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ANDREA BENINO, ONTOLOGIA POLITICA E SOGGETTIVAZIONE.

SU ALCUNE APORIE
DELLO SPINOZISMO

04/04/2006

La nozione di soggetto: Althusser e Spinoza

L’opera di Spinoza costituisce un punto di partenza irrinunciabile per comprendere


come nella filosofia contemporanea sia stata trattata una delle tematiche filosofiche
fondamentali, quella relativa allo statuto del soggetto. È noto che a cavallo tra gli anni
Sessanta e Settanta, a cavallo cioè delle correnti di pensiero comunemente chiamate
strutturalismo e poststrutturalimo, alcuni autori francesi abbiano decretato “la morte del
soggetto”, la sua eclissi.
Lungi dal rappresentare un lavoro di riepilogo storico di posizioni ormai
universalmente note e largamente condivise, questo lavoro persegue il fine di utilizzare
alcune categorie derivate dall’opera di Louis Althusser per leggere Spinoza. Questo rende
possibile evidenziare un’aporia fondamentale all’interno del pensiero del filosofo olandese,
aporia che si riflette dall’ontologia nella politica e che dunque invita a confrontarsi con il
pensiero di alcuni tra i più influenti autori contemporanei che riutilizzano concetti e
schemi dello spinozismo declinandoli secondo categorie ontologico-politiche.
L’importanza di Althusser per la filosofia francese è incalcolabile: oltre a rinnovare
profondamente la lettura di Marx, il suo grande merito è quello di aver posto al centro
della propria analisi il pensiero di Spinoza. Sin dalle opere degli anni Sessanta, le celebri
Pour Marx[1] e Lire le Capital[2], il riferimento a Spinoza è costante e non solo estrinseco.
La filosofia spinoziana è infatti letta come antecedente diretto di quella marxista e alcuni
concetti caratteristici del pensiero del filosofo olandese vengono utilizzati da Althusser per
sottolineare la «rottura epistemologica» che caratterizza il passaggio dal giovane Marx,
ancora imbevuto di umanesimo, al Marx maturo che elabora una teoria scientifica della
società capitalistica. Al centro di questa teoria sta, secondo Althusser, l’idea di causa
immanente, cioè l’idea secondo la quale la struttura che produce degli effetti non ha
un’esistenza separata rispetto a ciò su cui agisce, ma non esiste che nei suoi stessi effetti.
L’idea di causa immanente era utilizzata da Spinoza per mostrare il modo di produrre
proprio della sostanza che, sussistente di per sé (causa sui), non può tuttavia essere
conosciuta che attraverso i modi che ne esprimono l’infinita potenza. La società
capitalistica funziona, per Althusser, nello stesso modo: «la struttura dei rapporti di
produzione determina dei luoghi e delle funzioni che sono occupati e assunti dagli agenti
di produzione, i quali sono solo gli occupanti di questi luoghi, nella misura in cui sono i
“portatori” (Träger) di queste funzioni. I veri “soggetti” (nel senso di soggetti costituenti
del processo) non sono dunque questi occupanti e neppure questi funzionari, non sono
dunque, contrariamente a tutte le apparenze, […] gli “uomini reali”, bensì la definizione e
la distribuzione di questi posti e di queste funzioni. Quindi i veri “soggetti”, che
definiscono e distribuiscono sono i rapporti di produzione (e i rapporti sociali politici e
ideologici)»[3].
La struttura determinante la società capitalistica (cioè i rapporti di produzione
dominanti in ultima istanza) esiste quindi soltanto negli effetti che produce, effetti che
hanno a che fare innanzitutto con i rapporti di produzione (rapporti di sfruttamento) e con
i rapporti politici e ideologici. All’interno di questa struttura teorica, Althusser rinnova
completamente la lettura di alcuni concetti centrali del marxismo: oltre a quelli di struttura
e sovrastruttura, quelli di ideologia, di scienza, di soggetto. Non è mio interesse qui quello
di descrivere la teoria di Althusser in tutti i suoi sviluppi; ciò che vorrei fare è utilizzare
alcuni suoi concetti al fine di pensare uno dei limiti della filosofia di Spinoza. Intendo
dunque soffermare la mia attenzione sul concetto althusseriano di ideologia e su quelli, ad
esso correlati, di processo e di soggetto[4]. I testi fondamentali per affrontare simili
problematiche sono Sur le rapport entre Marx et Hegel, pubblicato nel 1972[5], e il celebre
Idéologie et appareils idéologiques d’État, pubblicato nel 1976[6]. Qui Althusser mostra
come non si dia un concetto di soggetto, essendo quest’ultimo piuttosto una «nozione
ideologica».
Per comprendere come Althusser giunga a questa tesi è necessario aprire una
parentesi sulla sua epistemologia: una volta delucidato il percorso compiuto dal filosofo
francese sarà possibile interrogare la filosofia di Spinoza.
Il compito che Althusser si propone consiste nel desoggettivare la conoscenza vera o
scientifica al fine di cancellare dal pensiero marxista qualsiasi traccia di umanesimo, cioè
qualunque residuo ideologico. Confondere la teoria althusseriana con lo strutturalismo
sulla base del suo radicale antiumanesimo è un errore: il fondamento di una simile
concezione è, in Althusser, senz’altro spinoziano. Nella filosofia di Spinoza infatti Althusser
trova espressa la necessità di non pensare il soggetto come fonte del sapere e quindi la
necessità di pensare la conoscenza secondo i procedimenti interni di produzione della
conoscenza stessa, senza appello ad alcun soggetto conoscente che preesiste rispetto al
processo conoscitivo.
In Sur le rapport entre Marx et Hegel Althusser sostiene che nell’opera di Marx si
dà una scoperta scientifica dei processi storici nel loro funzionamento reale, scoperta che
apre la possibilità di una rivoluzione in filosofia che consiste in ciò che Marx stesso enuncia
nella XI tesi su Feuerbach: dalla filosofia come contemplazione e interpretazione alla
filosofia come prassi impegnata nella trasformazione del mondo. Ora, è tuttavia
necessario, secondo Althusser, accordare a Hegel il merito di aver messo in luce per primo
l’idea della storia come processo, un processo il cui soggetto non è l’uomo, ma, l’Idea, cioè,
secondo la lettura di Althusser, il processo stesso nel suo movimento teleologico: in Hegel
il solo soggetto del processo di alienazione «è il processo stesso nella sua teleologia»[7].
Rispetto alla declinazione hegeliana di un simile processo Marx abbandona ogni
teleologia[8], dunque ciò che eredita è l’idea di un processo senza soggetto. «Ma parlare di
processo senza soggetto implica che la nozione di soggetto è una nozione ideologica»[9].
Dal punto di vista conoscitivo il limite della filosofia di Hegel risiede nel suo empirismo:
nella totalità hegeliana infatti la conoscenza è un prodotto del processo storico, la
conoscenza è cioè storicizzata dal momento che all’interno di questa totalità si dà una
compresenza costante di soggetto e di oggetto il cui rapporto è determinato secondo i vari
momenti storici. L’empirismo così come è pensato da Althusser implica l’esistenza di un
soggetto senziente e pensante di fronte al quale sta un oggetto, la realtà empirica o bruta. Il
processo conoscitivo implica allora una divisione dell’oggetto in un’essenza “vera” che può
essere conosciuta soltanto attraverso l’astrazione rispetto a tutto ciò che nell’oggetto si
presenta come superfluo, come mera esteriorità. Da qui discendono i dualismi tipici della
tradizione filosofica, corpo/mente, esterno/interno, apparenza/essenza, visibile/invisibile,
dualismi gerarchici che, secondo Althusser, sono effetti della struttura dell’ideologia. In
Hegel dunque, a fronte della scoperta della realtà processuale della storia, resta ancora
l’idea della teleologia e l’idea di una totalità che conduce all’empirismo conoscitivo, cioè
alla divisione soggetto-oggetto e ad una serie di dualismi interni a questi due poli della
conoscenza.
Merito di Marx è invece quello di aver depurato completamente il nucleo
propriamente scientifico della filosofia hegeliana dalle scorie ideologiche: dalla lettura di
Marx è quindi possibile trarre una conseguenza di importanza capitale, e cioè che
“processo” è un concetto del quale si ha analisi e conoscenza scientifica, mentre “soggetto”
non è che una nozione ideologica, non originaria e della quale non si può avere conoscenza
scientifica, della quale cioè, in ultima istanza, non si può avere neppure una teoria.
Per comprendere come Althusser pensi la nozione di soggetto è dunque necessario
interrogarsi sulla sua concezione dell’ideologia. Il concetto di ideologia non riceve una
trattazione univoca all’interno dell’opera di Althusser: prenderò in considerazione il
celebre Idéologie et appareils idéologiques d’État, senza occuparmi della definizione di
ideologia che l’autore aveva dato in opere precedenti (Pour Marx e Lire le Capital) e che
differisce sensibilmente da quella proposta in questo scritto[10]. In queste note
frammentarie, che rappresentano un abbozzo di discussione più articolata sul problema
dello Stato, gli Apparati ideologici di Stato (AIS) vengono introdotti per spiegare come
funziona la riproduzione dei rapporti di produzione in una società data. Alla fine dello
scritto l’autore precisa che quello proposto è un modello astratto che prescinde dalle
condizioni effettive di funzionamento degli AIS in una società data, modello di
funzionamento che dovrebbe comprendere il ruolo della lotta di classe all’interno degli
stessi Apparati. La teoria di Althusser è dunque strettamente formale: proprio questa
formalità mi permetterà di utilizzare alcuni concetti che emergono nella trattazione al fine
di leggere la filosofia di Spinoza.
Gli AIS si distinguono dall’apparato di Stato così come è pensato all’interno della
teoria marxista tradizionale, cioè come apparato repressivo (carceri, esercito, polizia,
tribunali ecc.), dal momento che non funzionano, come quello, grazie alla violenza e alla
forza, ma piuttosto con l’ideologia. «L’ideologia è una “rappresentazione” del rapporto
immaginario degli individui con le proprie condizioni di esistenza reali», cioè
«nell’ideologia si trova rappresentato non il sistema dei rapporti reali che governano
l’esistenza degli individui, ma il rapporto immaginario di questi individui coi rapporti reali
nei quali vivono»[11]. L’ideologia è dunque un rapporto che, è bene sottolinearlo, ha a che
fare con gli individui, non con i soggetti. Questa distinzione terminologica è cruciale dal
momento che mostra il funzionamento reale dell’ideologia, la cui prestazione
fondamentale è quella di costituire gli individui come soggetti: «ogni ideologia interpella
gli individui concreti in quanto soggetti concreti»[12]. Il meccanismo proprio
dell’ideologia è quello della chiamata: l’ideologia chiama cioè gli individui costituendoli
come soggetti, facendo sì che gli individui occupino il loro posto all’interno della struttura,
e «marcino da soli», cioè vivano docilmente la loro condizione di assoggettamento. Non c’è
tuttavia nessun umanesimo in una simile concezione: gli individui non preesistono al
soggetto prodotto dall’ideologia, sono semmai astratti da quest’ultimo dal momento che gli
“individui” sono sempre-già soggetti basta pensare, dice Althusser, alle pratiche e alle
attese che circondano la nascita di un bambino, il quale è già sempre nominato, è già
sempre inscritto all’interno di una particolare struttura, cioè è già sempre soggetto, ancora
prima di venire al mondo. Gli AIS assolvono propriamente la funzione di questa
interpellazione continuata[13] e riproducono così i rapporti di produzione dominanti
attraverso l’uso dell’ideologia dominante, che unifica in ultima istanza i vari AIS.
«L’individuo è interpellato come soggetto (libero) affinché si sottometta liberamente agli
ordini del Soggetto, affinché accetti quindi (liberamente) il suo assoggettamento […]. Non
vi sono soggetti che per effetto e allo scopo del loro assoggettamento. Questa è la ragione
per cui “marciano da soli”»[14]. Questa è la ragione per cui l’apparato repressivo interviene
soltanto in casi rari, quando cioè viene rifiutata la posizione di soggetto, cioè
l’assoggettamento alla struttura dominante.
È evidente come, all’interno di una simile teoria, il soggetto non svolga il ruolo
centrale che ha rivestito nell’intera filosofia moderna, configurandosi piuttosto come un
prodotto, una sorta di superfetazione della sovrastruttura sociale. Nonostante la
somiglianza terminologica con lo strutturalismo una simile concezione del soggetto e della
sua posizione e struttura è debitrice della filosofia spinoziana nella misura in cui proprio
Spinoza, contro Cartesio, pensa il soggetto come un costrutto, come il risultato[15] di un
processo.

All’origine della modernità: Spinoza contro Cartesio

L’obiettivo polemico principale della filosofia di Spinoza è l’ontologia di Cartesio e,


in particolare, la divisione della sostanza in cogitans e extensa[16], ma il razionalismo
cartesiano è lo strumento formale utilizzato da Spinoza per combattere l’ontologia
cartesiana. Tuttavia, per comprendere appieno la radicalità della critica spinoziana è
necessario sottolineare, con Heidegger, l’importanza dell’innovazione filosofica introdotta
da Cartesio. In Nietzsche[17] Heidegger mostra come con il cogito cartesiano si apra di
fatto la modernità filosofica, dominata dal ruolo centrale che in essa assume il concetto di
“soggetto”. Il soggetto nell’opera di Cartesio assume infatti il ruolo di subjectum cioè di
fondamento ultimo della certezza che l’uomo ora acquista mediante se stesso. Se infatti,
nell’epoca medievale, il fondamento ultimo di ogni certezza era costituito da Dio, con
Cartesio, il dubbio metodico e la fondazione della filosofia a partire dal «cogito ergo sum»,
fondamento di questa certezza diventa l’uomo, il soggetto pensante e senziente. Secondo
Heidegger è necessario tradurre il termine cogito con “rappresentare”. Da ciò deriva che in
ogni cogitare l’atto del rappresentare, e cioè il porre di fronte a colui che rappresenta ciò
che è rappresentato, diviene il solo strumento della certezza che l’uomo può acquisire. Il
soggetto pensante si configura come il fondamento di ogni certezza proprio nella misura in
cui questo porre di fronte implica che ciò che è rappresentato si rende disponibile per colui
che rappresenta. La traduzione di cogitare con rappresentare, oltre a manifestare in che
modo il soggetto diventi l’unica fonte della certezza, rende anche esplicito come, nell’atto
del rappresentare, sia implicita anche la posizione di un’autocoscienza: l’io che rappresenta
è infatti necessariamente anch’esso rappresentato nell’atto della rappresentazione, come
ciò di fronte a cui ogni rappresentato, per esser tale, deve venir posto. Con la filosofia di
Cartesio il soggetto acquista dunque un ruolo preminente, infatti, come afferma Heidegger,
«poiché verità significa ora assicuratezza (Gesichertheit) della fornitura, dunque certezza
(Gewißheit), e poiché essere significa rappresentatezza nel senso di questa certezza, per
questo l’uomo, in conformità con il suo ruolo nel rappresentare che pone così il
fondamento, diventa il soggetto per eccellenza»[18].
La metafisica di Cartesio aprendo la possibilità di una nuova considerazione del
soggetto come subjectum crea una frattura soggetto/oggetto all’interno della quale un polo
contribuisce a creare l’altro: l’oggetto esiste in quanto rappresentato o conosciuto e il
soggetto si fonda, come autocoscienza, solo ed esclusivamente attraverso l’atto del
rappresentare e del conoscere. Questa frattura apre la strada ad una nuova concezione del
soggetto, segnata dal razionalismo scientista, per cui il soggetto è inteso come lo spazio
formale in cui la rappresentazione può avere luogo. Cartesio frantuma quindi quell’unità
originaria, spirituale, che caratterizzava il pensiero magico, alchemico e filosofico del
Rinascimento e introduce la possibilità di considerare soggetto e oggetto, uomo e natura,
come due “mondi” separati. È bene insistere sul fatto che la filosofia di Cartesio prende
forma all’interno di un mondo completamente rinnovato: come suggerisce Althusser, ad
una rivoluzione scientifica si affianca una profonda innovazione filosofica, nel caso di
Cartesio è la nascente fisica moderna che permette di pensare due sostanze distinte e di
fondare così una filosofia che offre pieno appoggio al progetto moderno di intervento e
dominio sulla natura. Spinoza è un attento lettore di Cartesio, non può quindi pensare di
criticarlo sulla base di una visione monistica “ingenua” o comunque squalificata dallo
sviluppo della scienza moderna[19]. Se quindi non si può non leggere l’Etica come una
risposta polemica alla metafisica cartesiana, è tuttavia importante sottolineare con forza
come non vi sia nulla di nostalgico nella filosofia di Spinoza. Se, come ha giustamente
rilevato Negri ne L’anomalia selvaggia[20], l’Olanda del Seicento conserva ancora, unica
nazione in Europa, una fisionomia rinascimentale, se qui la dialettica di Riforma e
Controriforma non ha ancora imposto la sua legge ed è quindi lo spirito mercantile
borghese a caratterizzare la situazione politica e economica di questo Stato, tuttavia questo
spirito si esplica, nell’opera di Spinoza, solamente nell’anelito alla libertà della ricerca,
nella volontà profondamente democratica che caratterizza l’intera sua opera. Il monismo
spinoziano condivide infatti, da un punto di vista formale, la nuova concezione filosofica
del mondo che autori come Cartesio e Hobbes hanno contribuito a fondare, ma, al di là
dell’abito esteriore, se ne differenzia radicalmente. Sin dalle prime opere, sin dal Breve
trattato, Spinoza «si serve del cartesianesimo come di un mezzo non per sopprimere, ma
per purificare tutta la scolastica, il pensiero ebraico e quello rinascimentale, per trarne
qualcosa di profondamente nuovo»[21]: l’opera di purificazione a cui Spinoza attende
servendosi dei mezzi messi a sua disposizione dalla filosofia di Cartesio implica
l’abbandono delle teorie che vedevano nel pneuma universale la possibilità di spiegare la
continuità tra macrocosmo e microcosmo, l’abbandono delle teorie emanazionistiche di
derivazione neoplatonica e la fondazione di un’ontologia secondo la quale un’unica
sostanza, dotata di infiniti attributi, esaurisce in sé tutto ciò che esiste. Gli accidenti di
questa sostanza e i modi esistenti in atto esplicano l’infinita potenza della sostanza, Dio o
natura, senza che sia possibile pensare una qualche trascendenza o eminenza della
sostanza rispetto ai modi che la attuano. Se dunque il metodo spinoziano si inscrive nella
corrente filosofica cosiddetta “razionalista” aperta da Cartesio, tuttavia il contenuto
dell’opera di Spinoza se ne distanzia radicalmente. Agli albori della modernità filosofica,
caratterizzata, come si è visto, dal ruolo preminente assunto dal soggetto, Spinoza prende
una strada completamente diversa, quella del naturalismo, che ne fa il principale
esponente di un’alternativa radicale di pensiero rispetto a quello dominate. Karl Löwith, in
Spinoza. Deus sive natura[22], ha insistito con forza, sulla scia di Heidegger, su questo
aspetto dell’opera di Spinoza, vedendovi una filosofia più radicale di quella di Nietzsche nel
sapersi sottrarre al pensiero di derivazione ebraico/cristiano che postula la volontà, quindi
la soggettività, come nucleo centrale della metafisica[23].
Spinoza lega indissolubilmente pensiero e estensione, considerandoli due degli
infiniti attributi dell’unica sostanza e elimina così tutti i problemi che sorgono non appena
si tenta di spiegare come due sostanze diverse possano comunicare, cioè agire l’una
sull’altra[24]. La sua critica alla teoria della ghiandola pineale di Cartesio è in questo senso
emblematica[25]. Nell’Etica, dopo aver discusso la teoria del filosofo francese, Spinoza
conclude ironicamente dicendo che l’acutezza di una simile teoria dimostra effettivamente
la grandezza del suo autore che, però, benché avesse affermato di volersi attenere
unicamente a ciò che avesse percepito in modo chiaro e distinto, ha poi finito con
l’ammettere «un’Ipotesi più occulta di ogni occulta qualità»[26]. Spinoza si muove dunque
sulla via tracciata da Cartesio al fine di criticare la filosofia cartesiana stessa. Il monismo
ontologico permette a Spinoza di escludere dalla propria considerazione problemi che
richiedono soluzioni che in realtà non spiegano nulla e la fondazione materialistica della
filosofia gli permette di non prendere più in considerazione problemi come quelli dello
spirito o del soffio vitale. La proposizione 13 della II Parte dell’Etica, «L’oggetto dell’idea
costituente la mente umana è il Corpo, ossia un certo modo dell’Estensione, esistente in
atto, e nient’altro», opera il rovesciamento della metafisica in fisica: da questo punto in poi
- come osserva giustamente Negri - la filosofia diventa in tutto e per tutto materialistica,
nella misura in cui «il materialismo del modo è fondante, quanto almeno l’idea del modo è
costituente»[27]. Di qui discende il meccanicismo rigoroso di Spinoza: dall’emanazionismo
che ancora era presente, in qualche misura, nelle sue prime opere, si giunge all’idea di una
forza ontologica costitutiva che si dispiega aggregando parti semplicissime (corpora
simplicissima) che danno vita ad individualità caratterizzate da una certa combinazione di
moto e di quiete. Il meccanicismo di Spinoza esaurisce quindi il reale, un reale infinito e
piatto che non ha nulla a che vedere con la materia così come la intende Cartesio, un
sostrato sul quale può esercitarsi il controllo o l’azione dell’istanza (superiore) intellettuale.
Il monismo ontologico di Spinoza mette in scacco la possibilità di concepire il
soggetto conoscente come un’istanza separata rispetto all’oggetto conosciuto. Il corpo è
infatti il punto di partenza per la conoscenza: l’idea che costituisce la mente umana è
quella del corpo, le conoscenze che la mente umana può avere derivano quindi, in prima
istanza, dal corpo e dalle sue affezioni. Che cosa può un corpo diventa allora la questione
filosofica fondamentale, quella a partire dalla quale sarà possibile costruire il percorso
dell’etica così come è intesa da Spinoza. Il corpo è costituito da una infinità di parti che
entrano tra loro in determinati rapporti di velocità e di lentezza dando così forma ad un
individuo. L’intera Natura è da pensare in questi termini, un unico individuo costituito da
un’infinità di parti che entrano in relazione a vicenda all’infinito[28].
L’idea di affezione è dunque di primaria importanza all’interno della filosofia di
Spinoza: attraverso di essa è possibile spiegare sia la fisica sia la gnoseologia. L’esposizione
di Spinoza inizia dall’assoluto, cioè dalla sostanza considerata come causa sui, tuttavia è
possibile anche una conoscenza che parta dal basso, cioè dai modi esistenti in atto che
esprimono l’infinita potenza produttiva della sostanza. Tuttavia anche il modo può essere
considerato dal punto di vista della sua essenza che non ne implica l’esistenza[29].
L’esistenza in atto del modo implica quindi che parti estrinseche entrino in rapporto con il
modo secondo un ordine necessario. Ora, benché queste parti estrinseche appartengano
all’essenza del modo, tuttavia non la costituiscono. Questo significa che il modo esistente è
continuamente affetto da incontri con parti estrinseche che determinano la sua
composizione o la sua scomposizione e che questi incontri, dal punto di vista del modo,
assumono il valore di incontri casuali. Parlare di vita non significa altro, per Spinoza, che
parlare di rapporti di composizione e di scomposizione su un piano di immanenza che è
l’intera Natura. Il modo esistente in atto ha quindi un’essenza che è compito del terzo
genere di conoscenza cogliere nella sua singolarità, ma non può prescindere, nella sua
esistenza concreta, da una serie di incontri che implicano un continuo riassestamento del
rapporto tra le parti che costituiscono il modo stesso. Il processo conoscitivo è dunque
completamente immerso nella materialità dell’esistenza, anzi non può prescindere da essa:
l’etica, così come la intende Spinoza, non ha nulla a che fare con i giudizi di bontà o
malvagità, quanto piuttosto con una continua sperimentazione che ha come fine quello di
garantire un controllo degli incontri il più completo possibile cosicché questi siano cause di
affezioni positive o di gioia. Controllo degli incontri e quindi delle affezioni che questi
necessariamente causano non significa tuttavia loro abolizione. Non si dà in Spinoza l’idea
di un emendamento completo delle passioni proprio perché è sempre a partire dal corpo
che si produce la conoscenza: se il soggetto non esiste come polo separato o trascendente il
mondo corporeo, allora non è possibile purificare la conoscenza dal contatto con il suo
sostrato materiale[30].
Gli incontri possono essere causa di passioni tristi o di gioia: nel primo caso la
passione triste sta ad indicare che la parte estrinseca con la quale il modo entra in contatto
procede ad una scomposizione del suo rapporto e implica quindi una diminuzione della
sua capacità di agire; se invece ciò che è incontrato si compone con il rapporto
caratteristico del modo considerato, si darà un’affezione di gioia, cioè un incremento della
capacità di agire. L’uomo non nasce razionale, il bambino come Adamo, il primo uomo,
sono in balia degli incontri casuali, hanno cioè un controllo minimo sulle parti estrinseche
che entrano a determinare il rapporto che essi sono, ad ogni momento sono quindi
minacciati dall’incontro con qualcosa che potrebbe scomporre il loro rapporto, che
potrebbe diminuire la loro potenza di agire, fino a distruggerli completamente. Questa
condizione del corpo nel mondo, per il parallelismo, ha degli effetti anche per quel che
riguarda il pensiero, infatti le idee che il bambino ha sono necessariamente idee
inadeguate, gli derivano cioè dalla casualità degli incontri e non gli dicono nulla circa il
corpo con il quale è avvenuto l’incontro. Il percorso che l’uomo deve compiere per arrivare
alla razionalità è quindi quello di sforzarsi di favorire gli incontri che aumentino la sua
possibilità di agire, cioè, contemporaneamente, la sua capacità di comprendere in maniera
chiara e distinta. Si tratta di ciò che Deleuze definisce «visione etica del mondo»: «ci
sforziamo di unirci a ciò che concorda con la nostra natura, di comporre il nostro rapporto
con i rapporti che si combinano con il nostro», dal momento che «nessuno nasce libero,
così come nessuno nasce razionale. E nessuno può prendere il nostro posto nella lenta
esperienza di quel che concorda con la nostra natura, nel lento sforzo di scoprire le nostre
gioie»[31]. «Lenta esperienza» e «lento sforzo»: le espressioni utilizzate da Deleuze
sottolineano con forza come nel pensiero di Spinoza occupi un posto di primo piano la
questione relativa a quella che potremmo definire processualità: processualità della
conoscenza, della composizione virtuosa e gioiosa dei rapporti costitutivi il modo e
fondanti la mente.
All’interno di un simile quadro teorico è pensabile una critica del soggetto che,
denunciandone la morte o l’inconsistenza, sottolinei la centralità dei processi di
soggettivazione. Si tratta di una svolta fondamentale all’interno del discorso filosofico
occidentale, le cui conseguenze si fanno sentire sul piano gnoseologico, etico, politico. Non
bisogna tuttavia forzare il testo spinoziano oltre i propri limiti. Tanto la teoria della
conoscenza del terzo genere quanto il pensiero politico del filosofo olandese mostrano
infatti dei limiti che costituiscono dei veri e propri margini, sui quali si deve impegnare la
ricerca filosofica contemporanea che da Spinoza prende le mosse e che non intende
rinunciare ad alcuni assunti fondamentali dello spinozismo.
Tornando ad Althusser è dunque possibile comprendere la matrice spinoziana della
sua idea secondo la quale è il concetto di processo ad avere un crisma scientifico, mentre al
soggetto è possibile assegnare unicamente lo statuto di “nozione ideologica”. La filosofia di
Spinoza è completamente incentrata sulla nozione di processualità: Spinoza si istalla
nell’assoluto, comincia da Dio, ma cominciare da Dio significa mostrare, con il metodo
geometrico che riproduce la necessità attraverso la quale si esprime l’essere stesso, come
l’assolutamente infinito si esprima nei suoi attributi, come questi a loro volta si esprimano
nei modi a cui danno vita i quali, in ultima istanza, trovano la loro espressione adeguata,
come essenze singolari, nelle idee vere che formano la conoscenza del terzo genere. Un
simile processo prende avvio dalla potenza infinita della sostanza e non richiede alcun
soggetto conoscente per essere espressa: il soggetto conoscente è al contrario il risultato
dell’infinita potenza che si esprime procedendo in una continua creazione. Il monismo di
Spinoza permette di desoggettivizzare la conoscenza, proprio perché pensare un’unica
sostanza e quindi sabotare il dualismo cartesiano rende necessario abolire qualsiasi
eminenza, qualsiasi trascendenza: il processo conoscitivo di aggregazione delle idee, così
come il processo fisico di composizione dei corpi deve prescindere dall’idea falsa di un
soggetto che fronteggia l’oggetto della conoscenza. Questa idea è un pregiudizio, è il
fondamento stesso dell’ignoranza che attribuisce a Dio una volontà e al mondo una finalità.
L’Appendice della Parte I dell’Etica è dedicata precisamente a mostrare l’insostenibilità di
una simile visione. Gli uomini ritengono che la natura sia stata creata per un fine, che tutto
ciò che esiste esista per loro, che Dio stesso abbia creato gli uomini per essere adorato.
Questo modo di intendere Dio e la natura rovescia completamente la realtà, misconosce le
cause per cui le cose avvengono e rende gli uomini ignoranti e quindi superstiziosi. Un
simile modo di pensare sta a fondamento di un tipo di conoscenza che Spinoza definisce
immaginativa, fondata cioè sull’attribuzione a Dio di attributi che si pretendono propri
dell’uomo; una simile conoscenza, dice Spinoza, «non rivela la natura di alcuna cosa, ma
solo la costituzione dell’immaginazione» (Etica I, Appendice).
Dunque l’idea di un soggetto sovrano che giudica la natura in base ai propri gusti e
per quelli che ritiene essere dei fini liberamente scelti è in realtà nient’altro che sinonimo
di ignoranza. Si ritrova in queste pagine dell’Etica la base per comprendere il discorso
sull’ideologia di Althusser. Ciò che Spinoza ci lascia quindi da pensare è l’idea della
costituzione del soggetto come processualità, cioè come sviluppo e non come origine, l’idea
del soggetto come prodotto e non come attore o produttore di verità.

I tre generi di conoscenza e la beatitudine in Spinoza

L’Etica di Spinoza lascia tuttavia aperti alcuni problemi, il più urgente dei quali
sembra avere a che fare con la teoria gnoseologica e in particolare con il terzo genere di
conoscenza. Etienne Balibar, in un saggio pubblicato nel 1999 dal titolo Spinoza, l’anti-
Orwell. La crainte des masses, si confronta con alcuni degli aspetti più problematici della
filosofia di Spinoza muovendo da un’indagine sul rapporto che l’opera di Spinoza
intrattiene con il concetto di massa, concetto polivalente che Spinoza esprime con una
serie di termini che implicano un ampio spettro valutativo: plebs, vulgus, multitudo.
Benché l’analisi di Balibar si concentri soprattutto sulla filosofia politica di Spinoza, non è
tuttavia scorretto utilizzarne un’annotazione al fine di delucidare un’aporia propria alla
gnoseologia spinoziana. Balibar afferma infatti che «la difficoltà dello spinozismo deriva
dal fatto che, avendo subito pensato l’immaginazione e la debolezza dell’uomo ignorante
come un processo di collettivizzazione, sempre già sociale, e non come l’imperfezione o il
peccato originale di un soggetto, si rivela tuttavia incapace nei suoi propri concetti di
pensare la conoscenza e il padroneggiamento della condizioni di esistenza che essa procura
agli uomini come una pratica egualmente collettiva» (Balibar 1999, p. 52). Insomma,
mentre l’ignoranza nella quale è immerso costitutivamente l’uomo, la prima conoscenza
confusa fatta di immaginazione più che di ragione, ha a che fare con gli incontri e quindi,
in senso lato, con una costruzione sempre sociale della soggettività, la conoscenza
razionale del terzo genere, quella cioè secondo la quale si conoscono le essenze singolari
dei modi e quindi la necessità che regola la loro esistenza, ripropone una sorta di soggetto
sovrano, individuale, che non sembra sfuggire a una chiusura in se stesso che fa della
contemplazione la somma beatitudine[32]. Se l’Etica descrive un percorso che è
essenzialmente quello della costituzione di un soggetto beato, allora l’ultima parola di
Spinoza sembrerebbe reintrodurre alcune tematiche classiche della filosofia, compresa
l’idea di una soggettività chiusa in se stessa. È questo il problema più grave relativo al terzo
genere di conoscenza. Vale dunque la pena di soffermarsi sulle modalità con le quali si sale
la scala conoscitiva spinoziana. Lo sforzo di scoprire le nostre gioie, la sperimentazione che
ci fa comprendere quali sono gli incontri che aumentano la nostra potenza di agire, sono
ciò che ci permette di passare dal primo grado di conoscenza, dominato dalle idee
inadeguate, al secondo, nel quale afferriamo le nozioni comuni. Tra il primo e il secondo
genere di conoscenza esiste un debole rapporto: quando incontriamo un corpo che
concorda con il nostro non abbiamo l’idea adeguata di questo corpo, tuttavia la gioia che
questo incontro ci provoca aumenta la nostra potenza di agire permettendoci così di
formare l’idea adeguata di ciò che è comune tra il nostro corpo e quello che abbiamo
incontrato. È la gioia dell’incontro, la composizione dei rapporti, che permette di passare
dal primo al secondo grado della conoscenza. La nozione comune «è la rappresentazione di
una composizione fra due o più corpi e di una unità di questa composizione»[33], si tratta
cioè dell’idea adeguata di ciò che è comune ad almeno due corpi. La nozione comune è
dunque un’idea adeguata in quanto idea generale: si tratta cioè di un’idea che esprime ciò
che è comune al mio corpo e a un altro e coglie l’idea di ciò che vi è di comune allo stesso
modo in cui questa idea è data in Dio[34]. A questo punto, nel momento cioè in cui
iniziamo a farci delle nozioni comuni, noi diventiamo attivi: formando un’idea comune ci
“serviamo” della ragione, passiamo dallo stato di minorità nel quale ci troviamo per natura,
ad uno stato superiore, caratterizzato dall’esplicarsi della nostra potenza, dal nostro
divenir-razionale. Non possediamo per natura l’idea di ciò che concorda con il rapporto
che noi siamo, ma nel momento in cui ci formiamo quest’idea, nel momento cioè in cui ci
formiamo una prima idea adeguata, allora e solo allora diveniamo razionali, allora e solo
allora iniziamo ad essere liberi. Non si tratta tuttavia, è evidente, di un mero processo
razionale e astratto: l’idea adeguata, la nozione comune, è ciò che ci permette di
sperimentare attivamente le nostre gioie, di cercare coscientemente ciò che è causa di
passioni di gioia, che aumenta così la nostra potenza di agire. Dunque il passaggio dal
primo al secondo genere di conoscenza implica innanzitutto un mutamento nella forma di
vita: dalla casualità degli incontri all’organizzazione attiva delle proprie gioie. Tuttavia non
basta ancora: il secondo genere di conoscenza ci fa conoscere ciò che è comune a due o più
corpi, al limite le nozioni comuni più universali ci possono far conoscere ciò che è comune
a tutti i corpi (moto, quiete, estensione), ma ancora, a questo punto, non conosciamo
veramente l’essenza di noi stessi e delle cose. Sarà questa conoscenza a costituire il terzo
grado, ma come arrivarci?
Le nozioni comuni più generali esprimono l’idea di Dio, ci introducono all’idea di
Dio. Non bisogna però confondere l’idea di Dio con una nozione comune, fosse anche
quella più generale. Le nozioni comuni hanno infatti a che fare con l’immaginazione (ed è
questo il motivo per cui è possibile passare dal primo al secondo grado della conoscenza),
si applicano cioè ancora agli oggetti dell’immaginazione, costituendo una «strana
armonia» fra immaginazione e ragione. L’idea di Dio, al contrario, non ha niente a che fare
con l’immaginazione: «Che poi gli uomini non abbiano di Dio una conoscenza chiara come
quella delle nozioni comuni deriva dal fatto che essi non possono immaginare Dio come
immaginano i corpi»[35]. Le nozioni comuni ci conducono dunque all’idea di Dio, e questa,
irriducibile alle nozioni comuni, ci fa entrare in una nuova dimensione. Se le idee adeguate
che caratterizzano il secondo genere sono determinate dalla loro generalità, quelle del
terzo «si definiscono invece in base alla loro natura singolare, rappresentano l’essenza di
Dio, ci fanno conoscere le essenza singolari quali sono contenute in Dio»[36]. Con il terzo
genere di conoscenza siamo quindi in grado di cogliere le essenze singolari: l’essenza di Dio
e le essenze di noi stessi e di tutte le cose. A questo punto la nostra libertà può esplicarsi
del tutto, a questo punto siamo effettivamente divenuti attivi: conosciamo l’idea del nostro
corpo e degli altri corpi così com’è data in Dio, sperimentiamo cioè di essere eterni. Ora le
nostre gioie non possono che essere attive in quanto sperimentiamo l’eternità della nostra
essenza: nel momento in cui abbiamo l’idea adeguata di Dio, la cui potenza si esprime
attraverso la nostra potenza di agire e di pensare, allora la nostra mente – che concepisce
la propria essenza, cioè l’essenza del corpo, sotto forma di eternità[37] – può essere
concepita come l’unica causa formale delle nostre conoscenze adeguate[38]. Le nostre
affezioni, le nostre gioie, sono quindi attive.
Un problema resta tuttavia aperto ed è ciò che costituisce un punto dirimente
dell’interpretazione della filosofia di Spinoza. Si tratta del rapporto che corre tra la
temporalità e l’eternità: fino a quando siamo installati nella durata, fino a quando cioè il
nostro corpo è soggetto a incontri con parti estrinseche che sono causa di conoscenze
confuse, non possiamo sperare di attingere la completa beatitudine[39]. Se prendiamo in
considerazione gli incontri che avvengono nell’ambito temporalmente determinato nel
quale è calato il corpo, cioè nella durata, allora non è possibile cancellare del tutto la
possibilità di incontri che non possono che essere fonte di conoscenze del primo e del
secondo grado. Ma, nel momento in cui le parti estrinseche che costituiscono la possibilità
di essere affetti passivamente assumono un’importanza minore, allora, concependo
adeguatamente noi stessi, «non possiamo più essere separati dalla nostra potenza: quel
che rimane in effetti è la nostra potenza di conoscere o di agire»[40], cioè quel che rimane
è l’idea eterna della nostra mente come potentia, cioè la nostra essenza così come si dà in
Dio.
Si tratta dunque di una conclusione che sembrerebbe mettere in scacco la pari
dignità tra l’attributo dell’estensione e quello del pensiero conferendo a un’esistenza
disincarnata il massimo di beatitudine[41]. Deleuze tuttavia insiste con forza sul fatto che
dopo la morte non è possibile colmare la nostra capacità di essere affetti se durante la vita
non abbiamo provato il maggior numero possibile di passioni attive, di conoscenze del
secondo e del terzo genere. Se infatti abbiamo trascinato una vita fatta di incontri fortuiti e
quindi di idee inadeguate allora la parte estensiva, estrinseca, di ciò che costituiva il nostro
rapporto è stata anche la parte più importante rispetto a quella intensiva ed eterna. È
questo il motivo per cui temiamo la morte, perché con la morte perdiamo ciò che è più
importante. Ma se ci siamo sforzati di affermare la nostra potenza di agire, la nostra
libertà, e siamo con ciò divenuti attivi, allora siamo per lo più eterni e non temiamo la
morte. È questo quindi il motivo per cui «l’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla
morte: e la sua saggezza è una meditazione della vita, non della morte»[42].
L’ultima parola dell’Etica sembra quindi aver a che fare con una valorizzazione della
parte intensiva e eterna di ciò che costituisce il modo anche nella sua esistenza effettiva,
installata cioè nella durata, a detrimento della casualità degli incontri. Si tratta dunque di
una conclusione che non abolisce l’idea della processualità della conoscenza e della
formazione del soggetto etico, ma che in fondo pone un fine, o una fine, ad un simile
processo. La conclusione a cui Spinoza giunge prevede la piena adesione, dal parte del
modo, alla propria potentia, cioè alla propria capacità di vivere secondo ragione e quindi di
provare esclusivamente gioie attive. È evidente che qui si annida una delle maggiori aporie
dello spinozismo, che Balibar ha sottolineato con forza: la meta dell’arduo cammino
dell’Etica è, in qualche modo, la costituzione di un soggetto rispetto al quale gli incontri
casuali e le affezioni che questi determinano, per quanto ineliminabili, abbiano tuttavia
una incidenza quasi nulla. Il movimento ascensionale compiuto dal soggetto spinoziano
muove quindi i suoi primi passi in un ambiente “collettivo” o “sociale” (il corpo e le sue
affezioni), ma tende a ridurre al minimo l’incidenza di questo stesso ambiente
raggiungendo la beatitudine attraverso un isolamento che implica l’autoproduzione, sulla
base della propria potentia, delle affezioni attive di gioia[43]. Ancora Balibar in Spinoza il
transindividuale[44], suggerisce di interpretare la filosofia di Spinoza come una filosofia
della transindividualità, caratterizzata cioè da una determinazione collettiva del farsi degli
individui. Il termine transindividualità è mutuato dall’opera di Gilbert Simondon,
L’individuation psychique et collective[45], e sta a significare che esiste un sostrato
preindividuale a partire dal quale è necessario pensare i processi di individuazione.
L’intento dell’opera di Simondon è quello di rovesciare la concezione tradizionale che
prende avvio dal soggetto, per mostrare come, al contrario, il soggetto sia il risultato di un
processo di individuazione che, per essere attuato, richiede l’esistenza di un sostrato
preindividuale. I soggetti costituiti portano al loro “interno” una traccia di questo
preindividuale che funziona come base e fondamento a partire dal quale è necessario
pensare i processi di individuazione. L’utilizzo che Balibar fa del concetto di
transindividualità ai fini di leggere la peculiarità della filosofia di Spinoza non cancella la
difficoltà che qui abbiamo sottolineato. Infatti se la teoria della transindividualità può
essere utilizzata anche per comprendere il terzo genere di conoscenza, non sembra che un
simile passaggio si dia in maniera del tutto univoca, a meno che, aggiunge Balibar[46], non
si prendano in considerazione, accanto all’Etica anche i testi politici, come fanno, ad
esempio, Matheron e Negri[47].

Dall’etica alla politica: le aporie dello spinozismo

Dall’ontologia alla politica dunque, questo sarebbe il cammino che è necessario compiere per
delucidare e cancellare le aporie che sembrano insite nella V parte del principale testo spinoziano. Negri, ne
L’anomalia selvaggia, ha dato una interpretazione innovativa del pensiero di Spinoza, mettendo al centro
della trattazione il concetto di multitudo. La multitudo rappresenta, secondo Negri, l’esplicarsi della potenza
produttiva della sostanza: la base ontologica del collettivo rappresenta la potenza costituente dalla quale
promana l’intera costituzione dell’essere, cioè una costituzione del campo sociale ontologicamente
fondata[48]. Benché l’interpretazione di Negri sia di indubbio fascino, come dimostra l’attenzione dalla quale
è circondata, resta tuttavia innegabile che costituisca una lettura dei testi spinoziani, in particolare del
Trattato politico, che lascia da parte alcuni problemi fondamentali. Il fascino e la forza della lettura di Negri
stanno nel suo tentativo di completare il Trattato politico: il testo di Spinoza si interrompe infatti proprio
all’inizio del capitolo che dovrebbe trattare della democrazia. Sulla base dell’ontologia esposta nell’Etica e
sulla base del capitolo XVI del Trattato teologico-politico, nel quale Spinoza mostra che cosa debba
intendersi per diritto e per democrazia, Negri costruisce una teoria per la quale la potentia della multitudo è
la forza politica costituente, inarrestabile nella sua creatività, incoercibile nell’espressione della sua libertà,
cioè del suo diritto sovrano costituito in democrazia, cioè, appunto, in potere della moltitudine. Si tratta di
una interpretazione che valorizza l’accrescimento della potentia individuale in seno alla moltitudine, che
mette al centro della propria analisi quella che abbiamo definito “socialità” o “socializzazione” caratteristica
della costituzione del soggetto. Negri, per spiegare la meccanica costitutiva della moltitudine, insiste sull’idea
delle nozioni comuni, legate, come si è visto, alla conoscenza del secondo genere; mi sembra tuttavia che di
fronte alla definizione spinoziana della democrazia come forma di governo assoluto una simile via
interpretativa si dimostri fallace. Paolo Cristofolini, in un recente intervento dal titolo Spinoza, l’individuo e
la concordia[49], sottolinea come nel pensiero di Spinoza solo la mente individuale possa veramente
raggiungere il terzo grado di conoscenza dal momento che è più versatile della mente della multitudo, la
quale è capace di aumentare la propria potenza solo in quel particolare campo nel quale si è costituita.
Ritorna, mi pare, il problema che già sottolineava Balibar: l’ignoranza è condivisa e condivisibile, la saggezza
no, resta un affare individuale.
Credo allora che sia necessario interrogarsi sulla teoria politica di Spinoza e
sull’interpretazione che ne dà Negri, tenendo presenti simili considerazioni. L’ultima parte
del Trattato politico, dedicata alla democrazia, omnino absolutum imperium[50],
resterebbe quindi incompiuta non per cause contingenti (morte dell’autore), ma a causa di
un motivo strutturale: la piena trasparenza della multitudo a se stessa, cioè la
collettivizzazione della ragione che abolisca la massa come vulgus, è impensabile
all’interno della teoria di Spinoza. Il vulgus è quella massa che fa paura – e funziona quindi
nei regimi monarchico e aristocratico come una sorta di contrappeso rispetto all’imperium
del sovrano – e che ha paura ed è quindi dominata dalle passioni. Il vulgus costituisce
propriamente quella massa immersa nella durata temporale, incapace di sollevarsi
all’eternità della propria essenza, cioè incapace di diventare una multitudo la cui potentia
possa esprimersi liberamente, senza ostacoli, come democrazia assoluta. È dunque questa
aporia fondamentale dello spinozismo a richiedere di andare oltre Spinoza: la sua
metafisica si arena di fronte al problema della conoscenza del terzo genere proprio quando
dalla gnoseologia e dall’ontologia si passa alla teoria politica. Non si tratta di un’aporia di
poco conto, infatti ogni teoria del soggetto è anche immediatamente una teoria politica:
non è possibile, nemmeno in un modello cartesiano, pensare il soggetto come qualcosa che
non interviene sul mondo pratico, sull’oggetto. Un simile intervento, nel momento in cui
assume una portata collettiva, si chiama politica. Pensare che cosa sia il soggetto – o anche
pensarne l’inconsistenza o l’inesistenza – significa sempre pensare nei termini di una
politica.
A partire da una simile constatazione sembra possibile muovere una critica
fondamentale alle opere più recenti di Hardt e Negri, Empire e Moltitude. L’analisi delle
nuove forme di produzione, immateriali e linguistiche, conduce i due autori a rivedere la
classica formulazione marxista della lotta di classe che si fonda sulla fondamentale
contraddizione tra proprietà dei mezzi di produzione e forza produttiva. Nel momento in
cui la produzione è demandata alle relazioni che informano il sociale, alle potenze
immateriali costituite dalle reti affettive e dal linguaggio, risulta evidente che un concetto
come quello di lotta di classe non ha più senso, dal momento che la forza produttiva si
confonde con i mezzi stessi della produzione, svuotando così di senso il dualismo
fondamentale sul quale si fonda la teoria marxista della conflittualità sociale. La
moltitudine, come insieme di singolarità che condividono proprietà generiche comuni, è,
in quanto tale, la principale fonte produttiva per il capitalismo contemporaneo, ma è
anche, immediatamente, capace di svuotare dall’interno la struttura ontologica
dell’Impero, che sulla potenza della moltitudine si fonda. Insomma, secondo Hardt e Negri
mai come oggi il comunismo è non solo possibile, ma anche presente, senza che tuttavia
una simile affermazione cancelli la necessità della lotta, dello scontro[51].
È evidente l’ascendenza spinoziana di una simile analisi, che fa del sostrato
ontologico comune la base stessa del comunismo, la forza produttiva e il fondamento della
rivolta. Resta tuttavia aperto il problema della costituzione soggettiva della moltitudine e
delle implicazioni direttamente politiche di tale costituzione. Credo infatti che il limite di
una simile proposta risieda nel naturalismo di fondo che la caratterizza, naturalismo che
rende difficile pensare una politica concreta e che finisce col fornire una risposta
consolatoria e vagamente contemplativa ai problemi che pretende di risolvere. Ci si ritrova
cioè di fronte ad un problema di fondo della filosofia che già colpiva Spinoza, quello
relativo alla costituzione di un soggetto completamente attivo e, contemporaneamente,
quello relativo allo statuto della conoscenza di un simile soggetto. Ora, per non derogare da
un’attitudine materialista in filosofia è necessario tenere presente un insegnamento
fondamentale della filosofia di Marx secondo il quale ogni filosofia esiste sempre sotto
cauzione di una politica reale[52]. Dire ciò significa accordare un primato alla materialità
dell’azione fattuale dell’uomo nel mondo, rispetto al quale il pensiero filosofico si configura
come una riflessione in seconda battuta. Si riconoscerà chiaramente l’“ortodossia”
spinoziana di una simile affermazione che pone l’uomo nel mondo e a partire dal suo corpo
pensa la possibilità della formazione delle idee. Una teoria come quella della moltitudine e
della sua potentia produttiva reintroduce una sorta di contemplazione beata dell’unitarietà
fondamentale dell’essere, senza che si dia alcuna politica reale capace di frantumarne la
monotonia e di aprire così lo spazio per la costituzione materiale di una nuova soggettività
antagonista. Da Spinoza a Negri ciò che si ripropone è la figura della contemplazione
metafisica della potenza dell’essere assolutamente indeterminato e per ciò capace di
qualunque determinazione. La soggettività viene qui disciolta in una stasi che non riesce a
dar conto dell’accadere di un evento. Il monismo ontologico spinoziano finisce per
reintrodurre ciò che ha tentato di escludere sin dall’inizio: un effetto di trascendenza, una
seduzione dell’Uno che implica una sorta di misticismo naturalistico, che áncora la pratica
filosofica alla contemplazione della potenza virtuale del sostrato. Viene così in luce una
trascendenza orizzontale per la quale la sostanza possiede virtualmente l’infinita potenza
che di volta in volta la moltitudine come soggetto esplica concretamente.
Di fronte ad una simile impasse come pensare l’ontologia? Come parlare dell’essere senza cadere in
una visione totalizzante e contemplativa? Come pensare in termini politici le pratiche di soggettivazione?
Abbiamo fin qui enucleato alcuni punti fermi: a) il monismo ontologico alla Spinoza implica di fatto un
naturalismo che sembra aprire la via alla contemplazione bloccando qualsiasi discorso relativo alla
soggettivazione politica, cioè collettiva; b) la lettura di Althusser ci ha mostrato come la processualità della
costituzione del soggetto costituisca il vero terreno dell’analisi, essendo il soggetto un prodotto, un risultato e
non l’origine o il punto di partenza dell’analisi. È necessario, dunque, impegnarsi in un esercizio di pensiero
ontologico, che cerchi cioè di determinare l’essere in una maniera che renda possibile pensare la frattura,
l’apertura di uno spazio all’interno del quale si dà la costituzione di un soggetto. Il monismo ontologico di
Spinoza si blocca proprio su questo punto: lo sbocco conclusivo della filosofia di Spinoza ha come risultato
quello di rendere impossibile pensare un soggetto politico democratico in termini assoluti. La deriva
contemplativa di una simile filosofia sembra infatti d’impaccio per un pensiero che vorrebbe invece fare della

mobilità la sua caratteristica peculiare.


Si tratta del limite fondamentale della filosofia di Spinoza e di tutte le filosofie che ad essa si ispirano. Se,
come detto, l’ontologia di Spinoza ha il merito di mostrare il terreno fondamentale dell’analisi della
soggettività, cioè quello relativo alla sua costituzione processuale, non è tuttavia in grado di fornire soluzioni
adeguate quando dal piano ontologico si passa a quello politico. Ciò che manca al monismo ontologico, a
qualsiasi monismo ontologico, è la possibilità di pensare il conflitto, cioè, di fatto, la politica stessa. Il
Trattato politico è, in questo senso, un testo illuminante: la definizione della democrazia come omino
absolutun imperium decreta anche l’impossibilità di pensarla all’interno del quadro teorico che Spinoza
stesso è venuto definendo nei capitoli del Trattato politico che descrivono la monarchia e l’oligarchia. Per
essere veramente tale, la democrazia richiederebbe infatti il dissolvimento dello Stato, della forma Stato
intesa come dialettica tra imperium di chi detiene il potere (il monarca o un gruppo più o meno allargato di
persone) e potentia dei sudditi. Nel momento in cui la democrazia viene definita come forma di governo
assoluto, cancellando così questa dialettica fondamentale, il sistema di Spinoza non riesce più a funzionare.
Le grandi dispute sul pensiero politico di Spinoza, che nel Trattato teologico politico appare schiettamente
democratico, mentre nel Trattato politico potrebbe sembrare propendere per una forma di oligarchia
allargata, derivano, in ultima istanza, da una simile aporia. Se le letture più convincenti della ontologia
politica di Spinoza mettono l’accento sul carattere espansivo del secondo genere di conoscenza, fondato sulle
nozioni comuni, questo significa che è necessario muovere oltre Spinoza proprio là dove il monismo
ontologico sembra bloccare la possibilità del movimento. Al monismo contemplativo deve dunque subentrare
un pensiero capace di pensare delle dinamiche costituenti. Gli scritti di Althusser degli anni Ottanta, che
mettono al centro della loro considerazione il vuoto e gli incontri che all’interno del vuoto sono possibili, così
come l’ontologia di Badiou che sottolinea l’importanza di cancellare dalla considerazione filosofica qualsiasi
seduzione dell’Uno, sembrano fornire strumenti teorici adeguati per muovere al di là di Spinoza e dei limiti
del monismo materialistico. Un’ontologia capace di spezzare la monotona unità dell’essere sembra l’unico
strumento capace di rendere conto della possibilità

[1] L. Althusser, Pour Marx, Paris, Maspero, 1966, trad. it. di F. Madonia, Roma, Editori
Riuniti 1967.
[2] L. Althusser et alii, Lire le capital, Paris, Maspero 1965, trad. it. parziale di R. Rinaldi e
V. Oskian, Milano, Feltrinelli 1968.
[3] L. Althusser, Lire le capital, trad. it. cit., p. 189.
[4] A rigor di termini non si può parlare, nel quadro della filosofia di Althusser, di un
concetto di soggetto. Sarà proprio la definizione di questa impossibilità a occupare le
pagine seguenti. Per ora, per comodità, utilizzo ancora il termine “concetto” affiancato a
quello di “soggetto”.
[5] L. Althusser, Sur le rapport entre Marx et Hegel, in Id. Lenin et la philosophie, Paris,
Maspero 1972, trad. it. di F. Madonia, Milano, Jaka Book 1974.
[6] L. Althusser, Idéologie et appareils idéologique d’état, in Id. Positions, Paris, Editions
Sociales 1976, trad. it. di C. Mancina in L. Althusser, Freud e Lacan, Roma, Editori Riuniti
1977.
[7] L.Althusser, Sur le rapport, trad. it. cit. P. 69.
[8] L’abbandono di ogni teleologia significa l’abbandono della nozione di Aufhebung o
negazione della negazione come conservazione di ciò che è superato.
[9] L. Althusser, Sur le rapport, trad. it. cit. P. 71.
[10] Per una discussione chiara e concisa di questi aspetti, all’interno del quadro della
teoria marxista, cfr. C. Mancina, «Introduzione» a L. Althusser, Freud e Lacan cit., pp.
XVII-XXII.
[11] L. Althusser, Idéologie et appareils idéologiques d’État, trad. it. cit., p. 99, p. 102.
[12] Ivi, p. 111.
[13] Uno dei limiti di questo scritto di Althusser è proprio quello di non prendere in
considerazione con la dovuta attenzione la dimensione legata alla continuità e alla durata
degli effetti di soggettivazione degli AIS. In questo senso il lavoro di Foucault sul rapporto
corpo-potere, così come è trattato ad esempio in Surveiller et punir, rappresenta un
approfondimento di alcune importanti tematiche messe in luce da Althusser nello scritto in
esame.
[14] L. Althusser, Idéologie, trad. it. cit., p. 119.
[15] È proprio il termine “risultato” a creare qualche problema interpretativo per quel che
riguarda la filosofa di Spinoza. Come in precedenza, mi riservo anche in questo caso di
utilizzare un termine poco preciso per poi abbandonarlo chiarendo i motivi
dell’abbandono.
[16] Cfr. la sesta meditazione metafisica di Cartesio nella quale si legge: «e sebbene […] io
abbia un corpo, al quale sono assai strettamente congiunto, tuttavia poiché da un lato ho
una chiara e distinta idea di me stesso, in quanto sono solamente una cosa pensante e
inestesa, e da un altro lato ho un’idea distinta del corpo, in quanto esso è solamente una
cosa estesa e non pensante, è certo che quest’io, cioè la mia anima, per la quale sono ciò
che sono, è interamente e veramente distinta dal mio corpo, e può essere o esistere senza di
lui» (Cartesio, Opere filosofiche, vol. 2, trad. it. di A. Tilgher, Roma-Bari, Laterza 1990, pp.
72-73).
[17] M. Heidegger, Nietzsche, Pufflingen, Verlag Günther Neske, 1961, trad. it. di F. Volpi,
Milano, Adelphi 1994., pp. 651 sgg.
[18] Ivi, pp. 671-672.
[19] Si misura qui la profonda differenza che corre tra la filosofia di Bruno e quella di
Spinoza, nonostante le molte apparenti affinità. Mentre, come ha mostrato chiaramente F.
A. Yates negli articoli raccolti in Giordano Bruno e la cultura europea del Rinascimento, a
cura di E. Garin, Roma-Bari, Laterza, 1988, Bruno è un esponente della filosofia e della
magia rinascimentali, Spinoza è in tutto e per tutto un uomo di un altro tempo: il
razionalismo cartesiano e il meccanicismo hobbesiano sono le fonti del suo pensiero.
[20] A. Negri, L’anomalia selvaggia. Potere e potenza in Baruch Spinoza, Milano,
Feltrinelli 1981, ora in Id., Spinoza, Roma, DeriveApprodi 1998, pp. 31-48.
[21] G. Deleuze, Spinoza. Philosophie pratique, Paris, Minuit 1981, trad. it. di M. Senaldi,
Milano, Guerini e associati 1991, p. 17.
[22] K. Löwith, Spinoza. Deus sive natura, Stuttgart, J.B. Metzlersche
Verlagbuchhandlung und Carl Ernst Poeschel Verlag 1986, trad. it. di O. Franceschelli,
Roma, Donzelli editore 1999.
[23] Già Heidegger, interpretando il pensiero di Nietzsche, ne sottolineava la piena
appartenenza all’ambito della metafisica iniziata con la filosofia cartesiana (cfr. M.
Heidegger, op. cit., p. 688). Löwith ribadisce in fondo questo giudizio sottolineando come
la volontà di potenza di Nietzsche, la cui derivazione è schopenhaueriana, resti ancora di
fatto irretita all’interno di uno spazio di pensiero dominato dalla centralità del soggetto.
L’origine di un simile pensiero è da rintracciare, in ultima istanza, nell’idea della creatio ex
nihilo propria delle religioni monoteiste. La critica che Spinoza fa dell’idea stessa della
creazione dal nulla distrugge la possibilità di pensare il soggetto come centro della
metafisica e, secondo Löwith, avvicina la concezione spinoziana della natura a quella greca:
«Spinoza si è posto al di fuori della tradizione antropo-teologica di ascendenza biblica e
con ciò ha riguadagnato una comprensione naturale dell’uomo e del mondo» K. Löwith,
op. cit., p. 14.
[24] Il problema della partecipazione o della comunicazione tra forme ideali e forme reali è
al centro di uno dei più inquieti tra i dialoghi platonici, il Parmenide, la cui prima parte è
caratterizzata dalle obiezioni sollevate dal filosofo eleate alla teoria delle idee esposta da
Socrate per confutare Zenone, obiezioni che mostrano la difficoltà e la contraddittorietà
intrinseca in un pensiero che pretenda di far comunicare due sostanze ontologicamente
separate come sono appunto le idee e le cose reali.
[25] Per la teoria della ghiandola pineale in Cartesio cfr. la sesta meditazione metafisica
(Cartesio, Opere filosofiche, vol. 2, cit., p. 80).
[26] B. Spinoza, Ethica, trad. it. di R. Cantoni e M. Brunelli, Milano, TEA 1999, V,
Prefazione. Anche a livello terminologico quindi l’insoddisfazione spinoziana per la teoria
di Cartesio sembra puntare sul fatto che in questo caso il razionalismo del metodo viene
meno per lasciare spazio ad una visione del mondo e dell’uomo che sembra implicare un
ritorno al pensiero magico, al pensiero cioè delle qualità occulte.
[27] A. Negri, op. cit., p. 101.
[28] B Spinoza, op. cit., II, Lemma 7, Scolio.
[29] Ivi, IV, Def. 3.
[30] Se il riferimento polemico di Spinoza non può che essere Cartesio, questa critica può
comunque applicarsi a tutta la filosofia del soggetto che da Cartesio prende le mosse: il
soggetto trascendentale di Kant e il soggetto intenzionale di Husserl ne sono due esempi.
[31] G. Deleuze, Spinoza et le problème de l’expression, Paris, Minuti 1968, trad. it. di S.
Ansaldi, Macerata, Quodlibet 1999, pp. 204-205.
[32] Già Nietzsche, per altro lettore entusiasta di Spinoza, nel quale riconosceva una sorta
di grande anticipatore, criticava Spinoza in questo senso: in Die fröhliche Wissenchaft,
trad. it. di F. Masini, Milano, Adelphi 1977, § 372, egli accusa Spinoza di condividere con la
tradizione filosofica una sorta di vampirismo per il quale la filosofia sarebbe una
progressiva desensualizzazione interpretata sempre più idealisticamente. Spinoza avrebbe
insomma riproposto tutti gli errori tipici della vecchia metafisica: identificazione di Bene e
Essere e concezione della conoscenza come pura razionalità.
[33] G. Deleuze, Spinoza. Philosophie pratique, trad. it. cit., p. 116.
[34] B Spinoza, op. cit., II, 39 Dimostrazione.
[35] Ivi, II, 47 Scolio.
[36] G. Deleuze, Spinoza et le problème de l’expression, trad. it. cit., pp. 236-237.
[37] B. Spinoza, op. cit., V, 29.
[38] Ivi, V, 31.
[39] Ivi, V, 29.
[40] G. Deleuze, Spinoza et le problème de l’expression, trad. it. cit., p. 248.
[41] Cfr. tuttavia B. Spinoza, op. cit., V, 29, Dimostrazione: «poiché è proprio della natura
della ragione concepire le cose sotto specie di eternità […] appartiene alla natura della
Mente anche concepire l’essenza del Corpo sotto specie di eternità […]; questo potere di
concepire le cose sotto specie di eternità non appartiene, dunque, alla Mente se non in
quanto essa concepisce l’essenza del Corpo sotto specie di eternità».
[42] Ivi, IV, 47.
[43] Questa autoproduzione è anche il fondamento dell’amor intellectus Dei che consiste
in una comprensione chiara e distinta di se stessi, comprensione che rimanda dunque
all’idea di Dio come causa: cfr. B. Spinoza, op. cit., V, 15 e 32. Su questo punto cfr. anche
Löwith, op. cit., p. 62.
[44] E. Balibar, Spinoza. Il transindividuale, Milano, Ghibli 2002
[45] G. Simondon, L’individuation psychique et collective, Paris, Aubier, trad. it. di. P.
Virno, Roma, DeriveApprodi 2001.
[46] E. Balibar, op. cit. p. 118, nota 34.
[47] Di A. Matheron cfr. soprattutto Individu et communauté chez Spinoza, Minuti, Paris
1968; di A. Negri il già citato L’anomalia selvaggia, ma anche gli altri saggi raccolti nel
volume Spinoza, cit.
[48] Il pensiero di Negri è passato, all’incirca verso la fine degli anni Settanta, da una
considerazione di carattere economico-politico a una trattazione della politica su base
ontologica. Il testo su Spinoza rappresenta il primo fondamentale passo in questa direzione
(per quanto già il ciclo di lezioni tenute a Parigi sui Grundrisse, pubblicate con il titolo
Marx oltre Marx, Milano, Feltrinelli 1978, apriva la strada ad una simile considerazione),
che verrà poi approfondita negli anni successivi ne Il potere costituente, Milano, SugarCo,
1992 e nei testi scritti in collaborazione con M. Hardt, Empire, Harvard University press
2000, trad. it. di A. Pandolfi, Milano, Rizzoli 2001 e Moltitude, Penguin press 2004, trad.
it. di A. Pandolfi, Milano, Rizzoli 2004.
[49] P. Cristofolini, Spinoza, l’individuo e la concordia, «Etica & Politica» vol. I, no. 1
2004, disponibile on line presso il sito Internet
http://www.units.it/etica/2004_1/CRISTOFOLINI.htm
[50] B. Spinoza, Tractatus politicus, trad. it. di P. Cristofolini, Pisa, ETS 2004, 11.1.
[51] I due testi di Hardt e Negri sono in realtà molto complessi e le analisi che in essi si
trovano sono molto più articolate di quanto non appaia dalla sintesi che sono costretto a
farne. Su temi quali la moltitudine, la produzione immateriale e i loro rapporti la
bibliografia è sterminata. Gli studiosi italiani si distinguono però per l’acutezza e la
radicalità delle analisi. Cfr., oltre ai testi di Negri citati, P. Virno, Grammatica della
moltitudine, Roma, DeriveApprodi 2002 e C. Marazzi, Il posto dei calzini. La svolta
linguistica dell’economia e i suoi effetti sulla politica, Torino,Boringhieri 1999.
[52] Alain Badiou è il filosofo contemporaneo che ha insistito con maggior forza su questo
aspetto della filosofia, a partire dal quale è andato costruendo una critica del concetto
stesso di filosofia politica. Cfr. il suo Abrégé de métapolitique, Paris, Seuil 1998, trad. it. di
M. Bruzzese, Napoli, Cronopio 2001.

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