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LA REPUBBLICA DI PLATONE

Fra i dialoghi più densi e complessi di Platone (427-347 a.C.), la Repubblica, che fu
composta verosimilmente fra il 385 e il 375 e appartiene perciò alla piena maturità del
filosofo, rappresenta certamente la fonte principale per la ricostruzione del suo pensiero
etico e politico, che non cessa di suscitare fra i commentatori un dibattito intenso e
controverso, tanto dal punto di vista del progetto sociale e costituzionale che disegna,
quanto sul piano delle implicazioni psicologiche, epistemologiche e ontologiche connesse
alla definizione del sapere dei filosofi che, secondo Platone, devono essere collocati alla
guida di tale progetto. Non è questo, naturalmente, il contesto opportuno per suggerire
un’interpretazione d’insieme della Repubblica; quanto mi propongo è di segnalare alcune
delle principali linee di discussione che consentono di mettere a fuoco alcuni dei problemi
suscitati dalla lettura dell’opera.
Una difficoltà preliminare, che va in qualche modo immediatamente affrontata, riguarda
l’oggetto del dialogo: se Diogene Laerzio non mostra dubbi nel catalogare
la Repubblica fra i dialoghi politici di Platone (III 50-51), è abbastanza facile constatare
come l’opera sia caratterizzata da un intreccio tematico che non si lascia sciogliere in una
scansione disciplinare ben determinata, se non al prezzo di schematizzazioni in parte
forzate.
Il dialogo, infatti, si snoda come segue: mentre il libro I introduce il tema della giustizia,
della sua natura e della sua definizione sul piano psicologico del comportamento
individuale, con un’andatura e uno stile che ricordano abbastanza esplicitamente le
indagine socratiche condotte nei cosiddetti “dialoghi giovanili”, con la consueta
contrapposizione, a tratti assai violenta, alle posizioni ascrivibili alla sofistica, a partire dal
libro II, il problema della giustizia viene esteso, per analogia, all’ambito politico della
costituzione e della struttura della città, forse meglio identificabile per il suo carattere
concreto e storicamente determinato (368b-369b), con il tentativo, condotto ancora nel
libro III, di effettuare una ricognizione completa della struttura socio-istituzionale della città,
con l’individuazione delle classi che la compongono e con la rigorosa ripartizione dei
compiti e delle funzioni che a ciascun cittadino sono assegnati. Ma è il libro IV che
produce una svolta nell’analisi, perché, riproponendo l’analogia fra l’indagine sulla giustizia
a livello psicologico individuale e al livello politico della città, giunge a stabilire la sua
definizione universale come consistente nell’esercizio, per ogni individuo (e per ogni
componente psico-fisica di ogni individuo) o per ogni agente istituzionale (cittadino, classe
sociale, città), della sua funzione propria: la giustizia è, di conseguenza, ta heautou
prattein (433a), in base al principio, che rappresenta un filo conduttore narrativo e a un
tempo un nucleo teorico situato, implicitamente ed esplicitamente, al cuore
della Repubblica, secondo cui l’esercizio, da parte di ogni elemento particolare di un
insieme, della propria funzione naturale compone, garantisce e preserva l’equilibrio
armonico dell’insieme, dunque, in tal senso, il suo ordine, che coincide di fatto con la
“giustizia” della sua disposizione strutturale e funzionale. A partire dal libro V, la sfida
rivolta a Socrate dai suoi interlocutori consiste nel precisare le condizioni di possibilità di
una simile struttura istituzionale, di cui vengono fissate dapprima le “scandalose” tappe
socio-politiche, con le celebri “ondate” relative alla necessità della comunanza pianificata
della proprietà, della produzione dei beni e della procreazione, fino alla più ardua esigenza
del governo dei filosofi. Particolarmente quest’ultimo assunto richiede, dall’ultima parte del
libro V e fino al VII, una rigorosa giustificazione, che si articola attraverso un’assai
complessa dimostrazione che sancisce la differenza fra il sapere dei filosofi e le opinioni
degli uomini comuni, premessa indispensabile per spiegare e difendere il ruolo dominante
dei filosofi nella città, e di seguito stabilisce l’opportuno curriculum formativo dei futuri
filosofi-governanti. Il libro VIII esamina poi, con il rigore diagnostico di una vera e propria
analisi sociologica della natura e delle degenerazioni del potere politico nella dialettica del
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suo esercizio istituzionale e sociale, le diverse forme di governo storicamente
corrispondenti alle forme assunte come canoniche nel pensiero politico greco e, del resto,
di fatto coincidenti con i principali generi di regime concretamente prodottisi nel mondo
greco (timocrazia, oligarchia, democrazia, tirannide), cui segue, nel libro IX, una ripresa
del tema originale della giustizia, al fine di dimostrare, tornando nuovamente sul piano
psicologico individuale, la superiorità e la felicità del giusto rispetto all’ingiusto, in virtù del
parallelismo stabilito, sul piano della forma di governo, con la relazione fra il sistema
istituzionale più giusto rispetto all’ingiusto. Il dialogo, che potrebbe a questo punto dirsi
compiuto, prosegue invece nel libro X, nel quale si torna, pur se con accenti diversi, sulla
giustificazione della superiorità del sapere dei filosofi, che va assunto come paradigma
pedagogico e gestionale della condotta individuale e collettiva, rispetto al sapere comune
rappresentato dalle forme abituali della cultura tradizionale, per esempio dell’arte imitativa
e della poesia, epica o tragica. Un lungo e complesso monologo mitologico, dedicato
all’esposizione del destino dell’anima individuale nel corso della sua vicenda immortale,
conclude la Repubblica, trasponendo di fatto l’affermazione della superiorità e della
desiderabilità della giustizia rispetto all’ingiustizia, dall’ambito psico-fisiologico e socio-
politico all’ambito propriamente metafisico ed escatologico.
Di fronte a un’articolazione tematica così complessa, è inevitabile chiedersi dove si
collochi esattamente il nucleo propriamente “politico” del dialogo. Del resto, come ha
osservato Mario Vegetti, è possibile individuare alcune linee di riflessione abbastanza
nette nella concezione platonica della politica: dalla definizione dello statuto del governo
della città, con la determinazione dei requisiti per accedervi, degli obiettivi da raggiungere
e degli strumenti di consenso per conservarlo, alla corrispondente struttura sociale,
economica e istituzionale della città, con l’esame dei rapporti di classe cui essa dà luogo e
delle diverse possibili situazioni concrete in cui la città storicamente si trova (in pace o in
guerra, stabilendo oppure no relazioni di scambio con altre città e così via). Il punto di
partenza abituale per questa indagine è rappresentato dalla constatazione che la città
esistente è “malata” (VIII 544c) e che occorre pertanto studiare le cause e il decorso della
sua malattia per poterla curare e infine proporre un modello istituzionale immune da tali
rischi; il sintomo principale della malattia della città è il conflitto perdurante, non solo
nell’Atene di Platone, fra le sue distinte componenti sociali, che produce una sorta di
guerra civile permanente, interna alle singole città oppure fra le diverse città del mondo
greco: in questo ambito, l’imputato principale è certamente il regime democratico ateniese,
che Platone considera come ineludibilmente esposto all’esito di una degenerazione
demagogica, coincidente con l’asservimento dei fini di governo alle spinte irrazionali
provenienti dalla massa e dunque in contraddizione radicale con il principio platonico del
perseguimento del bene, individuale e collettivo, sulla base del sapere. Si è ricordato poco
sopra quali siano gli elementi principali della “cura” che Platone suggerisce per guarire la
“malattia” della città: si tratta di stabilire un’organica distribuzione di funzioni e compiti
basata sulla natura e le competenze di ogni individuo e di ogni gruppo sociale che
componga un equilibrio efficiente e armonico. La condizione di realizzabilità di questo
sistema organico viene individuata da Platone attraverso l’attribuzione del governo a un
gruppo quantitativamente ristretto di “sapienti”, i filosofi, che svolgono la propria funzione
direttiva in virtù della facoltà e delle competenze razionali che prevalgono in loro; a questo
gruppo dirigente Platone associa un gruppo più numeroso, composto dai “guerrieri”, che,
rigorosamente subordinato al primo e in esecuzione delle direttive di quello, opera le
funzioni di controllo e di salvaguardia dell’ordine pubblico, come un apparato di sicurezza
che garantisce, in virtù del proprio carattere “aggressivo”, la conservazione dell’insieme; a
un terzo e ultimo gruppo sociale, il più numeroso, appartengono infine compiti produttivi e
commerciali, indispensabili al benessere della città e tuttavia necessariamente sottoposti
al controllo e alla disciplina imposta dei gruppi superiori, per evitare che l’elemento
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individualistico e potenzialmente capace di sovvertire l’equilibrio dell’insieme, connesso
alla produzione, all’accumulo e allo scambio di ricchezze, possa incrinare la buona
disposizione della città.
Da questa rigida scansione gerarchica derivano altrettante conseguenze, teoriche e
pratiche, sul piano dell’ingegneria politica e istituzionale. A garanzia dell’obiettivo generale
perseguito dall’azione dei governanti, e dell’applicazione esclusiva di un criterio razionale
nell’esercizio di tale azione, Platone prescrive la norma che estirpa ogni possibile fonte di
interesse o inclinazione individuale nella formazione e nella vita quotidiana dei membri di
questo gruppo: la collettivizzazione patrimoniale e affettiva e, subito oltre, la durissima
selezione, genetica e pedagogica, dei filosofi mirano precisamente a sancire le condizioni
necessarie per l’accesso al potere e per il suo esercizio. E, nonostante la complessa
articolazione di questo percorso di analisi e prescrizione politica, Platone avverte, e
dunque fa emergere con acutezza, l’inevitabilità della degenerazione di ogni forma
istituzionale, che, per quanto vicina al modello descritto, si trova esposta alla natura
instabile delle vicende umane e della storia o, in altre parole, alla caratteristica deficienza
ontologica del mondo sensibile, irrimediabilmente vincolato al divenire in opposizione
all’eterna stabilità del modello ideale intellegibile.
Lo sfondo del dibattito novecentesco intorno all’etica e alla filosofia politica
della Repubblica è rappresentato certamente, e tuttora, dalle violente accuse che Karl
Popper ha rivolto a Platone in The Open Society and its Enemies (1944). Come è noto,
secondo Popper, Platone avrebbe, per un verso, preteso di identificare le “leggi della
storia” e, con esse, di predeterminare lo svolgimento e la realizzazione delle vicende
umane e, particolarmente, della condizione dell’uomo e della sua funzione in seno alla
città e allo stato; per altro verso, e di conseguenza, avrebbe costruito nella Repubblica uno
schema socio-istituzionale fondato su una serie di principi a-priori che sono finalizzati alla
realizzazione della felicità collettiva, a scapito di ogni forma di individualismo e di libertà o
inclinazione individuale. Quella platonica si configurerebbe perciò come un’“utopia
totalitaria”, nella misura in cui il carattere utopico dipende appunto dal riferimento a un set
di principi eterni e immutabili “posti in cielo”, cui ispirarsi e da riprodurre nell’azione politica
e istituzionale, che sfocia a sua volta in una prospettiva totalitaria in quanto, per realizzare
questo progetto, occorre piegare qualunque tendenza soggettiva dei singoli cittadini alla
superiore esigenza di costituire una società perfetta, sacrificando interessi e opzioni delle
parti in nome della suprema indicazione del benessere e dell’efficienza del tutto. Ora,
come è noto, l’accesa requisitoria di Popper ha suscitato un’ampia serie di reazioni, per lo
più dominate dall’intento, del resto in gran parte esplicito, di difendere Platone dalle
accuse rivoltegli, finendo spesso, tuttavia, per optare piuttosto per uno sforzo implicito di
difendere Platone da se stesso, senza invece operare un’attenta disamina, storica e
filosofica, dei presupposti esegetici della ricostruzione popperiana – senza considerare,
insomma, che l’estraneità di Platone alla tradizione etica e politica liberale o democratica,
denunciata da Popper, potrebbe evidenziare più che un limite o una colpa da ascrivere
allo stesso Platone, un presupposto interpretativo miope, che a sua volta non tiene conto
dei diversi momenti della storia del pensiero, quasi assumendo il liberalismo moderno
come la dottrina definitiva e definitivamente stabilita in base alla quale misurare, e
giudicare, i pensatori del passato. È chiaro come, adottando simili strategie difensive,
ancora oggi ben presenti e documentabili negli studi recenti, si corra il rischio di indebolire
e depotenziare la riflessione politica di Platone, neutralizzandola sotto ogni profilo, pur di
evitare, di fronte alla constatazione innegabile che egli non fu un liberale e un
democratico, di farne un nemico della libertà e della democrazia, un pensatore totalitario
diretto precursore dei regimi dittatoriali del novecento.
Un’analoga strategia, almeno rispetto alla tesi secondo la quale non bisogna considerare
come autenticamente platoniche le affermazioni relative al progetto politico
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della Repubblica, si ricollega ai nomi di due celebri filosofi del Novecento, Hans-Georg
Gadamer e Leo Strauss: il primo ha insistito sul carattere esclusivamente utopico della
costruzione politica di Platone, riducendola al rango di una proiezione immaginaria,
edificata come fantasiosa e piacevole evasione nella mente e non certo nella concretezza
della realtà e della storia, il cui scopo si riduce essenzialmente al gioco puramente astratto
del confronto intellettuale; il secondo ha sottolineato, più che i tratti utopici del progetto
della Repubblica, la caratteristica modalità della “dissimulazione” che Platone avrebbe
messo in atto, allo scopo di evitare il rischio di urtare la morale prevalente e la communis
opinio dei suoi contemporanei, di incorrere in contrasti o punizioni da parte dell’autorità.
Non si tratta soltanto di nascondere, tramite prudente reticenza, le proprie tesi autentiche,
ma di proporre alternativamente, dissimulandone i contenuti attraverso un complesso
schema dialogico che ne cela ironicamente i contenuti effettivi, un progetto ben preciso, i
cui contorni risultano identificabili e accessibili ai lettori che sappiano oltrepassare
l’immediatezza letterale di quanto Platone scrive, per cogliere i riferimenti esoterici che egli
tratteggia attraverso gli articolati scambi dialogici fra i suoi personaggi. Il disegno
fondamentalmente comunistico della Repubblica, che recide ogni aspirazione e
dimensione individuale, trascurerebbe volutamente, e perciò ironicamente, gli impulsi
riconducibili al corpo, alle differenze specifiche dei singoli cittadini e di genere fra i sessi,
manifestando così il suo carattere assolutamente contro natura e perciò ideale, e in tal
senso utopico, e dunque di fatto consapevolmente impossibile rispetto alla sua
realizzazione concreta. Impossibile e perfino indesiderabile, la città ideale
della Repubblica avrebbe allora solo il fine di denunciare i limiti di ogni progettualità
politica che, secondo la nota concezione straussiana, deve astenersi dall’invadere gli
spazi propri della filosofia e della teologia.
Come si vede, al centro di questi complessi, e talora assai contorti, tentativi esegetici, si
colloca, pur se con diverse sfumature e da diversi punti di vista, la questione della
cosiddetta “utopia” platonica, come forma estrema di difesa, o via di fuga, dalle accuse
popperiane di totalitarismo politico. Ma, che si evochi un’utopia “fantastica” o un’utopia
“dissimulatoria”, pare impossibile non tenere conto dei numerosi richiami, contenuti
nella Repubblica, all’essenziale problema della concreta realizzabilità del modello che
viene via via disegnato (cfr. per esempio 450d, 458a-b, 499c ecc.), anche se, appunto in
virtù della differenza fra il modello ideale “nel cielo”, eterno e perfetto, e il mondo sensibile
del divenire e della storia, le condizioni di possibilità di tale realizzazione sono ardue e di
difficile attuazione (cfr. per esempio 499d, 502c, 504d ecc.). Il tratto utopico del progetto
della Repubblica risiede allora nello iato che inevitabilmente sussiste fra la perfezione del
modello, che nulla, tuttavia, rende di per sé oggettivamente irrealizzabile, e le sue
condizioni di possibilità, che si scontrano invece con l’altrettanto inevitabile imperfezione
della sua realizzazione. Ma questo tratto utopico non dipende dal progetto platonico, la cui
perfezione ideale costituisce anzi, per il suo valore paradigmatico, il principale elemento di
forza e di attrattività politica, bensì dalla dimensione pratica e concreta nella quale occorre
realizzarlo: in questa misura, ed entro questi limiti, è certo possibile individuare una
tensione utopica nella riflessione politica di Platone, appunto quella tensione insopprimibile
determinata dalla distanza mai definitivamente colmabile fra il modello e la sua
realizzazione concreta, e a un tempo, per converso, dall’attrazione mai sopprimibile che
quello esercita su questa. Nello iato così determinato, fra il modello e la sua realizzazione
concreta, si apre lo spazio per l’elaborazione di una vera e propria teoria normativa, con
l’indicazione di una serie di requisiti necessari per la sua attuazione efficace, che, per
quanto a loro volta di difficile applicazione, appaiono nuovamente non impossibili, in linea
teorica, rispetto alla loro esecuzione: il governo dei filosofi, o la conversione dei governanti
alla filosofia, rappresenta da tale punto di vista la prescrizione fondamentale che, abbinata
a un rigido controllo sociale, può indirizzare la costituzione della “città in terra” a imitazione
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della “città in cielo”. Si noterà come, a questo punto, il quadro esegetico intorno
all’interpretazione “politica” della Repubblica si collochi al di fuori della gabbia polemica
costruita da Popper, ma accettata di fatto anche dai suoi critici, che intendeva imbrigliare
la riflessione politica di Platone all’interno del confronto esclusivo con il pensiero liberale e
democratico moderno e della sua contrapposizione, tutta novecentesca, alle
contemporanee dottrine totalitarie; gli sviluppi descritti fin qui per sommi capi, con le
relative acquisizioni esegetiche, ci restituiscono un Platone estraneo, perché non
assimilabile neanche in linea di principio, tanto al liberalismo quanto al totalitarismo, un
Platone attraverso il quale tornare a pensare ai termini generali della progettualità della
politica, dei suoi requisiti normativi, giuridici e istituzionali, e alle condizioni della sua
azione concreta, nella società e nella storia degli uomini.
Si è accennato alla stretta corrispondenza, nella Repubblica, fra la riflessione politica
intorno alla costituzione e alla struttura della kallipolis e l’analisi psicologica che esamina la
costituzione dell’anima individuale e la sua struttura funzionale, e ciò sulla base di una
precisa analogia fra l’anima e la città: proprio su questo piano si può individuare un altro
elemento assai significativo, benché anch’esso non esente da ambiguità e difficoltà, dello
svolgimento argomentativo del dialogo, appunto in riferimento alla teoria dell’anima.
Platone elabora infatti una concezione dell’anima strutturata secondo una ben precisa
tripartizione funzionale, individuando altrettanti “centri pulsionali” o facoltà psichiche che, di
per sé indipendenti, devono tuttavia collaborare per la corretta ed equilibrata armonia
operativa dell’individuo: una facoltà razionale (logistikon), cui spetta il comando dell’intera
anima, una facoltà irascibile o ardimentosa (thumos), che, alleata della prima deve
garantirne la supremazia, e una facoltà desiderativa o concupiscibile (epithumethikon),
che tende a contrapporsi al governo della prima e alla costrizione della seconda,
alimentando le inclinazioni più basse e irrazionali. La pluralità composita del soggetto
psichico che ne deriva, corrisponde, sul piano politico, alla pluralità sociale e funzionale
dei tre gruppi di cittadini che compongono la kallipolis – i filosofi, i guerrieri e i produttori –
e permette di rendere conto, al livello psicologico del singolo come al livello politico della
città, della varietà di comportamenti, individuali e collettivi, che possono prodursi su
entrambi i piani: quando infatti, rispettivamente, la facoltà razionale è sostenuta alla guida
dell’anima della facoltà irascibile, e sottomette le pulsioni inferiori, e i filosofi, con l’ausilio
dei guerrieri, reggono la città imponendo il proprio comando ai produttori, l’individuo e la
collettività si mantengono nell’equilibrio e nella giustizia; ma quando invece,
rispettivamente, la facoltà razionale sia soverchiata dall’inopportuna alleanza fra la facoltà
irascibile e le pulsioni inferiori, e i filosofi siano sopraffatti da un’improvvida coalizione dei
guerrieri e dei produttori, l’anima e la città risulteranno sconvolte e prive di ordine, in preda
al caos irrazionale, all’ingiustizia e al conflitto.
Ora, benché questa concezione dell’anima fornisca indubbiamente un contributo decisivo
all’illustrazione della natura della giustizia nell’ambito dei rapporti sociali all’interno della
città, specie a partire dal libro IV della Repubblica, si nota tuttavia che una dottrina della
tripartizione pare assente dai dialoghi precedenti e, con l’eccezione del mito
del Fedro (246a), non viene utilizzata da Platone nei contesti “genetici”, in cui cioè si
propone una descrizione della costituzione dell’anima, del suo ingresso e della sua uscita
dal corpo, del suo destino immortale. Perfino nella stessa Repubblica, nel libro X (611b-c),
si afferma che la «mutilazione» dell’anima, ossia la sua partizione, dipende dal fatto che
essa è congiunta al corpo e soggetta ai fenomeni a esso relativi, perché, di per sé, si tratta
invece di una realtà pura: l’anima è in effetti come il Glauco marino, di cui non si scorge la
vera natura, pura e semplice, perché a essa si sono aggiunti, ricoprendola e ispessendola,
strati di incrostazioni saline, «conchiglie, alghe e pietre», che la corrodono e ne sfigurano il
profilo. Questa immagine dell’anima, non propriamente tripartita bensì bipartita, pare
supporre perciò una dottrina più semplice e fondamentale della precedente, che si lascia
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ricondurre alla distinzione fra un principio razionale e immortale, in cui esclusivamente
consiste l’anima in sé, e una sfera funzionale irrazionale e mortale, che all’anima è
aggiunta nel corso della sua permanenza nel corpo – una dottrina che sembra a sua volta
piuttosto diffusa in altri dialoghi (dal Fedone al Politico e al Timeo): è controverso, di
conseguenza, se si tratti di due dottrine diverse, e fra loro in contraddizione, o se si lascino
invece ricondurre a due aspetti distinti, eventualmente per ragioni strategico-dimostrative,
di una dottrina unitaria. Resta però, comunque si sciolga la difficoltà, che la dottrina della
tripartizione funzionale dell’anima del libro IV della Repubblica introduce una sorta di
isomorfismo che, in qualche modo ridimensionando l’opposizione dell’anima al corpo,
prefigura una concezione del vivente come “organismo integrato” di anima e corpo, nel
quale il corpo viene assunto come potenziale alleato dell’anima, in un quadro che
preannuncia gli sviluppi psico-fisiologici del Timeo e la riflessione psicologica di Aristotele.
Si può passare così, dal dibattito intorno allo statuto dell’anima, all’esame della sua
funzione più alta, quella razionale e conoscitiva, cui risale la sostanziale differenza che i
libri V-VII della Repubblica stabiliscono fra i filosofi, cui spetta il compito del governo della
città, e gli uomini comuni, i “non filosofi” che si limitano a possedere un sapere apparente
fondato sulle opinioni. A tale esito si giunge compiendo innanzitutto (1) una complessa
riflessione epistemologico-politica che permette di distinguere, in virtù del loro sapere e del
loro grado di accesso alla verità, i filosofi destinati al governo della kallipolis dai loro
imitatori, nelle ultime dieci pagine del libro V e nelle prime del libro VI; (2) una schematica
e perfino contratta illustrazione della funzione dell’idea del bene, che orienta e a cui è
orientato il sapere dei filosofi, nell’arco di poche pagine del libro VI; (3) e un’articolata
costruzione epistemologica, con la celebre immagine della “linea” divisa, nelle ultime sei
pagine del libro VI, e l’altrettanto celebre esposizione della caverna, che conduce alla
descrizione della paideia dei filosofi, con particolare riguardo alla formazione dialettica,
dunque al metodo e alla scienza di ciò che è in senso proprio, nell’intero libro VII.
Per un esame della prima questione, è possibile prendere le mosse dall’affermazione di
Socrate (476e-479e), secondo cui chi conosce conosce necessariamente qualcosa che è,
perché è impossibile conoscere ciò che non è, sicché, per estensione, viene formulato
questo saldo principio: ciò che è assolutamente è assolutamente conoscibile; ciò che non
è assolutamente, d’altra parte, è assolutamente inconoscibile. Se, ancora, qualcosa è e
non è allo stesso tempo, intermedio fra il puro essere e l’assoluto non essere, ad esso si
addice una forma di conoscenza intermedia fra la vera conoscenza – la scienza – e
l’ignoranza: l’opinione. Viene infine specificata la natura degli oggetti delle tre differenti
specie di conoscenza. Ciò che è realmente e a pieno titolo rimane sempre invariabilmente
costante e immobile nella propria condizione: si tratta degli enti in sé e per sé, come il
bello, il giusto e così via. Ciò che non è affatto si riduce invece al puro nulla, la semplice
privazione d’essere, di cui è impossibile dire alcunché. In ultimo, l’oscuro oggetto
dell’opinione, collocato fra l’essere e il non essere, si identifica con l’infinita molteplicità
delle cose sensibili che appaiono contemporaneamente giuste e ingiuste, pie ed empie,
grandi e piccole, leggere e pesanti, belle e brutte, che, per questa ragione, si distinguono
da ciò che è e pur tuttavia, non coincidendo con il vuoto nulla, rappresentano comunque
un “qualcosa” che almeno parzialmente è. Ecco perché chi non ammette la realtà degli
enti in sé, ma soltanto l’apparenza delle cose sensibili, cioè il non filosofo, possiede
un’opinione mutevole del proprio mutevole oggetto, senza poterlo conoscere davvero,
mentre chi si volge agli enti in sé, il filosofo, raggiunge la vera e immutabile conoscenza
del proprio oggetto vero e immutabile. Emerge qui la scansione gerarchica di tre livelli
“esistenziali” e, più semplicemente, “oggettuali” distinti: ciò che è, ciò che non è e ciò che è
e non è allo stesso tempo come dimensione intermedia fra i primi due livelli. Ora,
prendendo atto del fatto che ciò che non è, in quanto è concepito come ciò che non esiste
affatto, ossia come il puro nulla, appunto non è – e non costituisce pertanto un autonomo
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livello “esistenziale” né tantomeno “oggettuale” del quale opinare o pensare alcunché –,
tale gerarchia finisce per distinguere esclusivamente due piani di esistenza e due gruppi di
oggetti che appartengono all’uno e all’altro piano di esistenza e che,
quindi, sono ed esistono in due modi diversi. L’argomento ha dunque soprattutto come
scopo quello di completare questa ontologia con un’epistemologia che le corrisponda
efficacemente come suo pendant: a fronte di un’ontologia almeno in una certa misura
“esistenzialista” (nel senso che prevede a qualche titolo l’esistenza degli onta), viene
proposta un’epistemologia fondamentalmente realista, per cui a oggetti distinti
appartenenti a piani di esistenza diversi si addicono forme di conoscenza diverse,
secondo uno schema rigido che dispone la corrispondenza della scienza con ciò che è e
dell’opinione, mutevole e perciò talora vera (come la scienza) e talora falsa, con ciò che a
un tempo è e non è (e dell’ignoranza, come totale assenza di conoscenza o opinione, con
il non essere, totale assenza dell’essere e di alcunché).
Una simile scansione onto-epistemologica è ripresa e articolata, nella sezione conclusiva
del libro VI (509d-511e), attraverso la celebre immagine della “linea” divisa, preceduta dal
complesso riferimento, da parte di Socrate, alla collocazione e alla funzione causale
dell’idea del bene, che conviene tuttavia trattare in seguito. Tracciando una linea e
dividendola in due segmenti disuguali corrispondenti all’ambito sensibile e all’ambito
intellegibile, se questi ultimi si dividono a loro volta in due segmenti ulteriori, avremo
quattro distinti generi di oggetti e altrettanti modi di conoscenza, dal basso verso l’alto: le
immagini, le ombre e riflessi degli oggetti sensibili, che vengono colti con l’immaginazione
(eikasia); gli oggetti sensibili stessi, naturali e artificiali, contenuto di una percezione
immediata (pistis); segue un primo set di oggetti intellettuali, esemplificati dalle figure
geometriche o dai numeri, cui conviene il metodo proprio della geometria che procede
ipoteticamente, non però risalendo verso il principio anipotetico per dimostrare la verità
delle ipotesi formulate, ma assumendo tali ipotesi come vere
e discendendo analiticamente fino alla conclusione del ragionamento: tale specie di
conoscenza, benché appartenente al genere intellegibile e consacrata all’indagine delle
realtà in sé, in quanto si serve di immagini sensibili ed è incapace di trascendere le proprie
ipotesi per raggiungere il principio incondizionato di ogni ipotesi, prende il nome di
pensiero dianoetico; al termine del percorso, nel quarto e ultimo segmento, si colloca un
secondo set di oggetti intellettuali, cui si addice il metodo dialettico, che tratta le ipotesi
che venivano formulate nel segmento precedente non come principi primi, ma come punti
di partenza per ascendere al principio anipotetico del tutto e, dopo averne avuto
conoscenza diretta, discendere da quello fino alla conclusione, senza utilizzare nessuno
strumento sensibile, ma soltanto le idee in sé, per sé e rispetto a sé stesse: a tale forme di
conoscenza viene attribuita la denominazione di nous o noesis, che ne designa
incontrovertibilmente il carattere esclusivamente intellettuale.
Fra i problemi principali, tanto controversi quanto filosoficamente appassionanti, posti dal
dibattito critico intorno alla “linea”, emerge quello della distinzione fra il genere di
conoscenza dianoetica che compete al metodo dei geometri e quello che invece
caratterizza il pensiero noetico dei dialettici. In particolare, c’è un’ampia discussione sulla
possibilità che Platone si riferisca, parlando di nous o noesis, a una forma di conoscenza
intuitiva e immediata e, in questo caso, di quale natura epistemica. Basti osservare, di
fronte alla vastissima serie di opzioni esegetiche prospettate, che Platone pare alludere
essenzialmente, attraverso il riferimento a una forma di conoscenza immediata e perciò in
qualche modo “intuitiva”, all’esigenza indispensabile di stabilire la verità assoluta della
razionalità discorsiva, che non sembra in grado di auto-giustificarsi. Nessuna “mappa”
ontologica è possibile se ci si basa esclusivamente sull’esame delle relazioni fra le idee,
che poggia a sua volta sulla definizione (proposizionale) di ogni singola idea, giacché, se
non si possiede una conoscenza immediata della singola idea, non sarà mai possibile
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definirle tutte per differentiam. Si potrà definire “A” in relazione a “B”, “B” in relazione a “C”
e così via; ma la conoscenza dell’ultimo termine della catena, sul quale poggia il grado di
verità della conoscenza dell’intera catena, risulterà sempre problematica: o si tratterà di
una conoscenza, questa volta, intuitiva, immediata e definitiva, oppure essa dovrà a sua
volta poggiare sul primo termine esaminato, dando vita così a un inesauribile circolo
vizioso. Si comprende come, precisamente a partire da queste pagine della Repubblica,
sorga il dilemma teorico, così presente nella storia della filosofia posteriore, che oppone
una forma di razionalità sostanzialmente ancorata all’ambito linguistico e dimostrativo a
una forma di razionalità di carattere extra-linguistico, o pre-linguistico, e perciò non
proposizionale.
Ancor più complessa, fin dall’antichità, è infine la questione dell’idea del bene, sulla quale
è inevitabile limitarsi a tratteggiare un quadro estremamente selettivo, in relazione soltanto
al problema della sua collocazione ontologica: il bene, infatti, pur essendo “causa di
conoscenza e verità, appare tuttavia altro e più bello della conoscenza e della verità” e
perciò situato “al di là dell’essere, che supera per dignità e potenza”, in virtù della sua
funzione causale, per la quale esso “conferisce la verità alle cose conosciute e la facoltà di
conoscerle al soggetto conoscente”, sicché è “da esso che provengono l’essere e
l’essenza alle cose che sono” (VI 508d-509c). Basti ricordare che una parte dei
commentatori difende tuttora un’interpretazione, di lunga tradizione, secondo la quale il
bene coincide con l’origine e la causa delle altre idee e di tutte le cose, alla maniera di un
principio (1) ontologico o (2) meta-ontologico, che conferisce alle idee il loro essere e la
loro verità: nel primo caso (1), il bene sarebbe un’idea, situata al culmine dell’intellegibile e
superiore alle altre idee, ma comunque interna all’ambito dell’essere; nel secondo caso
(2), invece, si tratterebbe di un principio precedente l’essere e la verità e perciò diverso
dalle idee di cui sarebbe l’origine. Questa interpretazione non è però affatto unanime e un
altrettanto ampio numero di commentatori non è disponibile ad attribuire all’idea del bene
una posizione di tale preminenza ontologica, optando piuttosto per una lettura a un tempo
teleologica e assiologica dello statuto del bene all’interno del mondo intellegibile: in questo
caso, l’idea del bene viene concepita, per un verso, come il fine ultimo dell’agire e del
conoscere e, per altro verso, come l’origine e l’unità di misura dell’ordine perfetto, e
dunque della disposizione “buona”, delle altre idee e di tutte le cose. Una così netta
contrapposizione esegetica ha naturalmente determinato una serie di interpretazioni più
prudenti e sfumate, da chi giudica di fatto insolubile il problema del bene in questa sezione
della Repubblica, rilevandone inoltre l’unicità nell’ambito del corpus platonico, a chi ha
invece sostenuto che il bene evocato qui non è un’idea intellegibile in senso proprio, ma la
“nozione”, o l’“insieme di nozioni”, che costituiscono il sapere supremo associato alla
condizione dei filosofi destinati al governo della città.
È comunque fuor di dubbio che il bene rappresenta il fondamento ultimo del sapere dei
filosofi, che, grazie alla competenza dialettica loro propria, giungono a conoscere ciò che
esiste eternamente e immutabilmente, le idee intellegibili, che sono i modelli di cui il
mondo sensibile non è che una copia imperfetta; ed è appunto in virtù di tale sapere, che
culmina nella conoscenza del bene ed è reso loro accessibile dall’esercizio della facoltà
razionale che presiede all’equilibrio della loro anima, che i filosofi si rivelano come gli
appropriati governanti della kallipolis, per garantirne la somiglianza, nei limiti del possibile,
al modello ideale e perfetto che essi conoscono e conservarne la stabilità, nei limiti del
possibile, trasponendo l’ordine e la giustizia che caratterizzano la loro anima nel corpo
sociale della città che governano. Nei limiti del possibile: perché la città dei filosofi, con
tutte le città umane, è inevitabilmente sottoposta al divenire della natura e della storia ed è
soggetta perciò a cicliche degenerazioni, come anche ogni anima individuale, per quanto
si conduca secondo giustizia, non può considerarsi definitivamente libera ed esente dal
rischio del disordine e dell’ingiustizia.
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