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Da diverso tempo, la filosofia politica di Spinoza ha mostrato di essere a

più titoli un’interlocutrice privilegiata di esperienze intellettuali maturate


in concomitanza con i dati di fondo della “condizione postmoderna” (crisi
del marxismo e delle narrazioni emancipatrici, aleatorietà del soggetto
politico, svuotamento teorico del discorso liberale ecc.). Se si pensa alla
tensione ideologica che, soprattutto in Italia, ha investito un concetto di
derivazione spinoziana come quello di “moltitudine”, sembra
quantomeno curioso che un libro come quello qui in esame sia da noi
passato pressoché inosservato: esso costituisce infatti un contributo
imprescindibile per la comprensione di un tema così complesso, costruito
e denso d’implicazioni quale è appunto la multitudo. Di Zourabichvili è
stato tradotto in italiano il volumetto Deleuze: une philosophie de
l’evenement ( Deleuze:una filosofia dell’evento, Verona, Ombre Corte,
1998), breve ma efficace introduzione al pensiero di Gilles Deleuze. A
questo proposito va detto che, malgrado la lettura di Zourabichvili non
costituisca una derivazione diretta della posizione ‘espressionista’
affermata dal filosofo scomparso negli anni ’90, persiste un debito del
primo nei confronti del secondo, poiché Deleuze aveva rivendicato allo
spinozismo una specialissima vocazione pratica, consistente nel tentativo
di pensare il divenire (esistenziale o storico, individuale o collettivo) nella
sua positività, rifiutando uno statuto ontologico specifico alla categoria di
‘negazione’ (cfr. Gilles Deleuze, Spinoza. Filosofia pratica, Milano, Guerini,
1991).

Il libro Le conservatisme paradoxal de Spinoza, apparso


contemporaneamente ad uno studio dello stesso autore sulla teoria della
conoscenza nell’Ethica (F. Zourabichvili, Spinoza, une physique de la
pensée, Parigi, PUF, 2002; i due saggi possono essere visti come due
capitoli distinti di una lettura unitaria, tesa alla comprensione del
problema del divenire e della trasformazione nell’opera del filosofo
olandese), rinnova il lavoro ermeneutico concernente l’intreccio, evidente
o implicito, di metafisica e politica nell’eccentrica opera del filosofo
olandese. L’importanza di questo contributo consiste, probabilmente, nel
fatto che tale intreccio è interrogato non alla luce delle componenti
espresse in una forma dottrinale compiuta, (cioè dotate di una figura
stabile all’interno del sistema), ma piuttosto secondo il concatenamento
(irriducibile ad ogni ordine di esposizione apodittico) di temi e problemi
che, apparentemente ‘minori’ o ‘periferici’, si rivelano fondamentali per
fare i conti con il carattere ‘eccentrico’ di cui si diceva sopra –
ricollocandone e riconcettualizzandone il significato in rapporto ai suoi
tempi (e ai nostri). Il testo si articola in tre studi, completati da una
prefazione: il primo (Envelopper une autre nature/envelopper la nature,
pp. 34-94) sul passaggio alla vita ‘etica’, alla vita secondo ragione, in
rapporto al binomio identità-alterità; il secondo (L’image rectifiée de
l’enfance, pp. 95-182) sul problema dell’infanzia e dell’infante in alcuni
testi topici e in rapporto al contesto culturale olandese; il terzo (Puissance
de Dieu et puissance des rois, pp. 183-262) sulla critica della monarchia
assolutista e sulla specificità del concetto di moltitudine.

Riallacciandosi all’insegnamento di Deleuze, Zourabichvili procede dalla


constatazione che il pensiero di Spinoza nella sua globalità è sollecitato
dalla problematica della trasformazione, intesa come un processo
irriducibile al divenire come tale, sia esso concettualmente espresso nei
termini di una ‘transizione’ (transitio) o di una ‘mutazione’ (mutatio in
aliam formam): “[…] la trasformazione per Spinoza non è soltanto un
oggetto il cui referente è spesso problematico (allorché si tratta di dare un
giudizio sulla rivoluzione, sulla trasmutazione alchemica, sull’amnesia,
sulla crescita dell’infante ecc.): essa è anche una posta in gioco che lavora
il suo pensiero, nella misura in cui esso si vuole pratico, e perciò non può
evitare la questione delle modalità e dello statuto del suo intervento” (p.
31). È dunque il sottile (ma decisivo) margine che separa la
trasformazione (mutazione irreversibile e completa di un’essenza
individuale) dal divenire (dell’ignorante nel saggio, del bambino
nell’adulto, del suddito nel cittadino), a legare insieme le tre dimensioni
della riflessione.

Dimensioni che si richiamano, ciascuna a suo modo, ad un dato testuale


imprescindibile: in un punto centrale della sezione della quarta parte
dell’Ethica che introduce il tema della vita politica (scolio della
proposizione 39), Spinoza argomenta l’assunto secondo cui l’essenza
umana è esposta a modalità di trasformazione irriducibili alla morte. Il
filosofo cita il caso di un poeta amnesico, incapace di ricordare anche in
minima parte la sua opera letteraria; ciò che per noi connota una
semplice privazione, una mancanza (l’assenza di memoria), in realtà
definisce il passaggio ad una forma altra e dotata di una sua positività,
che ha per contropartita una perdita dell’identità personale nel corso
della stessa vita biologica (pp. 15-16). Allo stesso modo, l’attenzione non
incidentale che l’autore dell’Ethica dedica all’infanzia, alla sua specificità
come età costitutivamente ‘rivoluzionata’, esposta ad un divenire
indeciso, indeterminato (tra salute e malattia, tra crescita e morte) gli
permette di pensare lo Stato (o il popolo) di nuova fondazione, infante in
cerca di una sua forma vivibile, bisognoso di condizioni esteriori per
dispiegare uno sforzo di autoconservazione ancora insufficiente: la
teocrazia ebraica ha un valore esemplificativo irrinunciabile proprio
perché in essa si saldano immaturità politica ed acquisizione di una forma
compiuta tramite la legge mosaica (pp. 134-141).

Nei tempi moderni, la massa rivoluzionaria ripropone in termini mutati la


stessa problematica, perché una collettività che mantiene la sua memoria
(le sue abitudini e i suoi costumi) non può definire un mutamento di
forma effettivo del corpo politico; di conseguenza, l’unico modo di
concepire la rivoluzione in modo coerente comporterebbe l’ipotesi di
un’amnesia collettiva. Questa impasse costituisce il movente per un
metodo di lettura ‘paradossale’, in cui il realismo politico di Spinoza
emerge nella sua cifra complessiva, qualificandosi come un
“conservatorismo costituente” (p. 262). Se ciò che si propone come
rivoluzione non è che un regresso rispetto alla forma statuale data, che
riproduce in termini mutati la condizione tirannica, ciò avviene per via di
quella singolare forza d’inerzia di cui è portatrice la ‘memoria’ del corpo
politico, vale a dire i costumi, le maniere, i modi condivisi di pensare,
sentire e agire. Se la trasformazione dell’assetto politico con mezzi
violenti va esclusa in teoria prima che in pratica, perché logicamente
impossibile, resta il problema opposto e cioè: può un potere sovrano
operare come se fosse in grado di trasformare dall’interno il modo di
essere dei sudditi?

Il punto, delicatissimo, attraversa da parte a parte i due scritti politici del


filosofo: Quali sono le condizioni di possibilità dell’obbedienza? Quali i
suoi limiti ‘naturali’ (nel senso di una natura naturata che solo il discorso
dello spinozismo può esplicitare coerentemente)? Qual è il limite assoluto
del trasferimento dei diritti, quel limite oltre il quale un uomo, per essere
suddito, viene privato della stessa possibilità di accedere ad una vita
umana? Se è condivisibile la tesi che tra il Trattato Teologico-Politico e il
successivo Trattato Politico c’è un abbandono del paradigma
contrattualista, questo punto, secondo Zourabichvili va motivato più a
partire dalla meditazione sulla fine dell’esperienza politica che aveva
avuto luogo in Olanda nella seconda metà del XVII secolo, che in funzione
di un rinnovamento dei modelli analitici e antropologici nel secondo
trattato. Inoltre se è vero che (come ha mostrato Laurent Bove nel suo La
strategia conatus. Affermazione e resistenza in Spinoza, Milano, Ghibli,
2002), il concetto di ‘resistenza’ e la riflessione sul diritto di resistenza
segnano a fondo la filosofia (e la) politica di Spinoza, è giusto intendere il
concetto di multitudo come il punto più alto di un’esperienza di pensiero
concomitante con la fine del regime repubblicano delle Provincie Unite –
fine, com’è noto, dovuta all’effetto congiunto di un’invasione militare da
parte di uno Stato assolutista e del sollevamento di masse popolari
nemiche della borghesia urbana ‘liberale’, capeggiata dai De Witt.

Non si può negare, insomma, che nella polisemia del concetto di


multitudo (che incorpora e modula la differenza libero-schiavo, formulata
sistematicamente tramite la coppia sui juris-alterius juris) risuoni l’eco
profonda di quest’ultimo evento, un evento partecipato e sentito, oltre
che meditato, dal filosofo. Una lettura ‘paradossale’ della politica di
Spinoza è proprio quella che prende in conto uno stato di cose in cui “il
popolo è al tempo stesso vulgus e multitudo: massa d’ignoranti angosciati
e creduli, e tuttavia fonte immanente di ogni sovranità….non si può
contare su di esso e, non si può, tantomeno, rinunciare ad esso” (p. 246;
cfr. anche F. Zourabichvili, “Spinoza, le vulgus et la psychologie sociale”, in
Studia Spinozana 8, 1992, pp. 151-169). La peculiare cifra pratica, prima
che teorica, del Trattato Politico, sta quindi nel fatto che il libro “non
s’indirizza ormai più ai sovrani, e neanche ai popoli in generale: esso
s’indirizza alle sole moltitudini libere, e proprio al fine di dissuaderle da
ogni iniziativa rivoluzionaria” (p. 248).

Una lettura incrociata dei due testi politici spinoziani mostra come il
valore paradigmatico della teocrazia ebraica, affermato nel Trattato
Teologico-Politico sia al tempo stesso confermato e invalidato nelle tesi
del Trattato Politico. È confermato in quanto in quel caso una collettività
di individui ignoranti dei propri affetti e incapaci di provvedere ai propri
bisogni attua il proprio conatus combattendo lo straniero – punto che si
ripresenta nell’analisi della multitudo libera. È invalidato, perché nessun
profeta e nessun Mosé, nella modernità, può porre il problema
dell’accesso ad una maturità politica non-chimerica, cioè risolta in termini
realistici: quelli che fanno della democrazia il regime veramente assoluto,
perché capace di dispiegare appieno il rapporto d’immanenza tra sovrano
e moltitudine (pp. 214-218; 243-244).

Se nel Trattato Teologico-Politico è centrale l’analisi dello Stato ebraico,


nell’altro scritto è centrale la critica della monarchia assolutista; questo
regime opera proprio in virtù dell’impossibilità logica e pratica del regno
di uno solo, questo regime esiste solo come sogno condiviso, dunque si
legittima innanzitutto nell’immaginario comune al volgo e al sovrano (tra
il re e Dio c’è solo una differenza di grado, entrambi possono disfare le
leggi che essi stessi si sono dati), il che non gli impedisce di trovare una
conferma nei filosofemi onto-teologici di Descartes: se la volontà di Dio è
assoluta e inattingibile per l’intelletto finito dell’uomo, la natura di Dio
avrebbe potuto essere o farsi altra in virtù della sua stessa onnipotenza.
Zourabichvili, in quella che forse è la parte più riuscita del saggio,
ricostruisce la trama di un discorso che parte dal distinguo metafisico tra
potenza di Dio e potenza dei re e spiega in termini pertinenti il carattere
‘trasformista’ e ‘chimerico’ dell’assolutismo, dove la sovranità è presa in
un processo di metamorfosi permanente: il diritto della nazione
dev’essere incarnato dal sovrano, il regime stesso acquisisce un’identità
(una forma) trasformandosi in una non-monarchia, la volontà del re,
formalmente assoggettata ad una deontologia cristiana, muta la sua
essenza di tempo in tempo, fa e disfa la legge, passa da un contrario
all’altro (cap. 7, pp. 213-244). Inutile dire quanto tale formula politica sia
un terreno di prova fondamentale per una teoria politica non-utopistica,
capace di operare un superamento immanente dell’immagine barocca del
politico.

Questi snodi delineano l’approdo ad un genere singolare di


‘conservatorismo’, che non è se non l’esplicitazione di un punto di vista
che considera lo Stato come un conatus, cioè come una forma individuale
che è identica ai termini della sua autoaffermazione, della resistenza a ciò
che la contrasta dall’esterno – o che la minaccia dall’interno. Forma che
riproduce continuamente – ricreandolo – il processo della sua
individuazione, della sua composizione in parti sussunte sotto un certo
rapporto. Ora, se il conservatorismo di Spinoza risulta estraneo a tutto ciò
che nella storia politica come nella storia delle dottrine politiche è stato
considerato tale, è perché esso tende a pensare tali condizioni in quanto
implicano una dinamica costituente, ovvero un processo di creazione
politica, una riformulazione delle modalità della convivenza civile. A
questo dato allude la felice formula secondo cui: “non si tratta di
conservare ciò che esiste, ma di fare esistere ciò che si conserva” (p. 262,
corsivo nel testo). Ma se “ciò che si conserva” coincide con ciò che
unifica, con ciò che costituisce individualità, allora convince la tesi
secondo la quale l’esercito popolare in lotta per la conquista
dell’indipendenza (unico referente plausibile dell’espressione multitudo
libera) è un punto fermo imprescindibile per dare un contenuto
determinato a questa sorta di creazione conservatrice, a questa
mutazione che non è una trasformazione. “La guerra d’indipendenza o di
resistenza è un processo che in virtù della sua stessa logica scalza le basi
della dominazione e della schiavitù: anche nel caso di una moltitudine già
formata… si deve supporre che essa non respinga l’invasore senza
riappropriarsi, almeno tendenzialmente, la sovranità… la libertà acquisita
nella lotta è al tempo stesso indipendenza nazionale ed esperienza della
cittadinanza” (p. 261).

Nella dinamica costituente della guerra d’indipendenza, i ‘molti’ non


tendono più ad essere guidati da una sola mente, non reclamano un
sovrano trascendente o un capo provvidenziale, perché realizzano
l’unione degli animi (unio animorum) direttamente nella lotta contro lo
straniero, praticando una virtù irriducibile alla sola disciplina militare.
Questa virtù realizza la libertà – la presa di possesso del proprio conatus
da parte di una collettività – nell’atto della resistenza e dell’autodifesa, la
realizza come esperienza immaginata e come essenza attuata. Non si può
fare a meno di pensare a quanto Spinoza ebbe a scrivere nel 1665,
rivolgendosi al suo amico e corrispondente Oldenburg: “Quanto a me...
queste masse armate non mi fanno né ridere né piangere, ma piuttosto
mi muovono a filosofare e a osservare più attentamente la natura
umana” (Epistola 30).

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