla figura di Sérusier.
Infine, il fatto che sia un’arte decorativa, ornamentale, vale perché a pensarci bene la pittura decorativa è, in rigor di
termini, il vero dipinto. La pittura non poté che essere creata per decorare con pensieri, sogni e idee, a partire dalla
civiltà dei primitivi. Prende sempre di più l’idea che l’artista nuovo, come i primitivi prima di lui, possa operare al di furi
della tela per invadere lo spazio. Con il Simbolismo si allarga dunque il campo d’azione degli artisti i quali non
disdegnano più di cimentarsi in pratiche fino ad allora relegate all’ambito delle arti applicate proprie dell’artigianato. I
simbolisti infrangono le tradizionali divisioni gerarchiche delle arti e diventano i primi e più importanti protagonisti
dell’Art Nouveau (vd. Van de Velde). Quali artisti possono essere considerati legittimamente simbolisti e quali devono
essere esclusi? È lecito mettere sotto la stessa etichetta artisti come Klimt, Denis, Segantini (tutti nati negli Anni
Sessanta) con artisti di una generazione precedente come Böcklin, Moreau o Pierre Puvis de Chavannes?
1. I sostenitori di un simbolismo a larghe maglie giustificano questa posizione a partire da ragioni tematiche,
sostenendo il soggetto trattato come fattore forte (temi misteriosofici). Questo modo di procedere però è viziato dal
fatto che il soggetto rappresenterebbe una conditio sine qua non, e quindi si dovrebbe considerare arte simbolista ciò
che in realtà non lo è, e viceversa escludere artisti che rientrano in questa koiné.
2. Va considerato il significante più del significato?
2
Arnold Böcklin (1827-1901), ad esempio, non lavora per sintesi. Le sue immagini, seppur formulate come rimandi
ideali a significati ‘alti’, non rinunciano agli effetti atmosferici e al tradizionale sistema delle proporzioni, tanto meno
alla prospettiva. Ci troviamo davanti sempre ad un “tratto dal vero”. Discorso analogo si può fare per Gustave
Moreau (1829-1898), il quale, pur affollando i suoi quadri con personaggi e oggetti appartenenti al mondo ‘altro’, li
ritrae con scrupolo analitico. 3Per ultimo, il caso di Pierre Puvis de Chavannes (1824-1898) che tuttavia si slega
dall’esuberanza descrittiva dei colleghi in favore di una pittura più magra e sobria, basata su una semplificazione del
disegno e sulla stesura a macchie della materia cromatica; per quanto vicino a uno spirito più ‘primitivo’ non si libera
dell’abito mentale di matrice moderna, che vedeva nella natura l’unica maestra d’arte. Tutti questi autori dunque, per
quanto di grande spessore e importanti per le ricerche successive, devono essere considerati non simbolisti ma
simbolici, nel regime non dell’ideismo ma dell’idealismo.

Il Simbolismo: il contesto storico-geografico


Molti studiosi insistono sul presunto primato inglese. Tra i primi e più importanti studiosi dell’origine britannica
dell’Art Nouveau è da ricordare Robert Schmutzler, che vede in Blake (1757- 1827) un artista “proto Art Nouveau”. Egli
giustifica questa posizione facendo notare come le illustrazioni e le incisioni da lui stesso realizzate vengano usate in
maniera profetica attraverso l’uso di elementi fitomorfi e zoomorfi, aperti, ondulati che caratterizzeranno il nuovo
stile della fine del secolo. *R. Barilli, Un grande iniziatore: William Blake (in Scienza della cultura e fenomenologia
degli stili) Blake è quasi un “corrispondente anticipato di un secolo” rispetto al ruolo pioneristico che avrà Cézanne nel
rifiuto della prospettiva albertiana, con il conseguente inizio dell’arte contemporanea propriamente detta. In Blake e
nella sua produzione confluiva un vasto numero di interessi: - Artistici in senso stretto (disegnatore e illustratore) -
Poetici - Filosofici, religiosi e morali Blake fu, in primo luogo, il predicatore, il profeta dell’apparire di un’onda
energetica indivisa, pronta a manifestarsi nelle diverse forme espressive. Certo è che, tuttavia, il ricorso alla parola
scritta ci consente di fare un utilizzo esplicito. Da uno dei libri profetici blakeani – The marriage of Heaven and Hell
(1794) – forse il più denso, si possono saccheggiare a piene mani ammissioni preziose (“L’Energia è la sola vita… e la
Ragione è il confine o circonferenza esterna dell’energia”; “L’Energia è piacere eterno”; “Coloro che reprimono il
Desiderio lo fanno perché il loro Desiderio è tanto debole da lasciarsi reprimere”). Il ricordo a Platone, o al suo allievo
Plotino, ha sempre indicato nel quadrante della storia, un ritorno in forze di ondate emotive, passionali, di quelle che
possiamo definire irrazionaliste. Ma come qualificare questo ennesimo ritorno, se non lo si vuole appiattire in un
fenomeno ciclico quasi fuori dal tempo? Come sottrarsi allora alla tentazione di gettare un ponte (di ipotizzare
un’omologia) tra questa insorgenza di energie affettive, in ambito artistico-letterario, e i concreti interessi che gli
scienziati dedicano, ugualmente incondite, dell’elettricità? Nell’un caso e nell’altro si crea un quid che mette a
soqquadro le maglie ben ordinate del cartesianesimo o del newtonianesimo. Blake vede nella ragione un principio
limitante, coibente ed essendo anche un artista visivo non esita a darle volto tangibile: un vecchione portatore di una
barba canuta, anche se autorevole e imperiosa. Blake ama inoltre battezzare con dei nomi queste creature del suo
Olimpo, così quel vecchione tremendo, iroso, prende il nome di Urizen. Quale sia la sua etimologia, Blake vuole
portare a vedere il principio razionale (l’intelletto) come ciò che limita, frena, chiude. Esiste, quindi, un pensiero del
finito e uno dell’infinito. Blake è un grande eversore nell’ambito delle arti visive della epistemologia moderna. Tra i
nostri “grandi del Rinascimento” salva solo Michelangelo e il Raffaello precedente alle stanze vaticane. Di
Michelangelo, Blake ammira la sua propensione neoplatonica, dalla quale discende un grande interesse verso l’uomo,
e di conseguenza una minor attenzione per gli aspetti marginali e laterali del creato (come avevano fatto i maestri
della “terza maniera” e la cultura del naturalismo barocca). Quello che a Blake piace del michelangiolismo è il
supplemento di energia; non a caso, sarà anche il maestro dei Manieristi, la cui compagine si caratterizza proprio per
un eccesso, per un sovrappiù energetico. Seguendo i parametri di Wölfflin, si direbbe che sia i Manieristi che Blake
abbiano rilanciato il chiuso del disegno del contorno, contro l’aperto dell’arte post-rinascimentale; e dunque insistono
anche sui valori di superficie, su una composizione semplice, paratattica. In un regime elettromagnetico intervengono
notevoli modifiche; intanto, l’oggetto non è più colpito da raggi ottici, bensì da onde le quali oltretutto hanno una
velocità così alta da rendere praticamente irrilevante il concetto stesso di distanza, portando a un risultato di
appiattimento spaziale. Lo storico dell’architettura Nikolaus Pevsner, anch’egli tra i fautori del primato inglese della
formazione del gusto Art Nouveau, si rifà a tesi di teorici di arti applicate tra i più autorevoli: Christopher Dresser
(1834-1904) e Owen Jones (1806-1889). Jones pubblica una vera e propria Grammatica dell’ornamento (1856) in cui
asserisce che “la bellezza della forma è prodotta da linee nascenti l’una nell’altra in ondulazioni crescenti” e che gli
apparati ornamentali non dovrebbero essere ricavati dagli elementi naturali quanto dalla loro rappresentazione
convenzionale. Sulla stessa linea si pone Dresser, il quale nel suo famoso Principles of Ornament (1869) stabilisce
addirittura una scala di valori delle curve. In aggiunta in un altro testo dedicato al disegno fa esplicita menzione della
vis naturaliter: “ho cercato di incarnare un’unica idea, quella dell’energia potenziale, forza o vigore, come idea
dominante; e per far ciò ho usato linee sul tipo di quelle che vediamo nelle gemme sul punto di sbocciare, quando
l’energia della crescita è al massimo”. Nelle formulazioni teoretiche dei due troviamo quindi l’idea della potenza,
della curva eccentrica e complicata, sinuosa, che genera energia vitale, preannunciando i motivi tipici
dell’estetica dell’Art Nouveau. Ciò detto, bisogna però constatare che tali insegnamenti non trovarono
immediata corrispondenza della realtà dei fatti; anzi la produzione dei manufatti si basò su un funzionalismo
scabro che piuttosto anticipa quello tipico del Bauhaus. Se passiamo poi al campo dell’architettura, l’emblema
della produzione che si avvicina alle novità circolanti in Inghilterra a quel tempo è la famosa Casa Rossa (1859)
progettata da Philip Webb per William Morris. Ora, se facciamo un paragone tra questa costruzione e un qualsiasi
edificio progettato da un esponente dell’Art Nouveau propriamente detto, ci rendiamo conto delle immediate
differenze. Gaudì, infatti, concepisce l’architettura come una concrezione di piante e rocce che, crescendo
‘spontaneamente’ dal terreno, si solidificano diventando case, palazzi, padiglioni. Gaudì sente le sue costruzioni come
organismi viventi e come tale soggette unicamente alle leggi che regolano la vita dell’universo, rinunciando alla
dittatura degli stili del passato. Medesimo discorso può essere fatto per il collega francese, Hector Guimard, noto
soprattutto per gli ingressi della metropolitana di Parigi simili a corolle o ad antenne di insetti stilizzati. Parlando di
Philip Webb si menziona spesso anche William Morris, un’altra personalità artistica di prestigio. Si è visto in
precedenza la stretta relazione tra Simbolismo e Art Nouveau, specialmente per ciò che riguarda il tentativo di
abbattere i confini tra arti maggiori e arti minori, rivalutando di conseguenza la figura dell’artigiano. Morris fu il primo
a battersi per un pieno recupero proprio delle arti applicate: fondò una ditta di produzione di tappeti, tessuti, carta da
parati, mobili e vetri (MorrisMarshall-Faulker & Co.), diede vita a una corporazione artigiana (Art Workers Guild) – di
cui curò personalmente le esposizioni dei lavori col famoso nome di Arts and Crafts – e mise in piedi un’officina
tipografica (la Kelmscott Press). A muovere Morris fu la sua fede politica di stampo socialista, volta a promuovere un
ideale sociale di operosità e armonia ispirato a un utopico Medioevo; di qui l’avversione ai mezzi di produzione
contemporanei passati ad anonimi operai soggiogati dalla borghesia capitalista.
5
Questo atteggiamento ostile al mondo produttivo industriale, tuttavia, non troverà riscontro nell’Art Nouveau che
non sarà mai pregiudizialmente ostile all’oggetto prodotto in serie. Inoltre, dobbiamo constatare che le scelte
stilistiche di Morris non si discostano molto da quello spirito ecletticoborghese contro cui egli stesso di batteva. Se da
un lato, infatti, prende a modello il repertorio di immagini di ascendenza gotico-medioevale, le tratta con un rigore
tale da non riuscire ad arrivare alla tipica astrazione Art Nouveau. Simili considerazioni vanno fatte anche per i
Preraffelliti, considerati anch’essi alfieri dei Simbolisti. Al contrario di Morris, che vagheggiava un viaggio alla
riscoperta del Medioevo, i Preraffelliti privilegiano il Quattrocento maturo, quello della “seconda maniera” vasariana4
; prima di Raffaello, appunto. Di conseguenza, pittori come Rossetti, Hunt, Millais, Burne-Jones arrivarono sì a
soluzioni dure, sintetiche, ma non abbastanza per contraddire la pittura moderna; i contorni insistiti, la ieraticità dei
loro personaggi, di fatto, è indagata con estrema cura analitica, non vi è alcuna intenzione di riduzione per simboli.
Inoltre, loro attingono dal patrimonio quattrocentesco, è un regredire tutto sommato timido rispetto all’interesse che
avranno i Simbolisti per i ‘primitivi’ (dagli artisti del Trecento, ai maestri bizantini, fino alla pittura vascolare greca).
Dovremmo, pertanto, inserire anche i Preraffaelliti nella linea degli idealisti. In aggiunta, grazie ai nuovi mezzi di
trasporto, si aprirà la possibilità di fare viaggi extra-europei, alla scoperta della cultura e dell’arte delle popolazioni
“selvagge”. Così Paul Gauguin ebbe l’occasione di interessarsi all’arte totemica polinesiana, Ranson a quella persiana-
indiana e Toorop all’arte giavanese. Da considerare fondamentale è anche l’arte giapponese, caratterizzata da
un’estrema sintesi dei motivi fitomorfi, naturali, di cui riescono ad estrarne l’essenza. Pertanto, l’Inghilterra ha
giocato un forte ruolo di apripista per i motivi dell’Art Nouveau e per i motivi simbolisti, ma poi non è riuscita a dare
seguito alle proprie stesse premesse. A queste considerazioni si aggiunga che si rischia spesso di far arenare le
posizioni migliori su posizioni conservatrici. Anzi, personalità di rilievo come Oscar Wilde, Charles Rennie Mackintosh,
e il nostro Aubrey Beardsley furono guardate con sospetto in patria, poiché accusate di atteggiamento
smaccatamente esterofilo. Beardsley visto da Aurier Il giovane artista si dimostra essere subito in sintonia con lo
Zeitgeist. I suoi soggetti non nascono mai da suggestioni prettamente naturali, non sono mai copiati dal vero, ma
nascono da suggestioni prettamente mentali (letterarie soprattutto) che trovano formalizzazione mediante l’uso: - Del
black blot (una sorta di “dripping controllato”, che permette un riempimento à plat) - Dell’outline in grado di creare
confini netti e ben definiti (cloisonnisme) Questo modo di procedere conduce ad un sintetismo che però non è mai rigido
ma, anzi, qui finalmente la proposta di Dresser, volta appunto a suggerire il ricorso a linee curve che non si lasciano
agevolmente derubare del segreto della loro costruzione, trova un’applicazione piena, integrale – sintetismo. Le linee non
si adattano ai corpi, viceversa, sono questi ultimi a sintonizzare il loro libero fluire entro limiti e raffinate sagome. Queste
sofisticate silhouettes danno vita a scenette ad alto contenuto erotico, optando per una soluzione simbolica ai tabù
imposti dalla società vittoriana – simbolismo. Beardsley veste dunque i panni del malizioso vaticinatore di nuovi riti
pagani, il custode del mistero dell’Eros e delle relative pratiche – soggettivismo. Il fitto gioco di linee, di puntini, le
alternanze tra bianchi e neri hanno un unico, forte, scopo decorativo. Significato e significante vengono quindi a
coincidere in nome del primato astratto decorativo, in cui è tutto riportato a un gioco decorativo finemente lavorato.
Questa propensione per il dato decorativo lo porta a percepire la sua arte come suscettibile di espandersi al di fuori
della pagina del libro. Il suo estro creativo sente il bisogno di evadere dal piccolo formato per andare a investire spazi
più ampi e, trattandosi prettamente di un grafico, egli punta sull’affiche pubblicitaria quale mezzo ideale per allargare
la propria ansia decorativa su scala ‘ambientale’ (“Presto Londra risplenderà di manifesti pubblicitari, che contro un
cielo di piombo tracceranno i loro espliciti arabeschi. La bellezza ha preso sede in città e presto i fili del telegrafo non
saranno più la sola gioia delle nostre percezioni estetiche”).

Cap.1 Dalla linea analitica alla linea sintetica


Tempora mutantur et nos mutamur in illis: già da giovanissimo, Aubrey Beardsley è cosciente che i mezzi tecnici
adottati e le loro potenzialità possano essere in grado di rinnovare il linguaggio artistico corrente. Niente più
trattamenti ossequiosi della natura, né ebbrezza da atmosferismo fragrante e solare. Detto questo, Beardsley è
pronto a scavalcare queste posizioni per rivolgere il proprio sguardo verso gli ‘antichi maestri’, con i quali esiste una
liaison sotterranea. Infatti, sia il pre-moderno che il post-moderno dimostrano di avere una maggiore attenzione per
il dato interno piuttosto che per quello esterno, non accontentandosi della pelle del mondo ma cercando di verificare i
processi generatrici reconditi. Il ritorno al museo, pertanto, risulta essere il modo più veloce e autorevole per
guardare il presente con occhi nuovi. È questo il quadro con il quale guardare il primo apprendistato di Beardlsey
presso la scuola preraffaellita.

I.I. Le “Burne-Jonesesques”
Sappiamo per certo che il giovane Beardsley fosse attratto dai modi di operare di Rossetti e di BurneJones, se non
altro per i motivi ab origine legati al rapporto esistente tra i Simbolisti e i Preraffaelliti. I pittori inglesi preferirono
ripiegare su posizioni arretrate, facendo riferimento a un Quattrocento arretrato e incarnato dalle generazioni dei
pittori nati entro la metà del XV secolo (la seconda maniera, appunto), come Mantegna, Botticelli, Perugino,
Bramante etc., che seppur apprezzati erano considerati fino a quel momento solo come il preludio di una stagione più
fiorente, quella che vede protagonisti i grandi del Cinquecento (da Raffaello a Michelangelo). Perché? Questa ritirata
strategia permise ai Preraffaelliti di apprezzare la ‘maniera secca’, il primato del disegno, elaborando composizioni
immerse in atmosfere limpide, cristalline, rarefatte, in cui i protagonisti sono come rigidi manichini bloccati in un
eterno momento. Cionondimeno questo solo elemento non può far sì che si rimetta in dubbio lo statuto ideale
moderno, dal momento che la prospettiva, seppur in modo acerbo era già stata introdotta. Sarà compito dei giovani
simbolisti affilare le armi e scardinare questa impalcatura. Anche i temi affrontati dai Preraffaelliti sembrano
anticipare alcune soluzioni simboliste, specie se prendiamo in considerazione Dante Gabriel Rossetti, che, sebbene in
maniera molto calda, mette un forte accento ‘romanzo’ nel quale fa convivere idea e sensi, carne e spirito. La sua
pittura funge da esempio imprescindibile, come nel caso di The Day Dream (1880). 7A conciliare queste due anime
(durezza del disegno e linguaggio trobadorico) ci pensò Edward Burne-Jones, il quale instaurò anche un proficuo
sodalizio con William Morris (per il quale realizzò vetrate, mosaici e illustrazioni xilografiche). Furono questi frangenti
che fecero sì che Beardsley trovasse in Burne-Jones il primo referente sicuro, tanto che nel 1891 si presentò a casa sua
con una selezione di disegni da sottoporre a suo giudizio. Burne-Jones li definì “tutti pieni di pensiero, poesia e
immaginazione” e continuò: “La natura le ha dato tutti i doni necessari per diventare un grande artista. Raramente o
quasi mai io consiglio di scegliere l’arte come professione, ma nel suo caso debbo farlo. […] Ognuno dei disegni che
mi ha mostrato potrebbe diventare un bellissimo dipinto”. Beardsley seguì i suoi consigli e seguì un corso di pittura
presso la Westminster School of Art di Frederick Brown, che però frequentò irregolarmente, poco interessato a
praticare la pittura. Continuò però a frequentare casa Burne-Jones e testimonianza di questo apprendistato sono
alcuni disegni realizzati fra la seconda metà del 1891 e i primi mesi dell’anno successivo, dove è chiaro il richiamo al
Quattrocento (The Litany of Mary Magdalen; Sandro Botticelli). In questi lavori si può leggere un’audacia e una
economia nella gestione della linea tipica di BurneJones. In particolare: 1. Motivi lineari volti a rettificare le figure 2.
Scansione dello spazio rigida e paratattica 3. Poca profondità e spazio di fuga 4. Figure rigide e visi stereotipati
Sempre di gusto preraffaellita, ma che già mostrano una maggiore autonomia, sono alcuni disegni del 1892. Fra
questi troviamo il noto The Achieving of the Sangreal, dove il segno si fa più duro, sia per una accentuata
verticalizzazione che per una forte alterazione dei corpi. La sua penna scorre sul foglio con segno netto e sicuro
tracciando i contorni delle figure e degli oggetti con alta precisione. Di conseguenza, anche la ieraticità dei
personaggi è estrema, come il trattamento scultoreo tale per cui anche i ciuffi dei capelli sembrano di marmo.
8L’atmosfera viene assottigliata ed ogni oggetto, indipendentemente dalla distanza, è messo a fuoco allo stesso
modo. Questa composizione asfittica però, essendo Beardsley ancora legato a BurneJones, non gli impedisce di
recuperare la prospettiva nella parte alta della composizione, che ricorda il Battesimo di Cristo di Piero della
Francesca (1450); la cornice funge ancora da ‘finestra’. Stesso discorso per la tavola ispirata al II atto del Sigfrido di
Wagner (1892), dove la minuzia analitica resiste saldamente, malgrado un primo tentativo compiuto dell’artista di
sciogliere tanto rigore analitico in un bagno d’inchiostro steso in maniera compatta in basso nel foglio, steso a
rappresentare uno specchio d’acqua, come nel fondo.

I.II. La morte Darthur


Nell’estate del 1892 Beardsley firma un contratto con la casa editrice Dent & Co. di Londra per la realizzazione delle
illustrazione del poema epico La morte Darthur di Malory. Il lavoro comprendeva, oltre che le illustrazioni, anche la
realizzazione di 550 immagini tra cui fregi, testate di capitoli, trafiletti, iniziali e piedi. L’intenzione del committente
era quella di dare un forte tono cavalleresco e medievale all’edizione, ma che non attirasse solo uno stretto numero di
bibliofili, allargando la fascia dei compratori a un pubblico più esteso. Per fare questo, Dent opta per un modo di
stampa più veloce e moderno, quale il cliché di zinco al posto della xilografia, e per l’assunzione di un giovane
illustratore ‘alla maniera dei Preraffelliti’ ma che avesse pretese remunerative minori. I primi disegni forniti da
Beardsley (tra cui il sopracitato The Achieving) non delusero le aspettative, ma per la quantità e la qualità dei dettagli
si dovette utilizzare la tecnica della fotoincisione. La medesima tecnica è usata anche per la tavola How KingArthur
Saw The Questing Beast and Thereof had Great Marvel. Pure questa tavola presenta una complessità di disegno da
dover far ricorrere l’editore alla riproduzione fotografica. L’uso pressante delle linee mutano il terreno e i fusti degli
alberi in un delicato tappeto ricamato i cui fili disegnano arabeschi che si dipartono per tutta la composizione. Oltre a
questi lavori così elaborati, bisogna riconoscere l’influenza di Burne-Jones a iniziare dalla fascia decorativa
dell’introduzione del testo, in cui lui rappresenta sei figure di cavalieri avvolti in dei viticci . Sebbene questa ultima sia
pittura è non una stampa, sono molto simili l’impostazione e le movenze dei personaggi rispetto a quelli di Burne-
Jones. Il confronto diventa ancora più stringente se mettiamo a confronto queste due tavole (rispettivamente Merlin
Taketeh the Chile Arthur di Beardsley e The Golden Legend di BurneJones) La prima sensazione che si ricava è di
trovarci di fronte a due opere riferibili, se non proprio alla stessa mano, quantomeno alla stessa bottega. I personaggi
sono allungati e fasciati da lunghe vesti fluenti e sono costituiti da sottili linee di contorno che ne definiscono i profili.
Entrambi i personaggi sono inseriti in un brano di natura analiticamente trattato. La vicinanza dei due fu notata
anche dai critici contemporanei, come Joseph Pannell che aveva affermato che in essi “si combinavano in modo
eccezionale l’esperienza dei Preraffaelliti e quella dei disegnatori moderni, creando un’atmosfera medievale che li
permeava totalmente”. Sempre Pannell recensisce per primo la sua opera nella rivista “The Studio”, scrivendo: “I
disegni qui stampati mostrano decisamente per la noi la presenza di un artista la cui opera, cosa abbastanza rara, è
rimarchevole sia nell’invenzione che nell’esecuzione. La riproduzione fotoincisiva dà l’opera di Beardsley così come
è, non già la sua interpretazione dovuta alla maggiore o minore abilità dell’incisore interprete. I suoi disegni, tanto per
le linee quanto per la complessiva esecuzione, mi sembrano uguali ai migliori del secolo XV”. William Morris criticò
aspramente il lavoro di Beardsley, accusandolo di aver offeso il suo operato, imitandone le maniere. Ma Beardsley,
intelligentemente, si difese da quelle accuse, inneggiando un’arte nuova, originale e fresca. E di fatto Beardley si
stava muovendo in una direzione di più marcata anatomia del proprio linguaggio artistico, insomma, come ha rilevato
Peterson: “L’astuta parodia di Beardsley dei libri della Kelmscott fu sia una ribellione personale contro i rispettabili
anziani, sia una risposta fin-de-siècle al medievalismo di Morris, che sembrò alla generazione di Beardsley un
fastidioso sintomo dei valori vittoriani”. Particolarmente importanti furono i suoi soggiorni nel continente. Nel 1893 si
recò a Parigi in occasione del Salon de May, dove ebbe l’opportunità di vedere i quadri dei Nabis, le affiche di
Toulouse-Lautrec e di Bonnard e le xilografie di Vallotton. Sempre nel ’93 entrò in contatto con Ensor, Rops e Toorop.
Tutte queste influenze non penetrarono mai nel suo stile in senso stretto, ma funsero innanzitutto da esempio per
emanciparsi dallo stile preraffaellita e dal museo, e da sprone per la creazione di uno stile personale, unico e
immediatamente riconoscibile. Nella tavola intitolata How la Beale Isoud Nursed Sir Tristram, vediamo la
composizione di un’immagine più snella.
1. La scatola architettonica è molto semplice e snella, del tutto anonima
2. Il segno grafico non indugia più su ogni minimo particolare
3. Le sagome sono più leggere purgate da decorativismi superflui
4. La capigliatura di Isotta è resa per fasci lineari di linee, che ricordano da vicino le coeve chiome fluenti delle
creature muliebri di Toorop.
Quando Beardsley decide di tornare a collocare le sue figure in spazi aperti, ormai il tratto sintetico è divenuto un
modo di operare irrinunciabile. Nell’illustrazione How Queen Guenever Rode on Maying il prato su cui cavalca la
principessa è un’enorme macchia di inchiostro. Similmente alle xilografie di Vallotton, questa chiazza scura ha
divorato totalmente qualunque elemento interno. Sopra questo manto scuro vediamo la presenza di fiori che sono
volutamente fuori scala e stereotipati, che fanno pattern. La città diventa una sorta di quinta teatrale costituita da
una facciata piatta. Infine, nelle ultime tavole, compare un’altra caratteristica tipica del disegno di Beardsley: il
japanesques, ossia l’impronta dell’arte giapponese nel suo lavoro. Come noto, già a partire dagli anni Sessanta
dell’Ottocento i prodotti della cultura nipponica avevano cominciato a suscitare l’interesse degli artisti europei,
seppure con risultati differenti (molti artisti usavano i motivi giapponesi come motivi puramente esotici). I simbolisti
rintracciarono nelle opere di artisti come Utamaro, Katsushica, Hokusai e Hiroschige quello stile lineare, stilizzato e
bidimensionale di cui si stavano facendo portavoce. Il legame quindi è prima di tutto un legame formale. Beardsley
cercò di penetrarne il modus operandi fra cui le forme chiuse e piatte, le composizioni asimmetriche, i tagli oblunghi, i
forti contrasti. Tutto ciò è visibile in How Sir Tristram Drank of Love Drink
1. Tristano e Isotta indossano un kimono che ne smaterializza i corpi e i volumi
2. La striscia di mare evidenzia un leggero incresparsi delle onde oltre la cortina (puro elemento decorativo di matrice
astratta)
3. I fregi laterali abbandonano i motivi fitomorfi e zoomorfi ricavati dalle miniature medievali per diventare dei motivi
presi direttamente dagli album giapponesi attraverso una sensibilità Art Nouveu
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Cap. 2 The Yellow Nineties
Al motto épater les bourgeois seguiva, una grande moda per il giallo. Il giallo divenne un modo di sentire generale,
tipico degli anni Novanta del XIX secolo. Il giallo fu prima di tutto il simbolo dell’arte nuova, sorta proprio in questo
decennio.

II.I. Salomé: una ‘Yellow girl’


Il già citato articolo di Pennell fece sì che il giovane Beardsley venisse conosciuto dal grande pubblico (accanto alle
tavole de La morte Darthur comparvero anche altri disegni che dimostravano una concezione più libera e originale,
come il famoso The birthday of Madame Cigale). Ancora più sintetico è il disegno Les Revenants de Musique,
riprodotto sul primo numero di “The Studio”, in cui l’artista approda a dei livelli di smaterializzazione non ancora mai
raggiunti. I personaggi sulla destra, gli spiriti della musica, sono realizzati mediante linee impalpabili che danno solo
una vaga consistenza organica. Ma l’opera che tuttavia attirò maggiormente l’attenzione è senza dubbio la tavola J’ai
baisé ta bouche Iokanaan, ispirata alla Salomé di Wild. Fu quest’opera a convincere l’editore John Lane (per la Bodley
Head) ad affidare al giovane l’intero lavoro di illustrazione. Non a caso, la prima tavola presentata da Beardsley è la
riproposizione “pulita” di quest’ultima (The Climax). Il riferimento al dato ambientale è pressoché scomparso: la
biblica figlia di Erode fluttua in una soluzione liquida in cui pullulano sostanze ectoplasmatiche e che è, in generale,
abitata da motivi naturali visti al microscopio. Questo disegno sembra la risposta alle considerazioni fatte da
Huysmans nel suo scritto Le monstre (1884), il quale invitava gli artisti a sintonizzarsi sulle recenti scoperte della
biologia. È come se Beardsley mettesse in connessione l’infinitamente piccolo e il grande, scardinando
definitivamente le pretese della prospettiva. Per enfatizzare l’atmosfera carica di tensione, pare quasi che Beardsley
abbia attaccato al corpo della Salomé degli elettrodi, che le rendono le ciocche di capelli fluenti, modularmente
ondulati some se fossero attraversati da una scarica elettrica che si riverbera anche sul volto del martire. Il sangue che
esce copioso in rivoli sinuosi si tramuta in un nastro che scende fino a una pozza nera dalla quale, a sua volta, prende
vita un fiore gigante dalla corolla troppo carnosa per il suo fusto: un candido giglio simbolo del martirio. Nel 1894 esce
la prima edizione illustrata della Salomè: il risultato suscita molto scalpore. Il pubblico non capì se si trattasse di
un’edizione illustrata della tragedia di Wilde o se viceversa fosse un libro di illustrazioni accompagnate dal testo dello
scrittore. Questo malinteso nasce dal fatto che le immagini non rispecchiano fedelmente lo scritto, o meglio, esse
sono filtrate dalla personalità dell’artista, che si diverte a creare un’atmosfera perversa e nascosta. Questo perché
Beardsley intende l’illustrazione come opera d’arte autonoma, ed è più attento, ancora una volta all’ideismo che non
all’idealismo. Questa ferrea volontà di andare al di sotto della superficie per estrarne i concetti generali lo porta ad
affrontare la tragedia wildiana con una certa libertà di espressione. I raffinati camouflage dell’artista portano a una
sorta di attualizzazione della storia, che non si svolge più in Giudea, ma piuttosto nell’Inghilterra vittoriana: nella
tavola The Toilette of Salomè II, la principessa si trasforma in una “Yellow Girl”. Anche in questo caso il trattamento
sintetico è evidente: la composizione si regge su tre linee di contorno, dalle quali prendono forma spazi neri e bianchi.
Lo spazio è irreale e tutto sembra obbedire a una logica puramente decorativa, sinteticamente simbolista e
sinuosamente Art Nouveau. Lo stesso Oscar Wilde si lamentò del trattamento dei suoi protagonisti, che da mistici
personaggi bizantini sono diventati dei disegni giapponesi. Wilde coglie perfettamente l’ideismo di Beardsley, ma
lamenta il richiamo al repertorio del Giappone. Ciò è particolarmente evidente in The Peacock Skirt – dove la
principessa, di fronte al capitano della guardia, viene vestita da un kimono riccamente decorato e ricorda i demoni
delle stampe giapponesi – e in John and Salomè, dove i bilanciamenti tra pieni e vuoti paiono ricordare il simbolo del
Tao. Nel disegno intitolato The Black Cape, il rimando ai maestri giapponesi è più cerebrale:
1. Il linearismo marcato e le grandi tache di colore nero sono ELEMENTI STRUTTURALI E STRUTTURANTI
2. Ogni riferimento anatomico è volutamente ignorato: è piuttosto un mostro mitologico
3. Cionondimeno i maestri nipponici sono manipolati e usati a proprio piacimento
Per il frontespizio e per l’indice delle illustrazioni, Beardsley passa da un disegno economico e semplice a un tutto
pieno già sperimentato ne La Morte Darthur. In queste due tavole appesantisce le immagini con pesanti interventi
grafici. Si viene a creare una barriera vegetale che costringe l’autore a lavorare solo in superficie. Le leggere
silhouettes rischiano di essere assorbite in questo brulichio floreale. In the Eyes of Herod troviamo una perfetta
corrispondenza tra horror vacui ed horror pleni. Procedendo da destra verso sinistra, salta subito all’occhio l’aumento
di intrico del disegno. In basso a sinistra troviamo lo stesso motivo floreale delle tavole precedenti ed un pavone
definito solo nella testa e nel collo, che si dissolve in una trama vaporosa. Al centro troviamo un bellissimo
candelabro, dalle cui candele s’innalza un fumo bianco e denso e compatto. A sinistra troviamo Salomè, trasformata
in una maitresse dallo sguardo di serpente. A Destra, Erode: qui Beardsley porta a livelli ineguagliabili il processo di
stilizzazione. Difatti, non solo il suo volto è essenzialmente costituito da linee di contorno ma il suo corpo neppure è
realizzato. Stesso discorso può essere fatto per la tavola Enter Herodias dove la regina prende un formato giunonico il
cui petto è decorato con una specie di tatuaggio giapponese. A chiudere il testo è il Culde-lamp in cui il corpo della
principessa è trasportato su un sarcofago a forma di portacipria da un macrocefalo Pierrot e da un satiro.

II.II. “The Yellow Book”


Beardsley continuò a lavorare per La Bodley Head per la realizzazione di quella che diventerà la rivista storicoartistica
icona della stagione fin-de-siècle: il famoso “The Yellow Book”. Fondatori di questo nuovo periodico furono lo stesso
Beardsley e lo scrittore americano Harland, che ricorda la sua stessa nascita (1894). Egli infatti ammette che sarebbe
dovuta essere la rivista per quegli artisti che erano stati esclusi dal mondo dell’editoria a causa dell’audacia delle loro
opere. Il “giallo” del titolo rimanda sia agli anni di reggenza di Giorgio IV, monarca previttoriano conosciuto per la sua
condotta ‘eccentrica’ e allude anche al colore della copertina dei romanzi erotici francesi importati in Inghilterra. La
parola libro, invece, indicava che si trattasse di un ‘prezioso’ contenitore di opere d’arte da custodire in biblioteca.
Secondo le intenzioni di Beardsley i testi e le illustrazioni sarebbero dovute rimanere nettamente separate, per
rivelarne l’autonomia. Tutte queste particolarità sono riconosciute nel Manifesto, scritto nel 1984 su carta gialla: “The
Yellow Book” avrà nello stesso tempo il coraggio della sua modernità, e non tremerà davanti alle occhiatacce di Mrs.
Grundy. Complessivamente, “The Yellow Book” dimostrerà di essere la più interessante, insolita e importante
pubblicazione di questo genere finora comparsa. Sarà un libro da leggere, da tenere in biblioteca e da leggere di
nuovo; un libro come aspetto, un libro come sostanza; un libro bello da vedere e comodo da maneggiare; un libro
elegante e ben finito; un libro di cui ogni bibliofilo si innamorerà a prima vista; un libro che renderà bibliofili anche
molti che ora ai libri sono indifferenti. Nonostante le dichiarazioni di modernità la rivista, accanto a una linea più
audace, ne ha tenuta una più morbida. Interessante il breve saggio di Beerbohm, Defence of Cosmetics dove il
giovane scrittore mette in relazione l’arte simbolista e la natura attraverso la cosmesi (L’uomo attraverso il
complicato sviluppo delle sue emozioni e dei suoi piaceri, può raggiungere quella ricercatezza che è il suo più grande
pregio, e rendendosi, per così dire, indipendente dalla Natura si avvicina a Dio. L’artificio è l’energia del mondo). La
prima opera che Beardlsey realizzò per la rivista fu la copertina. Beardsley crea un forte contrasto generato tra il giallo
abbagliante e la campitura di inchiostro dalla quale emerge la figura di una signora grassoccia e ridente. Sembra quasi
un negativo fotografico sovraesposto, in cui gli elementi ritratti sono fortemente assorbiti dai caratteri generali
(come si farà nella Pop). In questo disegno Beardsley sembra allentare l’uso dello stile ‘giapponesizzante’ e introdurre
un diverso tipo di stile primitivo: la pittura vascolare greca (lui frequentava molto il British Museum). Questo
ennesimo spostamento dell’orizzonte stilistico, dalle pendici del monte Fuji alle coste elleniche, è particolarmente
evidente se si osservano le illustrazioni in ordine di apparizione della rivista. In The Night Piece (1894) il processo di
avvicinamento alla pittura vascolare è ormai compiuto. In particolare, qua sembra ispirarsi alle cosiddette ceramiche
a figure nere tipiche del VII secolo a.C. Inoltre, la linea non è più disegnata ma viene dedotta tramite il semplice
avvicinamento delle zone di colore nero Nonostante questo tentativo di mediazione tra tradizione e novità, l’impatto
della rivista fu dirompete e suscitò non poche polemiche. Il giallo divenne sinonimo di novità, bizzarria, eccentricità. Il
secondo volume continuò a mantenere questa politica editoriale basata sull’equilibrio tra modernità e tradizione.
Bearsley realizzò ancora una volta la copertina. L’artista organizza un’immagine domestica nella quale la figura a
mezzo busto di una giovane donna si stacca da uno sfondo decorato da una carta da parati ornata da pattern in stile
liberty. Non si può non notare una forte somiglianza con le xilografie di Vallotton, realizzate negli stessi anni (Le
piano, 1896). Per ciò che riguarda le illustrazioni interne, realizza un ciclo di tavole ispirato al teatro delle marionette
(The Comedy-Ballet of Marionettes), sempre seguendo lo stile della pittura vascolare. Il terzo volume vede una
secessione interna degli artisti, a favore del fronte avanguardistico. Beardsley contribuì con una nuova copertina, un
singolare ritratto del Mantegna in cui si firma con uno pseudonimo, un finissimo autoritratto, un disegno tipicamente
beardsleiano (La Dame aux Camélias) e due bellissimi disegni alla greca (Lady Gold’s Escort; The Wagnerites). Il
quarto volume uscì nel 1895. La sezione letteraria si presentava come qualitativamente mediocre (eccezion fatta per
un articolo di Beerbohm). Beardsley pubblicò, dal canto suo, una serie di disegni improntanti sulla semplicità e sulla
flatness. Tra questi riveste un ruolo particolarmente interessante The Mysterious Rose Garden. Questa tavola
contiene, in nuce, quella che sarà l’ultima evoluzione artistica dell’artista. In essa compare un’etera figura alata, che
potrebbe essere Mercurio, sussurrante all’orecchio di una giovane donna nuda sullo sfondo di un misterioso roseto. Si
inizia a intravedere un tipo di decorazione minuta, di gusto quasi Rococò.

Cap. 3 Il Settecento rivisitato


Beardsley amava molto la letteratura e l’arte del XVIII secolo, tanto da rivolgere la sua attenzione a quello stile: Eisen,
Moreau, Watteau, Cochin, Pietro Longhi diventano i suoi maestri. Come sempre, però, il suo sguardo è tutt’altro che
conservatore, infatti, per lui le opere del passato rappresentano solo un utile repertorio da cui attingere per creare
forme totalmente nuove (“Egli assorbe, non viene mai assorbito”, A. Symons). Per capire meglio le differenze
esistenti tra il fare neo-settecentesco e l’originale, si può ricorrere agli strumenti di analisi forniti da Wölfflin ne I
concetti fondamentali della storia dell’arte. In particolare, il critico individua 5 coppie estetiche in dialettica tra di
loro, utili a individuare la fenomenologia degli stili:
1. Lineare/ Pittorico
2. Superficie/ Profondità
3. Forma chiusa/ Forma aperta
4. Molteplicità/ Unità
5. Chiarezza/ Non chiarezza
Secoli XVII-XVIII
1. Valori cromatici in sé, immagini ad alta risoluzione, apparenza ottica degli oggetti – pittorico
2. Forte illusione prospettica, punto di fuga verso l’infinito – profondità
3. Disposizione degli elementi sul piano non ordinata, che nega il piano stesso e lo vuole superare – forma aperta
4. Elementi concatenati tra di loro – unità
5. Forme inafferrabili che sembrano continuamente sfuggire all’occhio del fruitore – non chiarezza
Beardsley
1. Immagini a bassa definizione, valorizzazione dei contorni, ricerca delle essenze – lineare
2. Desiderio di superficie, bidimensionalità – superficie
3. Elementi che si distribuiscono con ordine sul piano immagine ben circoscritta – forma chiusa
4. Elementi in autonomia – molteplicità
5. Rappresentazione compiuta e afferrabile all’occhio, con modi semplici e nitidi – chiarezza
Questo ci dimostra che Beardsley, pur rifacendosi al Rococò, lo guardi solo dal punto di vista puramente decorativo e
non a partire dal dato naturale. III.I. The Rape of the Lock Beardsley continua a tenere buoni contatti con Arthur
Symons (uno degli scrittori più audaci del “The Yellow Book”) che era stato contattato a sua volta da Leonard
Smithers, un piccolo editore di Londra, che gli aveva commissionato la realizzazione di una nuova rivista che
contenesse in sé gli elementi migliori dell’ormai superato “The Yellow Book”. Quando Symons propone a Smithers il
nome di Beardsley questi accetta subito. Viceversa l’artista, non curante della cattiva fama dell’editore, vede questa
opportunità come una via d’uscita dal suo isolamento professionale. Nonostante il grosso impegno editoriale, in
quello stesso periodo l’artista e l’editore concordano la pubblicazione di una nuova edizione illustrata di The Rape
of the Lock, di Pope. Questo breve poema eroicomico era considerato una delle opere letterarie più importanti della
letteratura inglese del Settecento5 . I disegni di Beardsley sono realizzati mediante l’uso di puntini leggeri e di sottili
trame di linee che danno vita a figure delicatissime, fatte di niente. Questo può essere stato suggerito a Beardsley
dalle opere di Francesco Bartolozzi (1728-1815), che aveva messo a punto una finissima tecnica d’incisione, la stipple
engraving – consistente nel solcare la lastra metallica con una serie di punte d’acciaio di varie dimensioni o con una
rotella dentata. Sebbene Beardsley non lo menzioni mai non possiamo escludere questa vicinanza, anche a partire dal
fatto che Bartolozzi abbia vissuto a Londra, diventando incisore del re nonché uno dei fondatori della Royal Academy.
La sua produzione, inoltre, fu molto varia e Beardsley lo reinterpretò in chiave contemporanea, utilizzando il suo
puntinato per realizzare figure stilizzate, piatte e leggere. Per fare questo, l’artista inglese ingrandì i singoli puntini
d’inchiostro, in modo da sgranare le figure e questo è sottolineato dall’uso della dicitura “ricamato da” e non
“illustrato da”. Uno dei primi esempi di questo fare è incarnato nel disegno riferito al primo canto: Le Billet-Doux. Gli
unici elementi continui sono realizzati per il volto e il busto della dama e per la testata del letto: tutto il resto si perde
in un pulviscolo di puntini. Più complessa e piena di particolari è la tavola The Baron’s Prayer, destinata a illustrare
alcuni versi del II canto. Nella veduta amena dell’arazzo, infatti, le piccole macchie scure si dispongono le une accanto
alle altre, portando la scena a distendersi tutta in primo piano. Tutti i vari piani prospettici della composizione
tendono a ribaltarsi in primo piano (pavimento e fumo). Un discorso analogo si può fare anche con The Toilette, dove
il puntinismo prende pieno possesso delle zone decorative. Infine, in The Cave of Spleen, l’artista estrae l’atmosfera
generale. La caverna di Melanconia è un luogo magico, che ribalta qualunque legge fisica, dal clima surreale che
sottostà alla bizzarria e alla fantasia. Beardsley terminò le illustrazioni nel 1895, ma la nuova edizione del poema fu
edita solo un anno dopo. Alcune tavole, tuttavia, vennero pubblicate in anteprima nella rivista “The Savoy”: il giudizio
del pubblico fu molto positivo.

III. II. “The Savoy”


La rivista uscì nel 1896, ponendosi quasi come rivale del “The Yellow Book”. Nonostante il rifiuto di qualsiasi sigla, il
“The Savoy” fu portavoce di quel movimento che i critici tradizionali indicavano in maniera dispregiativa, con il nome
di “Decandenza”. Beardsley realizzò tavole secondo il suo personalissimo neosettecentismo dove paesaggi e figure
diventano semplificati. Il primo numero scatenò delle critiche per i suoi contenuti decadenti, ma Symons e gli altri
collaboratori erano consapevoli dell’ostilità riservata loro dal pubblico dei benpensanti e invece che preoccuparsene
se ne compiacquero. La rivista aveva una grande varietà di generi diversi, ognuno dei quali vantava la propria libertà.
Nel secondo volume, Beardsley realizza una copertina che parla definitivamente dell’ultimo stile elaborato
dall’artista, verso una resa delle immagini simile alle incisioni del tardo Settecento. In particolare prende spunto
dai fratelli Moreau che utilizzavano una fitta serie di linee sottili, la cui maggiore o minore vicinanza creava gli effetti
del chiaroscuro. Da un punto di vista contenutistico, egli accosta in maniera libera oggetti appartenenti a epoche
diverse: la moda è Ottocentesca, il mobilio si rifà agli interni stile Luigi XVI, il damerino è in abiti settecenteschi. Nel
terzo volume non si avvertivano i presagi del fallimento della rivista, considerata immorale. Beardsley, in pessime
condizioni di salute, realizzò solo la copertina e il frontespizio. Per ciò che riguarda gli scritti egli dovette
interrompere Under the Hill e al suo posto comparve la seconda fatica letteraria dell’artista: The Ballad of a Barber,
accompagnata da una grande tavola. Le condizioni dell’artista peggioravano sempre di più e nel quarto e quinto
numero della rivista, non realizzo che la copertina. La presa di coscienza della morte e l’amara accettazione di una
realtà inevitabile, presero forma nel disegno The death of Pierrot, comparso nel sesto numero della rivista e
accompagnato da un breve testo. Qui si sprigiona un senso di dolore e compostezza mai rivelati nelle opere
precedenti. Nel settimo volume, Beardsley pubblica un disegno intitolato Ave Atque Vale che sembrerebbe quasi
rappresentare un ultimo saluto di Beardsley al suo pubblico. Con l’uscita dell’ottavo numero, “The Savoy” cessò le
pubblicazioni. Beardsley contribuì con dei disegni, la maggior parte dei quali erano già stati pubblicati, tutti giocati fra
uno stile neosettecentesco sintetico e un tipo di raffigurazione dai toni drammatici.

III.III. Sesso, prosa e Rococò


Come abbiamo visto Beardsley partecipò al volume anche come scrittore. The Story of Venus and Tannhäuser, che
viene inserita nella rivista con il titolo Under The Hill, è in realtà una leggenda medievale. Già nel 1895 aveva
esplicitato di voler realizzare questa impresa con un tema medievaleggiante, uno stile neosettecentesco e un umore
voluttuoso. A livello di contenuti però lui non rifà alla leggenda tradizionale, quanto alla traduzione romantica
operata da Wagner per il suo dramma musicale. Beardsley trasferisce la corte della Dea dell’Amore dalle fredde e
aspre montagne tedesche alle più amabili e miti spiagge di Citera e questo lo si trova anche a livello figurativo. I
soggetti sono trattati con toni settecenteschi ma rivisitati in maniera contemporanea (ideismo, sintetismo,
simbolismo, soggettivismo, decorativismo). Lo spirito dell’opera trasuda una sessualità quasi ai limiti della
pornografia, travalicando i limiti del Settecento libertino per consegnarsi un raffinato panorama di perversioni,
onanismo, voyerismo, feticismo. Anche i paesaggi vengono sessualizzati, come nel caso del Venusberg. Bisogna però
evidenziare come la componente sessuale non scada mai nella volgarità fine a se stessa. La sua è una visione di
natura onirica-infantile ed è proprio questa a permettergli di usare un mezzo grafico come la linea Art Nouveau, che
esplica i contenuti dell’Es
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EPILOGO Il regno delle ombre
Il 1896 segna la fine dell’arte più originale e innovativa di Beardsley. A partire dall’anno successivo, fino alla sua morte
(1898), l’artista rivela un inaspettato interesse per quei valori che fino a quel momento aveva rigorosamente rifiutato
in nome della sintesi: effetti atmosferici, giochi di luce, mezze tinte e plasticità dei corpi. In una lettera indirizzata a
Smithers, Beardsley chiede al suo editore di procurargli dei libri di prospettiva e di anatomia. Tra i primi lavori che
risentono di questo interesse troviamo le tavole realizzate per l’edizione del Mademoiselle de Maupin di Gautier.
Beardsley agisce:
1. Gonfiando il segno
2. Rimpolpando le figure
3. Usando le regole della prospettiva
4. Usando effetti tonali e di luce realistici
I risultati più maturi li raggiunge nelle illustrazioni per il Volpone di Ben Jonson. In questo caso sia i contenuti che i
temi che i caratteri stilistici suggeriscono la sua riconversione alle immagini dl XVII e XVIII secolo: sarà un libro
importante, come potrai vedere dai disegni che presto ti manderò. Come opera illustrativa e decorativa si staccherà
da qualsiasi libro d’arte pubblicato, e per molti anni creerà una certa attenzione. Ho lasciato per sempre dietro di me i
miei metodi precedenti. Alla china sostituisce la matita, che gli permette un maggior controllo degli incarnati e della
luce. Tuttavia, per il suddetto libro lui realizzò solo la copertina, il frontespizio e 5 lettere. Usa lo sfumato, i toni
intermedi, la luce dal forte senso drammatico. Il recupero dell’anatomia restituisce ai corpi la loro mollezza. È questo
l’autunno dell’autunno, ossia la fine di un’attività artistica folgorante, svoltasi nel giro di appena cinque anni e che ha
rappresentato una delle punte più avanzate delle ricerche artistiche svoltesi nell’ambito della grafica inglese ed
europea negli anni Novanta dell’Ottocento.
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