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IMPRESSIONISME, NÉO-IMPRESSIONISME E CARACTÉRISME
Alcune note critiche che Gabriel Aurier scrive sui principali attori della pittura francese. Anzitutto gli impressionisti
propriamente detti, cioè Claude Monet e Pierre Auguste Renoir. Tuttavia la pittura di MONET è per Aurier pittura
fugace, troppo fugace per poter essere simbolico addirittura simbolista, per poter collegare un lato mondano,
un'idea. Dal punto di vista tecnico le sue pennellate sono troppo pennellate, smodatamente rapide. Conclude con un
ultimo, sincero tributo al valore dell'arte monetiana, che si sostanzia soprattutto di armonia, di spirito estatico e
felice. Il che tuttavia sembra essere condizione forse necessaria ma non sufficiente a raggiungere le sfere supreme
proprio perché l'arte di Monet è impastata di materie mondana dunque inabile a spiccare quel balzo verso i regni dello
spirito. Nel caso di Auguste RENOIR il nostro Aurier compie un'abile manovra retorico critica giungendo quasi a
trasfigurare l'opera del maestro per portarla verso le logiche più consone. L'universo del Renoir maturo è certo
lontano dal misticismo di Monet. Renoir non è un uomo tutto concentrato in una retina fantasmagorica ma fu uno
sperimentatore, preferendo i corpi, le sinuosità femminili, le soffici chiome e le vesti, i dati tattili, materici, memore a
un suo modo della lezione dei grandi maestri primo fra tutti il Raffaello della Farnesina. Ammaliato da queste
caratteristiche, il critico sfugge a ogni equivoco piattamente naturalistico tanto che legge le fanciulle seducenti di
Renoir come marionette meccaniche, bambole vaporose evidenziando così nella sua produzione, un universo di
finzione, anzi una fictio esasperata che cambia la stessa natura dei soggetti viventi trasformandoli in simulacri. Renoir
preferisce dunque l'aneddotica di una umanità civettuola e sofisticata, evitando piuttosto soggetti di ispirazione
rurale coubettiana rispondenti alla categoria del joli, che ben si può tradurre con grazioso, sembra essere la più
consona per Aurier, tanto da usare molto la parola, declinandone diversi aspetti dell'attività di Renoir. Nella lingua
italiana il termine è un derivato di grazia che nel lessico storico artistico fa riferimento al classicismo e alle sue varie
riedizioni, volto a definire un tipo di bellezza soave e delicata. Ma la graziosità che Aurier vede nelle figure di Renoir
è sottoposta ad una sorta di décalage verso una pseudo realtà oggettificata, priva di afflato vitale. A CAMILLE
PISSARRO, Aurier dedica una recensione che avrebbe dovuto contenere anche un articolo su SEURAT che però non
fu mai scritto. Molta è la sincera ammirazione dello scrittore per Pissarro artista ma anche per le qualità morali
dell'uomo, sempre pronta a spendersi per gli altri. Questo contributo fu redatto a caldo dopo il vernissage della
mostra ideata da Theodore van Gogh che gestiva la galleria Boussoud & Valadon. È un artista della continua ricerca,
pronto ad accogliere le novità, attenta a non irrigidirsi con formule invecchiate, inclini a contrastare il divario
generazionale che lo separa dai più giovani accostandosi a costoro con voglia di imparare ma disposto anche a
dispensare consigli. L'ammirazione dello scrittore per il maestro gli fa anche digerire la tecnica puntinista che lui
sperimenta, con successo, ripartendo verso nuove mete dopo aver già consolidato la propria fama con un
sensibilismo impressionista dalla leggera pennellata. Una tale scelta comporta una coscienza “scientifica”, per
amministrare al meglio possibile luce e colore per farne un uso ragionato “chiaro e distinto” ,per non perdersi in deliri
visionari e panici. Aurier comprende però che la svolta divisionista di Pissarro è soprattutto una prova della sua fede
nel mestiere della pittura verso la quale Aurier nutre non poca diffidenza che rischia sovente di produrre risultati
arlecchineschi. Inutile la complicazione, lo spreco di risorse, sottointesa ma chiara avversione alla sintesi,
superficialità edonistica nel godimento visivo e contrarietà a “le style”, nella sua incompatibilità col disegno ben
delineato. Lo scopo di Pissarro non è una pedante indagine sulla psicologia della percezione e le lunghezze d’onda dei
colori come potevano essere quelle applicate da Seurat, su indicazione di Chevreul. Aurier poi passa a censire
rapidamente alcuni dipinti presenti in una mostra fissandone con sottile intelligenza, in pochi tratti essenziali, colori e
forme, parlando più volte di linea e di sintesi, quasi fossero silhouette ostinatamente cercate ed individuate in un
denso luminoso pullulare cromatico: l’occhio di Aurier va ben oltre i limiti di una siffatta tecnica, agli antipodi rispetto
alle proprie idee che sembra indicare la strada nuova del formalismo e della decorazione. Il capitolo V è dedicato al
Parigino JEAN FRANCOIS RAFFAËLLI. Troppa minuziosa la sua arte, e non è certo una festa per gli occhi, né
possiede generalmente le qualità più apprezzate dallo scrittore sia per i toni generalmente grigi e fumosi che per i
soggetti legati alla povertà e ai bassifondi cittadini, per il suo realismo livido; tutti attributi che non lo fecero accettare
neppure agli impressionisti stessi che non lo accettarono alla quarta esposizione del 1878, ove invece esposte
Gaugain. Lo scrittore pare tuttavia volersi sintonizzare sullo spirito di Raffaëlli. Aurier proprio all'inizio del suo
contributo, con una prosa prolissa, un interminabile elenco di soggetti di atmosfere frequentati dal pittore tra la
Francia e l'Inghilterra. Si tratta di un cangiante caleidoscopio, non così colorato, anzi cromaticamente smorto, fatto di
macchiette, di personaggi curiosi, bassifondi, insomma il gran teatro del mondo che il nostro autore delinea con
l'immediatezza di uno scherzo; vuole farne un'istantanea, giornalistica ekphrasis della produzione dell'artista. E
difatti le qualità migliori che Aurier riconoscere nell'opera di Raffaëlli sono proprio quelle della rapida annotazione,
delle illustrazioni, talvolta della caricatura. Raffaëlli è un pittore troppo analitico, troppo attratto dalle minuterie per
poter incontrare l'approvazione dello scrittore. Tuttavia, il suo pur vistoso scrupolo mimetico che va di pari passo con
una curiosa tendenza all’esagerazione, l'onestà visiva intellettuale, ne fanno, secondo Aurier un artista apprezzabile,
modesto pittore ma ottimo illustratore.
AURIER: CAMILLE PISSARRO
(in “Revue Indépendante” n. 41, mars 1890, pp.503-515 poi in Oeuvres posthumes col titolo “Le Néo-
impressionisme: Camille Pissarro”, pp.235-244)
Non Auguriamo a Pissarro di essere lodato presto dalla critica, poiché la critica inizierà ad amarlo solo dopo la sua
morte. È questo per una serie di valide ragioni: anzitutto la critica notoriamente miope non ha mai brillato nell'arte di
scoprire i talenti né di capire le opere veramente originali. Inoltre questa vecchina ha la mania di affibbiare al nome
dello sfortunato nuovo artista nel quale si è imbattuta per pura casualità una definizione, perentoria e immutabile,
come nei dizionari. Pissarro invece si presenta di fronte alla critica con tutte le peggiori raccomandazioni
immaginabili. Invero, la sua stessa opera, personale, nuova, profonda, non era fatta per accordargli la simpatia dei
vecchi occhiali d'oro. Forse lo avrebbero potuto tollerare per quanto scandalosamente originali fossero le sue formule
artistiche, se avesse acconsentito a restare per sempre immutato. Purtroppo nulla di ciò è avvenuto. La critica qui ha
commesso l'imperdonabile sciocchezza di credere che un artista non è un pony che percorre sempre la stessa pista,
con gli occhi bendati. Ha immaginato che la vita di un grande artista debba essere una serie di tappe verso un ideale
sempre più vicino, ma sempre troppo lontano. Pissarro non si accontenta di essere un talento che segue un cammino
in avanti costante ma ha dei cambi di rotta assolutamente bruschi. Non temette di lasciare il diritto cammino in cui la
critica lo seguiva tanto faticosamente, né di lanciarsi nel sentiero più imprevisto. Da molto tempo ormai vista non era
più un giovane debuttante. Sebbene il pubblico e i giornalisti non si protrassero in estasi di fronte alle sue tele,
almeno la sua pittura cominciava a essere capita e amata da un numero piuttosto nutrito di persone. A furia di studi
era riuscito a precisare in modo adeguato le forme necessarie per il suo genio, il suo temperamento artistico. Si era
creato un modello. Lo stile delle sue figure contadine, l'emozione profonda di certi paesaggi, facevano pensare a un
Millet, più dedicato, meno religioso, altrettanto poetico. Era riuscito a fissare sulla tela la malinconia solenne che
sorvola le cose e gli esseri nei campi. Ma all'improvviso decise di andarsene verso campi lontani e gli amici che lo
osservavano se ne meravigliarono. Colui che era già quasi un maestro, si faceva nuovamente allievo, sembrava
rinnegare tutto il sapere acquisito. Ma questo rifiuto era solo apparente in quanto l'artista conservava per intero il
grande bagaglio conoscitivo che già possedeva. Quel che aveva cercato e trovato nella natura fino a quel momento
era il carattere profondo delle cose e degli esseri, l'emozione, il profumo, la poesia degli ambienti, la psicologia delle
forme. Pensava che il pittore non dovesse essere solo uno psicologo e un poeta e né che dovesse parlare
esclusivamente all'anima ma che dovesse parlare agli occhi e il più intensamente possibile. Il suo ruolo è in primo
luogo fare la gioia delle nostre pupille, far cantare al colore, sorta di stregone, la sua vera canzone gioiosa e
splendente; tramutare per mezzo di una sapiente alchimia, in luce reale, i materiali opachi e fangosi di cui dispone la
pittura; metaforizzare le resine sporche della tavolozza e limpidezza: questo è l'obiettivo che Pissarro si prefisse nei
suoi nuovi studi. In quel periodo il gruppo dei pittori neoimpressionisti si andava formando. Sedotto dalle teorie
audaci, l'artista si unì a loro e si rivelò un temerario esploratore dell'ignoto. Devo ammettere da parte mia di aver più
volte sorriso ironicamente davanti ad alcune di quelle tele. A poco a poco però Pissarro padroneggiò la nuova tecnica,
il procedimento puntinista che mi sembra il procedimento più complesso e difficile di tutti. Di giorno in giorno
realizzò miglioramenti inaspettati. Lo scopo evidente dell'artista era immergere gli oggetti nella luce vera, vibrante e
chiara come la luce del sole. Oggi non si può negare che lo ha raggiunto (Aurier dice di lui “le tele attuali di Pissarro
sono dipinte con il sole”). Per quanto riguarda la nuova tecnica: consiste nel non miscelare i diversi elementi tonali ma
di giustapporli sulla tela con macchie proporzionalmente frazionate essendo esse combinate solo nella retina. Aurier
non vorrebbe che gli artisti adottassero questa tecnica perché implica molti inconvenienti: complica la fattura,
l’esecuzione e contraddice l’assioma del’actio minima che è uno dei più incontestabili dell’estetica: “Si deve ottenere
il massimo effetto con il minor numero di mezzi”. Inoltre essa rende più superficiale l’opera, abituando l’occhio a
soddisfarsi dell’armonia dei colori brillanti e scintillanti, senza preoccuparsi del resto. Infine, essa è poco compatibile
con la precisione del disegno, con la purezza delle linee. Ad ogni modo questo metodo imperfetto ha portato alcuni
artisti a risultati davvero incredibili. La mostra di ieri (Boussod e Valadon) in cui eravamo invitati a vedere le sue opere
più recenti ne è la dimostrazione. Mi aspettavo di ritrovare gli incoerenti vestiti di Arlecchino di un tempo invece ho
scoperto dei delicati capolavori, traboccanti di luce e poesia. Aurier fa poi un elenco di opere che ritiene capolavori
dell’artista: Un beau jour d’hiver à Eragny, in un ampio e calmo prato, delimitato in lontananza da una distesa di alberi
brinati, si trovano una fanciulla dalla gonna sferzata dalla tramontana e un giovane che accendono un fuoco dal legno
scoppiettante nell’aria fredda e secca. Un sole di gennaio, allegro e poco anemico, illumina il paesaggio e fa brillare
ciò che il gelo ha dipinto di bianco. Le figure – diversamente dal metodo puntinista- sono disegnate con abilità. La
tela infonde una sensazione di tranquillità, poetica e di dolce malinconia contadina. Alcuni amici di Pissarro si
sforzarono affinché lo Stato acquistasse questa tela ma fu loro risposto che P. non ha alcuna medaglia d’oro (non è
inscritto nelle sovrastrutture di mecenatismo dell’amministrazione delle Beaux-Arts). Altra tela “Les Faneuses”:
paesaggio ricoperto di verde, inondato di luce, alcune contadine scuotono con i forconi i fasci di erba fresca, con gesti
severi e ritmati. Tutti i colori, gli aranci, i versi e gli azzurri si fondono in un inno profondo di allegria. Le “Femmes
causant” presentano una composizione così felice, così ricco e armonioso da rappresentare un’opera dalla quale
sprigiona un’adorabile impressione di salute e placidità rurali. “Les Glaneuses” ricurve e accucciate, avvolte da una
diafana polvere rosa e oro di un tramonto, raccolgono le ultime spighe, unendole in fasci (qualità ritmica dei corpi e
contorni). “Prairies de Saint-Charles”: grande colorista, disegnatore armonioso, sole basso l’orizzonte diffonde sulle
cose una luce calda e un po' selvaggia; il verde degli alberi e dell’erba è ricoperto di una polvere arancione.
Commovente pace rurale. Una tranquillità soave, una malinconia gioiosa, un raccoglimento idillico. Accanto alle
pitture olio, Pissarro espone alcune pitture a tempera, altrettanto notevoli e forse meno sconcertanti per il pubblico.
L’artista infatti non vi applica in modo ortodosso il metodo della divisione del colore. Il tono vi perde in luminosità ma
la linea ne guadagna in purezza e precisione e l'animo si rallegra tanto di trovare una tecnica artistica più semplice che
si consola con piacere del sacrificio di un po' di colore e luce. La mostra nata dall'idea di Theodore Van Gogh sarà
credo una vera rivelazione per molti del grande valore di Pissarro. Dimostra che l’artista, il cui spirito inquieto ci aveva
spaventati, non era affatto il lunatico sconsiderato che credevamo, ma era un cercatore saggio, convinto e tenace che
ha trovato ciò che cercava. Ha ritenuto necessario servirsi di una formula nuova, forse inutile, in ogni caso tanto
difficile da sembrare impraticabile da mani umane. È riuscito a padroneggiarla. Non pensiamo più allo strumento,
perché l’operaio ha saputo utilizzarlo con abilità. Aurier constata ingenuamente che Pissarro ha dimostrato in modo
irrefutabile che non è impossibile creare cose belle.
RAFFAËLLI
(in “Mercure de France”, n.9, septembre 1890, pp.324-329 poi in Ouvres posthumes, col titolo Le caractérisme:
Raffaelli, pp.245-253)
Cieli grigi, noiosi, sporchi della fuliggine proveniente dalle fabbriche... Operai sudati, neri abruttiti dalla fatica... Tipici
piccoli interni di impiegati in pensione... Ambulanti, saltimbanchi, serve pidocchiose, bettole, mendicanti, tutti i
miserabili che abitano un mondo cupamente variegato, che è la periferia. Poi all'improvviso, l'Inghilterra. Cieli Foschi,
la flemma, l'ipocrisia, i gentlemen e gli altri man ancora, Rossi altezzosi... Le carrozze, i vagabondi, le pale-ale whisky
e tè... Infine, è nuovamente la Francia, non più la periferia, ma Parigi stessa nel suo polimorfismo caleidoscopico, la
vita febbrile, rumorosa, l'eterna calca e l'eterno tumulto. Tutte queste scene di Banlieue, di Angleterre, di Paris, notati
e colti nella loro peculiarità, nel loro carattere essenziale, nel loro aspetto abituale, con la necessaria esattezza, un
pittoresco pandemonio che evoca solo per il nome di Raffaëlli. Egli è tra i pittori degni di questo nome, uno di quelli
che presentano la commissione di difetti e pregi più sconcertante. Tuttavia per quanto imperfetto sia il suo talento
esso poteva fregiarsi di tante rare virtù come la sincerità, l'odio del banale, la falsa eleganza; uno spirito curioso,
ironico e patetico, paziente nella ricerca e pronto a inseguire le annotazioni più istantanee. Raffaëlli si definì
caratterista, cercando perfino di creare una scuola in -ista e di precisarne l'estetica nei suoi libretti. Di tutto ciò ci resta
soltanto l'epiteto “caratterista” che lo descrive con una certa esattezza. Il suo animo infatti è molto materialista,
molto realista e al contempo analitico, è in sommo grado attirato dall'esteriorità degli esseri e delle cose, dal
carattere delle loro superfici che l'artista passa la vita a osservare, ad annotare, con una tecnica stupefacente. A
interessarlo sono i segni del pensiero più che il pensiero stesso, e lo interessano più per ciò che vi è di pittorico che per
il loro significato rappresentativo. Raffaëlli osserva e nota gli incidenti epidermici, ma lo fa come un artista, non come
un erudito. Annota minuscoli dettagli estrinseci che a noi sembrano vani e puerili e che invece per lui sono del più alto
valore. Grazie alla sua sensibilità, della sua anima di artista, i fenomeni per quanto insignificanti, acquisiscono colore e
ciò che ci permette di interessarci al minuzioso esterno dell'opera. Né l’attenzione esclusiva a ciò che è in superficie,
né la mania della futile ricerca implicano necessariamente freddezza. Ciononostante, occorre ammetterlo, nemmeno
l'emozione che constatiamo nelle sue opere pare mai profonda o solenne. Si tratta di una gaiezza che si sparge sui
dettagli, che scivola sul derma, che penetra appena, secondo la sua intelligenza che si consuma in superflue analisi.
Per questo di fronte ai dipinti di Raffaëlli ci si ritrova a rimpiangere qualcosa, un non so che... forse l’immensa visione
penetrante, l'impressionabilità di tutto l'essere, di un Rembrandt! In Raffaelli vi è una vasta sintesi delle forme
generali, del gesto, della figura, solo un’indicazione delle linee generali al fine di fissare il carattere, solo lo stesso
indispensabile. Forse è meno esatto, ma di certo è più vero. Rispetto ad un Degas che è meno prolisso e più
eloquente, più chiaro e penetrante e dunque più artista di un Raffaelli. Cionondimeno, lo ribadisco, l'opera di Raffaëlli
resta, nonostante tutto, molto interessante e seducente. La superficialità, la mania dermatografica a oltranza, la
potenza visiva, la passione del vero del pittoresco distintivo, hanno avuto il singolare risultato di farne il primo e forse
il solo pittore aneddotico dei nostri giorni. Le sue sono più illustrazioni che quadri, ma illustrazioni miracolose e
incomparabili. Raffaëlli, e bisogna confermarlo con forza, è un illustratore geniale. È un artista troppo cosciente, un
teorico troppo logico e dotto per percorrere alla cieca la via artistica che segue. Come pittore infatti, come colorista,
esso esiste a malapena. La sua tavolozza è sporca, torbida, fosca. Nonostante alcuni lodevoli sforzi tesi alla chiarezza
la maggior parte delle sue tele rimangono grigie. Troppo spesso non sa distinguere il solido dal fluido. Ma che
importa? Come ho già detto può tranquillamente farne a meno. La composizione dei suoi schizzi più minori è quasi
sempre felice. Sa Fare a meno dei luoghi comuni e delle formule, contentandosi della perspicace osservazione della
realtà, in cui tutto trova posto senza sforzo. Perciò i suoi schizzi sono logicamente delineati, caratteristici, imprevisti,
divertenti come apparizioni troppo vere. Gli occorre piuttosto la scienza della composizione, del disegno. È bene a
questo riguardo non ha nulla da invidiare a nessuno. Gli si rimprovera di non riuscire sempre ad adattarsi all'animo dei
diversi soggetti, di rimanere canaglia, plebeo, quando invece dovrebbe diventare elegante ad aristocratico. Il disegno
di Raffaëlli è spesso così bizzarramente personale che si è tentati di chiedersi se l’originalità non sia premeditata,
l'eccentricità voluta invenzione di sana pianta, in spregio delle vecchie formule, di una formula diversa ma non meno
artificiale di tutte le altre. Qualunque sia il motivo, lo preferisco comunque a tutte le discussioni e banalità degli eterni
allievi dell’eterne scuole. Raffaëlli è anche scultore, le sculture presentano gli stessi pregi e gli stessi difetti di suoi
dipinti. Si tratta di figure di bronzo fissate a pochi centimetri con sottile lastra di marmo o legno. Sono facili e comodi
da utilizzare persino in viaggio. Una scultura di appartamento, tascabile! Questi bassorilievi imitano, difatti le ombre
cinesi. La loro ingegnosa e fantasiosa giocosità si concilia poco con lo stile alto, per la solennità, la decorativa solidità
di cui l’arte statuaria necessita. L'unica cosa che posso fare augurare all'autore è che la sua invenzione gli porti un
successo lucrativo tra i circoli mondani e che comporti una rivoluzione completa dell'arte... industriale!
RENOIR
(in “Mercure de France”, n.20, aout 1891, pp.103-106 poi in Ouvres posthumes, col titolo L’Impressionisme:
Renoir, pp.245-253)
Davanti al microcosmo grazioso infiocchettato dall'aspetto così piacevolmente artificiale, così adorabilmente
fantasioso, che seppero evocare i pennelli quasi lascivi di Renoir devo, mio malgrado, immaginare un'anima artistica
ingenua, buona, indulgente, gioiosa, ironica; un'anima fanciullesca, che si meraviglia, si rallegra e gioisce del mondo e
del reale. Nell'immenso e grazioso negozio di giocattoli che è stato per lui l'universo, Renoir è stato prima di tutto
attratto dalle guance imbellettate, dalle labbra rosse perennemente sorridenti, dai begli occhi smaltati di azzurro
delle bambole, adorabili bambole, con la carne di porcellana rosa, dagli abiti scintillanti di satin. Egli volle dipingere la
donna, lo squisito, grazioso balocco chiacchierino, saltellante, che adorava e la cui anima, immaginava, non doveva
certo essere molto diversa da un movimento di orologio; tra tutte le donne, tra tutti i giocattolini automatici, tra tutte
le delicate macchine artificiali, sono state quelle in cui l’artificialità era più distinta che lo hanno attratto e sedotto di
più. Disdegnando le robuste contadine, troppo vicine alla natura, esso vuole la bambolina graziosa, la bambola più
bambola: la parigina. L'interpretazione originale forse molto saggia del famoso eterno femmineo non sembra forse
essere, in Renoir, la necessaria conseguenza di uno scetticismo acquisito per mezzo di amare esperienze? Mi sembra
più spontanea, più ingenua, più istintiva, e anche se dovesse essere nata da qualche tipo di scetticismo, si tratterebbe
di uno scetticismo non del tutto amaro, non del tutto razionale o derivato dall’esperienza. Con tali idee Renoir non è
stato affatto superficiale, anzi è stato profondo in quanto ha soppresso in modo quasi assoluto l'intelletto delle
modelle, e glielo ha compensato prodigando nei suoi dipinti il suo stesso intelletto che era eccezionalmente originale.
Tuttavia il grazioso di Renoir, che è il grazioso spinto al massimo grado dell’artificialità, diventa prodigiosamente
interessante grazie alla sua eccessività e in secondo luogo perché è in un certo senso un grazioso filosofico, simbolico
del suo spirito artistico e delle sue idee, delle sue conoscenze cosmologiche. Data la sua impostazione psicologica,
come avrebbe potuto percepire le cose diversamente dalla loro graziosa esteriorità dato che secondo lui il solo fine
degli esseri e delle cose è affascinare e divertire la sua anima di bambino? A cosa servirebbero qualità più intime della
donna? La vede, la vuole graziosa, solo questo. Perché dovrebbe essere bella giacché è graziosa? Perché intelligente,
perché stupida, perché falsa, perché maligna? Ella è graziosa. Ella ha un sesso? Si, ma lo immaginiamo sterile, buona
soltanto per i nostri puerili divertimenti. Ella non vive, non pensa. Noi tutti vogliamo attribuirle i nostri sentimenti, le
nostre emozioni. Vogliamo credere che abbia un cuore complesso, un’intelligenza contorta. Giocate con la vostra
bambola, attribuitele sentimenti che non può avere, datele vita con le vostre fantasticherie, ma fate attenzione a non
prenderla sul serio, perché sareste ridicoli come fanciulli che inveiscono contro un gioco senza colpe. Ad ogni modo,
Renoir ha saputo trarre da questa filosofia, probabilmente inconscia, un'opera curiosa e seducente. Chi non
desidererebbe frequentare questo mondo incantevole di graziose figurine dall’eterno sorriso, per metà donne e per
metà bambine che hanno quel tanto che basta di vita per far credere che possiedano un corpo vero, un’anima, che
possano capirci e amarci? Questa tendenza dell'artista di definire cose delicate in cui unico scopo è di servire da
giocattoli all'uomo bambino, lo riconosciamo nei fiori, nelle nature morte proprio come nelle figure femminili: non
sono quasi più frutti, fiori, con funzioni e scopi nella realtà fisica ma sono diventati semplicemente dei graziosi oggetti
di piacere se deliziano la pupilla. La stessa bizzarra deformazione può essere osservata nei suoi paesaggi cui unico
scopo è costituire un gradevole decorazione del negozio di giocattoli. Come si può immaginare tutto questo dà vita a
un’arte singolare, semplice e complessa, ammaliante. È davvero un caso paradossale sconcertante, quello di questo
pittore, candido come un fanciullo, eppure tanto complesso, che ha, senza premeditazioni perverse, gusti artificiosi; è
un pittore ingenuo e spontaneo, consapevole di filosofie tanto sofisticate, uno scettico un poco credulo, istintivo, il
quale, convinto della futilità della vita, della vanità della donna, della falsità del mondo, ben lontano dal cadere, per
questo, nell’amaro pessimismo, se ne rallegra, glorifica la loro futilità, la loro vanità, la loro falsità e le dichiara
lodevoli, preziosi e graziosi balocchi necessari alle fanciullesche ricreazioni della sua anima.
CLAUDE MONET
(in “Mercure de France”, n.28, avril 1892, pp.302-305 poi in Ouvres posthumes, col titolo L’Impressionisme:
Claude Monet, pp.221-225)
Le sue opere sono inni ammirevoli, inteneriti, diretti all'aspro dispensatore di vita e di gioie di bellezza, quindi forse un
po' più brevi di quanto vorremmo, inni di un pontefice frettoloso senza molto fiato, e tuttavia sinceri e splendidi. Non
si chieda all'innamorato della divina luce, altro che l'amore per la divina luce. La voluttuosa passione che lo esalta, le
sensazioni ineffabili che conosce lo autorizzano a non sognare, non pensare né quasi a vivere. Le idee, gli esseri, le
cose non esistono più per lui. Vero mistico dell’elioteismo e niente affatto scolastico, non vuole argomentare, non
vuole spiegare nulla, gli basta amare, fondersi negli effluvi bollenti del globo glorioso. Il resto, ovvero il suo corpo e la
sua anima, l'anima e il corpo degli altri, non hanno importanza per lui. Non sa forse che con la complicità del suo dio il
nulla stesso si illuminerebbe, per diventare un tempio di gioia e sfarzo? Così, sceglie, pretesti insignificanti, soggetti
banali per trasformare questi nulla in incanti, in poesie radiose: un covone in mezzo alla pianura, la valle della Creuse,
le onde del Mediterraneo. Claude Monet ha avuto una notevole influenza sui pittori contemporanei. Ha insegnato
loro a conoscere le allegre naturali luci degli esterni, provare vergogna del bitume, dei neri, dei seppia. È responsabile
della piccola rivoluzione della tecnica pittorica così come lo fu Manet. Ma nell’arte dipingere in modo chiaro, non ha
un’importanza capitale. Ad affascinarsi dell'opera di Monet è sopra ogni cosa, più della chiarezza, la sintesi e
l'armonia, così come lo spirito artistico, ingenuo, vitale, felice che ne emerge. Ci è forse concesso di criticare l’opera
nella quale mancano comunque elementi indispensabili per raggiungere la bellezza perfetta, di constatare
l’elementarità delle pennellate istantanee, spesso troppo pennellate, troppo istantanee, di biasimare il costante
sacrificio delle forme significanti e il partito preso di immergere gli esseri in atmosfere così splendidamente luminose
che sembrano smaterializzarsi; inoltre forse legittimo auspicare un’arte meno immediata, meno legata alle
sensazioni, un’arte del sogno e delle idee. Sarebbe ingiusto, tuttavia, non amare il grande pittore che seppe allietare
le pupille e rallegrare i cuori, che traduce in modo eccellente le gioie della vista.
4) Baldini
COSÌ ORIGINALI E COSÌ ISOLATI
(Aurier: “Les isolés, Vincent Van Gogh” in “Mercure de France”, n. 1. Janvier 1890, pp 24-29)
Pubblicato sul primo numero del nuovo Mercure de France, Les isolés, Vincent Van Gogh è il primo e l'unico articolo a
interessarsi del lavoro dell'artista prima della sua tragica morte. L'attenzione di Aurier si concentra sulle opere
realizzate dal pittore ad Arles e a Saint Remy ed evoca i grandi temi della sua pittura dando grande evidenza alle
caratteristiche che ne contraddistinguono il temperamento. In particolare si rileva come egli percepisca il cromatismo
con un’intensità esasperata, resa, secondo Il critico, attraverso un particolare tono “gemmique”. È possibile che l'idea
del testo sia maturata nel critico a partire da l’Oeuvre maudit del 1889, componimento dedicato agli artisti non
allineati, ribelli, da sempre in conflitto con il loro tempo. Presentato ad Aurier da Emile Bernard, Vincent Van Gogh al
momento dell'uscita dell'articolo può dirsi pressoché sconosciuto al di fuori delle frange simboliste.
Nell'analizzare il lavoro, lo studioso dimostra di aver compreso i fondamenti della sua poetica. Egli riconosce
all'olandese rare qualità inventive tali da renderlo estremamente originale ma anche da stare isolato. Due gli assunti
basilari: l'opportunità che il critico sia prima di tutto un poeta, sola figura in grado di tradurre le opere in un idioma
comprensibile ai più e la necessità che questi si spinga poi oltre l'interpretazione poetica per giungere all’insieme di
idee che caratterizza le vere opere d'arte. La concezione di Aurier relativamente allo statuto del critico d'arte richiama
le posizioni di Baudelaire che dato il suo ruolo di iniziatore della disciplina, non potevano essere ignorate. Recensendo
il salone del 1846 Baudelaire sostiene che la vera critica deve essere parziale, appassionata, politica, condotta da un
punto di vista esclusivo, tale da aprire il più ampio degli orizzonti. La sua influenza può essere ravvisata anche
nell’esigenza di sincerità che contraddistingue il vero artista. Bisogna però rilevare che la sua posizione ostile
all'accademia e alle situazioni ufficiali è abbastanza peculiare e che le sue valutazioni originali e strutturate a favore
del simbolismo non possono dirsi sempre condivise. Coerente con le sue speculazioni, Aurier segue dunque uno
schema riconoscibile in almeno due dei quattro testi presi in esame, quello su Van Gogh e quello su De Groux. Meno
strutturato l'impianto dell'articolo su Carriére mentre il brano su Hennér sembra essere più una riflessione sul
percorso dell'artista che una disamina dei suoi lavori. Lo schema adottato per l'analisi dell'opera di Van Gogh e
dell'altro, può dirsi composto di due parti distinte, la prima, costituita da un testo descrittivo con l’elenco di metafore
liriche che scaturiscono dalla percezione oggettiva del critico, e resa attraverso una prosa appassionata e visionaria.
Nella seconda parte del testo le opere vengono sottoposte ad una lettura critica in senso più stretto. Ma Aurier, usa
per la prima sezione, tecniche letterarie di derivazione simbolista, per esempio, attraverso la ripetizione ritmata dei
suoni egli mira ad un effetto ipnotico. Principale modello di riferimento in questo senso è l'opera di Stephane
Mallarmé, figura importante nella propagazione dell’interesse diffuso in quegli anni per l’occultismo e l’alchimia.
Dopo l’iniziale narrazione magniloquente e appassionata, lo scrittore procede dunque con un'analisi più razionale. Nel
caso di VAN GOGH colpisce come il critico parta dal confronto con gli antichi maestri fiamminghi. Apparentemente
inconciliabile questa affermazione trova un equilibrio alla luce della definizione del realismo di Van Gogh. Egli ci dice
infatti che il pittore, lungi dall'essere aneddotico e fenomenico, trascende la realtà distillando da essa il
simbolismo. Nella sua pittura la natura è elemento inquietante. Il ruolo dell'idea, vero fondamento di ogni
composizione, è dissimulato dalla squisita selezione di linee e colori che per quanto peculiari dell'individualità
espressiva di Van Gogh, restano pure i mezzi del suo processo di simbolizzazione. Suggestione delle idee
generali impastate nei colori (“egli è molto cosciente della materia, della sua importanza e della sua bellezza e la
considera come una sorta di meraviglioso linguaggio destinato a tradurre l’idea”). Il critico poi sottolinea il
temperamento genuino e violento che accarezza l'idea di una pittura semplicissima e quasi infantile nella sua
verità. La differenza sostanziale tra il vero e la soggettiva versione di esso resa nella mediazione pittorica di VG,
risiede nel fatto (l’Idea, essenziale substrato dell’opera, che è nello stesso tempo la causa efficiente e finale).
[Van Gogh risponde nel 1890 esprimendo la sua sorpresa il suo apprezzamento: per quanto lusingato dalle attenzioni,
l'artista pare non gradire l'etichetta di isolato attribuitagli. Scrivendo alla madre infatti egli afferma di essersi
rattristato nel leggere l'articolo, e prosegue affermando che ciò che maggiormente lo sostiene nel suo lavoro è invece
proprio la sensazione che ci siano diverse persone che stanno facendo esattamente la stessa cosa, chiedendosi infine
perché Aurier abbia scelto lui e non quegli altri 6 o 7]
Il testo che più si avvicina alla struttura compositiva di Van Gogh è quello dedicato a HENRY DE GROUX che
presenta però una significativa peculiarità, infatti è una delle pochissime volte nella quale Aurier descrive i dipinti
esaminati in termini letterari. Parlando di Le Meurtre, per esempio, egli avverte lo spettatore di trovarci di fronte
all’orribile racconto di un viaggiatore ingannato e brutalmente assassinato dai ladri. Lo scrittore elogia il quadro
perché il suo significato va oltre il singolo episodio narrato ed esprime un contenuto profondo e universale.
L'argomento macabro suggestiona il critico fino a fagocitare nel discorso le qualità formali del lavoro. Fortemente
attratto dei soggetti scioccanti dell'artista, egli esamina anche L’Assassine, Le Pendu, Les Trainards, e attribuisce il
loro impatto alla manipolazione che l'artista fa degli elementi pittorici astratti, insistendo su quando l'emozione che
ne derivi sia di natura puramente estetica riprodotta dalla contemplazione di queste astrazioni (Definisce il suo lavoro
spaventoso, evoca suggestioni di illustri precedenti quali un Delacroix pazzo furioso, un Goya ebbro e un Caravaggio
sanguinolento. Conclude con un deciso apprezzamento del pittore che viene definito molto peculiare, oltremodo
geniale). Ancora una volta l'ammirazione di Aurier per il realismo di molti artisti appare incompatibile con la sua
risoluta opposizione a un’arte imitativa, anche se l'apparente contraddizione assume toni meno stridenti alla
luce di due precetti fondamentali del pensiero del critico: la possibilità dell'arte di descrivere la realtà, purché
non si tratti della riproduzione della sua concretezza materiale, e l'urgenza di mezzi di rappresentazione diversi
dall’imitazione. Entrambe premesse fondamentali nella lettura del lavoro di EUGÈNE CARRIÉRE. Fondamentale
anche l'esempio di HENNER che secondo il critico francese, tende spontaneamente alla sintesi. L'uso della parola
sintesi in Aurier è quasi sempre da mettere in relazione con una forma di semplificazione o con la visione soggettiva
dell'artista, la correlazione di queste due posizioni è uno degli aspetti più complicati della sua teoria che solo negli
scritti più maturi egli si sforzerà di chiarire. Scrivendo di Herrer, Aurier si riferisce alla sintesi in entrambe le accezioni.
Nella prima parte del testo il termine compare nell'ambito di un discorso teso a formalizzare la distinzione tra
l'idealizzazione soggettiva e l'applicazione di un ideale pre formulato. Nel caso della sublimazione personale, (l’unica
sostenuta al critico) l'artista è autorizzato a modificare l'aspetto naturale degli oggetti in base alla sua personale
percezione intellettuale. Nella seconda parte del testo il termine è associato alla semplificazione che è uno dei doni di
tutti i decoratori. Compare per la prima volta uno dei fondamenti del sistema critico di Aurier, la convinzione che è
che esista una connessione ineludibile tra decorazione e arte simbolico-sintetista. La sintesi, passando da
un'accezione all'altra, sembra diventare il codice del processo di trasposizione dell'idea (o stilizzazione),
principio di semplificazione formale che restituisce il concetto, il risultato di questo personale processo di
riduzione formale atto a esprimere in maniera simbolica l'idea è lo stile. Il quadro che emerge da questi iscritti,
oltre a palesare come le teorie enunciate trovino applicazione nella pratica di Aurier, mostra la sua prospettiva
riguardo gli artisti e alle opere a lui contemporanei, rendendo i suoi studi espressione lucida ma empatica del nuovo
modo di osservare il mondo.
GABRIEL ALBERT AURIER
J.F. HENNER
Henner è da circa due anni un accademico. Come è risaputo, oggi, per far parte dell'accademia de beaux-arts, è
sufficiente essere privi di qualsiasi genio, di qualsiasi originalità, essere un imitatore molto anonimo e soprattutto non
avere mai inventato nulla. Henner non aveva quindi nessun diritto a questo onore. Tuttavia, sebbene ora appartenga
all'Istitut, Henner non è affatto un pittore accademico, poiché possiede talento, evidente personalità e disprezzo delle
formule banali. Fu sì allievo dell’Ecole de Rome, ed ha quindi ricevuto l'istruzione superiore del perfetto pittore che ha
imparato a disegnare e spennellare secondo la regola, l'unica buona e che gli è stato dimostrato matematicamente
che era inutile affaticarsi con ricerche personali, giacché Tizio e Caio hanno scoperto molto tempo fa l'unico bello, la
grande arte, la ricetta infallibile per confezionare senza dolore, su misura capolavori immortali. Henner ascoltò i suoi
maestri ma non appena si sentì abbastanza sicuro con le sue ali per prendere il volo si mise in salvo lontano, molto
lontano. Richiuse in fondo a un vecchio armadio tutti i cliché, tutti gli infallibili principi e le formule che gli erano stati
tanto generosamente elargite. Capendo che il valore di un'opera d'arte dipende meno dal livello di tecnica e abilità di
esecuzione che dall'originalità del concerto, dell'emozione, dalla visione dal pensiero, si disse che il problema da
risolvere era produrre un'opera che fosse la sintesi delle sensazioni, delle idee, delle impressioni morali. Tuttavia,
tutto questo si potrebbe dire, non è che il famoso motto dei realisti: dobbiamo essere sinceri. Ebbene, se un’artista
strettamente naturalista, che copia in modo servile soltanto le sue sensazioni, è un'artista sincero, potremmo
attribuire lo stesso epiteto a Henner, il quale incontestabilmente, realizza la visione che ha delle cose. Lo strumento
percettivo dell'artista è essenzialmente modificabile dall'artista stesso. L'artista quindi ha diritto di provare a
modificarlo, perfezionarlo, a condizione però di perfezionare i caratteri che appartengono solo a lui che lo
contraddistinguono, che costituiscono il suo io distintivo. In breve, il perfezionamento dovrà avvenire solo per mezzo
dell'esagerazione di ciò che è già originariamente presente. Il frutto di questo lavoro intellettivo costituirà il suo
temperamento non quello originario, che conta poco, ma il temperamento di artista. È una volta appurato ciò, la
parola sincero potrà indicare sia le opere di Courbet, un feroce realista, sia quella di Henner che è un poeta. Henner
dedicò i pochi anni successivi al ritorno da Roma a questo lavoro intimo, alla ricostruzione del suo io di artista. Come
la maggior parte dei veri poeti, l'artista mancava completamente di un seppur minimo spirito di analisi. Per natura
vedeva in modo semplice senza dettagli, senza la complicazione di inutili minuzie. Quasi sempre gli artisti dotati di
questo talento innato sono predestinati alle grandi opere simboliche decorative. Henner invece, e questa anomalia è
peculiare del suo temperamento, aveva un’innata tendenza alla restrizione dei concetti, alla semplificazione dei
soggetti, al restringimento della cornice. Il risultato fu un talento molto particolare, quasi unico nella storia dell'arte.
Non ci si imbatterà mai nella sua produzione in una di quelle grandi macchine sapientemente complicate, di un'analisi
meschina e miope. Una Ninfa, una semplice testa femminile o due figure nude distese su un prato, sulle rive di un
ruscello con uno sfondo di foglie scure, gli bastano per riuscire a commuoverci e a farci sognare. Della sua produzione
ciò che preferisco di gran lunga sono le linfe e le Naiadi e le pastorelle nude sui prati. Per quanto seducenti siano i suoi
ritratti così poetici, per quanto deliziosamente intrisi di leggenda mi sembrino le sue Maddalene i suoi San
Sebastiano, sono un poco sconcertato da questa arte, che, dal Cristianesimo, non prende che pretesti che paganizza
e sensualizza, con un fascino alquanto inquietante, anche i soggetti più spirituali persino e Gesù. Mi turba, per quanto
sia delizioso, come uno squisito paradosso non troppo lontano dalla blasfemia e torno quindi rapido al vero Henner, il
poeta sensuale pagano, il nipote dei Correggio e dei Giorgione. Non si cerchi però in questa mitologia la traduzione
allegorica delle idee cosmogoniche dei popoli passati, la conoscenza dei dogmi, il significato filosofico delle fiabe, dei
simboli, dei segni degli emblemi e delle allegorie. La mitologia di Henner è meno colta più spontanea e meno fredda
degli artisti di oggi e di ieri. Henner non è un prete dotto, egli è un pastore di Teocrito, un bravo suonatore di flauto e
poeta. Henner siete riuscito a proteggere la vostra personalità dalle vecchie gelide formule accademiche! Vi auguro di
proteggerla dalla reiterazione delle formule Henneriane.
GLI ISOLATI, VINCENT VAN GOGH
L'estensione inquietante e conturbante di una natura strana, soprannaturale, di una natura eccessiva nella quale
tutto, esseri e cose, ombre e luce, forme e colori, si impenna, si erge in una volontà rabbiosa di urlare la sua essenziale
canzone, con il timbro più intenso, più selvaggiamente acuto: sono alberi attorcigliati come giganti in lotta, che
proclamano con i gesti delle loro braccia l'orgoglio della loro muscolatura l'eterna sfida contro l'uragano. La materia,
la natura freneticamente attorcigliata; la forma diventa incubo, il colore diventa fiamma, luce si fa incendio, la vita
calda febbre. Questa è l'impressione, niente affatto esagerata, che lasciano sulla retina al primo sguardo le opere
bizzarre, intense e febbrili di Vincent Van Gogh, compatriota e non indegno erede dei vecchi maestri olandesi.
Quanto siamo lontani dai delicati colori sempre un poco torbidi e sfocati dei paesi del nord e da quell’arte
onestissima, coscienziosa e scrupolosa genialmente banale degli impareggiabili vecchi maestri. Tuttavia, non si cade
in errore, Vincent Van Gogh non si posiziona tanto lontano dalla sua razza: egli è pienamente olandese. Infatti prima
di tutto è, come tutti i suoi illustri compatrioti, un realista, un realista in tutta la forza del termine. Ars est homo
additus naturae, disse chiaramente il Bacone, ed Emile Zola ha definito il realismo la natura vista attraverso un
temperamento (è l’homo additus), la deformazione che varia secondo le personalità. Ritengo che nel caso di Van
Gogh nonostante la stranezza talvolta sconcertante delle sue opere, sia difficile negare e contestare l'autenticità
genuina della sua arte, l'ingenuità della sua visione. Indipendentemente dall’indefinibile profumo di buona fede, di
veritiero che emanano tutti i suoi dipinti, le scelte dei soggetti, il rapporto costante delle note più eccessive, la
consapevolezza dello studio dei caratteri, la continua ricerca del segno essenziale di ogni cosa, mille dettagli
significativi affermano in modo inconfutabile la sua profonda e quasi infantile sincerità, il suo grande amore per la
natura e per il vero: IL SUO PERSONALE VERO. A caratterizzare la sua intera produzione è l'eccesso della forza, del
nervosismo, la violenza dell'espressione. Nella categorica affermazione del carattere delle cose, nella semplificazione
temeraria delle forme, nel suo insolente fissare il sole, si rivela un individuo potente, audace e brutale talvolta
ingenuamente delicato. Inoltre, come si evince dagli eccessi quasi orgiastici di tutto ciò che egli ha dipinto, è un
esaltato, nemico delle sobrietà borghesi e delle minuzie, una sorta di gigante ebro, un genio terribile, dissennato,
spesso sublime, a volte grottesco, sempre al limite del patologico. Infine egli è soprattutto un iperestesico, dagli
evidenti sintomi, che avverte con intensità anormale i caratteri impercettibili e segreti delle linee e delle forme. Il
motivo del suo realismo, il nevrotico, è questo ed è inoltre il motivo per cui la sua sincerità e verità sono così diverse
da quelle dei grandi borghesucci olandesi che furono i suoi avi e maestri. Egli è molto consapevole della materia, della
sua importanza, della sua bellezza ma anche il più delle volte considera la materia incantatrice solo una sorta di
linguaggio meraviglioso, destinata a tradurre l'idea. Egli è quasi sempre un simbolista. Certo non un simbolista alla
maniera dei primitivi italiani, ma un simbolista che sente la necessità di rivestire le idee di forme precise, ponderabili,
tangibili. Vincent Van Gogh non è solo un grande pittore entusiasta della sua arte, della sua tavolozza della natura, è
anche un sognatore, un credente esaltato, un divoratore di belle utopie che vive di idee e di sogni. In quasi tutte le sue
tele, sotto al rivestimento morfic0, sotto la carne estremamente carne, giace per lo spirito che lo sa vedere, un
pensiero, un’Idea essenziale sostrato dell’opera, la quale ne è contemporaneamente la causa efficiente e finale. Le
sinfonie di colori e linee non sono che semplici mezzi espressivi per lui, processi di simbolizzazione (il gesto e il lavoro
hanno sempre ossessionato VG e che dipinse e ridipinse tanto sovente sotto tramonti di cieli rubescenti o nella
polvere dorata dei mezzogiorni infuocati, se non pensando all’ossessione che gli tormenta il cervello riguardo alla
venuta di un uomo, di un messia, di un seminatore di verità che darebbe nuova vita alla decrepita arte e forse alla
nostra società imbecille e industriale/ la passione ossessiva per il disco solare che egli ama fa rutilare nell’esplosione
dei suoi cieli e allo stesso tempo, per l’altro sole, l’astro vegetale, il girasole che ripete senza stancarsi= gloriosa
allegoria eliomitica?). Indulse a lungo immaginando un rinnovamento dell'arte, possibile per mezzo di uno
spostamento della civiltà: un’arte delle regioni tropicali. Giacché i popoli reclamano imperiosamente opere che
corrispondano ai nuovi ambienti abitati, mentre i pittori, trovandosi faccia a faccia con una natura fino ad allora
sconosciuta, si confessano l’impotenza dei vecchi trucchi scolastici e iniziano a cercare con ingenuità, la candida
traduzione di tutte le nuove sensazioni (La Berceuse, Emplyé des postes, Pont-levis, Fillette à la rose, lo Zuave, la
Provencale= indicano tendenza verso la semplificazione dell’arte che si ritrova in tutta la sua riproduzione) Inoltre,
come conseguenza della convinzione del bisogno di ricominciare tutto da capo nell'arte, a lungo accarezzò l'idea di
inventare una pittura semplicistica ma, popolare, quasi infantile, capace di commuovere gli umili privi di raffinatezze.
TECNICA: La parte esterna della sua pittura è in correlazione assoluta con il suo temperamento di artista. In tutte le
opere l'esecuzione è vigorosa, esaltata, brutale e intensa. Il disegno furioso e potente spesso impacciato e un poco
pesante è unito ad un colore incredibilmente brillante. Eppure non riesce sempre ad evitare certe crudezze
sgradevoli, certe disarmonie, e dissonanze. Quanto alla fattura propriamente detta, ai procedimenti immediati volti
ad illuminare la tela, sono esuberanti, molto potenti e nervosi. Il suo pennello opera pe rmezzo di enormi mescolanze
di toni purissimi, pennellate curve, interrotte da tocchi rettilinei ciò che conferisce alle sue tele il solido aspetto di
mura brillanti fatte di cristalli e di sole. Questo artista, robusto e vero, di razza, delle mani brutali da gigante, dai
nervosismi da isterico, dall'anima da illuminato, così originale, così isolato, nel mezzo dell’arte di oggi conoscerà forse
un giorno le gioie della riabilitazione e le carezze pentite della moda? Forse. Van Gogh è allo stesso tempo troppo
semplice e troppo sofisticato per lo spirito borghese contemporaneo. Sarà compreso pienamente solo dai suoi fratelli
artisti. ( come già detto sappiamo che Van Gogh risponde ad Aurier ringraziandolo molto dell'articolo in cui dice di
ritrovare le sue tele molto migliori di quanto siano in realtà, sentendosi in imbarazzo in quanto le caratteristiche
(percepire il cromatismo delle cose con una tale intensità, con una tale qualità metallica, da gemma) che gli imputa lo
scrittore, si addicono ad altri piuttosto che a lui: cita il nome di Monticelli. Cita Gaugain come ispirazione, un amico a
cui far capire che un buon quadro deve essere equivalente ad una buona azione. Egli non si capacita come trattando
la questione della “pittura tropicale”, e del colore, Aurier avesse tralasciato le personalità di Gaugain e Monticelli
poiché lui dice “ciò che gli appartiene o apparterrà, resterà assolutamente secondario (rispetto alla produzione di
questi due)”. Nel voler individuare nei suoi girasoli, un simbolismo che rimandi alla gratitudine, VG non si spiega come
questo principio non possa essere applicato anche a quadri di fiori di altri artisti, convinto che sia difficile distinguere
l’impressionismo dalle altre cose ed aggiunge inoltre, che non vede alcuna utilità nello spirito settario che sta
vedendo negli ultimi anni. Si dichiara incapace di comprendere la critica di Aurier a Meissonier dato che lui nutre
verso di questo, un’ammirazione sconfinata. Infine aggiunge: “Alla prossima spedizione per mio fratello, aggiungerò
uno studio di cipressi per lei, se mi farà l'onore di accettarlo” ci stava lavorando perché voleva aggiungere una piccola
figura. Il cipresso è tipico del paesaggio provenzale. Fino a quel momento non lo ha potuto raffigurare come desidera,
proprio perché la visione della natura lo fa arrivare sino allo svenimento tanto che per riprendersi ha bisogno di 15 gg
in cui è impossibilitato dunque a lavorare. Lo studio per Aurier raffigura un gruppo di cipressi all’angolo di un campo di
grano mosso dal maestrale estivo. C’è una nota di nero avviluppata in un blu mosso dal forte vento che circola e a
questa nota di nero si oppone il vermiglio dei papaveri-accostamento di toni dei graziosi tessuti scozzesi a quadri
verdi, blu, rossi, gialli, neri-).
EUGÈNE CARRIÈRE
Fino a questo momento, avevamo potuto vedere le opere di Carrière solo separatamente, persi nello sfoggio della
fiera dei salons annuali. Oggi, ci è concesso guardare e studiare un certo numero di quadri e disegni di questo artista
raro, ben scelti, raggruppati in sale speciali, lontane da qualsiasi vicino disdicevole. Dobbiamo ringraziare Carrière per
aver avuto l'idea di questa mostra particolare che ha permesso alla gente di giudicare l'insieme della sua opera, di
capire meglio le tendenze e il significato della sua arte. In questo secolo di realismo furioso, in cui l'unica
preoccupazione è tradurre la materia esteriore, copiare i gesti, i costumi e gli ornamenti con trucchi da illusionisti,
Carrière è una dolce e imprevista sorpresa. Ci si aspettava di trovare un pittore, forse un fotografo e invece si incontra
un'anima, una pittura ed è un sogno poetico... La realtà piatta e brutale, nella quale viviamo avventure banali, è forse
uno spettacolo così interessante bello, da giustificare lo sforzo di imitarlo all'infinito? Non sarebbe forse meglio che
l'artista ci mostrasse l’abbietta oggettività il meno possibile? Carrière lo ha capito. Si sforza di affrontare la realtà
nauseabonda, causa della quale probabilmente la sua delicata anima da poeta deve avere spesso sofferto. Per partito
preso allontana da noi la detestabile natura e la sporca e banale vita. Solo le anime lo interessano. I suoi quadri sono
davvero delle evocazioni, non vediamo mai sotto al suo pennello nessun paesaggio, nessun cielo, nessun accessorio
decorativo. Tuttavia, l'opera di Carrière origina dalla vita. È misteriosa e inquietante, ma sfugge al fantastico grazie a
una logica sapiente nella trasposizione delle forme e soprattutto della luce: è ancora realtà e già sogno. Egli riesce a
evocare il perturbamento indeciso di ciò che è svanito, fissare le malinconiche visioni intraviste nella foschia di una
memoria incerta, raccontare le sensazioni vaghe di un passato quasi dimenticato e tuttavia fertile di commozioni
squisitamente dolorose (“il pittore delle profondità della vita”). E tutto questo, il ricordo, non è vita, la vita intera?
Carrière ha capito questa legge dell'esistenza, ha voluto essere il poeta delle cose ricordate, ossia di ciò che è
immutabile e vero nella vita. Odia il futuro, il presente, e li teme perché sono brutti, banali e brutali. Si guardi ad
esempio una qualunque delle molte maternità e si indovinerà nell’espressione di tenerezza un poco selvatica della
madre il terrore della terribile vita, dolorosa e stupida, che le vuole sottrarre il povero piccolo (bassorilievo terracotta
Michelangelo del Louvre: la Vergine tiene il bambino sulle ginocchia e le loro teste sono lontane, molto diversamente
dalle stesse iconografie della chiesa del Saint Suplice. Abbiamo una Maria emaciata, pallida, con gli occhi sbarrati, la
bocca aperta dal terrore, la pupilla dilatata che fissano un punto lontano in cui forse è appena emersa la visione
sinistra di un corpo molto amato inchiodato ad una forca… e le mani stringono il corpo del bambino come per, allo
stesso modo delle madri di Carrieré, contenderlo alla tragica e vana vita che già lo tira a sè. E il piccolo dio, con la
fronte corrucciata, fissando la stessa visione lontana, sembra pensare con l’anima piena di rassegnazione addolorata).
Invero, esso ha nel sorriso, la malinconia rassegnata di una vittima ingenua e nonostante questo cosciente. Per una
simile comprensione della vita e dell'arte, che forse è quella di tutti i veri artisti, Carrière si rivela un altro pensatore e
un grande poeta. Il suo mestiere di artigiano infallibile, la sua comprensione delle progressioni della luce, dei suoi
chiaroscuri, i suoi grigi argentati ricordano Velázquez.
HENRY DE GROUX
(in “Mercure de France”, n.10, octobre 1891, pp.223-229, poi in Oevres posthumes, pp.269-277)
Guardando quest'opera singolare e straziante, non si provocano solo i banali sentimenti di terrore, di pietà che
un'analoga atrocità reale, vista per caso, ispirerebbe, non è la sensazione dei nervi sconvolti dallo scontro con una
visione particolarmente agghiacciante, ma è un'emozione misteriosa, di natura più intellettuale, un'emozione che
senza colpire nervi né sensibilità, sconvolge solo le facoltà superiori dell'anima, un'emozione simile alla confusione
ideale, non sensoriale. Nel Meurtre, a emozionare non è il banale incidente del banale viandante sconosciuto. Fuori
dal suo contesto quest'opera non è che la narrazione di un crimine particolare. È una poesia, una commovente
terribile poesia nella quale leggiamo il dolore di vivere, la paura di vivere, l'angoscia dello sconosciuto avventuroso, la
maligna stupidità del caso, la miserevole vanità della galoppata umana in mezzo alle dolorose congiunture
dell'esistenza. Lo ripetiamo, quest’opera non è affatto la rappresentazione di un semplice fatto di cronaca che
emoziona per la sua atrocità. L'azione rappresentata non importa affatto, poiché è solo il segno materiale di un
pensiero, interessante e filosofico in modo diverso rispetto a una volgare questione di coltellate. Sì subisce, davanti a
quest'opera, inevitabilmente la suggestione delle idee generali che ho cercato di delineare e che il pittore ha
impastato insieme ai colori. Il dramma smette di essere un dramma speciale, per diventare un dramma umano,
puramente intellettuale, simbolo appassionante dei sogni dolorosi di un'anima artistica. Le idee che costituiscono
essenzialmente l'opera davvero d'arte e che ho chiamato il prolungamento spirituale, sarà precisato dal poeta che lo
traduce nel suo linguaggio speciale, versi o prosa, linguaggio evidentemente più chiaro poiché più familiare alla
massa degli uomini, rispetto al linguaggio universale fatto di linee e colori. Comunque sia, lo devo dichiarare sin da
ora, ho potuto constatare tale prolungamento spirituale in tutti i dipinti, purtroppo poco numerosi, che ho potuto
vedere di Henry De Groux. Come può un fatto particolare trasformarsi istantaneamente in un’idea generale, in un’alta
sintesi. Questa opera diversa se un soggetto identico venisse trattato da un abile pittore aneddotico, osservatore
perfetto ma privo di qualsiasi facoltà di fantasticheria filosofica. Poiché è la testa che guida la mano, non vi è nulla di
sorprendente nel fatto che la mente di un sognatore guidi la sua mano in modo tale da tradurre il suo sogno e per fare
questo, gli dia la forza necessaria a combinare a modificare linee e colori quasi impossibili da analizzare. L’evidente
subordinazione dei contorni delle superfici, delle luci, delle ombre, il ritmo disperato, tragico, delle linee, di tutte le
linee, che cadono in curve dolorose, talvolta spezzate, dalla metà superiore della tela agli angoli inferiori,
concordanza lugubre dei colori, la sinistra armonia del verde scuro, del blu scuro, del nero, i ritmi delle linee e dei
colori di cui si sarebbe necessariamente servito il realista aneddotico. Ora parliamo di un'altra tela, ancora più terribile
è strana, i Trainards, gli sciacalli. Somiglia ad una spaventosa tappezzeria fiamminga che interpreta un riluttante
incubo di Brugel degli inferi. Ricorda un sogno macabro di Callot ritoccato dal Goya, che si dibatte in un regno di
decomposizione, si estende, ripugnante, con tonalità gialle, nere e verdi e con venature di muffa. Il contrario della
gloria è questo. Un silenzio sepolcrale aleggia ora intorno all’odore di putrefazione. Il cielo a sinistra è solcato dal volo
vorticoso di innumerevoli corvi. Ed ecco che arrivano a scaglioni, numerosi come i corvi che vorticano nel cielo, gli
sciacalli, corvi terrestri, distruttore dei morti. Un altro quadro è l'Assassinè. Una tela che per quanto molto
interessante è un po' inferiore agli altri dipinti di questo strano artista. Sarà sufficiente dire poche parole anche su, Le
Pendu. Si tratta ancora una volta di una tragedia solitaria e banale il cui eroe è un viandante, un pellegrino che
rappresenta il pellegrinaggio della vita. Forse, era da molto in cammino, il povero monaco vagabondo, forse
disperava di raggiungere l'obiettivo, il suo santo sepolcro o il santo Graal, forse i piedi avevano sanguinato troppo a
causa delle ortiche e delle pietre della strada, forse aveva perso, uno ad uno, i suoi cari desideri, i bei sogni, la
disperazione l’aveva reso stanco e senza forze, ora che non aveva più fede. Attraversando un bosco i cui rami
sprezzanti gli sferzavano le guance, le cui spine gli laceravano le gambe, proferendo verso il cielo impassibile una
suprema blasfemia, si impicca. Il corpo magro ora dondola, tragico, alla forca di un vecchio albero. Ma la natura
crudele non ha nemmeno voluto piangere sul suo misero cadavere. La natura si esalta in una fragorosa gioia di vivere:
gli uccelli cantano, sbocciano i fiori, il sole inonda i fogliami, colori ilari ovunque, come se la natura si fosse dimostrata
insensibile e ottusa, come a voler dimostrare la sua indifferenza o forse il suo odio di fronte alla morte spaventosa. Le
quattro tele di de Groux che conosco sono queste, le uniche 4 che credo abbiamo ad oggi raggiunto la Francia, poiché
le altre si trovano in Belgio. I quattro singolari dipinti nei quali si indovina una parentela di genio con i maestri del
dramma eccessivo e truculento, con i Caravaggio, i Brugel degli inferi i Callot, i Goya e soprattutto, i Delacroix, i
quattro singolari dipinti mi sono sembrati, nonostante le insignificanti mancanze tecniche e una chiara predilezione
per la drammaticità esasperata, originali in modo molto suggestivo. Un'arte così robusta che non ho potuto
trattenermi dal dilungarmi.
CRONACHE SEMPLICI
La pittura all’esposizione
(agosto-settembre 1889). Meravigliosa Monsieur! Le ripeto meravigliosa. Posso affermare ad alta voce che
l'esposizione universale des Beaux-Arts è me-ra-vi-glio-sa! Questo viene continuamente ripetute e non voglio, da
parte mio contraddirlo, sebbene in fondo non sia molto convinto e pensi che molti capolavori che vi vengono
pomposamente sistemati in bella mostra sarebbero più adatti da mettere in bagno. Forse severo, ma giusto. Ad ogni
modo, per il momento posso concedere l'epiteto meravigliosa, ma solo a condizione che mi sia concesso che questa
meraviglia sia incompleta, fatalmente incompleta. Nel Beaux-arts manca una piccola sezione per i pochi artisti
indipendenti che quasi sconosciuti o disprezzati dal pubblico, silenziosi e disinteressati a qualsiasi guadagno, lavorano
lontano dalle scuole, dall’accademia, cercando e lavorando a un'arte nuova che forse sarà l'arte del futuro. - ma
signore, non esistono uomini simili, alla nostra epoca, si sarebbe saputo altrimenti! Quante persone hanno ripetuto
questa assurda frase. Per fortuna, ho saputo che l'iniziativa individuale ha tentato quello che la stupidità
amministrativa non avrebbe mai accettato di fare. Un ristretto gruppo di artisti indipendenti è riuscito a forzare le
porte dell'esposizione, creando una minuscola concorrenza all'esposizione ufficiale. L'istallazione è un poco primitiva,
molto bizzarra, come forse si dirà bohemien. Ad ogni modo intendevo segnalare l'iniziativa prima di addentrarmi
nell'esposizione e, dopo questo saluto amichevole e sinceramente ammirato rivolto alle belle tele di Gauguin e
Bernard, ora addentriamoci nelle gloriose sale ufficiali. Le esposizioni generali, che se ne dica, delle opere d'arte di un
intero secolo, non sono affatto vane. Rappresentano infatti utili sommari e permettono di giudicare le opere dei
nostri contemporanei e, nel loro insieme e in modo più equo e rispettoso impedendoci la condizione necessaria di
qualsiasi critica ampia e imparziale: la lontananza. Questa, per quanto minima possa essere, è spesso sufficiente a
darci un'idea piuttosto netta di ciò che potrà essere il verdetto definitivo dei posteri, verdetto che temo sarà terribile
per molti. Guardate con attenzione un centinaio di tele prese alla cieca dall'esposizione decennale. Ne riconoscerete
alcune che viste già in qualche salone passato in qualche mostra di un tempo vi erano parse lavori onorabili e che ora
saranno per voi mediocrità. Se sono sufficienti 10 anni per questa metamorfosi, quanti dei nostri capolavori
resisteranno alla prova dei secoli? Al contrario, le vere opere d’arte possono solo guadagnare da questa distanza, dal
forzato indietreggiare dello spettatore. Inizialmente, al momento della loro comparsa, il pubblico e la critica
potevano essere stati sconcertati dal brusco emergere di un'opera nuova e inaspettata. Il tempo però, è passato,
attenuando e cancellando tali scandalosi anomalie superficiali. I Delacroix e gli Ingres, tanto fraintesi da una sfilza di
cosiddetti allievi, i Courbet e i Manet, tanto discussi, ridicolizzati, negati in passato, i Millet, i Corot, i Troyon, o
Gustave Moreau e in sommo grado i Puvis de Chavennes, si trovano in mezzo alla desolante senilità dei falsi
capolavori di ieri a testimonianza della continua giovinezza della vera arte. Con questo, tuttavia non intendo dire che
tutto il resto sia esecrabile o indegno della minima attenzione. Come sempre naturalmente le consorterie ufficiali si
sono sforzate di chiudere il più possibile le porte agli artisti coscienziosi che hanno rotto alla luce del sole con le
tradizioni e le convenzioni della scuola. La loro, sistematica esclusione deplorabile non permette di ammirare le
manifestazioni più interessanti dell'arte contemporanea. A malapena qualche Raffaelli, due Pissarro e solo un Monet,
persi nelle sale del palazzo des Beaux-Arts. Nessun Degas, nessun Gauguin, né Seurat, né Renoir. Quanto alle
selezioni straniere mi hanno provocato una grande delusione. Mi aspettavo di trovare creazioni originali, lontanissime
dai cliché amati dai nostri connazionali, opere che emanassero un profumo esotico. Invece, ho incontrato solo insipidi
scimmiottamenti delle sciocchezze parigine. Eccezioni di certi rarissimi pittori inglesi, italiani e nordici, ho trovato
solo insignificanti imitatori delle nostre banalità. Come tutti sono andato a visitare il Palazzo e come molti ho
constatato che, se non fosse stato per le lastre indicatrici sulle pareti, nessuno avrebbe potuto immaginare che una
sala era dedicata alla sola pittura belga, quella americana, olandese, italiana o greca. Evidentemente la Francia
trionfa. Ebbene, se ne rallegri chi vuole, mentre io da me me ne dolgo. Per quanto riguarda l'arte Infatti non vi è cosa
che odi di più dell’imitazione, anche se vaga e spirituale, della copia, dell'abdicazione di un cervello davanti a un altro.
La visione, la tecnica, la maniera di un certo pittore non è mai il risultato del caso, ma la conseguenza fatale delle
diverse qualità naturali che fanno il suo temperamento e le diverse influenze dell'ambiente in cui vive. Quando,
dunque, vediamo degli imbrattatele che vivono sulle latitudini più esotiche dare alla luce piccoli capolavori in linea
con gli attuali gusti Parigini, dobbiamo forse alzare le spalle più che rallegrarci. Povera Europa. Quando sarà
irrimediabilmente imputridita dalla sifilide dell'alto borghesismo pittorico, che cosa faremo noi poveri imbecilli di
un'altra epoca, giungi troppo tardi in un mondo troppo vecchio, noi, che avremo conservato la ridicola fede nella
grandezza delle cose inutili e l'assurdo culto del bello? Cosa faremo? Temo che ci siamo ridotti a doverci confinare
lontano, molto lontano, a rifugiarsi nei paesi d'Oriente in cui l'arte ha mantenuto l'integrità della sua purezza
originale, in Giappone, in Cina. Soprattutto, non dimenticate di dare uno sguardo a un angolino che ha rischiato di
farmi morire di indignazione, un angolino riservato all'esposizione scolastica coloniale. Potrete ammirare centinaia di
orribili piccoli blocchi da disegno, composti da modelli e pagine bianche destinate alla copia dell'allievo. Tutti i blocchi
sono stati riempiti di allievi di quei paesi. Si, lacchè patentati e diplomati, che sono stati convinti che li risiede il
massimo del buongusto e dello stile e che la grande arte sintetica simbolica orientale era (sbagliata). Ancora mezzo
secolo e l'arte nazionale di quegli imperi lontani non sarà che un ricordo.
GLI ACQUARELLISTI
Febbraio 1890. Cari membri della Società degli acquarellisti francesi, e in particolare voi, Vibert, presidente
dell'associazione, vi siete mai chiesti cosa sia l'acquerello, quale sia la sua ragione di esistere, il suo scopo? Poiché, se
l'acquerello non avesse uno scopo diverso da quello della pittura a olio, se differisce da questa per il solo
procedimento, allora non vedo quale sia la sua grande utilità. Ha mezzi di traduzione molto meno potenti e precisi
della pittura olio, non ha le stesse dimensioni e le è inferiore anche per solidità e durata. Occorre dunque che vi sia
altro, perché, se così non fosse, gli acquerellisti sarebbero folli. Ebbene signori membri, voglio rivelarvi questo altro
poiché non è un così un gran mistero. È un cosiddetto segreto di Pulcinella e voi siete i soli in Francia a esserne
all'oscuro. L'acquerello signori (e non parlo affatto di quello che ne fate voi, ma di ciò che dovreste farne) è stato
inventato non per competere con l'olio, cosa che gli è impossibile, ma per completarlo, per dare ai nostri occhi la gioia
di schizzi tanto delicati che la pittura non può cogliere. Non le è richiesta la profondità artistica, ma la sottigliezza
dell'impressione, non il pensiero ma la forza, meno l'equilibrio e l'annotazione delegata delle percepibili ondulazioni e
le sfumature più vaghe. In altre parole, è l'arte deliziosa, forse inventata da qualche fata ammaliatrice per tradurre ciò
che vi è di più leggero fugace e transitorio. Insieme alla musica e alla poesia, è l’arte i cui materiali sono i più ideali.
Questo è ciò che tutto il mondo sa, signori della società degli acquarellisti, e che voi sembrate ignorare tanto da aver
rovinato questa pittura degli angeli. Anzi tutto, ecco Adrien Moreau, uno dei maestri del genere. Si è impegnato, ha
sofferto e ha sudato e ha portato a termine un enorme acquerello, un quadro definitivo, rifinito con scrupolo,
ritoccato con miopia, preziosamente banale. È orrendo. Van Eyck ha dato il nome a un rosso, il Veronese a un verde,
Maurice Courant avrà credo lo stesso onore. Ha invero scoperto un colore, sconosciuto fino a questo momento, che è
sicuramente uno dei colori più blando, più nauseante che esista. Si tratta di una sorta di viola che non è un vero Viola,
di lillà che non è Lilla, la cui caratteristica principale è far male al cuore se lo guardate a lungo. - Dopo una serie di
critiche rivolte agli esponenti e membri dell'associazione degli acquarellisti l'autore riprende- ma fermiamoci un
momento, un bel respiro, riprendiamoci, un momento di raccoglimento dovuto a quando si è in presenza di un
capolavoro. Ebbene sì, ci troviamo davvero di fronte a un capolavoro: Vibert ha trovato il modo, tra tutti questi
meravigliosi obbrobri, di superarli, di realizzare il massimo della bruttezza, di raggiungere il brutto assoluto. La storia
dell'arte, mi auguro, riconoscerà il suo impegno. Forse è colpa di un effetto inconscio della legge del contrasto, ma in
mezzo a questo caos di orrori, le opere di Besnard sembrano vivaci e belle. Si è talmente felici di poter riposare i
poveri occhi su qualcosa che si avvicina così tanto all'arte che si finisce per ammirarlo con sincerità. Infine, perché
bisogna pur determinare questo penoso pellegrinaggio, gli eterni gattini di Eugène Lambert: povero Lambert, siete
destinato a continuare a dipingerli per tutta la vita, senza averli mai capiti. Voi non siete un poeta. Non vi ostinate a
dare arie di pecore incurabilmente stupide a quegli esseri misteriosamente diabolici.
MEISSONNIER
(in “La Revue indipéndante”, n.42-22, aprile-giugno 1890)
Uno dei dogmi di fede del pubblico afferma che Meissonier è il più grande pittore del secolo; le sue geniali secrezioni
sono vendute a prezzi incommensurabilmente più elevati dei dipinti dei suoi più celebri colleghi. L'Inghilterra e
l'America se lo contendono. Il salone ufficiale non lo soddisfaceva: ne ha creato uno tutto suo, il Salon Meissonier di
cui è il sovrano assoluto. Quando si degna di esporre uno dei suoi capolavori, lo copre con il vetro, come una reliquia.
La stampa parla di lui con venerazione. Dunque è incontestabilmente il più grande pittore del secolo. Sarebbe
blasfemo dire il contrario. Eppure mi si permetta di spogliare questo vecchio idolo e di tentare di spiegare le cause del
suo culto universale, il cieco feticismo di cui è oggetto. L’uomo non è capace di fare a meno del piacere estetico più di
quanto possa farlo del cibo o nel sonno. Può essere; ma allora bisogna constatare che ci sono diversi tipi di piacere
estetico, adeguati ai diversi gradi di intelligenza. I contadini e i bambini sono soddisfatti dalla contemplazione di
alcune stampe, gli operai e i portieri cercano le cromolitografie da mercato e l'élite intellettuale si compiace di
ammirare le tele incantatrici di veri maestri. Un'altra classe ancora richiama la sua porzione di arte, la classe più ricca e
la più potente: la borghesia. Si, anche il Borghese è affamato d'arte e necessità di un'arte tutta sua, un'arte Borghese
in apparenza buona pittura, costosa, molto costosa, che fosse appropriata e gradevole e non sconcertante. Ecco
descritto Meissonier. I dipinti che produce sono lisci, lindi e stucchevoli. Sono proprio come delle cromolitografie
senza esserlo davvero. Esse si intonano perfettamente alle dorature e al lusso vistoso del salotto di un banchiere.
Hanno la stupida esattezza della fotografia. Tutto ciò per affascinare il dilettantismo nel signor per bene, il quale si
meraviglierà voluttuosamente guardando i peli del cavallo dell'imperatore che cammina in lontananza. Il più grande
pittore del secolo è infatti dolorosamente privo del dono che rende un artista tale (quello di gloriare le banalità
oggettive con l’aureola dei raggi della sua intelligenza e sensibilità). L’obiettivo di Nadar ha più anima di lui. Mai un
soggetto da lui trattato ha ispirato il più infimo sussulto del cuore, l’apparenza di un’idea. Dovrei parlare ora della sua
tecnica, che molti considerano suprema ma altro non è che l’abilità di mano, un paziente imbroglio da miniaturista
industriale. Il colore e della sua assenza che fa digrignare i denti; la composizione rudimentale e impacciata dei
disegnatori dei giornali illustrati. Il disegno arido e legnoso, privo di stile, vecchio= prosastica piattezza. Del resto,
nonostante tutti quei piccoli difetti, e sebbene sia, a prestar fede ai suoi intimi, rabbioso come un cane da guardia,
scontroso come la rogna, stupido come un pavone più insopportabile in assoluto, mi assicurano essere anche n uomo
molto simpatico ed eccellente padre di famiglia. Durante la guerra fu addirittura colonnello della Guardia Nazionale.
Baudelaire ha scritto di lui: è un fiammingo senza bonarietà... O una pipa! Forse sarebbe più corretto dire che egli è
rimasto, in pittura, colonnello della Guardia Nazionale.
MONTICELLI, PAUL GAUGUIN
( in “La Revue indipéndante”, n.53, marzo 1891, pp.418-422)
Ascoltate i fenomeni inauditi, stravaganti che da qualche settimana, senza interruzioni si susseguono. I giornali
scrivono di letteratura, con l'aria di chi la sa lunga. Vengono organizzati banchetti, su tutti i tavoli dei salotti ci sono
libri di Jean Moreas. I reporter hanno abbandonato i politici per intervistare furiosamente giovani esoterici che si
fanno vanto di essere maghi. Ammettiamolo: sono sintomi gravi. E non è tutto, in pittura, in musica, il pubblico
sembra ancora più affamato di cose nuove. Il mio portiere, ad esempio, possedeva un quadro musicale. Quando il
piccolo orologio segna mezzogiorno, un ingegnoso carillon suona. Ebbene, un mese fa, anche al mio portiere è
venuto il chiodo fisso del modernismo artistico. Ha fatto ridipingere il quadro a un allievo di Signac ad ha realizzato
quindi un quadro impressionista della sinfonia wagneriana: è il colmo della modernità. Ad esempio, l'altro giorno alla
vendita Burty, ci si contendeva a colpi di banconote alcuni Monticelli, si, proprio dei Monticelli. Poveraccio. Ancora 10
anni fa, magro e misero, vagava per il caffè marsigliesi offrendo a chi li volesse i suoi meravigliosi quadretti. Glieli
compravano per 3 Franchi, 100 soldi, per burla o per pietà, perché si potesse permettere l'assenzio. Non vi è alcun
dubbio che d'ora in avanti, tutti i salotti dei Borghesi arricchiti che si rispettano avranno, appese ai muri, in una bella
cornice, una di queste meravigliose vocazioni dei passati sognati, pagati a peso d'oro. Monticelli, vero, ha la scusa di
essere morto e l'ossessione del pubblico nei suoi confronti è spiegata: il pubblico ama i morti. Che il pubblico
però si avvicini spontaneamente un pittore sconosciuto, vivo e vegeto e che si contenga la sua opera è
certamente più strano e scandaloso. È bene, questo bizzarro scandalo è avvenuto. Ritengo che il pubblico sia
impazzendo e che a breve sarà necessario internarlo in qualche manicomio. Circa 15 giorni fa, era esposta al Drouot,
alla fine della vendita, una trentina di tele di quell'artista misconosciuto e meraviglioso che è Paul Gauguin, il quale,
tra i primi, comprese la futilità delle ricerche di realismo, dell'illusione ottica e dell'impersonale fotografismo. Egli ha
tentato di reintrodurre nella società, impreparata di fronte a questa rivoluzione, la vera arte, l’arte delle Idee
incarnate in simboli vivi, l’arte di Giotto, degli Aneglico, Mantegna e Da Vinci. Un anno fa il pubblico avrebbe chiesto
la testa del pittore, se non qualcosa di peggio. Mentre quest'anno nulla di tutto ciò, il pubblico è venuto, ha sorriso,
raffinato, da buon pubblico intelligente sofisticato molto al passo con i tempi. Ha fatto ancora di più: ha comprato.
Non avevo ragione, quando affermavo che da qualche giorno avvengono a Parigi fatti incredibili? Grazie al successo
della sua vendita, Gauguin è potuto andare a Tahiti, vivere la vita selvaggia e libera a lui necessaria, studiare gli esseri
primitivi e l'esuberante natura tropicale. Forse ci porterà delle opere straordinarie perché darà loro i mezzi materiali di
fare ricerche estetiche, di creare i capolavori attesi. Tuttavia, temo le profanazioni future, può darsi che il fatto che le
opere d'arte finiscano nel mondo della borghesia non sia poi così positivo. Non è che un giorno scopriremo in una
bottega di un droghiere, uno dei capolavori di Gauguin trasformato in orologio musicale?
RAGIONAMENTI FAMILIARI, COMUNQUE FUTILI, A PROPOSITO DEI TRE SALON DEL 1891
Luglio 1891.
Forse non sono abbastanza acuto per cogliere sfumature di bellezza e di novità all'interno dei vari Salon ma lo
confesso, ammetto di essere del tutto incapace di questi giudizi. Secondo me, tutti gli articoli, senza eccezione
alcuna, fabbricati secondo gli stessi identici procedimenti al medesimo scopo, ossia la vendita e le ricompense
ufficiali. Sono forse cose lodevoli dal punto di vista dell'economia ma di certo nulla hanno a che fare con l'arte. So
bene che è possibile obiettare che talvolta, qualche opera di valore può finirvi esposta. Quanto sono rare tali opere.
Parliamo della pittura per il Salon, della scultura per il Salon. Tutti senza eccezioni hanno talento ma allo stesso
tempo è vero che non hanno un'anima. Colpisce immediatamente la prodigiosa somiglianza di tutte le tele tra loro.
In passato la similarità dei talenti aveva una spiegazione lampante: il Salon era riservato quasi esclusivamente a
pittori accademici e ai loro allievi. Oggi però, gli accademici sono diventati decisamente una minoranza. Da dove
origina dunque questa somiglianza di risultati? Non sarà invece semplicemente che nonostante questa ostentata
reazione alla vecchia arte accademica, i nuovi arrivati seguono gli stessi errori dei loro predecessori? Si sono limitati a
cambiare le formule e mode, non hanno saputo accontentarti di interrogare le profondità delle loro anime, nel caso in
cui ne abbiano una, dimentichi di ogni sapere. Ma del resto il pubblico pretende il talento, solo questo, assimilabile
all'abilità della mano, l'abilità da prestigiatore che tutti possiedono all'incirca allo stesso modo e che era stata
definita scienza. Scienza dell'impersonale e del banale, è ovvio. Naturalmente è ovvio che non esiste una sola
scienza del disegno, del colore, ma mille, così come mille anime di artisti; e queste non sono affatto entità astratte,
uniche e invariabili che possono essere studiate come la matematica, nel manuale nelle scuole. Esse sono linguaggi,
esattamente come la parola articolata, giacché servono come la parola a tradurre la psiche. Ebbene, quello che viene
chiamato possedere la scienza non significa aver perduto, a causa di uno studio pedissequo, proprio queste
particolarità di linguaggio? Allo stesso modo, dobbiamo stupirci dell'universalità della falsa scienza. In tutta sincerità,
dovremmo ignorare il modo in cui viene reclutato l'esercito formidabile e ingombrante di apprendisti e apprendiste
incoraggiati/e dai genitori. Questo perché il pubblico si convince sempre più che la pittura è meglio di un’arte. I pittori
da salon si somigliano perché sono tutti inizialmente dotati della stessa assenza di originalità. Allo stesso modo
dei vecchi, i giovani damerini sono incapaci di avere anche solo l'ombra di un'idea e si accontentano di fare ciò che
tutti i damerini del mondo considerano il culmine del buongusto: seguire la moda! Ebbene, la moda è il gradevole, un
gradevole che non è comune a tutti i secoli, un gradevole che può essere bruttissimo ma che cionondimeno è il
gradevole del presente. Cercherò di mostrare le caratteristiche più salienti: L'opera deve dare l'impressione di
qualcosa fatto senza il minimo sforzo, senza inciampi. Il signore che con una serie di pennellate ci dà la sensazione di
una cosa finita ha creato una cosa graziosa, il signore che fa il gradevole dipinge i toni chiari, perché il bitume è
passato di moda, ma evita i colori sgargianti perché confonderebbero il pubblico. Ama i toni grigi, i quali hanno fama
di essere raffinati. Il disegno, la colorazione, l'effetto, la composizione che vuole essere sempre impersonale e
imprecisa per quanto riguarda il soggetto; esso importa poco, già che tutti i soggetti possono essere trattati in modo
tale da dare l’obbligatoria impressione di gradevole. Si capisce subito che il motivo non gli ha ispirato nessuna
emozione, nessuna ricerca profonda e che egli ha scelto quello solo seguendo la volontà di meravigliare. Il gradevole,
è evidente, rappresenta in fondo la negazione di qualsiasi emozione personale, di qualsiasi ricerca naturale. Somiglia
molto allo chic definito da Baudelaire. Tanto talento e abilità, di questi artisti del salone, per celare un tale vuoto di
idee ed emozioni che vi farà forse rimpiangere la cara ingenuità dei primitivi, che traducevano come potevano, con
una così commovente ignoranza che io chiamo LA VERA SCIENZA, psicologie così grandi e profonde. Infine, presento
l'ultima condizione dell'opera detta d'arte al Salon: avere una concezione particolare e assolutamente falsa del
realismo, il quale consisterà in un'analisi tanto più possibile meticolosa, nell’ottusa convinzione che riprodurre la
natura servilmente significa essere artista. I fotografi avrebbero qualcosa da spartire con l’estetica?
Aubrey Beardsley
L’enfant terrible de l’Art Nouveau Di Giuseppe Virelli
PROLOGO
Beardsley simbolista
Il Simbolismo: alle origini del movimento
Tutti i più importanti studi dedicati ad Aubrey Beardsley concordano nell’inserirlo nelle fila del Simbolismo, finanche
a considerarlo uno dei maggiori esponenti del movimento tanto da coniare l’espressione The Beardsley period.
Cionondimeno, è proprio la definizione stessa di Simbolismo a generare confusione e fraintendimenti: si potrebbe
quindi partire dal Manifesto, redatto nel 1891 da Albert Aurier (Le Symbolism en peinture. Paul Gauguin) e pubblicato
nelle pagine del Mercure de France. Dopo una lunga disamina intorno all’opera di Gauguin “La visione dopo il
sermone” (1888) Aurier riassume, con programmaticità, i tratti caratteristici del Simbolismo. La pittura simbolista è:
1. Ideista, poiché il suo scopo sarà l’espressione dell’idea; 2. Simbolista, perché l’idea sarà tradotta in forme e simboli;
3. Sintetica, poiché essa ascriverà le sue forme a segni, a modi di comprensione generale; 4. Soggettiva, perché
l’oggetto non va considerato in quanto oggetto, ma come idea filtrata dal soggetto; 5. Decorativa, come
conseguenza dei punti precedenti, perché la pittura decorativa, come l’hanno concepita i popoli primitivi, gli egizi e i
greci, è manifestazione di un’arte ideista, sintetica, soggettiva e simbolista. Aurier, pertanto, evidenzia un modo di
fare arte che vada al di là del semplice dato oggettivo, allargandone i parametri conoscitivi a una sorta di “occhio della
mente”. Ne discende un netto rifiuto all’arte impressionista, legata al realismo, alla sensazione, il cui obbiettivo è
ancora l’imitazione della natura attraverso la luce, il colore e la forma in t0. Contrariamente, per gli ideisti, l’urgenza
non è più quella di rappresentare il dato fenomenico, ma è quello di restituire la realtà a partire dall’idea che di essa si
ha. Il discrimine che si crea tra idealismo e ideismo giace nell’utilizzo della forma sintetica che il secondo termine ha
nei confronti del primo, che qualitativamente parla di un’economia semiotica nella scrittura del segno. Espressione
formale di questa semplificazione è l’adozione di due tecniche di alleggerimento aneddotico: l’à plat e il
cloisonnisme (che si riferisce all’uso di contorni netti e marcati). Questo comporta anche l’assenza della
prospettiva albertiana, risolvendo la scena in istanze bidimensionali, talvolta paratattiche, e superficiali, nel
regno di Flatlandia. Questa riduzione, tuttavia, ha la necessità di incarnarsi in qualcosa di tangibile, pena la
perdita stessa di referenza (simbolismo). Per quanto riguarda il soggettivismo, Aurier, in perfetta sintonia con la
poetica di cui si fa censore, precisa che soltanto un ‘iniziato’, un ‘illuminato’ è in grado di leggere in ogni oggetto
il suo significato più astratto, l’idea primigenia, usando poi un alfabeto sublime per rendere la rivelazione. Ma
questo non è sufficiente: per essere veramente degno di questo titolo di nobiltà, è necessario possedere un’emotività
trascendentale che elettrizza l’anima di fronte al dramma ondeggiante dell’astrazione. Emblematico in tal senso
l’appellativo Nabis (profeta in ebraico), usato dal gruppo di artisti francesi racconti intorno alla figura di Sérusier.
Infine, il fatto che sia un’arte decorativa, ornamentale, vale perché a pensarci bene la pittura decorativa è, in rigor di
termini, il vero dipinto. La pittura non poté che essere creata per decorare con pensieri, sogni e idee, a partire dalla
civiltà dei primitivi. Prende sempre di più l’idea che l’artista nuovo, come i primitivi prima di lui, possa operare al di furi
della tela per invadere lo spazio. Con il Simbolismo si allarga dunque il campo d’azione degli artisti i quali non
disdegnano più di cimentarsi in pratiche fino ad allora relegate all’ambito delle arti applicate proprie dell’artigianato. I
simbolisti infrangono le tradizionali divisioni gerarchiche delle arti e diventano i primi e più importanti protagonisti
dell’Art Nouveau (vd. Van de Velde). Quali artisti possono essere considerati legittimamente simbolisti e quali devono
essere esclusi? È lecito mettere sotto la stessa etichetta artisti come Klimt, Denis, Segantini (tutti nati negli Anni
Sessanta) con artisti di una generazione precedente come Böcklin, Moreau o Pierre Puvis de Chavannes?
1. I sostenitori di un simbolismo a larghe maglie giustificano questa posizione a partire da ragioni tematiche,
sostenendo il soggetto trattato come fattore forte (temi misteriosofici). Questo modo di procedere però è viziato dal
fatto che il soggetto rappresenterebbe una conditio sine qua non, e quindi si dovrebbe considerare arte simbolista ciò
che in realtà non lo è, e viceversa escludere artisti che rientrano in questa koiné.
2. Va considerato il significante più del significato?
2
Arnold Böcklin (1827-1901), ad esempio, non lavora per sintesi. Le sue immagini, seppur formulate come rimandi
ideali a significati ‘alti’, non rinunciano agli effetti atmosferici e al tradizionale sistema delle proporzioni, tanto meno
alla prospettiva. Ci troviamo davanti sempre ad un “tratto dal vero”. Discorso analogo si può fare per Gustave
Moreau (1829-1898), il quale, pur affollando i suoi quadri con personaggi e oggetti appartenenti al mondo ‘altro’, li
ritrae con scrupolo analitico. 3Per ultimo, il caso di Pierre Puvis de Chavannes (1824-1898) che tuttavia si slega
dall’esuberanza descrittiva dei colleghi in favore di una pittura più magra e sobria, basata su una semplificazione del
disegno e sulla stesura a macchie della materia cromatica; per quanto vicino a uno spirito più ‘primitivo’ non si libera
dell’abito mentale di matrice moderna, che vedeva nella natura l’unica maestra d’arte. Tutti questi autori dunque, per
quanto di grande spessore e importanti per le ricerche successive, devono essere considerati non simbolisti ma
simbolici, nel regime non dell’ideismo ma dell’idealismo.
I.I. Le “Burne-Jonesesques”
Sappiamo per certo che il giovane Beardsley fosse attratto dai modi di operare di Rossetti e di BurneJones, se non
altro per i motivi ab origine legati al rapporto esistente tra i Simbolisti e i Preraffaelliti. I pittori inglesi preferirono
ripiegare su posizioni arretrate, facendo riferimento a un Quattrocento arretrato e incarnato dalle generazioni dei
pittori nati entro la metà del XV secolo (la seconda maniera, appunto), come Mantegna, Botticelli, Perugino,
Bramante etc., che seppur apprezzati erano considerati fino a quel momento solo come il preludio di una stagione più
fiorente, quella che vede protagonisti i grandi del Cinquecento (da Raffaello a Michelangelo). Perché? Questa ritirata
strategia permise ai Preraffaelliti di apprezzare la ‘maniera secca’, il primato del disegno, elaborando composizioni
immerse in atmosfere limpide, cristalline, rarefatte, in cui i protagonisti sono come rigidi manichini bloccati in un
eterno momento. Cionondimeno questo solo elemento non può far sì che si rimetta in dubbio lo statuto ideale
moderno, dal momento che la prospettiva, seppur in modo acerbo era già stata introdotta. Sarà compito dei giovani
simbolisti affilare le armi e scardinare questa impalcatura. Anche i temi affrontati dai Preraffaelliti sembrano
anticipare alcune soluzioni simboliste, specie se prendiamo in considerazione Dante Gabriel Rossetti, che, sebbene in
maniera molto calda, mette un forte accento ‘romanzo’ nel quale fa convivere idea e sensi, carne e spirito. La sua
pittura funge da esempio imprescindibile, come nel caso di The Day Dream (1880). 7A conciliare queste due anime
(durezza del disegno e linguaggio trobadorico) ci pensò Edward Burne-Jones, il quale instaurò anche un proficuo
sodalizio con William Morris (per il quale realizzò vetrate, mosaici e illustrazioni xilografiche). Furono questi frangenti
che fecero sì che Beardsley trovasse in Burne-Jones il primo referente sicuro, tanto che nel 1891 si presentò a casa sua
con una selezione di disegni da sottoporre a suo giudizio. Burne-Jones li definì “tutti pieni di pensiero, poesia e
immaginazione” e continuò: “La natura le ha dato tutti i doni necessari per diventare un grande artista. Raramente o
quasi mai io consiglio di scegliere l’arte come professione, ma nel suo caso debbo farlo. […] Ognuno dei disegni che
mi ha mostrato potrebbe diventare un bellissimo dipinto”. Beardsley seguì i suoi consigli e seguì un corso di pittura
presso la Westminster School of Art di Frederick Brown, che però frequentò irregolarmente, poco interessato a
praticare la pittura. Continuò però a frequentare casa Burne-Jones e testimonianza di questo apprendistato sono
alcuni disegni realizzati fra la seconda metà del 1891 e i primi mesi dell’anno successivo, dove è chiaro il richiamo al
Quattrocento (The Litany of Mary Magdalen; Sandro Botticelli). In questi lavori si può leggere un’audacia e una
economia nella gestione della linea tipica di BurneJones. In particolare: 1. Motivi lineari volti a rettificare le figure 2.
Scansione dello spazio rigida e paratattica 3. Poca profondità e spazio di fuga 4. Figure rigide e visi stereotipati
Sempre di gusto preraffaellita, ma che già mostrano una maggiore autonomia, sono alcuni disegni del 1892. Fra
questi troviamo il noto The Achieving of the Sangreal, dove il segno si fa più duro, sia per una accentuata
verticalizzazione che per una forte alterazione dei corpi. La sua penna scorre sul foglio con segno netto e sicuro
tracciando i contorni delle figure e degli oggetti con alta precisione. Di conseguenza, anche la ieraticità dei
personaggi è estrema, come il trattamento scultoreo tale per cui anche i ciuffi dei capelli sembrano di marmo.
8L’atmosfera viene assottigliata ed ogni oggetto, indipendentemente dalla distanza, è messo a fuoco allo stesso
modo. Questa composizione asfittica però, essendo Beardsley ancora legato a BurneJones, non gli impedisce di
recuperare la prospettiva nella parte alta della composizione, che ricorda il Battesimo di Cristo di Piero della
Francesca (1450); la cornice funge ancora da ‘finestra’. Stesso discorso per la tavola ispirata al II atto del Sigfrido di
Wagner (1892), dove la minuzia analitica resiste saldamente, malgrado un primo tentativo compiuto dell’artista di
sciogliere tanto rigore analitico in un bagno d’inchiostro steso in maniera compatta in basso nel foglio, steso a
rappresentare uno specchio d’acqua, come nel fondo.