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1 Passaggi che restano tali anche nella storia, perché non ci sono sempre motivi che spiega-
no, magari ex post, l’andamento delle cose come un destino, una provvidenza, un telos o
un’astuzia della ragione.
62 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ
2 Qui l’“universale” non è solo il popolo grasso ma tutti i cittadini non nobili. Il popolo è la
figura instabile dell’ineliminabile scissione interna della città e la fonte della sua politica. Il
termine “universale” non indica mai tutti gli abitanti di un territorio, ma l’interezza di un
gruppo particolare, come, per esempio, i cittadini (cfr. Costa, I, 58), da cui sono esclusi: la
“plebe, composta di lavoratori non salariati, artigiani poveri, servi, domestici, apprendisti”
(Del Águila e Chaparro, 44-45) e le donne (cfr. almeno Pitkin; Aa.Vv. 2004b; Verrier in
Aa.Vv. 2004c, 383-398; Spackman in Aa.Vv. 2010, 223-238; per una lettura diversa: Ca-
vallo in Aa.Vv. 2007b, 123-148).
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 65
P XI; D I.12; Dionisotti, 374, 377-378, 393-394), che non parlano solo
delle lotte interne a Firenze, ma vi partecipano.
Dopodiché, essendo “Firenze [...] in assai mala condizione, perché
la nobiltà guelfa era diventata insolente e non temeva i magistrati, [i]
capi del popolo” fecero rientrare i Ghibellini al fine di “frenare questa
insolenza” (IF II.11, 212). Dopo varie vicissitudini, una “nuova forma
di reggimento”, con i Priori “primo magistrato”, fu istituita nel 1282
(cfr. ivi 213), segnando “il momento in cui il governo di Firenze, con-
nettendosi strettamente alle Arti, acquista carattere di governo del po-
polo e di mercanti” e con ciò una “naturale tendenza a divenire ogni
giorno più esclusivo” (cfr. Fiorini, 152). Questo “magistrato”, infatti,
“fu cagione, come col tempo si vide, della rovina dei nobili, perché
ne furono da il popolo per vari accidenti esclusi, e di poi senza alcun
rispetto battuti”. Il sopravanzare del popolo fu causato dai nobili stes-
si, i quali “nel principio acconsentirono [all’istituzione del priorato],
per non essere uniti, perché desiderando troppo torre lo stato l’uno
a l’altro, tutti lo perderono”. I “Priori”, poi chiamati “Signori”, con-
sentirono ai fiorentini di star “dentro quieti alcuno tempo” e la pace
interna alla città rese possibile l’espansione esterna; di conseguenza,
“crescendo la città di uomini e di ricchezze, parve ancora di accrescer-
la di mura” (cfr. IF II.11, 214-215): un augumento.
Cabrini rileva che “con il capitolo XII si apre un’ulteriore fase di
lotte e di contrasti [ed] emerge, per la prima volta nell’opera, [il] tema
dell’inevitabilità delle lotte tra ‘nobili’ e ‘popolo’, che costituisce una
sorta di ‘filo rosso’ nell’ambito della complessa e variamente atteg-
giata meditazione machiavelliana” (1985, 95). In questo quadro, una
divisione più profonda viene a galla, perché, se
le guerre di fuori e la pace di dentro avevano come spente in Firenze le parti
ghibelline e guelfe; restavano [...] accesi quegli umori i quali naturalmente
sogliono essere in tutte le città intra i potenti e il popolo: perché volendo il
popolo vivere secondo le leggi, e i potenti comandare a quelle, non è possi-
bile cappino insieme (IF II.12, 215).
che non si sarebbero mai accontentati di leggi più miti e che “la su-
perbia loro era tanta che non poserieno mai, se non forzati”; chi, ed
erano “molti altri, più savi e di più quieto animo”, credeva, invece,
“che [ai primi] il temperare le leggi non importasse molto, e il venire
alla zuffa importasse assai”. Prevalse l’opinione di questi ultimi, i qua-
li “providdono che alle accuse dei nobili fossero necessari i testimoni”
de visu (cfr. ivi 220-221).
A questo punto, Machiavelli si trova immerso nella sequela di di-
visioni di cui aveva parlato nel proemio delle Istorie e che gli fa venir
meno la corrispondenza rigida tra il popolo e il non voler essere né
comandati né oppressi, perché ciò che contrassegna la storia di Firen-
ze è la divisione del popolo tra chi vuol dominare e chi non vuol esse-
re dominato. Una scissione continua e tutta politica. In altri termini,
l’umore di non voler essere dominato né dominare non è l’essenza del
popolo, ma è chi agisce secondo il desiderio di non voler dominare né
essere dominato a potersi fregiare del nome popolo3.
Il periodo storico di cui Machiavelli sta parlando è, per Firenze ma
non solo, un’epoca di grandi trasformazioni interne ed esterne e, dun-
que, di cambiamento di confini: nella città si affacciano con prepoten-
za nuove figure, i mercanti, che chiedono di partecipare alla vita po-
litica in ragione della loro ricchezza. La civitas si modifica e il popolo
comincia a poco a poco ad alzare la voce e a pretendere visibilità. Ma
se il popolo non può più essere escluso dalla città, la sua inclusione è
problematica, perché esso si divide continuamente essendo una classe
basata su interessi privati diversi da quelli dei nobili: i vari modi in cui
si materializza la ricchezza. In questa situazione, il pericolo della ten-
tazione tirannica è sempre presente nel desiderio di una parte di farsi
tutto, per governare fuori dalle leggi, come avverrà col Duca d’Atene
(cfr. IF II.33-37), perché “quando uno popolo si conduce a fare que-
sto errore, di dare reputazione a uno perché batta quelli che egli [il
3 Il popolo sembra così “la fonte di una politica che non ha per telos l’istituzione di una
forma politica”, perché essendo “caratterizzato da ‘un desiderio di non essere dominato’,
il suo agire politico eccede sempre la sua rappresentazione (figurabilité) in una forma di
dominazione politica” e, dunque, la sua prestazione politica specifica è “decostruzione
piuttosto che costruzione di forme di governo” (cfr. Vatter 2003, 156-157). Interpretare
la politica del popolo solo come sottrazione non mi pare convincente, perché il problema
del popolo non è solo quello di esercitare la sua forza decostituente, ma far sì che questa
sia anche forza costituente di un ordinamento adeguato. Il desiderio del popolo non è solo
reattivo o resistente rispetto a quello dei grandi, ma anche propositivo e costruttivo, per-
ché mira al vivere libero e civile. Di sicuro, comunque, il popolo non è, per Machiavelli,
solo “passivo” (cfr. Foucault, 277), neanche nel Principe.
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popolo] ha in odio, e che quello sia uno savio, sempre interverrà che
diventerà tiranno di quella città” (D I.40, 206).
Ma come può la città reggersi su una continua scissione? Se, da
un lato, le lotte costituiscono l’ossatura politica della città e gli ordini
da esse derivano e attorno a esse si dispongono, dall’altro, il prezzo
da pagare è un’instabilità permanente, che diventa sempre più eva-
nescente pensare di scongiurare tramite l’artificio di una costituzione
modellata su quella di Roma.
L’idea machiavelliana del misto non ha più nulla a che fare con
l’antichità (cfr. Taranto 2006, 59-60): “la summa del discorso politico
di Machiavelli è la scoperta dell’impossibilità che a Firenze si dia una
costituzione mista” in senso polibiano, perché è “impossibile, nello
sviluppo moderno del mercato” (Negri, 106). Il mescolamento degli
umori, però, non più assegnabili a forze sociali determinate, fornisce
una nuova prospettiva, perché la “nozione d’umore interviene come
una sorta di piattaforma girevole (plaque tournant), [che] permette di
sovvertire il quadro di pensiero definito dall’ideale della costituzione
mista, ma anche di conservare la questione del mescolamento (mé-
lange) come filo conduttore della riflessione sulle istituzioni libere e
durature” (Gaille-Nikodimov in Aa.Vv. 2004c, 161).
Gli umori si stanno riducendo, per effetto dell’ascesa della bor-
ghesia, a uno solo, tanto per i nobili quanto per il popolo: “non essere
né alle leggi né agli uomini sottoposti”, quindi dominare e non essere
dominati, con “rare” eccezioni (cfr. IF IV.1, 374). I desideri che ne
derivano, però, sono molteplici – e qui comincia il passaggio da gli
umori e le parti agli “umori delle parti” (IF IV.26, 427). A Firenze non
c’è più o comunque si sta dissolvendo la soggezione a una gerarchia
mascherata di essenze, per cui, nel mondo antico, il servus poteva,
tutt’al più, sperare di non essere dominato, diventando un libero, ben
sapendo di non poter mai diventare dominus. Nel mondo moderno
vengono meno le essenze e con esse gli umori opposti dei nobili e del
popolo4. Sono i desideri dei singoli, ora, a diventare il motore della
storia, e anch’essi, nella loro infinita varietà, sono irriducibili a Uno. Il
misto, allora, non è più la coesistenza al governo delle parti, come nei
Discorsi, ma il continuo formarsi, distruggersi e rinnovarsi delle parti,
l’incessante rifrangersi dell’unico umore in parti in lotta per soddisfa-
4 La presenza dei due umori in Principe IX è coerente con questa prospettiva, perché il IV
libro delle Istorie descrive proprio l’ordinamento del principato mediceo che si configura,
di là dalle apparenze, come un tentativo retrogrado, di resistenza e conservazione, per
ingabbiare l’ascesa della borghesia entro le maglie feudali del paternalismo.
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5 Ma si veda anche: IF VI.9, 551, dove il termine potentissime è usato con riferimento a due
“famiglie” di Bologna; IF VII.2, 623, dove si legge di “due cittadini potentissimi”. Firenze
è l’esempio di molte città (cfr. Raimondi, in Aa.Vv. 2006b, 124).
72 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ
6 Tra i molti provvedimenti presi dal Duca ci fu anche il divieto di “portare armi a ciascu-
no”, ossia l’accentramento del potere militare, cui Machiavelli è contrario e che lo distan-
zia dalla sovranità hobbesiana.
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7 I Ciompi nel 1342, ed è la “prima notizia di un’associazione degli operai fiorentini [...], si
erano organizzati [...] per strappare aumenti salariali” e, dopo averli ottenuti, “rievocaro-
no con rimpianto il ‘buon governo’” del Duca (cfr. Screpanti 2008, 53-54).
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che i potenti avessero due Signori, tre i mediocri e tre i bassi” (IF
II.42, 290). Lo stato è riordinato a immagine e somiglianza del popo-
lo, diviso in grasso, mezzano e minuto, anche se questo nuovo ordina-
mento “non si raccoglie, come prima della venuta del Duca d’Atene,
in poche casate di popolani – che i cronisti chiamano ‘potenti’ o cui
riserbano il nome di ‘popolo grasso’ che prima distingueva l’arti mag-
giori dalle minori – ma appartiene a tutto il popolo delle arti”. Questo
popolo, insomma, per quanto ampliato nella sua partecipazione al go-
verno, è “la borghesia alta e media delle arti maggiori”, alla quale si
unisce “il popolo minuto delle arti minori” (cfr. Fiorini, 265-266). Il
popolo stabilì poi che “il Gonfaloniere fosse ora dell’una ora dell’altra
sorte. Oltre di questo, tutti gli ordini della giustizia contro ai grandi si
riassunsono; e per farli più deboli, molti di loro intra la popolare mol-
titudine mescolarono. Questa rovina dei nobili fu sì grande e in modo
afflisse la parte loro, che mai poi a pigliare l’arme contro al popolo si
ardirono, anzi continuamente più umani e abietti diventarono. Il che
fu cagione che Firenze, non solamente di armi, ma di ogni generosi-
tà si spogliasse. Mantennesi la città, dopo questa rovina, quieta fino
all’anno 1353”, quindi per dieci anni, quando, finita la “prima guerra
coi Visconti [...], le parti dentro alla città cominciarono” a formarsi
di nuovo e “benché fosse la nobiltà distrutta, nondimeno alla fortuna
non mancarono modi a fare rinascere, per nuove divisioni, nuovi tra-
vagli” (cfr. IF II.42, 290-291).
altri mali, tutti gli altri disordini che in esse appariscono”. Il problema
della “comune corruzione” non risiede più nell’origine mezza serva e
mezza libera di Firenze, ma nella divisione in sette: questo è il “male
che si vede già grande e che tuttavia cresce” (cfr. IF III.5, 302-303);
8 Machiavelli critica il tumulto per lo spirito fazioso che, da un certo punto in poi, lo ca-
ratterizza (cfr. Zancarini, 21-22), ma questo non gli impedisce di dar voce pubblica ai
Ciompi (cfr. Landi), riprendendo il costume delle pratiche, “riunioni consultive”, che con-
sentivano “alla Signoria di saggiare le reazioni dei cittadini a taluni progetti, e permettere
ai cittadini stessi di manifestare le loro opinioni”, ma “le cui raccomandazioni non erano
vincolanti” (Gilbert 1965, 64). Dar voce ai Ciompi significava amplificare le loro richieste,
economiche e politiche e, dunque, è riduttivo attribuire a Machiavelli la semplice “sco-
perta delle capacità politiche delle masse” (cfr. Wolin, 331), che non vengono idealizzate
e sono viste positivamente solo se non esprimono l’umore della volontà di dominio (cfr.
Fontana 21, 23-24, 37-39, 41).
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e non i tumulti, in modo tale che “la virtù, intesa come passione di ciò
che è pubblico”, possa affermarsi (Ricciardi, 30).
Il contenuto del discorso dell’anonimo Ciompo (cfr. IF III.13,
327-332) rivela la faziosità del governo della città esercitato, sostan-
zialmente con continuità dal 1267, dai Guelfi, ai quali Machiavelli
non disdegna di assestare l’ennesimo colpo, quasi ad attribuir loro la
responsabilità del tumulto.
L’odio della plebe è mosso dalla consapevolezza che “solo la po-
vertà e le ricchezze disuguagliano [gli uomini]” e che, di fronte alla
“frode” e alla “forza”, all’“inganno” e alla “violenza”, usate da “quelli
che a ricchezze grandi e a grande potenza pervengono [...], debbesi
[...] usare la forza quando ce ne è data occasione (cfr. ivi 329-331):
capendo “di essere una forza decisiva nella scena politica della città,
[...] di essere stati usati, [di poter] agire autonomamente [e] che darsi
un’organizzazione militare era diventato un passaggio indispensabi-
le”, i Ciompi “divennero un soggetto politico” (Screpanti 2008, 124).
Se “Iddio e la natura ha posto tutte le fortune degli uomini loro in
mezzo, le quali più alle rapine che alla industria, e alle cattive che alle
buone arti sono esposte: di qui nasce che gli uomini mangiano l’uno
l’altro”. La disuguaglianza è il frutto dell’usurpazione e, dunque, bi-
sogna “liberarsi” degli usurpatori e “diventare in tanto loro superiore,
che abbiano più a dolersi e temere di voi, che voi di loro”. La disugua-
glianza non sarà mai appianata dai ricchi e potenti, perché il capitale
non ammette l’esistenza di chi ne vuole la spartizione: bisogna quindi,
secondo il ciompo, prendere le redini del governo della città e perse-
guire la “rovina del nemico” (IF III.13, 330-332).
La condanna machiavelliana del tumulto è evidente quando scrive
che i Ciompi, avendo gli “animi riscaldati al male [...], deliberarono
prendere le armi”. Ma non è la violenza delle armi che Machiavelli
disapprova, bensì che il tumulto è in mano al “furore di questa sciolta
moltitudine”, che si abbandonò a bruciare “le case di molti cittadini,
[...] perseguitando quelli i quali o per pubblica o per privata cagione
erano odiati”. Se la risposta dei Signori fu insufficiente, la “congiura”,
tanto che si trovarono “smarriti” (cfr. IF III.14, 332-335), va ricordato
che per Machiavelli “la autorità data alla moltitudine non temperata
da alcuno freno non fece mai bene” (cfr. IF II.32, 260). La moltitu-
dine sciolta, in sostanza, si comporta come una parte che non mira al
bene comune, perché vuole diventare tutto, comportandosi come una
qualunque altra setta o fazione.
Il problema è “la moltitudine, impaziente e volubile” (IF III.15,
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era piena di diversi umori, ciascuno vario fine aveva e tutti, avanti che l’armi
si posassero, di conseguirli desideravano. Gli antichi nobili, chiamati gran-
di, di essere privi degli onori pubblici sopportare non potevano, e per ciò
di recuperare quelli con ogni studio s’ingegnavano, e per questo che si ren-
desse la autorità ai capitani di Parte amavano; ai nobili popolani e alle mag-
giori Arti lo avere accomunato lo stato con le Arti minori e popolo minuto
dispiaceva; da l’altra parte le Arti minori volevano più tosto accrescere che
diminuire la loro dignità, e il popolo minuto di non perdere i Collegi delle
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sue Arti temeva. I quali dispareri fecero per spazio d’uno anno molte volte
Firenze tumultuare: e ora pigliavano l’armi i grandi, ora le maggiori, ora le
minori Arti e il popolo minuto con quelle, e più volte ad un tratto in diverse
parti della terra tutti erano armati (IF III.21, 352-353).
ingiurioso verso i suoi cittadini, né meno grave nei suoi principi, che
se fosse stato quello della plebe” (cfr. IF III.22, 354), perché era un
governo “in preda di pochi, e alla loro superbia e avarizia sottoposto”
(IF III.23, 358). L’istituzione della “borsa di scelti” (IF III.24, 360), il
“cosiddetto ‘borsellino’ [...], pietra angolare del regime oligarchico”
(Cabrini 1990, 161), perché mitigava “gli effetti del sorteggio” assi-
curando alla “fazione dominante la maggioranza legale di sei voti nel
magistrato supremo” (cfr. Fiorini, 349), lo dimostra.
4. “Fermato così lo stato, dopo sei anni che fu nel 1381 ordinato”,
siamo quindi nel 1387, “visse la città dentro sino al ’93 assai quieta”
(IF III.25, 360), quando iniziò la repubblica oligarchica di Maso degli
Albizzi.
Dopo una serie di tentativi, che si protrassero fino al 1400, per
“rovesciare il regime oligarchico” (Cabrini 1990, 174), “si stette den-
tro quietamente [fino] al ’33”, con la sola eccezione del 1412 (cfr. IF
III.29, 372), mentre la pace verso l’esterno si limitò al periodo 1414-
1422 (cfr. IF IV.2, 375). Le parti, però, anche nella repubblica degli
ottimati, si “rinnovarono [e] non posorono prima che con la rovina di
quello stato”, avvenuta nel 1434 con l’inizio del principato mediceo.
Il IV libro delle Istorie è sostanzialmente dedicato a narrare come si
riformarono, a partire dal 1420, le parti e come portarono alla fine
della repubblica ottimatizia. L’obiettivo di Machiavelli è capire per-
ché “la città [non] si mantenne unita” e come “si fossero riaccesi gli
antichi umori in quella”. È il consueto tema della virtù come antidoto
alla corruzione, perché non si può sempre contare sulla “morte, [che]
fu sempre più amica ai Fiorentini che niuno altro amico, e più potente
a salvarli che alcuna loro virtù” (cfr. IF III.29, 373). La fortuna non
basta a mantenere libera e incorrotta una città:
le città, e quelle massimamente che non sono bene ordinate, le quali sotto
nome di repubblica si amministrano, variano spesso i governi e stati loro
non mediante la libertà e la servitù, come molti credono, ma mediante la
servitù e la licenza. Perché della libertà solamente il nome dai ministri della
licenza, che sono i popolari, e da quelli della servitù, che sono i nobili, è
celebrato, desiderando qualunque di costoro non essere né alle leggi né agli
uomini sottoposto. Vero è che quando pure avviene (che avviene rade volte)
che, per buona fortuna della città, sorga in quella un savio, buono e potente
cittadino, da il quale si ordinino leggi per le quali questi umori dei nobili
e dei popolani si quietino, o in modo si ristringhino che male operare non
possano, allora è che quella città si può chiamare libera e quello stato si può
stabile e fermo giudicare; perché, essendo sopra buone leggi e buoni ordini
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 93
fondato, non ha necessità della virtù d’uno uomo, come hanno gli altri, che
lo mantenga (IF IV.1, 374).
sono mancate e mancano tutte quelle [città] che spesso i loro governi da
lo stato tirannico a licenzioso, e da questo a quell’altro, hanno variato e va-
riano. Perché in essi, per i potenti nemici che ha ciascuno di loro, non è né
può essere alcuna stabilità, perché l’uno non piace agli uomini buoni, l’altro
dispiace ai savi; l’uno può fare male facilmente, l’altro può fare bene con
difficoltà; nell’uno hanno troppa autorità gli uomini insolenti, nell’altro gli
sciocchi; e l’uno e l’altro di essi conviene che sia da la virtù e fortuna d’uno
94 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ
uomo mantenuto, il quale, o per morte può venire meno, o per travagli
diventare inutile (IF IV.1, 375).
10 “A caso” significa, come in altri passi, “non naturali necessitate, ma come risultato storico
di una vicenda – fatta di passioni e di conflitti – in cui è dato, sì, riconoscere un’inclinazio-
ne, una tendenza prevalente, non però tale che a certe condizioni, da quel medesimo gioco
di forze, non possa affermarsi una tendenza diversa” (Inglese 2006, 111) – una definizione
molto vicina ai concetti althusseriani di aleatorietà e biforcazione (cfr. Raimondi 2011).
96 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ
11 Machiavelli mostra il passaggio dal paradigma delle passioni a quello degli interessi (cfr.
Hirschman) valutandolo negativamente. Gli interessi mercantili non frenano le passioni
e, sebbene con dinamiche diverse, contribuiscono all’infermità di Firenze, complicando il
quadro politico, non più strutturato da una sola linea di demarcazione (dominare – non
essere dominati), ma da linee multiple, che continuamente si dividono formando sempre
nuove partizioni, che forse altro non sono che i partiti in senso moderno, la cui radice
settaria in senso cristiano, pur presente, non sembra prevalente (come invece sostiene
Mansfield in Aa.Vv. 1972, 209-266). Forse per questo Machiavelli dubita “della possibilità
di raggiungere soluzioni definitive nella gestione dei conflitti” (cfr. Wolin, 336).
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 99
12 È curioso che proprio sul versante ascendente, dalla rovina alla virtù, Machiavelli sia più
STORIA POLITIVCA DELLE ISTITUZIONI FIORENTINE 101
reticente che sull’altro versante, anche se sarebbe questa “scala” a essere più interessante
per capire come si ri-forma una città corrotta. E c’è anche un’altra curiosità: l’ordine viene
prima della virtù e, in un modo che qui non è detto, la produce. I vuoti o silenzi stanno a
indicare la fortuna?
102 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ
alla caduta dell’Impero romano, sopra le cui rovine, pur non essendo-
si edificato qualcosa di analogo, capace di riscattare l’Italia dalla sua
miseria, è nondimeno sorta una pluralità di città e imperi (nel senso
generico di domini: cfr. Montevecchi, 515 n. 5) virtuosi. Come se la
fine dell’Impero romano avesse reso possibile la dispersione della sua
virtù un po’ ovunque nel mondo; una virtù connessa a due effetti:
l’assenza del desiderio di dominare e la capacità di liberarsi dai bar-
bari. Tra queste città ci fu Firenze, la cui origine sembra ora del tutto
emendata dalle ombre della servitù e, dunque, ascrivibile in toto al
piano della virtù che, irrorata ovunque dalla fine dell’Impero roma-
no, fece nascere tempi che non furono di pace assoluta ma nemmeno
rattristati da guerre troppo pericolose, tutt’al più scaramucce, forse
perché combattute da mercenari, secondo l’ipotesi di Montevecchi
(cfr. 515 n. 6): tempi fausti, dunque.
Il quarto blocco, infine, chiude la disamina e apre la seconda parte
delle Istorie, che tratta del principato mediceo (cfr. IF V-VIII), con
una chiave di lettura che non dovette far molto contento papa Cle-
mente VII (Giulio de’ Medici). Ma l’importanza del brano sta anche
nell’enunciazione di un diverso modo per interrompere il ciclo tra
ordine e disordine, come se la figura del ciclo fosse uno schema astrat-
to utile a misurare il reale, al cui contatto però si distorce diventando
figura concreta della storia.
[4] Tanto che quella virtù che per una lunga pace si soleva nelle altre pro-
vincie spegnere fu dalla viltà di quelle in Italia spenta, come chiaramente si
potrà conoscere per quello che da noi sarà da il 1434 al ’94 descritto, dove
si vedrà come alla fine si aperse di nuovo la via ai barbari e riposesi la Italia
nella servitù di quelli. E se le cose fatte dai principi nostri fuori e in casa,
non fieno, come quelle degli antichi, con ammirazione per la loro virtù e
grandezza lette, fieno forse per le altre loro qualità, con non minore ammi-
razione considerate, vedendo come tanti nobilissimi popoli da sì deboli e
male amministrate armi fossero tenuti in freno. E se, nel descrivere le cose
seguite in questo guasto mondo, non si narrerà o fortezza di soldati, o virtù
di capitano, o amore verso la patria di cittadino, si vedrà con quali inganni,
con quali astuzie e arti, i principi, i soldati e i capi delle repubbliche, per
mantenersi quella reputazione che non avevano meritata, si governavano.
Il che sarà forse non meno utile che si siano le antiche cose a conoscere,
perché, se quelle i liberali animi a seguitarle accendono, queste a fuggirle e
spegnerle gli accenderanno.
13 Machiavelli aveva introdotto l’esame delle questioni esterne di Firenze già nei capitoli sul
regime ottimatizio (cfr. IF III.22 e III.25, 360-361), ma l’ambito del discorso faceva capo
alla questione delle buone armi e alla loro importanza per l’augumento e per la difesa, con
un ammiccamento alla nobiltà e alla sua rilevanza nelle questioni militari (cfr. IF II.14,
221).
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