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CAPITOLO TERZO

Storia politica delle istituzioni fiorentine

Combinando materiali diversi, è possibile ricostruire il giudizio di


Machiavelli sugli ordinamenti di Firenze, secondo la seguente scan-
sione:

cap. 3 § 1 1215-1298 lotte tra nobili IF II.3-15


§2 1298-1353 lotte tra popolo grasso e nobili IF II.16-42
§3 1353-1393 lotte tra i grandi popolani e i minori IF III.2-24
§4 1393-1434 repubblica ottimatizia IF III.25-IF IV e DFR
§5 1434-1492/94 stato mediceo IF V-VIII e DFR
cap. 4 § 1 1492/94-1512 repubblica LCS, L, Decennali, D, DFR
§2 1512-1527 ritorno dei Medici P, D, L, AG, DFR

1. Nelle Istorie, l’inizio è in medias res: “erano in Florenzia, intra le


altre famiglie, potentissime Buondelmonti e Uberti; appresso a que-
ste erano gli Amidei e i Donati” (IF II.3, 195). La ricostruzione della
storia è collocata in una circostanza specifica, configurata come uno
stato di divisione e tensione, rimarcato dal potentissime. All’interno
della divisione familistica della politica fiorentina, il desiderio della
“vedova e ricca” Donati di accasare la figlia con Buondelmonte Buon-
delmonti è costretto a un’accelerazione esecutiva perché “il caso fece
che a messer Buondelmonte si maritò una fanciulla degli Amidei”.
Agendo nell’intervallo tra il fidanzamento e le nozze (lo spazio vuoto
dell’occasione), la Donati pensò di “perturbarle” adescando l’uomo
(ivi 196). Questa scena è la nota fondamentale delle Istorie, perché
evoca la centralità degli appetiti delle parti, che già si frammentano
in fazioni (secondo una tendenza presente in tutta l’opera), nelle fac-
cende cittadine e, al contempo, la forma che la struttura conflittuale
del reale assume negli individui. La città non è divisa solo in fazioni
che lottano per beni privati, ma ogni individuo è in se stesso diviso tra
desideri diversi che ne condizionano i movimenti.
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 61

Buondelmonti, infatti, fu ammaliato dalle grazie della giovane Do-


nati, dopo che la madre “gliene fece vedere”. E ciò provocò una de-
viazione (clinamen) del suo percorso, perché decise di sposarla abban-
donando la fanciulla degli Amidei con la quale si era precedentemente
impegnato, senza pensare “alla fede data, né alla ingiuria che faceva
a romperla, né ai mali che dalla rotta fede gliene potevano incontra-
re”; mali che apparvero subito, perché “questa cosa, [...] riempié di
sdegno la famiglia degli Amidei e quella degli Uberti”, provocando
la formazione di due nuove fazioni, i Buondelmonti e i Donati da
una parte, gli Amidei e gli Uberti dall’altra, a cui seguì l’assassinio di
Buondelmonti mentre passava “il fiume sopra uno caval bianco [...]
a piè del ponte, sotto una statua di Marte” (cfr. ivi 196-197). Si noti
la corrispondenza istituita tra i due passaggi contingenti1 di Buondel-
monti: il primo, davanti alla casa della vedova Donati, gli portò una
moglie; il secondo, sul Ponte Vecchio, la morte. I due transiti sono
emblematicamente connessi al fluire impassibile del fiume, sulle cui
rive Firenze era stata fondata e che, unitamente all’insegna di Marte,
ricorda Eraclito.
Questa sequenza insiste sulle trasformazioni dei tempi e sulle
loro interrelazioni. La prevedibile linearità del tempo delle conven-
zioni sociali fiorentine e cristiane (matrimonio combinato) è alterata
da un’altra temporalità (quella dei desideri della vedova Donati e di
Buondelmonti): l’incontro tra questi tempi produce una biforcazione:
la scelta della sposa. Compiendola, si mette in moto una dinamica che
trasforma radicalmente e imprevedibilmente la situazione di partenza
deviando dal corso temporale previsto e producendone uno nuovo.
La nuova divisione, frutto del tradimento di Buondelmonti, cui seguì,
come ritorsione, il suo assassinio, e del desiderio delle due Donati, fu
l’incontro tra desideri privati, convenzioni sociali, convenienze poli-
tiche e pratiche ritenute immorali. L’incontro rompe la congiuntura
precedente e genera una divisione che ridisloca le parti già esisten-
ti in una nuova disposizione, mutandone, al contempo, le caratteri-
stiche. Evidenziando gli interessi meramente privati che muovono i
comportamenti di questi personaggi, Machiavelli mostra che la cecità
derivante da tale ottica, conduce alla “rovina del vivere libero” (cfr.
D I.7, 51): “il passaggio dalla lotta per gli ‘onori’ a quella per la ‘roba’

1 Passaggi che restano tali anche nella storia, perché non ci sono sempre motivi che spiega-
no, magari ex post, l’andamento delle cose come un destino, una provvidenza, un telos o
un’astuzia della ragione.
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[è una] causa della degenerazione del fenomeno conflittuale” (Del


Lucchese 2001, 75), e “gli uomini stimano più la roba che gli onori”
(D I.37, 185).
Firenze è lacerata dai diversi e privati, originari e ineliminabili,
desideri delle fazioni, delle famiglie e degli individui che la compon-
gono. La sua esemplarità, dunque, configura un’aporia: nella città, le
parti sono originarie, ma le parti sono fonte di rovina per la città. La
politica è lotta tra parti e la vita della città, appesa all’esito di questa
lotta, è, quindi, sempre sull’orlo della rovina. Firenze, però, vive gra-
zie a tutto questo, perché una città capitalistico-mercantile può esi-
stere e durare solo in questa tempesta. Firenze è esempio del nuovo e
richiede un sapere del tutto nuovo: il mondo antico è svanito e quello
che l’ha sostituito non è affrontabile solo col sapere accumulato nel
passato. È allora possibile che in una tale città la politica, cioè l’inevi-
tabile scontro tra le parti, non conduca sempre sull’orlo della rovina?
Esiste una “virtù della disunione”, che renda il “conflitto civile [...]
motore di uno Stato libero e potente” (Lefort 1978, 232)?
Torniamo alle Istorie. La vendetta “divise tutta la città” formando
due fazioni che si combatterono a lungo “senza cacciare l’una l’altra”,
alternando tregue e scontri (cfr. IF II.3, 197-198). Tale situazione fu
l’addentellato per l’intervento di un’altra forza, con la quale le parti
guelfe e ghibelline, già esistenti all’esterno, entrarono in città (cfr. IF
II.4). Il vuoto tra le fazioni fiorentine favorì l’inserimento di Federi-
co II che, cercando appoggi in Toscana “per essere re di Napoli” e
accrescere le sue forze “contro alla Chiesa” (ivi 198), appoggiò gli
Uberti, radicalizzando e trasformando la natura della divisione fioren-
tina, nella quale, morto l’imperatore (13 dicembre 1250), gli “uomini
di mezzo” produssero “la cosiddetta ‘costituzione di primo popolo’”
(cfr. Cabrini 1985, 46-59), riappacificando la città e favorendo la parte
guelfa.
Identificati col popolo grasso, “una classe intermedia fra i nobili da
una parte e gli artigiani, i piccoli mercanti e i lavoratori dall’altra”, il
cosiddetto popolo minuto (cfr. Fiorini, 129), non erano certo imparzia-
li o neutrali, ma avevano “più credito con il popolo [ed] essendo uni-
ti, parve loro tempo da potere pigliare forma di vivere libero e ordine
da potere difendersi, prima che il nuovo imperatore acquistasse le for-
ze” (IF II.4, 199-200). L’azione degli uomini di mezzo istituì ordini a
loro congeniali, in grado di controbilanciare il potere dei nobili, senza
neutralizzare le lotte, ma eleggendole a motore del governo. Così va
intesa la nomina dei “due giudici forestieri”, il “Capitano del popo-
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lo” e il “Podestà”, che dà a Firenze “l’aspetto di due repubbliche, il


Comune e il Popolo”, in cui “la nobiltà e il popolo stanno di fronte
sempre pronti a combattersi, smaniosi di soverchiarsi e di escludersi a
vicenda, [avendo] eserciti, consigli [e] insegne a parte” (Fiorini, 130).
Leggi e armi, dunque, “perché niuno ordine è stabile senza prove-
dergli il difensore” (IF II.5, 201): “con questi ordini militari e civili
fondarono i Fiorentini la loro libertà” (IF II.6, 202).
Importante è il significato che Machiavelli attribuisce alla figura
del Capitano del popolo. Mentre in Discorsi, I.49 era visto ancora “in
una linea di continuità perniciosissima con i ‘vecchi ordini’, che trae-
vano origine dallo stato di originaria servitù della città, [...] nelle Isto-
rie, scomparso ogni accenno alla pesante eredità dell’origine ‘serva’
di Firenze e al rapporto tra vecchi e nuovi ‘ordini’, la ‘costituzione di
primo popolo’ emerge come un fatto completamente nuovo” (Cabrini
1985, 58), in coerenza col riconoscimento della virtù dei fiorentini
(cfr. IF II.5, 201-202), che si esplica nella resistenza al potenziale di-
sgregativo delle lotte tra fazioni attraverso l’istituzione di ordini po-
polari. L’apparizione sulla scena politica del popolo grasso, capace di
unire, pur senza unificare, il panorama bipolare delle forze in campo,
fa del 1250 il crinale della storia di Firenze. Un popolo storicamente
borghese, che non è elemento di sintesi ma forza che s’inserisce atti-
vamente nella lotta tra le fazioni, di cui riesce a convogliare gli impeti
in una direzione comune a esso conveniente senza neutralizzare lo
scontro. La ‘mediazione’ del popolo grasso, infatti, è l’imposizione
all’intera città di un ordinamento tagliato su misura per sé, di un’or-
ganizzazione che lo presenta e lo costituisce come forza politica della
città, nella quale è affiancato agli ordini nobiliari come un contrappe-
so; i “dodici cittadini”, gli “Anziani” (IF II.5, 200), sono scelti tra il
popolo e sono solo “il magistrato supremo del popolo e un Consiglio
che sta attorno al Capitano” (cfr. Fiorini, 131). Il popolo grasso è una
parzialità che, lottando, ha vinto e quindi imposto la propria forma
di ordinamento, che non è unione ma divisione che ordina le forze
esistenti in una prospettiva, la cui durata dipende dalle lotte dentro la
congiuntura, che esalta e convoglia le scissioni verso il perseguimento
di un bene comune quale risultante, sempre provvisoria e rettificabile,
della combinazione tra “disunioni sociali e antinomie etiche” (Bar-
buto, 9). Il popolo grasso produsse una realtà che prima non c’era e
che durò finché fu in grado di conservarla ricreandone la necessità.
L’interesse del popolo grasso stabilì l’ordine delle priorità dentro la
città attraverso il particolarismo, la chiave con la quale ordinò la realtà
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lasciandone inalterata la frammentazione, ma disponendola in un qua-


dro che tentò di governarla mutando la relazione tra le parti e, quindi,
la loro natura.
La “prima divisione” (IF II.2, 195) indica l’ordinamento del po-
polo grasso: “divisono [...] la città in sei parti...” (IF II.5, 200); una
divisione diversa da quella tra le fazioni, che genera lotte ingoverna-
bili, perché dà luogo a lotte governabili. La città si congiunge quan-
do si divide, ossia quando riconosce la propria intima scissione e si
organizza attorno a essa, articolandosi in relazioni che dispongono le
parti, sempre connotate politicamente e mai sostanzialisticamente, in
un ordine, anche gerarchico ma consapevole della sua artificialità e,
dunque, dinamico e modificabile.
La libertà dei fiorentini, merito soprattutto dei Guelfi, fu fondata
“con questi ordini militari e civili”, e produsse l’acquisto “di autorità e
forze” che fecero diventare Firenze “capo di Toscana” e “intra le pri-
me città di Italia”: durò “dieci anni” (cfr. IF II.6, 202 e Fiorini, 134-
135). La malattia, il conflitto per beni privati, è qui momentaneamen-
te guarita adottando un ordinamento in cui le lotte sono incanalate,
attraverso appositi ordini, verso un bene comune: la prospettiva che
un soggetto particolare riesce a imporre e che ordina a un unico fine
il movimento complessivo dei beni privati, di fatto de-privatizzandoli.
L’ordinamento guelfo svanì perché i Ghibellini riuscirono a “ripi-
gliare lo stato” (IF II.6, 203) riproducendo la logica delle sette. Le lot-
te, costitutive di ogni ordine, lo rendono sempre a rischio, nonostante
gli sforzi e gli accorgimenti per conservarlo. I Ghibellini riformarono
gli ordini della città in base agli interessi della loro parte, riducendo
Firenze all’obbedienza di uno solo (Manfredi) e, “annullando i magi-
strati e ogni altro ordine per il quale apparisse alcuna forma della sua
libertà”, si fecero nemico l’“universale”2, creando le basi per la loro
“rovina” (cfr. IF II.7, 204-205 e D I.16). I Ghibellini, pur dando prova
di saper cogliere l’occasione, non riuscirono a gestire la vittoria, anche
se il loro governo durò “sei anni” (IF. II.9, 209). L’occasione è sempre
in rapporto stretto con l’immaginazione e con la capacità di calcolare

2 Qui l’“universale” non è solo il popolo grasso ma tutti i cittadini non nobili. Il popolo è la
figura instabile dell’ineliminabile scissione interna della città e la fonte della sua politica. Il
termine “universale” non indica mai tutti gli abitanti di un territorio, ma l’interezza di un
gruppo particolare, come, per esempio, i cittadini (cfr. Costa, I, 58), da cui sono esclusi: la
“plebe, composta di lavoratori non salariati, artigiani poveri, servi, domestici, apprendisti”
(Del Águila e Chaparro, 44-45) e le donne (cfr. almeno Pitkin; Aa.Vv. 2004b; Verrier in
Aa.Vv. 2004c, 383-398; Spackman in Aa.Vv. 2010, 223-238; per una lettura diversa: Ca-
vallo in Aa.Vv. 2007b, 123-148).
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 65

e tracciare una tendenza, con l’abilità di proiettare le potenzialità di


una contingenza nel futuro, di prevedere come l’agire su alcune delle
linee di forza possa ristrutturarla e indirizzarla nella direzione voluta.
L’errore consistette nel valutare tardivamente “che fosse bene guada-
gnarsi con qualche beneficio quel popolo che prima avevano con ogni
ingiuria aggravato” (cfr. IF II.8, 206-207) senza considerare che “una
repubblica o uno principe non deve differire a beneficare gli uomini
nelle sue necessitadi” (cfr. D I.32, 158). E, infatti, “quei rimedi, che
avendoli fatti prima che la necessità venisse, sarebbero giovati, facen-
doli di poi senza grado, non solamente non giovarono, ma affrettaro-
no la [loro] rovina” (IF II.8, 206).
L’agire nella città è sempre immerso nella fragilità del suo ‘fonda-
mento’, senza garanzie. Lo dimostra il “popolo vincitore”, che questa
volta non riuscì a costruire alcun ordinamento; non è dunque il popo-
lo in quanto tale a esser portatore del “bene della repubblica” (cfr. IF
II.9, 209), ma la sua abilità di muoversi nella contingenza delle lotte
che determinano dinamicamente una situazione, al pari di un esercito
durante una battaglia. Il popolo in quanto tale non è il fondamento
stabile della convivenza civile, perché è forza disomogenea e instabile
tra le altre, immersa nelle lotte e soggetta a cattiva immaginazione.
L’attenzione esclusiva ai propri interessi, l’incapacità di vederli in re-
lazione con quelli delle altre forze che determinano la situazione, è
l’allucinazione o malia propria della parzialità che, credendosi tutto,
non riesce a inserirsi attivamente nella contingenza e a governarne
l’imprevedibilità.
L’elezione al soglio pontificio di Giovanni Gaetano Orsini cambiò
le cose, e Machiavelli registra il nuovo clinamen interrompendo l’ap-
parente continuum della sua narrazione, frutto di continui incontri e
deviazioni, con una considerazione personale critica verso la politica
guelfa, fin qui indissociabile dall’elogio del popolo di Firenze: “i pon-
tefici temevano sempre colui la cui potenza era diventata grande in
Italia, ancora che fosse con i favori della Chiesa cresciuta, e perché
essi cercavano di abbassarla, ne nascevano gli spessi tumulti e le spes-
se variazioni che in quella seguivano; perché la paura d’uno potente
faceva crescere un debole; e cresciuto ch’egli era, temere, e temuto,
cercare di abbassarlo” (IF II.10, 211-212). Papa Niccolò III, infatti,
segnò l’inizio della “signoria papale”, con la quale “il pontefice diven-
tava automaticamente senatore di Roma a vita” (cfr. Mondin, 230):
una politica che Machiavelli denuncia, confermando quanto detto in
opere precedenti e l’impostazione polemica delle Istorie (cfr. almeno
66 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

P XI; D I.12; Dionisotti, 374, 377-378, 393-394), che non parlano solo
delle lotte interne a Firenze, ma vi partecipano.
Dopodiché, essendo “Firenze [...] in assai mala condizione, perché
la nobiltà guelfa era diventata insolente e non temeva i magistrati, [i]
capi del popolo” fecero rientrare i Ghibellini al fine di “frenare questa
insolenza” (IF II.11, 212). Dopo varie vicissitudini, una “nuova forma
di reggimento”, con i Priori “primo magistrato”, fu istituita nel 1282
(cfr. ivi 213), segnando “il momento in cui il governo di Firenze, con-
nettendosi strettamente alle Arti, acquista carattere di governo del po-
polo e di mercanti” e con ciò una “naturale tendenza a divenire ogni
giorno più esclusivo” (cfr. Fiorini, 152). Questo “magistrato”, infatti,
“fu cagione, come col tempo si vide, della rovina dei nobili, perché
ne furono da il popolo per vari accidenti esclusi, e di poi senza alcun
rispetto battuti”. Il sopravanzare del popolo fu causato dai nobili stes-
si, i quali “nel principio acconsentirono [all’istituzione del priorato],
per non essere uniti, perché desiderando troppo torre lo stato l’uno
a l’altro, tutti lo perderono”. I “Priori”, poi chiamati “Signori”, con-
sentirono ai fiorentini di star “dentro quieti alcuno tempo” e la pace
interna alla città rese possibile l’espansione esterna; di conseguenza,
“crescendo la città di uomini e di ricchezze, parve ancora di accrescer-
la di mura” (cfr. IF II.11, 214-215): un augumento.
Cabrini rileva che “con il capitolo XII si apre un’ulteriore fase di
lotte e di contrasti [ed] emerge, per la prima volta nell’opera, [il] tema
dell’inevitabilità delle lotte tra ‘nobili’ e ‘popolo’, che costituisce una
sorta di ‘filo rosso’ nell’ambito della complessa e variamente atteg-
giata meditazione machiavelliana” (1985, 95). In questo quadro, una
divisione più profonda viene a galla, perché, se
le guerre di fuori e la pace di dentro avevano come spente in Firenze le parti
ghibelline e guelfe; restavano [...] accesi quegli umori i quali naturalmente
sogliono essere in tutte le città intra i potenti e il popolo: perché volendo il
popolo vivere secondo le leggi, e i potenti comandare a quelle, non è possi-
bile cappino insieme (IF II.12, 215).

Solo le guerre esterne (cfr. DFR 626) costrinsero ad accantona-


re momentaneamente le divisioni interne, per potersi difendere dai
nemici che minacciavano la città. La tregua tra le parti, infatti, durò
il tempo della guerra, finita la quale riemersero gli umori. Sotto la
divisione contingente tra Guelfi e Ghibellini spunta quella necessaria
tra gli umori, anche se da questo punto in poi la teoria degli umori
comincia a vacillare. Ciò che sembrava naturale nel paradigma-Roma
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 67

– la differenza tra coloro che vogliono dominare e coloro che non


vogliono essere dominati – sembra perdere nettezza nel paradigma-
Firenze. Se a Roma la separazione tra “nobili” e “ignobili” (cfr. D I.5,
38) – tra patriziato e non nobili, la plebe – era chiara (o postulata tale
da Machiavelli o ritenuta tale da altri, tra cui i suoi amici degli Orti
Oricellari: cfr. Gilbert 19772, 15-66), a Firenze, grazie al popolo, è più
confusa (cfr. Borrelli e Visentin in Aa.Vv. 2012, 35-53, 278-283). Gli
umori diventano trasversali, non più in grado, supposto l’abbiano mai
fatto, di identificare un’attitudine determinata.
L’oscillazione del termine “popolo”, infatti, è notevole. Solo nei
capitoli delle Istorie sin qui analizzati è usato per designare: tutti i fio-
rentini (cfr. dedica, 85; proemio, 89); genericamente i non nobili (cfr.
proemio, 91; II.4, 199; II.14, 219-220) o i non potenti (cfr. II.12, 215);
il popolo grasso (cfr. II.8, 206; II.9; II.11; II.13; II.14, 220); una sola
parte, “il popolo guelfo” (II.7, 205). Affianca quest’ambiguità quella
ancor più ampia tra popolo sinonimo di universale (ivi 203) e parte
distinta dalla plebe (proemio, 91). Ma il culmine si ha quando il popo-
lo grasso si divide al suo interno sul trattamento da riservare ai nobili
(cfr. II.14, 221): in questo caso, non solo emerge una nuova divisione,
ma anche la volontà di comandare (cfr. poi III.5, 306), che avrebbe
dovuto essere l’umore ‘naturale’ della sola nobiltà.
Il popolo mostra la sua natura di parte nel gioco degli interessi della
città, che si ‘fonda’ proprio sulla continua scissione del popolo. Ma-
chiavelli comincia a mettere alla prova non tanto l’idea che vi siano
due umori opposti, ma che corrispondano a parti precise e stabili: il
popolo, che vuol vivere secondo le leggi, e i potenti (non più solo no-
bili), che vogliono comandare a quelle. Il passaggio al criterio pretta-
mente politico della “potenza” materiale, antiaristotelica, lo costringe
a rivedere la definizione di popolo. La divisione nuova e più profon-
da, infatti, è tutta interna al popolo grasso (cfr. IF II.14, 221).
Con l’istituzione del “gonfaloniere di giustizia” (cfr. IF II.12, 216),
infatti, le Arti cominciarono a introdurre “nuove leggi per esclude-
re i grandi [...] dagli uffici e porli in condizione di inferiorità civile”
(Fiorini, 155). L’opposizione dei nobili, in particolare guelfi, si fece
subito sentire, portando il popolo, la parte che ora voleva dominare,
a inasprire la propria politica. Così, in poco tempo, Firenze precipitò
nei “medesimi disordini” di sempre (cfr. IF II.12, 217). Non sapendo
cosa fare, i popolani chiamarono “Giano della Bella, di stirpe nobilis-
simo, ma della libertà della città amatore”, il quale, assieme “ai capi
delle Arti”, la riformò (cfr. IF II.13, 217), rinforzando militarmente
68 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

il Gonfaloniere, inasprendo gli obblighi dei nobili, le pene per i rei


e sancendo che “la pubblica fama bastasse a giudicare” (un provve-
dimento che richiama la perniciosità delle calunnie denunciata in D
I.8): così, “per queste leggi, le quali si chiamarono gli Ordinamenti
della giustizia, acquistò il popolo assai reputazione, e Giano della Bel-
la assai odio; perché era in malissimo concetto dei potenti, come di
loro potenza distruttore, e i popolani ricchi gli avevano invidia, perché
pareva loro che la sua autorità fosse troppa”. Alla prima occasione, in-
fatti, lo costrinsero a “volontario esilio” (IF II.13, 217, 219; cors. mio).
Machiavelli “accentua l’idealizzazione del personaggio: il buon cit-
tadino, leale e coraggioso, diviene figura esemplare di un nobile agire
fatalmente sconfitto dagli odi di parte e dalle dolenti condizioni della
città” (Cabrini 1985, 110), ma la forzatura indica l’impossibilità che la
sua personale virtù fosse sufficiente a conseguire un risultato positivo
per la città e sottolinea che il voler vivere secondo le leggi, a volte, è
appannaggio anche dei nobili.
Dopo la dipartita di Giano, “la nobiltà salse in speranza di ricupe-
rare la sua dignità; e giudicando il male suo essere dalle sue divisioni
nato, si unirono i nobili insieme [chiedendo] alla Signoria [di] tem-
perare in qualche parte la acerbità delle leggi” fatte contro di loro.
Fu così che tra il “desiderio dei nobili e il sospetto del popolo, si
venne alle armi” (IF II.14, 219-220). In realtà, la guerra fu scongiu-
rata, “mentre che l’una e l’altra parte alla zuffa si preparava”, da uno
schieramento trasversale: “alcuni, così popolari come nobili, e con
quelli certi religiosi di buona fama, si messono di mezzo per pacificar-
li, ricordando ai nobili” che la ragione delle leggi contro di loro stava
nella loro “superbia” e nel loro “cattivo governo”; che prendere le
armi ora significava “volere rovinare la patria loro” e aggravare le loro
condizioni; infine, “che il popolo, di numero, di ricchezze e di odio
era molto a loro superiore”; al contempo, ricordarono al popolo che
non si poteva “volere sempre l’ultima vittoria”; che “non fu mai savio
partito fare disperare gli uomini, perché chi non spera il bene non
teme il male”; infine, che era la nobiltà ad avere “nelle guerre quel-
la città onorata, e però non era bene, né giusta cosa, con tanto odio
perseguitarla”. Consigliarono, dunque, al popolo di mitigare le leggi
contro i nobili ed evitare la guerra, il cui esito è sempre imprevedibile,
nonostante le forze a loro favore, “perché molte volte si era veduto
gli assai dai pochi essere stati superati”. Ma il popolo era diviso al
proprio interno, perché c’erano “pareri diversi”: chi voleva lo scontro
prima che i nobili si rafforzassero troppo, sulla base della convinzione
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 69

che non si sarebbero mai accontentati di leggi più miti e che “la su-
perbia loro era tanta che non poserieno mai, se non forzati”; chi, ed
erano “molti altri, più savi e di più quieto animo”, credeva, invece,
“che [ai primi] il temperare le leggi non importasse molto, e il venire
alla zuffa importasse assai”. Prevalse l’opinione di questi ultimi, i qua-
li “providdono che alle accuse dei nobili fossero necessari i testimoni”
de visu (cfr. ivi 220-221).
A questo punto, Machiavelli si trova immerso nella sequela di di-
visioni di cui aveva parlato nel proemio delle Istorie e che gli fa venir
meno la corrispondenza rigida tra il popolo e il non voler essere né
comandati né oppressi, perché ciò che contrassegna la storia di Firen-
ze è la divisione del popolo tra chi vuol dominare e chi non vuol esse-
re dominato. Una scissione continua e tutta politica. In altri termini,
l’umore di non voler essere dominato né dominare non è l’essenza del
popolo, ma è chi agisce secondo il desiderio di non voler dominare né
essere dominato a potersi fregiare del nome popolo3.
Il periodo storico di cui Machiavelli sta parlando è, per Firenze ma
non solo, un’epoca di grandi trasformazioni interne ed esterne e, dun-
que, di cambiamento di confini: nella città si affacciano con prepoten-
za nuove figure, i mercanti, che chiedono di partecipare alla vita po-
litica in ragione della loro ricchezza. La civitas si modifica e il popolo
comincia a poco a poco ad alzare la voce e a pretendere visibilità. Ma
se il popolo non può più essere escluso dalla città, la sua inclusione è
problematica, perché esso si divide continuamente essendo una classe
basata su interessi privati diversi da quelli dei nobili: i vari modi in cui
si materializza la ricchezza. In questa situazione, il pericolo della ten-
tazione tirannica è sempre presente nel desiderio di una parte di farsi
tutto, per governare fuori dalle leggi, come avverrà col Duca d’Atene
(cfr. IF II.33-37), perché “quando uno popolo si conduce a fare que-
sto errore, di dare reputazione a uno perché batta quelli che egli [il

3 Il popolo sembra così “la fonte di una politica che non ha per telos l’istituzione di una
forma politica”, perché essendo “caratterizzato da ‘un desiderio di non essere dominato’,
il suo agire politico eccede sempre la sua rappresentazione (figurabilité) in una forma di
dominazione politica” e, dunque, la sua prestazione politica specifica è “decostruzione
piuttosto che costruzione di forme di governo” (cfr. Vatter 2003, 156-157). Interpretare
la politica del popolo solo come sottrazione non mi pare convincente, perché il problema
del popolo non è solo quello di esercitare la sua forza decostituente, ma far sì che questa
sia anche forza costituente di un ordinamento adeguato. Il desiderio del popolo non è solo
reattivo o resistente rispetto a quello dei grandi, ma anche propositivo e costruttivo, per-
ché mira al vivere libero e civile. Di sicuro, comunque, il popolo non è, per Machiavelli,
solo “passivo” (cfr. Foucault, 277), neanche nel Principe.
70 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

popolo] ha in odio, e che quello sia uno savio, sempre interverrà che
diventerà tiranno di quella città” (D I.40, 206).
Ma come può la città reggersi su una continua scissione? Se, da
un lato, le lotte costituiscono l’ossatura politica della città e gli ordini
da esse derivano e attorno a esse si dispongono, dall’altro, il prezzo
da pagare è un’instabilità permanente, che diventa sempre più eva-
nescente pensare di scongiurare tramite l’artificio di una costituzione
modellata su quella di Roma.
L’idea machiavelliana del misto non ha più nulla a che fare con
l’antichità (cfr. Taranto 2006, 59-60): “la summa del discorso politico
di Machiavelli è la scoperta dell’impossibilità che a Firenze si dia una
costituzione mista” in senso polibiano, perché è “impossibile, nello
sviluppo moderno del mercato” (Negri, 106). Il mescolamento degli
umori, però, non più assegnabili a forze sociali determinate, fornisce
una nuova prospettiva, perché la “nozione d’umore interviene come
una sorta di piattaforma girevole (plaque tournant), [che] permette di
sovvertire il quadro di pensiero definito dall’ideale della costituzione
mista, ma anche di conservare la questione del mescolamento (mé-
lange) come filo conduttore della riflessione sulle istituzioni libere e
durature” (Gaille-Nikodimov in Aa.Vv. 2004c, 161).
Gli umori si stanno riducendo, per effetto dell’ascesa della bor-
ghesia, a uno solo, tanto per i nobili quanto per il popolo: “non essere
né alle leggi né agli uomini sottoposti”, quindi dominare e non essere
dominati, con “rare” eccezioni (cfr. IF IV.1, 374). I desideri che ne
derivano, però, sono molteplici – e qui comincia il passaggio da gli
umori e le parti agli “umori delle parti” (IF IV.26, 427). A Firenze non
c’è più o comunque si sta dissolvendo la soggezione a una gerarchia
mascherata di essenze, per cui, nel mondo antico, il servus poteva,
tutt’al più, sperare di non essere dominato, diventando un libero, ben
sapendo di non poter mai diventare dominus. Nel mondo moderno
vengono meno le essenze e con esse gli umori opposti dei nobili e del
popolo4. Sono i desideri dei singoli, ora, a diventare il motore della
storia, e anch’essi, nella loro infinita varietà, sono irriducibili a Uno. Il
misto, allora, non è più la coesistenza al governo delle parti, come nei
Discorsi, ma il continuo formarsi, distruggersi e rinnovarsi delle parti,
l’incessante rifrangersi dell’unico umore in parti in lotta per soddisfa-

4 La presenza dei due umori in Principe IX è coerente con questa prospettiva, perché il IV
libro delle Istorie descrive proprio l’ordinamento del principato mediceo che si configura,
di là dalle apparenze, come un tentativo retrogrado, di resistenza e conservazione, per
ingabbiare l’ascesa della borghesia entro le maglie feudali del paternalismo.
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 71

re i propri desideri, come prospettato nel Discursus. L’unico umore si


riflette in infiniti desideri che mirano tutti allo stesso scopo e, dunque,
devono tutti trovare la via per sfogarsi possibilmente in modo “ordi-
nario” e non “straordinario” (cfr. almeno D I.4 e I.7). La pace non è
fine delle lotte ma continua applicazione delle forze in campo entro
un ordinamento, il cui fine non è neutralizzarle, ma impedire l’even-
tualità di una degenerazione tirannica.
Gli ordini del 1298 non eliminarono i dissapori tra nobili e popolo,
e “benché tra i nobili e il popolo fosse alcuna indignazione e sospetto,
nondimeno non facevano alcuno maligno effetto, ma unitamente e
in pace ciascuno si viveva”: ancora una divisione che unisce; proprio
per questo, “mai fu la città nostra in maggiore e più felice stato che
in questi tempi”, tanto che la “pace, se dalle nuove inimicizie dentro
non fosse stata turbata, di quelle di fuori non poteva dubitare”: la
potenza militare di Firenze era cresciuta al punto tale che non teme-
va più né “lo Imperio, né i suoi fuorusciti, e a tutti gli stati di Italia
avrebbe potuto con le sue forze rispondere” (cfr. IF II.15, 222-223).
Il male venne ancora una volta dall’interno, perché “erano in Firenze
due famiglie, i Cerchi e i Donati, per ricchezza, nobiltà e uomini po-
tentissime” (IF II.16, 223): incipit che richiamando quello di Istorie
II.35 introduce a una nuova divisione.

2. Perfino pace e felicità non garantiscono stabilità, “essendo tutte


le cose degli uomini in moto, e non potendo stare salde” (D I.6, 48).
I “maligni umori” (IF II.16, 223), che allignano nell’animo uma-
no, furono solo sollecitati da un’altra vicenda familiare (come già nel
1215) svoltasi a Pistoia. La città era divisa in due fazioni, i Bianchi e i
Neri che, non riuscendo a ricomporre i loro dissidi, cercarono alleati
a Firenze: i Neri presso i Donati e i Bianchi presso i Cerchi; fu “que-
sto umore, [che] lo antico odio tra i Cerchi e i Donati accrebbe” (IF
II.17, 225). Come un germe venuto da fuori, la divisione pistoiese
attecchì e destabilizzò Firenze, a dimostrazione di come, atomistica-
mente, un incontro possa disaggregare.
L’elemento che segna la differenza rispetto all’incipit di Istorie II.3
è la differente natura sociale dei Cerchi e dei Donati: i primi, “d’ori-
gine popolare, ma fatti ricchissimi dalle mercature”; i secondi una
“casata di antico sangue nobile” (cfr. Fiorini, 168-169). Rispetto alle

5 Ma si veda anche: IF VI.9, 551, dove il termine potentissime è usato con riferimento a due
“famiglie” di Bologna; IF VII.2, 623, dove si legge di “due cittadini potentissimi”. Firenze
è l’esempio di molte città (cfr. Raimondi, in Aa.Vv. 2006b, 124).
72 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

potentissime famiglie che dominavano la scena nel 1215, ora, intorno


al 1300, la lotta non è più tutta interna alla nobiltà, ma tra una nobiltà
acquisita grazie alle ricchezze provenienti dalla mercatura (i Cerchi) e
una di lunga data (i Donati) meno ricca della prima. Il baricentro poli-
tico si è spostato e per quale fazione Machiavelli parteggi si compren-
de dal fatto che ha invertito, e non “per capriccio”, “la responsabilità
dell’accendersi della zuffa”, attribuendola ai Donati (cfr. Fiorini, 174;
Cabrini 1985, 138-139).
La divisione di Pistoia dilagò a Firenze, cosicché “tutta la città
si divise” tra la parte “bianca” (Cerchi/Ghibellini) e la parte “nera”
(Donati/Guelfi), amplificandosi a tal punto che neanche papa Bonifa-
cio VIII riuscì a porvi rimedio (cfr. IF II.17, 226-227). Ciascuna parte
rimase “malcontenta” (IF II.20, 231) e i tumulti si protrassero fino
al 1304 “quando Firenze da il fuoco e dal ferro [fu] perturbata” (IF
II.21, 235). La vicenda di Corso Donati, che tentò senza riuscirci di
“diventare arbitro d’ambedue le parti” (ibid.) e che a causa del suo
desiderio tirannico fu ucciso nel 1308, chiude l’analisi delle lotte in-
terne tra Bianchi e Neri. Alla morte di “messer Corso”, infatti, “si
fermarono i tumulti” (IF II.24, 241) ma non i travagli di Firenze. L’in-
capacità delle due fazioni di trovare una soluzione ai loro dissidi – che
si sostanzia nell’inettitudine a “farsi amico il popolo” (il resto della
città) – lasciò Firenze momentaneamente pacificata, ma non stabile.
La discesa in Italia dell’imperatore Arrigo VII, infatti, rinfocolò la riva-
lità tra Guelfi e Ghibellini che, dopo una serie di traversie, a conferma
del fatto che è “naturale ai Fiorentini che ogni stato rincresca e ogni
accidente li divida” (IF II.25, 244), portarono, nel 1340, dopo un pe-
riodo di quiete cominciato nel 1328, a “nuove cagioni di alterazioni”
(IF II.32, 258).
La narrazione di Machiavelli, da Istorie II.16 a II.32, è scandita dal
ritmo costante “che sempre dopo uno accidente alcune leggi vecchie
si annullano e alcune altre se ne rinnovano” (IF II.28, 250), ma il bur-
rascoso periodo 1298-1340 è rilevante, più che per le deboli innova-
zioni dell’ordinamento, per il suo esser prodromo agli anni 1340-1346
e “alle vicende [...] forse più cruciali e scottanti della storia interna di
Firenze” (Cabrini 1985, 255; cfr. Istorie II.32-42). Gli ordinamenti,
però, furono il campo di tensioni dal quale si sviluppò la nuova fase di
alterazioni che condusse Firenze verso la tirannide, causa l’incapacità
di dirigere le lotte verso l’espansione della città.
Fu l’ambizione dei “cittadini potenti” (IF II.32, 258), i “popolani
grassi” (Fiorini, 225), a riportare “la guerra civile in Firenze” (Cabrini
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 73

1985, 256). Non contenti del dominio instaurato, vollero aumentarlo


dando “ogni autorità” a un capitano, creando le premesse per la rea-
zione nobiliare che, tramite una congiura (e si sa cosa Machiavelli ne
pensasse: cfr. P XIX; D III.6; IF VIII.1), cercò di “riformare lo stato”
della città chiamando alle armi il popolo che, chiaramente, non è quel-
lo grasso. I nobili furono sconfitti, ma questo non bastò ai “potenti”
di turno, i quali, “come fanno quasi sempre gli uomini, che quanto
più autorità hanno peggio la usano e più insolenti diventano, dove
prima era uno capitano di guardia che affliggeva Firenze, ne elessero
uno ancora in contado, e con grandissima autorità, acciò che gli uo-
mini a loro sospetti non potessero né in Firenze né di fuori abitare. E
in modo si concitorono contro tutti i nobili, ch’erano apparecchiati
a vendere la città e loro, per vendicarsi, e aspettando la occasione la
venne bene, e loro la usarono meglio” (cfr. IF II.32, 259-260, 262).
Concordo con la valutazione di Cabrini che legge in questo passo la
volontà machiavelliana di accusare “la totale insipienza politica, che
si coniuga con l’ambiziosa ‘insolenza’” dei governanti, piuttosto che
“giustificare o assolvere i nobili” (1985, 270). Valutazione coerente col
severo giudizio che chiude il II libro delle Istorie.
L’occasione fu la guerra contro Pisa per la signoria su Lucca che,
persa dai fiorentini, “fece il popolo [...] contro a quelli che gover-
navano sdegnare”. I “venti cittadini”, che allora “amministrava-
no” Firenze, elessero “nuovo capitano” Gualtieri di Brienne, Duca
d’Atene, nella speranza che riuscisse a “frenare o tôrre le ragioni
del calunniarli”. I “grandi”, cioè i nobili, “vivevano malcontenti, e
avendo molti di loro conoscenza con Gualtieri [...] pensarono che
fosse venuto tempo da potere, con la rovina della città, spegnere lo
incendio loro” (cfr. IF II.33, 264-265) ossia “porre fine agli odi che
divampavano nell’animo loro contro il popolo” grasso, che li aveva
bistrattati dopo la sconfitta del 1340 (cfr. Fiorini, 234). Il desiderio
di vendetta dei nobili vide in Gualtieri lo strumento per realizzarsi e,
come sempre accade col desiderio, costoro “non intesero i difetti che
sotto questa poca comodità si nascondevano” (IF II.28, 251). Guida-
ti dalla voglia di vendicarsi e disposti a tutto, anche alla “rovina della
città”, pur di ottenere soddisfazione, i nobili, “giudicando non avere
altro modo a domare quel popolo che li aveva afflitti che ridursi sotto
uno principe”, resero possibile che il Duca “acquistasse il principa-
to”. Alle motivazioni nobiliari, legate ai soprusi subiti da parte dei
governanti, che con la loro insolenza avevano ravvivato il desiderio
nobiliare e, di conseguenza, armato il braccio del Duca d’Atene, si
74 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

aggiunsero anche quelle di “alcune famiglie popolane [che], gravate


di debiti, non potendo del loro, desideravano di quel d’altri ai loro
debiti soddisfare” (cfr. IF II.33, 265). Il movente privato, come si
vede, è trasversale e, pur nelle differenze che lo sostanziano, fautore
di un unico risultato: la rovina.
L’incomponibilità tra gli appetiti della nobiltà e della borghesia
nascente aveva portato guerre intestine, oltre alla sconfitta in quelle
esterne, conducendo la borghesia ad accanirsi contro la nobiltà, susci-
tandone la reazione. Non a caso, Machiavelli sferza “grandi e popolo
in una pari condanna” (cfr. Cabrini 1985, 276 e n. 46): “gli uomini
sono più lenti a pigliare quello che possono avere, che non sono a
desiderare quello a che non possono raggiungere” (IF II.31, 257, che
rinvia a D I.37, 177-178).
Gualtieri non si lasciò sfuggire l’occasione, mosso dal suo “ambi-
zioso animo [e dal] desiderio del dominare; e per darsi reputazione
di severo e di giusto, e per questa accrescersi grazia nella plebe, quelli
che avevano amministrata la guerra di Lucca perseguitava; [ad alcuni]
tolse la vita, e molti in esilio e molti in denari ne condannò” (IF II.33,
265). Comincia così la tirannide del Duca d’Atene che si abbatte su
Firenze, perché albergava nei desideri di coloro che la abitavano e
ambivano governarla.
Le “esecuzioni assai i mediocri cittadini sbigottirono” (IF II.34,
265), cioè “i popolani grassi che sono di mezzo [mediani] fra i grandi
e il popolo minuto, che qui Machiavelli, come anche sopra, compren-
de in uno con la plebe” (Fiorini, 236), recando soddisfazione “solo
ai grandi e alla plebe [...]: questa perché sua natura è rallegrarsi del
male, quelli altri per vedersi vendicare di tante ingiurie dai popolani
ricevute”. La popolarità e il seguito del Duca crebbero a tal punto
che chiese ai governanti gli fosse concessa, per il bene della città, la
“signoria libera [...], poi che tutta la città vi consentiva”; ma gliela
negarono. Il Duca allora chiamò il popolo in piazza e “i Signori” non
trovarono “altro rimedio che pregarlo” (cfr. IF II.34, 265-267).
La “preghiera” non ha riscontri storici, “è interamente machiavel-
liana” (Cabrini 1985, 282), e mette in bocca al portavoce dei gover-
nanti (i venti o Signori), prima svillaneggiati, una perorazione della
libertà repubblicana di Firenze sottoforma di summa contro la tiran-
nide. Ecco il testo per intero:
Noi veniamo, o signore, a voi, mossi prima dalle vostre domande, di poi
dai comandamenti che voi avete fatti per radunare il popolo; perché ci pare
essere certi che voi vogliate straordinariamente ottenere quello che per lo
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 75

ordinario noi non vi abbiamo acconsentito. Né la nostra intenzione è con


alcuna forza opporci ai disegni vostri; ma solo per dimostrarvi quanto sia
per esservi grave il peso che voi vi arrecate addosso e pericoloso il partito
che voi pigliate; acciocché sempre vi possiate ricordare dei consigli nostri,
e di quelli di coloro i quali altrimenti, non per vostra utilità, ma per sfoga-
re la rabbia loro, vi consigliano. Voi cercate fare serva una città la quale è
sempre vissuta libera; perché la signoria che noi concedemmo già ai reali
di Napoli fu compagnia e non servitù. Avete voi considerato quanto in una
città simile a questa importi e quanto sia gagliardo il nome della libertà, il
quale forza alcuna non doma, tempo alcuno non consuma e merito alcuno
non contrappesa? Pensate, signore, quante forze siano necessarie a tenere
serva una tanta città: quelle che, forestiere, voi potete sempre tenere, non
bastano; di quelle di dentro voi non vi potete fidare, perché quelli che vi
sono ora amici e che a pigliare questo partito vi confortano, come avranno
battuti con l’autorità vostra i nemici loro, cercheranno come possano spe-
gnere voi e fare principi loro. La plebe, in la quale voi confidate, per ogni
accidente benché minimo si rivolge: in modo che, in poco tempo, voi po-
tete tenere di avere tutta questa città nemica; il che fia cagione della rovina
sua e vostra. Né potrete a questo male trovare rimedio; perché quei signori
possono fare la loro signoria sicura che hanno pochi nemici, i quali o con la
morte o con lo esilio e facile spegnere; ma negli universali odi non si trova
mai sicurtà alcuna, perché tu non sai donde ha a nascere il male, e chi teme
di ogni uomo non si può assicurare di persona, e se pure tenti di farlo, ti
aggravi nei pericoli, perché quelli che rimangono si accendono più nello
odio e sono più parati alla vendetta. Che il tempo a consumare i desideri
della libertà non basti è certissimo: perché s’intende spesso quella essere in
una città da coloro riassunta che mai la gustarono, ma solo per la memoria
che ne avevano lasciata i padri loro la amavano, e perciò, quella ricuperata,
con ogni ostinazione e pericolo conservano. E quando mai i padri non la
avessero ricordata, i palazzi pubblici, i luoghi dei magistrati, le insegne dei
liberi ordini la ricordano: le quali cose conviene che siano con massimo
desiderio dai cittadini conosciute. Quali opere volete voi che siano le vostre
che contrappesino alla dolcezza del vivere libero, o che facciano mancare
gli uomini del desiderio delle presenti condizioni? Non se voi aggiugnessi
a questo imperio tutta la Toscana, e se ogni giorno tornassi in questa città
trionfante dei nemici nostri: perché tutta quella gloria non sarebbe sua, ma
vostra, e i cittadini non acquisterebbero sudditi, ma conservi, per i quali si
vedrebbero nella servitù aggravare. E quando i costumi vostri fossero santi,
i modi benigni, i giudizi retti, a farvi amare non basterebbero; e se voi cre-
dessi che bastassimo v’inganneresti, perché a uno consueto a vivere sciolto
ogni catena pesa e ogni legame lo stringe: ancora che trovare uno stato vio-
lento con un principe buono sia impossibile, perché di necessità conviene o
che diventino simili, o che presto l’uno per l’altro rovini. Voi avete dunque
a credere o di avere a tenere con massima violenza questa città (alla qual
cosa le cittadelle, le guardie, gli amici di fuori molte volte non bastano), o di
essere contento a quella autorità che noi vi abbiamo data. A che noi vi con-
76 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

fortiamo, ricordandovi che quello dominio è solo durabile che è volontario:


né vogliate, accecato da un poco di ambizione, condurvi in luogo dove non
potendo stare, né più alto salire, siate con massimo danno vostro e nostro di
cadere necessitato (IF II.34, 267-270).

Di là da contenuti specifici, riferibili a Principe e Discorsi,


l’affermazione che Firenze sia vissuta sempre libera è una chiara
forzatura retorica (cfr., infatti, IF II.30, 253 in merito ai rapporti coi
reali di Napoli) che, unitamente al patriottismo della memoria e dei
simboli, avrebbe forse dovuto ammansire il tiranno, prospettandogli
la difficoltà, se non l’impossibilità, di governare una città abituata a
essere libera (cfr. P V). Il discorso, però, per quanto giusto, non mosse
“lo indurato animo del duca” (IF II.35, 270), perché solo un vivere
libero e civile può costringere un tiranno a recedere dai suoi propositi.
Se l’inettitudine delle classi dirigenti fiorentine ebbe la responsabilità
di aver dato spazio al Duca, nondimeno, anche il discorso che si
misura col pericolo della tirannia diventa poco politico se, pur essendo
in grado di prevedere il corso degli eventi, non riesce a deviarlo.
Abbindolati dalle rassicurazioni del Duca (cfr. ivi, 270-271), il cui
discorso Machiavelli costruisce con proprie categorie (cfr. Cabrini
1985, 283-285), i governanti fiorentini fecero l’estremo tentativo di
arginarne l’ascesa concedendogli, “per uno anno, [...] la signoria”; ma
non bastò, perché il “popolo”, radunato in piazza, “gridò [...]: a vita!”.
Né un discorso né l’ordinamento sono sufficienti a impedire l’ascesa
di un tiranno di fronte alla volontà della “moltitudine”. La tirannide
di Gualtieri iniziò l’8 settembre 1342 quando, resa vitalizia la signoria,
s’impossessò di Palazzo vecchio corrompendo la guardia che avrebbe
dovuto sorvegliarne l’entrata, “con dolore e noia inestimabile degli
uomini buoni, e con piacere grande di quelli che, o per ignoranza o per
malignità, vi consentivano” (cfr. IF II.35, 271-272).
La tirannide o “potestà assoluta” (cfr. D I.25, 137) è sia la supre-
mazia di uno unitamente alla neutralizzazione della forza politica del-
le parti, come nell’esempio di Clearco (cfr. D I.16, 104-105), sia un
governo che non tiene conto delle leggi, come nel caso di Tarquinio
il Superbo (cfr. D III.5, 546): sempre uno che prova a diventare, e tal-
volta diventa, tutto. Questo fenomeno nasce “da troppo desiderio del
popolo d’essere libero, e da troppo desiderio dei nobili di comandare.
E quando essi non convengono a fare una legge in favore della libertà,
ma gettasi qualcuna delle parti a favorire uno, allora è che subito la
tirannide sorge” (D I.40, 206). A differenza della licenza o “anarchia”
(cfr. Rinaldi, I, 434 n. 113), che non designa più “tutti i governi… rei di
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 77

Polibio, oligarchia e demagogia” (ivi, 209 n. 18), perché in essa “non


si temevano né gli uomini privati né i pubblici, di qualità che, vivendo
ciascuno a suo modo, si facevano ogni dì mille ingiurie” (D I.2, 24), la
tirannide è governo di uno solo per il suo bene, di là dalle leggi; infatti,
è il “principato [che] facilmente diventa tirannico” (ivi, 19). Se, dun-
que, la licenza è la dissoluzione di ogni forma politica, perché ognuno
segue solo i propri desideri, la tirannide ha una forma, anche se non
ha “un ‘pedale’ che la sostenga, e perciò rovina presto, o [è] costretta
a mutarsi in un principato”, senza “realizzarsi nella sua purezza”, per-
ché solo “nelle città libere” e non in assoluto “la tirannide non ha, in
quanto tale, avvenire alcuno” (cfr. Sasso 1987-1997, II, 491, 481, 503).
Ogni forma politica è mista – anche nella tirannide, infatti, non tut-
te le parti sono soppresse – e le modalità della mescolanza non sono
mai identiche, dato che ognuna si distingue dalle altre per il tipo di
sbilanciamento che mette in atto. La tirannide combina più fattori: a)
solitudine del tiranno e monopolio del governo – coadiuvato da sud-
diti senza alcuna autonomia; b) assenza di leggi, perché l’unica legge è
la volontà del tiranno; c) perseguimento esclusivo degli interessi perso-
nali, cioè privati, del tiranno; d) uso sistematico della violenza e della
corruzione. La tirannide è una forma politica legata alla sola volontà di
uno e ai mezzi straordinari – la continua eccezione alle leggi – impiega-
ti per istituirla e conservarla. La sua politicità dipende dalla presenza
di una dimensione collettiva, i sudditi, il cui agire è un paradossale non
agire: un non fare nulla che non ostacola il tiranno.
La tirannide non si misura sulla durata, perché è una tendenza in-
trinseca alla politica, una via mai barrata per sempre, anche quando
sconfitta: il tentativo di semplificare il quadro politico, portandolo
verso il suo grado zero riducendo tutte le forze a uno per porre fine
alle lotte e all’instabilità; una tentazione, cui talvolta anche il popolo
cede. Si tratta, dunque, per Machiavelli, di regolare le lotte nei limiti
del possibile, senza abolirle, come nel caso dei tumulti, perché questo
acuirebbe anziché mitigare il clima eventualmente cruento in cui versa
una città. Il tentativo di abolire le lotte è la vera reductio ad unum in
politica e porta alla tirannide, perché impedisce al massimo grado lo
sviluppo della virtù e, di conseguenza, della libertà.
La tirannide sovverte ogni vivere civile (cfr. IF II.36, 272-273)6

6 Tra i molti provvedimenti presi dal Duca ci fu anche il divieto di “portare armi a ciascu-
no”, ossia l’accentramento del potere militare, cui Machiavelli è contrario e che lo distan-
zia dalla sovranità hobbesiana.
78 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

danneggiando tutti, nonostante le lusinghe e i “festeggiamenti” con-


cessi alla plebe7, al punto che le ultime scintille di politica rimaste
sono legate a specifiche passioni: l’“indignazione” nel vedere “la ma-
està dello stato loro rovinata, gli ordini guasti, le leggi annullate, ogni
onesto vivere corrotto, ogni civile modestia spenta”; la “vergogna”,
perché dovevano “onorare [...] colui che massimamente odiavano”;
e infine il “timore, vedendo le spesse morti e le continue taglie col-
le quali impoveriva e consumava la città” (cfr. ivi 274; cors. miei).
Nella tirannide non c’è solo la politica dell’antipolitica (la reductio ad
unum), ma anche un contrasto aperto a ogni forma d’ordinamento
stabile, perché ogni disposizione è sempre arbitraria e mutevole. Ed è
proprio l’abolizione degli ordini ad attivare politicamente le passioni
suddette che, da sole, avrebbero conservato il popolo nell’inerzia, fa-
cendolo macerare nello “sdegno” e nell’“odio”,
perché quella città che a fare e parlare di ogni cosa e con ogni licenza era
consueta, che gli fossero legate le mani e serrata la bocca sopportare non
poteva. Crebbero dunque questi sdegni in tanto e questi odi, che, non che
i Fiorentini, i quali la libertà mantenere non sanno e la servitù patire non
possono, ma qualunque servile popolo avrebbero alla recuperazione della
libertà infiammato. Onde che molti cittadini, e di ogni qualità, di perdere la
vita o di riavere la loro libertà deliberarono (ivi 275).

La memoria delle consuetudini infiammò i fiorentini, non un valo-


re morale inscritto nell’anima o nella coscienza né uno slancio utopi-
stico, ma il ricordo del vivere civile, della libertà goduta in altri tempi.
Il passato, raccolto nella memoria e nella storia cittadina, svolge un
ruolo politico decisivo, accendendo le polveri dell’indignazione, del-
la vergogna, del timore, dello sdegno e dell’odio altrimenti inerti. La
tirannia fallisce perché, pur cercando di cancellare ogni traccia del
vivere libero e civile, non è in grado di cancellare la memoria della
libertà che i cittadini conservavano in loro stessi e vedono riflessa nei
palazzi e nei luoghi della vita pubblica. L’aspetto che Machiavelli ag-
giunge alla sua teoria antitirannica, dato che nelle fonti non c’è “trac-
cia di tanta nobile ed eroica ‘deliberazione’, sia pure tardiva” (Cabrini
1985, 302), è una considerazione nuova della storia e degli exempla
legata alla funzione culturale e politica, non meramente libresca, della
memoria che una città conserva nei racconti del suo passato, nella

7 I Ciompi nel 1342, ed è la “prima notizia di un’associazione degli operai fiorentini [...], si
erano organizzati [...] per strappare aumenti salariali” e, dopo averli ottenuti, “rievocaro-
no con rimpianto il ‘buon governo’” del Duca (cfr. Screpanti 2008, 53-54).
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 79

monumentalità dei propri palazzi pubblici e nelle consuetudini della


propria forma politica: ultimo baluardo di resistenza alla tirannide e
antidoto per combatterla. Appellandosi alla memoria repubblicana di
Firenze, Machiavelli rende le Istorie un testo teorico e politico per-
ché storico (cfr. Bock, in Aa.Vv. 1990, 188) – un “capolavoro” come
scrisse Marx a Engels nella lettera del 25 settembre 1857 – nel senso
che non maschera la propria prospettiva politica, diversamente da
un’impostazione ingenua, quando non tendenziosa e scorretta, che
propugna una storia come descrizione oggettiva dei fatti. Manipolan-
do le fonti, a loro volta parziali, Machiavelli porta in luce un giudizio
politico sulla storia della sua città.
Le tre congiure che sortirono, una capeggiata dal vescovo, non fu-
rono efficaci perché, venendo scoperte, non riuscirono nell’intento di
ammazzare il Duca; rimisero in moto, però, la macchina di produzione
della virtù. Il Duca, infatti, le scoprì e “fece una lista di trecento cit-
tadini” da uccidere, dopo averli attirati a palazzo con la scusa di voler
ascoltare i loro consigli. L’usanza era di comunicare pubblicamente ai
cittadini la convocazione, e questi, vedendo convocati tutti i congiura-
ti, segno che erano stati scoperti, “si inanimivano a prendere le armi, e
volere più tosto morire come uomini, con le armi in mano, che come
vitelli essere alla beccheria condotti”; deliberarono allora “il dì seguen-
te, che era il 26 di luglio 1343, [di] far nascere un tumulto in Mercato
Vecchio, e dopo quello armarsi e chiamare il popolo alla libertà” (IF
II.36, 277-278). Solo la consapevolezza di essere uccisi spinge a mette-
re in gioco la propria vita per guadagnarsi la libertà, anche se la svolta
che aveva portato a ordire le congiure era stata causata dalle passioni
accese dalla memoria repubblicana: e questo è il punto decisivo.
La presa delle armi da parte dei congiurati fece sì che “il popo-
lo tutto alla voce della libertà si armò”, seppur con delle eccezioni:
“alcuni dei Buondelmonti e dei Cavalcanti e quelle quattro famiglie
di popolo che a farlo signore erano concorse, i quali, insieme con i
beccai e altri della infima plebe, armati in piazza in favore del duca
concorsono”, anche se poi, alcuni di loro, visto che la fortuna del
Duca volgeva al peggio, gli voltarono le spalle, a dimostrazione che il
popolo è comunque diviso (sebbene tutto in armi) e che la divisione è
trasversale rispetto alle parti; mentre la “zuffa” si volgeva a favore del
popolo, questo si riunì “per dare forma allo stato”, e stabilì, innan-
zitutto, di dotarsi di nuove, per quanto semplici, magistrature, em-
brione di futuri ordini: “quattordici cittadini, per metà grandi e po-
polani, i quali, con il vescovo, avessero qualunque autorità di potere
80 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

lo stato di Firenze riformare” (cfr. IF II.37, 278-281); dopo un’accesa


trattativa, inoltre, decise di consegnare alla “furia della moltitudine”
i consiglieri del Duca che furono, letteralmente, sbranati e mangiati.
Ciò produsse l’“accordo: che il Duca se ne andasse, con i suoi e sue
cose, salvo; e a tutte le ragioni aveva sopra Firenze renunziasse; e di
poi, fuori del dominio, nel Casentino, alla renunzia ratificasse”. E così
avvenne. La tirannide di Gualtieri di Brienne si concluse il 6 agosto
1343: era durata “dieci mesi” (cfr. ivi 281-282) – undici a dire il vero,
ma non cambia nulla.
Risolti i problemi di politica estera (cfr. IF II.38), i fiorentini “si
volsero a quelli di dentro” (IF II.39, 284), cioè al “riordinamento del
governo di Firenze” (Fiorini, 257), e il primo effetto fu la ripresa della
“disputa [...] intra i grandi e i popolani” (IF II.39, 284). La ripresa
della politica implica quella delle lotte, anche in forma verbale. La
tirannide fallisce nell’eliminare la politica (le lotte), perché, di là dalle
sue intenzioni, produce comunque una situazione che induce alcuni
cittadini a lottare mettendo in gioco la propria vita. La tirannide è un
vicolo cieco: l’illusione della reductio ad unum.
La vittoria sul Duca d’Atene si traduce nel riordino dell’ordina-
mento della città, cioè, come già accaduto (cfr. IF II.5), in una nuova
divisione. Dopo la disputa, la cui conclusione fu che “i grandi nella
Signoria la terza parte, e negli altri uffici la metà avessero”, il primo
provvedimento fu l’istituzione dei “quartieri” (al posto dei sestieri), a
capo dei quali “crearono tre Signori”, mentre al loro interno “dodici
Buoni uomini”, che appartenevano sia ai grandi sia al popolo e, preci-
samente, uno ai primi e due al secondo (cfr. Fiorini, 258), individua-
rono “otto consiglieri, quattro di ciascuna sorte” ossia “uno grande e
un popolare” per quartiere, abolendo “il Gonfaloniere della giustizia
e quelli delle Compagnie del popolo” (cfr. IF II.39, 284). A questo
punto, però,
fermato con questo ordine questo governo si sarebbe la città posata, se i
Grandi fossero stati contenti a vivere con quella modestia che nella vita ci-
vile si richiede; ma essi il contrario operavano; perché, privati, non volevano
compagni, e nei magistrati volevano essere signori. E ogni giorno nasceva
qualche esempio della loro insolenza e superbia; la qual cosa al popolo di-
spiaceva, e si doleva che, per uno tiranno che era spento, n’erano nati mille.
Crebbono dunque tanto da l’una parte le insolenze e da l’altra gli sdegni,
che i capi dei popolani mostrarono al vescovo la disonestà dei grandi e la
non buona compagnia che al popolo facevano, e lo persuasero volesse ope-
rare che i grandi di avere la parte negli altri uffici si contentassero, e al po-
polo il magistrato dei Signori solamente lasciassero (ivi, 284-285).
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 81

È di nuovo l’insolenza e la superbia dei grandi a destabilizzare la


città. Il vescovo, “naturalmente buono, ma facile ora in questa ora in
quell’altra parte a rivoltarlo” – aveva appoggiato e poi combattuto
il Duca d’Atene, favorito i grandi nel riordino della città mentre ora
si schierava col popolo – cercò una mediazione, che fallì, mentre i
grandi promisero che avrebbero difeso “con loro pericolo” la posi-
zione conquistata (cfr. ivi, 285-286). Il popolo allora non perse tempo
e “corse armato al palazzo” impaurendo i grandi, che si ritirarono
nelle loro case. Con “romore [e] tumulto” riuscì a cacciare i quattro
grandi che facevano parte dei dodici, mentre gli otto popolani rimasti
elessero dodici priori tutti del popolo, “fecero uno Gonfaloniere di
giustizia e sedici Gonfalonieri delle Compagnie del popolo”; infine,
“riformarono i consigli in modo che tutto il governo nello arbitrio del
popolo rimase” (cfr. ivi, 286).
A seguito della “carestia”, per la quale “i grandi e il popolo minuto
erano malcontenti, questo per la fame, quelli per aver perdute le di-
gnità loro”, Andrea Strozzi tentò di “occupare la libertà della città”,
ma fallì: “questo accidente”, però, “dette speranza ai grandi di potere
sforzare il popolo, vedendo che la plebe minuta era in discordia con
quello” e presto “la città tutta era in arme” (cfr. IF II.40, 287-288). La
carestia e il velleitario tentativo di Strozzi, gli imprevisti che offrono le
occasioni per rimettere in subbuglio la città, evidenziano la presenza
di un malcontento, un vuoto da colmare nel quale può inserirsi chi
vuol modificarne l’ordinamento.
Machiavelli presenta qui, come in molti altri luoghi dei suoi scritti,
un’alternativa politica fondamentale tra pieno e vuoto. Il primo è il
sogno della tirannide (la fine della politica), il secondo è la conditio
sine qua non della politica, che però, accettando l’esistenza dell’in-
completezza, non può impedire definitivamente la possibilità di una
degenerazione. I due estremi, la tirannide (il tutto pieno di un ordine
totalmente arbitrario di uno) e la licenza (il tutto vuoto dell’assenza
di qualsiasi ordine), definiscono il campo del gioco chiamato politica.
Il tentativo dei grandi di rialzare la testa portò a una “zuffa”, che
sembra differire da un tumulto per il suo carattere necessariamen-
te armato, la quale, dopo varie vicende (cfr. IF II.41), “si conclude
con l’apocalittica visione del popolo – e, soprattutto, della ‘parte più
ignobile’ di esso – scatenato a predare e saccheggiare, bruciare e di-
struggere case, palazzi e torri dei grandi” (Cabrini 1985, 355). Come
di consueto, “vinti i grandi, riordinò il popolo lo stato” e siccome il
popolo “era di tre sorte [...], potente, mediocre e basso, si ordinò
82 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

che i potenti avessero due Signori, tre i mediocri e tre i bassi” (IF
II.42, 290). Lo stato è riordinato a immagine e somiglianza del popo-
lo, diviso in grasso, mezzano e minuto, anche se questo nuovo ordina-
mento “non si raccoglie, come prima della venuta del Duca d’Atene,
in poche casate di popolani – che i cronisti chiamano ‘potenti’ o cui
riserbano il nome di ‘popolo grasso’ che prima distingueva l’arti mag-
giori dalle minori – ma appartiene a tutto il popolo delle arti”. Questo
popolo, insomma, per quanto ampliato nella sua partecipazione al go-
verno, è “la borghesia alta e media delle arti maggiori”, alla quale si
unisce “il popolo minuto delle arti minori” (cfr. Fiorini, 265-266). Il
popolo stabilì poi che “il Gonfaloniere fosse ora dell’una ora dell’altra
sorte. Oltre di questo, tutti gli ordini della giustizia contro ai grandi si
riassunsono; e per farli più deboli, molti di loro intra la popolare mol-
titudine mescolarono. Questa rovina dei nobili fu sì grande e in modo
afflisse la parte loro, che mai poi a pigliare l’arme contro al popolo si
ardirono, anzi continuamente più umani e abietti diventarono. Il che
fu cagione che Firenze, non solamente di armi, ma di ogni generosi-
tà si spogliasse. Mantennesi la città, dopo questa rovina, quieta fino
all’anno 1353”, quindi per dieci anni, quando, finita la “prima guerra
coi Visconti [...], le parti dentro alla città cominciarono” a formarsi
di nuovo e “benché fosse la nobiltà distrutta, nondimeno alla fortuna
non mancarono modi a fare rinascere, per nuove divisioni, nuovi tra-
vagli” (cfr. IF II.42, 290-291).

3. La nuova fase si aprì perché “doma che fu la potenza dei nobi-


li, e finita che fu la guerra con lo arcivescovo di Milano, non pareva
che in Firenze alcuna cagione di scandalo fosse rimasta. Ma la mala
fortuna della nostra città e i non buoni ordini suoi fecero intra la fami-
glia degli Albizzi e quella dei Ricci nascere inimicizia, la quale divise
Firenze, come prima quella dei Buondelmonti e Uberti, e di poi dei
Donati e dei Cerchi aveva divisa” (IF III.2, 295) – la lotta tra Albizzi
e Ricci è tra “i grandi popolani ed i minori” (Fiorini, 272) e segue a
quella tra nobili (Buondelmonti e Uberti) e a quella tra nobili e popo-
lo grasso (Donati e Cerchi).
Non credo, come dice Cabrini, che la diagnosi di Machiavelli in
Istorie, III.1, commentato più sopra (cfr. capitolo 2, § 5), sia esclusi-
vamente negativa né che si debba attribuire alla sola “volontà di pre-
varicazione del popolo fiorentino” la responsabilità di aver reso “pro-
fondamente negativi gli effetti delle inevitabili ‘inimicizie’ cittadine”.
Machiavelli non si è dimenticato di quanto aveva detto sull’“estremi-
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 83

smo di entrambe le parti” e, per questa ragione, il suo problema non


è stigmatizzare che “il modo in cui la nobiltà fu privata di ogni potere
e perfino dei suoi connotati di ‘classe’ finì con il condurre alla rovina
stessa della città, [perché] venuta meno la ‘virtù’, che essenzialmente
è ‘virtù dell’armi’” venne meno anche la “positiva osmosi tra nobili
e popolo” (cfr. 1985, 368, 370-371). Piuttosto, Machiavelli sta espri-
mendo la propria delusione, dovuta alla scoperta che “la superbia e
ambizione dei grandi non si spense, ma dai nostri popolani fu loro
tolta, i quali ora, secondo l’uso degli uomini ambiziosi, di ottenere il
primo grado nella repubblica cercano, né avendo altri modi ad occu-
parlo che le discordie, hanno di nuovo divisa la città” (IF III.5, 306).
Sono ora “le inimicizie intra il popolo e la plebe” (IF III.1, 295),
causate dalle “famiglie fatali” di Firenze (IF III.5, 307; cfr. Cabri-
ni 1990, 25-52), a essere il centro dell’analisi machiavelliana, basata
sull’amara constatazione che il popolo (borghesia) non ha saputo svi-
luppare una propria virtù, anche militare, da sostituire a quella dei no-
bili, perdendosi nella nefasta imitazione dei loro vizi. Significa questo
che non c’è nessuna parte naturalmente e permanentemente virtuosa e,
dunque, che non c’è alcun soggetto, diremmo oggi, capace di garantire
il vivere libero e civile? Deriva da ciò l’idea che solo un dispositivo
impersonale (l’ordinamento, gli ordini, le magistrature, i corpi colletti-
vi), se messo bene in opera, può riuscire nell’impresa? L’ipotesi credo
valga la pena di essere vagliata esaminando alcuni degli aspetti più si-
gnificativi del III libro delle Istorie, che arriva fino al 1393.
La pessima combinazione tra la “mala fortuna [...] e i non buoni
ordini” rese possibile la ripresa delle inimicizie tra le famiglie degli
Albizzi e dei Ricci (cfr. IF III.2, 295) all’interno, però, di “un quadro
politico mutato, all’esterno (assenza dei pontefici e degli imperatori
dall’Italia, infestata dalle soldatesche [...]) e all’interno (per ‘la rovina
dei Grandi’ e la conseguente ‘ugualità’)” (Cabrini 1990, 26). La lotta,
cominciata nel 1353 “a sorte” (IF III.2, 296), cioè per caso, ebbe varie
fasi e si concluse nel 1372, per riprendere nel 1375 fino al 1378, l’an-
no del tumulto dei Ciompi.
Uno degli aspetti più interessanti del III libro delle Istorie è che
Machiavelli abbandona “del tutto la spiegazione [...] dell’origine ‘ser-
va’ di Firenze” (Cabrini 1985, 375) per soffermare la propria atten-
zione su un altro aspetto: “da poi che questa provincia si trasse di
sotto alle forze dello Imperio, le città di quella, non avendo un freno
potente che le correggessi, hanno, non come libere ma come divise
in sette, gli stati e governi loro ordinati: da questo sono nati tutti gli
84 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

altri mali, tutti gli altri disordini che in esse appariscono”. Il problema
della “comune corruzione” non risiede più nell’origine mezza serva e
mezza libera di Firenze, ma nella divisione in sette: questo è il “male
che si vede già grande e che tuttavia cresce” (cfr. IF III.5, 302-303);

in prima non si trova intra i loro cittadini né unione né amicizia, se non


intra quelli che sono di qualche scelleratezza, o contro alla patria o contro
ai privati commessa, consapevoli. E perché in tutti la religione e il timore di
Dio è spento, il giuramento e la fede data tanto basta quanto l’utile, di che
gli uomini si vagliano non per osservarlo, ma perché sia mezzo a potere più
facilmente ingannare, e quanto lo inganno riesce più facile e sicuro tanta più
gloria e lode se ne acquista; per questo gli uomini nocivi sono come industriosi
lodati e i buoni come sciocchi biasimati. E veramente nelle città di Italia tutto
quello che può essere corrotto e che può corrompere altri si raccozza: i
giovani sono oziosi, i vecchi lascivi, e ogni sesso e ogni età è piena di brutti
costumi; a che le leggi buone, per essere dalle cattive usanze guaste, non rime-
diano. Di qui nasce quella avarizia che si vede nei cittadini e quello appetito,
non di vera gloria ma di vituperosi onori, dal quale dipendono gli odi, le
inimicizie, i dispareri, le sette; dalle quali nasce morti, esili, afflizioni dei
buoni, esaltazioni dei tristi. Perché i buoni, confidatisi nella innocenza loro,
non cercano, come i cattivi, di chi straordinariamente li difenda e onori, tanto
che indifesi e inonorati rovinano. Da questo esempio nasce lo amore delle
parti e la potenza di quelle, perché i cattivi per avarizia e per ambizione, i
buoni per necessità le seguano: e quello che è più pernicioso, è vedere come
i motori e principi di esse la intenzione e fine loro con un pietoso vocabolo
adonestano, perché sempre, ancora che tutti siano alla libertà nemici, quella o
sotto colore di stato di ottimati o di popolare difendendo, opprimano. Perché
il premio il quale della vittoria desiderano è non la gloria dello avere liberata
la città, ma la soddisfazione di avere superati gli altri e il principato di quella
usurpato, dove condotti non è cosa sì ingiusta, sì crudele o avara, che fare
non arrischino: di qui gli ordini e le leggi non per pubblica, ma per propria
utilità si fanno: di qui le guerre, le paci, le amicizie non per gloria comune
ma per soddisfazione di pochi si deliberano. E se le altre città sono di questi
disordini ripiene, la nostra ne è più che alcuna altra macchiata, perché le
leggi, gli statuti, gli ordini civili non secondo il vivere libero, ma secondo la
ambizione di quella parte che è rimasta superiore si sono in quella sempre or-
dinati e ordinano. Onde nasce che sempre, cacciata una parte e spenta una
divisione, ne sorge un’altra: perché quella città che con le sette più che con le
leggi si vuol mantenere, come una setta è rimasta in essa senza opposizione,
di necessità conviene che infra se medesima si divida; perché da quelli modi
privati non si può difendere, i quali essa per sua salute prima aveva ordinati
(ivi, 303-305; cors. miei).

Il brano, straordinario, rimanda per certi aspetti a quello successi-


vo dell’anonimo ciompo (cfr. Cabrini 1990, 44-45 n. 52) e consente di
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 85

evidenziare che, nonostante la sua veste moralistica, la contrapposizio-


ne tra buoni e cattivi è politicamente definita e, con essa, anche quan-
to merita il nome di setta. Ciò che “distingue le divisioni in giovevoli
e in nocive alle repubbliche [è che] le prime sono quelle nelle quali
le parti che si contendono hanno di mira il bene pubblico, le seconde
quelle in cui i contrasti delle parti mirano a un bene privato” (cfr.
Fiorini, 283-286). Ma non è sufficiente, come non lo è il riferimento al
radunarsi o all’utile, che possono essere diretti alla pubblica utilità o
nutrire l’ambizione (cfr. IF III.5, 302); servono altri parametri, come:
a) la miscredenza, l’opportunismo e il cambiar fede o casacca secondo
le convenienze, al posto della coerenza; b) l’intenzione di ingannare e
i premi dati a chi meglio vi riesce, uniti al biasimo verso l’onestà e la
trasparenza; c) le cattive abitudini, al posto del rispetto delle leggi; d)
l’avarizia e l’appetito di falsi onori, al posto dell’innocenza; e) le men-
zogne, ottimatizie o popolari, che opprimono la libertà, la brama di
potere, l’inseguimento esclusivo del proprio utile, le leggi ad personam
e il continuo dividersi in sette, al posto del vivere libero e civile. Non
è una questione antropologica o etica ma politica.
Machiavelli condivide i contenuti del discorso della sanior pars del-
la città, per quanto forse un po’ ingenui, e ancor di più condivide il
rimedio proposto, reso possibile dal fatto che Firenze “è condotta in
tanta ugualità che per lei medesima si può reggere [...], pure che vo-
stre Signorie si dispongano a volerlo fare”, perché “la malignità [...] si
può con la prudenza vincere, ponendo freno alla ambizione di costoro
e annullando quegli ordini che sono delle sette nutritori, e prendendo
quelli che al vero vivere libero e civile sono conformi” (cfr. ivi 307-
308). Ma i “cinquantasei cittadini” cui fu data l’“autorità”, forse per-
ché “è verissimo che gli assai uomini sono più atti a conservare uno
ordine buono che a saperlo per loro medesimi trovare [...], pensarono
più a spegnere le presenti sette che a tôrre via le cagioni delle future,
tanto che né l’una cosa né l’altra conseguirono” (IF III.6, 308-309).
Le lotte che si produssero (cfr. IF III.7-11; Cabrini 1990, 53-88;
Screpanti 2008, 92-102) furono interrotte da un tumulto di tipo nuo-
vo per la storia di Firenze: quello dei Ciompi (18 giugno – 31 agosto
1378), di cui metterò in luce la lettura politica proposta da Machiavelli.
L’entrata sulla scena politica dell’“infima plebe” (IF III.12, 325)
è un evento che cambierà per sempre il volto della città. Mentre il
discorso del gonfaloniere Luigi Guicciardini è ancora sorretto dalla
retorica della concordia ordinum tra le parti ricche della città e, dun-
que, dall’invito a evitare le “discordie [e le] disunioni” in favore di
86 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

una pace collaborativa, aperta perfino a un moderato impegno ri-


formatore, purché richiesto “civilmente, e non con tumulto e con le
armi” (cfr. IF III.11, 324; Cabrini 1990, 83-88), i Ciompi portano in
primo piano l’“odio che il popolo minuto aveva con i cittadini ricchi
e principi delle Arti, non parendo loro essere soddisfatti delle loro fati-
che secondo che giustamente credevano meritare” (IF III.12, 325; cors.
mio). È una domanda di giustizia sociale che accompagna le “arsioni
e ruberie” (ibidem), che accadono durante il tumulto, e rimanda al
problema politico contenuto nel “programma del Ronco”, che Ma-
chiavelli non nomina: “del lavorio che si viene dodici, [i padroni] ne
danno otto” (cfr. Screpanti 2008, 203-204): del lavoro che si fa per
dodici ore ne pagano otto8.
È, dunque, una lotta per il riconoscimento a muovere inizialmente
i Ciompi, anche a fronte del fatto che gli operai della lana, inquadrati
in un’Arte “potentissima”, dovevano sottostare “all’arroganza dei ca-
pitani di Parte”, non avendo (e non potendo avere) un’Arte propria,
sicché “quando erano o non soddisfatti delle fatiche loro, o in alcun
modo dai loro maestri oppressati, non avevano altrove dove rifuggire
che al magistrato di quella Arte che li governava, dal quale non pareva
loro fosse fatta quella giustizia che giudicavano si convenisse” (cfr. IF
III.12, 326-327). Il tumulto accadde proprio perché la normale via di
sfogo si dimostrò improduttiva.
Nell’introdurre il tumulto e il discorso dell’anonimo ciompo, en-
nesima invenzione letteraria e teorica, Machiavelli pone l’accento,
sull’odio, sull’insoddisfazione, sull’ingiustizia, sull’oppressione, sulla
paura e sullo “sdegno” (cfr. IF III.13, 327) dell’infima plebe e del
popolo minuto: non nomina mai la parola libertà, presente invece
nel discorso di Guicciardini (cfr. IF III.11, 324) e di solito in tutte
le orazioni precedenti. Il riferimento alla libertà compare poi nel di-
scorso del ciompo, ma fa riferimento al “potere con più libertà e più
soddisfazione nostra che per il passato vivere” (IF III.13, 328; cors.

8 Machiavelli critica il tumulto per lo spirito fazioso che, da un certo punto in poi, lo ca-
ratterizza (cfr. Zancarini, 21-22), ma questo non gli impedisce di dar voce pubblica ai
Ciompi (cfr. Landi), riprendendo il costume delle pratiche, “riunioni consultive”, che con-
sentivano “alla Signoria di saggiare le reazioni dei cittadini a taluni progetti, e permettere
ai cittadini stessi di manifestare le loro opinioni”, ma “le cui raccomandazioni non erano
vincolanti” (Gilbert 1965, 64). Dar voce ai Ciompi significava amplificare le loro richieste,
economiche e politiche e, dunque, è riduttivo attribuire a Machiavelli la semplice “sco-
perta delle capacità politiche delle masse” (cfr. Wolin, 331), che non vengono idealizzate
e sono viste positivamente solo se non esprimono l’umore della volontà di dominio (cfr.
Fontana 21, 23-24, 37-39, 41).
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 87

mio). Il fine dei Ciompi, secondo il racconto machiavelliano, non è


la libertà della città, ma la vendetta e la conquista del potere: è una
libertà per loro (“per la libertà nostra”, ivi, 329), non per tutti. Ecco
perché Machiavelli condivide le rivendicazioni dei Ciompi, ma non la
loro prospettiva politica: la “dittatura del proletariato”, com’è stato
definito l’esito della rivolta, non è nelle corde del Segretario. Negri
ha scritto che l’episodio dei Ciompi “è, [per Machiavelli], la scoperta
dell’impossibilità che a Firenze si dia una costituzione mista, [per-
ché], diversamente da Roma, [...] la lotta di classe si approfondisce
al punto da determinare la vittoria assoluta del popolo grasso, [che]
perde [così] la possibilità di armare la Repubblica – il popolo minuto,
la plebe, la moltitudine non possono essere armate, perché rappre-
sentano la sovversione vinta” (1992, 106). Cionondimeno Machiavelli
resta convinto, e lo dimostrerà nel Discursus e nella Minuta, che un
vivere libero e civile di stampo repubblicano sia possibile solo in una
costituzione mista, benché del tutto diversa da quella di Roma.
Machiavelli non punta alla concordia ordinum né alla dittatura del
proletariato, ma all’unione tramite le lotte. Che la città sia divisa, in-
fatti, non significa solo che non è unita come fosse tutt’uno, ma che si
‘fonda’ sulla divisione, che se non (si) divide non c’è. La divisione è la
radice delle lotte e solo affrontandole, assieme alla fortuna che le inner-
va, gli uomini possono diventare virtuosi, e solo la virtù può assicurare
il vivere libero e civile. Il misto cui Machiavelli pensa non è la garanzia
di una mediazione tra le parti (non classi)9 che neutralizzi le lotte,
ma la loro causa ed effetto, perché conserva e riproduce la divisione
cercando di renderla espansiva. È alla realizzazione di questo tipo di
misto che resta legata la possibilità di rispondere alla domanda da cui
è partito questo libro. Il recupero della libertà in una città non del
tutto corrotta è legato solo alla possibilità di istituzionalizzare le lotte

9 Il concetto marxiano di classe è il prodotto di un assetto scientifico che il discorso ma-


chiavelliano non ha (cfr. Brudney, 511, che però sfiora solo il problema). Se Marx poteva
intendere le parti come classi (cfr. Rees, 29-41; Screpanti 2011, 119-135), Machiavelli
non può. Mentre le classi marxiane appartengono alla struttura del modo di produzione
capitalistico-industriale, le parti appartengono all’ordine feudale (cfr. Gaille-Nikodimov,
33) e assumono, in una città mercantile, la veste delle fazioni. Inoltre, se in Marx la poli-
ticità delle classi è radicata nella loro natura economica (cfr. Lefort 1978, 217), le parti,
in Machiavelli, sono eminentemente politiche, come dimostra la loro derivazione dagli
umori, e non estranee a componenti “psicologiche” (cfr. Wood in Aa.Vv. 1972, 288-289),
legate soprattutto al desiderio: “Machiavelli non spiega la lotta di classe attraverso lo
sfruttamento, ma attraverso la ‘proprietà’ e, dunque, attraverso il desiderio di quelli che
hanno, di avere sempre di più, e di quelli che non hanno, di possedere”, anche se non
credo che si debba “attendere Marx per ritrovare questa verità” (cfr. Althusser 1978, 84).
88 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

e non i tumulti, in modo tale che “la virtù, intesa come passione di ciò
che è pubblico”, possa affermarsi (Ricciardi, 30).
Il contenuto del discorso dell’anonimo Ciompo (cfr. IF III.13,
327-332) rivela la faziosità del governo della città esercitato, sostan-
zialmente con continuità dal 1267, dai Guelfi, ai quali Machiavelli
non disdegna di assestare l’ennesimo colpo, quasi ad attribuir loro la
responsabilità del tumulto.
L’odio della plebe è mosso dalla consapevolezza che “solo la po-
vertà e le ricchezze disuguagliano [gli uomini]” e che, di fronte alla
“frode” e alla “forza”, all’“inganno” e alla “violenza”, usate da “quelli
che a ricchezze grandi e a grande potenza pervengono [...], debbesi
[...] usare la forza quando ce ne è data occasione (cfr. ivi 329-331):
capendo “di essere una forza decisiva nella scena politica della città,
[...] di essere stati usati, [di poter] agire autonomamente [e] che darsi
un’organizzazione militare era diventato un passaggio indispensabi-
le”, i Ciompi “divennero un soggetto politico” (Screpanti 2008, 124).
Se “Iddio e la natura ha posto tutte le fortune degli uomini loro in
mezzo, le quali più alle rapine che alla industria, e alle cattive che alle
buone arti sono esposte: di qui nasce che gli uomini mangiano l’uno
l’altro”. La disuguaglianza è il frutto dell’usurpazione e, dunque, bi-
sogna “liberarsi” degli usurpatori e “diventare in tanto loro superiore,
che abbiano più a dolersi e temere di voi, che voi di loro”. La disugua-
glianza non sarà mai appianata dai ricchi e potenti, perché il capitale
non ammette l’esistenza di chi ne vuole la spartizione: bisogna quindi,
secondo il ciompo, prendere le redini del governo della città e perse-
guire la “rovina del nemico” (IF III.13, 330-332).
La condanna machiavelliana del tumulto è evidente quando scrive
che i Ciompi, avendo gli “animi riscaldati al male [...], deliberarono
prendere le armi”. Ma non è la violenza delle armi che Machiavelli
disapprova, bensì che il tumulto è in mano al “furore di questa sciolta
moltitudine”, che si abbandonò a bruciare “le case di molti cittadini,
[...] perseguitando quelli i quali o per pubblica o per privata cagione
erano odiati”. Se la risposta dei Signori fu insufficiente, la “congiura”,
tanto che si trovarono “smarriti” (cfr. IF III.14, 332-335), va ricordato
che per Machiavelli “la autorità data alla moltitudine non temperata
da alcuno freno non fece mai bene” (cfr. IF II.32, 260). La moltitu-
dine sciolta, in sostanza, si comporta come una parte che non mira al
bene comune, perché vuole diventare tutto, comportandosi come una
qualunque altra setta o fazione.
Il problema è “la moltitudine, impaziente e volubile” (IF III.15,
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 89

337), “gagliarda e vile” (cfr. D I.57, 274-276), di cui Machiavelli di-


mentica volutamente le capacità organizzative (cfr. Screpanti 2008,
115-152, 189-216). Quest’omissione gli serve per far entrare in scena
Michele di Lando, “pettinatore di lana, [...] scalzo e con poco indos-
so” (IF III.16, 339), figura “positiva [...], ‘signore’ e riformatore della
città, [...] uomo ‘virtuoso’, che sa cogliere l’occasione e intende met-
terla a frutto, non per un personale vantaggio, ma a beneficio della cit-
tà” (Cabrini 1990, 111-112). Come tutta la scena, anche di Lando è un
personaggio del dramma teorico-politico ricostruito da Machiavelli,
fuori da ogni realismo storico, coi Signori della città a mostrare la loro
incapacità di contenere la plebe; questa a rivelare che, pur spinta da
giuste rivendicazioni, era in realtà mossa solo dal desiderio di vendi-
carsi e acquisire un bene particolare; di Lando a inscenare il cittadino
virtuoso, il solo che potesse risolvere la situazione. Egli, infatti, sic-
come “era uomo sagace e prudente, e più alla natura che alla fortuna
obbligato, deliberò quietare la città e fermare i tumulti”, tenendo “oc-
cupato il popolo” dandogli in pasto “ser Nuto [...], e per cominciare
quello imperio con giustizia, [...] fece pubblicamente che niuno ardes-
se o rubasse alcuna cosa comandare; e per spaventare ciascuno rizzò le
forche in piazza”; inoltre, riformò la Signoria (cfr. IF III.16, 339-340),
ma secondo la “plebe, [fu] troppo partigiano verso i maggiori popola-
ni”; e, infatti, questa riprese “le armi” (cfr. IF III.17, 341).
Le omissioni di Machiavelli in questa parte della storia sono tali da
rendere inessenziale soffermarsi sui tratti della riforma istituzionale,
riassunta in poche righe, perché tutto è giocato “sul contrasto tra Mi-
chele e la sua virtus, che rappresenta il potere dello stato, [...] e l’‘ar-
roganza’ della ‘plebe’” (cfr. Cabrini 1990, 115-116), che poi, e questo
era il fine della narrazione machiavelliana, è sconfitta proprio da di
Lando, “il quale d’animo, di prudenza e di bontà superò in quel tem-
po qualunque cittadino, e merita di essere annoverato tra i pochi che
abbiano beneficata la patria loro: perché se in esso fosse stato animo
o maligno o ambizioso, la repubblica al tutto perdeva la sua libertà e
in maggiore tirannide che quella del Duca d’Atene perveniva. Ma la
bontà sua non gli lasciò mai venire pensiero nello animo che fosse al
bene universale contrario, la prudenza sua gli fece condurre le cose in
modo che molti della parte sua gli cederono e quelli altri potette con
le armi domare. Le quali cose fecero la plebe sbigottire, e i migliori
artefici ravvedere e pensare quanta ignominia era, a coloro che aveva-
no doma la superbia dei grandi, il puzzo della plebe sopportare” (IF
III.17, 343).
90 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

Il tumulto dei Ciompi termina con la sconfitta del popolo minu-


to e della plebe per merito di un unico uomo virtuoso: conclusione
un po’ troppo ridicola per l’acutissimo Machiavelli. Ma qui, forse
più che in altre parti delle Istorie, il Segretario ha voluto omettere
la complessità della vicenda e ridurla allo schema, per lui manegge-
vole, del confronto tra virtù e sregolatezza. Un riduzionismo quasi
vergognoso dal punto di vista storico ma utile per dar corpo all’idea
che solo la virtù, per quanto imperfetta, può costituire il rimedio alla
corruzione della città.
Il fallimento della rivolta dei Ciompi, indipendentemente dal gra-
do di apprezzamento di Machiavelli, è comunque una svolta nelle
Istorie, perché dopo di esso, nulla sarà come prima; le Istorie procede-
ranno ancora per più di cinque libri, ma senza la tensione, tranne rare
eccezioni, che pervadeva le pagine precedenti al XVIII capitolo del III
libro. Una prima spiegazione è che dopo il tumulto dei Ciompi, l’oriz-
zonte repubblicano del vivere libero e civile scompare dalla storia di
Firenze; la repubblica ottimatizia (oligarchia) e poi lo stato mediceo,
che governarono la città dal 1393 al 1492, sono esperimenti interes-
santi ma forse meno coinvolgenti. Tuttavia, anche nel seguito delle
Istorie vi sono alcuni episodi degni di nota per rispondere al quesito
da cui siamo partiti e su di essi intendo soffermarmi.
La disfatta dei Ciompi portò all’ennesima riforma dello “stato,
[che] così ordinato fece per allora posare la città [e] durò [...] tre
anni, e di esili e di morti fu ripieno”, anche perché “la già cominciata
divisione tra i popolani nobili e i minori artefici, [le parti] popolare e
[...] plebea” non solo si consolidò, ma da essa “seguirono in vari tem-
pi di poi effetti gravissimi” (IF III.18, 344-345). Cambiano le parti,
ma le divisioni restano e non muta il loro effetto nefasto, fatto di ten-
tativi di usurpare il potere o di usarlo a fini personali: il campionario
è noto (cfr. Cabrini 1990, 125-148). Il capitolo XXI introduce però una
novità, perché nella situazione “confusa e tumultuosa in cui si trovava
la città” (ivi 149), non c’erano più due soli umori:

era piena di diversi umori, ciascuno vario fine aveva e tutti, avanti che l’armi
si posassero, di conseguirli desideravano. Gli antichi nobili, chiamati gran-
di, di essere privi degli onori pubblici sopportare non potevano, e per ciò
di recuperare quelli con ogni studio s’ingegnavano, e per questo che si ren-
desse la autorità ai capitani di Parte amavano; ai nobili popolani e alle mag-
giori Arti lo avere accomunato lo stato con le Arti minori e popolo minuto
dispiaceva; da l’altra parte le Arti minori volevano più tosto accrescere che
diminuire la loro dignità, e il popolo minuto di non perdere i Collegi delle
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 91

sue Arti temeva. I quali dispareri fecero per spazio d’uno anno molte volte
Firenze tumultuare: e ora pigliavano l’armi i grandi, ora le maggiori, ora le
minori Arti e il popolo minuto con quelle, e più volte ad un tratto in diverse
parti della terra tutti erano armati (IF III.21, 352-353).

Un passo di straordinaria importanza, in cui due aspetti vanno as-


solutamente notati: 1) gli umori sono cambiati di numero e ora sono
quattro: antichi nobili o grandi, nobili popolani o Arti maggiori, Arti
minori, popolo minuto; 2) gli umori hanno cambiato qualità e sono
tutt’uno con le parti – se, in precedenza, come abbiamo visto, erano
gli umori (voler dominare – non voler essere dominati) che formava-
no le parti (nobili – popolo), incarnazione politica degli umori, ora le
parti e gli umori coincidono, perché ogni parte (nobili, popolo grasso,
popolo minuto, plebe) è portatrice di un proprio umore.
Il discrimine tra le parti non è più dato dal rapporto tra volontà
e dominio, ma dai diversi e inconciliabili desideri o interessi dei vari
gruppi: i nobili desideravano recuperare gli onori pubblici; la bor-
ghesia ricca e potente non desiderava più condividere lo stato con le
Arti minori e il popolo minuto: le prime desideravano accrescere la
loro dignità e il secondo non perdere il peso politico conquistato; la
plebe, mossa da risentimento, voleva vendicarsi dei soprusi. Interessi
particolari, sebbene collettivi, con cui le parti s’identificano, perden-
do la connotazione universalistica propria del voler/non voler essere
dominati, che non erano interessi ma partizioni politiche prime. Gli
umori, ora, sono gli interessi privati delle parti: gli umori delle parti,
di cui Machiavelli parla riferendosi alla repubblica ottimatizia: 1393-
1434 (cfr. IF III.25, 360 e IV.26, 427). Che questo cambiamento av-
venga nel 1382, con la definitiva riassunzione del potere dello stato da
“parte dei popolani nobili e dei guelfi”, mentre “la plebe lo perdé”
(IF III.21, 353-354), significa forse che il fallimento dell’ipotesi re-
pubblicana del vivere libero e civile dà la stura ai desideri delle parti
e sostituisce gli umori con gli interessi, da cui origina il progressivo
accentramento del potere che caratterizza la sequenza oligarchia-prin-
cipato mediceo. Ipotesi che va verificata ripercorrendo alcune altre
tappe della storia istituzionale fiorentina.
Prima però, val la pena sottolineare che se Machiavelli si dimostra
contento della sconfitta dei Ciompi, “la sfrenata moltitudine [che] li-
cenziosamente rovinava la città”, non lo è altrettanto della vittoria dei
Grandi, sotto il cui nome riunisce i “nobili popolani” e “le maggiori
Arti” (cfr. Cabrini 1990, 151): il loro “stato, [infatti, non fu] meno
92 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

ingiurioso verso i suoi cittadini, né meno grave nei suoi principi, che
se fosse stato quello della plebe” (cfr. IF III.22, 354), perché era un
governo “in preda di pochi, e alla loro superbia e avarizia sottoposto”
(IF III.23, 358). L’istituzione della “borsa di scelti” (IF III.24, 360), il
“cosiddetto ‘borsellino’ [...], pietra angolare del regime oligarchico”
(Cabrini 1990, 161), perché mitigava “gli effetti del sorteggio” assi-
curando alla “fazione dominante la maggioranza legale di sei voti nel
magistrato supremo” (cfr. Fiorini, 349), lo dimostra.

4. “Fermato così lo stato, dopo sei anni che fu nel 1381 ordinato”,
siamo quindi nel 1387, “visse la città dentro sino al ’93 assai quieta”
(IF III.25, 360), quando iniziò la repubblica oligarchica di Maso degli
Albizzi.
Dopo una serie di tentativi, che si protrassero fino al 1400, per
“rovesciare il regime oligarchico” (Cabrini 1990, 174), “si stette den-
tro quietamente [fino] al ’33”, con la sola eccezione del 1412 (cfr. IF
III.29, 372), mentre la pace verso l’esterno si limitò al periodo 1414-
1422 (cfr. IF IV.2, 375). Le parti, però, anche nella repubblica degli
ottimati, si “rinnovarono [e] non posorono prima che con la rovina di
quello stato”, avvenuta nel 1434 con l’inizio del principato mediceo.
Il IV libro delle Istorie è sostanzialmente dedicato a narrare come si
riformarono, a partire dal 1420, le parti e come portarono alla fine
della repubblica ottimatizia. L’obiettivo di Machiavelli è capire per-
ché “la città [non] si mantenne unita” e come “si fossero riaccesi gli
antichi umori in quella”. È il consueto tema della virtù come antidoto
alla corruzione, perché non si può sempre contare sulla “morte, [che]
fu sempre più amica ai Fiorentini che niuno altro amico, e più potente
a salvarli che alcuna loro virtù” (cfr. IF III.29, 373). La fortuna non
basta a mantenere libera e incorrotta una città:
le città, e quelle massimamente che non sono bene ordinate, le quali sotto
nome di repubblica si amministrano, variano spesso i governi e stati loro
non mediante la libertà e la servitù, come molti credono, ma mediante la
servitù e la licenza. Perché della libertà solamente il nome dai ministri della
licenza, che sono i popolari, e da quelli della servitù, che sono i nobili, è
celebrato, desiderando qualunque di costoro non essere né alle leggi né agli
uomini sottoposto. Vero è che quando pure avviene (che avviene rade volte)
che, per buona fortuna della città, sorga in quella un savio, buono e potente
cittadino, da il quale si ordinino leggi per le quali questi umori dei nobili
e dei popolani si quietino, o in modo si ristringhino che male operare non
possano, allora è che quella città si può chiamare libera e quello stato si può
stabile e fermo giudicare; perché, essendo sopra buone leggi e buoni ordini
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 93

fondato, non ha necessità della virtù d’uno uomo, come hanno gli altri, che
lo mantenga (IF IV.1, 374).

Nelle repubbliche non bene ordinate i governi e gli stati variano


spesso tra la servitù e la licenza: se non ci sono buone leggi e buoni
ordini, dunque, non c’è nemmeno la parvenza della libertà che, ri-
dotta a mero nome, nasconde il desiderio di non essere sottoposti né
alle leggi né agli uomini. Il tema del buon inizio torna suffragato dal
riferimento alle “molte repubbliche antiche, gli stati delle quali ebbe-
ro lunga vita” (ivi 374-375). Uno schema presente nei Discorsi e anche
nel Discursus e nella Minuta: i buoni ordini sono sempre opera della
virtù di uno solo (si veda il caso esemplare di Numa in D I.11, 81),
ma la loro conservazione è possibile solo se inducono nei molti un
comportamento virtuoso, rendendo la città un dispositivo autonomo,
che si riproduce da sé, perché “i regni i quali dipendono solo dalla
virtù d’uno uomo sono poco durabili, perché quella virtù manca con
la vita di quello” (ibidem). Due, allora, sono i momenti della politica:
fondazione e durata.
1. “Il momento dell’inizio assoluto, che può esser prodotto sol-
tanto da uno solo, da un ‘individuo solo’. Ma questo momento è in se
stesso instabile, perché può al limite oscillare sia dal lato della tirannia
sia dal lato di uno Stato vero”. Ne segue 2. “Il secondo momento, che
è quello della durata, che può essere assicurata solo da una duplice
operazione: la donazione delle leggi e l’uscita dalla solitudine, cioè la
fine del potere assoluto di uno solo” (Althusser 1971-1986, 109).
Firenze non ha avuto buone leggi né buoni ordini, perché nessun
legislatore virtuoso (cfr. P VI e D I.10) né il caso l’hanno ordinata in
modo duraturo, anche per la lotta tra le fazioni nobiliari, che vogliono
solo la servitù altrui, e quelle popolari che vogliono solo la licenza per
sé: entrambe protese a dominare e a non essere dominate. Questo
stato di cose ha provocato la diffusione della corruzione e l’instabilità
caratteristica della città. Per Firenze, allora, non sembra esserci spe-
ranza, perché i buoni ordini e le buone leggi

sono mancate e mancano tutte quelle [città] che spesso i loro governi da
lo stato tirannico a licenzioso, e da questo a quell’altro, hanno variato e va-
riano. Perché in essi, per i potenti nemici che ha ciascuno di loro, non è né
può essere alcuna stabilità, perché l’uno non piace agli uomini buoni, l’altro
dispiace ai savi; l’uno può fare male facilmente, l’altro può fare bene con
difficoltà; nell’uno hanno troppa autorità gli uomini insolenti, nell’altro gli
sciocchi; e l’uno e l’altro di essi conviene che sia da la virtù e fortuna d’uno
94 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

uomo mantenuto, il quale, o per morte può venire meno, o per travagli
diventare inutile (IF IV.1, 375).

Ma anche si potesse contare sulla virtù di uno, magari potente (cfr.


IF IV.1, 374), che si affermasse non solo per fortuna, essa può sempre
“venir meno per morte o per travagli diventare inutile” e degenerare
in tirannia se non si radica nel popolo passando dal governo di uno a
quello di molti. Firenze, la città del capitalismo mercantile nascente e
della borghesia rampante, oscilla continuamente tra servitù e licenza,
tra tirannia e anarchia, senza riuscire a placarsi. La libertà, in siffatta
città, è negata anche a chi domina: non si è liberi perché tutti gli altri
sono servi o perché si fa quel che si desidera. La libertà è complicata
da costruire e da conservare ed è legata al fatto che nessuno prevari-
chi gli altri ossia al fatto che tutti osservino le leggi e i buoni costumi
che le generano e che, contemporaneamente, ne sono l’effetto. Buoni
costumi che dipendono da virtù ed equalità.
Ma questo non è il caso di Firenze, poiché “le parti che nacquero
per la discordia degli Albizzi e dei Ricci [...] mai non si spensero”;
nei ricchi “Alberti, Ricci e Medici [...] restava [...] una memoria delle
ingiurie ricevute e uno desiderio di vendicarle” contro i “nobili popo-
lani” che, pur governando la città, “diventarono [...] insolenti” e, cau-
sa l’“invidia” reciproca, non prestarono sufficiente attenzione a chi li
poteva “offendere” (cfr. IF IV.2, 376-377). Nonostante la repubbli-
ca oligarchica fosse sostenuta nel suo principio “prima dalla virtù di
messer Maso degli Albizzi, di poi da quella di Niccolò da Uzzano” (ivi
375), questo non fu sufficiente a ordinare la libertà. La virtù, anche di
uno solo o di due consecutivi non basta (cfr. D I.19), perché essa non
si trasmette se non attraverso ordini capaci di riprodurla.
La disunione e l’imprudenza dei nobili, causa gli “umori, i quali
occultamente cominciavano a ribollire, [...] fecero che la famiglia dei
Medici riprese autorità” (cfr. IF IV.3, 377-378). La guerra contro i
Visconti (1422-1427) innescò il processo creando “rammarichi” in chi
era contrario e accusava “la ambizione e la avarizia dei potenti [...]
che, per sfogare gli appetiti loro e opprimere, per dominare, il popolo,
volevano muovere una guerra non necessaria”: non a caso, le “nuove
gravezze” (tasse) che erano state imposte “aggravavano più i minori
che i maggiori cittadini” (cfr. IF IV.4, 381), anche se la repubblica ot-
timatizia, che durò quarant’anni, “sarebbe durata meno, se le guerre
dei Visconti non [l’avessero tenuta] unita” (cfr. DFR 625). Fu proprio
la guerra, però, a porre le basi per il ritorno dei Medici a Firenze,
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 95

perché, non procedendo bene, aumentava i malumori dei fiorentini, i


quali accusavano chi l’aveva voluta di averlo fatto “non per difendere
la libertà, la quale è loro nemica, ma per accrescere la potenza pro-
pria” (IF IV.7, 385).
Per cercare di quietare “gli umori mossi della moltitudine”, Ri-
naldo degli Albizzi, figlio di Maso, si mise in evidenza convincendo
i cittadini della bontà e utilità della guerra (cfr. ivi 386-387). Per re-
perire i fondi necessari alla guerra furono designati “venti cittadini a
porre nuove gravezze” imposte ai “potenti cittadini” che, offesi (cfr.
IF IV.8, 387-388), cercarono di far ricadere la responsabilità sul popo-
lo minuto e sulla plebe. Il secondo discorso di Rinaldo degli Albizzi
è un tipico esempio di discorso ostentatamente fazioso: egli, infatti,
rinfocola lo spauracchio della “potestà della plebe” e dell’“iniquità di
quello stato che regnò dal ’78 allo ’81 (la sconfitta dei Ciompi ebbe
lunghi strascichi negativi e veniva giocata contro la paura del ritor-
no di un governo operaio); ricorda i molti morti di quel periodo, i
“disordini” in cui era caduta la città e le tasse a proprio vantaggio
che, assieme alla nomina dei “magistrati secondo lo arbitrio suo”, la
“moltitudine aveva posto”; paventa che il ritorno al governo della ple-
be “guasterebbe” di certo lo “stato” con l’esito che Firenze “sarebbe
governata, o a caso, sotto l’arbitrio della moltitudine, dove per una
parte licenziosamente e per l’altra pericolosamente si vivrebbe, o sotto
lo imperio di uno che di quella si facesse principe”10; indica l’erro-
re nei “larghi squittini” (cfr. Ninci), resi possibili dalla “negligenza”
dei grandi, e nell’aver riempito “il palazzo di uomini nuovi e vili”;
infine, espone il rimedio: “rendere lo stato ai grandi e tôrre autorità
alle Arti minori” in modo da far diminuire quella della plebe “nei
Consigli” (cfr. IF IV.9, 389-390). Il discorso paranoico pronunciato da
Rinaldo degli Albizzi, costruito sull’omissione delle colpe dei grandi e
sull’enfasi di quelle della plebe, fu supportato da Niccolò da Uzzano,
il quale aggiunse che sarebbe stato difficile realizzarlo senza l’aiuto di
Giovanni (di Bicci) de’ Medici: si trattava, dunque, di portarlo dalla
propria parte sottraendolo alla possibilità che si schierasse con la ple-
be per diventare principe della città (cfr. ivi, 391), la qual cosa però
aprì la strada al principato di suo figlio Cosimo (cfr. IF IV.10-11 e 16).

10 “A caso” significa, come in altri passi, “non naturali necessitate, ma come risultato storico
di una vicenda – fatta di passioni e di conflitti – in cui è dato, sì, riconoscere un’inclinazio-
ne, una tendenza prevalente, non però tale che a certe condizioni, da quel medesimo gioco
di forze, non possa affermarsi una tendenza diversa” (Inglese 2006, 111) – una definizione
molto vicina ai concetti althusseriani di aleatorietà e biforcazione (cfr. Raimondi 2011).
96 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

Questo, come molti altri episodi delle Istorie, è un vero esempio


di eterogenesi dei fini in totale assenza però di astuzia della ragione e,
dunque, di qualunque forma di teleologia, destino o Provvidenza. Al
contrario, esso testimonia dello scontro tra progetti umani diversi che
risultano vincenti o perdenti solo a causa di dinamiche asimmetriche
e aleatorie di forza e astuzia.
Due sono gli aspetti, peraltro intrecciati, di questa vicenda che me-
ritano di essere evidenziati: la nascita di un principato dai contorni
tirannici e l’istituzione del “catasto”.
Giovanni de’ Medici era stato nominato “magistrato [...] essen-
do diventato ricchissimo, ed essendo di natura benigno e umano”, al
punto che “alla moltitudine [pareva] aversi guadagnato uno difenso-
re”, anche se Niccolò da Uzzano aveva ammonito quanto fosse “peri-
coloso nutrire uno che avesse nello universale tanta reputazione”, ma
non fu ascoltato (cfr. IF IV.3, 377-378). Giovanni de’ Medici, infatti,
aveva un piano e un fine: diventare principe di Firenze usando il po-
polo per indebolire gli ottimati, ma senza inimicarseli, come prova il
modo con cui si pose di fronte all’istituzione del catasto.
I “cittadini di Firenze, stracchi delle gravezze” della guerra, “si
accordarono a rinnovarle” in forma più stabile ed equa, imponendo
una tassa proporzionale sulla base della ricchezza che gravò “assai
i cittadini potenti”, i quali protestarono ancor prima che fosse ap-
provata; solo Giovanni de’ Medici, ricco pure lui, “apertamente la
lodava”, perché poneva “in parte regola alla tirannide dei potenti”
(gli ottimati che governavano Firenze dal 1393) a favore dell’“uni-
versale”. Purtroppo, “come accade che mai gli uomini non si sodi-
sfanno e, avuta una cosa, non vi si contentando dentro ne desiderano
un’altra, il popolo, non contento alla ugualità della gravezza che dalla
legge nasceva, domandava che si riandassero i tempi passati, e che si
vedesse quello che i potenti secondo il catasto avevano pagato meno,
e si facessero pagare tanto che gli andassero a ragguaglio di coloro
che, per pagare quello che non dovevano, avevano vendute le loro
possessioni”. Il popolo chiedeva insomma che il provvedimento fosse
retroattivo, fomentando la paura dei ricchi, che non avrebbero potuto
“più muovere una guerra senza loro danno, avendo a concorrere alle
spese come gli altri” (cfr. IF IV.14, 399-402).
Il nodo è sempre lo stesso: i grandi hanno bisogno del popolo per
fare la guerra che, per loro, rappresenta la possibilità di arricchirsi,
ma non vogliono concedere nulla al popolo in cambio del suo aiuto,
contrariamente a quanto fece Roma, innescando il sentimento di rival-
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 97

sa del popolo; e “dove molti restano malcontenti si può ogni giorno


temere di qualche cattivo accidente” (IF IV.10, 392).
Astutamente, Giovanni de’ Medici si pose, rispetto a questi
“umori mossi”, come mediatore capace di acquietarli; egli, infatti,
deplorò l’effetto retroattivo della norma, ma la ritenne giusta per il
presente e per il futuro, e utile “a riunire, non a dividere la città”
(cfr. IF IV.14, 402). La retorica del bene comune, come Machiavelli
afferma nell’elogio di Giovanni, utile a ingraziarsi il papa che aveva
commissionato le Istorie, è usata abilmente dal rappresentante dei
Medici per rafforzare il proprio prestigio e per conservare e accre-
scere la “reputazione” politica della propria famiglia, lasciata poi in
eredità, alla sua morte (1429), al figlio Cosimo (cfr. IF IV.16, 405-
406). Per questo, Sasso parla di atteggiamento tirannico, scorgendo
un parallelo col Duca d’Atene (cfr. 19932, II, 376-390). Una tirannia
che, in questo caso, si costruisce senza colpo ferire, mostrandosi ligi
alle leggi e agli ordini della repubblica: un percorso senza illeciti,
dunque, che dalla repubblica oligarchica conduce senza ostacoli alla
tirannia del principato.
Una situazione che, diversa nei modi ma identica negli intenti,
si ripeté poco dopo con Rinaldo degli Albizzi, almeno a dar credito
alle “calunnie”, contro le quali Rinaldo protestò platealmente a co-
spetto dei “Dieci” (cfr. IF IV.22, 418-419). In occasione della guerra
contro Lucca, cominciata nel dicembre del 1429 (cfr. IF IV.17-25)
e rivelatasi fallimentare, Rinaldo degli Albizzi e Niccolò da Uzzano
si trovarono su fronti opposti: il primo favorevole all’impresa, il se-
condo contrario; la repubblica ottimatizia non aveva posto fine alle
divisioni interne, che si ridislocavano continuamente, perché “tanto
variano con il tempo i pareri, e tanto è più pronta la moltitudine ad
occupare quel d’altri che a guardare il suo, e tanto sono mossi più gli
uomini da la speranza dello acquistare che dal timore del perdere;
perché questo non è, se non da presso, creduto, quell’altra, ancora
che discosto, si spera” (IF IV.18, 410), come dimostrò Cosimo de’
Medici che, pur essendo alleato di Rinaldo, cominciò a soffiare sulle
calunnie rivolte a questi nel tentativo di far cadere su di lui e sul-
la sua parte la responsabilità dell’esito negativo della guerra (cfr. IF
IV.26, 427).
Abbiamo qui un’esemplificazione degli “umori delle parti” (ibid.),
che differiscono da quelli precedenti l’affermazione del capitalismo
mercantile che costituivano la sfera politica in quanto tale; questi,
infatti, essendo privati e più individuali che collettivi, appartengono
98 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

alla sfera dell’economia11. Ogni parte è adesso definita da un proprio


umore, che è l’insieme degli interessi che ognuna persegue per sé,
indipendentemente e a scapito delle altre, producendo un effetto de-
generativo tipico dell’oligarchia, che è la prima forma istituzionale ab-
bastanza stabile assunta dal capitalismo mercantile fiorentino.
Il gesto estremo degli ottimati, la “Parte” (cfr. ivi 426) formata da-
gli oligarchi eredi dei guelfi, fu quello di “cacciare Cosimo” (IF IV.27,
428), nonostante il parere contrario, e ancora inascoltato, di Niccolò
da Uzzano, che pure condivideva l’idea che Cosimo fosse pericoloso
per la loro fazione, perché usava “modi tutti che tirano [...] al princi-
pato”. Ma ormai, “la città, che naturalmente è partigiana e, per essere
sempre vissuta in parte, [è] corrotta” non ha via d’uscita, perché “se
la si libera da Cosimo, la si fa serva a messer Rinaldo; [...] tutti que-
sti cittadini, [infatti], parte per ignoranza, parte per malizia, sono a
vendere questa repubblica apparecchiati; ed è in tanto la fortuna loro
amica, che hanno trovato il compratore” (cfr. ivi, 430-432).
Finita la guerra, e morto Niccolò da Uzzano (1432), “rimase la cit-
tà [...] senza freno, donde [...] senza alcun rispetto crebbero i malvagi
umori”. In questa “confusione” Rinaldo degli Albizzi ebbe la meglio
e riuscì ad arrestare Cosimo de’ Medici, con la complicità di un gon-
faloniere moroso e corrotto che, per ironia della sorte, si chiamava
Bernardo Guadagni, che si fece pagare i debiti da Rinaldo e corrom-
pere da Cosimo, il quale, dopo esser stato imprigionato, fu mandato
in esilio a Padova, anziché giustiziato (cfr. IF IV.28, 432-433 e IV.29,
437; diverso l’auspicio in D I.52, 245).
Dove regnano gli “umori delle parti”, la confusione e la corruzione
sono sovrane perché, in sostanza, ognuno ha un proprio umore-interes-
se da seguire e lo persegue in ogni modo, non solo al di là di ogni prin-
cipio morale, ma anche al di là di ogni fedeltà politica, sebbene di parte.
Gli ottimati, divisi sulla sorte da assegnare a Cosimo, ancor più si
divisero, dopo il suo esilio, sull’atteggiamento da tenere nei confronti
dei sostenitori dei Medici; e se c’era chi, come Rinaldo degli Albizzi,

11 Machiavelli mostra il passaggio dal paradigma delle passioni a quello degli interessi (cfr.
Hirschman) valutandolo negativamente. Gli interessi mercantili non frenano le passioni
e, sebbene con dinamiche diverse, contribuiscono all’infermità di Firenze, complicando il
quadro politico, non più strutturato da una sola linea di demarcazione (dominare – non
essere dominati), ma da linee multiple, che continuamente si dividono formando sempre
nuove partizioni, che forse altro non sono che i partiti in senso moderno, la cui radice
settaria in senso cristiano, pur presente, non sembra prevalente (come invece sostiene
Mansfield in Aa.Vv. 1972, 209-266). Forse per questo Machiavelli dubita “della possibilità
di raggiungere soluzioni definitive nella gestione dei conflitti” (cfr. Wolin, 336).
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 99

sosteneva la necessità “di riguadagnarsi i grandi”, altri, invece, si op-


ponevano, “mostrando la superbia dei grandi e la natura loro insop-
portabile”. Nel frattempo, crescevano i preparativi degli amici di Co-
simo per farlo tornare e la fortuna li assecondò quando, nell’“agosto
1434, fu tratto gonfaloniere per i due mesi futuri Niccolò di Cocco,
e con quello otto Signori tutti partigiani di Cosimo” (cfr. IF IV.30,
438-440). Il tentativo di “fare ritornare Cosimo” scatenò la reazio-
ne di Rinaldo degli Albizzi, che brandì le armi per capeggiare, come
d’accordo, gli ottimati che, però, si guardarono bene dall’aiutarlo; le
defezioni di parte ottimatizia favorirono l’intervento rassicurante dei
Signori, ai quali si aggiunse quello di papa Eugenio IV, che convinse
Rinaldo a prendere “miglior partito” e a disarmare i suoi: cosa che
fece (cfr. IF IV.31, 441 e IV.32, 444). A questo punto, i Signori fecero
rientrare Cosimo ed esiliarono Rinaldo e molti dei suoi (cfr. IF IV.33,
444-445), a testimonianza che “gli uomini [sono] ciechi nei desideri
loro” e che, spesso, “quello che desiderano per loro salute è [...] la
loro rovina” (IF IV.21, 416). Fu così che Cosimo de’ Medici “tornò in
Firenze, [...] trionfante, [...] salutato benefattore del popolo e padre
della patria” (IF IV.33, 446), il 6 ottobre 1434.

5. Il periodo 1434-1494, che contrassegna il regime mediceo da


Cosimo a Lorenzo, occupa poco più della metà delle pagine di tutta
l’opera. Anche in questo caso, seleziono gli episodi che ritengo rile-
vanti per l’argomento di questo libro e quelli che mi consentono di
misurare la posizione machiavelliana nei confronti del principato in
generale e del principato mediceo in particolare.
Lo sguardo, innanzitutto, va al I capitolo del V libro, nel quale Ma-
chiavelli offre alcune considerazioni di sintesi. Il I capitolo si divide
in due parti ben distinte, divise a loro volta in due blocchi ognuna:
la prima parte si divide in: 1) dall’inizio fino a “... da questa gloria e
buona fortuna” (cfr. IF V.1, 449); 2) da “Onde si è dai prudenti...”
a “... non rimangono soffocati” (cfr. ivi 449-450); la seconda parte,
invece, si divide in: 3) da “Queste cagioni feciono...” a “... finivonsi
senza danno” (cfr. ivi 450-451); 4) da “Tanto che quella virtù...” alla
fine (cfr. ivi, 451-452).
Il primo blocco, assai noto, è stato, in alcuni casi, interpretato
come la formulazione machiavelliana di una “filosofia della storia”
con riferimento all’anakyklosis polibiana, anche se le cose non stanno
in questo modo (cfr. Sasso 19932, II, 422-423), perché rispetto alla
fissa ciclicità dello schema polibiano, Machiavelli “ammette l’esistenza
100 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

di occasioni tali da spezzare o rendere più libero questo meccanismo


naturalistico (cfr. Principe VI)” (Montevecchi, 514, n. 1). Tre sono i
temi principali:
[1a] Sogliono le provincie il più delle volte, nel variare che le fanno, dall’or-
dine venire al disordine, e di nuovo di poi dal disordine all’ordine trapassare;
[1b] perché, non essendo dalla natura conceduto alle mondane cose il fer-
marsi, come le arrivano alla loro ultima perfezione, non avendo più da sali-
re, conviene che scendano; e similmente, scese che le sono, e per li disordini
ad ultima bassezza pervenute, di necessità, non potendo più scendere, con-
viene che salgano, e così sempre da il bene si scende al male, e da il male si
sale al bene.
[1c] Perché la virtù partorisce quiete, la quiete ozio, l’ozio disordine, il di-
sordine rovina, e similmente dalla rovina nasce l’ordine, da l’ordine virtù, da
questa gloria e buona fortuna.

I tre passaggi sono strutturati secondo tre antitesi i cui termini


disegnano tre movimenti reversibili: 1a) ordine-disordine; 1b) sali-
re-scendere e bene-male; 1c) virtù-rovina. Anche se i termini non si
corrispondono specularmente in modo del tutto simmetrico, ecco un
primo schema: da ordine = bene = virtù si scende verso disordine =
male = rovina, da cui si risale verso ordine = bene = virtù – senza
automatismi. Un secondo schema, più preciso, è questo: dalla virtù
si scende attraverso quiete, ozio e disordine fino alla rovina, da cui si
risale attraverso ordine, virtù e gloria fino alla buona fortuna.
In merito ci sono alcune considerazioni da fare. A) ci sono due ca-
tene di sinonimi: i) ordine, bene, virtù e ii) disordine, male, rovina. B)
è chiarito il significato di salire e scendere, che compaiono anche nel
Discursus (cfr. 631): il primo indica il movimento verso il bene, il se-
condo il movimento contrario; i termini, inoltre, sono relativi “all’ulti-
ma perfezione” delle “mondane cose”, quindi non identificano status
assoluti, ma l’ordine (perfezione massima) e il disordine (imperfezione
massima) di un ente mondano: un principato o una repubblica, come
nel Discursus, per esempio. C) le due serie del secondo schema non
sono simmetriche, perché gloria e buona fortuna sono effetti della vir-
tù e la rovina effetto del disordine; bisognerebbe allora schematizzare
in questo modo: da gloria e buona fortuna si scende attraverso virtù,
quiete, ozio e disordine fino alla rovina, da cui si risale attraverso or-
dine e virtù fino a gloria e buona fortuna, dove è chiaro che nei gradi
di ascesa mancano i corrispettivi di quiete e ozio12.

12 È curioso che proprio sul versante ascendente, dalla rovina alla virtù, Machiavelli sia più
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 101

Uno dei problemi più rilevanti del pensiero machiavelliano vie-


ne così alla luce: “come le [mondane cose] arrivano alla loro ultima
perfezione, non avendo più da salire, conviene che scendano” e vice-
versa. Il tema ha una portata filosofica rilevante, che non analizzerò
qui. Per ora, mi preme far notare che i due estremi del processo, per-
fezione-imperfezione, non sono statici ma dinamici, e si configurano
come fasi di un movimento più ampio e complesso. La perfezione
non è immobilità, non è uno stato di beatitudine eterna, ma il punto
in cui il processo inizia a rovesciarsi nel suo contrario. Si potrebbe
forse essere tentati di riconoscere in questo movimento dei connotati
dialettici, magari di stampo hegeliano, seppur ante litteram, ma di là
dal problema di rintracciarne la matrice metafisica o naturalistica, va
sottolineato l’automatismo dell’inversione a fronte del compimento.
Solo quando qualcosa giunge alla propria, relativa e dunque non asso-
luta, perfezione – ultima perché non prevede la possibilità di ulteriore
espansione – inizia a scendere, degradando progressivamente verso
il disordine che, però, non è il nulla o il caos, ma il crogiolo di nuovi
percorsi verso l’ordine e la virtù. Difficile non pensare all’anakyklosis
polibiana, anche se è proprio il suo determinismo che il seguito del
brano spezza.
Il secondo blocco, infatti, evidenzia la conseguenza del ragiona-
mento:
[2] Onde si è da i prudenti osservato come le lettere vengono dietro alle
armi, e che nelle provincie e nelle città prima i capitani che i filosofi nasco-
no. Perché avendo le buone e ordinate armi partorito vittorie, e le vittorie
quiete, non si può la fortezza degli armati animi con il più onesto ozio che
con quello delle lettere corrompere; né può l’ozio con il maggiore e più pe-
ricoloso inganno che con questo nelle città bene institute entrare. Il che fu
da Catone, quando in Roma Diogene e Carneade filosofi, mandati da Atene
oratori al Senato, vennero, ottimamente conosciuto; il quale, vedendo come
la gioventù romana cominciava con ammirazione a seguitarli, e conoscendo
il male che da quello onesto ozio alla sua patria ne poteva risultare, provvi-
de che niuno filosofo potesse essere in Roma ricevuto. Vengono per tanto
le provincie per questi mezzi alla rovina; dove pervenute, e gli uomini per
le battiture diventati savi, ritornano, come è detto, all’ordine, se già da una
forza straordinaria non rimangono soffocati.

reticente che sull’altro versante, anche se sarebbe questa “scala” a essere più interessante
per capire come si ri-forma una città corrotta. E c’è anche un’altra curiosità: l’ordine viene
prima della virtù e, in un modo che qui non è detto, la produce. I vuoti o silenzi stanno a
indicare la fortuna?
102 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

La sequenza discendente del brano precedente, dalla virtù al di-


sordine, è scandita in modo più dettagliato, anche rispetto a Discorsi
I.18 (cfr. capitolo 1, § 1) – da notare, soprattutto, la corrispondenza
tra l’ozio, le lettere e la corruzione che, dunque, non è solo effetto
dell’inazione, ma della libera immaginazione. Dalla virtù = buone e
ordinate armi si scende, attraverso vittorie, quiete e ozio = lettere =
corruzione, fino al male.
A parte la consueta posizione antifilosofica di Machiavelli, esem-
plificata da Catone l’Uticense, secondo cui la filosofia è immagina-
zione, un onesto ozio lontano dalla “realtà effettuale della cosa” (cfr.
P XV, 215-216 e IF VIII.29, 765), cioè dal “conflitto” (cfr. Inglese
2006, 57), l’aspetto da sottolineare è proprio la chiusa del brano, dove
Machiavelli, da un lato, ribadisce il ciclo ordine-disordine, mentre
dall’altro precisa che il ritorno all’ordine avviene solo “se gli uomini
non rimangono soffocati da una forza straordinaria”. Esiste, dunque,
la possibilità che la circolarità (naturale?) del processo sia interrotta.
Il terzo blocco, passando dall’enunciazione di regole generali alla
loro esemplificazione storica, cambia la prospettiva:
[3] Queste cagioni fecero, prima mediante gli antichi Toscani, di poi i Ro-
mani, ora felice ora misera la Italia. E avvenga che di poi sopra le romane
rovine non si sia edificato cosa che l’abbia in modo da quelle ricomperata,
che sotto uno virtuoso principato abbia potuto gloriosamente operare, non
di meno sorse tanta virtù in alcuna delle nuove città e dei nuovi imperi i
quali tra le romane rovine nacquero che, se bene uno non dominasse agli al-
tri, erano non di meno in modo insieme concordi e ordinati che dai barbari
la liberarono e difesero. Intra i quali imperi i Fiorentini, se erano di minore
dominio, non erano di autorità né di potenza minori; anzi, per essere posti
in mezzo alla Italia, ricchi e presti alle offese, o felicemente una guerra loro
mossa sostenevano, o davano la vittoria a quello con il quale si accostavano.
Dalla virtù dunque di questi nuovi principati, se non nacquero tempi che
fossero per lunga pace quieti, non furono anche per la asprezza della guerra
pericolosi; perché pace non si può affermare che sia dove spesso i principati
con le armi l’uno l’altro si assaltano; guerre ancora non si possono chiamare
quelle nelle quali gli uomini non si ammazzano, le città non si saccheggia-
no, i principati non si distruggono: perché quelle guerre in tanta debolezza
vengono, che le si cominciavano senza paura, trattavansi senza pericolo e
finivonsi senza danno.

Il movimento di salita-discesa sopra evidenziato è esemplificato


dall’alternarsi di felicità e miseria in Italia a causa dei Toscani (Etru-
schi) e dei Romani. Torna il tema della grandezza antica dei Fiorentini
e una nuova incursione nella questione della loro origine, fatta risalire
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 103

alla caduta dell’Impero romano, sopra le cui rovine, pur non essendo-
si edificato qualcosa di analogo, capace di riscattare l’Italia dalla sua
miseria, è nondimeno sorta una pluralità di città e imperi (nel senso
generico di domini: cfr. Montevecchi, 515 n. 5) virtuosi. Come se la
fine dell’Impero romano avesse reso possibile la dispersione della sua
virtù un po’ ovunque nel mondo; una virtù connessa a due effetti:
l’assenza del desiderio di dominare e la capacità di liberarsi dai bar-
bari. Tra queste città ci fu Firenze, la cui origine sembra ora del tutto
emendata dalle ombre della servitù e, dunque, ascrivibile in toto al
piano della virtù che, irrorata ovunque dalla fine dell’Impero roma-
no, fece nascere tempi che non furono di pace assoluta ma nemmeno
rattristati da guerre troppo pericolose, tutt’al più scaramucce, forse
perché combattute da mercenari, secondo l’ipotesi di Montevecchi
(cfr. 515 n. 6): tempi fausti, dunque.
Il quarto blocco, infine, chiude la disamina e apre la seconda parte
delle Istorie, che tratta del principato mediceo (cfr. IF V-VIII), con
una chiave di lettura che non dovette far molto contento papa Cle-
mente VII (Giulio de’ Medici). Ma l’importanza del brano sta anche
nell’enunciazione di un diverso modo per interrompere il ciclo tra
ordine e disordine, come se la figura del ciclo fosse uno schema astrat-
to utile a misurare il reale, al cui contatto però si distorce diventando
figura concreta della storia.

[4] Tanto che quella virtù che per una lunga pace si soleva nelle altre pro-
vincie spegnere fu dalla viltà di quelle in Italia spenta, come chiaramente si
potrà conoscere per quello che da noi sarà da il 1434 al ’94 descritto, dove
si vedrà come alla fine si aperse di nuovo la via ai barbari e riposesi la Italia
nella servitù di quelli. E se le cose fatte dai principi nostri fuori e in casa,
non fieno, come quelle degli antichi, con ammirazione per la loro virtù e
grandezza lette, fieno forse per le altre loro qualità, con non minore ammi-
razione considerate, vedendo come tanti nobilissimi popoli da sì deboli e
male amministrate armi fossero tenuti in freno. E se, nel descrivere le cose
seguite in questo guasto mondo, non si narrerà o fortezza di soldati, o virtù
di capitano, o amore verso la patria di cittadino, si vedrà con quali inganni,
con quali astuzie e arti, i principi, i soldati e i capi delle repubbliche, per
mantenersi quella reputazione che non avevano meritata, si governavano.
Il che sarà forse non meno utile che si siano le antiche cose a conoscere,
perché, se quelle i liberali animi a seguitarle accendono, queste a fuggirle e
spegnerle gli accenderanno.

Mentre nelle altre provincie la virtù si spegneva a causa della lun-


ga pace, secondo lo schema per cui la pace porta la quiete, la quiete
104 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

l’ozio e questo la rovina, in Firenze, invece, la virtù venne meno per


la viltà delle truppe mercenarie, che non esitano a cambiar casacca
di fronte al miglior offerente o a fingere di combattere per evitare la
morte. Se, dunque, si può non risalire a causa di una forza straordina-
ria, si può anche scendere a causa della viltà dei mercenari e non solo
per le mollezze portate dalla fine vittoriosa delle guerre o per gli ozi
indotti dalle meditazioni filosofiche.
La viltà che spense la virtù si vede all’opera, in modo particolare,
tra il 1434 e il 1494, durante il regno dei Medici, ed ebbe l’effetto di
aprire la via ai barbari (stranieri) rendendo l’Italia loro serva, perché
produsse la perdita della libertà intesa come autonomia e autogover-
no. Per questo motivo, le gesta dei principi italiani non saranno ammi-
rate per la loro virtù, come quelle degli antichi, ma perché mostrano
come popoli anche nobili possano essere tenuti a freno da eserciti
deboli e male amministrati. Anche il male ha i suoi exempla e se quelli
della virtù spingono gli animi nobili all’imitazione, i primi spingono
a rifuggirla ed estirparla: “e così, i nostri principi italiani quella virtù
che non era in loro temevano in altri, e la spegnevano: tanto che, non
la avendo alcuno, esposero questa provincia a quella rovina la quale,
dopo non molto tempo, la guastò e afflisse” (IF VII.8, 643).
La viltà è dei mercenari e di chi li assolda per combattere al proprio
posto, perché la virtù non nasce dove non si combatta in prima per-
sona per la propria libertà (cfr. P XII e D I.43). L’origine di Firenze,
dunque, e questa sembra essere l’ultima parola di Machiavelli in meri-
to, fu in parte libera, perché fecondata dalla disseminazione della virtù
romana a seguito della fine dell’impero. Essa, però, si perse a poco a
poco e per cause diverse: la faziosità delle parti (1215-1393), la per-
sonalizzazione degli umori (1393-1434) e la viltà dovuta alla pessima
abitudine medicea di utilizzare truppe mercenarie (1434-1494). Non
è un caso che dal V libro Machiavelli reintroduca massicciamente il
racconto delle “cose di fuori” accanto a quello delle “cose di dentro”.
Così come non è un caso che il II capitolo del V libro cominci con un
riferimento non certo lusinghiero ai principi italiani e ai mercenari13.
Il ritorno di Cosimo a Firenze e l’inizio dello stato mediceo sono in
continuità e in discontinuità con la repubblica ottimatizia. La prima

13 Machiavelli aveva introdotto l’esame delle questioni esterne di Firenze già nei capitoli sul
regime ottimatizio (cfr. IF III.22 e III.25, 360-361), ma l’ambito del discorso faceva capo
alla questione delle buone armi e alla loro importanza per l’augumento e per la difesa, con
un ammiccamento alla nobiltà e alla sua rilevanza nelle questioni militari (cfr. IF II.14,
221).
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 105

è data dalla presenza dell’“umore delle parti”, la seconda dalla sua


minor nocività rispetto “alle ricchezze, ai parenti e alle inimicizie pri-
vate” (IF V.4, 457). Se la repubblica ottimatizia aveva lo scopo di assi-
curare a ognuno dei grandi il suo status o addirittura ampliarlo, nello
stato mediceo, “spogliata [...] la città dei nemici o sospetti allo stato,
[i Medici] si volsero a beneficare nuove genti per fare più gagliarda la
parte loro”: dall’umore delle parti all’umore di una parte sola, dunque.
La famiglia degli Alberti, e qualunque altro si trovava ribelle, alla patria
restituirono; tutti i grandi, eccetto pochissimi, nello ordine popolare ridus-
sero; le possessioni dei ribelli tra loro per piccolo prezzo divisero. Apresso
a questo, con leggi e nuovi ordini si affortificarono e fecero nuovi squittini,
traendo delle borse i nemici e riempiendole di amici loro. E ammoniti dalla
rovina degli avversari, giudicando che non bastassero gli squittini scelti a te-
nere fermo lo stato loro, pensorono che i magistrati, i quali del sangue han-
no autorità fossero sempre dei principi della setta loro, e però vollero che
gli accoppiatori preposti alla imborsazione dei nuovi squittini, insieme con
la Signoria vecchia, avessero autorità di creare la nuova; dettero agli Otto di
guardia autorità sopra il sangue; providono che i confinati, fornito il tempo,
non potessero tornare, se prima dei Signori e Collegi, che sono in numero
trentasette, non se ne accordava trentaquattro alla loro restituzione; lo scri-
vere loro e da quelli ricevere lettere proibirono, e ogni parola, ogni cenno,
ogni usanza che a quelli che governavano fosse in alcuna parte dispiaciuta,
era gravissimamente punita. E se in Firenze rimase alcuno sospetto, il quale
da queste offese non fosse stato aggiunto, fu dalle gravezze che di nuovo
ordinarono afflitto; e in poco tempo, avendo cacciata e impoverita tutta la
parte nemica, dello stato loro si assicurarono. E per non mancare di aiuti di
fuori, e per torli a quelli che disegnassero offenderli, con il papa, Veneziani
e duca di Milano a difesa degli stati si collegarono (ivi 458-459).

Il resto del V libro e tutto il VI trattano delle guerre in cui Firenze


fu impegnata grazie alla politica delle alleanze dei Medici e ai movi-
menti espansionistici dei vari stati italiani tra il 1434 e il 1463, quindi
anche dopo la pace di Lodi, 9 aprile 1454 (cfr. IF VI.32, 606), che,
pur essendo “universale [...], dalla ambizione dei soldati mercenari fu
turbata” (cfr. IF VI.33, 608), avvalorando la tesi, enunciata nel Prin-
cipe (cfr. XII-XIII), che causa della rovina di Firenze e dell’Italia fu,
innanzitutto, l’uso smodato dei soldati a pagamento, cui s’aggiunse
l’ambizione di molti signori locali (cfr., per esempio, IF VI.37, 617-
618), tra i quali spicca il caso di Francesco Sforza (cfr. Marietti 2005,
97-106).
All’interno della città, invece, i nuovi signori di Firenze si premu-
rarono, innanzitutto, di “tenere fermo il governo” (IF V.31, 519), che
106 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

solo dopo dieci anni (1444) fu rinnovato rinforzando l’“autorità agli


amici e i nemici battendo” (cfr. IF VI.7, 548). L’excusatio dell’incipit
del VII libro riannoda poi i fili del discorso, evidenziando che la nar-
razione delle vicende esterne a Firenze era importante per capirne la
storia interna, che ora va ripresa. Prima di cominciare, però, Machia-
velli dice qualcosa di più generale sulle repubbliche, quasi una sintesi
del suo pensiero e la sua ultima parola in merito:
coloro che sperano che una repubblica possa essere unita, assai di questa
speranza s’ingannano. Vera cosa è che alcune divisioni nuocono alle repub-
bliche, e alcune giovano: quelle nuocono che sono da le sette e da partigiani
accompagnate; quelle giovano che senza sette e senza partigiani si manten-
gono. Non potendo dunque provvedere uno fondatore di una repubblica
che non siano inimicizie in quella, ha a provvedere almeno che non vi siano
sette (cfr. IF VII.1, 621-622).

Le divisioni sono nocive se vi partecipano sette e partigiani e gio-


vevoli se non vi partecipano. Sette e partigiani, però, non sono effetti
necessari e nemmeno sempre deleteri delle divisioni interne alle re-
pubbliche che, pur essendo divise, non sono composte esclusivamente
di sette e partigiani. Cosa sono e come si producono, dunque, queste
ultime?
È da sapere come in due modi acquistano riputazione i cittadini nelle città:
o per vie pubbliche o per modi privati. Pubblicamente si acquista vincendo
una giornata, acquistando una terra, facendo una legazione con sollecitu-
dine e con prudenza, consigliando la repubblica saviamente e felicemente;
per modi privati si acquista beneficiando questo e quell’altro cittadino, difen-
dendolo dai magistrati, suvvenendolo di danari, tirandolo immeritamente agli
onori, e con giochi e doni pubblici gratificandosi la plebe. Da questo modo
di procedere nascono le sette e i partigiani; e quanto questa reputazione
così guadagnata offende, tanto quella giova, quando ella non è con le sette
mescolata, perché la è fondata sopra un bene comune, non sopra un bene
privato. E benché ancora tra i cittadini così fatti non si possa per alcuno
modo provvedere che non vi siano odi grandissimi, nondimeno non avendo
partigiani che per utilità propria li seguitino, non possono alla repubblica
nuocere; anzi conviene che giovino, perché è necessario, per vincere le loro
prove, si voltino alla esaltazione di quella, e particolarmente osservino l’uno
l’altro, acciò che i termini civili non si trapassino (ivi, 622-623; cors. miei).

Le sette e i partigiani nascono quando si acquista reputazione con


modi privati, perché quella acquisita pubblicamente non nuoce essen-
do fondata su “un bene comune” e non su “un bene privato”: non c’è
più, dunque, il bene comune. Per questo, chi acquista reputazione,
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 107

basandosi su un bene comune (interesse), ha un codazzo di clientes.


Non essendo possibile impedire che nascano grandissimi odi nemme-
no tra cittadini che acquistano reputazione pubblicamente, bisogna
quantomeno evitare che siano fomentati dalle opposte partigianerie
che trascinerebbero la repubblica verso la rovina. Gli odi che inter-
corrono tra questi cittadini, inoltre, giovano, perché costoro hanno
bisogno della repubblica per le loro imprese e, dunque, sono portati
a osservare le leggi e a sorvegliare pubblicamente che tutti facciano al-
trettanto. Le divisioni espansive implicano una gara pubblica in favo-
re di un bene comune, che consolida l’ordinamento della repubblica e
ne espande l’orizzonte vitale; le sette invece sono divisioni sterili, che
producono solo altre divisioni, senza che tale processo dicotomico ab-
bia mai fine, perché l’assenza di un bene comune genera corruzione.
Il capitalismo mercantile nascente può essere giocato contro l’asfit-
tico e litigioso mondo feudale, ma se il pensiero di Machiavelli fosse
tutto qui, avrebbe ragione Horkheimer. Invece, conclude Machiavelli,
“le inimicizie di Firenze furono sempre con sette, e per ciò furono
sempre dannose, né stette mai una setta vincitrice unita, se non tan-
to quanto la setta nemica era viva; ma come la vinta era spenta, non
avendo quella che regnava più paura che la ritenesse, né ordine infra
sé che la frenasse, la si ridivideva” (ivi, 623). La questione della virtù
dei fiorentini si ripresenta, ma non come problema che sta all’origine
della città. I fiorentini furono inizialmente virtuosi, ma perdettero la
loro virtù nel corso del tempo. Si tratta allora di capire se è recupera-
bile e come.
La Firenze medicea fu segnata da continue divisioni nocive. Nel
1455 (in realtà 1457) con la morte di Neri di Gino Capponi, “che
aveva acquistata la sua reputazione per vie pubbliche” diversamente
da Cosimo de’ Medici che aveva “alla sua potenza la pubblica e la
privata via aperta”, si ruppe l’unione del periodo 1434-1457, prodot-
ta dal fatto che entrambi “cittadini potentissimi [...], sempre ciò che
volevano senza alcuna difficoltà dal popolo ottenevano, perché gli era
mescolata con la potenza la grazia”. La morte di Neri fece credere ai
grandi di poter “diminuire la potenza” di Cosimo (cfr. IF VII.2, 623-
624) e così “Firenze seguitò nelle disunioni e nei travagli suoi” (cfr. IF
VII.5, 630).
Machiavelli sembra non dimenticare il committente delle Istorie nel
panegirico di Cosimo, “Padre della patria”, in cui “imita quelli che
scrivono le vite dei principi, non quelli che scrivono le universali isto-
rie” (cfr. IF VII.5-6, 640). Di là dalla retorica, l’elogio ha una funzione
108 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

politica precisa: idealizzando non senza ironia il ritratto del principe,


inserito nella dicotomia tra acquistare reputazione per vie pubbliche o
private, e mostrando che Cosimo rientra in ambedue, ma la seconda
conta maggiormente (cfr. IF VII.10, 646), Machiavelli vuol evidenzia-
re: 1) che anche un principe “liberale e magnifico” (IF VII.5, 631) non
è in grado di tenere ferma una città, se governa basandosi su interessi
di parte ed elargendo favori privati; 2) che l’ordinamento è instabile se
legato a qualità personali, non trasmissibili ereditariamente.
Neanche il regno mediceo, più principato che repubblica (cfr.
DFR 626), fu in grado di mantenere unita la città come testimoniano
le congiure e le continue divisioni dovute alla “tanta diversità degli
umori” (IF VII.11, 648) anche medicei (cfr. IF VII.13). L’instabilità
del principato, dunque, nonostante il “favor del popolo” e i due gran-
di personaggi che governarono, Cosimo e Lorenzo de’ Medici (cfr.
DFR 626), fu determinata dall’aver cercato reputazione seguendo più
le vie private che quelle pubbliche, con la conseguenza di riempire
la città di partigiani. Ogni benché minima riforma degli ordini che
governavano la città, infatti, rafforzò esclusivamente la parte medicea,
come mostra l’esempio della Balìa di Ruberto Lioni nel 1466 (cfr. IF
VII.17, 661). Ne seguirono tentativi continui di sovvertire lo stato,
soprattutto durante il reggimento di Piero di Cosimo de’ Medici: con-
giure, tumulti, guerre (cfr. IF VII.10-20), stroncati i quali, ai grandi
“crebbe [la] potenza, e agli altri spavento. La quale potenza senza
alcuno rispetto esercitavano, e in modo si governavano che pareva che
Iddio e la fortuna avesse dato loro quella città in preda. Delle quali
cose Piero poche ne [...] poteva [...] rimediare; perché [...] d’altro che
della lingua non si poteva valere. Né ci poteva fare altri rimedi che
ammonirli e pregarli dovessero civilmente vivere e godersi la loro pa-
tria salva, più tosto che distrutta” (IF VII.21, 669). La conseguenza fu
che, pur in un periodo in cui “il resto della Italia viveva quietamente”
(IF VII.22, 670), “Firenze era dai suoi cittadini grandemente afflitta,
e Piero all’ambizione loro, dalla malattia impedito, non poteva oppor-
si”, nonostante gli “onestissimi pensieri”, esposti nell’invettiva contro
la “cupidità” e l’“ambizione” senza freni dei grandi, che “[spoglia-
vano] dei suoi beni il vicino, [vendevano] la giustizia, [fuggivano] i
giudizi civili, [opprimevano] gli uomini pacifici, e gli insolenti [esalta-
vano]” (cfr. IF VII.23, 671-673). I tumulti, le congiure e la corruzione
dei costumi continuarono, anche per iniziativa di Lorenzo de’ Medici
(cfr. l’episodio della guerra contro Volterra: IF VII.30), caratterizzan-
do la narrazione fino alla fine del VII libro.
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 109

Il problema, dunque, non sono le parti in quanto tali, ma: 1) se


nascono per vie pubbliche o private e, 2) come si affrontano: pubbli-
camente, tramite gli ordini; o privatamente, mediante la corruzione. Il
rapporto con l’ordinamento è fondamentale, perché, affinché vi siano
vie pubbliche praticabili, devono esserci ordini stabili che governino
e garantiscano queste vie, impedendo, al contempo, che le vie private
prendano il sopravvento.
L’ultimo libro delle Istorie è un controcanto del tutto divergente
rispetto all’apologia di cui godette Lorenzo de’ Medici dopo la sua
morte (9 aprile 1492). Le prime vicende narrate sono alcune congiure,
omettendo del tutto, per esempio, le riforme istituzionali del periodo
1470-1472. La congiura più importante fu quella dei Pazzi, che Ma-
chiavelli mette tutta in conto a Lorenzo e alla sua brama di “volere
delle cose troppo” (cfr. IF VIII.2, 703). Il fallimento della congiura,
però, non portò a Firenze la pace, ma sia la scomunica da parte di
papa Sisto IV, che era uno dei mandanti, sia la guerra contro il papa
e il re di Napoli che durò fino al 13 novembre 1479 e che i fiorentini
perdettero a causa delle divisioni interne alle truppe mercenarie che
avevano assoldato (cfr. IF VIII.10-16). L’abilità di Lorenzo consistette
nel saper tramutare la sconfitta militare in una vittoria politica per sé
e per i suoi. Vedendo la città “stracca” della guerra, a seguito delle
pressioni dei suoi concittadini decise di conquistarsi “l’amicizia del
Re” piuttosto che quella del papa (cfr. IF VIII.17, 738) e, recatosi
personalmente a Napoli per trattare con Ferdinando I, ottenne la pace
(25 marzo 1480), tanto che “tornò [...] grandissimo, s’egli se n’era
partito grande”. La pace, però “riempié di sdegno il papa e i Venezia-
ni [alleati di Firenze]”, tanto che i fiorentini temettero “che da questa
pace fatta [...] nascesse maggiore guerra”. Per affrontare l’eventualità,
“i principi dello stato deliberarono di restringere il governo, e che le
deliberazioni importanti si riducessero in minore numero; e fecero un
consiglio di settanta cittadini, con quella autorità gli poterono dare
maggiore nelle azioni principali” (cfr. IF VIII.19, 743-744), diminuen-
do l’autorità dei Priori e del Gonfaloniere di giustizia. L’accentramen-
to fortissimo delle prerogative di governo nelle mani dei Settanta, che
“lo rendeva lo strumento di controllo di tutta la politica cittadina,
interna ed estera” (cfr. ivi, 744 n. 16), è l’unica disposizione istituzio-
nale fiorentina che Machiavelli menziona nel corso di tutto il libro VIII
delle Istorie. Sembra chiaro, dunque, cosa pensasse del principato me-
diceo, nonostante alcune sviolinate come l’apprezzamento di Clemen-
te VII nel IX capitolo e il discorso di Lorenzo nel X, a fronte dell’elogio
110 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

del “popolo universale di Firenze” definito “sottile interprete di tut-


te le cose” (ivi, 745). L’unico altro esempio istituzionale, esposto nel
libro VIII, infatti, si riferisce alla mostruosa modalità di governo dei
genovesi, “veramente raro”, perché in esso convivono “la libertà e la
tirannide, la vita civile e la corrotta, la giustizia e la licenza”: i primi
termini della serie sono incarnati dal banco di S. Giorgio e i secondi
dal Comune (cfr. IF VIII.29, 765 e Marietti 2005, 92-95).
Gli anni successivi alla pace del 1480, però, non furono tranquil-
li, perché Firenze era continuamente coinvolta nelle guerre che, in
Italia, vedevano contrapporsi varie forze, e questo almeno fino alla
conquista di Sarzana il 22 giugno 1487 (cfr. IF VIII.22-28, 30-33): il
principato di Lorenzo non fu un’epoca di pace e di prosperità per Fi-
renze, se non per il periodo che va dal 22 giugno 1487 al 9 aprile 1492
(cfr. IF VIII.36), anche se Machiavelli ne fa un ritratto “improntato
alla più completa retorica elogiativa” (Montevecchi, 750, n. 18). A
Machiavelli non interessa misconoscere la grandezza di Lorenzo come
uomo politico, cosa della quale pare convinto, quanto screditare l’idea
che a questa grandezza corrispondesse anche il bene di Firenze e non
solo quello della parte medicea, con l’eccezione degli ultimi cinque
anni del reggimento.

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