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Qyodlibet

Giorgio Agamben
Che cos' la filosofia?

Alla domanda che cos' la filosofia - una questione che si pone


tardi e di cui si pu parlare solo fra amici - Agamben, in questo libro
che in qualche modo una

summa

del suo pensiero, non risponde

direttamente, ma attraverso cinque saggi, ciascuno dei quali presenta


una sorta di emblema: la Voce, il Dicibile, l'Esigenza, il Proemio, la
Musa. In ognuno dei testi, secondo un gesto che definisce il metodo di

Agamben, l'indagine archeologica e quella teorica si intrecciano stret


tamente: alla paziente ricostruzione del modo in cui stato inventato
il concetto di lingua, fa riscontro il tentativo di restituire il pensiero
al suo luogo nella voce; a una inedita interpretazione dell'idea pla
tonica, corrisponde una lucida situazione del rapporto fra filosofia
e scienza e della crisi decisiva che entrambe stanno attraversando nel
nostro tempo. E, alla fine, la scrittura filosofica - un problema sul
quale Agamben non ha mai cessato di riflettere - assume la forma di
un proemio a un'opera che deve restare non scritta.

ISBN

16,oo

euro

978-88-7462-791-2

Il Ili Il l Il l

9 788874 627912

Giorgio Agamben

Che cos' la filosofia?

Q!odlibet

Indice

p.

Avvertenza

Che cos' la filosofia?


II

Experimentum vocis

47

Sul concetto di esigenza

57

Sul dicibile e l'idea

I23

Sullo scrivere proemi

I33

Appendice
La musica suprema. Musica e politica

2016 Quodlibet srl


Macerata, via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 2 3
www.quodlibet.it

I 47

Riferimenti bibliografici

I 53

Indice dei nomi

Avvertenza

In che senso i cinque testi qui raccolti contengano un'idea


della filosofia, che risponde in qualche modo alla domanda
del titolo del libro, risulter evidente - se lo risulter - solo a
chi ne avr fatto in spirito di amicizia la lettura. Com' stato
detto, chi si trova a scrivere in un'epoca che, a torto o a.ra
gione, gli appare barbara, deve sapere che le sue forze e la sua
capacit di espressione non sono per questo accresciute, ma,
semmai, diminuite e logorate. Poich tuttavia, non pu fare
diversamente e il pessimismo gli per natura estraneo - n,
d'altra parte, gli pare di poter ricordare con certezza un tem
po migliore - l'autore pu soltanto affidarsi a chi avr pro
vato le sue stesse difficolt - in questo senso, a degli amici.
A differenza degli altri quattro testi, che sono stati scritti
nel corso degli ultimi due anni, Experimentum vocis ripren
de e svolge in una nuova direzione appunti della seconda met
degli anni Ottanta del XX secolo, che appartengono pertanto
allo stesso contesto in cui sono nati La cosa stessa, Tradizione
dell'immemorabile e ':se. L'assoluto e l'Ereignis (poi raccolti
in La potenza del pensiero, Vicenza 2005 ) e Experimentum
linguae, ripubblicato come prefazione alla nuova edizione di
Infanzia e storia (Torino 2001).

Che cos' la filosofia?

Experimentum vocis

I.

un fatto su cui non ci si dovrebbe stancare di riflettere


che - bench vi siano state e vi siano in ogni tempo e luogo
societ i cui costumi ci paiono barbari o comunque inac
cettabili e gruppi, pi o meno numerosi, di uomini dispo
sti a mettere in questione ogni regola, ogni cultura e ogni
tradizione; bench, inoltre, siano esistite ed esistano societ
integralmente criminali e non vi sia, del resto, alcuna norma
e alcun valore sulla cui vigenza tutti gli uomini riuscireb
bero a trovarsi unanimemente d'accordo - tuttavia non vi
n vi mai stata alcuna comunit o societ o gruppo che
abbia deciso di rinunciare puramente e semplicemente al
linguaggio. Non che i rischi e i danni impliciti nell'uso del
linguaggio non siano stati avvertiti pi volte nel corso della
storia: comunit religiose e filosofiche, a Occidente come a
Oriente, hanno praticato il silenzio - o, come dicevano gli
scettici, l' afasia - ma silenzio e afasia non erano che una
prova verso un miglior uso del linguaggio e della ragione e
non un'incondizionata dimissione di quella facolt di parla
re che, in ogni tradizione, sembra inseparabile dall'umano.
Cos ci si spesso interrogati su come gli uomini ab
biano incominciato a parlare, proponendo sull'origine del

I4

CHE C O S ' LA FILOSOFIA ?

linguaggio ipotesi manifestamente incontrollabili e prive di


ogni rigore; ma non ci si mai chiesti perch essi continuino
a farlo. Eppure l'esperienza semplice: noto che se il bam
bino non esposto in qualche modo al linguaggio entro gli
undici anni di et, egli perde irreversibilmente la capacit
di acquisirlo. Fonti medievali ci informano che un esperi
mento del genere sarebbe stato tentato da Federico Il, ma
lo scopo era tutt'altro: non gi la rinuncia alla trasmissione
del linguaggio, bens, al contrario, proprio il desiderio di
conoscere quale fosse la lingua naturale dell'umanit. Il ri
sultato dell'esperimento basta da solo a destituire di ogni
attendibilit le fonti in questione: i bambini, accuratamente
privati di ogni contatto col linguaggio, avrebbero sponta
neamente parlato l'ebraico (o, secondo altre fonti, l'arabo).
Che questo esperimento non sia mai stato tentato, non
solo nei lager nazisti, ma nemmeno nelle comunit utopiche
pi radicali e innovatrici, che nessuno - nemmeno fra coloro
che non avrebbero esitato un istante a togliergli la vita - ab
bia mai osato assumersi la responsabilit di togliere all'uomo
il linguaggio, ci sembra provare oltre ogni dupbio il legame
inscindibile che sembra vincolare l'umanit alla parola. N ella
definizione che vuole che l'uomo sia il vivente che ha il lin
guaggio, l'elemento decisivo non , secondo ogni evidenza,
la vita, ma la lingua.
Eppure gli uomini non saprebbero dire che cosa sia per
essi in questione nel linguaggio come tale, nel puro fatto
che essi parlino. Bench avvertano pi o meno oscuramen
te quanto sia inutile usare la parola nel modo in cui per lo
pi fanno, spesso a vanvera e senza avere nulla da dirsi o
per farsi del male, ostinatamente continuano a parlare e a
trasmettere ai propri figli il linguaggio, senza sapere se ci
sia il bene pi alto o la peggiore delle sventure.

EXPERIMENTUM VO CIS

2.
Partiamo dall'idea dell'incomprensibile, di un essere in
teramente senza rapporto col linguaggio e con la ragione,
assolutamente indiscernibile e irrelato. Come potuta na
scere una simile idea ? In che modo possiamo pensarla ? Un
lupo, un istrice, un grillo avrebbero forse potuto concepir
la ? Diremmo noi che l'animale si muove in un mondo che
per lui incomprensibile ? Come non riflette sull'indicibile,
cos nemmeno il suo ambiente pu apparirgli tale: tutto in
esso gli fa segno e gli parla, tutto si lascia selezionare e inte
grare e ci che non lo riguarda in alcun modo per lui sem
plicemente inesistente. D'altra parte, la mente divina per
definizione non conosce l'impenetrabile, la sua conoscenza
non incontra limiti, tutto - anche l'umano, anche la materia
inerte - per essa intellegibile e trasparente.
Dobbiamo dunque guardare all'incomprensibile come
a un'acquisizione esclusiva dell 'homo sapiens, all'indicibile
come a una categoria che appartiene unicamente al linguag
gio umano. Il carattere proprio di questo linguaggio che
esso stabilisce una particolare relazione con l'essere di cui
parla, comunque lo abbia nominato e qualificato. Qualsiasi
cosa nominiamo e concepiamo, per il solo fatto di essere
stata nominata gi in qualche modo pre-supposta al lin
guaggio e alla conoscenza. questa l'intenzionalit fonda
mentale della parola umana, che gi sempre in relazione
con qualcosa che presuppone come irrelato.
Ogni posizione di un principio assoluto o di un al di l del
pensiero e del linguaggio deve fare i conti con questo caratte
re presupponente del linguaggio: essendo sempre relazione,
esso rimanda a un principio irrelato che esso stesso a presup
porre come tale (ovvero, nelle parole di Mallarm: il Verbo

C H E COS ' L A FILOSOFIA ?

16

un principio che si sviluppa attraverso la negazione di ogni


principio - cio, attraverso la trasformazione del principio in
presupposto, dell'px{J in ipotesi). E questo il mitologema
originario e, insieme, l'aporia cui si urta il soggetto parlante: il
linguaggio presuppone un non linguistico, e questo irrelato
presupposto dandogli, per, un nome. L'albero presupposto
al nome albero non pu essere espresso nel linguaggio, si
pu solo parlare di esso a partire dal suo aver nome.
Ma allora che cosa pensiamo quando pensiamo un essere
interamente senza rapporto col linguaggio ? Quando il pen
siero cerca di afferrare l'incomprensibile e l'indicibile, esso
cerca in verit di afferrare precisamente la struttura presup
ponente del linguaggio, la sua intenzionalit, il suo essere
in relazione a qualcosa, che si suppone esistente fuori dalla
relazione. E un essere interamente senza rapporto col lin
guaggio possiamo pensarlo solo attraverso un linguaggio
senza alcun rapporto con l'essere.

nella struttura della presupposizione che si articola l'in


treccio di essere e linguaggio, mondo e parola, ontologia e
logica che costituisce la metafisica occidentale. Col termine
presupposto designiamo qui il soggetto nel suo signifi
cato originale: il sub-iectum, l'essere che, giacendo prima e al
fondo, costituisce ci su cui - sulla cui pre-sup-posizione - si
parla e si dice e che non pu, a sua volta, essere detto su
nulla (la 1tp <'tll ocria o 1'\ntoKEiEvov di Aristotele) . Il ter
mine presupposto pertinente: U1tOKcicr8at vale infatti
come perfetto passivo di U1ton8vat, lett. porre sotto,
e U1tOKEiEvov significa pertanto ci che, essendo stato

EXPERIMENTUM VO CIS

17

sup-posto, giace a fondamento di una predicazione. In


questo senso, Platone, interrogandosi sulla significazione
linguistica, poteva scrivere: A ciascuno di questi nomi
presupposta (\ntoKEt'tat) una propria sostanza (oOOia)
(Protag. 349 b) e i nomi primi, ai quali in alcun modo altri
nomi sono presupposti (oi ofutro E'tEpa \ntoKEt'tat), in che
modo ci manifesteranno gli enti ? (Crat. 422 d). L'essere
ci che presupposto al linguaggio (al nome che lo manife
sta), ci sulla cui presupposizione si dice ci che si dice.
La presupposizione esprime dunque la relazione ori
ginaria fra linguaggio ed essere, fra i nomi e le cose e la
presupposizione prima che vi sia una tale relazione. La
posizione di un rapporto fra il linguaggio e mondo - la po
sizione della pre-supposizione - la prestazione costitutiva
del linguaggio umano cos come la filosofia occidentale lo
ha concepito: l'onto-logia, il fatto che l'essere si dica e che
il dire si riferisca all'essere. Solo su questa presupposizione
sono possibili la predicazione e il discorso: essa il su
cui della predicazione intesa come yEtv n Ka'ta nvo,
dire qualcosa su qualcosa. Il su qualcosa (Ka'ta nvo) non
omogeneo al dire qualcosa, ma esprime e, insieme, na
sconde il fatto che, in esso, stato gi sempre presupposto
il nesso onta-logico di linguaggio e essere - che, cio, il
linguaggio porti sempre su qualcosa e non parli a vuoto.

4
L'intreccio di essere e linguaggio assume la forma costi
tutiva della presupposizione nelle Categorie di Aristotele.
Come i commentatori antichi avevano perfettamente com
preso al momento di definire l'oggetto del libro (se esso

CHE C O S ' LA FILOSOFIA ?

concerna, cio, le parole, gli enti o i concetti), Aristotele


nelle Categorie non tratta n semplicemente delle parole,
n soltanto degli enti, n solo dei concetti, ma dei termini
in quanto significano gli enti attraverso i concetti . Nelle
parole di un commentatore arabo: L'investigazione logi
ca concerne gli oggetti in quanto sono designati attraver
so i termini [ . . . ] il logico non si occupa della sostanza o
del corpo, in quanto separato dalla materia o in quanto
in movimento o possiede una grandezza e una dimensio
ne, ma piuttosto in quanto designato da un termine, per
esempio "sostanza" . Che cosa sia in questione in questo
in quanto, che cosa avvenga all'ente per il fatto di essere
designato da un nome - questo - o dovrebbe essere - il
tema della logica. Ma ci significa che il luogo proprio delle
Categorie e di ogni logica l'implicazione di linguaggio e
essere - l'onta-logica - e che non possibile separare logica
e antologia. L'ente in quanto ente (ov u ov) e l'ente in quan
to detto ente sono inseparabili.
Solo questa implicazione permette di comprendere l'am
biguit dell'ocria 1tp<'tr\, della sostanza prima nella Metafi
sica aristotelica, ambiguit che la traduzione latina di ocria
con substantia h fissato e trasmesso in eredit alla filosofia
occidentale e di cui questa non riuscita a venire a capo.
Solo perch in essa in questione la struttura antologica
della presupposizione, l'ocria 1tp<'tr\, che si riferisce inizial
mente a una singolarit, pu diventare la substantia, ci che
sta sotto alle predicazioni, al dire qualcosa su qualcosa .
Ma qual la struttura di questa implicazione ? Com' pos
sibile che un'esistenza singolare diventi il sostrato sul cui
presupposto si dice ci che si dice ?
L'essere non presupposto perch esso sempre gi dato
all'uomo in una sorta di intuizione prelinguistica; piuttosto

EXPERIMENTUM VO CIS

il linguaggio che articolato - cio scisso - in modo tale


da aver sempre gi incontrato e presupposto nel nome l'es
sere che gli dato. Il prae- e il sub- appartengono cio alla
forma stessa dell'intenzionalit, della relazione fra essere e
linguaggi o.

5
Nel doppio statuto dell'ocria 1tp<'tr\ come esistenza sin
golare e come sostanza si riflette la duplice articolazione
del linguaggio, che sempre gi scisso in nome e discorso,
langue e parole, semiotico e semantico, senso e denotazio
ne. L'identificazione di queste differenze non una scoper
ta della linguistica moderna, ma l'esperienza costitutiva
della riflessione greca sull'essere. Se gi Platone oppone
con chiarezza il piano del nome (ovof.ta) e quello del di
scorso (..oyo), il fondamento su cui riposa l'elencazione
aristotelica delle categorie la distinzione dei EYOflEVa i
veu crUfl1t.OKft, di ci che si dice senza una connessione
(uomo, bue, corre, vince))) e i EYOflEVa Kat cr'Ufl1t.oKflv, il discorso come connessione di termini (l'uomo
cammina))' l'uomo vince))' Cat. I a 16- 1 9). Il primo piano
corrisponde alla lingua (la langue di Saussure, il semiotico
di Benveniste) in quanto distinta dal discorso in atto (la pa
role di Saussure, il semantico di Benveniste).
Noi siamo cos abituati all'esistenza di un ente chiamato
lingua))' l'isolamento di un piano della significazione di
stinto dal discorso in atto ci ormai cos familiare, che non
ci rendiamo conto che in questa distinzione viene alla luce
per la prima volta una struttura fondamentale del linguag
gio umano che lo distingue da ogni altro linguaggio e a par-

CHE C O S' LA FILOSOFIA ?

20

tire dalla quale soltanto qualcosa come una scienza e una


filosofia diventano possibili. Se Platone e Aristotele sono
stati considerati i fondatori della grammatica, ci perch
la loro riflessione sul linguaggio ha posto le basi sulle quali
i grammatici hanno potuto pi tardi costruire, attraverso
un'analisi del discorso, ci che chiamiamo lingua e inter
pretare l'atto di parola, che la sola esperienza reale, come
la messa in opera di un ente di ragione chiamato lingua (la
lingua greca, la lingua italiana ecc.).
Solo perch riposa su questa scissione fondamentale del
linguaggio, l'essere sempre gi diviso in essenza e esisten
za, quid est e quod est, potenza e atto: la differenza antolo
gica si fonda innanzitutto sulla possibilit di distinguere un
piano della lingua e dei nomi, che non si dice in un discorso
e un piano del discorso, che si dice sulla presupposizione
di quello. E il problema ultimo con cui deve misurarsi ogni
riflessione metafisica quello stesso che costituisce lo sco
glio su cui rischia di naufragare ogni teoria del linguaggio:
se l'essere che si dice sempre gi scisso in essenza e esi
stenza, potenza e atto e il linguaggio che lo dice sempre
gi diviso in lingua e discorso, senso e denotazione, com'
possibile il passaggio da un piano all'altro ? E perch l'esse
re e il linguaggio sono cos costituiti, da comportare origi
nariamente questo iato ?

6.
L'antropogenesi non si compiuta una volta per tutte
istantaneamente con l'evento di linguaggio, col diventar
parlante del primate del genere homo. stato necessario,
piuttosto, un paziente, secolare e ostinato processo di ana-

EXPERIMENTUM VO CIS

21

lisi, interpretazione e costruzione d i ci che i n questione in


quell'evento. stato necessario, cio, perch qualcosa come
la civilt occidentale potesse nascere, prima comprendere - o
decidere di comprendere - che ci che parliamo, che ci che
facciamo parlando sia una lingua e che questa lingua sia for
mata di vocaboli che - per una virt che non si pu spiegare
se non attraverso ipotesi del tutto inverosimili - si riferisco
no al mondo e alle cose. Ci implica che, nel flusso inin
terrotto di suoni prodotti usando organi presi per lo pi in
prestito da altri sistemi funzionali (legati in maggioranza
all'alimentazione) vengano riconosciuti prima delle parti
dotate di una significazione autonoma (J..LPTJ 't'ic; J.il;ero,
i vocaboli) e, in queste, degli elementi ( a'totxcia, le lettere)
indivisibili dalle cui combinazioni si formano quelle par
ti. La civilt che noi conosciamo si fonda innanzitutto su
una interpretazione (pJ..LTJ VEia) dell'atto di parola, sul
lo sviluppo di possibilit conoscitive che si considerano
contenute e implicate nella lingua. Per questo il trattato
aristotelico Sull'interpretazione (llep pJ..LTJ VEia), che ini
zia appunto con la tesi che ci che facciamo parlando una
connessione significante di parole, lettere, concetti e cose,
ha avuto una funzione decisiva nella storia del pensiero oc
cidentale; per questo la grammatica, che viene ora insegnata
nelle scuole primarie, stata e, in una certa misura, ancora
la disciplina fondativa del sapere e della conoscenza. ( su
perfluo ricordare, accanto a quello epistemico-conoscitivo,
anche il significato politico della riflessione grammaticale:
se ci che gli uomini parlano una lingua e se non vi una
sola lingua, ma molte, allora alla pluralit delle lingue cor
risponder una pluralit di popoli e di comunit politiche).

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CHE

cos' LA FILOSOFIA ?

7
Si rifletta sulla natura paradossale dell'ente di ragione
chiamato lingua (diciamo ente di ragione, perch non
chiaro se esso esista nella mente, nei discorsi in atto o solo
nei libri di grammatica e nei dizionari). Esso stato co
struito attraverso una paziente, minuziosa analisi dell'atto
di parola, supponendo che parlare si possa solo sulla pre
supposizione di una lingua e che le cose siano sempre gi
nominate (anche se impossibile spiegare - se non in modo
mitologico - come e da chi) in un sistema di segni che si ri
ferisce potenzialmente e non solo attualmente alle cose. La
parola albero pu denotare l'albero in un atto discorsivo,
in quanto si presuppone che il vocabolo albero, preso in
s prima e al di l di ogni denotazione attuale, significhi al
bero . Il linguaggio avrebbe, cio, la capacit di sospendere
il proprio potere denotativo nel discorso, per significare le
cose in modo puramente virtuale nella forma di un lessi
co. questa la differenza fra langue e parole, semiotico e
semantico, senso e denotazione che abbiamo gi evocato e
che scinde irrevocabilmente il linguaggio in due piani di
stinti e, tuttavia, misteriosamente comunicanti.
Il nesso di questa scissione linguistica con la cesura an
tologica potenza/atto, OUVa)..lt/vpyEta attraverso cui
Aristotele divide e articola il piano dell'essere tanto pi
evidente se si ricorda che, gi in Platone, uno dei significati
fondamentali del termine ouva)..lt valore semantico di
una parola . All'articolazione della significazione linguisti
ca in due piani distinti corrisponde il movimento antologico
della presupposizione: il senso una presupposizione della
denotazione e la langue una presupposizione della parole,
cos come l'essenza una presupposizione dell'esistenza e

EXPERIMENTUM VO CIS

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la potenza una presupposizione dell'atto. Ma proprio qui


tutto si complica. Senso e denotazione, lingua e discorso
giacciono, infatti, in due piani diversi e nessun passaggio
sembra condurre dall'uno all'altro. Parlare si pu solo sulla
presupposizione di una lingua, ma dire in un discorso ci
che nella lingua stato chiamato e nominato, questo
propriamente impossibile. l'opposizione insuperabile fra
semiotico e semantico su cui naufragato il pensiero estre
mo di Benveniste (Il mondo del segno chiuso. Dal segno
alla frase non c' transizione [ . . . ] uno iato li separa) o, in
Wittgenstein, l'opposizione di nomi e proposizione ( Gli
oggetti li posso solo nominare. I segni li rappresentano. Io
posso solo parlare di essi, ma non posso esprimerli). Tutto
ci che conosciamo della lingua, lo abbiamo appreso a par
tire dalla parola e tutto ci che comprendiamo della parola,
lo intendiamo a partire dalla lingua; e, tuttavia, l'interpreta
zione (la p)..LTJ VEia) dell'atto di parola attraverso la lingua,
che rende possibile il sapere e la conoscenza, conduce in
ultima istanza a una impossibilit di parlare.

8.
A questa struttura presupponente del linguaggio corri
sponde la particolarit del suo modo di essere, che consi
ste nel fatto che esso deve togliersi per far essere la, cosa
nominata. questa natura del linguaggio che ha in mente
Scoto quando definisce la relazione come ens debilissimum
e aggiunge che per questo essa cos difficile da conosce
re. Il linguaggio antologicamente debolissimo, nel senso
che non pu che sparire nella cosa che nomina, altrimen
ti, invece di designarla e svelarla, farebbe ostacolo alla sua

CHE C O S ' LA FILOSOFIA?

24

comprensione. E, tuttavia, proprio in questo risiede la sua


potenza specifica - nel suo rimanere impercepito e non det
to in ci che nomina e dice. Poich, come scrive Meister
Eckhart, se la forma attraverso cui conosciamo una cosa
fosse essa stessa qualcosa, ci condurrebbe alla conoscen
za di s e ci distoglierebbe dalla conoscenza della cosa.
Il rischio di essere percepito esso stesso come una cosa e
di separarci da ci che dovrebbe rivelarci, resta per fino
all'ultimo consustanziale al linguaggio. Il non poter dire
s mentre dice altro, il suo essere sempre estaticamente in
luogo dell'altro la segna tura inconfondibile e, insieme, la
macchia originale del linguaggio umano.
E un essere debolissimo non soltanto il linguaggio, ma
anche il soggetto che in esso si produce e di esso deve in
qualche modo venire a capo. Una soggettivit nasce, infatti,
ogni volta che il vivente incontra il linguaggio, ogni volta in
cui dice io. Ma proprio perch si generato in esso e attra
verso di esso, cos arduo per il soggetto afferrare il proprio
aver luogo. D'altra parte il linguaggio - la lingua - non vive
e si anima che se un locutore lo assume in un atto di parola.
La filosofia occidentale nasce dal corpo a corpo di questi
due esseri debolissimi che consistono e hanno luogo l'uno
nell'altro e l'uno nell'altro fanno incessantemente naufra
gio - e, per questo, cercano ostinatamente di afferrarsi e
comprendersi.

Proprio perch l'essere si d nel linguaggio, ma il lin


guaggio resta non detto in ci che dice e manifesta, l'essere
si destina e si svela per i parlanti in una storia epocale. Il

EXPERIMENTUM VO CIS

potere storicizzante e cronogenetico del oyo funzione


della sua struttura presupponente e della sua antologica de
bolezza. In quanto rimane nascosto in ci che rivela, il rive
lante costituisce l'essere come ci che si svela storicamente
restando inattingibile e indelibato in ognuno dei suoi sve
lamenti epocali. E in quanto la lingua , in questo senso, un
essere storico, la Pf.lllVEia che domina da due millenni la
filosofia occidentale una interpretazione del linguaggio
che, avendolo scisso in langue e parole, sincronia e diacro
nia, non pu mai venirne a capo una volta per tutte. E come
l'essere e la lingua restano presupposti al loro svolgimento
storico, cos la presupposizione determina anche il modo
in cui l'Occidente ha pensato la politica. La comunit che
in questione nel linguaggio viene infatti presupposta nella
forma di un apriori storico o di un fondamento: che si tratti
di una sostanza etnica, di una lingua o di un contratto, in
ogni caso il comune assume la figura di un passato inattin
gibile, che definisce il politico come uno stato.
Molti segni lasciano pensare che questa struttura fonda
mentale dell'antologia e della politica dell'Occidente ab
bia esaurito la sua forza vitale. Formulando tematicamente
l'ovviet secondo cui l'essere che pu essere compreso
'
linguaggio il pensiero del 900 non ha fatto che rivendicare
quell'inerenza del linguaggio a ogni rapporto o attivit na
turale dell'uomo, al suo sentire, intuire, desiderare e a ogni
suo bisogno e a ogni suo istinto che l'idealismo tedesco
aveva gi affermato e portato alla coscienza senza riserve.
In questa prospettiva, il fatto che la nascita della gramma
tica comparata e l'ipotesi dell'indoeuropeo siano contem
poranee della filosofia di Hegel, che; anzi, l'ultimo volume
della Scienza della logica sia stato pubblicato lo stesso anno
( r 8 r 6) del Konjugationssystem di Franz Bopp non certo

CHE C O S ' LA FILOSOFIA ?

una mera coincidenza. L'indoeuropeo - che i linguisti hanno


ricostruito (o, piuttosto, prodotto) attraverso una paziente
analisi morfologica e fonologica delle lingue storiche - non
una lingua omogenea alle altre, ma soltanto pi antica: essa
qualcosa come una langue assoluta, che nessuno ha mai
parlato n mai potr parlare, ma costituisce, come tale, l'a
priori storico e politico dell'Occidente, che garantisce l'uni
t e la reciproca intellegibi1lt delle sue molteplici lingue e
dei suoi molteplici popoli. Come Hegel aveva affermato che
il destino storico dell'umanit era giunto al suo compimen
to e che le potenze storiche della religione, dell'arte e della
filosofia si erano dissolte e realizzate nell'assoluto, cos nella
costruzione dell'indoeuropeo culminava il processo che ha
portato l'Occidente alla piena consapevolezza delle potenze
conoscitive contenute nella sua lingua.
Per questo la linguistica diventa tra l'Ottocento e il No
vecento la disciplina pilota delle scienze umane e per que
sto il suo improvviso esaurirsi e naufragare nell'opera di
Benveniste corrisponde a una mutazione epocale nel desti
no storico dell'Occidente. L'Occidente, che ha realizzato
e portato a compimento la potenza che aveva iscritto nella
sua lingua, deve ora aprirsi a una globalizzazione che segna,
insieme, il suo trionfo e la sua fine.

IO.

Possiamo proporre a questo punto sull'origine del lin


guaggio un'ipotesi non pi mitologica di altre (le ipotesi in
filosofia hanno necessariamente un carattere mitico, sono,
cio, sempre narrazioni e il rigore del pensiero consiste
appunto nel riconoscerle come tali, nel non scambiarle per

EXPERIMENTUM VO CIS

principi). Il primate, che sarebbe diventato homo sapiens,


era gi sempre dotato - come tutti gli animali - di un lin
guaggio, certamente diverso, ma forse non troppo dissimi
le da quello che conosciamo. Ci che avvenuto che il
primate del genere homo a un certo punto - che coincide
con l'antropogenesi - diventato consapevole di avere una
lingua, l'ha, cio, separata da s e esteriorizzata fuori di s
come un oggetto, per poi cominciare a considerarla, ana
lizzarla ed elaborarla in un processo incessante - in cui si
sono succedute con alterne vicende la filosofia, la gramma
tica, la logica, la psicologia, l'informatica - e che forse non
ancora compiuto. E poich aveva espulso il suo linguaggio
fuori di s, l'uomo dovette imparare a trasmetterselo - a
differenza degli altri animali - esosomaticamente, di ma
dre in figlio in modo che nel trascorrere delle generazioni
la lingua si divise babelicamente e and progressivamente
mutando secondo i luoghi e i tempi. E, avendo egli separato
da s la sua lingua per affidarla a una tradizione storica, per
l'uomo parlante vita e linguaggio, natura e storia si divisero
e, insieme, si articolarono l'una con l'altra. La lingua, che
era stata espulsa all'esterno, fu reinscritta nella voce attra
verso i fonemi, le lettere e le sillabe e l'analisi della lingua
coincise con l'articolazione della voce (la <j>rov'J evap8po,
la voce articolata dell'uomo opposta alla voce inarticolata
dell'animale).
Ci significa che il linguaggio non n un'invenzione
umana, n un dono divino, ma un medio fra questi, che si
situa in una zona di indifferenza fra natura e cultura, endo
somatico e esosomatico (a questa dipolarit corrisponde la
scissione del linguaggio umano in lingua e parola, semioti
co e semantico, sincronia e diacronia). Ci significa, anche,
che l'uomo non semplicemente homo sapiens, ma innan-

CHE COS ' LA FILOSOFIA ?

zitutto homo sapiens loquendi, il vivente che non sempli


cemente parla, ma sa parlare, nel senso che il sapere della
lingua - anche nella sua forma pi elementare - deve neces
sariamente precedere ogni altro sapere.
Ci che ora sta avvenendo sotto i nostri occhi che il
linguaggio, che era stato esteriorizzato come la cosa - cio,
secondo l'etimologia, la causa - per eccellenza dell'uma
nit, sembra aver compiuto il suo percorso antropogeneti
co e voler tornare alla natura da cui proviene. All'esaurirsi
del progetto della grammatica comparata - cio del sapere
che doveva garantire l'intelligenza della lingua - ha fatto
seguito, infatti, l'affermarsi della grammatica generativa,
cio di una concezione della lingua il cui orizzonte non
pi storico e esosomatico, ma, in ultima analisi, biologico e
innatistico. E alla valorizzazione della potenza storica della
lingua sembra sostituirsi il progetto di una informatizza
zione del linguaggio umano che lo fissa in un codice comu
nicativo che ricorda piuttosto quello dei linguaggi animali.

I I.
Si comprende, allora, perch il linguaggio umano sia tra
versato fin dall'origine da una serie di scissioni, che non
hanno riscontro in alcun linguaggio animale. Intendiamo
riferirei alla frattura nomi/ discorso, gi chiara per i Greci
( ovoJ.la/... oyo in Platone, .e"fOJ.lEVa avEu <J'UJ.l7toKf/M:
'YOJ.lEVa Ka't (J'UJ.l1tOKi)v in Aristotele, Ca t., I a I 6- I 8 ) e
per i Romani (nominum impositio/declinatio in Varrone,
De ling. lat., VIII, 5 -6) fino a quelle, che ad essa in qual
che modo corrispondono, fra langue e parole in Saussure e
fra semiotico e semantico in Benveniste. L'uomo parlante

EXPERIMENTUM VOCIS

non inventa i nomi n questi scaturiscono da lui come una


voce animale: egli pu solo riceverli attraverso un traman
damento esosomatico e un insegnamento; nel discorso, in
vece, gli uomini si intendono senza bisogno di spiegazio
ni. Questa scissione di due piani del linguaggio ha come
conseguenza una serie di aporie: da una parte, il linguaggio
non pu venire a capo del suo rapporto col mondo, che
condizionato dai nomi (e il significato dei nomi, scrive
Wittgenstein, I 92 I , 4.026, deve esserci spiegato perch noi
possiamo comprenderli), dall'altra, nelle parole di Benve
niste, dal piano semiotico dei nomi a quello semantico delle
proposizioni non vi passaggio, cos che l'atto di parola
risulta impossibile.
Si rifletta sul carattere particolare dell'evento antropo ge
netico di cui queste fratture sono la conseguenza: l'uomo
accede alla sua natura propria - al linguaggio, che lo defi
nisce come cpov M>yov exov e anima! rationale solo sto
ricamente, cio attraverso un tramandamento esosomatico.
Se, infatti, questo accesso gli precluso, egli perde la facol
t di apprendere il linguaggio e si presenta come un essere
non propriamente o non ancora umano (si pensi agli enfants
sauvages e ai bambini-lupo che hanno tanto inquietato l'et
dei lumi). Ci significa che nell'uomo - cio nel vivente che
accede alla sua natura solo attraverso la storia - umano e
inumano si stanno di fronte senza alcuna articolazione natu
rale e che qualcosa come una civilt pu nascere solo a par
tire dall'invenzione e dalla costruzione di una articolazione
storica fra di essi. La prestazione specifica della filosofia e
della riflessione grammaticale sar quella di individuare e di
costruire nella voce il luogo di questa articolazione.
Non un caso se la raccolta degli scritti logici di Ari
stotele, cio della prima e pi ampia interpretazione della
-

30

CHE COS ' LA FILOSOFIA ?

lingua come Strumento di conoscenza abbia ricevuto il


titolo di "Opyavov, che significa tanto uno strumento tec
nico che una parte del corpo. Aristotele, all'inizio del Tiep
PJ.LllVEia (De int. I 6 a 3 sg.) riferendosi al linguaggio si
serve, infatti, dell'espressione 't v 't'fl <j>rovij, ci che nel
la voce e non semplicemente, come ci si sarebbe potuto
aspettare e come scriver subito dopo, <j>rovai, i vocaboli
(ci che nella voce, egli scrive, simbolo delle impres
sioni dell'anima - na811 J.La'ta v 't'fl <j>rovij - e le lettere scrit
te sono simboli di ci che nella voce). Il linguaggio
nella voce, ma non la voce: nel luogo e in luogo di essa.
Per questo Aristotele, nella Politica ( 12 5 3 a I o - I 8), oppo
ne esplicitamente la <j>rovi) animale, che immediatamente
segno del piacere e del dolore, al J.6yo umano, che pu
manifestare il giusto e l'ingiusto, il bene e il male e sta a
fondamento della comunit politica. L'antropogenesi ha
coinciso con una scissione della voce animale e col situarsi
del J.6yo nel luogo stesso della <j>rovi). Il linguaggio ha luogo
nel non-luogo della voce e questa situazione aporetica ci
che lo rende vicinissimo al vivente e, insieme, separato da
questo da una incolmabile distanza.

I2.
Un'analisi della particolare situazione del J.6yo nella
<j>rovi) - e, quindi, del rapporto tra la voce e il linguaggio condizione preliminare per comprendere il modo in cui
l'Occidente ha pensato il linguaggio, l'essere parlante del
vivente uomo. Ci significa che lo scopo del trattato ari
stotelico Sull'interpretazione non era soltanto quello di as
sicurare il nesso fra le parole, i concetti e le cose, ma, prima

EXPERIMENTUM VO CIS

31

ancora - situando il linguaggio nella voce - quello di assi


curare il nesso fra il vivente e la sua lingua. L'analisi della
lingua presuppone un'analisi della voce.
Gi gli antichi commentatori si erano interrogati sul sen
so dell'espressione 't v 't'fl <j>rovij. Ammonio, chiedendosi
perch Aristotele avesse scritto ci che nella voce sim
bolo delle affezioni nell'anima, rispondeva che il filosofo
ha detto ci che nella voce e non le voci ( <j>rovai) per
mostrare che altro dire voce e altro dire nome e verbo e
che l'essere simbolo per convenzione non spetta alla nuda
voce ( 't'fl <j>rovij nJ.OO), ma al nome e al verbo; per natura
(<j>ucrEt) ci dato emettere voci (<j>rovev), come anche vedere
e udire, ma i nomi e i verbi sono invece prodotti dalle no
stre intelligenze, usando come materia la voce (UlJ KEXPll
J.LVa 't'fl <j>rovij) (Ammonio I 897, p. 22). Non alla voce ani
male (alla nuda voce) - suggerisce Ammonio, che sembra
qui seguire fedelmente l'intenzione di Aristotele - ma al
linguaggio che formato di nomi e di verbi compete la ca
pacit di significare (per convenzione e non per natura) le
cose; e, tuttavia, il linguaggio ha luogo nella voce, ci che
per convenzione dimora in ci che per natura.
Nel De interpretatione, dopo aver descritto il plesso se
mantico fra il linguaggio, le affezioni nell'anima, le lettere
e le cose, Aristotele interrompe bruscamente la trattazione
rimandando al suo libro Sull'anima (di questo si parlato
nel libro Sull'anima, poich si tratta di un'altra questione
- all yp npayJ.La'tEta, De int. I 6 a 9). Qui egli aveva
definito la voce come suono emesso da un essere animato
('1'6<J>o J.L'IfUXOU), precisando che nessun essere inanima
to emette una voce, ed solo per similitudine che si dicono
emettere voce, come il flauto e la lira (De an. 420 b 5). Poche
righe dopo, la definizione ripetuta e circostanziata: La

CHE C O S' LA FILOSOFIA?

voce dunque suono emesso dal vivente (q)ou 'lfO(j>o), ma


non con qualsiasi parte. Poich ogni suono prodotto dal
battito di qualcosa su qualcosa o in qualcosa, e cio sull'a
ria, ne consegue che solo emettano voce quei viventi che
ricevono in s l'aria (ivi, 1 4- 1 6). Questa definizione do
veva risultargli insoddisfacente, perch a questo punto egli
ne enuncia una nuova, che doveva esercitare un'influenza
determinante nella storia della riflessione sul linguaggio:
Non ogni suono del vivente voce, come abbiamo det
to (infatti si pu emettere un suono con la lingua o anche
tossendo), ma occorre che colui che batte sia animato e ac
compagnato da qualche immaginazione (E't (j>avtacria
nv6). La voce infatti un suono significante (OTJavttK
'lfO(j>o) ... (ivi, 29- 3 2) .
S e ci che distingue i l linguaggio dalla voce i l suo ca
rattere semantico (cio il suo essere associato a delle affe
zioni nell'anima, qui chiamate immaginazioni), Aristotele
non precisa che cosa costituisca la voce animale in linguag
gio significante. Ed qui che intervengono in funzione de
terminante le lettere (ypaa'ta), che il De interpretatione
elencava infatti nel plesso semantico solo come segni di ci
che nella voce. Le lettere non sono semplicemente segni,
ma elementi (cr'tOtXEta, l'altro termine greco per designa
re le lettere) della voce, che la rendono significante e com
prensibile. La lettera (cr'tOtXEt ov) afferma con chiarezza la
Poetica una voce indivisibile, ma non una voce qualsiasi,
bens quella per cui una voce diventa intellegibile ( auv8ETI,
yiyvEcr8at q>rovf!). Anche degli animali vi sono voci indivisi
bili, ma nessuna di queste le definisco lettere. Le parti del
la voce intellegibile sono la vocale (q>rovftEv), la semisonante
('It(j>rovov) e la muta (iq>rovov)... (Poet. 1 4 5 6 b 22-2 5). La
definizione ribadita nella Metafisica: Elementi (cr'tOtXEta)

EXPERIMENTUM VO CIS

33

della voce sono ci di cui composta (m)yKEt'tat) la voce e


le ultime parti in cui essa divisibile (ivi, 1 0 1 4 a 26) e nei
Problemi: gli uomini producono molte lettere (ypaa'ta),
gli altri viventi nessuna o, al massimo, due o tre consonanti.
Le consonanti combinate con le vocali formano il discorso.
Il linguaggio (J.6yo) non un significare con la voce, ma
con certe affezioni (1ta8Eatv) di essa. Le lettere sono affe
zioni della voce (Probl. X, 39, 8 9 5 a 7 sgg.). Gli scritti sugli
animali sottolineano la funzione della lingua e delle labbra
nella produzione delle lettere: Il linguaggio attraverso la
voce composto di lettere (K 't<V ypaa'trov <:rUyKEt'tat) e
se la lingua non fosse fatta com' e se le labbra non fossero
umide, non si potrebbe proferire la maggior parte delle let
tere, poich alcune di queste risultano dai colpi della lingua
e dalla congiunzione delle labbra (De part. anim. 6 5 9 b 3 0
sgg.). Con una parola che i grammatici dovevano costitui
re in un vero e proprio termine tecnico della loro scienza,
questa iscrizione costitutiva delle lettere nella voce de
finita articolazione (tap8prom): Voce ( (j>rovi]) e suono
('lf6(j>o) sono diversi e terzo, oltre ad essi, il linguaggio
(J.6yo)... Il linguaggio l'articolazione della voce con la
lingua (ym'tlJ). La voce e la faringe emettono le vocali, la
lingua e le labbra le consonanti. E da esse si produce il lin
guaggio (Hist. anim. 5 3 5 a sgg.).
Se torniamo ora all'enunciato che apre il De interpretatio
ne, possiamo dire che Aristotele vi definisce una Pllvda,
un processo di interpretazione che si svolge fra ci che nel
la voce, le lettere, le affezioni dell'anima e le cose: ma la fun
zione decisiva - quella che rende significante la voce - spetta
proprio alle lettere, l'ermeneuta ultimo e primo il ypaa.

CHE C O S' LA FILOSOFIA ?

34
IJ.

Si rifletta all'operazione decisiva per la storia della cultu


ra occidentale che, sotto l'apparenza di una descrizione che
il tempo ha reso ovvia, si compie in questi scritti. <I>roviJ e
wyo, voce animale e linguaggio umano sono distinti, ma
coincidono localmente nell'uomo, nel senso che il linguag
gio si produce attraverso una articolazione della voce, che
non altro che l'iscrizione in essa delle lettere (yp<if.lf.la'ta),
cui compete lo statuto privilegiato di essere, insieme, segni
e elementi (cnotXEta) della voce (in questo senso, la lettera
indice di se stessa, index sui). La definizione aristotelica
venne raccolta dai grammatici antichi, che, fra il primo e il
secondo secolo della nostra era, diedero carattere di scienza
sistematica alle osservazioni dei filosofi. Anche i grammatici
cominciano la loro trattazione dalla definizione della voce,
distinguendo la voce confusa ( <1>rovil croyKEXUf.lVll) degli
animali, dalla voce articolata ( <1>rovil Evap8po, vox articu
lata) dell'uomo. Ma se si chiede, a questo punto, in che cosa
consista il carattere articolato della voce umana, i gramma
tici rispondono che <1>rovil Evap8po significa semplicemente
<1>rovil yypOf.lf.la'to, cio, nella traduzione latina, vox quae
scribi potest o quae litteris comprehendi potest, voce scrivi
bile, grammatizzata, che si pu comprendere attraverso le
lettere. La voce confusa quella, inscrivibile, degli animali
(il nitrito dei cavalli, la rabbia dei cani, il ruggito delle fie
re) o anche quella parte della voce umana che non si pu
scrivere, come il riso, il fischio o il singhiozzo (a cui si po
trebbe aggiungere l'aspetto timbri co della voce, che l' orec
chio percepisce, ma non pu formalizzare in una scrittura).
La voce articolata non , dunque, altro che <1>rovil yypaf.l
f.la'to, voce che stata trascritta e com-presa - cio cattura-

EXPERIMENTUM VO CIS

35

ta - attraverso le lettere. Il linguaggio umano si costituisce,


cio, attraverso un'operazione sulla voce animale, che iscrive
in essa come elementi (cnotXEa) le lettere (yp<if.lf.la'ta). Ritro
viamo qui la struttura dell' exceptio - dell'esclusione inclusiva
- che rende possibile la cattura della vita nella politica. Come
la vita naturale dell'uomo viene inclusa nella politica attraver
so la sua stessa esclusione nella forma della nuda vita, cos il
linguaggio umano (che fonda, del resto, secondo Aristotele,
Pol. 1 2 5 3 a 1 8, la comunit politica) ha luogo attraverso una
esclusione-inclusione della nuda voce (<l>rovil a1tA.O);, nelle
parole di Ammonio) nel M)yo. In questo modo, la storia si
radica nella natura, la tradizione esosomatica in quella endo
somatica, la comunit politica in quella naturale.

All'inizio della Grammatologia, Jacques Derrida, subito dopo


aver enunciato il programma di una rivendicazione della scrittura con
tro il privilegio della voce, cita il passo del De interpretatione, in cui
Aristotele afferma il legame originale>> e la prossimit essenziale fra
la voce e il M>yo, che definiscono la metafisica occidentale: Se, per
Aristotele, "i suoni emessi dalla voce" (ta v 'tij <jlrovi) sono i simboli
degli stati dell'anima (1taei]f.1ata v 'tij <j>roviJ) e le parole scritte i simboli
delle parole emesse dalla voce, ci perch la voce, produttrice dei
simboli primi, ha un rapporto di prossimit essenziale e immediata con
l'anima>> (Derrida 1967, pp. 22-2 3 ). Se la nostra analisi della situazione
delle lettere nella voce corretta, ci significa che la metafisica occi
dentale pone nel suo luogo originale il ypOflfla e non la voce. La critica
derridiana della metafisica si fonda quindi su una lettura insufficiente
di Aristotele, che omette di interrogare proprio lo statuto originale del
ypOflfla nel De interpretatione. La metafisica sempre gi grammato
logia e questa fondamentologia, nel senso che, dal momento che il
M>yo ha luogo nel non luogo della <j>rovi], alla lettera e non alla voce
compete la funzione di fondamento ontologico negativo.
N

CHE COS ' LA FILOSOFIA ?

Possiamo qui cogliere l'incidenza fondamentale della scrit


tura alfabetica nella nostra cultura e sul modo in cui essa ha
concepito il linguaggio. Solo la scrittura alfabetica - la cui in
venzione i greci attibuivano ai due eroi civilizzatori Cadmo
e Palamede - pu, infatti, generare l'illusione di aver cattu
rato la voce, di averla com-presa e trascritta: nei ypaJ.!J.ta
'ta. Per rendersi pienamente conto dell'importanza in ogni
senso fondatrice della cattura della lingua che stata resa
possibile dalla scrittura alfabetica e dalla sua PJlllVEia da
parte dei filosofi e, poi, dei grammatici, occorre liberarsi
della rappresentazione ingenua - frutto di due millenni di
educazione grammaticale - secondo cui le lettere sarebbero
perfettamente riconoscibili nella voce come suoi elementi.
Niente pi istruttivo, in questa prospettiva, della storia
di quella parte della grammatica - la fonetica - che si occu
pa dell'analisi dei suoni del linguaggio (in quanto, appunto,
voce articolata). La fonetica moderna si concentrata,
in un primo momento, sull'analisi dei ypUJ.!Jla'ta secondo
la loro modalit di articolazione, distinguendoli in labiali,
dentali, palatali, velari, labiovelari, laringali ecc., con una
tale acribia descrittiva, che un fonetista, che era anche un
medico, ha potuto scrivere che se veramente il soggetto
parlante articolasse un certo suono laringale nel modo de
scritto nei trattati di fonetica, ci avrebbe per conseguen
za la sua morte per soffocamento. La fonetica articolato
ria entr in crisi quando ci si accorse che, in presenza di
una lesione dell'organo di articolazione, il parlante riusciva
ugualmente a articolare il suono secondo altre modalit.
Abbandonando le analisi dei suoni secondo il loro
punto di articolazione, la fonetica si concentr allora sul.

EXPERIMENTUM VO CIS

37

l a loro consistenza strettamente acustica, riuscendo cos a


scomporre e analizzare il tessuto sonoro del linguaggio in
una molteplicit di dati scientificamente controllabili. Ma
quanto pi l'analisi dell'onda sonora prodotta dalla voce
si affinava, tanto pi diventava impossibile separare chia
ramente l'uno dall'altro gli elementi (i ypaJ.!Jla'ta-O''tOtXEa)
che la tradizione grammaticale aveva identificato. Gi Saus
sure nel I 9 I 6 aveva osservato che se si potessero riprodurre
attraverso un film i movimenti della bocca, della lingua, e
delle corde vocali di un locutore che produce quella che ci
appare come la serie di suoni F-A-L, sarebbe impossibile
dividere i tre elementi che la compongono, che si presen
tano in realt cos indissolubilmente intrecciati che non
dato isolare un punto in cui F finisce e A comincia. Un film
realizzato nel I 9 3 3 dal fonetista tedesco Paul Menzerath
ha confermato anche dal punto di vista acustico l'osserva
zione di Saussure. Nell'atto di parola, i suoni non si succe
dono, ma si intricano e si legano cos intimamente, che le
unit che noi crediamo di poter distinguere . tanto al livello
morfologico che a quello fonetico costituiscono in realt
un flusso perfettamente continuo.
La consapevolezza dell'impossibilit di distinguere i
suoni del linguaggio sia dal punto di vista articolatorio che
da ql,lello acustico ha reso necessaria la nascita della fono
logia, che separa nettamente i suoni della parola (di cui si
occupava la fonetica) dai suoni della lingua (i fonemi, pure
opposizioni immateriali, che sono l'oggetto della fonolo
gia). Con la rottura del vincolo fra lingua e voce, che era
rimasto fuori questione dal pensiero antico fino alla fone
tica dei neogrammatici, l'autonomia della lingua rispetto
all'atto di parola diventa evidente. E, tuttavia, se, da una
parte, la fonologia prende atto del fatto che i ypaJ.!Jla'ta non

CHE

cos' LA FILOSOFIA ?

sono traccia e scrittura della voce, essa mantiene dall'altra,


attraverso il fonema, una sorta di arcigramma, puramente
negativo e differenziale. Con ci, la difficolt nata dalla si
tuazione aporetica del oyo nella <j>rovil non sciolta, ma
solo riproposta sul piano dell'impossibile articolazione fra
langue e parole o fra semiotico e semantico.

N I l carattere inafferrabile della voce umana e l a vanit del tentativo di


renderla in qualche modo comprensibile attraverso le lettere erano stati gi
osservati da Platone, dal quale dipende, anche in questo caso, la pJ.lTJVeta
aristotelica del linguaggio e la situazione del ').Jyyo nei yp<lJ.tJla-ta. Quan
do un dio o un uomo divino (in Egitto vi un racconto che narra che
questi era Theuth)>> dice Socrate nel Filebo si rese conto che la voce
infinita (cprovijv 01ttpov - annpov vale letteralmente "inesperibile, im
praticabile, senza via d'uscita") e per primo comprese che in questo
inesperibile (v t<!> ndpq>) le vocali non sono una, ma molte e che ivi
sono anche altre cose che non appartengono propriamente alla voce,
ma hanno pure parte a un certo suono e che vi un numero determi
nato anche di queste, dopo essersi reso conto di ci, separ un terzo
genere di lttere (ypaJ.1J.10trov), quelle che noi diciamo ora mute (acprova).
Distinse poi fra di loro, fino a ciascuna unit, queste lettere mute e
senza suono, e cos le vocali e le intermedie fra le vocali e le mute fino
a che, una volta conosciuto il loro numero, attribu a ciascuna il nome
CHOtXEtov. Vedendo poi che nessuno potrebbe impararne una sola per
se stessa senza le altre tutte ed avendo argomentato da ci che esiste un
legame (8EO'J.10V) unitario che in qualche modo le unifica tutte, ad esse
applic una tecnica che chiam grammatica>> (Phil. r 8 b 5 -d 2 ) .
Mentre da questa inesperibilit della voce Platone non dedusse la
necessit dei ypOJ.1J.1Uta (nel Fedro egli critica anzi decisamente l'inven
zione di Theuth, accusata di far perdere agli uomini la memoria), ma
quella di una teoria delle idee, Aristotele segu invece senza riserve il
paradigma egizio di Theuth, espungendo conseguentemente come ri
dondanti dal plesso semantico le idee.

EXPERIMENTUM VO CIS

39

Se l'antropogenesi - e la filosofia che la rammemora, cu


stodisce e incessantemente riattualizza - coincidono con
un experimentum linguae che situa aporeticamente il O
yo nella voce e se la pJlTJVEia, l'interpretazione di questa
esperienza che ha dominato la storia dell'Occidente sem
bra aver raggiunto il suo limite, allora ci che non pu non
essere oggi in questione nel pensiero un experimentum
vocis, nel quale l'uomo revochi radicalmente in questione
la situazione del linguaggio nella voce e provi a assumere da
capo il suo essere parlante. Ci che giunto a compimen
to non , infatti, la storia naturale dell'umanit, ma quella
specialissima storia epocale in cui la pJlTJVEia della parola
come una lingua - cio come un intreccio consapevole di
vocaboli, concetti, cose e lettere, che, attraverso i ypaJlJla
ta, ha luogo nella voce - aveva destinato l'Occidente. Oc
corre, pertanto, interrogare sempre di nuovo la possibilit
e il senso dell'experimentum, indagarne il luogo e la genea
logia per indagare se non vi sia, rispetto ai ypaJlJlata e al sa
pere che su di essi si fonda, un altro modo di venire a capo
dell'inesperibilit della voce. Esso non , nella nostra cul
tura, un fenomeno eccentrico o marginale, che, cercando di
dire quel che non si pu dire, si avvolge necessariamente in
contraddizioni; esso , piuttosto, la cosa stessa del pensiero,
il fatto costitutivo di ci che chiamiamo filosofia.
Negli stessi anni in cui formulava la frattura invalicabi
le fra il semiotico e il semantico, Benveniste scriveva quel
saggio sull'Apparato formale dell'enunciazione, nel quale
veniva indagata la capacit del linguaggio di riferirsi, at
traverso gli shifters io, tu qui, ora, questo ecc.
non a una realt lessicale, ma al proprio puro aver luogo.

CHE C O S ' LA FILOS OFIA ?

lo non indica una sostanza, ma la persona che pronun


cia l'istanza di discorso contenente io, cos come que
sto pu essere solo l'oggetto di un'estensione simultanea
all'istanza presente di discorso e qui e ora delimita
no l'istanza spaziale e temporale contemporanea all'istan
za di discorso che contiene il pronome "io ". Non qui
il luogo di ripercorrere queste analisi giustamente celebri,
che hanno trasformato la teoria tradizionale dei pronomi e
definito in modo nuovo il problema filosofico del soggetto.
Interessa qui chiedere piuttosto in che modo si possa inten
dere la contemporaneit e la simultaneit fra lo shifter
e l'istanza di discorso Qakobson parla anche, a questo pro
posito, di una relazione esistenziale fra il pronome io e
l'enunciazione) senza far ricorso a una voce. L'enuncia
zione e l'istanza di discorso non sono identificabili come
tali che attraverso la voce che le proferisce. Ma, in quanto
si riferisce all'aver luogo del discorso, la voce che qui in
questione non pu essere la voce animale, ma, ancora una
volta, la voce in quanto ci che deve necessariamente esser
tolto perch, nel suo non luogo, i ypaJ..LJ..La'ta e, con essi, il di
scorso abbiano luogo. L'enunciazione situa, cio, il sogget
to, colui che dice io, qui, ora nell'articolazione fra la
voce e il linguaggio, fra il non pi della <)>rovi] animale e il
non ancora del J..6 yo. in questa articolazione negativa
che si situano le lettere. La voce si scrive, diventa yypaJ..LJ..La
'to, nel punto in cui il soggetto, colui che dice io si rende
conto di essere in luogo della voce. Per questo, come Hegel
ha mostrato nella Fenomenologia dello spirito, sufficiente
trascrivere la certezza sensibile che si afferma nel pronome
questo, e negli avverbi qui e ora per vederla svanire
(qui non pi qui, ora non pi ora), perch la voce
su cui essa si fondava dilegui definitivamente. L'edificio del

EXPERIMENTUM VO CIS

sapere occidentale riposa in ultima istanza su una voce tol


ta, sullo scriversi di una voce. Questo il suo fragile, ma
tenace mito fondativo.

! 6.

possibile pensare la relazione tra la voce e il linguaggio


altrimenti che attraverso le lettere ? Un'ipotesi possibile
suggerita da Ammonio quando, nel suo commento, accen
na corsivamente alla voce come materia (Ull) della lingua.
Prima di provare a seguire questa ipotesi, occorrer, per,
confrontarsi con la tesi, enunciata da J.-C. Milner, secon
do cui lettera e materia sono sinonimi, poich la materia
- intesa nel senso della scienza moderna - eminentemente
translittrable, trascrivibile in lettere (Milner I 98 5 , p. 8). A
questa tesi, Milner aggiunge il corollario secondo cui let
tera e significante sono diversi ed proprio la loro inde
bita confusione che ha indotto Saussure a attribuire, negli
Anagrammi, alla lettera le propriet del significante e, nel
Corso, al significante i caratteri della lettera.
Possiamo allora dire, nei termini di Milner, che l'opera
zione di Aristotele consiste appunto nell'identificare la let
tera - il ypaJ..LJ..La - col significante, col divenir semantica della
<)>rovi]. A condizione di aggiungere, contro la tesi di Milner,
che la materia - almeno se la si restituisce al paradigma pla
tonico di una xcpa, di un puro aver-luogo - non invece mai
traslitterabile, non pu mai essere lettera e scrittura.
Sia, nel Timeo, la definizione del terzo genere dell'esse
re, accanto al sensibile e all'intellegibile, che Platone chiama
xropa. Essa il ricettacolo (\mooxiJ) o un porta-impronte
(KJ..Laye'iov) che offre un luogo a tutte le forme sensibili,

CHE COS ' LA FILOSOFIA ?

senza, per, mai confondersi con queste. Essa non n pro


priamente sensibile, n propriamente intellegibile, ma viene
percepita come in sogno con un ragionamento bastardo,
accompagnato da assenza di sensazione. Se, proseguendo
l'analogia suggerita da Ammonio, consideriamo la voce
come xropa della lingua, essa non sar pertanto legata gram
maticalmente a questa in un rapporto di segno n di ele
mento: essa , piuttosto, ci che, nell'aver-luogo del ..oyo,
percepiamo come irriducibile ad esso, come l'inesperibile
(btEtpov) che incessantemente l'accompagna e che, n puro
suono n discorso significante, percepiamo all'incrocio fra
questi con una assenza di sensazione e con un ragionamen
to senza significato. Abbandonando ogni mitologia fonda
tiva, possiamo allora dire che, in quanto xropa e materia,
essa una voce che non mai stata scritta nel linguaggio,
un in-scrivibile che, nell'incessante tramandamento storico
della scrittura grammaticale, resta ostinatamente tale. Tra il
vivente e il parlante non vi alcuna articolazione. La lettera
- il ypaJ.tJ.la, che pretende di porsi come l'esser-stata, come
la traccia della voce - non nella voce n in luogo di questa.

L' antico dissidio (na..a t ota<j>opa, Resp. 6o7 b) fra


poesia e filosofia deve allora essere pensato da capo in que
sta prospettiva. Nel pensiero del '9oo, la separazione fra
questi due discorsi - e, insieme, il tentativo di riunirli - ha
raggiunto la sua tensione massima: se, da una parte, la lo
gica ha cercato di purificare la lingua da ogni ridondanza
poetica, non sono mancati, dall'altra, filosofi che hanno
invocato la poesia l dove sembrava che i concetti risultas-

EXPERIMENTUM VO CIS

43

sero insufficienti. N o n si tratta, in realt, n di due opzioni


rivali n di due possibilit alternative e senza rapporto fra
di loro, quasi che il parlante potesse scegliere l'una o l'altra
arbitrariamente: poesia e filosofia rappresentano piuttosto
due tensioni inseparabili e irriducibili all'interno dell'unico
campo del linguaggio umano e, in questo senso, finch ci
sar linguaggio, ci saranno poesia e pensiero. La loro dua
lit testimonia, infatti, ancora una volta della scissione che,
secondo la nostra ipotesi, si prodotta nella voce, al mo
mento dell'antropogenesi, tra ci che restava del linguaggio
animale e la lingua che si andava costruendo in suo luogo
come organo del sapere e della conoscenza.
La situazione della lingua nel luogo della voce causa,
infatti, di un'altra irriducibile scissione che traversa il lin
guaggio umano, quella fra suono e senso, fra serie fonica e
musicale e serie semantica. Queste due serie, che coincide
vano nella voce animale, si separano ogni volta e si oppon
gono nel discorso secondo una duplice, inversa tensione, in
modo che la loro coincidenza impossibile e, insieme, irri
nunciabile. Ci che chiamiamo poesia e ci che chiamiamo
filosofia nominano le due polarit di questa opposizione nel
linguaggio. La poesia ha cos potuto essere definita come il
tentativo di tendere al massimo in direzione di un puro suo
no, attraverso la rima e l' enjambement, le differenze fra se
rie semiotica e serie semantica, suono e senso, <j>rovf) e ..oyo;
la prosa filosofica potr allora apparire, per converso, come
tesa verso il loro appagamento in un puro senso.
Contro questa lectio facilior del loro rapporto, occorre
piuttosto ricordare che decisivo , per entrambe, il momento
in cui <j>rovfJ e ..oyo, suono e senso sono a contatto - inten
dendo, con Giorgio Colli, il contatto non come un punto di
tangenza,, ma come il momento in cui due enti sono uniti (o,

CHE C O S ' LA FILOSOFIA ?

44

piuttosto, separati) solo da un'assenza di rappresentazione.


Se chiamiamo pensiero questo momento di contatto, possia
mo allora dire che poesia e filosofia sono in realt interne
l'una all'altra, nel senso che l'esperienza propriamente poeti
ca della parola si compie nel pensiero e l'esperienza propria
mente pensante della lingua ha luogo nella poesia. La filoso
fia , cio, ricerca e commemorazione della voce, cos come
la poesia, secondo quanto i poeti non cessano di ricordarci,
amore e ricerca della lingua. La prosa filosofica, in cui suono
e senso sembrano coincidere nel discorso, rischia pertanto
di mancare di pensiero, cosi come la poesia, che non cessa di
opporre suono e senso, rischia di mancare di voce. Per que
sto, come ha scritto Wittgenstein, la filosofia la si dovrebbe
propriamente soltanto poetare ( Philosophie diirfte man
eigentlich nur dichten, Wittgenstein 1 977, p. 5 8), a condi
zione di aggiungere che la poesia la si dovrebbe propriamen
te soltanto filosofare. La filosofia sempre e costitutivamen
te filosofia della - genitivo soggettivo - poesia e la poesia
sempre e originariamente poesia della filosofia.

1 8.
Se chiamiamo factum loquendi il fatto della pura e sem
plice esistenza del linguaggio, indipendentemente dal suo at
testarsi in questa o quella lingua, in questa o quella gramma
tica, in questa o quella proposizione significante, possiamo
allora dire che la linguistica e la logica moderne hanno potu
to costituirsi come scienze solo lasciando da parte come un
presupposto impensato il factum loquendi, il puro fatto che
si parli, per occuparsi unicamente del linguaggio in quanto
descrivibile in termini di propriet reali - in quanto, cio,

EXPERIMENTUM VO CIS

45

questa o quella lingua, ha questa o quella grammatica,


comunica questo o quel contenuto semantico. Noi parlia
mo sempre all'interno del linguaggio e attraverso il linguag
gio e parlando di questo o di quell'argomento, predicando
qualcosa di qualcosa, dimentichiamo ogni volta il semplice
fatto che ne stiamo parlando. Nell'istante dell'enunciazio
ne, tuttavia, il linguaggio non si riferisce a nessuna realt
lessicale n al testo dell'enunciato, ma unicamente al pro
prio aver luogo. Esso fa riferimento soltanto al suo aver
luogo nel togliersi della voce, si tiene in relazione negativa
con la voce che, secondo il mito, sparendo, gli d luogo.
Se questo vero, allora possiamo definire il compito del
la filosofia come il tentativo di esporre e di fare esperienza
di quel factum che la metafisica e la scienza del linguaggio
devono limitarsi a presupporre, di prendere, cio, coscienza
del puro fatto che si parli e che l'evento di parola accade al
vivente nel luogo della voce, ma senza che nulla lo articoli a
questa. Dove voce e linguaggio sono a contatto senza alcuna
articolazione, l avviene un soggetto, che testimonia di que
sto contatto. Il pensiero che voglia rischiarsi in questa espe
rienza deve situarsi risolutamente non solo nello iato - nel
contatto - fra lingua e parola, semiotico e semantico, ma
anche in quello fra la cj>roviJ e il oyo. Il pensiero, che - fra
la parola e la lingua, l'esistenza e l'essenza, la potenza e l'at
to - si rischia in questa esperienza deve accettare di trovarsi .
ogni volta senza lingua di fronte alla voce e senza voce di
fronte alla lingua.

Sul concetto di esigenza

Sempre di nuovo la filosofia si trova davanti al compito


di una definizione rigorosa del concetto di esigenza. Que
sta definizione tanto pi urgente, in quanto si pu dire,
senz'alcun gioco di parole, che la filosofia esige questa de
finizione e che la sua possibilit coincide integralmente con
questa esigenza.
Se non vi fosse esigenza, ma solo necessit, non potreb
be esservi filosofia. Non ci che ci obbliga, ma ci che ci
esige; non il dover-essere n la semplice realt fattuale, ben
s l'esigenza: questo l'elemento della filosofia. Ma anche
la possibilit e la contingenza, per effetto dell'esigenza, si
trasformano e modificano. Una definizione dell'esigenza
implica, cio, come compito preliminare una ridefinizione
delle categorie della modalit.

Leibniz ha pensato l'esigenza come un attributo della


possibilit: omne possibile exigit existiturire, ogni possibi
le esige di esistere. Ci che il possibile esige di diventare
reale, la potenza - o essenza - esige l'esistenza. Per questo
Leibniz definisce l'esistenza come un'esigenza dell'essenza:
Si existentia esset aliud quiddam quam essentiae exigentia,
sequeretur ipsam habere quandam e sentiam, seu aliquid

CHE C O S ' LA FILOSOFIA ?

novum superadditum rebus, de quo rursus quaeri potest,


an haec essentia existat, et cur ista potius quam alia. (Se
l'esistenza fosse qualcos' altro che un'esigenza dell'essenza,
ne seguirebbe che anch'essa avrebbe una qualche essenza,
cio qualcosa che si aggiungerebbe alle cose; e allora si po
trebbe nuovamente chiedere se questa essenza a sua volta
esista, e perch questa piuttosto che un'altra). Nello stes
so senso, Tommaso scriveva ironicamente che come non
possiamo dire che la corsa corre, cos non possiamo nem
meno dire che l'esistenza esista.
L'esistenza non un quid, un qualcosa di altro rispetto
all'essenza o alla possibilit, solo una esigenza contenuta
nell'essenza. Ma come comprendere questa esigenza ? In
un frammento del r 689, Leibniz chiama questa esigenza
existiturientia (termine formato sull'infinito futuro di exi
stere) ed attraverso di essa che egli cerca di rendere com
prensibile il principio di ragione. La ragione per cui qualco
sa esiste piuttosto che nulla consiste nella prevalenza delle
ragioni di esistere (ad existendum) su quelle di non esistere,
cio, se lecito dirlo con una parola, nella esigenza di esistere
dell'essenza (in existiturientia essentiae ). La radice ultima di
questa esigenza Dio (dell'esigenza di esistere delle essenze
- existituritionis essentiarum - bisogna che vi sia una radice a
parte rei e questa radice non pu essere che l'ente necessario,
fondo - fundus - delle essenze e fonte - fons - delle esisten
ze, cio Dio . . . Mai, se non in Dio e attraverso Dio, le essenze
potrebbero trovare una via per l'esistenza - ad existendum ).

Un paradigma dell'esigenza la memoria. Benjamin ha


scritto una volta che, nel ricordo, noi facciamo l'esperienza
che ci che sembra assolutamente compiuto - il passato - ri-

SUL CONCETTO DI ESIGENZA

diventa di colpo incompiuto. Anche la memoria, in quanto


restituisce incompiutezza al passato e lo rende cos in qual
che modo per noi ancora possibile, qualcosa come un'esi
genza. La posizione leibniziana del problema dell'esigenza
qui rovesciata: non il possibile a esigere di esistere, ma il
reale, il gi stato a esigere la propria possibilit. E che cos' il
pensiero se non la capacit di restituire possibilit alla realt,
di smentire la falsa pretesa dell'opinione a fondarsi soltanto
sui fatti ? Pensare significa innanzitutto percepire l'esigenza
di ci che reale di ridiventare possibile, rendere giustizia
non soltanto alle cose, ma anche alle loro lacrime.
Nello stesso senso Benjamin ha scritto che la vita del prin
cipe Myskin esige di restare indimenticabile. Questo non
significa che qualcosa che stato dimenticato, esiga ora di
tornare alla memoria: l'esigenza concerne l'indimenticabile
come tale, quand'anche tutti lo avessero per sempre dimen
ticato. L'indimenticabile , in questo senso, la forma stessa
dell'esigenza. E questa non la pretesa di un soggetto, uno
stato del mondo, un attributo della sostanza - cio, nelle pa
role di Spinoza, qualcosa che la mente concepisce di essa
come costituente la sua essenza.

L'esigenza dunque, come la giustlzta, una categoria


dell'antologia e non della morale. Non nemmeno una ca
tegoria logica, in quanto essa non implica il suo oggetto,
come la natura del triangolo implica che la somma dei suoi
angoli sia uguale a due angoli retti. Si dir, cio, che una
cosa ne esige un'altra, quando, se la prima , anche l'altra
sar, senza, per, che la prima la implichi logicamente o
la contenga nel proprio concetto e senza che obblighi per
questo l'altra ad esistere sul piano dei fatti.

CHE C O S ' LA FILOSOFIA ?

A questa definizione dovrebbe seguire una revisio


ne delle categorie antologiche che i filosofi si astengono
dall'intraprendere. Leibniz attribuisce l'esigenza all'essen
za (o possibilit) e fa dell'esistenza l'oggetto dell'esigenza.
Il suo pensiero resta, cio, ancora tributario del dispositivo
antologico, che divide nell'essere essenza e esistenza, po
tenza e atto e vede in Dio il loro punto di indifferenza, il
principio esistentificante ( existentificans ), in cui l'essenza
si fa esistente. Ma che cos' una possibilit che contiene una
esigenza ? E come pensare l'esistenza, se essa non altro
che un'esigenza? E se l'esigenza fosse pi originale della
stessa distinzione fra essenza e esistenza, possibile e reale ?
Se l'essere stesso fosse da pensare come un'esigenza, di cui
le categorie della modalit (possibilit, contingenza, neces
sit) non sono che le inadeguate specificazioni, che occorre
revocare decisamente in questione ?

Dal fatto che l'esigenza non sia una categoria morale,


consegue che da essa non pu provenire nessun imperativo,
che essa non ha cio nulla a che fare con un dover-essere.
Ma, con ci, la morale moderna, che si dichiara estranea alla
felicit e ama presentarsi nella forma categorica di un'in
giunzione, condannata senza riserve.

Paolo definisce la fede (m<rn) come l'esistenza (im6<Ytam)


delle cose sperate. La fede fornisce, cio, una realt e una
sostanza a ci che non esiste. In questo senso, la fede si
mile a un'esigenza, a condizione, per, di precisare che non
si tratta dell'anticipazione di una cosa a venire (come per il
devoto) o che deve essere realizzata (come per il militan-

SUL CONCETTO D I ESIGENZA

53

te politico): la cosa sperata gi compiutamente presente


in quanto esigenza. Per questo la fede non pu essere una
propriet del credente, ma un'esigenza che non gli appar
tiene e lo raggiunge dall'esterno, dalle cose sperate.

Quando Spinoza definisce l'essenza come conatus, egli


pensa qualcosa come un'esigenza. Per questo nella proposi
zione 7 della III parte dell'Etica: Conatus, quo unaquaeque
res in suo esse perseverare conatur, nihil est praeter ipsius
rei actualis essentia, il termine conatus non dev'essere tra
dotto, come avviene di solito, con sforzo, ma con esi
genza: L'esigenza, attraverso la quale ciascuna cosa esige
di perseverare nel suo essere, non nient'altro che la sua
essenza attuale. Che l'essere esiga (o desideri: lo scoli o
precisa che il desiderio cupiditas uno dei nomi del co
natus), significa che esso non si esaurisce nella realt fattua
le, ma contiene un'esigenza che va al di l di questa. L'essere
non semplicemente, ma esige di essere. Il che significa, an
cora una volta, che il desiderio non appartiene al soggetto,
ma all'essere. Come chi ha sognato una cosa, in realt l'ha
gi avuta, cos il desiderio porta con s la sua soddisfazione.
-

L'esigenza non coincide n con la sfera dei fatti n con


quella degli ideali: essa , piuttosto, materia, nel senso in cui
Platone la definisce nel Timeo come un terzo genere dell'es
sere fra l'idea e il sensibile, che offre un luogo (xo)pa) e una
sede alle cose che vengono in essere. Per questo, come della
xo)pa, anche dell'esigenza si pu dire che la percepiamo con
una assenza di sensazione (J.tE't' vmcrGT]cria non senza
sensazione, ma con una anestesia) e con un discorso ba-

54

CHE C O S' LA FILOSOFIA ?

stardo e appena credibile: cio, che essa ha l'evidenza della


sensazione senza la sensazione (come - dice Platone - avvie
ne nei sogni) e l'intellegibilit del pensiero, ma senza alcuna
possibile definizione. La materia , in questo senso, l'esigen
za che spezza la falsa alternativa fra il sensibile e l'intellegi
bile, il linguistico e il non linguistico: vi una materialit del
pensiero e della lingua, cos come vi un'intellegibilit nella
sensazione. Ed questo terzo indeterminato che Aristotele
chiama Ull e i medievali silva, volto incolore della sostan
za e grembo infaticabile della generazione, e di cui Ploti
no dice che come un'impronta del senza forma.
Occorre pensare la materia non come un sostrato, ma
come un'esigenza dei corpi: essa ci che un corpo esige e
che noi percepiamo come la sua pi intima potenza. Si com
prende cos meglio il nesso che lega da sempre la materia alla
possibilit (i platonici di Chartres definivano per questo la
Ull come la possibilit assoluta, che tiene tutte le cose im
plicate in se stessa): ci che il possibile esige non di passare
all'atto, ma di materiarsi, di farsi materia. in questo senso
che si devono intendere le tesi scandalose di quei materialisti
medievali come Amalrico di Bne e Davide di Dinant che
identificavano Dio e la materia (yle mundi est ipse deus) : Dio
l'aver luogo dei corpi, l'esigenza che li segna e materia.

Come, secondo un teorema benjaminiano, il Regno


messianico non pu essere presente nella storia che in for
me ridicole e infami, cos, sul piano dei fatti, l'esigenza si
manifesta nei luoghi pi insignificanti e secondo modalit
che, nelle circostanze presenti, possono apparire spregevoli
e incongrue. Rispetto all'esigenza, ogni fatto inadeguato,
ogni appagamento insufficiente. E non perch essa ecceda

SUL CONCETTO DI ESI GENZA

55

ogni possibile realizzazione, ma semplicemente perch essa


non pu mai essere posta sul piano di una realizzazione.
Nella mente di Dio - cio nello stato della mente che cor
risponde all'esigenza come stato dell'essere - le esigenze
sono gi appagate da tutta l'eternit. In quanto viene pro
iettato nel tempo, il messianico si presenta come un altro
mondo che esige di esistere in questo mondo, ma non pu
farlo che in modo parodico o approssimativo, come una di
storsione, non sempre edificante, del mondo. La parodia ,
in questo senso, la sola espressione possibile dell'esigenza.

Per questo, l'esigenza ha trovato un'espressione sublime


nelle beatitudini evangeliche, nella tensione estrema che se
para il Regno dal mondo. Beati i poveri nello spirito, per
ch di essi il regno dei cieli. Beati i miti, perch possede
ranno la terra. Beati coloro che piangono, perch saranno
consolati . . . Beati i perseguitati, perch di essi il regno dei
cieli. Beati sarete quando vi malediranno e perseguiteran
no . . . . significativo che, nel caso privilegiato dei poveri
e dei perseguitati - cio nelle due condizioni agli occhi del
mondo pi infami - il verbo sia al presente: il regno dei
cieli qui e ora di coloro che si trovano nella situazione
pi lontana da esso. L'estraneit dell'esigenza a ogni rea
lizzazione fattuale nel futuro qui affermata nel modo pi
puro: e, tuttavia, proprio per questo, essa trova ora il suo
vero nome. Essa - nella sua essenza - beatitudine.

L'esigenza lo stato di complicazione estrema di un es


sere, che implica in s tutte le sue possibilit. Ci significa
che essa si tiene in una relazione privilegiata con l'idea, che,

CHE C O S ' LA FILOSOFIA ?

nell'esigenza, le cose sono contemplate sub quadam aeter


nitatis specie. Come quando contempliamo l'amata mentre
dorme. Essa l - ma come sospesa da tutti i suoi atti, invo
luta e raccolta in se stessa. Come l'idea, c' e, insieme, non
c'. Sta davanti al nostro sguardo, ma perch ci fosse vera
mente occorrerebbe destarla e, cos facendo, la perderem
mo. L'idea - l'esigenza - il sonno dell'atto, la dormizione
della vita. Tutte le possibilit sono ora raccolte in un'unica
complicazione, che la vita andr poi man mano spiegando ha gi, in parte, spiegato. Ma, di pari passo al procedere delle
spiegazioni, sempre pi s'addentra e complica in s inespli
cabile l'idea. Essa l'esigenza che resta indelibata in tutte le
sue realizzazioni, il sonno che non conosce risveglio.

Sul dicibile e l'idea

I.

, Non l'indicibile, ma il dicibile costituisce il problema con


cui la filosofia deve ogni volta tornare a misurarsi. L'indicibi
le non infatti che una presupposizione del linguaggio. Non
appena vi linguaggio, la cosa nominata viene presuppo
sta come il non-linguistico o l'irrelato con cui il linguaggio
ha stabilito la sua relazione. Questo potere presupponente
cos forte, che noi immaginiamo il non-linguistico come
qualcosa di indicibile e di irrelato che cerchiamo in qualche
modo di afferrare come tale, senza accorgerci che in questo
modo non facciamo altro che tentare di afferrare l'ombra del
linguaggio. L'indicibile , in questo senso, una categoria ge
nuinamente linguistica, che solo un essere parlante pu con
cepire. Per questo Benjamin, nella lettera a Buber del luglio
1 9 1 6, poteva parlare di una cristallina eliminazione dell'in
dicibile nel linguaggio: l'indicibile non ha luogo fuori dal
linguaggio come un oscuro presupposto, ma, in quanto tale,
pu essere eliminato soltanto nel linguaggio.
Cercheremo di mostrare che, al contrario, il dicibile
una categoria non linguistica, ma genuinamente ontologi
ca. L'eliminazione dell'indicibile nel linguaggio coincide
con l'esposizione del dicibile come compito filosofico. Per

CHE COS ' LA FILOSOFIA ?

6o

questo il dicibile non pu mai darsi, come l'indicibile, pri


ma o dopo il linguaggio: scaturisce insieme ad esso e resta,
tuttavia, irriducibile ad esso.

2.

Con questo termine - dicibile, EK'tOV - gli stoici desi


gnavano un elemento essenziale della loro dottrina degli
incorporei, sulla cui definizione gli storici della filosofia
non hanno per raggiunto un accordo. Prima di iniziare
un'indagine su questo concetto, converr, pertanto, situar
lo innanzitutto nel contesto filosofico che gli compete. Gli
studiosi moderni, che tendono a proiettare anacronistica
mente categorie e classificazioni moderne su quelle antiche,
iscrivono di solito questo concetto nell'ambito della logica.
E tuttavia questi stessi studiosi sanno perfettamente che la
divisione della filosofia in logica, antologia, fisica, metafisi
ca ecc. opera dei grammatici e degli scoliasti tardo-antichi
e si presta a equivoci e fraintendimenti di ogni genere.
Sia il trattato aristotelico sulle Categorie o predicazioni
(ma il termine greco Ka'tT)yopiat significa nel linguaggio giu
ridico imputazioni, accuse), classificato tradizionalmente
tra le opere logiche di Aristotele. Esso contiene tuttavia tesi
di indubbio carattere antologico. I commentatori antichi di
scutevano pertanto su quale fosse l'oggetto (crKo1to, il fine)
del trattato: le parole (<Provai), le cose (1tpayJla'ta) o i concetti
(v011 Jla'ta). Nel prologo al suo commento, Filopono, ripe
tendo argomenti del suo maestro Ammonio, scrive che se
condo alcuni (fra cui Alessandro di Afrodisia) oggetto del
trattato sono soltanto le parole, secondo altri (come Eusta
zio) soltanto le cose e secondo altri, infine (come Porfirio ),

SUL DICIBILE E L' IDEA

61

solo i concetti. Pi corretta , secondo Filopono, l a tesi di


Giamblico (che egli accetta con qualche precisazione) se
condo cui crKo7to del trattato sono le parole in quanto si
gnificano le cose attraverso i concetti ( <j)rovrov <J'Ilflatvoucrrov
7tpayJla'ta Ot Jlcrov VOTJflcX'trov, Filopono 1 89 8, pp. 8 -9). Di
qui l'impossibilit di distinguere, nelle Categorie, logica
e antologia. Aristotele tratta qui delle cose, degli enti, in
quanto sono significati dal linguaggio, e del linguaggio in
quanto si riferisce alle cose. La sua antologia presuppone il
fatto che, come egli non si stanca di ripetere, l'essere si dice
( 't ov yE'tat. . . ), gi sempre nel linguaggio. L'ambiguit
fra logico e antologico cos consustanziale al trattato che,
nella storia della filosofia occidentale, le categorie si pre
senteranno tanto come generi della predicazione che come
generi dell'essere.

M Le nostre classificazioni delle opere di Aristotele derivano dall'e


dizione che ne diede Andronico di Rodi fra il 40 e il 20 a.C. a lui che
si deve tanto la raccolta dei cosiddetti scritti logici di Aristotele in un
Organon quanto la famigerata collocazione J.!E-t t cj>umKa delle lezioni
e degli appunti che oggi chiamiamo Metafisica. Mentre Andronico era
convinto che Aristotele fosse un pensatore consapevolmente sistema
tico e che la sua edizione riflettesse pertanto fedelmente l'intenzione
dell'autore, noi sappiamo che egli proiettava su di lui idee ellenistiche
del tutto estranee a una mente classica. Le edizioni moderne di Aristo
tele, per quanto filologicamente aggiornate, rispecchiano purtroppo an
cora l'erronea concezione di Andronico. No i continuiamo cos a leggere
Aristotele come se egli avesse veramente composto sistematicamente un
opyavov logico, dei trattati sulla fisica, sulla politica e sull'etica e, infine,
la Metafisica. Una lettura di Aristotele diventa possibile solo a partire
dalla distruzione di questa articolazione canonica del suo pensiero.

CHE C O S ' LA FILOSOFIA ?

3
Considerazioni analoghe valgono per il dicibile degli
stoici. Negli studi moderni, l'appartenenza del EK'tOV alla
sfera della logica sembra scontata, ma essa riposa su as
sunzioni (come l'identit fra crT))latVO)lEVOV e EK'tOV, si
gnificato e dicibile) che sono tutt'altro che sicure. Sia la
testimonanza di Ammonio, che definisce criticamente il
EK'tOV da un punto di vista aristotelico: Aristotele inse
gna che cosa siano le cose innanzitutto e immediatamente
significate (crTJ)latVO)lEVa, sci!. dai nomi e dai verbi) e i con
cetti (voi))la'ta) e, attraverso questi, le cose (7tpay)la'ta) e af
ferma che non si deve pensare oltre a questi (cio il VOll)la e
il 7tpay)la) un altro medio, come quello che gli stoici sup
pongono col nome di dicibile (EK'tov) (Ammonio I 897,
p. 5 ). Ammonio ci informa, cio, che gli stoici inserivano,
secondo lui inutilmente, fra il concetto e la cosa un terzo,
che chiamavano dicibile.
Il passo in questione proviene dal commento di Am
monio al IlEp P)lllVEia. Qui Aristotele definiva il pro
cesso dell' interpretazione attraverso tre elementi: le
parole ( 't v 'ti] <j>rovij), i concetti (pi precisamente le af
fezioni nell'anima, 't 7ta8i))la'ta v 'ti] 'JIUXiJ), di cui le p a
role sono segni, e le cose ( 't 1tpay)la'ta ), di cui i concetti
sono le similitudini. Il dicibile stoico, suggerisce Ammo
nio, non soltanto non qualcosa di linguistico, ma non
nemmeno un concetto e neppure una cosa. Esso non
ha luogo nella mente n semplicemente nella realt, non
appartiene n alla logica n alla fisica, ma sta in qualche
modo fra di essi. di questa situazione particolare fra la
mente e le cose che si tratter di tracciare una cartografia.
possibile, infatti, che questa sitazione fra la mente e le

SUL DICIBILE E L' IDEA

cose sia propriamente lo spazio dell'essere, che il dicibile


coincida, cio, con l'antologico.

4
La fonte pi ampia e, insieme, pi problematica, da cui
deve partire ogni interpretazione della dottrina del dicibile
un passo dell'Adversus mathematicos di Sesto Empirico
( I 842, VIII, 1 1 sg, p. 29 I ): Alcuni ponevano il vero e il
falso nella cosa significata (1tEp 'tep crT))latVO)lVql), altri nella
parola (1tEp 'ti] <j>rovij) e altri ancora nel movimento del pen
siero (1tEp 'ti] Ktvi)on 'tft tavoia). Nella prima opinione
primeggiano gli stoici, che dicevano che tre si congiungono
fra loro, il significato ( crT))latVO)lEvov), il significante ( crTJ
)latvov) e l'oggetto ('tuyxavov, " ci che capita essere", la
cosa esistente che ogni volta in questione). Il significante
la parola (<)>rovi)) - ad esempio, " Dione"; il significato la
cosa stessa in quanto manifestata da essa (a't 't 7tpay)la
't 1t' a'tft TJOU)lEvov), che noi afferriamo come ci che
sussiste accanto (1tapu<j>ta'ta)lvou) al nostro pensiero e che
i barbari non comprendono anche se odono la parola; l' og
getto la sostanza che esiste al di fuori ('t K't 1tOKEi
)lEvov) (ad esempio Dione stesso). Di questi, due sono cor
pi, e cio la parola e l'oggetto, uno invece incorporeo, cio
la cosa significata e dicibile ('t crT))latVO)lEVov 1tpay)la Ka
EK'tov), che diventa vera o falsa.
Il significante (la parola significante) e l'oggetto (la cosa
che vi corrisponde nella realt, nei termini moderni il de
notato) sono evidenti. Pi problematico lo statuto del
crT))latVO)lEvov incorporeo, che gli studiosi moderni hanno
identificato col concetto presente nella mente di un sogget-

CHE C O S' LA FILOSOFIA ?

to (simile al voru.ta aristotelico secondo Ammonio) o col


contenuto oggettivo di un pensiero, che esiste indipenden
temente dall'attivit mentale di un soggetto (come il pen
siero - Gedanke - in Frege) (Schubert I 994, pp. I 5 - I 6).
Entrambe le interpretazioni proiettano sulla Stoa la teo
ria moderna della significazione e, in questo modo, omet
tono di misurarsi con una lettura filologicamente corretta
del testo. Il fatto che i barbari non comprendano il <J11 1..Latv6f.LCVOV quando odono la parola pu indurre a assimilarlo al
senso o all'immagine mentale (nel senso di Frege); ma Sesto,
contrapponendo gli stoici a coloro che pongono il vero e il
falso nel movimento del pensiero, esclude implicitamente
che il <J111..LatV01..LEVOV possa identificarsi col pensiero di un
soggetto. Il testo dice del resto chiaramente che il <J11 1..La tv61..LEVOV non identico al pensiero, ma sussiste accanto ad
esso. Anche il passo successivo, che sembra evocare qualco
sa di simile a ci che i moderni chiamano significato (alme
no nel senso di Bedeutung o denotazione), esige un'inter
pretazione pi attenta. Il <J11 1..LatVOI..LEVOV qui definito come
la cosa stessa (atYt 't 1tpay1.1a) in quanto manifestata
dalla parola ( 't Ur a'tft OE.O'f.LCVOV - notare la ripetizione
dell'articolo 'tO, che abbiamo reso con in quanto).
ilpay1.1a, come il latino res, significa innanzitutto ci
che in questione, ci di cui ne va in un processo o in una
discussione (di qui la traduzione con cosa, che deriva
dal latino causa) e poi anche cosa o stato di fatto; ma
che non si tratti qui di una cosa in questo secondo senso
chiaro per la sua distinzione dal 'tvyxavov, ci che di volta
in volta capita essere (a 'tuyxavEt ov'ta), l'evento o l' ogget
to reale. Questo non significa, per, che la cosa stessa
sia semplicemente il significato in senso moderno, il con
tenuto concettuale o l'oggetto intenzionale indicato dalla

SUL DICIBILE E L' IDEA

parola. La cosa stessa, a''t 't 1tpay1.1a, indica ci che in


questione nella parola e nel pensiero, la res che, attraverso
la parola e il pensiero, ma senza coincidere con essi, in
causa fra l'uomo e il mondo.
Come mile Brhier ha osservato, la precisazione la cosa
significata e dicibile non implica che <J111..LatVOf.lCVOV e .EK'tov
siano la stessa cosa, che il fatto di essere dicibile sia identico al
fatto di essere significato. Nella sua edizione del frammento,
Arnim ha inserito una virgola tra 't <J111..LatVof.!Cvov 1tpay1.1a e
Kat .EK'tov, il che permette di affermare tanto l'identit che
la differenza fra i due termini. In generale conclude infat
ti Brhier se il significato un esprimibile (cos egli tradu
ce .EK'tov), non risulta in alcun modo che ogni esprimibile
sia un significato (Brhier I 997, p. I 5 ) . Tanto pi decisiva
diventa qui l'interpretazione del sintagma la cosa stessa
( a''t 't 1tpay1.1a): in questione la cosa stessa nel suo essere
manifesta e dicibile: ma come intendere e dove situare una
tale cosa stessa ?

N La Dialettica di Agostino ci ha conservato un'analisi della signi


ficazione linguistica in cui l'influsso di Varrone e della Stoa evidente.
Agostino (De dia/. 5 ) distingue nella parola (verbum) - la quale, pur
essendo un segno, non cessa di essere una cosa>> - quattro possibili
elementi. Il primo si ha quando la parola pronunziata in riferimento
a se stessa, come in un discorso grammaticale (in questo caso verbum
e res coincidono); nel secondo - che Agostino chiama dictio - la parola
pronunziata per significare non s, ma qualcosa di altro (non propter
se, sed propter aliquid significandum); il terzo la res, cio l'oggetto
esterno, che non parola n il concetto della parola nella mente (verbi
in mente conceptio ) ; il quarto, che Agostino, traducendo letteralmente
il termine stoico, chiama dicibile, ci che che dalla parola si percepi
sce non con le orecchie, ma con l'animo (quicquid autem ex verbo non
auris, sed animo sentit et ipso animo continetur inclusum)>>.

CHE COS ' LA FILOSOFIA ?

66

La distinzione fra la dictio (la parola nel suo aspetto semantico) e il


dicibile doveva riuscirgli impervia, perch egli cerca di chiarirla subito
dopo senza completamente riuscirei: Ci che ho chiamato dicibile
parola e tuttavia non parola, ma ci che nella parola si intende ed
contenuto nell'animo (verbum est nec tamen verbum, sed quod in ver
bo intelligitur et animo continetur). Ci che ho chiamato dictio una
parola, che significa, per, nello stesso tempo due, cio tanto la parola
stessa che ci che si produce nell'animo attraverso la parola (verbum
est, sed quod iam illa duo simul, id est et ipsum verb11m et quod fit in
animo per verbum significat) (ibid. ).
Occorre non lasciarsi sfuggire le sfumature attraverso cui Agostino
- ricorrendo, ad esempio, a preposizioni diverse - cerca di definire la
differenza. Nella dictio, in questione qualcosa (il significato) che resta
indissolubilmente legato alla parola significante ( una parola - verbum
est - e, insieme, ci che si produce nell 'animo - in animo - attraverso la
parola - per verbum ) ; il dicibile, invece, non propriamente una parola
(verbum est nec tamen verbum), ma ci che dalla parola (ex verbo) si
percepisce con l'animo. La situazione aporetica del dicibile fra il signi
ficato e la cosa qui evidente.

5
L'espressione la cosa stessa appare in un passo decisivo
della Settima lettera di Platone, un testo della cui influenza nella
storia della filosofia siamo ancora lontani dal prendere coscien
za. Una comparazione della fonte stoica citata da Sesto con la
digressione filosofica della lettera mostra, infatti, delle singolari
affinit. Diamo qui per comodit il testo della digressione:
Per ciascuno degli enti vi sono tre, attraverso i quali necessario
che si generi la scienza, quarta la scienza stessa, quinto si deve porre
quello stesso attraverso cui (ciascun ente) conoscibile (yv(I)O"tov) ed
veramente. Il primo il nome, secondo il discorso definitorio (A.Oyo),
terza l'immagine (dm..o v), quarta la scienza. Se vuoi intendere quel

SUL DICIBILE E L' IDEA

che ora ho detto, prendi un esempio e pensa cos intorno a ogni cosa. Vi
un che detto cerchio (Kudo crti tt tyO!ffiv ov), il cui nome quello
stesso che abbiamo appena proferito; secondo il suo A.Oyo, composto
di nomi e di verbi: ci che in ogni punto dista ugualmente dagli estre
mi al centro>> : ecco il A.Oyo di ci che ha nome tondo, circonferen
za>> o cerchio>> . Terzo ci che si disegna e si cancella e si forma col
tornio e si distrugge, ma di tutto questo nulla patisce il cerchio stesso
(at KUKo), intorno al quale sono tutte queste cose, perch altro
da esse. Quarta la scienza e l'intelletto e l'opinione vera intorno a
queste cose; e tutto ci si deve pensare come una unica cosa, che non ha
sede nelle parole (Y cj>mva) n nelle figure corporee, ma nelle anime
(v 'JIUXa), per cui chiaro che altro dalla natura del cerchio stesso e
dai tre di cui si parlato ( 3 42 a 8 - d r ) .

Non solo alle parole che aprono la digressione: Per cia


scuno degli enti vi sono tre, attraverso i quali necessario
che si generi la scienza corrisponde puntualmente il tre si
congiungono fra loro da cui esordisce la citazione stoica
di Sesto, ma i tre qui menzionati (il <J11 J.tatvov o la parola
significante, ad esempio Dione>>, l'oggetto reale, 'tuyxavov
e il <J11 J.tatVOJ.tEVOV) corrispondono ad altrettanti elementi
presenti nell'elenco platonico. Il primo, la parola signifi
cante ( <j>wvi)), corrisponde esattamente a ci che Platone
chiama nome ( ovoJ.ta, ad esempio cerchio>>, che egli situa
appunto v <j>wva'); il secondo, il 'tuyxavov, corrisponde al
cerchio che si disegna e si cancella e si forma col tornio e
si distrugge>>, ci che di volta in volta si presenta e accade.
Pi problematica l'identificazione di che cosa nell'elen
co platonico corrisponda al <J11J.tatVOJ.tEVOV e al dicibile. Se lo
si identifica col quarto, che non ha sede n nelle parole n
nelle figure corporee, ma nelle anime>>, ci si accorda con lo
statuto incorporeo della cosa significata>>, ma implica che
esso sia da identificare col pensiero o con la mente di un
soggetto, mentre la fonte stoica escludeva ogni coincidenza

C H E C O S ' L A FILOSOFIA ?

68

con un movimento del pensiero. Resta il quinto - l'idea


- alla cui denominazione tecnica (il cerchio stesso, a\Yt
KUK.o) la fonte stoica, scrivendo la cosa stessa ( at
't 1tpayf..l a ), sembra richiamarsi esplicitamente. Se vero che
la storia della filosofia postplatonica , gi a partire da Ari
stotele, la storia dei diversi tentativi di eliminare o di pensare
altrimenti l'idea, l'ipotesi che intendiamo qui suggerire che
gli stoici sostituiscono il dicibile all'idea, o - quanto meno
situano il dicibile nel luogo dell'idea.

N Ho mostrato altrove (Agamben 200 5 , pp. q - r 6) l'opportunit di


reintegrare il testo dei manoscritti: quinto necessario porre quello
stesso attraverso cui (Bi o) conoscibile>> contro il <<si deve porre quello
stesso che conoscibile>> della maggioranza delle edizioni moderne.
N Che la fonte stoica citata da Sesto si articoli in relazione diretta
con la digressione della Settima lettera, suggerito discretamente dal
fatto che essa sostituisce al nome del personaggio esemplificativo, che
in Aristotele di solito Corisco o Callia, quello di Dione, cio proprio
il nome dell'amico che Platone evoca continuamente nella lettera.

6.
Che il dicibile possa avere a che fare con l'idea platonica
un'ipotesi che gli studiosi moderni evocano solo negativa
mente, scrivendo, ad esempio, che i EK't0, pur non essendo
entit platoniche, tuttavia possono valere come contenuti og
gettivi del pensiero e del linguaggio (Schubert I 994, p. I 5 ).
La denegazione , come sempre, significativa, perch proprio
una lettura della dottrina del dicibile in puntuale relazione cri
tica alla teoria delle idee permette di chiarirne lo statuto (e, nel
contempo, getta anche una nuova luce su questa cos spesso

SUL DICIBILE E L' IDEA

fraintesa invenzione platonica: l'idea). Come l'idea, il dicibile


non n nella mente n nelle cose sensibili, n nel pensiero
n nell'oggetto, ma fra di essi. Illuminante , in questo sen
so, l'uso negli stoici del verbo 1tapU<>imacr&n in riferimento
ai dicibili: essi non esistono", ma sussistono accanto (questo
il significato letterale del verbo) al pensiero o alla rappresen
tazione logica, cos come l'idea paradigma, ci che si mostra
accanto (7tapa-etyf..la) alle cose. Gli stoici accolgono, cio, da
Platone il modo speciale di esistenza dell'idea e modellano su
di esso quello del .EK'tv; lo mantengono per in cos stretta
relazione al pensiero e al linguaggio, che esso ha potuto spesso
essere confuso con l'uno o con l'altro. Essi cercano, cio, di
pensare insieme (senza per confonderli, se l'osservazione di
Brhier sulla non coincidenza di <Jllf..latVOf..lEVOV e EK'tOV cor
retta) il quarto e il quinto elemento della digressione platoni
ca. Di qui, l'affermazione, ripetuta pi volte nelle fonti, che gli
stoici avrebbero identificato le idee con i concetti (woilf..lma
't iMa E(j)acrav, Arnim I 903, Il, 3 6o; cfr. ivi, I, 6 5 ).
Il dicibile conserva per sempre uno statuto non sempli
cemente linguistico e fortemente oggettivo. importante
leggere insieme in questa prospettiva i due passi che sembra
no confondere la sfera del dicibile con quella del linguaggio,
ma che le mantengono, in realt, chiaramente distinte. Ogni
dicibile (A.EK'tov) deve essere detto (.yecrSat e), e da que
sto ha tratto il suo nome (Sesto Empirico I 842, VIII, 8o, p.
304 = Arnim I 903, Il, I67) e dire (.ynv) e proferire (7tpo
<j>pecr8at) sono diversi: si proferiscono le parole (<j>rovai), si
dicono le cose (.yE'tat 't 7tpayf..la'ta), le quali si d il caso che
siano dicibili (EK't 't'\JYXOVEt) (Diog. Laert. VII, 5 6 = Ar
nim I 903, III, 20). Non solo ci che da dire non coincide,
ovviamente, col detto, ma proferire e dire, <J>rovt1 e 1tpayf.!a,
l'atto di parola e ci che in esso in questione sono diversi.

CHE C O S ' LA FILOSOFIA ?

Il .EK'tOV non n la cosa n la parola: la cosa nella sua di


cibilit, nel suo essere in causa nella parola, cos come, nella
Settima lettera, l'idea non semplicemente la cosa, ma la
cosa stessa nella sua conoscibilit (yvoxn6v, conoscibile,
corrisponde qui puntualmente a .EK'tOV, dicibile).

l't Heidegger sottolinea pi volte a ragione che M:ynv non equiva


le semplicemente a <<dire, ma significa etimologicamente <<raccogliere
insieme nella presenza (Heidegger 1 98 7, pp. 266-269: Ver-sammlung
ist das urspriingliche Einbehalten in einer Gesammelheit ). AyE'tat 't
7tPO'Yf.10'ta non significa: <<Le cose vengono espresse in parole da parte di
un soggetto parlante>>, ma <<si manifestano e si raccolgono nella presen
za>>. Si tratta, cio, di una tesi antologica e non meramente logica. Allo
stesso modo, quando Aristotele scrive che 't ov i:yE'tat 1tOaxO), oc
corre tradurre non semplicemente, come si fa di solito: <<il termine es
sere si dice in molti sensi, ha molti significati>>, ma <<l'essere si raccoglie
(si " legge") nella presenza in molti modi>> .

7
Prima degli stoici, gi Aristotele si era misurato con la
teoria della conoscenza contenuta nella Settima lettera.
Nel IlEp P)lllVEia, un'opera che ha influenzato per secoli
ogni riflessione sul linguaggio in Occidente, egli definisce
il processo della significazione linguistica in un modo che,
bench sembri senza rapporto con esso, va letto in puntua
le contrappunto al testo della digressione.
Ci che nella parola ('t v 'tfl qxovfl) segno delle impressioni nell'a
nima (v 'tfl 'JIUXW e ci che scritto segno di ci che nella parola. E
come le lettere non sono le stesse per tutti gli uomini, cos neppure le
parole; ci di cui esse sono innanzitutto segni, cio le impressioni nell'a-

SUL DICIBILE E L' IDEA

nima, questi sono gli stessi per tutti; e anche le cose (1tpOyf.10'tO), di cui
queste sono le sirnilitudini, sono per tutti le stesse (De int. 1 6 a 3 -7).

La tripartizione in cui Aristotele articola la comprensione


(nella parola, nell'anima, nelle cose) ricalca infatti puntual
mente la distinzione platonica fra ci che v cj>rova'i, nelle
parole (il nome e il discorso definitorio), ci che v ,,,.uxa'i,
nelle anime (conoscenza, intelletto e opinione) e ci che v
<JO)l<l'trov crxry.wmv (gli oggetti sensibili). Coerentemente alla
tenace critica aristotelica della teoria delle idee, la cosa stessa ,
invece, sparita. La ripresa dell'elenco platonico , in realt, una
confutazione del pensiero del suo maestro, che espunge l'idea
dal processo della P)lllVEia, dell'interpretazione del mondo
attraverso le parole e i concetti. La comparsa, altrimenti in
spiegabile, di un quarto elemento, la lettera, accanto alle pa
role, ai concetti e alle cose, un'allusione polemica - discre
ta, ma, per il lettore accorto, evidente - al testo del maestro.
Mentre la digressione della Settima lettera era infatti diretta
proprio a mostrare l'insufficienza della scrittura rispetto alla
cosa stessa, la lettra, in quanto segno e insieme elemento della
parola, qui la prima garanzia dell'intellegibilit del ').jyyo.

Elenchiamo gli uni accanto agli altri gli elementi della conoscenza
in Platone, in Aristotele e negli stoici:
l't

PLATONE

ARISTOTELE

STO ICI

nome

parole

significante

discorso definitorio

impressione nell'anima

significato

corpi e figure

cose

oggetto ('t'U)'XOVOV)

scienza, concetto

lettere

cosa stessa (idea)

dicibile (cosa stessa)

CHE COS ' LA FILOSOFIA ?

Mentre in Aristotele l'idea semplicemente espunta, gli stoici sosti


tuiscono ad essa il dicibile.
importante osservare che l'elenco platonico, in quanto include
la scienza fra i suoi elementi, non si esaurisce in una teoria della cono
scenza e mira a qualcosa - l'idea - che non appartiene alla conoscenza,
ma la rende possibile.

SUL DICIBILE E L' IDEA

73

secondo cui le idee sono ci che massimamente si pu pren


dere col ')..iyyo (EKEtVa O J.Lci.tcrta n W ')..iyyqJ fij3ot) .
La comprensione della digressione implica quindi una
neutralizzazione dell'opposizione fra il dicibile e l'indici
bile e, insieme, un ripensamento della relazione fra l'idea e
il linguaggio.

8.
Abbiamo cercato finora, per chiarire il concetto stoico
di EK'tov, di mostrarne le analogie e le possibili relazioni
con l'idea platonica. Ma, se la nostra ipotesi corretta, dob
biamo chiederci perch gli stoici hanno deciso di chiamare
dicibile qualcosa che intendevano collocare in luogo - o,
quanto meno, nel luogo - dell'idea. Non contraddice que
sta denominazione il testo della digressione, dove, affer
mando che ci di cui egli si occupa seriamente non in
alcun modo dicibile (PTt'tOV) come le altre nozioni (.ta8iU.ta'ta) , Platone sembra conferire alla cosa stessa uno
statuto di indicibilit ?
sufficiente situare l'affermazione nel suo contesto nella
digressione per comprendere che in questione non qui tanto
una assoluta indicibilit, quanto uno speciale statuto di dicibi
lit, diverso da quello che compete agli altri J.Laa'ta. Poco
dopo Platone afferma, infatti, che se non si sono colti i primi
quattro (fra i quali figurano il nome e il ')..iyyo), non si po
tr nemmeno conoscere compiutamente il quinto; e, aggiun
ge successivamente, la conoscenza della cosa stessa avviene
sfregando gli uni sugli altri nomi, ')..iyyot, visioni e sensazioni
e mettendoli alla prova in confutazioni benevole e in discus
sioni condotte senza invidia (344 b 4-7). Ci concorda, del
resto, con l'inequivoca affermazione del Parmenide ( I 3 5 e 3 ),

9
Un'esposizione del rapporto fra idea e linguaggio deve
esordire dalla costatazione, apparentemente ovvia, che l'i
dea e i sensibili sono omonimi, cio che, pur essendo diver
si, essi hanno lo stesso nome. proprio su questa singolare
omonimia che Aristotele incentra il suo compendio della
filosofia platonica in Metaph. 9 8 7 b: Egli (Platone) chiam
allora questi enti idee e (afferm) che tutte le cose sensibili
sono dette accanto ad esse e secondo esse ( 't o' aicr8Tt't
1tap 'tat>'ta Ka't 'ta''ta Aiyecr8at 1tav'ta); infatti secondo
la partecipazione la molteplicit dei sinonimi omonima
alle idee ( Ka't J.L8etv yp dvat 't 1to.... J.LCVUJ.La 'tot
EtEcrtv) (ivi, 8 - I o). (Sinonimi sono, secondo Aristotele,
Cat. I a I - I I , gli enti che hanno lo stesso nome e la stessa
definizione, omonimi gli enti che hanno lo stesso nome, ma
diversa definizione).
Che le cose sensibili e l'idea siano omonime, che le cose
ricevano anzi i loro nomi dalla partecipazione alle idee
ribadito pi volte da Platone, Phaed. 7 8 e: Che dire
mo delle molteplici cose, come uomini, cavalli, vesti [ . . . ]
e di tutte quelle omonime alle idee; Phaed. 1 02 b I : Le
altre cose, partecipando alle idee, ne ricevono le denomi
nazioni (1troVUJ.Liav, nome tratto da qualcos'altro; quasi

74

CHE COS ' LA FILOSOFIA ?

le stesse parole in Parm. I 3 0 e: vi sono tali idee, parte


cipando alle quali ne ricevono le denominazioni; Resp.
5 9 6 a: siamo soliti ammettere una certa idea unica per
ciascuna molteplicit a cui diamo lo stesso nome. Ed
proprio questa omonimia che Aristotele rimproverer al
suo maestro, scrivendo che se la forma delle idee e quella
delle cose non la stessa, allora saranno omonime, come
se si chiamasse Callia tanto l'uomo in carne e ossa che un
pezzo di legno, senza vedervi nulla di comune (TJEiav
Kotvroviav) (Metaph. 99 I a, 5 - 8) .

N L a comprensione del passo citato d i Aristotele (Metaph. 9 8 7 b


8 - r o) stata in parte falsata da una correzione dell'edizione Bekker
che ha soppresso JlC.VUJ.W, malgrado il termine figurasse nel codice pi
autorevole (il Parisinus r 8 5 3 ) e in tutti gli altri (con due sole eccezioni,
il Laurentianus 8 7. 1 2 e il Parisinus r 8 7 6). Trendelenburg ha fatto op
portunamente notare che, come abbiamo visto, Platone parla di omo
nimia e mai di sinonimia. L' edizione Jaeger ( r 9 5 7) ha cos reintrodotto
JlC.VUJla, mettendo per fra parentesi tmv O"UvroviJlrov. Il testo dei ma
noscritti perfettamente chiaro e non necessita di alcun emendamento:
Aristotele, in questo fedele a Platone, vuoi dire che la molteplicit delle
cose sensibili che portano lo stesso nome (e sono pertanto sinonimi: ad
esempio, i cavalli in carne e ossa) diventa omonima rispetto alle idee
(i cavalli hanno in comune con l'idea il nome, ma non la definizione).
Quanto alla frase t aio9Ttt 1tap tauta Kat tauta ..iyeo9m
mivta, Cherniss e Ross hanno giustamente osservato che la traduzione
usuale le cose sensibili esistono separate da esse e sono tutte nominate
secondo esse inesatta e suppone l'inserzione di un Evat che manca
nei manoscritti (Cherniss 1 944, p. 1 78).

S U L DICIBILE E L' IDEA

75

I O.
L'idea , dunque, il principio unitario da cui le cose sen
sibili traggono il loro nome o, pi precisamente, ci che fa
s che una molteplicit di sensibili costituisca un insieme e
abbia lo stesso nome. La prima conseguenza che le cose rice
vono dalla partecipazione all'idea la denominazione. Se vi
, in questo senso, un rapporto essenziale fra il nome e l'idea,
questa non s'identifica per col nome, ma sembra essere,
piuttosto, il principio della nominabilit, ci partecipando
al quale, le cose sensibili trovano la loro denominazione. Ma
come concepire un tale principio ? Ed possibile pensare la
sua consistenza, indipendentemente dalla relazione ai sensi
bili che traggono da esso la loro omonimia ?
Poich proprio su questo punto vertono le critiche di
Aristotele alla teoria delle idee, sar opportuno esaminare in
nanzitutto tali critiche. Aristotele interpreta la relazione fra
l'idea e i sensibili a partire dalla relazione fra ci che si dice
secondo il tutto ('t Ka86ou = -r Ka9' oou Eyova; Ari
stotele si serve anche dell'espressione -r EV 1t 1toM&v, l'uno
sui molti) e ci che si dice secondo i singoli (Ka8' EKacr-ra). Ci
siamo astenuti dal tradurre Ka86ou come l'universale,
perch proprio questa identificazione del problema delle
idee con la quaestio de universalibus ha segnato la storia
della ricezione della teoria delle idee e il suo fraintendimen
to a partire da Aristotele fino ai commentatori tardo-anti
chi e, poi, alla Scolastica.
Socrate, scrive infatti Aristotele (Metaph. I 078 b I 8 sgg.),
cerc per primo di trovare definizioni secondo il tutto, ma
mentre egli non pose ci che si dice secondo il tutto ( -r
Ka86ou) come separato (xroptcr-ra), i platonici lo hanno se
parato e chiamarono siffatti enti idee; da questo trassero la

CHE C O S ' LA FILOSOFIA ?

conseguenza che vi sono idee di tutte le cose che si dicono


secondo il tutto ('trov Ka9o-ou .Eyovrov) [ . . . ]. Nella bre
ve storia delle dottrine filosofiche che occupa il libro primo
della Metafisica, Aristotele riassume cos la teoria platonica
delle idee: Coloro che posero le idee all'inizio, cercando
di cogliere le cause degli enti sensibili, introdussero altri
enti uguali a questi per numero, come se uno volendo con
tare delle cose poco numerose, ritenesse di non poterlo fare
senza accrescere il loro numero. Le idee, infatti, sono di
numero pressoch uguale e comunque non minore rispetto
a quegli enti da cui sono partiti per indagarne la cause. Per
ogni singolo ente di cui vi una unit sui molteplici (ev n
norov) esiste un omonimo oltre alle sostanze, tanto per le
cose di qui che per quelle eterne (Metaph. 990 a 3 4 - b 8).
Proprio in questa separazione del Ka96Ou consiste per
Aristotele l'errore dei platonici: Poich l'uno si dice nello
SteSSO modo dell'essere (t Ev .yc'tat cilcmEp Kat 't ov) e la
sostanza (ocria) dell'uno una e poich le cose di cui la so
stanza una per numero sono esse stesse une per numero,
evidente che n l'uno n l'essere possono essere sostanza delle
cose, come non possono esserlo l'essenza dell'elemento o del
principio (to crtOtXcicp dvm pxw [ . . . ]. L'essere e l'uno do
vrebbero essere maggiormente sostanza del principio (pxf]),
dell'elemento e della causa; ma essi non lo sono, dal momento
che nulla di comune ( KOtvov) sostanza. La sostanza non si
predica infatti di altro che di se stessa e di ci che la possiede e
di cui sostanza. L'uno non pu essere nello stesso tempo in
pi modi (1tOMaXW, mentre il comune si predica nello stesso
tempo in pi modi. dunque evidente che nulla di ci che si
predica secondo il tutto esiste accanto e separatamente dalle
singole cose (nap t Ka9 EKacrta xropi). Coloro che afferma
no le idee (t ii11) a ragione le dicono separate, dal momento

SUL DICIBILE E L' IDEA

77

che per essi sono sostanze; ma in verit a torto, perch chia


mano idea (oo) l'uno sui molti (t EV n noM&v). La causa
che essi non riescono a dar ragione di che cosa siano siffatte
sostanze indistruttibili accanto a quelle singole sensibili (nap
t Ka9' EKa<na Ka aiffitrtt). Essi pongono queste (le idee)
uguali per Elo alle cose peribili (queste noi le conosciamo), e
(dicono) stessouomo ( amov9pron:ov) e stessocavallo ( amoin
nov), premettendo al nome dei sensibili la parola amo, stesso
( 1 040 b 2 1 - 1 04 1 a 5).
Aristotele rimprovera cio ai platonici di aver voluto dare
sostanza ed esistenza separata a ci che si predica secondo il
tutto, mentre per lui evidente che l'universale - cos i lati
ni tradurranno t Ka9o-ou - non pu essere mai sostanza,
ma esiste soltanto nelle singole cose sensibili. Platone avreb
be cio sostanzializzato il significato del termine generale
l'uomo - o il cavallo - e lo avrebbe separato dai singo
li uomini e dai singoli cavalli e per riferirsi a esso nella sua
omonimia rispetto ai sensibili, avrebbe premesso al nome
comune il pronome amo: a''toav9pron:o, amo"inno.

I I.

proprio a partire da un'analisi dell'espressione lin


guistica dell'idea che possibile mostrare l'inadeguatezza
dell'interpretazione aristotelica e, insieme, accedere a una
pi corretta comprensione della teoria platonica.
L'espressione linguistica dell'idea mediante il pronome ana
forico amo doveva risultare problematica per Aristotele, dal
momento che, nell'Etica Nicomachea, egli afferma che ca
drebbe in imbarazzo (nopf]<retE) chi chiedesse che cosa (i pla
tonici) intendano dire con l'espressione amolmcrtov, poich

CHE C O S' LA FILOSOFIA ?

tanto per l'uomo stesso (a'toav8pCOOt o ) che per l'uomo


( av8pCOOto) vi un solo e stesso discorso definitorio (')jyyo),
quello di uomo (Eth. Nic. r o96 a 34 - b r). E, in Metaph. 103 5
b r 3, con evidente allusione al cerchio della digressione pla
tonica, egli scrive nello stesso senso che tanto il cerchio detto
in assoluto (mM; EYOf..lE.VO) che il singolo cerchio si dicono
omonimamente, dal momento che non vi un nome proprio
(itov ovo11a) per ciascuno di essi. Proprio l'uso del pronome
at6, che per Aristotele risultava aporetico, permette invece
tanto di temperare l' omonimia fra l'idea e i sensibili che di com
prendere che cosa fosse in questione, per Platone, nell'idea.
Torniamo all'espressione che nella Settima lettera esempli
fica l'idea: at KUKD, il cerchio stesso (e non a'tKUKD,
come suggerisce Aristotele). L'idea non ha un nome proprio,
ma nemmeno coincide semplicemente col nome. Essa viene
designata piuttosto attraverso l'aggettivazione del pronome
anaforico at6, stesso.
I pronomi non hanno, a differenza dei nomi, un signifi
cato lessicale (un senso - Sinn, nei termini di Frege, o una
referenza virtuale, secondo Milner). Ci che definisce un
pronome anaforico (come am6) che esso pu designare
un segmento di realt solo in quanto questo gi stato si
gnificato attraverso un altro termine dotato di senso. Esso
implica, cio, una relazione di coreferenza e una di ripresa
fra un termine mancante di referenza virtuale - il pronome
anaforizzante - e un termine dotato di referenza virtuale - il
nome anaforizzato (Milner 1 9 8 2, p. 1 9). Secondo uno dei si
gnificati del verbo va<j>pro, esso riprende la cosa nel suo
essere stata designata da un nome antecedente. Sia l'esempio:
vedo un cerchio. Lo vedi anche tu ?. Il pronome anaforico
lo, in s privo di una referenza virtuale, la acquista attra
verso la relazione col termine cerchio che lo precede.
-

SUL DICIBILE E L'IDEA

79

Rileggiamo ora il passo della digressione:


Vi un che detto cerchio (JCudo o'tt 'tt AtYOflEVov), il cui
nome quello stesso che abbiamo appena proferito; secondo il
suo Myo, composto di nomi e di verbi: ci che in ogni punto
dista ugualmente dagli estremi al centro : ecco il Myo di ci che
ha nome tondo>>, circonferenza>> o cerchio>> . Terzo ci che si
disegna e si cancella e si forma col tornio e si distrugge, ma di tutto
questo nulla patisce il cerchio stesso (am lC'\JJCo), intorno al
quale sono tutte queste cose, perch altro da esse.

A che cosa si riferisce l'a't6, che cosa in esso ripreso


e in che modo ? Innanzitutto in questione non qui sempli
cemente una relazione di identit. Ci escluso, oltre che
dall'esplicita affermazione di Platone, anche dalla struttura
grammaticale del sintagma. Il pronome a'to (accostato a
un nome nel senso di stesso) si costruisce in greco in due
modi, secondo che esprima l'identit (lat. idem) o l'ipseit
(lat. ipse): a't KUKo significa lo stesso cerchio (nel
senso dell'identit), au't KUKo significa invece il cer
chio stesso, nello speciale significato che cercheremo ora
di chiarire e che quello di cui Platone si serve per l'idea.
Mentre in a't KUKo, il pronome inserito, infatti,
fra l'articolo e il nome e si riferisce dunque direttamente
al nome, in am KUKo esso si riferisce a un sintagma
formato dall'articolo e dal nome. L'articolo greco ha
in origine il valore di un pronome anaforico e significa la
cosa in quanto stata detta e nominata. Solo in un secondo
tempo esso pu, per questo, acquistare il valore di quella
designazione che Aristotele chiama Kae' oou: il cerchio
in generale, l'universale, opposto al singolo cerchio. (I la
tini, la cui lingua manca dell'articolo, avevano per questo
difficolt a precisare l'espressione dei termini generali).

C H E C O S ' L A FILOSOFIA ?

So

inoltre evidente, che il quinto, il cerchio stesso ( mn


KtHc..o ) non pu riferirsi, come Platone non si stanca di

sottolineare, a nessuno dei tre elencati nella digressione:


n al nome cerchio n alla sua referenza virtuale (iden
tica alla definizione, che corrisponde al termine universale
il cerchio) n al singolo cerchio sensibile (la referenza
attuale) . Nemmeno pu riferirsi - Platone ha cura di pre
cisarlo subito dopo (Epist. VII, 3 4 2 c 8) - alla conoscenza
o al concetto che ce ne formiamo nella mente.
Ci che il sintagma riprende non pu allora che esse
re contenuto nell'espressione che apre l'elenco e, insieme,
resta fuori da esso: KUKo cr'ti n M:yoJ..LE vov ( vi qual
cosa detto cerchio, lett. cerchio qualcosa detto). Che
essa sia fuori dall'elenco, che sia, per cos dire, prima del
primo, provato senz'ombra di dubbio dal fatto che il
nome, cui compete il primo rango, deve riferirsi ad essa
attraverso dei pronomi anaforici q) 'to1h' mh crnv OVOJ..La
o vv <j>8yJ..LE 8a, lett.: a cui nome quello stesso che ab
biamo appena proferito.

Benveniste ha mostrato che il significato originale del latino potis


(e dell'i.e. pot, da cui esso deriva), che vuoi dire padrone, si riferi
sce in realt all'identit personale, espressa da una particella (spesso
un aggettivo o un pronome, come nel lat. ipse) che significa precisa
mente quello, lui stesso (come nell'ittita pet, particella enclitica che
rinvia all'oggetto che era in questione nel discorso>> o nel lat. utpote,
in quanto precisamente, che designa qualcuno in quanto designato
da un certo predicato: B enveniste 1 969, l, p. 89). Mentre difficile
immaginare come una parola che designa "il padrone" abbia potuto
indebolirsi fino a significare " lui stesso", si comprende agevolmente
come un aggettivo che significava l'identit personale e il " lui-stesso",
abbia potuto assumere il senso di "padrone" >> (ivi, p. 90). Benveniste mo
stra cos che lo stesso spostamento semantico si ritrova in molte lingue:
l't

SUL DICIBILE E L' IDEA

81

non soltanto il lat. ipsissimus significa in Plauto il padrone, ma anche


in greco, nella comunit pitagorica, a\n: q,a lui stesso l'ha detto de
signava Pitagora, il maestro per eccellenza (ibid. ).
Si pu integrare la definizione di Benveniste, precisando che potis
significa qualcosa o qualcuno in quanto assume il nome con cui no
minato o il predicato che gli viene riferito . L'uso platonico dell'a\n:6
si chiarisce cos ulteriormente: l'identit che qui in questione non
l'identit numerica o sostanziale, ma l'identit (o, piuttosto, l'ipseit) in
quanto definita dall'avere un certo nome, dall'essere stata detta nel lin
guaggio in, un certo modo.

I 2.

L'identificazione del termine anaforizzato , per, tutt'al


tro che semplice. Se lo si individua nel termine KUKo, vi
conf1.,1sione fra il cerchio e il nome cerchio e la frase che
segue (il cui nome quello stesso che abbiamo proferito)
risulta superflua. Resta il pronome indefinito n, di cui gli
stoici faranno la loro categoria antologica fondamentale: ma,
in quanto pronome privo di referenza virtuale, per poter es
sere ripreso anaforicamente esso non pu essere isolato dai
termini che lo precedono e lo seguono. verisimilmente per
sottolineare questa inseparabilit che Platone, invece dell' ov
via formulazione: crn n KUK..O M:yoJ..LEvov, scrive: KuK..o
crnv n M:yoJ..LEvov (Epist. VII, 342 b), cerchio qualcosa
detto. Un'analisi attenta mostra che la frase forma un tut
to indivisibile, in cui in questione non sono n il cerchio n
il qualcosa n il detto, ma l'essere-il cerchio-detto. Plato
ne non muove, cio, da un immediato, ma da un essere che
gi nel linguaggio, per risalire poi dialetticamente, attra
verso il linguaggio, verso la cosa stessa. Secondo la celebre
definizione del metodo dialettico in Resp. 5 I I b 3 - c 2, il

CHE Cos ' LA FILOSOFIA ?

principio non-presupposto (pxl vu7t69Eto) si raggiunge


soltanto attraverso la paziente eliminazione dialettica dei
presupposti (prendendo le ipotesi non come principi-pxai
- ma come ipotesi). Il cerchio stesso - che Platone chiama
anche lj>fut, nascimento del cerchio (tou KUKO'U 't1l lj>Um::ro,
Epist. VII, 3 4 2 c 8 ) - non n un indicibile n qualcosa di
meramente linguistico: il cerchio ripreso nel e dal suo

essere-detto-cerchio.
Nel sintagma con cui Platone designa l'idea - at
KUK.o, il cerchio stesso - in questione non pertanto,
come credeva Aristotele, semplicemente un universale (
KUK.o, il cerchio): l' ato, in quanto si riferisce a un ter
mine gi anaforizzato dall'articolo, riprende il cerchio nel
e dal suo esser-detto, nel e dal suo essere nel linguaggio e
il termine cerchio nel e dal suo designare il cerchio. Per
questo, il cerchio stesso, l'idea o il nascimento del cer
chio non n pu essere nessuno dei quattro. Non , tutta
via, nemmeno semplicemente altro da essi. ci che ogni

volta in questione in ciascuno dei quattro e resta, insieme,


irriducibile ad essi: ci attraverso cui il cerchio dicibile e
conoscibile. Se vero, come diceva Aristotele, che l'idea non
ha un nome proprio, essa, grazie all'a&o, non , per, nem
meno perfettamente omonima alla cosa: come cosa stessa,
essa significa la cosa nella sua pura dicibilit e il nome nel suo
puro nominare la cosa. Come tale, in quanto cio in essa la
cosa e il nome stanno insieme inseparabilmente al di qua o al
di l di ogni significare, l'idea non n universale n partico
lare, ma, come terzo, neutralizza questa opposizione.

Nel Fedone (76 e), Platone menziona esplicitamente il movimento


anaforico che definisce l'idea: <<Se esistono quelle cose di cui sempre
N

SUL DICIBILE E L' IDEA

parliamo, il bello, il buono e ogni essenza di questa specie e se riportia


mo indietro (ava<j>poJ.Ev) verso di esse le cose sensibili . . . >> .
L'irriducibilit ontologica dell'anafora am6, che viene cos posta
paradossalmente prima della sostanza, affermata da Plotino con par
ticolare chiarezza: <<Il conoscere>> egli scrive << qualcosa di uno (v n ) ,
ma l'uno senza il qualcosa (av::u tou n v). Se fosse un qualcosa, non
sarebbe l'uno stesso (amov), poich lo "stesso" (amo) prima del qual
cosa (1tp tou n)>> (Ennead. 5, 3, 1 2).
Frege, che afferma che ogni segno ha un senso (Sinn) e un significato
(Bedeutung), osserva che certe volte noi usiamo un termine intendendo
parlare non del suo significato, ma della realt materiale del termine stesso
(come quando diciamo la parola "rosa" ha quattro lettere>>) o del suo sen
so, indipendentemente dal suo riferirsi in atto a un significato reale. per
indicare questo uso speciale della parola che ci serviamo delle virgolette.
Che cosa avviene, per, se si cerca di designare il termine non nella
sua materialit o nel suo senso, ma nel suo significare qualcosa, cio il
nome rosa in quanto significa una rosa? Qui il linguaggio si urta a un
limite, che nessun uso delle virgolette pu pretendere di aggirare: si pu
nominare il nome <<rosa>> come un oggetto (nomen nominatum), ma non
il nome stesso nel suo designare in atto una rosa (nomen nominans).
questo il senso del paradosso che Frege ha espresso nella formula: <<il
.
concetto " cavallo " non un concetto>> e Milner nell'assioma: <<Il termi
ne linguistico non ha nome proprio>>. Wittgenstein, nel Tractatus, ha in
mente qualcosa di simile, quando scrive che il nome mostra di designare
un oggetto>>, ma non pu dire il fatto che lo sta designando (4. 1 26).
questa anonimia del nome rosa che in questione nell'idea della
rosa, nella rosa stessa (che , per questo, omonima alla rosa). In quanto
esprime l'impossibilit di nominare il nome rosa se non riprendendolo
nella forma del pronome anaforico at6, l'idea segna il punto in cui il
potere nominante del linguaggio deve arrestarsi e l'impossibilit per il
nome di nominare se stesso in quanto nominante lascia apparire la rosa
stessa, la rosa puramente dicibile.
N

CHE

cos' LA FILOSOFIA ?

I3

Si comprende meglio, in questa prospettiva, la lettura


benjaminiana dell'idea come nome. Secondo Benjamin le
idee, che sono sottratte alla sfera dei fenomeni, si danno sol
tanto in quella del loro nome (o del loro aver nome). La
struttura della verit esige un essere che, per la sua assenza di
intenzione, somigli a quello delle semplici cose,ma a questo,
superiore, per consistenza . . . , L'essere sottratto a ogni feno
menicit, l'unico essere a cui spetti questo potere, quello
del nome. Esso determina il darsi delle idee. Date esse sono
non tanto in linguaggio originario ( Ursprache ), quanto in
una apprensione originaria ( Urvernehmen), in cui le parole
conservano la loro nobilt nominante non ancora perduta
nel significato conoscitivo . . . L'idea un che di linguistico,
pi precisamente, nell'essenza della parola, ogni volta quel
momento in cui essa simbolo (Benjamin 1 963, pp. 1 7- 1 8).
Non si tratta semplicemente, come suggerisce la citazione
da Hermann Giintert che segue immediatamente, di una di
vinizzazione della parola, ma dell'isolamento, nel linguag
gio, di una sfera estranea alla significazione e irriducibile
ad essa: quella del nome - o, piuttosto, della nominazione,
che Benjamin esemplifica attraverso il rimando ad Adamo:
Questo gesto non solo quello di Platone, ma, in ultima
analisi, quello di Adamo, padre dell'uomo in quanto pa
dre della filosofia. Il denominare adamitico cos lontano
dall'essere un gioco o un arbitrio, che piuttosto in esso si
afferma lo stato paradisiaco come tale, che non doveva an
cora lottare col significato comunicativo (ivi, p. 1 9).
Il primo a insistere sulla radicale dissimmetria fra due pia
ni del linguaggio - il nome e il discorso - era stato Antistene,
affermando che delle sostanze semplici e prime non vi pu

SUL DI CIBILE E L' IDEA

essere oyo, discorso, ma solo nome. Nel Teeteto, Socrate si


riferisce esplicitamente a questa tesi, affermando che, degli
elementi primi, ciascuno in se stesso e per se stesso (am
Ka8' amo) si pu solo nominare, e non possibile aggiun
gere altro, n che n che non . . . n stesso ('t amo), n
quello (KEtvo), n ciascuno (EKacrtov), n solo (J.tovov) n
questo ('tomo) . . . impossibile dire in un discorso uno degli
elementi primi, poich ha soltanto il nome ( OVOJ.ta yp JlOVOV
EXEtv) (Theaet. 20 1 e sgg.). (La prop. 3 .22 1 del Tractatus si
esprimer negli stessi termini: Gli oggetti li posso solo no
minare . . . Posso solo dirne, non dirli).
con questa dissimmetria che Platone intende misu
rarsi. Situandosi su quel piano della lingua in cui vi sono
soltanto nomi, l'idea cerca di pensare che cosa avviene alle
singole cose per il fatto di essere nominate, di diventare
omonime. Le idee sono cio il contrario di una generali
t e, tuttavia, si comprende nello stesso tempo perch esse
abbiano potuto essere fraintese in questo senso come uni
versali. Nominando una singolarit, la parola la costituisce
come omonima, come definita, prima di ogni altro caratte
re o qualit, unicamente dal fatto di portare lo stesso nome.
Non la partecipazione a dei tratti comuni, ma l'omonimia,
il puro aver nome, definisce il rapporto fra i fenomeni e
l'idea. Ed questa stazione della cosa accanto a se stessa
in un puro aver nome che Platone cerca di designare, con
tro Antistene, attraverso l'anafora a''to: a''t KUKo, il
cerchio stesso coglie il cerchio non al livello della signifi
cazione, ma nel suo puro aver nome, in quella pura dicibi
lit che soltanto rende possibile il discorso e la conoscenza.

CHE

86

cos' L A FILOSOFIA ?

1 4
Nel suo libro su I nomi divini, Usener ha mostrato la
stretta implicazione fra la formazione dei concetti religiosi
e quella dei nomi degli di. Il nome non , per Usener, un
segno convenzionale di un concetto (voJlc.p) n una deno
minazione che coglie la cosa in s e la sua essenza (qruaEt):
esso il precipitato di un'impressione di fronte all'urto im
provviso con qualcosa che non l'io (U sener 1 896, p. 46).
La formazione del nome degli di riflette la formazione di
questi concetti linguistici, che procede dall'assoluta singo
larit fino al particolare e alla sua fissazione in un concetto
di genere. L'evento del nome - il conio delle parole, se
condo l'immagine che Usener preferisce usare - pertanto,
soprattutto per le epoche pi lontane, lo strumento essen
ziale per indagare la formazione dei concetti e delle rappre
sentazioni religiose di un popolo. Egli mostra cos come
per ogni cosa e per ogni azione importante venga creato
nel linguaggio un dio momentaneo (Augenblicksgott),
il cui nome coincide con quello dell'atto e che, attraverso
la ripetizione regolare, si trasforma in un dio particolare
(Sondergott) e pi tardi in un dio personale. Gli indigita
menta romani ci hanno conservato i nomi di divinit che
corrispondono a singoli atti o momenti dell'agricoltura
Vervactor, che nomina la prima aratura del maggese (ver
vactum), Insitor, che nomina l'atto della semina, Occator,
che corrisponde alla lavorazione del campo con l'erpice,
Sterculinus, che si riferisce alla concimazione della terra . . .
Usener era influenzato dalle teorie psicologiche del suo
tempo, che concepivano la conoscenza come un processo
che, attraverso la ripetizione e l'astrazione, conduce dal
particolare al concetto generale. Egli ricorda pi volte, tut-

SUL DI CIBILE E L' IDEA

tavia, che, con la cristallizzazione in un nome proprio, il dio


particolare si espande liberamente secondo una sua propria
legge, che porta alla formazione di sempre nuove denomi
nazioni. Nell'indagine di Usener, il nome divino diventa
cos qualcosa come la cifra o la legge interna del nascere e
del divenire storico delle figure divine. Svolgendo l'ipotesi
di Usener forse al di l delle sue intenzioni, si potrebbe dire
che l'evento del nome e l'evento del dio coincidono. Il dio
la cosa o l'azione nell'istante del suo apparire nel nome.
Esso, nella forma di un nomen agentis, , in questo senso,
omonimo alla singola azione: Occator, all'atto di lavorare la
terra con l'erpice, Insitor, all'atto del seminare, Sterculinus,
alla concimazione della terra con lo sterco, e cos via; come
mostra la loro evoluzione in una figura autonoma, essi non
coincidono, tuttavia, semplicemente con il singolo atto, ma
piuttosto col suo essere nominato.
Appare qui con chiarezza l'analogia fra la dottrina di Use
ner e la teoria platonica delle idee: come, in origine, il nome
non nomina la cosa tramite un concetto, ma un dio, allo stes
so modo, in Platone, il nome non nomina soltanto la cosa
sensibile (o un concetto), ma, innanzitutto, la sua dicibilit:
l'idea. Il dio momentaneo, come l'idea, una pura dicibilit.

tutta la teoria moderna della significazione che qui


revocata in questione. Essa si fonda sull'articolazione di
tre elementi: il significante, il senso (Sinn) e il significato o
la denotazione (Bedeutung), che presuppone a sua volta il
plesso linguistico-semantico del De interpretatione aristo
telico: parole/concetti/cose (nei termini dei commentatori

88

CHE

cos' LA FILOSOFIA ?

tardo-antichi: le parole in quanto significano le cose at


traverso i concetti). I linguisti preferiscono oggi chiamare
il senso referenza virtuale e la denotazione referenza
attuale e ammettono che mentre la definizione della pri
ma non sembra implicare difficolt, spiegare in che modo
un termine si riferisca in atto a un oggetto concreto pra
ticamente impossibile. Acquista qui tutto il suo senso il
fatto che l'ultima ricerca di Benveniste si sia conclusa con
la diagnosi - che rappresenta in qualche modo per la scien
za del linguaggio un naufragio - secondo cui la lingua
divisa in due piani separati e incomunicanti, il semiotico e
il semantico, fra i quali non vi passaggio: Il mondo del
segno egli scrive chiuso. Dal segno alla frase non c'
transizione, n per sintagmazione n in altro modo. Uno
iato li separa (B enveniste I 97 4, Il, p. 6 5 ). Dato il segno
con la sua referenza virtuale, in che modo questa, attua
lizzandosi, si riferisce a un oggetto singolare ? (Gi Kant,
nella lettera a Marcus Herz del 2 1 febbraio 1 972, si chiede
va: come fanno le nostre rappresentazioni a riferirsi agli
oggetti ?).
La domanda che occorre chiedere a questo punto , piut
tosto: come possibile che la logica e la psicologia moderna
abbiano accettato senza riserve un dispositivo affatto arbi
trario, qual quello aristotelico, che consiste nell'introdur
re nella mente come concetto un carattere che appartiene in
realt al nome ? Il momento inaugurale della nominazione
- che all'origine del concetto e, come tale, nel p lesso del
De interpretatione, menzionato per primo - viene, con
una singolare noxiJ, messo da parte come un mero segno.
In questo modo il nesso antologico essere-linguaggio - il
fatto che l'essere si dica nei nomi - viene trasposto in una
psicologia e in una semantica e, in questo modo, sempre

SUL DICIBILE E L' IDEA

gi obliterato. L'antologia, secondo un processo che ha du


revolmente segnato la storia della filosofia occidentale,
sempre gi declinata in una gnoseologia.
Il modello platonico, invece, che non si esaurisce nel
nesso parola-concetto-cosa, implica un elemento - l'idea
che esprime il puro fatto che l'essere si dica. La conoscenza
non ha qui bisogno di essere spiegata attraverso un proces
so psicologico - che in realt una mitologia - che dal par
ticolare, attraverso la ripetizione di una stessa sensazione e
l'astrazione in un concetto, conduce al generale: particolare
e universale, sensibile e intellegibile sono uniti immediata
mente nel nome attraverso l'idea. L'antologia non coincide
con la teoria della conoscenza, ma la precede e condiziona
(per questo Platone pu scrivere nella Settima lettera che
l'idea ci attraverso cui ciascun ente conoscibile e vero
e precisare che la conoscenza qualcosa di diverso dalla
natura del cerchio stesso, 342 a). In questo modo, secondo
la profonda caratterizzazione benjaminiana dell'intenzio
ne platonica, l'idea garantisce ogni volta che l'oggetto della
conoscenza non possa coincidere con la verit.
Per questo gli stoici, riprendendo il gesto di Platone, han
no inserito il dicibile nella loro teoria della significazione.
Perch il termine rosa e il concetto la rosa possano rife
rirsi alla singola rosa esistente, occorre supporre l'idea della
rosa, la rosa nella sua pura dicibilit e nel suo nascimen
to . Secondo la giusta intuizione poetica del pi platonico
dei poeti moderni, ]e dis: une fleur! et hors de l'oubli o ma
vo ix relgue aucun contour, en tant que quelque chose d' autre
que les calices sus, musicalement se lve, ide meme et suave,
l'absente de tous bouquets (Mallarm 194 5 , p. 3 68).

CHE COS ' LA FILOSOFIA ?

Occorre sempre di nuovo riflettere sulla scissione del piano della


lingua in semiotico e semantico, la cui rilevanza filosofica non pu essere
sopravvalutata. Benveniste, che riprende e sviluppa l'opposizione saus
suriana fra langue e parole, la caratterizza in questo modo: Il semiotico
designa il modo di significazione che proprio del segno linguistico e
che lo costituisce come unit. Si pu, per i bisogni dell'analisi, conside
rare separatamente le due facce del segno, ma sotto l'aspetto della signi
ficazione esso unit e resta unit. La sola domanda che il segno suscita
quella della sua esistenza, e questa si decide con un s o con un no:
albero-canzone-lavare-nervo-giallo-su e non: ': olbero- ':vanzone-':lasa
re-': dervo-': nu. Preso in se stesso, il segno pura identit con se stesso e
pura alterit rispetto a ogni altro segno . . . Col semantico, entriamo nel
modo specifico di significazione generato dal discorso. I problemi che
qui si pongono sono funzioni della lingua in quanto produttrice di mes
saggi. Il messaggio non si riduce a una successione di unit da identificare
separatamente: non un'addizione di segni che produce il senso, ma , al
contrario, il senso globalmente concepito, che si realizza e divide in segni
particolari, che sono le parole . . . Che si tratti due ordini distinti di no
zioni e di due universi concettuali, lo si pu mostrare ancora attraverso
la differenza del criterio di validit che richiesto per l'uno e per l'altro.
Il semiotico (il segno) deve essere riconosciuto; il semantico (il discorso)
deve essere compreso. La differenza fra riconoscere e comprendere rinvia
a due distinte facolt dello spirito . . . >> (Benveniste 1 974, II, p. 22 5 ).
Ogni tentativo di comprendere la significazione linguistica - e tale
quello corrente della semiologia e della logica, che si fondano in ultima
analisi sul paradigma aristotelico - senza tener conto di questa scissione
che divide il linguaggio condannata a girare a vuoto. , infatti, del tutto
illegittimo trasferire il significato, che una propriet del segno, nella
mente o nell'anima n si vede come sia possibile articolare, come fa Ari
stotele nel De interpretatione, una teoria della proposizione - cio del se
mantico - a partire da una definizione puramente semiotica della lingua.
L'idea in Platone ha a che fare con questa scissione, di cui egli era, a suo
modo, consapevole e che esprime, fra l'altro, nell'opposizione fra nome
(ovoJ.La) e discorso (.yo). Nell'idea, omonima ai sensibili e principio della
loro norninazione, il segno raggiunge una soglia, in cui esso trapassa nel se
mantico. La percezione della frattura del piano del linguaggio in serniotico
e semantico coincide, in questo senso, con l'origine della filosofia greca.
N

SUL DICIBILE E L' IDEA

Se l'interpretazione di E. Hoffmann del fr. r di Eraclito , come ritenia


mo con Melandri (2004, pp. r 62- r 64), corretta, essa si trova espressa con
chiarezza proprio all'inizio della cruyypa<!>'fl eraclitea nell'opposizione fra
.yo (discorso) e 1tta (vocaboli, parole). Gli uomini - qui si legge - non
intendono il .yo n prima n dopo di averlo ascoltato, perch si fermano
al piano serniotico delle parole (1ta) e non fanno esperienza di ci che
in questione nel fatto di parlare, nel linguaggio come tale.

1 6.
La strategia di Platone diventa a questo punto pi com
prensibile. Egli non ha sostanzializzato e separato, come
riteneva Aristotele, una generalit, ma ha cercato di pen
sare una pura dicibilit, senza alcuna determinazione con
cettuale. Il passo successivo della digressione lo precisa con
chiarezza: l primi quattro manifestano non meno la qua
lit ('t 7tot6v n ) che l'essere (t ov) di ciascuna cosa, per
via della debolezza del linguaggio . . . delle due cose, l'essere
e la qualit, non la qualit ('t 7tOt6v n), ma il che ('t
'tt) l'anima vuole conoscere, mentre ciascuno dei quattro
le mette davanti ci che essa non cerca (Epist. VII, 3 4 2
e - 3 4 3 a; 3 4 3 b-e). Per questo Platone, cercndo di espri
mere il puro essere, il nascimento di qualcosa, ha dovuto
ricorrere a un pronome; il pronome infatti, definito gi
dei grammatici antichi come quella parte del discorso che
esprime la sostanza senza la qualit (Prisciano: il pronome
substantiam significat sin e aliqua certa qualitate ). Ma egli, a
differenza di Aristotele, non ha scelto un pronome deittico
(ogni sostanza significa un questo, 7t<1aa ouaia oKci 'tO
E n OTll.taivEtv, Cat. 3 b 1 0), ma l'anaforico a''to.
Nel passo citato delle Categorie, Aristotele distingue la
sostanza prima, che significa un questo, perch manifesta

CHE C O S' LA FILOSOFIA ?

un che di indivisi bile e uno (questo certo uomo, questo certo


cavallo), dalle sostanze seconde (l'uomo, il cavallo), che non
implicano una deissi, ma significano piuttosto una qualit
(7tot6v n OTJJ.laivn) (ivi, 1 2- 1 6). Resta in ogni caso che, per
Aristotele, vi un punto in cui il linguaggio significa uno (ev
OTJJ.laivn), tocca inequivocabilmente il suo referente.
Per Platone, invece, per via della debolezza del linguag
gio (-rrov oyrov aOEv, Epist. VII, 34 3 a I ), il solo modo
- anche se insufficiente - di manifestare un puro esistente
nel suo nascimento non di indicarlo, ma di riprenderlo
nel e dal linguaggio attraverso l'anafora a1n6. Nel Timeo
(49 d 4-6), l'impossibilit di designare gli enti sensibili at
traverso un deittico e la necessit di servirsi, per la loro de
signazione, di un'anafora sono affermate senza riserve: Il
sensibile che noi vediamo sempre in atto di divenire inces
santemente altro, come il fuoco o l'acqua, non dobbiamo
mai chiamarlo " questo " (-roiho), ma sempre ogni volta " di
tal sorta" (-rowihov) . L'antologia aristotelica riposa in
ultima analisi su una deissi, quella platonica su un' anafo
ra. Ma proprio questo permette a Platone di chiamare in
causa, attraverso l'idea, una px'J vu7t60E-ro, un princi
pio non presupposto e al di l dell'essere.
Se il nome cerchio dice tanto l'essere che le qualit del
cerchio, nell'idea (nel cerchio stesso) il nome ripreso
dal suo significare verso la manifestazione del puro esse
re-detto-cerchio, cio verso la sua dicibilit. Ci significa
che non soltanto vale anche per l'idea di Platone la tesi kan
tiana secondo cui l'essere non un predicato reale (cio il
concetto di un qualcosa che si aggiunge al concetto di una
cosa), ma che nemmeno egli ha mai sostanzializzato l'idea
come un universale - che si possa situare da qualche parte,
in cielo o nella mente (le idee - secondo una dottrina pla-

SUL DICIBILE E L'IDEA

93

tonica riferita da Simplicio - non sono in nessun luogo,


Simplicio 1 8 8 2, p. 4 5 3). Ci che in questione in una pura
dicibilit, ci che si dischiude solo attraverso il lento, pa
ziente lavoro anaforico che sfrega gli uni sugli altri nomi,
discorsi, visioni e sensazioni (Plat. Epist. VII, 3 44 b 4) non
che l'evento di un'apertura nell'anima, che la digressione
paragona efficacemente a una luce schizzata da una fiam
ma: dopo molto stare insieme e convivere intorno alla
cosa stessa, improvvisamente, come una luce schizzata da
una fiamma, si genera nell'anima e subito nutre se stessa
(ivi, 3 4 1 c 6 - d 2).

Perch la cosa stessa>> importa a Platone, p erch essa ci di


cui egli si occupa seriamente>> ? Se nell'essere in questione l'articola
zione originaria fra linguaggio e mondo - il fatto che l'essere si dice>>
('t v yE'tat) - si dir allora che, mentre per Aristotele l'articolazio
ne ha luogo fra parole, cose e concetti, Platone, introducendo oltre a
questi l'idea, cerca di problematizzare il fatto stesso che la cosa sia detta
e nominata. Se il pensiero si muove gi sempre in un mondo nominato,
esso pu, tuttavia, attraverso il gesto anaforico dell'idea, risalire alla cosa
stessa nel suo puro essere detta, nella sua dicibilit. Egli problematiz
za, in questo modo, il puro e irriducibile darsi del linguaggio. In questo
punto - in cui il nome ripreso dal e nel suo nominare la cosa e la cosa
ripresa dal e nel suo essere nominata dal nome - il mondo e il linguaggio
sono a contatto, cio uniti solo da un'assenza di rappresentazione.

1 7.
La trasposizione - che si compie nel pensiero tardo-an
tico, da Porfirio a Boezio, e poi nei logici medievali - della
dottrina delle idee nella quaestio de universalibus, , in que
sto senso, il peggior fraintendimento dell'intenzione pla-

94

CHE COS ' LA FILOSOFIA ?

tonica, proprio perch, mentre sembra affermare la natura


logica dell'idea, essa spezza in realt il particolare nesso
con l'elemento linguistico che era ancora evidente nel ter
mine dicibile. Nel commento di Boezio al De interpre
tatione, questa separazione ormai compiuta. I naSru.ww
Ti vuxf aristotelici, che egli rende significativamente in
latino con intellectus, diventano l'oggetto primario della vis
significativa del linguaggio, mentre la relazione alle cose di
venta secondaria o derivata: Infatti mentre le cose che sono
nella voce significano le cose e i concetti (res intellectusque
significent) , i concetti sono per significati in modo princi
pale, mentre le cose, che la stessa intelligenza comprende,
in modo secondario attraverso la mediazione dei concetti
(per intellectuum medietatem) (In Periherm. II, 3 3 , 27).
D'altra parte, svolgendo l'affermazione aristotelica secon
do cui i naeru.ww e le cose sono uguali per tutti, mentre le
parole e le lettere diverse, Boezio precisa che dei quattro ele
menti che formano il plesso linguistico-semantico, due (res
e intellectus) sono per natura (naturaliter) e due (nomina e
litterae) sono per convenzione (positione ) . Comincia cos il
processo che porter al primato del concetto e alla trasfor
mazione del dicibile in una realt mentale la cui identit
affatto indipendente dalla parola nella sua materialit sono
ra. Solo se il significato concettuale della parola , in questo
modo, reso autonomo dal suo mutevole significante possi
bile quel processo di delinguisticizzazione della conoscenza
che condurr alla scienza moderna. Poich questa, come ha
mostrato Ruprecht Paqu ( 197o, passim), non nata soltanto
con l'osservazione della natura, ma stata resa innanzi tutto
possibile dalle ricerche di Ockham e dei logici medievali che
hanno portato a isolare e privilegiare, nell'esperienza del lin
guaggio, la suppositio personalis, in cui la parola si riferisce in

SUL DICIBILE E L' IDEA

95

atto e univocamente come u n puro segno a una res extra ani


mam, da tutti quei casi in cui la parola si riferisce in qualche
modo a se stessa (suppositio materialis).
Il mondo antico non poteva n voleva aver accesso alla
scienza moderna, perch, malgrado lo sviluppo della mate
matica (significativamente non in forma algebrica), la sua
esperienza del linguaggio - la sua antologia - non permet
teva di riferirsi al mondo in un modo che si pretendesse in
dipendente da come esso si rivelava nella lingua. Per questo
Platone, nell'excursus della Settima lettera, non privilegia
in alcun modo il concetto, che, come il nome, mutevo
le e instabile e, nel Cratilo, preferisce lasciare irrisolta la
.
.
.
.
questiOne se 1 nom1 stano per natura o per convenziOne.
Solo la riduzione della lingua a strumento significante neu
tro, che si compie con Ockham e il tardo nominalismo, ha
permesso di espungere dalla significazione linguistica tutti
quegli aspetti - a cominciare dall'autoreferenza - che erano
sempre stati considerati come consustanziali ad essa e che
saranno pi tardi relegati nella retorica e nella poesia.
Ci non significa in alcun modo che Platone intendesse
semplicemente attenersi alla realt cos come essa era rivelata
attaverso la lingua (nel suo caso, il greco). Qui l' omonimia
tra l'idea e i sensibili mostra tutta la sua pregn:anza. L'idea
distinta dai sensibili, ma condivide con essi il nome. L'idea,
in s invisibile e impercepibile, si mantiene tuttavia irriduci
bilmente in relazione con un elemento linguistico sensibile
- il nome - e, attraverso di esso, con i singoli enti sensibili.
Per questo, nell'esposizione aporetica della teoria delle idee
nel Parmenide, che revoca in questione tutte le possibili re
lazioni fra l'idea e i sensibili - la separazione, la partecipa
zione e la somiglianza - l' omonimia la sola a non essere
mai smentita. Tra le conseguenze assurde che risulterebbero
.

CHE C O S' LA FILOSOFIA ?

dall'affermazione di un'assoluta separazione fra le idee e i


sensibili, Parmenide menziona infatti esplicitamente quella
secondo cui le cose, che per noi sono omonime delle idee,
sono in relazione con se stesse ma non con le idee e traggono
il nome da se stesse e non da quelle (Parm. I 3 3 d).
Solo attraverso la sua relazione di omonimia con le cose
l'idea pu legittimamente pretendere di porre fine alla
guerra civile che i nomi combattono fra loro> ( VOJ..Ul'tCOV
ov crtacnamivtcov, Crat. 43 8 d), non attraverso la generalit
del concetto n cercando altri nomi, differenti da questi,
ma mostrando, attraverso il nome stesso, quale sia la verit
degli enti (ibid. ). Il quinto elemento del p lesso antologico,
che Platone chiama col sintagma anaforic la cosa stessa,
non nominabile con un altro nome nella lingua (io non
posso chiamare kuboa l'idea del cerchio, posso solo dirla
il cerchio stesso). Ci che non pu avere un nome pro
prio la dicibilit che si esprime nel nome. In quanto pura
mente e innominabilme nte dicibile, la cosa stessa al di l
dei nomi (n-ilv VOJHitcov, lett. eccettuato in tutti i nomi
- ni]v significa etimologicamen te 'vicino") (ibid.).

Il problema del rapporto fra l a dottrina degli universali e i l nomina


lismo complesso e non possibile, come a volte avvenuto nella storia
grafia filosofica, ridurre il nominalismo - almeno prima di Ockham - a
una determinata concezione degli universali in mente. Particolarmente
significativa la posizione del princeps Nominalium del sec. XII, Pietro
Abelardo. La teoria di Abelardo non una teoria dell'universale, ma del
nome, distinto tanto dalla cosa (res) che dal vocabolo (vox) e dal concetto
(intellectus). Come altri logici a lui contemporanei, egli afferma, infatti,
l'unit del nome (unitas nominis) rispetto alla variet dei vocaboli paro
nimi (aggettivi, verbi ecc.). Mentre i termini e i verbi variano secondo i
tempi e le modalit, ci che significato nel nome uno e immutabile nel
tempo. Questa tesi logica aveva conseguenze anche in ambito teologico,

SUL DICIBILE E L'IDEA

97

perch implicava che l'affermazione Cristo essere nato>> (Christum esse


natum) vera in ogni tempo, sia prima che dopo la sua nascita. Nelle
parole di Bonaventura, che cos riassume le tesi nominaliste: Altri so
stennero che l'enunciabile (enuntiabile) che vero una volta, sempre
vero e sempre si conosce nello stesso modo [ . . . ] cos alcuni affermano
che a/bus, alba e album, che sono tre vocaboli diversi e hanno tre modi
diversi di significare (modi significandi), tuttavia implicano uno stesso
significato (unam significationem important), sono un solo nome. So
stengono, cio, che l'unit dell'enunciabile deve essere intesa non dalla
parte del vocabolo o del modo di significare, ma dalla parte della cosa si
gnificata. Una sola cosa prima futura, poi presente e poi ancora passata;
pertanto enunciare che questa certa cosa prima futura, poi presente e
poi ancora passata non implica alcuna diversit degli enunciabili, ma solo
dei vocaboli (non facit diversitatem enuntiabilium, sed vocum)>>.
In questo senso la dottrina nominalista di Abelardo ha, com' stato
osservato (Courtenay 1 99 1 , pp. r r -48), un'evidente ascendenza plato
nica e un'altrettanto evidente connessione (anche terminologica) con
la dottrina del dicibile, che egli chiama enunciabile>> . L'oggetto della
conoscenza non , per Abelardo, n la parola, n il concetto n sempli
cemente la cosa, ma la cosa in quanto significata dal nome: Certa
mente quando sosteniamo che esse (le forme comuni delle cose) sono
diverse dai concetti (ab intellectibus), in questo modo introduciamo
come terzo fra la cosa e il concetto il significato dei nomi (praeter rem
et intellectum tertia exiit nominum significatio)>> (Abelardo 1 9 1 9, p.
1 8). In questo senso egli pu scrivere che la logica tratta delle cose non
considerate in s, ma in quanto hanno nome (non propter se, sed propter
nomina) (De Rijk 1 9 5 6, p. 99) e che, tuttavia, logica e fisica sono inse
parabili, perch necessario indagare se la natura della cosa consenta
con l'enunciato (rei natura consentiat enuntiationi)>> (ivi, p. 2 8 6).
L'idea porta il dicibile verso la massima astrazione possibile ri
spetto alla lingua, ma questa astrazione non quella del concetto, bens
quella che mantiene il dicibile ancora in relazione non con i nomi di
una lingua, ma con quella verit dell'ente verso cui tendono, senza mai
raggiungerla, tutti i nomi e tutte le lingue. L'idea il puramente dicibile
che l'inteso di tutti i nomi e che, tuttavia, nessun nome n alcun con
cetto di una lingua possono da soli raggiungere. Momigliano ha soste-

CHE COS ' LA FILOSOFIA ?

nuto che il limite dei Greci era che essi non conoscevano le lingue stra
niere - il che, almeno fino a un certo momento, vero; Platone e Ari
stotele sapevano, tuttavia, perfettamente che una stessa cosa nominata
in modo diverso secondo le varie lingue (questo implicito nel passo
della Settima lettera in cui si dice che i nomi non hanno alcuna stabilit
e nella tesi del De interpretatione secondo cui le parole non sono le
stesse per tutti gli uomini). Il nome KtncM> nomina la stessa cosa che
intesa dal latino circulus e dall'italiano cerchio: ma il cerchio stesso
resta in ciascuna lingua soltanto omonimamente nominato. Potremmo
allora dire che, in ultima istanza, l'elemento linguistico proprio dell'i
dea - il dicibile - non semplicemente il nome, ma la traduzione, o
ci che traducibile in esso. B enveniste ha visto nella traduzione il
punto in cui si tocca la differenza fra il semiotico e il semantico. Si
pu trasporre, infatti, il semantismo di una lingua in quello di un'altra
( la possibilit della traduzione), ma non il semiotismo di una lingua
in quello di un'altra ( l'impossibilit della traduzione). All'incrocio
di una possibilit e di una impossibilit, la traducibilit si situa, cio,
sulla soglia che unisce e divide i due piani del linguaggio. Di qui la sua
rilevanza filosofica, che Benj amin ha messo in luce. L'arduo passaggio
dal semiotico al semantico qui cercato non all'interno di una lingua,
ma, attraverso la pluralit delle lingue, nella totalit compiuta delle loro
intenzioni. Per questo, come aveva intuito Mallarm, rispetto all'idea
la lingua perfetta non pu che mancare (/es langues imparfaites en cela
que plusieures, manque la supreme). In suo luogo sta, secondo Plato
ne, il logos della filosofia, che riporta ogni lingua verso il suo principio
nel Musaico (la filosofia , per questo, la musica suprema>>: Q>tM>croQ>ia
[ . . . ] o'Xnl J.JEyicr'tT] !J.OumJci, Phaed. 6r a; ancora pi esplicitamente in
Resp. 499 d: la filosofia la musa stessa>>, an 1 Moucra).

! 8.
Il problema dell'idea non separabile dal problema del
suo luogo. Che le idee abbiano luogo (EXEt tv t61tov) al di
l del cielo (\mepoupavwv t61tov, Phaedr. 247 c) pu solo
significare - come Aristotele e Simplicio puntualmente os-

SUL DICIBILE E L' IDEA

99

servano - che esse non sono in un luogo (oK v 't01tql, Phys.


209 b 34; J.LTI oMo v t61tq>, Simplicio 1 8 8 2 p. 4 5 3). E, tut
tavia, esse, che non hanno luogo e, per questo, rischiano di
non essere (ci che non n in cielo n in terra non nulla,
Tim. 52 b), sono essenzialmente connesse, anche se in modo
assai aporetico ( a1topc.Otata, lett. del tutto impraticabile) e
difficilissimo da afferrare (ucraIDtotatov, Tim. 5 I b), con
l'aver luogo degli enti sensibili, che ne ricevono l'impronta
('t'U1tro8vta 1t' amv, Tim. 5 0 c) in modo difficile da dire e
meraviglioso (oo<!>pacrtov Kat eauJ.Lacrt6v, ib id ). E poich
la dottrina del luogo (xcpa) svolta nel Timeo stata letta nel
la storia della filosofia, almeno a partire da Aristotele, come
una dottrina della materia, in questione qui, allo stesso ti
tolo, la relazione fra le idee e la materia.
Riassumiamo per sommi capi l'esposizione del Timeo.
Questa ha inizio con la costatazione dell'insufficienza della
posizione di due specie di esseri, il paradigma intellegibile ed
eterno (l'idea) e la sua imitazione, il sensibile. Il terzo e di
verso genere (tpitov {i)..;M)v yvo) viene pertanto introdotto
come un'esigenza o un postulato irrinunciabile (il ').jyyo co
stringe - eicravayKaetv - a farlo apparire - J.L<I>avicrm, 49
a). La sua natura, difficile e oscura, viene non propriamen
te definita, ma descritta attraverso una serie di qualificazioni
successive. Innanzi tutto esso il ricettacolo (futo<>oxl)) di
ogni generazione. Tutte le cose sensibili, che incessantemen
te si generano e si distruggono, hanno bisogno di qualcosa
in cui (v q}) apparire, come le figure che un artefice pla
sma nell'oro hanno bisogno del metallo per prendere for
ma (da questa immagine, Aristotele pu aver dedotto che in
questione sia qui la materia dei corpi).
Questa natura che riceve tutti i corpi sempre la stes
sa e deve essere in s priva di forma, come amorfo un
.

IOO

CHE COS ' LA FILOSOFIA ?

materiale da conio (Kflaye"iov, 5 0 c, il termine contiene


l'idea di un impasto, cfr. flcXO"crro, flclK'tpa) che pu assu
mere le impronte di tutte le forme che riceve. Questo por
ta-impronte viene cos paragonato a una madre, ci da
cui riceve l'impronta al padre e la natura intermedia fra
di essi a un figlio . Se la madre non fosse priva di una for
ma propria, l'impronta (K't'U1tOOfla) che riceve non sarebbe
visibile, perch la sua propria forma si mostrerebbe ac
canto (1tapEfl<j>atvOflEVOV - Aristotele user nel De anima,
429 a 20, lo stesso verbo per precisare che se l'intelletto
materiale mostrasse una sua propria forma accanto a quel
la dell'intellegibile, farebbe ostacolo alla comprensione). Il
terzo genere, madre, ricettacolo e porta-impronte, , dun
que, una specie invisibile ( avopa-rov elo, l'espressione
, in greco, in qualche modo contraddittoria) e per natura
al di fuori delle forme o idee (K't eirov, 5 I a); e, tutta
via, partecipa in modo assai aporetico e difficilissimo da
afferrare)) dell'intellegibile.
A questo punto, in una sorta di vertiginoso riepilogo, Pla
tone conclude che occorre dunque ammettere ( flOA>YTl'tov
- il verbo flOoye"iv, confessare, designa una verit che non
si pu non riconoscere) tre generi di essere: I ) uno ingene
rato, e incorruttibile, che non riceve in s nulla n va mai in
altro, invisibile e non sensibile (avai0"9rl'tov), che si contem
pla con l'intelligenza; 2) un secondo, omonimo e somiglian
te al primo, che si genera e si distrugge incessantemente in
qualche luogo (.v nvt 't01tf-!)) e che si afferra con l'opinione
accompagnata da sensazione (flE't' aicr91lcrero); 3) un terzo,
lo spazio (xo)pa), anch'esso eterno e non soggetto a distru
zione, che fornisce una sede (E.pa) alle cose generate. Esso
tangibile con un ragionamento bastardo accompagnato da
assenza di sensazione (flE't' avm0"9rlcria a1t'tv .oytcrflcp nvt

SUL DICIBILE E L' IDEA

IO I

vecp), appena credibile. Guardando ad esso come in un sogno,


noi diciamo che necessario che tutto ci che sia in un certo
luogo e occupi uno spazio (.v nvt 'tMQ> Kat Ka'tXOV xav) e
che ci che non n in cielo n in terra non nulla)) ( 5 2 b).

stato Diano il primo a notare che il modo in cui Plato


ne designa la conoscibilit della xa affatto singolare. Non
solo perch tangibile)) (un aggettivo che egli usa altrove esclu
sivamente per i corpi sensibili) contrasta fortemente con ane
stesia))' assenza di sensazione, ma anche e innanzitutto per
ch invece di servirsi della formula normale Xropi)) o avEu
aicr91locro))' senza sensazione, egli preferisce l'espressione
paradossale con anestesia, accompagnato da un'assenza di
sensazione))' Diano I 973, passim). Che cosa si percepisce
quando si percepisce una assenza di sensazione)) ? Che
cosa intende Platone, scrivendo che percepire l'aver luogo
di qualcosa non significa semplicemente non percepire, ma
percepire un'assenza di percezione, sentire un'anestesia ?
Mentre l'idea semplicemente non sensibile ( avaicrOr]'tov),
qui l'anestesia diventa tangibile, percepita come tale. Il ca
rattere bastardo)) del ragionamento che percepisce, come
in sogno, la xropa deriva dal fatto che esso sembra mescolare
insieme le due prime forme di conoscibilit, l'intellegibile e
il sensibile. Se Platone pu scrivere che la xropa partecipa,
anche se in modo difficile da afferrare, dell'intellegibile, ci
perch idea e spazio comunicano attraverso l'assenza di
sensazione, come se l'anestesia che definisce negativamente
l'idea acquisisse qui un carattere positivo, diventasse una
forma specialissima di percezione.

I 02

CHE COS ' LA FILOSOFIA ?

Platino, commentando il passo del Timeo, precisa che


quando l'anima, con un ragionamento bastardo, percepisce
la materia, essa non pensa tuttavia nulla, ma riceve e pa
tisce qualcosa: Questo 1ta8o, questa passione dell'anima
sar come quando essa non pensa nulla ? No, poich quan
do non pensa nulla, non dice, anzi nemmeno patisce nulla.
Quando invece pensa la materia, allora patisce un'affezione
che come l'impronta del senza forma (nmov -rov J..lopq>ou)
(Ennead. Il, 4, I o). Se Platone si era servito della metafora
dell'impronta, scrivendo che la xa, in modo difficile da dire
e meraviglioso, riceve un'impronta (ro1to8v-ra, Tim. 5 0 c)
delle idee, qui la relazione s'inverte: sono le idee che rice
vono un'impronta dell'amorfo.
Al di l della colorazione mistica che Platino sembra
conferirle, decisivo qui che la xffipa revochi in questione
e neutralizzi l'opposizione semplice fra intellegibile e sen
sibile, che si rivela inadeguata. Nell'esposizione aporetica
della teoria delle idee nel Parmenide, Platone aveva mostrato
come l'assoluta separazione tra idee e sensibili (il pensarle
xropi, separatamente; Aristotele, riprendendo l'argomento
per la sua critica, parler di un XffiP tcrJ.t6, di una separazione)
conduca a conseguenze assurde. Alle aporie del xropi e del
XffiPHJJ..lo, Platone, forse rispondendo a critiche che gi cir
colavano nell'Accademia, d, con un felice gioco di parole,
la risposta geniale della xffipa. N el punto in cui riusciamo
anesteticamente e impuramente a percepire non soltanto il
sensibile, ma il suo aver luogo, allora l'intellegibile e il sensi
bile comunicano. L'idea, che non ha luogo n in cielo n in
terra, ha luogo nell'aver luogo dei corpi, coincide con esso.
quanto Platone dice con inconsueta decisione poche ri
ghe dopo: A ci che veramente, viene in aiuto un discorso
vero per la sua precisione, mostrando che, finch si tengono

IOJ

SUL DICIBILE E L' IDEA

separate una cosa e l'altra (cio l'idea e il sensibile), nessuna


delle due pu allora entrare nell'altra per diventare una sola
cosa e, insieme, due (Ev OJ..la -ramv 1m oo yt::vflcrt::creov)
( 5 2 c-d).

I l termine xffipa significa il luogo, lo spazio inoccupato che un cor


po pu occupare. Esso etimogicamente connesso con vocaboli che si
gnificano una privazione, ci che resta quando si toglie qualcosa: xiJpa,
vedova, e xipo, vuoto. Il verbo XffiPOl significa <<far posto, dare spazio .
Il senso d i <<separare i n xropi, XffiPtOJlo, xropinv s i spiega senza diffi
colt: far posto, dare uno spazio a qualcosa, significa separarlo.

Platino ha dedicato alla teoria platonica dello spazio un intero trat


tato, che gi le edizioni antiche rubricavano come Sulla materia o Sulle
due materie (Ennead. II, 4). Egli accetta, infatti, la tesi aristotelica secon
do cui Platone avrebbe identificato lo spazio e la materia (Platone dice
nel Timeo che la materia UATI e la xffipa sono la stessa cosa>>, Phys.
209 b, I 3); ma, in quanto si rende conto che la xffipa revoca in questione
l'opposizione fra il sensibile e l'intellegibile, deve ammettere l'esistenza
di due materie, una intellegibile, che riguarda le idee, e una terrena, che
riguarda i sensibili. Nel ragionamento bastardo del Timeo, egli vede
un tentativo di pensare l'assenza di forma della xffipa attraverso l'idea di
indefinito (optcr'tia). I l ragionamento che ne risulta <<bastardo>> pech
esso , nella stessa misura, un' inconoscenza (&vota) e un'afasia (cpacria);
e, tuttavia, esso contiene ancora qualcosa di positivo: Che cos' questa
indeterminatezza dell'anima ? Forse una inconoscenza e un'afasia ? Op
pure l'indeterminatezza consiste in un certo discorso positivo (v l<:a
'ta<jlam::t nvi) e, come per l'occhio l'oscurit la materia di ogni colore
visibile, cos l'anima, togliendo dalle cose sensibili per cos dire ogni luce,
e non riuscendo pi a definire ci che resta, div\'!nta simile alla visione che
si ha nell'oscurit e s'identifica a quell'oscurit di cui ha come una visio
ne>> (Ennead. Il, 4, I o). Poche pagine prima, egli sottolinea il carattere
impervio del pensiero della materia come un procedere fino all'abisso di
ogni essere. Se ogni essere composto di materia e forma, il pensiero che
cerca di pensare la materia divide questa dualit fino a raggiungere un

I04

CHE

cos' LA FILOSOFIA ?

SUL DICIBILE E L ' IDEA

le affezioni di una sfera, non resta altro che la materia. Per


questo Platone dice nel Timeo che la materia e la xropa sono
la stessa cosa (Phys. 209 b 6- 1 1 ) . Che da parte di Aristote
le si tratti di un fraintendimento non sembra dubbio: non
soltanto Platone non si serve per la definizione della xropa
di un procedimento astrattivo, ma Aristotele stesso sa per
fettamente che, come scrive subito dopo, a differenza della
materia, il luogo pu essere separato dalla cosa (la forma
e la materia non si separano - o xropisEtat - dalla cosa, il
luogo s, ivi, 209 b 22-23), mentre Platone ha cura di di
stinguere ogni volta il terzo genere dal secondo, lo spazio
dai corpi sensibili che in esso si generano.
vero, tuttavia, che la concezione aristotelica della ma
teria stata cos influenzata dalla dottrina platonica della
xropa, che essa tende per molti aspetti a sovrapporsi a que
sta; ma, anche se si volesse incautamente accettare, come ha
fatto la tradizione successiva, dai neoplatonici fino a Car
tesio, la tesi della loro identificazione, si dovrebbe tuttavia
precisare che Platone pensa la materia non come res exten
sa, ma come l'aver luogo di ciascun corpo. L'aver luogo di
un corpo ci che, diverso dal corpo, lo mette in qual
che modo in rapporto con l'intellegibile: per questo l'idea
- l'intellegibilit o la dicibilit di ciascun ente - ha luogo
nell'aver luogo del sensibile.

semplice che non pu pi dividere e, nella misura del possibile, lo separa,


gli d spazio fino all'abisso (xwpci E t 13<i8o). L'abisso di ogni cosa
la materia. Per questo ogni materia oscura, poich il linguaggio luce e
il pensiero linguaggio. E poich vede il linguaggio su ogni cosa, giudica
che ci che sta sotto di esso tenebra, come l'occhio, che ha la forma
della luce, guardando la luce e i colori, ritiene oscuro e materiale ci che
nascosto dai color>> (ivi, II, 4, 5 ).
In quella che sembra la descrizione accurata di un'esperienza misti
ca, Plotino coglie in realt il fatto inconfutabile che il oytcrJ16 bastar
do che permette l'accesso alla xo)pa ancora un'esperienza della lingua
(Kata<jlam il termine logico per l'affermazione, per il dire qualcosa
di qualcosa). Il pensiero, attraversando il linguaggio significante fino al
suo limite - l'abisso - tocca la xropa, cio il puro aver luogo (nei termi
ni di Plotino, la materia) di ogni ente. Alla pura stazione della lingua
nel limite della significazione, al nudo darsi della lingua, corrisponde il
puro aver luogo delle cose.

20.
Come il fraintendimento dell'idea come un universa
le ha compromesso la possibilit di una sua corretta inter
pretazione, cosi l'identificazione aristotelica e neoplatoni
ca della xropa con la materia ha durevolmente influenzato
la storia della sua ricezione. Ed significativo che come il
fraintendimento dell'idea coincide con la sua confusione
con l'astrazione (<j>aipccrt), allo stesso modo la xropa vie
ne intesa come ci che resta di un corpo se si fa astrazio
ne delle sue affezioni. In quanto il luogo sembra essere
l'estensione (t<lO'tlla) della grandezza scrive Aristotele
nella Fisica esso materia ( UTJ), che altro dalla grandez
za. ci che avvolto e definito dalla forma, come da un
piano o da un limite. E questa appunto la materia e l'in
definito ('t 6ptcrtov). Se togli infatti ( <j>atpTJ9'fl) il limite e

I05

N Subito dopo il passo citato, Aristotele aggiunge che ci che capa


ce di partecipare (t LEtaT)1tttK6v) e la xo)pa sono la stessa cosa. Bench
(Platone) chiami ci che capace di partecipare in modi diversi nel Timeo
e nei cosiddetti insegnamenti non scritti (v to'i EYOJlVot ypa<jlot
My11acrtv), nondimeno egli ha affermato che il luogo e la xo)pa sono la
stessa cosa. Tutti dicono che il luogo sia qualcosa, ma egli il solo che
ha cercato di dire che cosa>> (Phys. 209 b I o - I 6).

1 06

CHE COS ' LA FILOSOFIA ?

Anche se il termine J.1E'tUA111t'tt K OV non compare nel Timeo (Pla


tone usa per, come abbiamo visto, per la partecipazione della xropa
all'intellegibile, un termine vicino: j.LE'tUAaj.Lavov), Aristotele sembra
qui far riferimento a una terminologia corrente nell'Accademia per
designare la xropa come ci che permette la partecipazione del sensi
bile all'intellegibile. Poche righe dopo, egli usa nuovamente il termi
ne, questa volta per formulare un'obiezione: A Platone si deve chie
dere, se lecita una digressione, perch le idee e i numeri non sono
in un luogo, se il luogo ci che capace di partecipar.e, che questo
sia il grande e il piccolo oppure la materia, come scritto nel Timeo
(Phys. 209 b 3 3 - 2 1 0 a 1 ).
Se Platone, pur affermando che la xropa permette una partecipazio
ne assai aporetica del sensibile all'intellegibile, non smentisce la tesi
secondo cui l'idea non ha luogo, ci perch, se l'idea avesse luogo nel
la xropa, essa sarebbe allora - come ritiene Aristotele, che vede infatti
nelle idee un inutile duplicato dei sensibili - un altro sensibile accanto
ai corpi generati. Se si dice, invece, che l'idea non ha un luogo proprio,
ma ha luogo nell'aver luogo dei sensibili, l'idea e il sensibile saranno,
insieme, due e uno (aJ.1a m1nv Ka ouo). L'idea non n la cosa n
un'altra cosa: la cosa stessa.

2!.

Pierre Duhem, nella sezione del suo Systme du monde


dedicata alla teoria platonica dello spazio, suggerisce che il
ragionamento bastardo di cui questione nel Timeo non
sia altro che il ragionamento geometrico, che si fonda tanto
sulla VOT\crt che, attraverso l'immaginazione che lo accom
pagna, sull' a'icr9rtcrt (Duhem I 9 I 3, p. 3 7 ). La straordinaria
conoscenza delle teorie scientifiche di Duhem ha qui colto,
contro l'interpretazione misticheggiante dei neoplatonici,
un punto essenziale della teoria della xc.pa. Va da s, infatti,
che Platone sapeva perfettamente, come Archita e i geometri
suoi contemporanei, che lo spazio ci che rende possibile

SUL DICIBILE E L' IDEA

la costruzione della geometria, la cui conoscenza egli po


neva fra le condizioni necessarie per l'ingresso nell'Acca
demia. Per questo, subito dopo aver definito la xo)pa, egli
mostra come il demiurgo vi produca gli elementi attraverso
triangoli isosceli e scaleni e secondo precisi rapporti nume
rici (Tim. 5 3 a - 5 5 c).
Tocchiamo qui le nozioni che stanno al fondamento del
la concezione platonica della scienza. Il ragionamento>>
del geometra (J.oytcr116 - secondo il significato prevalente
del termine tanto in greco che nell'uso platonico - dovreb
be tradursi pi esattamente con calcolo) bastardo - cio
pertinente insieme all'intellegibile e al sensibile - perch
non si riferisce immediatamente a dei corpi sensibili, ma al
loro puro aver luogo nello spazio. A differenza del oyo
delle lingue naturali - e tuttavia contiguamente ad esso - il
oytcrll6<; della matematica permette di superare la debo
lezza dei nomi - che ci danno sempre insieme l'essere e la
qualit di una cosa - grazie a un puro quanto di significa
zione, che significa, per, non una cosa o un concetto, ma
solo il darsi, il puro aver luogo di qualcosa.
La connessione essenziale fra la xropa e la lingua si mo
stra qui con chiarezza: la xropa - lo spazio e l'aver luogo di .
ciascuna cosa - ci che appare quando si tolgono l'uno
dopo l'altro gli elementi semantici del discorso verso una
dimensione puramente semiotica della lingua, non, per, in
direzione di una scrittura, bens di una voce. La xropa ,
cio, la soglia in cui semiotico e semantico, sensibile e intel
legibile, numeri e idee sembrano, per un istante, coincidere.
Se l'idea coglie, nel nome, il limite del semantico, il lla9ftlla
tocca, nella xropa, il limite del semiotico.

I 08

CHE COS ' LA FILOSOFIA ?

SUL DICIBILE E L' IDEA

I 09

22.

Un'analisi della terminologia della geometria greca for


nisce dei riscontri illuminanti. Sia la definizione che apre
gli Elementi di Euclide: <JT)J!Etov crnv, o J.tpo o'Ov.
La traduzione corrente punto ci di cui non vi parte
non permette di cogliere il fatto in ogni senso decisivo che
punto si dice in greco segno ( <Jll J.tEtov) . La traduzio
ne esatta sarebbe pertanto: vi un segno, di cui non vi
parte . La nozione che fonda la geometria , cio, quella di
quanto di significazione (Riemann dir con la consue
ta chiarezza: le parti determinate di un insieme, distinte
da una nota o da una demarcazione, si chiamano quanta).
Ci tanto pi rilevante, in quanto sappiamo che sono stati
proprio Platone e la sua scuola a affermare la necessit di
sostituire il termine pi antico per punto, CJ'ttYJ.tll (la trac
cia lasciata da un oggetto con l'atto di CJ'ttsEtv, pungere)
con <JT)J!Etov, per sottolinearne la connessione con la signi
ficazione linguistica: il punto non un ente materiale, ma
un quanto di significazione (cfr. Mugler 1 9 5 9).
Ci implica, nell'intenzione platonica, che mentre la fi
losofia pu raggiungere l'idea - omonima ai sensibili - solo
attraverso il paziente attraversamento (la Settima lettera
dice sfregando insieme) dei nomi, delle proposizioni e
dei concetti, la matematica si muove invece su un piano
bastardo, in cui dei quanti di significazione - non delle
parole, ma dei numeri - permettono di tenere aporetica
ente insieme gli intellegibili e i sensibili. In questione per
tl geometra non il corpo sensibile nel suo nome e nelle sue
qualit, ma il suo puro aver luogo indicato attraverso il dar
si di un puro significante (un segno di cui non vi parte).
.

Un esame della definizione della monade nel libro VII (Def. I )


degli Elementi euclidei - f.J.Ova crttv, Ka8' fv EKacrtov t<>v ovtrov v
iyetat - conduce a analoghi risultati. Si rifletta alla singolare tauto
logia contenuta nella traduzione corrente: unit ci attraverso cui
ciascuno degli enti detto uno>> . Solo se si comprende che decisivo
qui l'esser detto>>, la definizione cessa di essere tautologica: la monade
non un ente reale, ma ci che risulta dalla pura relazione signifi
cante fra la parola e la cosa. Uno ci che detto, se si considera in
se stessa la pura relazione fra il linguaggio e il suo relato. Per questo
Aristotele poteva scrivere che il matematico <<contempla gli attributi,
ma non in quanto si riferiscono a una sostanza: cio li separa (xropisEt).
Attraverso il pensiero essi sono separabili dal movimento>> e aggiun
geva che i sostenitori delle idee fanno la stessa cosa senza accorgerse
ne: <<Essi separano le cose naturali, che sono meno separabili di quelle
matematiche (Phys. I 9 3 b 3 2 - 1 94 a I ). Separare gli attributi dal loro
riferimento a una sostanza significa disporre di un linguaggio - quello
matematico, appunto - in grado di sospendere la sua denotazione, cio
il suo riferirsi a un determinato oggetto reale, tenendo per ferma la
nuda forma della relazione.

23.

Diventa comprensibile, in questa prospettiva, perch


l'ideale della scienza platonica abbia potuto essere espres
so, nella testimonianza di Simplicio, attraverso il sintag
ma salvare le apparenze (1 <l>atVOJ.tEva crc{>sEtv). Nel suo
commento al De coelo di Aristotele, egli descrive in questi
termini il problema che Platone assegnava alla scienza (in
questo caso, all'astronomia): Platone, avendo ammesso
in principio che i corpi celesti si muovono con un mo
vimento circolare, uniforme e constantemente regolare,
pose ai matematici questo problema: " Quali sono i mo
vimenti circolari, uniformi e perfettamente regolari che

I IO

CHE C O S ' LA FILOSOFIA ?

occorre prendere per ipotesi affinch si possano salvare


le apparenze dei pianeti erranti (taaq>Sfvat 't 7tEp 'to
1taVOJ..L VOU <)>atVOJ..lE Va) ? " )) (Duhem 1 908, p. 3 ) .
Se i l compito del matematico s i esaurisce con l a salva
zione delle apparenze, ci significa che, una volta raggiunto
lo scopo, egli deve guardarsi dall'identificare i movimenti
supposti con quelli reali degli astri. Come scrive Duhem,
l'astronomia non coglie l'essenza delle cose celesti, ne for
nisce soltanto un'immagine. E questa immagine non esat
ta, ma solo approssimativa . . . Gli artifici geometrici che ci
servono da ipotesi per salvare i movimenti apparenti degli
astri non sono n veri n verosimili. Sono dei puri concetti
che non possono essere trasformati in realt senza formu
lare delle assurdit)) (ivi, p. 23).
Per questo Simplicio pu affermare che il fatto che astro
nomi propongano ipotesi diverse per spiegare uno stesso
fenomeno non costituisce un problema: evidente che il
fatto che le opinioni divergano quanto alle ipotesi non
un'obiezione. Lo scopo che ci si propone di sapere quali
ipotesi riescano a salvare le apparenze. Non bisogna stupir
si se altri astronomi abbiano cercato di salvare i fenomeni
a partire da ipotesi diverse . . . Per salvare le irregolarit, gli
astronomi immaginano che ogni astro si muova con pi
movimenti; gli uni ipotizzano movimenti secondo eccen
trici ed epicicli, altri invocano le sfere omocentriche . . . Ma
come non si considerano reali le stazioni e i movimenti re
trogradi dei pianti n le addizioni e sottrazioni di numeri
che si riscontrano nello studio dei movimenti, anche se gli
astri sembrano muoversi in quel modo, cos una esposizio
ne conforme alla verit non considera le sue ipotesi come se
fossero reali . . . gli astronomi si contentano di giudicare che
possibile, attraverso movimenti circolari, uniformi e sem-

SUL DICIBILE E L' IDEA

I I I

pre nella stessa direzione, salvare le apparenze degli astri


erranti)) (ivi, pp. 2 5 -27).
Se, nella prospettiva della scienza platonica, le ipotesi ma
tematiche devono contentarsi di salvare le apparenze e non
pretendere di identificarsi con la realt, ci perch la mate
matica si riferisce, in ultima analisi, a dei quanti di significa
zione e non a degli enti reali. Essa si situa sul limite semiotico
della lingua, ma non pu pretendere di scavalcarlo.

Solo questa situazione dei numeri e delle idee rispetto


al linguaggio permette di far ordine nel controverso pro
blema di come Platone abbia inteso il rapporto fra le idee
e i numeri. Come ogni volta che in questione sono i co
siddetti insegnamenti non scritti, le testimonianze antiche
sono non meno contrastanti delle opinioni degli studiosi
moderni. Lo stesso Aristotele, che pure ci informa che Pla
tone distingueva accanto agli oggetti sensibili e alle idee,
come medio (J..LE'tal;u) fra di essi, gli elementi matematici
delle cose ('t J..La9ftJ..LanK 'trov 7tpayJ,uhrov), i quali differiscono
dai sensibili perch immobili ed eterni e dalle idee perch ve ne
sono molti simili, mentre ciascuna idea in s una e singolare))
sembra avvicinare i numeri e le idee fin quasi a confonderli,
quando afferma che come i Pitagorici, Platone diceva che i
numeri sono causa della oaia delle altre cose)) (Metaph. 98 7
b 1 4-2 5 ). Alessandro di Afrodisia, nel Commento alla Me
tafisica di Aristotele, identifica decisamente idee e numeri:
l numeri sono i primi fra gli enti. E poich le forme sono
prime e le idee sono prime rispetto alle cose che esistono in
relazione ad esse e da esse hanno l'essere [ . . . ] (Platone) disse

1 12

CHE COS ' LA FILOS OFIA ?

che le idee sono numeri ( 't E'i<i11 pt8f.to' EEyEv) [ . . . ] . Inol


tre le idee sono principi delle altre cose, mentre principi delle
idee, che sono numeri, sono i principi dei numeri e principi
dei numeri diceva essere l'unit e la dualit (Alessandro di
Afrodisia 1 89 1 , p. 5 6). Contro di lui Simplicio obietta, per,
non senza ragione, che mentre del tutto verosimile che
Platone dicesse che principi di tutte le cose sono l'uno e la
dualit indeterminata [ . . . ] da ci non pu conseguire che egli
dicesse che la dualit indeterminata, che chiamava grande e
piccolo intendendo con questo la materia, sia principio an
che delle idee, dal momento che egli limitava la materia al solo
mondo sensibile [ . . . ] e aveva del resto anche detto che le idee
sono conoscibili col pensiero e la materia invece "credibile
con un ragionamento bastardo" (Simplicio 1 8 82, p. 1 5 1 ). La
neutralizzazione della dicotomia fra idee e sensibili resa pos
sibile dalla xo)pa - la quale anche condizione di possibilit
della geometria e della matematica - conduce in Alessandro
a un appiattimento dei numeri sulle idee, contro il quale rea
gisce fermamente Simplicio.
Le contraddizioni si risolvono se si osserva che idee e nu
meri - antologicamente vicini - sono tuttavia chiaramente
distinti in quanto si situano rispetto al linguaggio in due di
verse regioni. Mentre le idee non possono staccarsi del tutto
dai nomi, i simboli matematici sono ci che risulta dal puro
darsi del linguaggio, essi sono, cio, dei quanti di significa
zione che esprimono il darsi della relazione significante tra
linguaggio e mondo, senza alcuna denotazione concreta.
Idea e numero, filosofia e matematica si situano, cio, in due
diverse esperienze dei limiti del linguaggio: l'idea il limite
del semantico, mentre il numero il limite del semiotico.
In questo senso - in quanto esprime la nuda relazione se
miotica fra linguaggio e mondo al di qua di ogni riferimento

SUL DICIBILE E L' IDEA

IIJ

semantico a u n determinato oggetto reale - l a matematica


pu apparire come la forma pi pura dell'antologia. Di qui
i ricorrenti tentativi di identificare antologia e matematica,
di cui un esempio recente la tesi di Alain Badiou secondo
cui, poich le matematiche sono l'antologia ( 1 9 8 8 , p. 1 0),
possibile riscrivere la filosofia prima nei termini della teoria
degli insiemi. Contro questa confusione di due piani pros
simi, ma distinti, occorre ricordare che l'antologia - am
messo che abbia senso definire nel suo pensiero qualcosa
come un'antologia - comincia propriamente per Platone
soltanto col piano dei nomi. La sua filosofia, almeno per
quanto ci dato sapere, si situa decisamente sul piano della
lingua naturale e cerca di orientarsi in esso, senza mai ab
bandonarlo, attraverso un paziente e prolungato esercizio
dialettico per risalire in ultimo alle idee, che sono e restano
omonime ai sensibili. Naturalmente anche la matematica
presuppone il linguaggio (della matematica di un mondo
senza linguaggio noi non sappiamo strettamente nulla):
essa non si situa per semplicemente, come la dialettica,
all'interno del linguaggio, ma si tiene nella pura relazione
fra linguaggio e mondo, nella nuda significazione senza si
gnificato. Al darsi dei corpi sensibili nel nome, corrispon
de la loro pura posizione (8cru;), il loro aver luogo nella
xropa. In quanto guardano entrambi alla conoscibilit del
mondo, il matematico e il filosofo dimorano vicinissimi:
diverse e difficilmente comunicanti sono, per, come per
il p o eta e il filosofo, le esperienze del linguaggio in cui essi
SI muovono.

1 14

CHE C O S' LA FILOSOFIA ?

Se scienza e filosofia smarriscono la coscienza della loro


prossimit e della loro differenza, esse perdono nella stes
sa misura ogni consapevolezza dei propri compiti rispettivi.
Poich, se la definizione platonica della loro aporetica re
lazione vera, esse possono perseguire il loro fine soltanto
mantenendosi in una reciproca tensione. La filosofia, come
contemplazione delle idee nei nomi, deve costantemente
spingersi al di l di questi verso i limiti del linguaggio, che,
tuttavia, non pu superare con la propria terminologia, cos
come la scienza, che cerca di salvare i fenomeni che la causa
errante (nJ..avoVTJ ai-ria, Plat. Tim. 48 a) continuamente
mescola e confonde, non pu che tendere - senza mai com
pletamente riuscirvi - a tradurre il suo discorso in quello del
le lingue naturali (l'esperimento il luogo in cui si compie
questa traduzione).
Il paradigma della scienza platonica, che non mai del
tutto scomparso dalla scienza occidentale, attraversa oggi
una crisi di cui non sembra possibile venire a capo. La ri
nuncia della scienza all'esposizione linguistica - divenuta
evidente con la fisica postquantica - va di pari passo all'in
capacit della filosofia di misurarsi con i limiti del linguag
gio. A una filosofia senza pi idee, cio puramente concet
tuale, che diventa per questo una sempre pi inutile ancilla
scientiae, corrisponde una scienza che non riesce a pensare
il suo rapporto con la verit che dimora nelle lingue na
turali. La divisione della filosofia in due campi - perfino
istituzionalmente e geograficamente incomunicanti - che
si accetta come scontata, rispecchia la perdita dell'elemento
- la xropa della lingua - in cui esse avrebbero potuto comu
nicare. Da una parte si cerca cos di formalizzare ad ogni

SUL DICIBILE E L'IDEA

115

costo la lingua naturale, escludendo da essa come poetico


ci che pure le appartiene costitutivamente; dall'altra - di
menticando che la filosofia, pur dimorando nella lingua, in
quanto risale in essa fino al suo principio musaico (, anzi,
essa stessa Musa: a''t'l il Mouaa) deve metterne incessante
mente in questione i limiti - si finisce con l'invocare, in un
gesto simmetricamente opposto, il deus ex machina della
poesia come se fosse un principio esterno.
E solo a partire da questa aporia, cio dalla perdita del
passaggio (nopo) e dell'esperienza (nEpa) che potrebbero
ricongiungere filosofia e scienza, si pu spiegare il dominio,
in apparenza illimitato, di una tecnica che tanto i filosofi
che gli scienziati sembrano osservare sbigottiti. La tecnica
non una applicazione della scienza: essa il prodotto
conseguente di una scienza che non pu n vuole pi salvare
le apparenze, ma tende ostinatamente a sostituire le sue ipo
tesi alla realt, a realizzarle . La trasformazione dell' espe
rimento, che ha ora luogo attraverso macchinari cos com
plessi, che non hanno pi nulla a che fare con le condizioni
reali, ma si propongono di forzarle, mostra eloquentemente
che la traduzione tra i linguaggi non pi in questione. Una
scienza, che rinuncia a salvare le apparenze, non pu che
mirare alla loro distruzione; una filosofia, che non si mette
pi in gioco, attraverso le idee, nella lingua, smarrisce la sua
necessaria connessione col mondo sensibile.

26.
La teoria della xcpa riappare nel XVII secolo in un singo
lare incrocio di teologia e scienza nei platonici di Cambridge.
Nel carteggio fra il pi visionario di essi, Henry More, e

I I6

CHE C O S ' LA FILOSOFIA?

Cartesio, il termine xo)pa non mai pronunciato e, tuttavia,


si tratta appunto per More di rivendicare contro Cartesio
l'irriducibilit dello spazio alla materia. Se si identificano,
come fa Cartesio, estensione e materia, non vi pi posto
per Dio nel mondo. Esiste, invece, un'estensione non ma
teriale che un attributo dell'essere come tale. La ragione
che mi fa credere egli scrive a Cartesio appropriandosi, per
rovesciarla, della sua definizione della materia che Dio sia,
a suo modo, esteso, che egli dovunque presente e riempie
intimamente tutta la macchina del mondo e ciascuna delle
sue parti. Come potrebbe, infatti, comunicare il movimento
alla materia [ . . . ] se non la toccasse per cos dire precisamen
te o non l'avesse una volta toccata ? [ . . . ] Dio dunque esteso
e a suo modo espanso: Dio , per conseguenza, una cosa
estesa (Deus igitur suo modo extenditur atque expanditur;
ac proinde est res extensa) (Descartes 1 9 5 3 , pp. 96-98). Vi
, cio, per More, una estensione divina (divina extensio ),
per caratterizzare la quale egli invoca, insieme ai platonici
(cum platonicis suis), i versi di Virgilio che diventeranno
pi tardi l'insegna del panteismo: totamque infusa per ar
tus l mens agitat molem et magno se corpore miscet (ivi, p.
r eo) . Questo spazio assoluto, infinito ed immobile, in cui,
come nella xo)pa platonica, si producono tutti i movimenti
e tutti i fenomeni, qualcosa che noi non possiamo immagi
nare che non sia (disimagine, disimmaginare, More 1 6 5 h
p. 3 3 5 ) e, nel pensiero di More, esso tende a identificarsi
progressivamente con Dio: Questa Estensione infinita e
immobile qualcosa non soltanto reale, ma anche divino
(Divinum quiddam). In questo modo, egli osserva non
senza ironia, egli fa rientrare Dio nel mondo attraverso la
stessa porta, da cui la filosofia cartesiana aveva pensato di
cacciarlo))' cio la res extensa (More r 67 r , p. 69). Metafisica

SUL DICIBILE E L' IDEA

I 17

e teologia a questo punto coincidono e More pu elencare


una serie di nomi)) o titoli)) divini che convengono perfet
tamente allo spazio divinizzato: Uno, Semplice, Immobile,
Eterno, Perfetto, Indipendente, Esistente in s, Sussisten
te di per s, Incorruttibile, Necessario, Immenso, lncreato,
Onnipresente, Incorporeo, Permeante e Abbracciante ogni
cosa. E ometto)) egli aggiunge che i cabalisti chiamano
Dio Makom, cio il luogo)) (ivi, p. 7 1 ).
lecito scorgere nella definizione di questo spazio di
vinizzato qualcosa di pi che un'eco delle parole che con
cludono il Timeo, dove la xropa, che ha ricevuto in s tut
ti i viventi mortali e immortali))' descritta come un dio
sensibile (8E aicr8rrto) immagine dell'intellegibile))' che
abbraccia tutte le cose visibili)) ed immenso e suprema
mente buono, bellissimo e perfettissimo)) (92 c). questo
luogo divino di tutti gli esseri, questo spazio assoluto che
N ewton qualche anno dopo definir nella sua Ottica con
un'immagine ardita come il sensorium di Dio: Vi un es
sere incorporeo, vivo, intelligente e onnipresente che, nello
spazio infinito come se fosse nel suo sensorium, vede inti
mamente le cose stesse, le percepisce e comprende perfetta
mente nella loro presenza immediata a se stesso)) (N ewton
r 706, p. 3 r 2; cfr. Koyr r 962, p. 20 r ) .

Gi quattro secoli prima, due menti eccezionali, di cui


conosciamo poco pi che il nome, avevano identificato
senza riserve Dio e la xropa. Di Amalrico di Bne non ci
stato conservato alcuno scritto; sappiamo per da fonti
e citazioni indirette, che egli interpretava l'affermazione

II8

CHE C O S ' LA FILOSOFIA ?

paolina secondo cui Dio tutto in tutte le cose in senso


radicalmente panteista e, insieme, come uno svolgimento
teologico della dottrina platonica della xropa. La fonte che
gli attribuisce la tesi panteista, ne irride le conseguenze: se
Dio tutto in tutte le cose, allora Dio pietra nella pietra,
talpa nella talpa e pipistrello nel pipistrello e dovremmo,
allora, adorare la talpa e il pipistrello. L'anonimo polemi
sta cita, per, poco dopo le tesi di Amalrico che ci per
mettono di interpretare correttamente la sua intuizione e
di riportarle alla loro fonte platonica: Tutto ci che in
Dio, Dio; ma tutte le cose sono in Dio . . . dunque Dio
tutte le cose. Dio tutte le cose, perch, come la xropa,
il luogo di tutte le cose. Dio in ciascuna cosa come il
luogo in cui ciascuna cosa : egli l'aver-luogo di ogni
ente e, per questo e soltanto per questo, si identifica con
esso. Divine non sono la talpa o la pietra: divino l'es
ser talpa della talpa, l'esser pietra della pietra, il loro puro
aver luogo in Dio.
Di Davide di Dinant, la lettura delle cui opere viene pro
bita nel I 2 I 5 dagli statuti dell'universit di Parigi insieme a
quelle degli Amalriciani, ci stato conservato, tra i fogli dei
suoi Quaternuli che riguardano soprattutto questioni di fi
sica e di medicina, lo straordinario frammento che gli edito
ri hanno intitolato Hyle mens deus, Materia, mente, dio.
Qui, con un colpo di genio che Tommaso definisce follia,
egli afferma, allegando l'autorit del passo sopracitato del
Timeo, 1' assoluta identit di Dio, mente e materia (UTl, se
condo la tradizione post-aristotelica, nomina qui la xffipa):
Da ci si deduce che la mente e la materia sono la stessa
cosa. Con ci concorda Platone, dove dice che il mondo
un dio sensibile. La mente, di cui parlo e che affermo essere
una e impassibile, non altro che Dio. Se dunque il mondo

SUL DICIBILE E L' IDEA

I 19

Dio stesso accessibile ai sensi al di l di s e stesso, come


hanno detto Platone, Zenone, Socrate e molti altri, allora la
materia del mondo Dio stesso, e la forma che avviene alla
materia non altro che Dio che fa se stesso sensibile .
Attraverso l a materia - xropa -, Dio e l a mente s i iden
tificano. Solo nella prospettiva panteista del venir meno
dell'opposizione fra Dio e il mondo, la teoria della xropa
trova la sua verit ultima; e, per converso, solo se lo si fon
da in una teoria della xropa, il panteismo acquista il suo au
tentico, impareggiabile senso.

Il dicibile conosce una non precaria resurrezione nel XIV


secolo con Gregorio da Rimini. I filosofi e i teologi discute
vano se l'oggetto della conoscenza fosse la proposizione (il
plesso linguistico-mentale in cui essa si esprime) o una realt
extra animam. Tra i due termini di questa falsa alternativa il
genio di Gregorio inserisce un tertium: il vero oggetto della
conoscenza - e, di conseguenza, la verit di cui ne va nel lin
guaggio - non la proposizione (l'enuntiatum) n un ogget
to esistente fuori della mente, ma l' enuntiabile o il complexe
significabile o il significato della proposizione, il cui partico
lare modo di essere egli si sforza di definire al di l dell'essere
e del non essere, della mente e della realt extramentale. In un
passo delle Categorie ( I 2 b 5 - I 6), Aristotele aveva scritto che
mentre l'affermazione e la negazione (ad esempio: siede o
non siede) sono dei discorsi (A.Oyot), la cosa (npayf.!a) che
in questione in esse (che Aristotele esprime con l'infinito:
l'esser seduto o il non essere seduto) non un discorso.
Commentando questo passo, Gregorio ne deduce che vere o

1 20

CHE C O S ' LA FILOSOFIA ?

false non sono le proposizioni e nemmeno le cose reali, ma


l'enunciabile o il significabile che, sull'esempio di Aristotele,
egli esprime con una proposizione infinitiva l'esser uomo
asino o il non essere l'uomo asino.
Decisivo qui il modo in cui Gregorio concepisce l'es
sere di questo tertium, che, in quanto non coincide n con
la proposizione n con l'oggetto esterno, rischia di apparire
come un nulla. La cosa che in questione nella proposizio
ne vera l'uomo bianco non - suggerisce Gregorio - n la
cosa uomo n la cosa bianco, n la loro congiunzione
logica attraverso la copula, bens una res sui generis - l'es
sere uomo bianco, che non sta n nella mente n nella re
alt, ma in qualche modo al di l dell'esistenza e della non
esistenza. Cos, anche nel caso della tesi metafisica: Dio
(Deus est), l'enunciabile (o complexe significabile) che
le corrisponde - Dio essere (Deum esse) - non altro,
cio un'altra entit rispetto a Dio (alia entitas quam Deus)
e, tuttavia, non Dio, n, in generale, alcuna entit (Sent.,
I, dist. I, quaest. r , art. r; cfr. Dal Pra 1 9 74, p. 1 46).
curioso che gli storici della filosofia, che si sono occupa
ti del problema, non abbiano rilevato l'evidente connessione
terminologica col AEK'tV e col dicibile della tradizione stoica
(che, tramite la Dialectica di Agostino, non erano ignoti al Me
dioevo). Essi affermano che il significabile di Gregorio implica
un'esistenza del tutto particolare, che non coincide n con
le entit del mondo esterno n con le semplici entit mentali
costituite dai termini o dalle proposizioni, ma d luogo a un
mondo dei significati (Dal Pra 1 974, p. 14 5 ) ; ma non si accor
gono che ci che qui riaffiora alla consapevolezza filosofica
lo stesso problema con cui Platone si era misurato attraverso
le idee e che gli stoici avevano ripreso col loro dicibile. La ve
rit che si esprime nel linguaggio - e, poich noi non abbiamo

SUL DICIBILE E L' IDEA

121

altro modo di esprimerla, la verit di cui ne va per noi uomini


parlanti - non n un fatto reale n un ente soltanto mentale,
e neppure un mondo dei significati: , piuttosto, un'idea, un
puramente dicibile, che neutralizza radicalmente le sterili op
posizioni mentale/reale, esistente/non esistente, significante/
significato. E questo - e non altro - l'oggetto della filosofia
e del pensiero.

Molti secoli dopo, il complexe significabile di Gregorio da Rimini


riappare - nella sua formulazione forse terminologicamente pi inven
tiva - in Alexius Meinong. Questo allievo di Brentano, che scelse lo
pseudonimo Meinong per nascondere la sua appartenenza alla nobilt,
si propone di definire una disciplina che fin allora non era mai stata
concepita>>, cio una scienza che elabora i suoi oggetti senza limitar
si al caso particolare della loro esistenza>> (Meinong 1 92 1 , p. 8 2). Egli
chiama oggettivi>> (Objektive) questi oggetti puri della conoscenza,
che delimitano una regione della realt indifferente al problema dell'e
sistenza (daseinsfrei) e per i quali vale pertanto l'assioma: <<si danno
oggetti, per i quali vero che oggetti del genere non si danno>> . Anche
se Meinong sceglie a volte i suoi esempi fra i concetti impossibili come
la montagna d'oro, il <<cerchio quadratO>> o la chimera, egli chiama
per eccellenza obiettivi>> quei contenuti delle proposizioni (<<la neve
bianca>> o <<il blu non esiste>>), la cui consistenza egli, come i suoi
predecessori medievali, non situa n in re n nella mente, ma in una no
man 's land, che egli chiama <<quasiessere (Quasisein) o fuoriessere>>
(Aussersein). Ci di cui ne va nel linguaggio una cosa senza patria>>
(heimatlos), che non appartiene n all'essere n al non-essere.
La scienza dell'oggetto, che, in quanto scienza generale del non-reale,
si potrebbe supporre complementare, come suggerisce il suo inventore,
alla metafisica come scienza generale del reale, assomiglia certamente
alla patafisica che, esattamente negli stessi anni, Jarry definiva come
<<scienza di ci che si aggiunge alla metafisica>> . In ogni caso significa
tivo che, alla fine della storia della filosofia occidentale, la sopravviven
za di ci che, nel suo momento iniziale, definiva l'oggetto per eccellen
za del pensiero debba essere cercata in concezioni che la storiografia

1 22

CHE C O S ' LA FILOSOFIA?

filosofica rubrica in una posizione quanto meno marginale. Eppure nel


<<fuoriessere di Meinong vibra certamente un'eco - labile, sommessa e
probabilmente inconsapevole - dell'intenzione che Platone aveva affi
dato al suo 7tKnva 't'i oaia.

Sullo scrivere proemi

Nella Terza lettera (3 1 6 a), Platone dichiara di essersi oc


cupato abbastanza seriamente dei proemi delle leggi (nep
trov v6J.u:ov npooiJ..tt a crnouacravta J.l.E tpi ro) . Che si trat
tasse di una vera e propria attivit di scrittura, risulta da
quanto egli aggiunge poco dopo: Ho sentito dire che in
seguito alcuni di voi hanno rielaborato questi proemi, ma
la diversit fra le due parti [scii. quella scritta da me e quella
rielaborata da altri] apparir chiara a chi sa riconoscere il
mio carattere (t J.LV Oo) . Se si considera che, nella Set
tima lettera, Platone sembra gettare un sospetto di scarsa
seriet su ogni tentativo di mettere per iscritto argomenti
filosofici (il sospetto potrebbe riguardare anche i suoi dia
loghi), possibile che egli fosse convinto che la redazione
di quei proemi (che gli apparteneva, come suggerisce, in
modo inconfondibile) fosse tra le poche scritture serie che
egli aveva prodotto nella sua lunga vita. Queste scritture
sono, purtroppo, perdute.

Nelle Leggi, una delle sue opere pi tarde, Platone, gio


cando sul doppio significato di VOJ.Lo (composizione musi
cale cantata in onore di un dio e legge), torna al problema
dei proemi delle leggi (e questo fa pensare che la lettera sia

I 26

CHE COS ' LA FILOSOFIA ?

autentica). In tutti i discorsi e in tutto ci cui partecipa la


voce dice l'interlocutore del dialogo designato come l'A
teniese vi sono proemi (7tpooiJHa) e, per cos dire, degli
esercizi preparatori ( vaKtvflcrEt), che contengono un cer
to tentativo d'inizio conforme all'arte (evtEXVov), utile per
ci che seguir dopo. Anche nei cosiddetti voot citaredici
e in ogni specie di musica precedono preludi mirabilmente
elaborati. Ai voot veri e propri [cio le leggi], invece, che
diciamo essere quelli politici, nessuno ha premesso alcun
proemio n, avendolo composto, l'ha poi portato alla luce,
come se questo non fosse conforme a natura. La conversa
zione che abbiamo avuto significa invece, a me pare, che lo
e che le leggi di cui abbiamo parlato [quelle fatte per gli
uomini liberi], che a me parvero dianzi doppie, non sono
semplicemente tali, ma sono due cose: leggi e proemi di
leggi. Il comando (E7titaya) tirannico, che abbiamo pa
ragonato alle prescrizioni di quei medici che chiamavamo
non liberi, appunto la legge pura (aKpa'to, non mescola
ta); ci che viene prima, che abbiamo chiamato l'elemento
persuasivo (1tEtcrnK6v), in quanto serve a persuadere, ha la
stessa funzione dei proemi che si fanno nei discorsi. Poich
tutto questo discorso che il legislatore fa cercando di per
suadere, mi pare che sia fatto allo scopo di disporre colui al
quale egli indirizza la legge ad accogliere benevolmente il
suo comando, cio la legge. Perci questo pu dirsi a ragio
ne costituire il proemio (1tpooiwv), non il discorso (oyo)
della legge [ . . . ] . Il legislatore deve aver cura prima di tutte
le leggi e per ciascuna di esse, di fare un proemio, in modo
che esse differiscano tra di loro come le due leggi di cui
parlavamo prima (722 d - 723 b).
L'accenno ai discorsi in generale (tutto ci cui partecipa
la voce) e ai voot musicali lascia inferire che lo statuto

SULLO SCRIVERE P ROEMI

1 27

speciale che Platone assegna qui al proemio vada al di l


dell'ambito della legislazione in senso stretto. quanto l'A
teniese sembra almeno suggerire subito dopo, presentando
tutto il dialogo che seguir come un preludio: Non stiamo
a indugiare ma, tornando sull'argomento, cominciamo, se vi
piace, da quello che dianzi ho detto senza alcuna intenzione
di fare proemi. Riprendiamo dunque da capo - come dicono
i giocatori, la seconda prova meglio della prima - per fare
un proemio e non un discorso (oyo) a caso. Rimanga cos
convenuto che cominciamo con un proemio [ . . . ] (723 d-e).
Se gi la conversazione che si era svolta fin allora era in verit
soltanto un proemio, ora lo scopo fare consapevolmente
un proemio e non un discorso.
Come, in una buona legge, si devono distinguere, secondo
Platone, un proemio e un oyo in senso stretto (il coando ),
cos anche in ogni discorso umano possibile distinguere un
elemento proemiale da un elemento propriamente discorsivo
o prescrittivo. Ogni parola umana proemio (1tpooiwv) o di
scorso (Jryo), persuasione o comando, e pu essere oppor
tuno, parlando, mescolare i due elementi o tenerli distinti.

Se il linguaggio umano consta di due elementi diversi,


a quale di essi apparterr il discorso filosofico ? Le parole
dell'Ateniese (fare un proemio e non un discorso) sem
brano suggerire senza riserve che il dialogo Leggi - e, quindi,
forse, ciascuno dei dialoghi che Platone ci ha lasciato - sia da
considerare semplicemente come un proemio.
Come una legge pura (aKpa'to, non mescolata), cio sen
za proemio, tirannica, tirannico anche un discorso privo
di proemi, che si limiti a formulare teorie, per quanto cor
rette esse possano essere. Questo spiegherebbe l'ostilit di

!28

CHE COS ' LA FILOSO FIA ?

Platone verso l'enunciazione di teorie e di opinioni vere e


il suo ricorrere di preferenza al mito piuttosto che all'ar
gomentazione logica. La parola filosofica essenzialmente
e costitutivamente proemiale. Essa l'elemento proemiale
che deve essere presente in ogni discorso umano. Ma se il
proemio della legge precede e introduce la parte normativa
della legge - le prescrizioni e i divieti - di che cosa la parola
filosofica costituisce il proemio ?

Secondo una tradizione che studiosi moderni hanno ri


preso, accanto agli scritti essoterici di Platone - i dialoghi circolavano nell'Accademia delle dottrine esoteriche, che
il filosofo avrebbe formulato in forma assertiva. In questa
prospettiva, i dialoghi che conosciamo potrebbero essere
considerati come proemi e introduzioni alle dottrine esote
riche che gli studiosi cercano di ricostruire in forma neces
sariamente discorsiva. Se, tuttavia, quanto Platone dice
nelle Leggi deve essere preso sul serio, se il carattere di
proemialit consustanziale alla filosofia, allora impro
babile che egli abbia potuto formulare in forma assertoria
le dottrine che gli stavano pi a cuore. Anche le dottri
ne esoteriche - ammesso che esse esistessero - dovevano
avere una forma proemiale. N el solo testo conservato in
cui si rivolge a degli intimi per esporre il suo pensie
ro - la Settima lettera - Platone non soltanto esclude di
poter mettere per scritto o anche solo comunicare in forma
di scienza ci che gli sta veramente a cuore, ma la celebre
digressione filosofica (che egli chiama discorso vero, ma
anche mito e divagazione - j.tu8o Ka navo) che egli
introduce a questo punto per spiegare perch ci sia impos
sibile, formulata in termini cos poco argomentativi che

SULLO SCRIVERE PROEMI

129

essa stata sempre considerata - a torto o a ragione - come


un testo mistico particolarmente oscuro.

Il carattere proemiale della parola filosofica non signi


fica, pertanto, che esso rimandi a un discorso filosofico
post-proemiale, ma si riferisce alla natura stessa del linguag
gio, alla sua debolezza (ot t tffiv oyrov cr8c.v, Plat. Epist. VII, 3 4 3 a 1 ) ogni volta che esso sia chiamato a con
frontarsi con i problemi pi seri. La filosofia , cio, proe
mio, non a un altro discorso pi filosofico, ma, per cos dire,
al linguaggio stesso e alla sua inadeguatezza. Ma, proprio
per questo - in quanto, cio, esso dispone di una consistenza
linguistica propria, che quella proemiale - il discorso filo
sofico non un discorso mistico, che, contro il linguaggio,
prenda partito per l'ineffabile. La filosofia , cio, quel di
scorso che si limita a far da proemio al discorso non filosofi
co, mostrandone l'insufficienza.

Cerchiamo di svolgere al di l del contesto platonico la


tesi della natura proemiale del discorso filosofico. La filo
sofia quel discorso che riporta ogni discorso al proemio.
Generalizzando, si potrebbe dire che la filosofia si identi
fica con l'elemento proemiale del linguaggio e si attiene ri
gorosamente ad esso. Evita, cio, di trapassare in discorso o
in comando, di enunciare sriamente tesi o proibizioni. (La
critica paolina del comando - vtofl - della legge nella
Lettera ai Romani pu essere vista come un tentativo di
purificare la legge dal comando per riportarla alla sua natu
ra proemiale, cio persuasiva). L'uso del mito e dell'ironia
in Platone va visto in questa prospettiva: esso ricorda a chi

130

CHE

cos' LA FILOSOFIA ?

parla e a chi ascolta il carattere necessariamente proemiale


di ogni discorso umano che abbia a cuore la verit. L' ele
mento filosofico in un discorso quello che testimonia di
questa consapevolezza, non nel senso dello scetticismo, che
mette in questione la stessa verit, ma in quello della ferma
intenzione di attenersi al carattere necessariamente proe
miale e preparatorio di ci che si va dicendo.
Anche il proemio, tuttavia, per quanto cerchi scrupolosa
mente di mantenersi nei propri limiti, non pu, alla fine, che
mostrare la sua insufficienza, che coincide, del resto, con la
sua natura preliminare e, quindi, per forza di cose inconclu
dente. Ci appare con chiarezza proprio alla fine delle Leggi,
quando, dopo aver trattato apparentemente ogni dettaglio
della costituzione della citt e della vita dei cittadini, il dia
logo si conclude nella consapevolezza che il pi importante
resta ancora da fare. Secondo un gesto caratteristico del tar
do Platone, questa tesi viene formulata nella forma ironica
di uno scherzo e di un gioco di parole: N o n possibile
spiega l'Ateniese legiferare su queste cose, se prima non si
fatto ordine; solo allora si potr legiferare su chi deve avere
l'autorit suprema. La dottrina sulla preparazione di queste
cose pu infatti riuscir bene, solo dopo un lungo stare in
sieme (1to..lV cruvoucriav, le stesse parole in cui la Settima
lettera compendia la condizione del raggiungimento della
verit), [ . . . ] non sarebbe giusto, per, dire che le cose che ri
guardano questo argomento siano indicibili (1topprrra ): esse
sono piuttosto im-pre-dicibili (7tpoppTJta, che non si posso
no dire prima), in quanto, pre-dicendole, (7tpoppTJ9vta) non
si mette nulla in chiaro (968 e).
La natura proemiale del dialogo viene cos ribadita, ma,
insieme, si afferma che solo un discorso che venga dopo
- cio un epilogo - quello decisivo. La filosofia costi-

SULLO SCRIVERE PROEMI

131

tutivamente proemio e, tuttavia, l'affare della filosofia non


l'indicibile, ma l'im-predicibile, ci che non pu essere
detto in un proemio; adeguato allo scopo, cio veramen
te filosofico, sarebbe soltanto un epilogo. Il proemio deve
trasformarsi in epilogo, il preludio in postludio: in ogni
caso, per, il .oyo assente, il ludus non pu che mancare.

Tutto quello che il filosofo scrive - tutto quello che ho


scritto - non che un proemio a un'opera non scritta o - che
, in fondo, lo stesso - un postludio il cui ludus assente.
La scrittura filosofica non pu che avere natura proemiale
o epilogale. Ci significa, forse, che essa non ha a che fare
con ci che si pu dire attraverso il linguaggio, ma col .oyo
stesso, col puro darsi del linguaggio come tale. L'evento, che
in questione nel linguaggio, pu essere solo annunciato o
congedato, mai detto (non che esso sia indicibile - indicibi
le significa solo im-predicibile; esso coincide, piuttosto, col
darsi dei discorsi, col fatto che gli uomini non cessano di par
larsi l'un l'altro). Ci che del linguaggio si riesce a dire solo
prefazione o postilla e i filosofi si distinguono secondo che
preferiscano la prima o la seconda, si attengano al momento
poetico del pensiero (la poesia sempre annuncio) o al gesto
di chi, in ultimo, depone la lira e contempla. In ogni caso,
ci che si contempla il non-detto, il congedo dalla parola
coincide con il suo annuncio.

Appendice
La musica suprema. Musica e politica

I.

La filosofia pu darsi oggi solo come riforma della mu


sica. Se chiamiamo musica l'esperienza della Musa, cio
dell'origine e dell'aver luogo della parola, allora in una certa
societ e in un certo tempo la musica esprime e governa la
relazione che gli uomini hanno con l'evento di parola. Que
sto evento, infatti - cio l' arcievento che costituisce l'uomo
come essere parlante - non pu essere detto all'interno del
linguaggio: pu soltanto essere evocato e rammemorato mu
saicamente o musicalmente. Le muse esprimevano in Grecia
questa articolazione originaria dell'evento di parola, che, av
venendo, si destina e compartisce in nove forme o modalit,
senza che sia possibile per il parlante risalire al di l di esse.
Questa impossibilit di accedere al luogo originario della pa
rola la musica. In essa viene all'espressione qualcosa che
nel linguaggio non pu essere detto. Com' immediatamen
te evidente quando si fa o si ascolta musica, il canto celebra
o lamenta innanzitutto una impossibilit di dire, l'impossi
bilit - dolorosa o gioiosa, innica o elegiaca - di accedere
all'evento di parola che costituisce gli uomini come umani.

APPENDICE

L'inno alle Muse, che fa da proemio alla Teogonia di Esiodo, mo


stra che i poeti sono per tempo consapevoli del problema che pone l'i
nizio del canto in un contesto musaico. La doppia struttura del proemio,
che ripete due volte l'esordio (v. 1 : Dalle Muse eliconie cominciamo>>;
v. 36: <<Dalle Muse cominciamo>>) non dovuta soltanto, come ha acu
tamente suggerito Pau! Friedlander ( 1 9 1 4, pp. 1 4- 1 6), alla necessit di
introdurre l'inedito episodio dell'incontro del poeta con le Muse in una
struttura innica tradizionale in cui esso non era assolutamente previsto.
Vi , per questa inaspettata ripetizione, un'altra e pi signific;ativa ragio
ne, che concerne la stessa presa di parola da parte del poeta, o, pi preci
samente, la posizione dell'istanza enunciativa in un ambito in cui non
chiaro se essa spetti al poeta o alle Muse. Decisivi sono i vv. 2 2 - 2 5 , in cui,
come non hanno mancato di notare gli studiosi, il discorso trapassa bru
scamente da una narrazione alla terza persona in un'istanza enunciativa
contenente lo shifter <<io>> (una prima volta all'accusativo - f..1E - e poi, nei
versi successivi, al dativo - JlOt):
N

Esse (le Muse) una volta (no-n:) insegnarono a Esiodo un bel canto
mentre pasceva gli armenti sotto il divino Elicona:
questo discorso innanzitutto (7tpcimcrta) a me (f..IE) rivolsero le dee [ . . . ]
Si tratta, secondo ogni evidenza, di inserire l'io del poeta come sog
getto dell'enunciazione in un contesto in cui l'inizio del canto appar
tiene incontestabilmente alle Muse ed , tuttavia, proferito dal poeta:
Mouoarov apxffiJ.u:ea, <<Cominciamo dalle Muse>> - o, meglio, se si tiene
conto della forma media e non attiva del verbo: Dalle Muse l'inizio,
dalle Muse iniziamo e siamo iniziati>>; le Muse, infatti, dicono con voce
concorde <<ci che stato, ci che sar e ci che fu>> e il canto <<scorre
soave e instancabile dalle loro bocche>> (vv. 3 8 -40).
Il contrasto fra l'origine musaica della parola e l'istanza soggettiva
dell'enunciazione tanto pi forte, in quanto tutto il resto dell'inno (e
dell'intero poema, salvo la ripresa enunciativa da parte del poeta nei
vv. 963-96 5 : <<A voi ora salve . . . >>) riferisce in forma narrativa la nascita
delle Muse da Mnemosine, che si unisce per nove notti a Zeus, elenca
i loro nomi - che, a questo stadio, non corrispondevano ancora a un
genere letterario determinato (<< Clio e Euterpe e Talia e Melpomene
l Tersicore e Erato e Polimnia e Urania l e Calliope, la pi illustre di

LA MUSICA SUPREMA. MUSICA E POLITICA

137

tutte>>) - e descrive i l loro rapporto con gli aedi (vv. 94-97: <<Dalle Muse
infatti e da Apollo lungisaettante l sono gli aedi e i citaristi . . . l beato
colui che le Muse amano l dolce dalla sua bocca scorre il canto>> .
L'origine della parola musaicamente - cio musicalmente - de
terminata e il soggetto parlante - il poeta - deve ogni volta fare i conti
con la problematicit del proprio inizio. Anche se la Musa ha perduto
il significato cultuale che aveva nel mondo antico, il rango della poesia
dipende ancora oggi dal modo in cui il poeta riesce a dare forma mu
sicale alla difficolt della sua presa di parola - da come, cio, perviene
a far propria una parola che non gli appartiene e alla quale si limita a
prestare la voce.

2.

La Musa canta, d all'uomo il canto perch essa simboleg


gia l'impossibilit per l'essere parlante di appropriarsi inte
gralmente del linguaggio di cui ha fatto la sua dimora vitale.
Questa estraneit marca la distanza che separa il canto uma
no da quello degli altri esseri viventi. Vi musica, l'uomo
non si limita a parlare e sente, invece, il bisogno di cantare
perch il linguaggio non la sua voce, perch egli dimora nel
linguaggio senza poterne fare la sua voce. Cantando, l'uomo
celebra e commemora la voce che non ha pi e che, come in
segna il mito delle cicale nel Fedro, potrebbe ritrovare solo a
patto di cessare di essere uomo e diventare animale ( Quan
do nacquero le Muse e apparve il canto, alcuni degli uomi
ni di allora furono presi da un tale piacere, che, cantando,
non si curavano pi di mangiare e di bere e morivano senza
accorgersene. Da quegli uomini ebbe origine la stirpe delle
cicale [ . . . ], 2 5 9 b-e).
Per questo alla musica corrispondono necessariamente
prima ancora che delle parole, delle tonalit emotive: equi-

APPENDICE

librate, coraggiose e ferme nel modo dorico, lamentose e


languide nello ionio e nel lido (Resp. 3 9 8 e 3 99 a). Ed
singolare che ancora nel capolavoro della filosofia del '900,
Essere e tempo, l'apertura originaria dell'uomo al mondo
non avvenga attraverso la conoscenza razionale e il lin
guaggio, ma innanzitutto in una Stimmung, in una tonali
t emotiva che il termine stesso rimanda alla sfera acustica
(Stimme la voce). La Musa - la musica - segna la scissione
fra l'uomo e il suo linguaggio, fra la voce e il logos. L'aper
tura primaria al mondo non logica, musicale.
-

l't Di qui l'ostinazione con cui Platone e Aristotele, ma anche teorici


della musica come Damone e gli stessi legislatori affermano la necessit
di non separare musica e parola. <<Quanto nel canto linguaggio>> argo
menta Socrate nella Repubblica (398 d) non differisce in nulla dal lin
guaggio non cantato (!l'l oo!livou wyou) e deve conformarsi agli stessi
modelli>> e enuncia subito dopo con fermezza il teorema secondo cui
l'armonia e il ritmo devono seguire il discorso (KOOU9tV tep Oyq>)>>
(ibid. ). La stessa formulazione, quanto nel canto linguaggio>>, impli
ca, tuttavia, che vi sia in esso qualcosa di irriducibile alla parola, cos
come l'insistenza nel sancirne l'inseparabilit tradisce la consapevolez
za che la musica eminentemente separabile. Proprio perch la musi
ca segna l'estraneit del luogo originario della parola, perfettamente
comprensibile che essa possa tendere a esasperare la propria autonomia
rispetto al linguaggio; e tuttavia, per le stesse ragioni, altrettanto com
prensibile la preoccupazione che non si spezzi del tutto il nesso che
li teneva insieme.
Tra la fine del V secolo e i primi decenni del IV si assiste infatti
in Grecia a una vera e propria rivoluzione degli stili musicali, legata
ai nomi di Melanippide, Cinesia, Frinide e, soprattutto, Timoteo di
Mileto. La frattura fra sistema linguistico e sistema musicale diventa
progressivamente insanabile, finch nel III secolo la musica finisce col
predominare decisamente sulla parola. Ma gi nei drammi euripidei un
osservatore attento come Aristofane poteva accorgersi, facendone nelle

LA MUSICA SUPREMA. MUSICA E POLITICA

1 39

Rane la parodia, che il rapporto di subordinazione della melodia al suo


supporto metrico nel verso era ormai sovvertito. Nella parodia aristo
fanesca, la moltiplicazione delle note rispetto alle sillabe icasticamen
te espressa attraverso la trasformazione del verbo d.iooro (girare) in
E.EtEttiooro. In ogni caso, malgrado la tenace resistenza dei filosofi,
nelle sue opere sulla musica Aristosseno, che pure era uno scolaro di
Aristotele e criticava i cambiamenti introdotti dalla nuova musica, non
pone pi a fondamento del canto l'unit fonematica del piede metrico,
ma una unit puramente musicale, che chiama tempo primo (tp6vo
7tpciho) ed indipendente dalla sillaba.
Se, sul piano della storia della musica, le critiche dei filosofi (che
pure dovevano ripetersi molti secoli dopo nella riscoperta della mono
dia classica da parte della Camerata fiorentina e di Vincenzo Galilei e
nella perentoria prescrizione di Carlo Borromeo: cantum ita tempera
ri, ut v erba intelligerentur>>) non potevano che apparire eccessivamente
conservatrici, c'interessano qui piuttosto le ragioni profonde della loro
opposizione, di cui essi stessi non erano sempre consapevoli. Se la mu
sica, come oggi sembra avvenire, rompe la sua necessaria relazione con
la parola, ci significa, da una parte, che essa smarrisce la coscienza
della sua natura musaica (cio del suo situarsi nel luogo originario della
parola) e, dall'altra, che l'uomo parlante dimentica che il suo essere
gi sempre musicalmente disposto ha costitutivamente a che fare con
l'impossibilit di accedere al luogo musaico della parola. Homo canens
e homo loquens dividono le loro vie e perdono la memoria della rela
zione che li vincolava alla M usa.

3
Se l'accesso alla parola , in questo senso, musaicamente
determinato, si comprende che per i Greci il nesso fra musica
e politica fosse cos evidente che Platone e Aristotele trattano
delle questioni musicali solo nelle opere che consacrano alla
politica. La relazione di quella che essi chiamavano JlO'UcrtKT)
(che comprendeva la poesia, la musica in senso proprio e la

APPENDICE

danza) con la politica era cos stretta che, nella Repubblica,


Platone pu sottoscrivere l'aforisma di Damone secondo cui
non si possono cambiare i modi musicali senza cambiare le
leggi fondamentali della citt (424 c). Gli uomini si unisco
no e organizzano le costituzioni delle loro citt attraverso il
linguaggio, ma l'esperienza del linguaggio - in quanto non
possibile afferrarne e padroneggiarne l'origine - a sua volta
gi sempre musicalmente condizionata. L'infondatezza del
/...6-y o fonda il primato della musica e fa s che ogni discorso
sia gi sempre musaicamente accordato. Per questo, ancor
prima che attraverso tradizioni e precetti che si trasmettono
nel medio della lingua, gli uomini in ogni tempo vengono
pi o meno consapevolmente educati e disposti politica
mente attraverso la musica. I Greci sapevano perfettamente
ci che noi fingiamo di ignorare, e, cio, che possibile ma
nipolare e controllare una societ non soltanto attraverso
il linguaggio, ma innanzitutto attraverso la musica. Come
altrettanto e pi efficace del comando dell'ufficiale , per il
soldato, lo squillo della tromba o il rullo del tamburo, cos
in ogni ambito e prima di ogni discorso, i sentimenti e gli
stati d'animo che precedono l'azione e il pensiero sono de
terminati e orientati musicalmente. In questo senso, lo stato
della musica (includendo in questo termine tutta la sfera che
imprecisamente definiamo col termine arte) definisce la
condizione politica di una determinata societ meglio e pri
ma di qualsiasi altro indice e, se si vuole mutare veramente
l'ordinamento di una citt, innanzi tutto necessario rifor
marne la musica. La cattiva musica che invade oggi in ogni
istante e in ogni luogo le nostre citt inseparabile dalla cat
tiva politica che le governa.

LA MUSICA SUPREMA. MUSICA E POLITICA

significativo che la Politica di Aristotele si concluda con un


vero e proprio trattato sulla musica - o, piuttosto, sull'importanza
della musica per l'educazione politica dei cittadini. Aristotele comin
cia infatti col dichiarare che si occuper della musica non come di
vertimento (7tatta), ma come parte essenziale dell'educazione (7tat8da), in quanto, cio, essa ha per fine la virt: come la ginnastica
produce una certa qualit del corpo, cos la musica produce un certo
ethos>> ( 1 3 3 9 a, 24). Il motivo centrale della concezione aristotelica
della musica l'influenza che essa esercita sull'anima: << evidente
che noi siamo affetti e trasformati in un certo modo da diversi generi
di musica, come, in particolare, dalle melodie di Olimpo. opinio
ne comune che queste rendano l'anima entusiasta (1tou::'i t \Jf'UX
v9ou<nacrttKa) e l'entusiasmo una passione (1ta8o) dell'ethos
rispetto all'anima. Tutti, ascoltando le imitazioni (musicali), grazie
ai ritmi e alle melodia entrano in uno stato d'animo empatico (yi
yvovtat cru,.ma9e'i), anche in mancanza delle parole>> ( 1 3 40 a, 5 - 1 r ) .
Ci avviene, spiega Aristotele, perch i ritmi e le melodie contengono
delle immagini (6Jlotroj.Lata) e delle imitazioni (Jlq.duwta) dell'ira e
della mitezza, del coraggio, della prudenza e delle altre qualit etiche.
Per questo, quando li ascoltiamo l'anima affetta in forme diverse
in corrispondenza di ciascun modo musicale: in modo <<lamentoso e
costretto>> nel misolidio, in uno stato d'animo <<equilibrato (Jlcrro)
e pi fermo>> nel dorico, << entusiastico>> nel frigio ( 1 3 40 b r - 5 ). Egli
accetta cos la classificazione delle melodie in etiche, pratiche e entu
siastiche e raccomanda per l'educazione dei giovani il modo dorico,
in quanto <<pi fermo>> (crta<njlrott:: p ov) e di carattere virile (vopdov,
1 3 4 2 b 1 4). Come aveva gi fatto Platone, Aristotele si riferisce qui a
un'antica tradizione, che identificava il significato politico della mu
sica nella sua capacit di mettere ordine nell'anima (o, al contrario, di
eccitare in essa confusione). Le fonti ci informano che nel VII secolo
a.C., quando Sparta si trovava in una situazione di discordia civile,
l'oracolo sugger di chiamare il <<cantore di Lesbo>> Terpandro, che,
col suo canto, restitu ordine alla citt. Lo stesso si diceva di Stesicoro
rispetto alle lotte intestine nella citt di Locri.
N

APPENDICE

4
Con Platone, la filosofia si afferma come critica e supera
mento dell'ordinamento musicale della polis ateniese. Que
sto, impersonato dal rapsodo Jone, che pende invasato dalla
Musa come un anello di metallo da una calamita, implica
l'impossibilit di dar ragione dei propri saperi e delle proprie
azioni, di pensarli. Questa pietra (la calamita) non solo
attrae gli anelli di ferro, ma infonde loro anche la capacit di
fare quello che fa la pietra, cio attrarre altri anelli, in modo
che si produrr una grande catena di anelli appesi l'uno
all'altro, per ciascuno dei quali questa capacit dipende dalla
pietra. Nel medesimo modo anche la Musa riempie alcuni
uomini di ispirazione divina e attraverso questi si salda una
catena di altri uomini parimenti entusiasti [ . . . ] lo spettatore
non che l'ultimo degli anelli [ . . . ] l'anello di mezzo sei tu,
il rapsodo, mentre il primo il poeta stesso [ . . . ] e un poeta
si aggancia a una certa M usa, un altro a un'altra e in tal caso
diciamo che posseduto [ . . . ] infatti tu non dici ci che dici
di Omero per arte e scienza, ma per una sorte divina (Sdt
f.!Otpt) [ . . . ] (Plat. fon. 5 3 3 d - 5 34 c).
Di contro alla nateia musaica, la rivendicazione della
filosofia come la vera Musa (Resp. 5 48 b 8) e la musica
suprema (Phaid. 61 a) significa il tentativo di risalire al di
l dell'ispirazione verso quell'evento di parola, la cui soglia
custodita e sbarrata dalla Musa. Mentre i poeti, i rapsodi
e, pi in generale, ogni uomo virtuoso agisce per una Seta
J.l.Otpa, un destino divino di cui non in grado di dar conto,
si tratta di fondare i discorsi e le azioni in un luogo pi ori
ginario dell'ispirazione musaica e della sua 11avia.
Per questo, nella Repubblica (499 d), Platone pu definire
la filosofia come a''tl i] Moucra, la Musa stessa (o l'idea della

LA MUSICA SUPREMA. MUSICA E PO LITICA

1 43

Musa - amo; seguito dall'articolo il termine tecnico per


esprimere l'idea). In questione qui il luogo proprio della
filosofia: esso coincide con quello della Musa, cio con l'ori
gine della parola - , in questo senso, necessariamente proe
miale. Situandosi in questo modo nell'evento originario del
linguaggio, il filosofo riconduce l'uomo nel luogo del suo di
venire umano, a partire dal quale soltanto egli pu ricordarsi
del tempo in cui non era ancora uomo (Men. 86 a: xpovo;
()-r' o'K v &.vSp(t)1to;). La filosofia scavalca il principio musai
co in direzione della memoria, di Mnemosine come madre
delle Muse e in questo modo libera l'uomo dalla Seta J.l.Otpa
e rende possibile il pensiero. Il pensiero , infatti, la dimen
sione che si apre quando, risalendo al di l dell'ispirazione
musaica che non gli permette di conoscere ci che dice, l'uo
mo diventa in qualche modo auctor, cio garante e testimone
delle proprie parole e delle proprie azioni.

Decisivo , per, che, nel Fedro, il compito filosofico non sia affi
dato semplicemente a un sapere, ma a una forma speciale di mania, affine
e insieme diversa dalle altre. Questa quarta specie di mania, infatti - la
mania erotica - non omogenea alle altre tre (la profetica, la telestica e la
poetica), ma se ne distingue essenzialmente per due caratteri. Essa , in
nanzitutto, congiunta all'automovimento dell'anima (amoKtVT]tov, 24 5
c), al suo non essere mossa da altro e al suo essere, per questo, immorta
le; , inoltre, un'operazione della memoria, che ricorda ci che l'anima
ha visto nel suo volo divino (questa una reminiscenza (vaJlVT]m) di
quanto la nostra anima ha visto una volta . , 249 c) ed questa anam
nesi che ne definisce la natura (questo il punto di arrivo di tutto
il discorso sulla quarta mania, quando qualcuno vedendo qualcosa di
bello e ricordandosi del bello vero [ . . ] , 249 d). Questi due caratteri
la oppongono puntualmente alle altre forme di mania, in cui il princi
pio del movimento esteriore (nel caso della follia poetica, la Musa) e
l'ispirazione non in grado di risalire con la memoria verso ci che la
N

. .

1 44

APPENDICE

determina e fa parlare. A ispirare, qui, non sono pi le Muse, ma la loro


madre, Mnemosine. Platone inverte, cio, l'ispirazione in memoria, e
questa inversione della Scia !lOpa - del destino - in memoria definisce
il suo gesto filosofico.
In quanto mania che muove e ispira se stessa, la mania filosofica
(perch di questo si tratta: Solo la mente del filosofo mette le ali, 249
c) , per cos dire, una mania della mania, una mania che ha per ogget
to la stessa mania o ispirazione e attinge, pertanto, il luogo stesso del
principio musaico. Quando, alla fine del Menone (99 e - 1 00 b), Socrate
afferma che la virt politica non n per natura (<j>ucrn) n trasmissibile
per insegnamento (8t8aK't6v), ma si produce per una 8Eta !lOtpa senza
consapevolezza e che per questo i politici non sono in grado di comu
nicarla agli altri cittadini, egli presenta implicitamente la filosofia come
qualcosa che, senza essere n per sorte divina n per scienza, in grado
di produrre negli animi la virt politica. Ma ci pu solo significare che
essa si situa nel luogo della Musa e si sostituisce ad essa.
Walter Otto ha, d'altra parte, giustamente osservato che la voce
che precede la parola umana appartiene all'essere stesso delle cose,
come una rivelazione divina che lo lascia venire alla luce nella sua es
senza e nella sua gloria>> (Otto 1 9 5 4, p. 7 1 ) . La parola che la Musa dona
al poeta proviene dalle cose stesse e la Musa non , in questo senso,
che il dischiudersi e il comunicarsi dell'essere. Per questo le raffigura
zioni pi antiche della Musa, come la stupenda Melpomene al Museo
nazionale di palazzo Massimo a Roma, la presentano semplicemente
come una ragazza nella sua pienezza ninfale. Risalendo fino al princi
pio musaico della parola, il filosofo deve, cio, misurarsi non soltanto
con qualcosa di linguistico, ma anche e innanzi tutto con l'essere stesso
che la parola rivela.

LA MUSICA SUPREMA. MUSICA E PO LITICA

145

ca nel nostro tempo deve esordire dalla costatazione che


proprio questa esperienza dei limiti musaici che in essa
venuta a mancare. Il linguaggio si d oggi come chiacchiera
che non urta mai il proprio limite e sembra aver smarri
to ogni consapevolezza del suo intimo nesso con ci che
non si pu dire, cio col tempo in cui l'uomo non era an
cora parlante. A un linguaggio senza margini n frontiere
corrisponde una musica non pi musaicamente accordata
e a una musica che ha voltato le spalle alla propria origine
una politica senza consistenza n luogo. Dove tutto sembra
indifferentemente potersi dire, il canto viene meno e, con
questo, le tonalit emotive che musaicamente lo articolano.
La nostra societ - dove la musica sembra penetrare fre
neticamente in ogni luogo - , in realt, la prima comunit
umana non musaicamente (o amusaicamente) accordata.
La sensazione di generale depressione e apatia non fa che
registrare la perdita del nesso musaico con il linguaggio,
travestendo come una sindrome medica l'eclisse della poli
tica che ne il risultato. Ci significa che il nesso musaico,
che ha smarrito la sua relazione con i limiti del linguaggio,
produce non pi una Se'la tpa, ma una sorta di missio
ne o ispirazione bianca, che non si articola pi secondo la
pluralit dei contenuti musaici, ma gira per cos dire a vuo
to. Immemori della loro originaria solidariet, linguaggio
e musica dividono i loro destini e restano tuttavia uniti in
una medesima vacuit.

5
Se la musica costitutivamente legata all'esperienza dei
limiti del linguaggio e se, viceversa, l'esperienza dei limiti
del linguaggio - e, con questa, la politica - musicalmente
condizionata, allora un'analisi della situazione della musi-

in questo senso che la filosofia pu darsi oggi soltanto come

riforma della musica. Poich l'eclisse della politica fa tutt'uno con la


perdita dell'esperienza del musaico, il compito politico oggi costitu
tivamente un compito poetico, rispetto al quale necessario che artisti
e filosofi uniscano le loro forze. Gli uomini politici attuali non sono

APPENDICE

in grado di pensare perch tanto il loro linguaggio che la loro musica


girano amusaicamente a vuoto. Se chiamiamo pensiero lo spazio che
si apre ogni volta che accediamo all'esperienza del principio musaico
della parola, allora con l'incapacit di pensare del nostro tempo che
dobbiamo misurarci. E se, secondo il suggerimento di Hannah Arendt,
il pensiero coincide con la capacit di interrompere il flusso insensato
delle frasi e dei suoni, arrestare questo flusso per restituirlo al suo luo
go musaico oggi per eccellenza il compito filosofico.

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Abelardo, Pietro, 96-97


Agostino di Ippona, 6 5 -66, I 20
Alessandro di Afrodisia, 6o, I I I - I I 2
Amalrico di Bne, 5 4, I I 7- I I 8
Ammonio di Ermia, 3 I , 3 5 , 4 I -42, 6o,

Cartesio, I 0 5 , I I 6
Cherniss, Harold, 74
Cinesia, I 3 8
Colli, Giorgio, 4 3
Courtenay, William ].,

97

62, 64

Andronico di Rodi, 6 1
Antistene, 8 4 - 8 5
Arendt, Hannah, I 46
Aristofane, I 3 8
Aristotele, I 6- I 8, 20, 2 2 ,

28-3 3 , 3 5 . 3 8,

5 I , 5 4 , 6o-62, 6 8 , 70 - 79, 8 2 , 90-9 3 ,


9 8 - 1 00, I 02, I 04- I 06, I 09 , I I 9- I 20,
I 3 6, I 3 9 , I 4 I

Arnim, Hans von,

6 5 , 69, 8 9

Badiou, Alain, I I 3
Bekker, August Immanuel, 74
Benjamin, Walter, 5 0- p , 5 9, 84,
Benveniste, mile, I 9, 2 3 , 26,

Dal Pra, Mario, I 2 0


Damone, I 3 8 , q o
Davide di Dinant, 5 4, I I 8
Derrida, J acques, 3 5
Descartes, Ren, v. Cartesio
Diano, Carlo, I O I
Diogene Laerzio (Diogenes Laertius), 69
Duhem, Pierre Maurice Marie, I o6, I I O
Duns Scoto, 2 3
Eckhart von Hochheim (Meister Eckhart),
24

98
2 8 - 29,

3 9 , 8 o- 8 I , 8 8 , 90, 9 8

Boezio, Anicio Manlio Severino,


Bonaventura da Bagnoregio, 97
Bopp, Franz, 2 5
Borromeo, Carlo, I 3 9
Brhier, mile, 6 5 , 69
Brentano, Franz, I 2 I
Buber, Martin, 5 9

9 3 -94

Eraclito, 9 I
Esiodo, I 3 6
Euclide, I o 8 - I 09
Eustazio, 6o
Federico II, I 4
Filopono, Giovanni, 6o-6 I
Frege, Gottlob, 64, 7 8 , 8 3
Friedtinder, Pau!, I 3 6
Frinide, I 3 8

q6

I N D I C E DEI N O M I

Paolo di Tarso, 5 2
Paqu, Ruprecht, 94
Pitagora, 8 I
Platone, I 7, I 9 -2o, 2 2 ,

Galilei, Vincenzo, I 3 9
Giamblico, 6 I
Gregorio da Rimini, I I 9- I 2 I
Gi.intert, Hermann, 8 4

28, 38, 4 I , 5 3 -

5 4, 66-69, 7 I - 74, 77- 8 2 , 8 4- 8 5 , 8

Hegel, Georg Wilhelm Friedrich,

25-

8 9 - 9 3 , 9 5 , 96, 9 8 , I OO- I 0 3 , I 0 5 I 06, 1 0 8 - I o9, I I I - I I 4, I I 8 - I 20,

26, 40

Heidegger, Martin, 70
Herz, Marcus, 8 8
Hoffmann, Ernst, 9 I
Jaeger, Werner Wilhelm,
Jakobson, Roman, 40
Jarry, Alfred, I 2 I

I 2 2 , I 2 5 , I 2 7- I 3 0, I 3 8 - I 42, I 44

Plauto, 8 I
Plotino, 5 4, 8 3 ,
Porfirio, 6o, 9 3
Prisciano, 9 I

74

I 02 - I 04

Riemann, Georg Friedrich Bernhard,


108

Kant, lmmanuel, 8 8
Koyr, Alexandre, I I 7

Rij k, Lambertus Marie de,


Ross, William David, 74

Leibniz, Gottfried Wilhelm von,

49-

5 0, 5 2

Mallarm, Stphane, I 5 , 89, 9 8


Meinong, Alexius, I 2 I - I 2 2
Meister Eckhart, v. Eckhart von
Hochheim
Melandri, Enzo, 9 I
Melanippide, I 3 8
Menzerath, Pau!, 3 7
Milner, Jean-Claude, 4 I , 7 8 , 8 3
Momigliano, Arnaldo, 9 7
More, Henry, I I 5 - I I 7
Mugler, Charles, I o 8
Myskin, Lev Nikolaevic, principe, 5 I
Newton, lsaac,

I I7

Ockham, Guglielmo di,


Olimpo, I 4 I
Omero, I 42
Otto, Walter, I 44

94-96

97

Saussure, Ferdinand de, I 9, 2 8 , 3 7,


Schubert, Andreas, 64, 6 8
Sesto Empirico, 6 3 -64, 66-69
Simplicio, 93, 9 8 -99, I 09- I 1 0, I I 2
Socrate, 3 8 , 7 5 , 8 5 , I I 9, I 3 8 , I 44
Spinoza, Baruch, 5 I , 5 3
Stesicoro, 1 4 I
Terpandro, I 4 I
Timoteo d i Mileto, I 3 8
Tommaso d'Aquino, 5 0, 1 1 8
Trendelenburg, Friedrich Adolf,
Usener, Hermann,

4I

74

86-87

Varrone, Marco Terenzio, 2 8 ,


Virgilio Marone, Publio, I I 6

65

Wittgenstein, Ludwig, 2 3 , 29,

44, 8 3

Zenone d i Cizio,

II

Finito di stampare nel febbraio 2o i 6


presso Industria Grafica Bieffe, Recanati (Mc)
per conto delle edizioni Quodlibet

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