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SU ALCUNE APORIE
DELLO SPINOZISMO
04/04/2006
L’Etica di Spinoza lascia tuttavia aperti alcuni problemi, il più urgente dei quali
sembra avere a che fare con la teoria gnoseologica e in particolare con il terzo genere di
conoscenza. Etienne Balibar, in un saggio pubblicato nel 1999 dal titolo Spinoza, l’anti-
Orwell. La crainte des masses, si confronta con alcuni degli aspetti più problematici della
filosofia di Spinoza muovendo da un’indagine sul rapporto che l’opera di Spinoza
intrattiene con il concetto di massa, concetto polivalente che Spinoza esprime con una
serie di termini che implicano un ampio spettro valutativo: plebs, vulgus, multitudo.
Benché l’analisi di Balibar si concentri soprattutto sulla filosofia politica di Spinoza, non è
tuttavia scorretto utilizzarne un’annotazione al fine di delucidare un’aporia propria alla
gnoseologia spinoziana. Balibar afferma infatti che «la difficoltà dello spinozismo deriva
dal fatto che, avendo subito pensato l’immaginazione e la debolezza dell’uomo ignorante
come un processo di collettivizzazione, sempre già sociale, e non come l’imperfezione o il
peccato originale di un soggetto, si rivela tuttavia incapace nei suoi propri concetti di
pensare la conoscenza e il padroneggiamento della condizioni di esistenza che essa procura
agli uomini come una pratica egualmente collettiva» (Balibar 1999, p. 52). Insomma,
mentre l’ignoranza nella quale è immerso costitutivamente l’uomo, la prima conoscenza
confusa fatta di immaginazione più che di ragione, ha a che fare con gli incontri e quindi,
in senso lato, con una costruzione sempre sociale della soggettività, la conoscenza
razionale del terzo genere, quella cioè secondo la quale si conoscono le essenze singolari
dei modi e quindi la necessità che regola la loro esistenza, ripropone una sorta di soggetto
sovrano, individuale, che non sembra sfuggire a una chiusura in se stesso che fa della
contemplazione la somma beatitudine[32]. Se l’Etica descrive un percorso che è
essenzialmente quello della costituzione di un soggetto beato, allora l’ultima parola di
Spinoza sembrerebbe reintrodurre alcune tematiche classiche della filosofia, compresa
l’idea di una soggettività chiusa in se stessa. È questo il problema più grave relativo al terzo
genere di conoscenza. Vale dunque la pena di soffermarsi sulle modalità con le quali si sale
la scala conoscitiva spinoziana. Lo sforzo di scoprire le nostre gioie, la sperimentazione che
ci fa comprendere quali sono gli incontri che aumentano la nostra potenza di agire, sono
ciò che ci permette di passare dal primo grado di conoscenza, dominato dalle idee
inadeguate, al secondo, nel quale afferriamo le nozioni comuni. Tra il primo e il secondo
genere di conoscenza esiste un debole rapporto: quando incontriamo un corpo che
concorda con il nostro non abbiamo l’idea adeguata di questo corpo, tuttavia la gioia che
questo incontro ci provoca aumenta la nostra potenza di agire permettendoci così di
formare l’idea adeguata di ciò che è comune tra il nostro corpo e quello che abbiamo
incontrato. È la gioia dell’incontro, la composizione dei rapporti, che permette di passare
dal primo al secondo grado della conoscenza. La nozione comune «è la rappresentazione di
una composizione fra due o più corpi e di una unità di questa composizione»[33], si tratta
cioè dell’idea adeguata di ciò che è comune ad almeno due corpi. La nozione comune è
dunque un’idea adeguata in quanto idea generale: si tratta cioè di un’idea che esprime ciò
che è comune al mio corpo e a un altro e coglie l’idea di ciò che vi è di comune allo stesso
modo in cui questa idea è data in Dio[34]. A questo punto, nel momento cioè in cui
iniziamo a farci delle nozioni comuni, noi diventiamo attivi: formando un’idea comune ci
“serviamo” della ragione, passiamo dallo stato di minorità nel quale ci troviamo per natura,
ad uno stato superiore, caratterizzato dall’esplicarsi della nostra potenza, dal nostro
divenir-razionale. Non possediamo per natura l’idea di ciò che concorda con il rapporto
che noi siamo, ma nel momento in cui ci formiamo quest’idea, nel momento cioè in cui ci
formiamo una prima idea adeguata, allora e solo allora diveniamo razionali, allora e solo
allora iniziamo ad essere liberi. Non si tratta tuttavia, è evidente, di un mero processo
razionale e astratto: l’idea adeguata, la nozione comune, è ciò che ci permette di
sperimentare attivamente le nostre gioie, di cercare coscientemente ciò che è causa di
passioni di gioia, che aumenta così la nostra potenza di agire. Dunque il passaggio dal
primo al secondo genere di conoscenza implica innanzitutto un mutamento nella forma di
vita: dalla casualità degli incontri all’organizzazione attiva delle proprie gioie. Tuttavia non
basta ancora: il secondo genere di conoscenza ci fa conoscere ciò che è comune a due o più
corpi, al limite le nozioni comuni più universali ci possono far conoscere ciò che è comune
a tutti i corpi (moto, quiete, estensione), ma ancora, a questo punto, non conosciamo
veramente l’essenza di noi stessi e delle cose. Sarà questa conoscenza a costituire il terzo
grado, ma come arrivarci?
Le nozioni comuni più generali esprimono l’idea di Dio, ci introducono all’idea di
Dio. Non bisogna però confondere l’idea di Dio con una nozione comune, fosse anche
quella più generale. Le nozioni comuni hanno infatti a che fare con l’immaginazione (ed è
questo il motivo per cui è possibile passare dal primo al secondo grado della conoscenza),
si applicano cioè ancora agli oggetti dell’immaginazione, costituendo una «strana
armonia» fra immaginazione e ragione. L’idea di Dio, al contrario, non ha niente a che fare
con l’immaginazione: «Che poi gli uomini non abbiano di Dio una conoscenza chiara come
quella delle nozioni comuni deriva dal fatto che essi non possono immaginare Dio come
immaginano i corpi»[35]. Le nozioni comuni ci conducono dunque all’idea di Dio, e questa,
irriducibile alle nozioni comuni, ci fa entrare in una nuova dimensione. Se le idee adeguate
che caratterizzano il secondo genere sono determinate dalla loro generalità, quelle del
terzo «si definiscono invece in base alla loro natura singolare, rappresentano l’essenza di
Dio, ci fanno conoscere le essenza singolari quali sono contenute in Dio»[36]. Con il terzo
genere di conoscenza siamo quindi in grado di cogliere le essenze singolari: l’essenza di Dio
e le essenze di noi stessi e di tutte le cose. A questo punto la nostra libertà può esplicarsi
del tutto, a questo punto siamo effettivamente divenuti attivi: conosciamo l’idea del nostro
corpo e degli altri corpi così com’è data in Dio, sperimentiamo cioè di essere eterni. Ora le
nostre gioie non possono che essere attive in quanto sperimentiamo l’eternità della nostra
essenza: nel momento in cui abbiamo l’idea adeguata di Dio, la cui potenza si esprime
attraverso la nostra potenza di agire e di pensare, allora la nostra mente – che concepisce
la propria essenza, cioè l’essenza del corpo, sotto forma di eternità[37] – può essere
concepita come l’unica causa formale delle nostre conoscenze adeguate[38]. Le nostre
affezioni, le nostre gioie, sono quindi attive.
Un problema resta tuttavia aperto ed è ciò che costituisce un punto dirimente
dell’interpretazione della filosofia di Spinoza. Si tratta del rapporto che corre tra la
temporalità e l’eternità: fino a quando siamo installati nella durata, fino a quando cioè il
nostro corpo è soggetto a incontri con parti estrinseche che sono causa di conoscenze
confuse, non possiamo sperare di attingere la completa beatitudine[39]. Se prendiamo in
considerazione gli incontri che avvengono nell’ambito temporalmente determinato nel
quale è calato il corpo, cioè nella durata, allora non è possibile cancellare del tutto la
possibilità di incontri che non possono che essere fonte di conoscenze del primo e del
secondo grado. Ma, nel momento in cui le parti estrinseche che costituiscono la possibilità
di essere affetti passivamente assumono un’importanza minore, allora, concependo
adeguatamente noi stessi, «non possiamo più essere separati dalla nostra potenza: quel
che rimane in effetti è la nostra potenza di conoscere o di agire»[40], cioè quel che rimane
è l’idea eterna della nostra mente come potentia, cioè la nostra essenza così come si dà in
Dio.
Si tratta dunque di una conclusione che sembrerebbe mettere in scacco la pari
dignità tra l’attributo dell’estensione e quello del pensiero conferendo a un’esistenza
disincarnata il massimo di beatitudine[41]. Deleuze tuttavia insiste con forza sul fatto che
dopo la morte non è possibile colmare la nostra capacità di essere affetti se durante la vita
non abbiamo provato il maggior numero possibile di passioni attive, di conoscenze del
secondo e del terzo genere. Se infatti abbiamo trascinato una vita fatta di incontri fortuiti e
quindi di idee inadeguate allora la parte estensiva, estrinseca, di ciò che costituiva il nostro
rapporto è stata anche la parte più importante rispetto a quella intensiva ed eterna. È
questo il motivo per cui temiamo la morte, perché con la morte perdiamo ciò che è più
importante. Ma se ci siamo sforzati di affermare la nostra potenza di agire, la nostra
libertà, e siamo con ciò divenuti attivi, allora siamo per lo più eterni e non temiamo la
morte. È questo quindi il motivo per cui «l’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla
morte: e la sua saggezza è una meditazione della vita, non della morte»[42].
L’ultima parola dell’Etica sembra quindi aver a che fare con una valorizzazione della
parte intensiva e eterna di ciò che costituisce il modo anche nella sua esistenza effettiva,
installata cioè nella durata, a detrimento della casualità degli incontri. Si tratta dunque di
una conclusione che non abolisce l’idea della processualità della conoscenza e della
formazione del soggetto etico, ma che in fondo pone un fine, o una fine, ad un simile
processo. La conclusione a cui Spinoza giunge prevede la piena adesione, dal parte del
modo, alla propria potentia, cioè alla propria capacità di vivere secondo ragione e quindi di
provare esclusivamente gioie attive. È evidente che qui si annida una delle maggiori aporie
dello spinozismo, che Balibar ha sottolineato con forza: la meta dell’arduo cammino
dell’Etica è, in qualche modo, la costituzione di un soggetto rispetto al quale gli incontri
casuali e le affezioni che questi determinano, per quanto ineliminabili, abbiano tuttavia
una incidenza quasi nulla. Il movimento ascensionale compiuto dal soggetto spinoziano
muove quindi i suoi primi passi in un ambiente “collettivo” o “sociale” (il corpo e le sue
affezioni), ma tende a ridurre al minimo l’incidenza di questo stesso ambiente
raggiungendo la beatitudine attraverso un isolamento che implica l’autoproduzione, sulla
base della propria potentia, delle affezioni attive di gioia[43]. Ancora Balibar in Spinoza il
transindividuale[44], suggerisce di interpretare la filosofia di Spinoza come una filosofia
della transindividualità, caratterizzata cioè da una determinazione collettiva del farsi degli
individui. Il termine transindividualità è mutuato dall’opera di Gilbert Simondon,
L’individuation psychique et collective[45], e sta a significare che esiste un sostrato
preindividuale a partire dal quale è necessario pensare i processi di individuazione.
L’intento dell’opera di Simondon è quello di rovesciare la concezione tradizionale che
prende avvio dal soggetto, per mostrare come, al contrario, il soggetto sia il risultato di un
processo di individuazione che, per essere attuato, richiede l’esistenza di un sostrato
preindividuale. I soggetti costituiti portano al loro “interno” una traccia di questo
preindividuale che funziona come base e fondamento a partire dal quale è necessario
pensare i processi di individuazione. L’utilizzo che Balibar fa del concetto di
transindividualità ai fini di leggere la peculiarità della filosofia di Spinoza non cancella la
difficoltà che qui abbiamo sottolineato. Infatti se la teoria della transindividualità può
essere utilizzata anche per comprendere il terzo genere di conoscenza, non sembra che un
simile passaggio si dia in maniera del tutto univoca, a meno che, aggiunge Balibar[46], non
si prendano in considerazione, accanto all’Etica anche i testi politici, come fanno, ad
esempio, Matheron e Negri[47].
Dall’ontologia alla politica dunque, questo sarebbe il cammino che è necessario compiere per
delucidare e cancellare le aporie che sembrano insite nella V parte del principale testo spinoziano. Negri, ne
L’anomalia selvaggia, ha dato una interpretazione innovativa del pensiero di Spinoza, mettendo al centro
della trattazione il concetto di multitudo. La multitudo rappresenta, secondo Negri, l’esplicarsi della potenza
produttiva della sostanza: la base ontologica del collettivo rappresenta la potenza costituente dalla quale
promana l’intera costituzione dell’essere, cioè una costituzione del campo sociale ontologicamente
fondata[48]. Benché l’interpretazione di Negri sia di indubbio fascino, come dimostra l’attenzione dalla quale
è circondata, resta tuttavia innegabile che costituisca una lettura dei testi spinoziani, in particolare del
Trattato politico, che lascia da parte alcuni problemi fondamentali. Il fascino e la forza della lettura di Negri
stanno nel suo tentativo di completare il Trattato politico: il testo di Spinoza si interrompe infatti proprio
all’inizio del capitolo che dovrebbe trattare della democrazia. Sulla base dell’ontologia esposta nell’Etica e
sulla base del capitolo XVI del Trattato teologico-politico, nel quale Spinoza mostra che cosa debba
intendersi per diritto e per democrazia, Negri costruisce una teoria per la quale la potentia della multitudo è
la forza politica costituente, inarrestabile nella sua creatività, incoercibile nell’espressione della sua libertà,
cioè del suo diritto sovrano costituito in democrazia, cioè, appunto, in potere della moltitudine. Si tratta di
una interpretazione che valorizza l’accrescimento della potentia individuale in seno alla moltitudine, che
mette al centro della propria analisi quella che abbiamo definito “socialità” o “socializzazione” caratteristica
della costituzione del soggetto. Negri, per spiegare la meccanica costitutiva della moltitudine, insiste sull’idea
delle nozioni comuni, legate, come si è visto, alla conoscenza del secondo genere; mi sembra tuttavia che di
fronte alla definizione spinoziana della democrazia come forma di governo assoluto una simile via
interpretativa si dimostri fallace. Paolo Cristofolini, in un recente intervento dal titolo Spinoza, l’individuo e
la concordia[49], sottolinea come nel pensiero di Spinoza solo la mente individuale possa veramente
raggiungere il terzo grado di conoscenza dal momento che è più versatile della mente della multitudo, la
quale è capace di aumentare la propria potenza solo in quel particolare campo nel quale si è costituita.
Ritorna, mi pare, il problema che già sottolineava Balibar: l’ignoranza è condivisa e condivisibile, la saggezza
no, resta un affare individuale.
Credo allora che sia necessario interrogarsi sulla teoria politica di Spinoza e
sull’interpretazione che ne dà Negri, tenendo presenti simili considerazioni. L’ultima parte
del Trattato politico, dedicata alla democrazia, omnino absolutum imperium[50],
resterebbe quindi incompiuta non per cause contingenti (morte dell’autore), ma a causa di
un motivo strutturale: la piena trasparenza della multitudo a se stessa, cioè la
collettivizzazione della ragione che abolisca la massa come vulgus, è impensabile
all’interno della teoria di Spinoza. Il vulgus è quella massa che fa paura – e funziona quindi
nei regimi monarchico e aristocratico come una sorta di contrappeso rispetto all’imperium
del sovrano – e che ha paura ed è quindi dominata dalle passioni. Il vulgus costituisce
propriamente quella massa immersa nella durata temporale, incapace di sollevarsi
all’eternità della propria essenza, cioè incapace di diventare una multitudo la cui potentia
possa esprimersi liberamente, senza ostacoli, come democrazia assoluta. È dunque questa
aporia fondamentale dello spinozismo a richiedere di andare oltre Spinoza: la sua
metafisica si arena di fronte al problema della conoscenza del terzo genere proprio quando
dalla gnoseologia e dall’ontologia si passa alla teoria politica. Non si tratta di un’aporia di
poco conto, infatti ogni teoria del soggetto è anche immediatamente una teoria politica:
non è possibile, nemmeno in un modello cartesiano, pensare il soggetto come qualcosa che
non interviene sul mondo pratico, sull’oggetto. Un simile intervento, nel momento in cui
assume una portata collettiva, si chiama politica. Pensare che cosa sia il soggetto – o anche
pensarne l’inconsistenza o l’inesistenza – significa sempre pensare nei termini di una
politica.
A partire da una simile constatazione sembra possibile muovere una critica
fondamentale alle opere più recenti di Hardt e Negri, Empire e Moltitude. L’analisi delle
nuove forme di produzione, immateriali e linguistiche, conduce i due autori a rivedere la
classica formulazione marxista della lotta di classe che si fonda sulla fondamentale
contraddizione tra proprietà dei mezzi di produzione e forza produttiva. Nel momento in
cui la produzione è demandata alle relazioni che informano il sociale, alle potenze
immateriali costituite dalle reti affettive e dal linguaggio, risulta evidente che un concetto
come quello di lotta di classe non ha più senso, dal momento che la forza produttiva si
confonde con i mezzi stessi della produzione, svuotando così di senso il dualismo
fondamentale sul quale si fonda la teoria marxista della conflittualità sociale. La
moltitudine, come insieme di singolarità che condividono proprietà generiche comuni, è,
in quanto tale, la principale fonte produttiva per il capitalismo contemporaneo, ma è
anche, immediatamente, capace di svuotare dall’interno la struttura ontologica
dell’Impero, che sulla potenza della moltitudine si fonda. Insomma, secondo Hardt e Negri
mai come oggi il comunismo è non solo possibile, ma anche presente, senza che tuttavia
una simile affermazione cancelli la necessità della lotta, dello scontro[51].
È evidente l’ascendenza spinoziana di una simile analisi, che fa del sostrato
ontologico comune la base stessa del comunismo, la forza produttiva e il fondamento della
rivolta. Resta tuttavia aperto il problema della costituzione soggettiva della moltitudine e
delle implicazioni direttamente politiche di tale costituzione. Credo infatti che il limite di
una simile proposta risieda nel naturalismo di fondo che la caratterizza, naturalismo che
rende difficile pensare una politica concreta e che finisce col fornire una risposta
consolatoria e vagamente contemplativa ai problemi che pretende di risolvere. Ci si ritrova
cioè di fronte ad un problema di fondo della filosofia che già colpiva Spinoza, quello
relativo alla costituzione di un soggetto completamente attivo e, contemporaneamente,
quello relativo allo statuto della conoscenza di un simile soggetto. Ora, per non derogare da
un’attitudine materialista in filosofia è necessario tenere presente un insegnamento
fondamentale della filosofia di Marx secondo il quale ogni filosofia esiste sempre sotto
cauzione di una politica reale[52]. Dire ciò significa accordare un primato alla materialità
dell’azione fattuale dell’uomo nel mondo, rispetto al quale il pensiero filosofico si configura
come una riflessione in seconda battuta. Si riconoscerà chiaramente l’“ortodossia”
spinoziana di una simile affermazione che pone l’uomo nel mondo e a partire dal suo corpo
pensa la possibilità della formazione delle idee. Una teoria come quella della moltitudine e
della sua potentia produttiva reintroduce una sorta di contemplazione beata dell’unitarietà
fondamentale dell’essere, senza che si dia alcuna politica reale capace di frantumarne la
monotonia e di aprire così lo spazio per la costituzione materiale di una nuova soggettività
antagonista. Da Spinoza a Negri ciò che si ripropone è la figura della contemplazione
metafisica della potenza dell’essere assolutamente indeterminato e per ciò capace di
qualunque determinazione. La soggettività viene qui disciolta in una stasi che non riesce a
dar conto dell’accadere di un evento. Il monismo ontologico spinoziano finisce per
reintrodurre ciò che ha tentato di escludere sin dall’inizio: un effetto di trascendenza, una
seduzione dell’Uno che implica una sorta di misticismo naturalistico, che áncora la pratica
filosofica alla contemplazione della potenza virtuale del sostrato. Viene così in luce una
trascendenza orizzontale per la quale la sostanza possiede virtualmente l’infinita potenza
che di volta in volta la moltitudine come soggetto esplica concretamente.
Di fronte ad una simile impasse come pensare l’ontologia? Come parlare dell’essere senza cadere in
una visione totalizzante e contemplativa? Come pensare in termini politici le pratiche di soggettivazione?
Abbiamo fin qui enucleato alcuni punti fermi: a) il monismo ontologico alla Spinoza implica di fatto un
naturalismo che sembra aprire la via alla contemplazione bloccando qualsiasi discorso relativo alla
soggettivazione politica, cioè collettiva; b) la lettura di Althusser ci ha mostrato come la processualità della
costituzione del soggetto costituisca il vero terreno dell’analisi, essendo il soggetto un prodotto, un risultato e
non l’origine o il punto di partenza dell’analisi. È necessario, dunque, impegnarsi in un esercizio di pensiero
ontologico, che cerchi cioè di determinare l’essere in una maniera che renda possibile pensare la frattura,
l’apertura di uno spazio all’interno del quale si dà la costituzione di un soggetto. Il monismo ontologico di
Spinoza si blocca proprio su questo punto: lo sbocco conclusivo della filosofia di Spinoza ha come risultato
quello di rendere impossibile pensare un soggetto politico democratico in termini assoluti. La deriva
contemplativa di una simile filosofia sembra infatti d’impaccio per un pensiero che vorrebbe invece fare della
[1] L. Althusser, Pour Marx, Paris, Maspero, 1966, trad. it. di F. Madonia, Roma, Editori
Riuniti 1967.
[2] L. Althusser et alii, Lire le capital, Paris, Maspero 1965, trad. it. parziale di R. Rinaldi e
V. Oskian, Milano, Feltrinelli 1968.
[3] L. Althusser, Lire le capital, trad. it. cit., p. 189.
[4] A rigor di termini non si può parlare, nel quadro della filosofia di Althusser, di un
concetto di soggetto. Sarà proprio la definizione di questa impossibilità a occupare le
pagine seguenti. Per ora, per comodità, utilizzo ancora il termine “concetto” affiancato a
quello di “soggetto”.
[5] L. Althusser, Sur le rapport entre Marx et Hegel, in Id. Lenin et la philosophie, Paris,
Maspero 1972, trad. it. di F. Madonia, Milano, Jaka Book 1974.
[6] L. Althusser, Idéologie et appareils idéologique d’état, in Id. Positions, Paris, Editions
Sociales 1976, trad. it. di C. Mancina in L. Althusser, Freud e Lacan, Roma, Editori Riuniti
1977.
[7] L.Althusser, Sur le rapport, trad. it. cit. P. 69.
[8] L’abbandono di ogni teleologia significa l’abbandono della nozione di Aufhebung o
negazione della negazione come conservazione di ciò che è superato.
[9] L. Althusser, Sur le rapport, trad. it. cit. P. 71.
[10] Per una discussione chiara e concisa di questi aspetti, all’interno del quadro della
teoria marxista, cfr. C. Mancina, «Introduzione» a L. Althusser, Freud e Lacan cit., pp.
XVII-XXII.
[11] L. Althusser, Idéologie et appareils idéologiques d’État, trad. it. cit., p. 99, p. 102.
[12] Ivi, p. 111.
[13] Uno dei limiti di questo scritto di Althusser è proprio quello di non prendere in
considerazione con la dovuta attenzione la dimensione legata alla continuità e alla durata
degli effetti di soggettivazione degli AIS. In questo senso il lavoro di Foucault sul rapporto
corpo-potere, così come è trattato ad esempio in Surveiller et punir, rappresenta un
approfondimento di alcune importanti tematiche messe in luce da Althusser nello scritto in
esame.
[14] L. Althusser, Idéologie, trad. it. cit., p. 119.
[15] È proprio il termine “risultato” a creare qualche problema interpretativo per quel che
riguarda la filosofa di Spinoza. Come in precedenza, mi riservo anche in questo caso di
utilizzare un termine poco preciso per poi abbandonarlo chiarendo i motivi
dell’abbandono.
[16] Cfr. la sesta meditazione metafisica di Cartesio nella quale si legge: «e sebbene […] io
abbia un corpo, al quale sono assai strettamente congiunto, tuttavia poiché da un lato ho
una chiara e distinta idea di me stesso, in quanto sono solamente una cosa pensante e
inestesa, e da un altro lato ho un’idea distinta del corpo, in quanto esso è solamente una
cosa estesa e non pensante, è certo che quest’io, cioè la mia anima, per la quale sono ciò
che sono, è interamente e veramente distinta dal mio corpo, e può essere o esistere senza di
lui» (Cartesio, Opere filosofiche, vol. 2, trad. it. di A. Tilgher, Roma-Bari, Laterza 1990, pp.
72-73).
[17] M. Heidegger, Nietzsche, Pufflingen, Verlag Günther Neske, 1961, trad. it. di F. Volpi,
Milano, Adelphi 1994., pp. 651 sgg.
[18] Ivi, pp. 671-672.
[19] Si misura qui la profonda differenza che corre tra la filosofia di Bruno e quella di
Spinoza, nonostante le molte apparenti affinità. Mentre, come ha mostrato chiaramente F.
A. Yates negli articoli raccolti in Giordano Bruno e la cultura europea del Rinascimento, a
cura di E. Garin, Roma-Bari, Laterza, 1988, Bruno è un esponente della filosofia e della
magia rinascimentali, Spinoza è in tutto e per tutto un uomo di un altro tempo: il
razionalismo cartesiano e il meccanicismo hobbesiano sono le fonti del suo pensiero.
[20] A. Negri, L’anomalia selvaggia. Potere e potenza in Baruch Spinoza, Milano,
Feltrinelli 1981, ora in Id., Spinoza, Roma, DeriveApprodi 1998, pp. 31-48.
[21] G. Deleuze, Spinoza. Philosophie pratique, Paris, Minuit 1981, trad. it. di M. Senaldi,
Milano, Guerini e associati 1991, p. 17.
[22] K. Löwith, Spinoza. Deus sive natura, Stuttgart, J.B. Metzlersche
Verlagbuchhandlung und Carl Ernst Poeschel Verlag 1986, trad. it. di O. Franceschelli,
Roma, Donzelli editore 1999.
[23] Già Heidegger, interpretando il pensiero di Nietzsche, ne sottolineava la piena
appartenenza all’ambito della metafisica iniziata con la filosofia cartesiana (cfr. M.
Heidegger, op. cit., p. 688). Löwith ribadisce in fondo questo giudizio sottolineando come
la volontà di potenza di Nietzsche, la cui derivazione è schopenhaueriana, resti ancora di
fatto irretita all’interno di uno spazio di pensiero dominato dalla centralità del soggetto.
L’origine di un simile pensiero è da rintracciare, in ultima istanza, nell’idea della creatio ex
nihilo propria delle religioni monoteiste. La critica che Spinoza fa dell’idea stessa della
creazione dal nulla distrugge la possibilità di pensare il soggetto come centro della
metafisica e, secondo Löwith, avvicina la concezione spinoziana della natura a quella greca:
«Spinoza si è posto al di fuori della tradizione antropo-teologica di ascendenza biblica e
con ciò ha riguadagnato una comprensione naturale dell’uomo e del mondo» K. Löwith,
op. cit., p. 14.
[24] Il problema della partecipazione o della comunicazione tra forme ideali e forme reali è
al centro di uno dei più inquieti tra i dialoghi platonici, il Parmenide, la cui prima parte è
caratterizzata dalle obiezioni sollevate dal filosofo eleate alla teoria delle idee esposta da
Socrate per confutare Zenone, obiezioni che mostrano la difficoltà e la contraddittorietà
intrinseca in un pensiero che pretenda di far comunicare due sostanze ontologicamente
separate come sono appunto le idee e le cose reali.
[25] Per la teoria della ghiandola pineale in Cartesio cfr. la sesta meditazione metafisica
(Cartesio, Opere filosofiche, vol. 2, cit., p. 80).
[26] B. Spinoza, Ethica, trad. it. di R. Cantoni e M. Brunelli, Milano, TEA 1999, V,
Prefazione. Anche a livello terminologico quindi l’insoddisfazione spinoziana per la teoria
di Cartesio sembra puntare sul fatto che in questo caso il razionalismo del metodo viene
meno per lasciare spazio ad una visione del mondo e dell’uomo che sembra implicare un
ritorno al pensiero magico, al pensiero cioè delle qualità occulte.
[27] A. Negri, op. cit., p. 101.
[28] B Spinoza, op. cit., II, Lemma 7, Scolio.
[29] Ivi, IV, Def. 3.
[30] Se il riferimento polemico di Spinoza non può che essere Cartesio, questa critica può
comunque applicarsi a tutta la filosofia del soggetto che da Cartesio prende le mosse: il
soggetto trascendentale di Kant e il soggetto intenzionale di Husserl ne sono due esempi.
[31] G. Deleuze, Spinoza et le problème de l’expression, Paris, Minuti 1968, trad. it. di S.
Ansaldi, Macerata, Quodlibet 1999, pp. 204-205.
[32] Già Nietzsche, per altro lettore entusiasta di Spinoza, nel quale riconosceva una sorta
di grande anticipatore, criticava Spinoza in questo senso: in Die fröhliche Wissenchaft,
trad. it. di F. Masini, Milano, Adelphi 1977, § 372, egli accusa Spinoza di condividere con la
tradizione filosofica una sorta di vampirismo per il quale la filosofia sarebbe una
progressiva desensualizzazione interpretata sempre più idealisticamente. Spinoza avrebbe
insomma riproposto tutti gli errori tipici della vecchia metafisica: identificazione di Bene e
Essere e concezione della conoscenza come pura razionalità.
[33] G. Deleuze, Spinoza. Philosophie pratique, trad. it. cit., p. 116.
[34] B Spinoza, op. cit., II, 39 Dimostrazione.
[35] Ivi, II, 47 Scolio.
[36] G. Deleuze, Spinoza et le problème de l’expression, trad. it. cit., pp. 236-237.
[37] B. Spinoza, op. cit., V, 29.
[38] Ivi, V, 31.
[39] Ivi, V, 29.
[40] G. Deleuze, Spinoza et le problème de l’expression, trad. it. cit., p. 248.
[41] Cfr. tuttavia B. Spinoza, op. cit., V, 29, Dimostrazione: «poiché è proprio della natura
della ragione concepire le cose sotto specie di eternità […] appartiene alla natura della
Mente anche concepire l’essenza del Corpo sotto specie di eternità […]; questo potere di
concepire le cose sotto specie di eternità non appartiene, dunque, alla Mente se non in
quanto essa concepisce l’essenza del Corpo sotto specie di eternità».
[42] Ivi, IV, 47.
[43] Questa autoproduzione è anche il fondamento dell’amor intellectus Dei che consiste
in una comprensione chiara e distinta di se stessi, comprensione che rimanda dunque
all’idea di Dio come causa: cfr. B. Spinoza, op. cit., V, 15 e 32. Su questo punto cfr. anche
Löwith, op. cit., p. 62.
[44] E. Balibar, Spinoza. Il transindividuale, Milano, Ghibli 2002
[45] G. Simondon, L’individuation psychique et collective, Paris, Aubier, trad. it. di. P.
Virno, Roma, DeriveApprodi 2001.
[46] E. Balibar, op. cit. p. 118, nota 34.
[47] Di A. Matheron cfr. soprattutto Individu et communauté chez Spinoza, Minuti, Paris
1968; di A. Negri il già citato L’anomalia selvaggia, ma anche gli altri saggi raccolti nel
volume Spinoza, cit.
[48] Il pensiero di Negri è passato, all’incirca verso la fine degli anni Settanta, da una
considerazione di carattere economico-politico a una trattazione della politica su base
ontologica. Il testo su Spinoza rappresenta il primo fondamentale passo in questa direzione
(per quanto già il ciclo di lezioni tenute a Parigi sui Grundrisse, pubblicate con il titolo
Marx oltre Marx, Milano, Feltrinelli 1978, apriva la strada ad una simile considerazione),
che verrà poi approfondita negli anni successivi ne Il potere costituente, Milano, SugarCo,
1992 e nei testi scritti in collaborazione con M. Hardt, Empire, Harvard University press
2000, trad. it. di A. Pandolfi, Milano, Rizzoli 2001 e Moltitude, Penguin press 2004, trad.
it. di A. Pandolfi, Milano, Rizzoli 2004.
[49] P. Cristofolini, Spinoza, l’individuo e la concordia, «Etica & Politica» vol. I, no. 1
2004, disponibile on line presso il sito Internet
http://www.units.it/etica/2004_1/CRISTOFOLINI.htm
[50] B. Spinoza, Tractatus politicus, trad. it. di P. Cristofolini, Pisa, ETS 2004, 11.1.
[51] I due testi di Hardt e Negri sono in realtà molto complessi e le analisi che in essi si
trovano sono molto più articolate di quanto non appaia dalla sintesi che sono costretto a
farne. Su temi quali la moltitudine, la produzione immateriale e i loro rapporti la
bibliografia è sterminata. Gli studiosi italiani si distinguono però per l’acutezza e la
radicalità delle analisi. Cfr., oltre ai testi di Negri citati, P. Virno, Grammatica della
moltitudine, Roma, DeriveApprodi 2002 e C. Marazzi, Il posto dei calzini. La svolta
linguistica dell’economia e i suoi effetti sulla politica, Torino,Boringhieri 1999.
[52] Alain Badiou è il filosofo contemporaneo che ha insistito con maggior forza su questo
aspetto della filosofia, a partire dal quale è andato costruendo una critica del concetto
stesso di filosofia politica. Cfr. il suo Abrégé de métapolitique, Paris, Seuil 1998, trad. it. di
M. Bruzzese, Napoli, Cronopio 2001.