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Zenone Dicotomia
Zenone Dicotomia
Vincenzo Fano
Ci sono due versioni diverse del paradosso di Zenone detto della dicotomia: una
riportata da Aristotele nella Fisica e una da Platone nel Parmenide. Il primo
argomento sembra essere soprattutto contro la possibilità del moto il secondo contro
la pluralità degli enti. Mi occuperò della prima formulazione. Non terrò conto più di
tanto della sua formulazione storicamente esatta, per cui analizzerò un argomento
che, pur essendo simile a quello riportato da Aristotele 1, ci consente di affrontare
delicati e importanti problemi sul rapporto fra fisica, matematica, spazio, tempo,
materia e infinito.
Carlo è in casa con la sorella Gianna e la ha vista poco prima in camera sua che
studiava i paradossi di Zenone. Dalla sua camera, dove sta giocando con la play
station, Carlo si reca in cucina, per bere una coca cola. Trova lì la sorella che si sta
preparando il caffè. Dato che Gianna prima era in camera sua e adesso è in cucina,
deduce prontamente che “Gianna è andata dalla sua camera in cucina”. Dove il verbo
“andare” indica un moto. Immaginiamo a questo punto il seguente dialogo:
Zenone – Gianna, per andare da camera sua alla cucina, ha dovuto percorrere la metà
del tragitto, giusto?
Carlo – Certamente.
Z – Prima di arrivare alla metà del tragitto, ha però dovuto percorrere la metà della
metà, cioè un quarto, del percorso. Non ti pare?
C – E’ ovvio.
Z – E prima di raggiungere un quarto del percorso ha dovuto camminare per la metà
di un quarto, cioè un ottavo, del percorso. Corretto?
C – Senz’altro.
Z – E questa divisione può essere reiterata all’infinito, o sbaglio?
C – Non sbagli.
Z. Dunque Gianna, per andare dalla sua camera alla cucina, avrebbe dovuto
attraversare una quantità infinita di tratti di percorso, per cui ci avrebbe impiegato
una quantità infinita di tempo. Siccome il tempo trascorso da quando l’hai vista
l’ultima volta in camera sua è senz’altro finito, Gianna non si è mai mossa.
1
L’argomento viene formulato da Aristotele in Phys. VI, 9 239b 11ss., luogo in cui si elencano i paradossi di Zenone.
Viene però risolto in Phys. VI, 2 233° 20ss e in Phys. VIII, 8 263° 5ss.
1
Carlo resta un po’ perplesso.
1 1 1 1
....... n
....... , , (1)
2 8 4 2
A B
1/8
1/4
1/2
Discutiamo innanzitutto II., che è più facile, se ci avvaliamo delle moderne tecniche
matematiche introdotte a partire dall’opera di Eulero, matematico tedesco del
Settecento.
Poniamo:
1 1 1
Sn .... n (2)
2 4 2
Sn 1 1 1 1
... n n1 (3)
2 4 8 2 2
Sn 1 1
n1
2 2 2
2
Il discorso aristotelico, come nota N. Huggett, Space from Zeno to Einstein, MIT Press, Cambrudge Mass., 1999. pp.
39-40, è articolato. Egli nota che non è detto che sia necessario un tempo infinito per attraversare un numero infinito di
parti contenute in un segmento finito, Phys., 233° 14-21, poi però nota che questo non è sufficiente in Phys., 263° 15-
22, in un passo per me alquanto oscuro, che Huggett interpreta come l’affermazione che non è detto che una somma
infinita di numeri dia un numero finito. L’interpretazione non sembra del tutto convincente. Nelle righe successive
Aristotele osserva che in una grandezza finita infinitamente divisibile, l’infinito è solo in potenza e per questo la somma
infinita di un numero infinito di parti in potenza può essere finita.
3
Cioè:
1
Sn 1 (4)
2n
Dalla (4) si vede che n può diventare grande quanto si vuole ma S n non sarà mai
maggiore di 13.
Con questo abbiamo dimostrato la veridicità della II. Dobbiamo ora affrontare il
problema della correttezza della I., che è assai più complesso.
Per fare questo, prendiamo prima in considerazione la premessa 2., cioè che lo spazio
sia infinitamente divisibile. Notiamo innanzitutto che finora, per quel che ne so, non
esiste una definizione rigorosa del predicato “infinitamente divisibile” 4. Questo
probabilmente per il carattere modale di tale locuzione (divisibile). Dunque per
formulare con esattezza la 2., dobbiamo dire che lo spazio è “denso”, cioè che fra due
punti spaziali ce ne è sempre almeno un altro. Questo non significa ancora che lo
spazio sia continuo, cioè che sia isomorfo ai numeri reali. Vuol dire però che non è
come i numeri naturali, che sono discreti, bensì come i numeri razionali, cioè le
frazioni. Infatti prese due frazioni quanto si vuole vicine fra loro, come ad esempio
99/100 e 98/100 ne troviamo facilmente un’altra che è più piccola della prima e più
grande della seconda come 985/1000. Teniamo anche conto che il fatto che lo spazio
sia un insieme denso di punti non significa che non sia continuo, ma solo che per il
nostro ragionamento è sufficiente che sia denso. Infatti ogni insieme continuo è a
fortiori denso.
Quando si propone un’ipotesi matematicamente esatta sulla natura di un oggetto
reale, credo che la prima cosa sia confrontarla con la percezione 5. Un continuo
spaziale percepito, come ad esempio un tratto di matita nera sul foglio bianco, non
viene colto come un insieme denso di punti. Certo possiamo definire in esso dei
minimi percepibili, considerando che la percezione visiva spaziale possiede una
soglia. Possiamo anche dire che esso è in potenza formato da un insieme finito e
discreto di minimi percepibili. Ma tali minimi non risultano evidenti attualmente.
Possiamo quindi dire, con Grünbaum che la percezione non testimonia contro
l’affermazione che lo spazio sia composto da un insieme denso di punti. Anche se
non testimonia neanche a favore di questa tesi.
3
Huggett, op. cit., pp. 42-43, e nella voce “Zeno’s paradoxes” della Stanford Enciclopedia of Philosophy,
http://plato.stanford.edu/entries/paradox-zeno/ § 3.3, sostiene che per risolvere matematicamente la dicotomia di
Zenone è necessario il concetto di somma infinita di Cauchy, ma sembra invece che la questione sia più semplice, come
mostrato nel testo.
4
Forse il più importante tentativo in questo senso è il metodo dell’astrazione estensiva proposto da Whitehead, criticato
però da A. Grünbaum, “Whitehead’s method of extensive abstraction”, The British Journal for the Philosophy of
Science, 4, 1953, pp. 215-226.
5
Come fa A. Grünbaum, Modern science and Zeno’s paradoxes, Allen and Unwin, London, 1968, p. 44.
4
L’argomento più forte a favore del fatto che lo spazio fisico sia composto da un
insieme denso di punti è il successo delle attuali teorie fisiche: meccanica classica,
meccanica quantistica, relatività ristretta e generale, elettromagnetismo,
elettrodinamica quantistica e modello standard. Tutte queste presuppongono uno
spazio fisico denso (in realtà continuo), per cui, se abbracciamo una forma di
realismo scientifico, anche moderato, arriviamo alla conclusione che, per quanto ne
sappiamo, lo spazio fisico è denso. Il realismo scientifico moderato infatti afferma
che le migliori spiegazioni di un dato dominio di oggetti sono almeno in parte vere
anche riguardo a ciò che non è osservabile. Dove il termine “vere” va inteso nel senso
della verità come corrispondenza. Dunque è ragionevole supporre che lo spazio fisico
sia effettivamente denso6.
Detto questo, dobbiamo occuparci del caso del tempo. Notiamo innanzitutto che il
tempo percepito, a differenza dello spazio, è discontinuo (James Whitehead,
Grünbaum7). La temporalità vissuta infatti è scandita dal farsi presente di situazioni
successive. In effetti, se non proiettiamo sul tempo percepito la sua geometrizzazione
tipica delle teorie fisiche, possiamo dire, ad esempio, che fra il momento in cui è
squillato il telefono e quello in cui mi è caduto sul piede un martello non ci sono
istanti intermedi. Tuttavia, il fatto che il tempo percepito sia discreto non implica
necessariamente che il tempo fisico sia discreto. Quante volte è capitato, a partire
dalla rivoluzione copernicana, che ci siamo resi conto che i nostri sensi ci ingannano?
Tuttavia il caso del tempo è più complesso rispetto a quello dello spazio, perché
mentre là i sensi non testimoniavano contro la densità dello spazio, ma restavano, per
così dire, neutrali, qui la percezione, invece, si contrappone alla densità del tempo.
Dunque in questa situazione, affermare, come abbiamo fatto per lo spazio, che le
migliori teorie fisiche presuppongono che il tempo sia denso, non sembra sufficiente.
Già Aristotele afferma che (Phys. 233a 15ss.) a causa del moto 8, che lega lo spazio
(che egli chiama la “grandezza”) con il tempo, se uno è infinitamente divisibile anche
l’altro lo sarà. L’argomento aristotelico è stato così riformulato da Adolf Grünbaum
(che però non cita Aristotele, op. cit. pp. 56ss.). Chiamiamo “fatto” che una certa
entità fisica c minimamente individuata si trovi a un certo istante in un certo luogo.
Se una stessa entità fisica minimamente individuata si trova nel punto spaziale A al
tempo tA e nel punto spaziale B al tempo t B, diciamo che i due fatti F A e FB sono
“genidentitci”. Prendiamo ora le mosse da questo primo principio:
6
Si tenga conto, però, che nei più recenti tentativi di unificazione di gravità e teorie quantistiche non sempre lo spazio
alle dimensioni di Planck resta denso, ma possiederebbe delle discontinuità. Si tratta però di ipotesi ancora in
discussione.
7
Op. cit., pp. 45ss.
8
Giustamente Elena Piatti (studente di filologia classica a Urbino, ha notato che l’argomento aristotelico non avrebbe
convinto Zenone, in quanto presuppone l’esistenza del moto. Nella riformulazione di Grünbaum, che discuteremo fra
poco, questo problema sembra essere superato, perché non si assume l’esistenza del moto.
5
i. In tutte le teorie fisiche attuali, presi due qualsiasi fatti genidentici F A e FB, se A è
diverso da B allora tA è diverso da tB9.
Ora viene il punto ontologico fondamentale che rende possibile il trasferimento della
densità dello spazio al tempo.
ii. Se FA e FB sono due fatti genidentici, con A diverso da B, allora esiste un insieme
lineare e denso di fatti genidentici rispetto a F A e FB che ha FA e FB come estremi,
ovvero la traiettoria del corpo c da A a B. Anche questo è vero in tutte le teorie
fisiche contemporanee10.
ACHILLE E LA TARTARUGA
la densità del tempo. Per contro, A.A. Fingelkurts e A.A. Fingelkurts, “Time in cognition and EEG dynamics:
Discreteness versus continuity”, Cognitive Processing, 2007, 7, pp. 135-162, discutono la questione anche da un punto
di vista neurologico, cercando di trovare una mediazione. Infine R. Patterson, “Perceptual moment models”, in
Cognitive model of psychological time, a cura di R.A. Block, Erlbaum, 1990, pp. 86-101, nota che il carattere discreto
dell’esperienza temporale meglio si attaglia a un’interpretazione in termini computazionali della percezione.
12
“lineare” significa che presi due qualsiasi istanti tA e tB esiste una relazione R tale che o tARtB o tBRtA; se tARtB allora
non tBRtA e viceversa se tBRtA non tARtB; se tARtB e tBRtC, allora tARtC. Cioè R è totale, antisimmetrica e transitiva. Per gli
istanti del tempo fisico (se non prendiamo in considerazione le curve di tipo tempo chiuse della relatività generale) R
esiste, cioè “prima di” o “dopo di”.
7
Risolto il paradosso della dicotomia diventa relativamente facile affrontare il più
famoso degli argomenti di Zenone, cioè quello della corsa fra Achille e la tartaruga.
Lo scrittore sudamericano Augusto Monterroso racconta che Achille arrivò al
traguardo un decimiliardesimo di secondo dopo la tartaruga bestemmiando contro un
certo Zenone! L’argomento può essere così formulato:
v v2 v n1
d,d , d 2 ,....d n1 ,..... (5)
V V V
La soluzione del paradosso è molto simile alla precedente 14. Bisogna prima di tutto
argomentare a favore della densità del tempo. Occorre quindi introdurre una metrica
per il tempo. Bisogna poi mostrare che gli intervalli di tempo sono sommabili come i
numeri che corrispondono alle loro lunghezze. Infine è necessario mostrare che la
somma degli intervalli temporali:
non supera mai un certo limite finito. Le prima tre fasi della soluzione sono uguali a
quelle già proposte per la dicotomia, mentre per la quarta si procede con un metodo
simile, che ora presenteremo.
13
Per capire questi semplici calcoli basta ricordare che la velocità media di un corpo è uguale allo spazio percorso
diviso il tempo trascorso, per cui lo spazio percorso a una certa velocità costante è uguale al tempo trascorso per la
velocità.
14
Si veda Grünbaum, op. cit., pp. 105-109. Anche Aristotele ne è consapevole, quando afferma “Questo ragionamento
[l’Achille] è appunto quello della dicotomia […]”, Phys. 239b 17.
8
Sostituendo i valori dei tempi abbiamo:
d dv dv 2 dv n1
... n ... (7)
V V2 V3 V
d dv dv 2 dv n1
Tn 2 3 ... n (8)
V V V V
v dv dv 2 dv 3 dv n1 dv n
Tn 2 3 4 ...... n n1 (9)
V V V V V V
v d dv n
Tn Tn n1 (10)
V V V
d vn
Tn (1 n )
V v V
Da cui si vede facilmente che Tn non diventerà mai maggiore di d/V-v. E in effetti
d/V-v è esattamente il tempo che Achille ci impiega per raggiungere la tartaruga.
Questo significa che il ragionamento di Zenone dimostra solamente che Achille non
raggiungerà mai la tartaruga nell’intervallo temporale d/V-v il che è assolutamente
ovvio15.
LO STADIO
La fonte principale per questo argomento è la Fisica di Aristotele che recita così:
15
Che Aristotele fosse consapevole della logica sottostante alla soluzione del paradosso di Achille, anche se forse non
di tutti i dettagli matematici, è desumibile dalla sua conclusione dell’analisi dell’argomento di Achille: “Ma in realtà è
falso ritenere che ciò che precede non venga raggiunto: infatti, solo fin quando precede, non viene raggiunto.” Phys.,
239b 26 (ovviamente il corsivo è nostro).
9
Stian ferme le masse uguali AA; invece le masse BB, uguali alle prime per numero e
per grandezza, comincino a muoversi dalla metà; e, ancora, le masse ΓΓ, uguali alle
precedenti per numero e per grandezza, comincino a muoversi dalle estremità, e si
muovano con la stessa velocità di B. (Phys. 240a 4-9)
Direi che le tre masse in questione possono essere rappresentate come tre regoli di
lunghezza uguale e divisi in due parti contigue 16. Però, contrariamente a quanto si
suppone, appare che i tre regoli alla partenza sono così disposti:
AA
BB
ΓΓ
Sembra, infatti, che BB parta perfettamente allineato con AA, così come Aristotele
dice anche in Phys. 239b 35, dove le masse si muovono da in mezzo allo stadio
(indicato con la linea verticale tratteggiata). Per contro le ΓΓ si muovono dalle
estremità, nel senso che vengono collocate o alla estrema sinistra o all’estrema destra
di AA. Infatti in questa versione il regolo AA fa le funzioni che nella prima
esemplificazione di Aristotele faceva lo stadio, cioè il sistema fermo. Inoltre
sappiamo da 239b 34 che le velocità sono in senso opposto, come segnato nella figura
con le frecce.
Aristotele prosegue:
Questa frase sembra che voglia dire che avviene il seguente movimento:
16
Come fa K. Davey, “Aristotle, Zeno and the stadium paradox”, History of Philosophy Quarterly, 24, 2007, pp. 127-
148, articolo al quale faremo riferimento e che è una svolta negli studi sull’argomento.
10
AA
BB
ΓΓ
Ovvero la testa di BB e la testa di ΓΓ, indicate con la punta della freccia, che erano
allineate all’inizio, adesso sono allineate con l’altra estremità di ΓΓ e di BB
rispettivamente.
Aristotele continua:
Accade pure che Γ abbia compiuto il percorso lungo tutti i [B] nella loro interezza,
mentre B avrà compiuto il percorso lungo la metà degli [A]. (Phys. 240a 11-12)17
AA
X
BB
Y
ΓΓ
17
Il B fra parentesi quadre compare nella tradizione del testo pur essendo stato espunto, mentre l’A è un’aggiunta molto
ragionevole di Russo.
11
AA
BB X
Y
ΓΓ
Ma allora non si comprende bene che cosa significhi che BB parte dalla metà e ΓΓ
dalle estremità, dato che i due corpi sarebbero perfettamente simmetrici rispetto ad
AA18. Comunque la questione non è molto importante ai fini dell’argomento.
A questo punto viene il passaggio di difficile interpretazione:
Sicché anche il tempo è dimezzato, perché ciascuna [sua] parte è uguale in relazione
a ciascuna [massa]. (Phys. 240a 13)19
Il paralogismo sta nel supporre che una uguale grandezza venga spostata con uguale
velocità in un tempo uguale sia lungo ciò che è mosso sia lungo ciò che è in quiete.
(Phys. 240a 1-4)
Se così fosse, però, Zenone avrebbe commesso una fallacia indegna della sua
acutezza. Inoltre Aristotele non confronta BB con AA e con ΓΓ, ma ΓΓ con BB BB
con AA. Solo dopo dirà che BB percorre tutto ΓΓ; adesso ha detto esclusivamente
che ΓΓ ha percorso tutto BB. Certo è un’ovvia conseguenza, ma lo stagirita ha
esplicitato la reciproca.
Per contro, altri20 hanno interpretato l’argomento come una dimostrazione
dell’impossibilità del moto in una concezione atomista del tempo e dello spazio.
Vediamo come funziona.
18
Così la intende Davey, op. cit.
19
La traduzione letterale sarebbe “Infatti ciascuno dei due è uguale accanto a ciascuna.” Il primo “ciascuno si riferisce a
due, e quindi non possono che essere le due masse B e Γ; il secondo sembra riferirsi a ciascuna parte di tempo, come
interpretato da Russo.
20
G. Owen, “Zeno and the mathematicians”, Proceedings of the Aristotelian Society, 58, 1957, pp. 199-222.
12
Le masse devono essere almeno tre e ognuna collocata in una celletta spaziale
indivisibile. La situazione di partenza potrebbe essere questa:
A1 A2 A3 A4
B1 B2 B3 B4
Γ1 Γ2 Γ3 Γ4
Il tempo è diviso in istanti. Dopo un istante di moto ogni massa si sposterebbe di una
casella, di modo che si raggiungerebbe la seguente disposizione:
A1 A2 A3 A4
B1 B2 B3 B4
Γ1 Γ2 Γ3 Γ4
Da cui risulta che la massa B4 è prima allineata con A2 e poi con A3, il che è del tutto
regolare. Tuttavia la massa Γ1, ad esempio, all’inizio non è allineata con nessun B,
mentre dopo un istante sarebbe allineata direttamente con B 3, avendo saltato B4.
Questo salto sarebbe paradossale rispetto al fatto che le masse Γ e B scorrono una a
fianco dell’altra.
Di tale interpretazione non vi è traccia nel testo aristotelico, per cui, per renderla
coerente con le fonti, bisognerebbe ipotizzare o che Aristotele non avesse capito
l’argomento di Zenone, oppure che non avesse una fonte affidabile riguardo a questo
paradosso. Entrambe le ipotesi sono fortemente congetturali.
Vale la pena riflettere brevemente sulla soluzione del paradosso appena presentato 21.
Alcuni sostengono che l’errore nell’argomento pseudo-zenoniano starebbe nel fatto
che solo in un tempo denso ci dovrebbe essere necessariamente un istante in cui Γ 1 e
B4 sono allineati. In un tempo discreto, invece, possono esserci dei salti del genere
nel moto. In realtà questa analisi non è convincente, perché in una configurazione del
moto diversa può accadere che Γ1 e B4 siano allineati. Di fatto l’evento Γ1 e B4
allineati non si verifica perché la velocità relativa di B e Γ è di due celle spaziali per
ogni istante. Per cui anche in questo caso si giunge infine al solito problema della
velocità.
21
Seguendo le osservazioni di Grünbaum, op. cit. pp. 117ss.
13
Seguendo una linea simile a quella di Davey (op. cit.), proporrei questa
riformulazione del paradosso dello stadio, che ha molteplici vantaggi:
INIZIO FINE
MOTO MOTO
AA
X
BB
Y
ΓΓ
Chiamiamo X la parte più a destra di BB e Y la parte più sinistra di ΓΓ. Dunque, per
ipotesi X è lunga come Y. Allora vale: ogni parte lunga d nella metà destra di AA
transita per X durante il moto.
5. Dunque, per 3., il numero di parti di tempo T di moto è uguale al numero di d
contenuti nella metà destra di AA, cioè, per 2., N/2.
6. In analogia con 4. vale: ogni parte lunga d di BB transita per Y durante il moto.
22
Sappiamo che una riformulazione rigorosa di questa affermazione richiederebbe il concetto di insieme denso. Tuttavia
in questa parte del lavoro non ci stiamo occupando solo della soluzione del paradosso, ma anche della sua storicità, per
cui è meglio utilizzare delle nozioni più vicine alla concettualizzazione di quel tempo.
14
7. Dunque, per 3., il numero di parti di tempo T del moto è uguale al numero di parti
di BB lunghe d, cioè, per 2., N.
8. Dunque il numero di parti di tempo T che dura il moto è sia N che N/2. E questo
vale per qualsiasi N.
IL PARADOSSO DELL’ESTENSIONE
23
Angelo sostiene che così gli antichi dicono, anche se a noi sembra che se la metà è uguale al doppio, risulterebbe che
è un quarto.
15
Torniamo a una considerazione meramente analitica dei paradossi di Zenone e
prendiamo in considerazione l’argomento sulla divisibilità infinita dello spazio (De
generatione et corruptione 316a 19). L’argomento può essere così riformulato:
Prima di procedere dobbiamo esaminare con una certa cura il punto 2. Dobbiamo
cioè chiederci come si determina la lunghezza di un segmento. La procedura
l’abbiamo già vista in precedenza a grandi linee. Dobbiamo costruire una
corrispondenza biunivoca fra i numeri reali e i punti della retta su cui giace il
24
Si tenga presente che dal punto di vista percettivo ogni segmento non è infinitamente divisibile, perché vi è una soglia
della percezione.
25
Se avesse lunghezza finita, allora risulterebbe che il segmento L è infinitamente lungo.
16
segmento e fra l’ordine “<” o “>” fra numeri e l’ordine dei punti sulla retta. Dopo di
che stabiliamo che la lunghezza del segmento è data dalla differenza fra i numeri
associati ai suoi due estremi, cioè se a un estremo del segmento corrisponde il
numero a e all’altro il numero b e b>a allora la lunghezza sarà data dal numero b-a.
Da questa definizione deriva che la lunghezza di un punto è “0”, dato che in esso a
coincide con b. Un punto è una specie di segmento degenerato.
Detto questo, dobbiamo esaminare ora il punto 3. E’ abbastanza facile sommare le
lunghezze di un insieme infinito di segmenti associando, come abbiamo già visto, alla
somma di due o più lunghezze la somma dei corrispettivi numeri determinati con il
metodo appena delineato. Per esaminare meglio, il nostro caso, dobbiamo però
chiederci che cosa significhi sommare un insieme infinito di segmenti. E’ possibile
definire una somma infinita di numeri quando abbiamo a che fare con l’infinto
numerabile. Ma, come ha dimostrato Cantor, non esiste solo l’infinito numerabile, ma
anche quello non numerabile.
Fin dai tempi di Galileo26 e ancora nell’opera di Leibniz e Bolzano, l’infinito attuale
veniva considerato un’entità paradossale. Già Aristotele aveva distinto fra l’infinito in
potenza, che di fatto è una sorta di ecceterazione o di indefinitezza, cioè, ad esempio,
che dato un numero naturale grande a piacere è sempre possibile trovarne uno più
grande, e l’infinito in atto che consisterebbe in una effettiva infinità di elementi. E’
quest’ultimo la fonte dei paradossi, non il primo che ha sempre avuto diritto di
cittadinanza in matematica e filosofia. In particolare, l’infinito attuale ha la
spiacevole caratteristica di violare uno degli assiomi fondamentali del pensiero
matematico fin dai tempi di Euclide (Libro I, Nozioni comuni, 8), cioè che il tutto è
maggiore della parte. Vediamo come. Si dice che due insiemi sono equinumerosi se è
possibile costruire una corrispondenza biunivoca fra loro. Ad esempio {Gigi, Marina,
Filippo} e {1,2,3} sono equinumerosi. Il numero di elementi che compongono un
insieme viene chiamato la sua cardinalità.
Ora consideriamo i seguenti tre insiemi: i numeri naturali N, i numeri naturali N
senza i primi 1000 elementi e i numeri naturali pari. Fra essi è possibile costruire una
corrispondenza biunivoca nella maniera seguente:
N 1 2 3 4 5 6 7 . .
N:n>1000 1.001 1.002 1.003 1.004 1.005 1.006 1.007 . .
N: n pari 2 4 6 8 10 12 14 . .
Questo significa che i tre insiemi sono equinumerosi, cioè hanno la stessa cardinalità.
Ma ciò è paradossale, perché i numeri pari e i numeri naturali maggiori di 1000 sono
sottoinsiemi propri di N. Cioè sembra che il tutto e la parte siano uguali!
26
G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni su due nuove scienze, Giornata prima.
17
Sarà Georg Cantor a far diventare una risorsa quello che sembrava un paradosso. Egli
infatti definirà un insieme infinito proprio quando ha la proprietà di poter essere
messo in corrispondenza biunivoca con un suo sottoinsieme proprio.
Si dice che un insieme A è numerabile se e solo se può essere posto in
corrispondenza biunivoca con i numeri naturali N (cardinalità 0)אּ. A questo punto ci
poniamo la domanda: tutti gli insiemi infiniti hanno la stessa cardinalità?
Consideriamo l’insieme G costituito da tutte le successioni infinite di 0 e 1.
Indichiamo con sij il j-esimo elemento della successione si. Consideriamo allora la
seguente tabella infinita, che elenca tutte le successioni e i loro membri:
Definiamo ora una successione d=d1, d2, d3, d4.......in modo che se sii=0, allora di=1 e
se sii=1 allora di=0. E’ chiaro che la successione d non compare nella tabella, perché è
diversa da s0 nell’elemento s00, è diversa da s1 nell’elemento s11 ecc. Il che è contro
l’ipotesi. Quindi non esiste una corrispondenza biunivoca fra G e i numeri naturali.
Da questo straordinario ragionamento nasce quasi tutta la riflessione di cui qui
discutiamo.
Cantor dimostrò una prima volta questo teorema mediante altri metodi più complessi;
tuttavia nel 1894, quando ormai era attanagliato da una grave crisi depressiva
27
Nelle dimostrazioni per assurdo si procede nella maniera seguente: poniamo che si voglia dimostrare A, allora si
ipotizza che valga non A, dal che si deduce una contraddizione, allora, se vale il terzo escluso, si può dedurre A. Non
tutti i matematici accettano questo tipo di dimostrazioni.
18
pubblicò questo metodo semplice ed elegante per dimostrare la più che numerabilità
dei numeri reali.
La cardinalità di un insieme è sostanzialmente il numero dei suoi elementi. Il teorema
precedente ha mostrato che esistono diverse cardinalità infinite, cioè quella
numerabile dei numeri naturali e quella più che numerabile delle successioni infinite
di 0 e 1. Si può dimostrare che la cardinalità di G è uguale a quella dei numeri reali,
che, a sua volta, è uguale a quella dei punti di un segmento 28. Per cui tale cardinalità
viene chiamata del continuo (C)29. In realtà non esistono solo due cardinalità infinite
(transfinite), ma se ne possono costruire quante se ne vuole.
Una somma infinita nel senso numerabile di zeri dà senz’altro “0”, ma, dobbiamo
chiederci, vale lo stesso per una somma infinita più che numerabile di punti?
Notiamo innanzitutto che il segmento non contiene una quantità numerabile di punti,
perché, come era già noto agli antichi, ci sono segmenti lunghi 2 , che certo non è
un numero razionale. Vale la pena presentare brevemente la dimostrazione, già nota
ad Aristotele (An. Pr.¸41° 27), come spiegato dal suo commentatore Alessandro di
Afrodisia, (An 260, 9-261, 28). Consideriamo un quadrato di lato L:
28
Il teorema della diagonale si può utilizzare anche per dimostrare la non numerabilità, ad esempio, di tutti i numeri
compresi fra 0 e1; abbiamo però scelto le serie infinite di 0 e 1, perché così risalta meglio l’analogia con il teorema della
fermata di Turing.
29
Resta ancora aperto il problema della cosiddetta “ipotesi del continuo”, cioè l’ipotesi che fra 0 אּe C non ci siano altri
numeri transfiniti. Cohen ha dimostrato che con i metodi matematici attuali la questione è indecidibile.
19
Dunque anche p2 è pari. Ma per ipotesi p2 e n2 sono primi fra loro, perciò n2 deve
essere dispari e avevamo appena dimostrato che doveva essere pari. Quindi n e p non
esistono. Ovvero la diagonale di un quadrato non è commensurabile al suo lato.
Questo significa che in un segmento ci sono punti che non corrispondono a un
numero razionale; dunque, se vogliamo conoscere la lunghezza del segmento,
dobbiamo sommare un numero infinito più che numerabile di punti. Questo è
aritmeticamente impossibile. Lo si vede bene dalla seguente figura:
Dove risulta che non esiste una retta che passi per il segmento più lungo ma non per
quello più corto e abbia l’origine nel punto O. Questo vuol dire che abbiamo costruito
una corrispondenza biunivoca fra i punti dei due segmenti. Ovvero che segmenti di
lunghezza diversa sono equinumerosi. Per cui la lunghezza di un segmento non
dipende dal numero dei suoi elementi. Arriviamo quindi alla conclusione che il
passaggio 3. del precedente argomento non è valido e così abbiamo eliminato il
paradosso.
Teniamo anche presente, che per fare della fisica matematizzata, che si basa sulla
rappresentazione di un segmento mediante infiniti punti, dobbiamo assumere che lo
spazio, e qualsiasi altra grandezza fisica, sia divisibile in un insieme più che
numerabile di punti, proprio per evitare il paradosso di Zenone. Per cui, benché i
risultati della misurazione siano sempre dei numeri razionali, per questa ragione la
fisica deve presupporre l’esistenza del continuo.
20
Platone racconta che Zenone di Elea fosse amante di Parmenide, oltre che suo allievo.
Di certo egli introdusse i suoi celebri paradossi per portare all’assurdo le opinioni
diverse da quelle del suo maestro, il quale sosteneva la completa illusorietà della
pluralità degli enti e del divenire30.
Fra i più noti è senz’altro il paradosso della freccia, secondo il quale una freccia che
vola, in ogni istante occupa un singolo luogo; ma se qualcosa occupa un singolo
luogo, allora è immobile, dunque la freccia che vola è immobile31.
Per discutere meglio la questione, possiamo riformulare l’argomento di Zenone
seguendo in parte lo schema proposto recentemente da Sheldon Smith32:
30
Huggett, 2004.
31
Si veda Aristotele, Fisica. 239b 30).
32
Smith, 2003.
33
Caratheodory, 1963.
34
Al riguardo si veda Arntzenius, 2000.
35
Al riguardo vedi però Smith, 2003.
36
Rimandiamo ad Arntzenius 2000 anche per i riferimenti storici. Grünbaum, 1967, p. 39 concorda con Russell.
21
teoria è molto contro-intuitiva, in quanto impedisce qualsiasi nozione di causalità.
Infatti, se in un certo istante la freccia è immobile, non si comprende per quale
ragione in un istante successivo dovrebbe trovarsi da un’altra parte e perché proprio
in quel luogo in cui la troviamo effettivamente.
Fra tutte, la strada più praticabile sembra essere quella di negare 3, tanto più che la
meccanica newtoniana consente di definire la velocità istantanea, ovvero la derivata
rispetto al tempo della funzione che descrive il moto della freccia calcolata in un
punto. Se, infatti, la freccia, in accordo con la sua descrizione meccanica, in ogni
istante, pur occupando una precisa regione dello spazio, ha una velocità determinata,
allora essa si sta muovendo, contro la 3.
Il concetto di velocità istantanea non è, tuttavia, così scevro da problemi come
sembrerebbe. Cerchiamo, dunque, di discutere criticamente tale nozione nel contesto
della fisica classica.
gt 2
(1) s ,
2
d 2s
g,
dt
ds
gt
dt
s2 s1
vm .
t 2 t1
s
(2) vi lim t 0 .
t
Questa maniera di ragionare va incontro a una critica assai semplice, messa in luce da
Geoge Berkeley nel suo The Analyst.38 Il rapporto incrementale espresso dalla (2) si
avvale dell'idea che trascorra un tempo infinitesimo. Ora, è questo concetto di
infinitesimo che incorre in una contraddizione. Se, infatti, vogliamo calcolare un
rapporto incrementale, dobbiamo condurre il nostro conto ammettendo che
37
Aristotele, Fisica, 234a 24ss. Aristotele conclude dicendo che "necessariamente, dunque, solo nel tempo il mosso si
muove e il quieto riposa".
38
Berkeley, 2004. Si veda a tal proposito la nitida esposizione di Neri, 1991, pp. 184ss.
23
l'infinitesimo, pur piccolo, sia diverso da zero, poiché, se fosse zero, la (2) perderebbe
il suo senso matematico. D'altronde alla fine questo infinitesimo, se veramente
vogliamo calcolare la velocità istantanea, deve essere uguale a zero. Per cui il calcolo
infinitesimale è avviluppato in una semplice contraddizione, in quanto si avvale di
una grandezza - l'infinitesimo - che è sia uguale a zero sia diversa da zero39.
Questa semplice osservazione, che ispira le sottili analisi di Berkeley, rimane una
spina nel fianco dell'analisi infinitesimale fino a quando la nozione di limite guadagna
una definizione chiara ed esente da contraddizioni con Cauchy. In questa diversa
prospettiva, il senso della (2) assume un esplicito connotato relazionale. Il limite per
Dt che tende a 0 di Ds/Dt è quel numero l tale che:
s
(3) 0 0: 0 t l .
t
Una definizione il cui senso è che l è il limite del rapporto incrementale per D t che
tende a 0 quando, preso un numero piccolo quanto si vuole , si riesce sempre a
trovare un valore di Dt tale che, per qualsiasi incremento più piccolo di Dt, la
differenza fra il rapporto incrementale e l sia più piccola del numero piccolo che
abbiamo scelto.
In questo modo il concetto di infinitesimo viene sostanzialmente bandito dall'analisi e
sostituito da quello di limite inteso come una relazione.
Una definizione di velocità istantanea che si avvale di questo concetto non incappa
più nella critica formulata da Berkeley. D'altra parte, qualcosa che le prime
formulazioni del calcolo infinitesimale avevano cercato di esprimere mediante il
formalismo matematico è andato perso, in quanto non si può più dire che la velocità
istantanea così definita sia ancora veramente istantanea.40
In altre parole, se definiamo la velocità istantanea mediante il concetto di derivata,
basando questa ultima nozione su quella di limite nel senso di Cauchy 41, allora essa
non è una vera e propria velocità istantanea, in quanto descrive qualcosa che è
comunque una velocità media. Sul piano dell'esperienza, dunque, il movimento e la
velocità sono necessariamente legati al trascorrere del tempo, come voleva Aristotele;
e nella teoria possiamo utilizzare convenientemente il termine teorico velocità
istantanea, ma esso non sembra avere una corrispondente entità.
39
Alcuni, come Bodei, 1975, sostengono addirittura che questa contraddittorietà, messa in luce da Carnot, 1797, sia alla
radice della dialettica hegeliana.
40
Si veda ancora Neri, 1991, pp. 175-6. Qualcosa di analogo dice anche Russell, 1903, par. 447 e Russell, 1929, nonché
Courant, Robbins, 1941, p. 453. La questione è stata affrontata con grande acume da Arntzenius, 2000, contro il quale è
intervenuto Smith, 2003, con argomenti che vanno ulteriormente esaminati, ma a una prima indagine non sembrano
convincenti.
41
Bisogna tenere presente che Mclaughlin, Miller, 1992, propongono una soluzione del paradosso della freccia basato
sull’analisi non standard di Robinson, che andrebbe discusso adeguatamente.
24
Il futuro del paradosso
42
Simplicio, 1895, 1012, 22.
43
E’ questo quello che viene chiamato “solvitur ambulando”, cioè si risolve passeggiando.
44
Huggett, 2004.
45
Diels e Kranz, 1952, 24A.
46
Vedi Critica della Ragion Pura, A427, B455.
25
Alla fine di un articolo su questa tematica, Arntzenius47 nota che occorre ancora
indagare il significato della meccanica quantistica in relazione al paradosso della
freccia. Diamo un breve cenno al riguardo.
Il fatto che la velocità istantanea sia un termine strumentale privo di realtà potrebbe
suggerire un'interpretazione del paradosso di Zenone sulla freccia che vada a
giustificare filosoficamente il principio di indeterminazione, come ha sostenuto de
Broglie:
In pratica, de Broglie, inquadrato nel nostro schema del paradosso della freccia,
sembra affermare che il principio di indeterminazione fra la posizione e il momento
di una particella implichi la negazione della premessa 2, cioè che una particella in
movimento occupi una posizione precisa nello spazio. Però il fatto che la particella
sia in movimento non implica che abbia una velocità determinata, per cui in questo
senso il principio di Heisenberg non può aiutare a risolvere il paradosso. Si potrebbe
sostenere allora che in conseguenza del principio di indeterminazione neanche la
premessa 3 sarebbe valida, perché non si può attribuire una velocità determinata, cioè
“0”, a una particella che occupa una posizione precisa nello spazio. Questo però non
vuol dire che la sua velocità sia diversa da zero, ma semplicemente che è
indeterminata. In pratica ne seguirebbe che la premessa 3. sarebbe un non sequitur.
Questo tipo di argomento è riconducibile alla teoria at-at, secondo cui non avrebbe
senso parlare di movimento istantaneo e non per questo la particella sarebbe
immobile.
47
Arntzenius, 2000.
48
De Broglie, 1947, p. 134.
26
1. Ogni intervallo di tempo è divisibile in un numero infinito più che numerabile di
istanti indivisibili.
2. Una freccia in movimento in ogni istante occupa una porzione definita di spazio.
3. Se un oggetto occupa una porzione definita di spazio, non è determinato se sia in
movimento o meno.
4. Tuttavia la freccia è in luoghi diversi in tempi diversi, per cui globalmente è
comunque in movimento.
Abbiamo già visto che questo modo di affrontare il problema ha come conseguenza
l’impossibilità di una spiegazione causale del moto. Inoltre tale prospettiva è poco
ragionevole anche in considerazione del fatto che, secondo la meccanica quantistica,
la particella con posizione determinata, prima di essere misurata, ha comunque uno
stato che può essere descritto anche nello spazio dei momenti, per cui in generale non
è priva di uno stato dinamico.
Dunque, in prima istanza, sembra che la descrizione quantistica del mondo non
risolva il paradosso della freccia che ancora oggi come nell’antichità offre agli
studiosi un problema con cui confrontarsi.
Riferimenti
27
Grünbaum A., 1967, Zeno’s paradoxes and modern science, Middletown:
Connecticut Wesleyan University Press.
Huggett N., 2004, “Zeno’s paradoxes”, http://plato.stanford.edu/entries/paradox-
zeno/ .
Kant E., 1995, Critica della ragion pura, Adelphi.
Mclaughlin W.I., Miller S.L., 1992, “An epistemological use of non-standard analysis
to answer zeno’s objections against motion”, Synthese, 92, pp. 371-384.
Neri L., 1991, George Berkeley. Filosofia e critica dei linguaggi scientifici, Bologna,
CLUEB.
Robinson, A., 1996, Non-standard Analysis, Princeton University Press, Princeton.
Russell B., 1903, Principles of Mathematics, Cambridge, Cambridge University
Press.
Russell B., 1929, “La matematica e I metafisici”, in Misticismo e logica, Milano,
Longanesi, 1964, pp. 98-125.
Simplicio, 1895, In Aristotelis Physicorum libros commentaria, a cura di . H. Diels,
Berlino.
Smith S.R., 2003, “Are instantaneous velocities real and really instantaneous? An
argument for the affirmative”, Studies in History and Philosophy of Physics, 34, pp.
261-280.
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