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L'arte della serenità

Claudio Lamparelli

Editore Mondadori
ISBN-13 9788804486053
Data pubblicazione: 1997

La serenità, che può essere definita la chiave di volta del nostro benessere psicofisico, nasce dal naturale
equilibrio fra interiorità ed esteriorità e si situa sulla linea di demarcazione fra opposte esigenze: è
quell'armonia nei confronti di se stessi e degli altri che viene messa a dura prova dagli avvenimenti, positivi
o negativi che siano. Come fare a conservarla o a ripristinarla quando la si è perduta? Il problema è stato
dibattuto dai saggi di tutti i tempi e di tutti i paesi. Partendo dalle loro considerazioni Claudio Lamparelli
svolge una serie di riflessioni riguardanti le situazioni pratiche della nostra esistenza che mirano a un
duplice scopo: identificare le cause profonde che mettono in crisi la serenità e realizzare, con queste stesse
meditazioni, una particolare specie di difesa e di terapia, quella che un tempo si chiamava "cura dell'anima".
Introduzione
Scopo di questa opera è indicare una serie di riflessioni con cui si possa
trovare e mantenere quello stato di equilibrio che è la condizione prima del
nostro benessere. «Tutti vogliono essere felici,» scrive Seneca in una sua
operetta «ma poi sono confusi quando devono decidere ciò che rende felice la
loro vita.»
In effetti, questa è una lacuna anche del nostro sistema educativo: manca una
materia, una disciplina, che sappia suggerirci la via della saggezza, la via
dell’armonia e della misura. Esistono ideologie, filosofie, religioni, scuole di
psicologia e rami della scienza che si disputano la scena e che ci propongono
soluzioni a questo o quel problema. Noi però abbiamo bisogno di qualcosa di più
semplice e di più pratico, e anche di meno specialistico: un insieme coordinato di
conoscenze che ci dica come comportarci nella vita di tutti i giorni, come
cavarcela nelle difficoltà, come gestire i nostri stati d’animo, la nostra “economia
interiore”, e come ordinare la scala dei nostri valori. Ponendo all’inizio di questa
scala proprio la serenità, abbiamo scelto il bene su cui poggiano tutti gli altri, la
chiave di volta dell’intero sistema psicologico. È inutile propagandare ideali di
amore, di fratellanza e di pace se ci si dimentica dell'esigenza fondamentale
degli esseri umani: vivere con tranquillità.
Nessun insegnamento, nessun messaggio è veramente utile se non assicura
l’armonia di base dell’individuo, nei confronti di se stesso, degli altri e
dell’ambiente. È da qui che parte ogni possibilità di serenità e di convivenza, il
senso positivo dell’esistenza.
Serenità significa non essere in ansia, non sentirsi in colpa, non provare
disagio, non vivere né troppo tesi né troppo fiacchi, non indulgere né
all’attivismo né all’abulia, non cedere né all’esaltazione né al pessimismo, non
credersi né superiori né inferiori agli altri; serenità è seguire una flessibile via di
mezzo, è godere saggiamente dei beni dell’esistenza. Serenità è conoscere se
stessi, cercando di capire anche il prossimo.
Troppi sono però gli ostacoli che si frappongono a questa condizione, che
dovrebbe essere naturale.
La società e l’educazione fanno di tutto per convincere i giovani che la vita sia
una specie di gara a premi, dove l’altro è inevitabilmente un concorrente da
battere. Da simili ideali competitivi nascono tutti i nostri problemi. E nasce
l’esigenza di un’opera di decondizionamento, di un “lavoro interiore”.
Due sono le tradizioni spirituali che si sono occupate di questo tipo di lavoro:
da una parte quella orientale che fa capo ad almeno sei sistemi culturali
(Vedanta, Yoga, Taoismo, Buddhismo, Tantrismo e Zen) e dall’altra parte quella
occidentale che, partendo dalla corrente orfico-pitagorica, giunge fino allo
Stoicismo e al Neoplatonismo, nonché a tanti autori successivi (alcuni dei quali
sono citati in questo libro).
Nel nostro tentativo di offrire al lettore odierno una sorta di guida alla
serenità, ci è sembrato naturale fare riferimento principalmente a questi due
grandi filoni della meditazione di tutti i tempi, con i loro vari addentellati
moderni. In più, abbiamo aggiunto qualche esponente di quella psicologia
contemporanea che non può ovviamente mancare in un’opera dedicata all’arte
del vivere bene.
Su questi argomenti esiste come un filo continuo, un dialogo costante, fra
Oriente e Occidente, fra antichità e modernità, tanto che il libro, assume un
sorprendente carattere di omogeneità. Talora, in questo scambio di battute
attraverso i secoli e le culture, si scopre una perfetta concordanza di vedute tra
autori tanto diversi.
Le “meditazioni” sono state scelte privilegiando certi temi comuni e seguendo
un criterio preciso: offrire suggerimenti pratici, metodi psicologici e riflessioni
che siano utili a superare i momenti difficili e a ritrovare la serenità. Questo è
infatti il potere della saggezza: precostituire una rete di tecniche, di ragionamenti
e di processi mentali che siano in grado di parare i colpi peggiori e di
ridimensionare le illusioni, in modo da mantenere un buon rapporto con la realtà,
un livello ottimale di equilibrio.
Il fine è quello di costruire un individuo responsabile e autonomo, capace di
essere padrone di se stesso. «Sono pochi coloro che dispongono saggiamente di
se stessi e delle proprie cose» scrive Seneca. «Tutti gli altri, a somiglianza degli
oggetti che galleggiano nei fiumi, non vanno da sé, ma sono trasportati.»
1. Rinascere
Nella vita il compito principale dell’uomo è dare alla luce se stesso.
ERICH FROMM

Quando nasciamo siamo eredi di un complesso patrimonio genetico, non solo


per quanto riguarda i caratteri fisici, ma anche per quanto riguarda le tendenze
psicologiche. Se per esempio siamo portati per la musica o per la matematica,
questa predisposizione ci viene tramandata da qualche progenitore.
All’inizio siamo soltanto un “mosaico” di caratteri, di tendenze, di
potenzialità. La nostra vera nascita, la “nascita spirituale”, non è ancora
avvenuta: siamo stati scelti, ma non ci siamo scelti.
Il nostro compito - diventare noi stessi, diventare ciò che siamo
potenzialmente - non è dei più facili, e rappresenta il lavoro e il senso di tutta
una vita. Come dice un proverbio talmudico: «Se io non sarò me stesso, chi lo
sarà per me? E, se non ora, quando?».
Non basta nascere: occorre dare un senso alla propria vita, occorre
“scegliersi”. E, per realizzare questo compito, bisogna prendere le distanze da
ciò che ci è stato tramandato, dai valori e dai comportamenti che abbiamo
ereditato dal passato. Che cosa fa parte della nostra vera natura? Che cosa ci
viene imposto?
Per rispondere a queste domande, per avere un criterio direttivo, dobbiamo
riuscire a distinguere ciò che ci fa sentire sereni e realizzati da ciò che ci
opprime: ecco la regola prima.
Anche se sacrifici e adattamenti sono necessari, il criterio della felicità, o
almeno della serenità, non può essere a lungo disatteso. “Dare alla luce se
stesso” significa innanzitutto ritrovare la propria natura e stabilire con essa un
rapporto di piacevolezza, di benessere; significa stare bene con se stessi.
«Che cosa dice la tua coscienza?» scrive Nietzsche. «Devi diventare quello
che sei.»
2. “Guardarsi”
Oh, quanto farebbe bene a certe persone se potessero allontanarsi da se
stesse!
SENECA

Per riuscire nel compito di “diventare ciò che siamo”, dobbiamo imparare
l’arte di osservare noi stessi, dobbiamo arrivare a guardarci come farebbe un
estraneo. Questa operazione di auto-osservazione è essenziale per fare il punto
della nostra condizione interiore.
La “presa di distanza” meditativa è qualcosa di diverso dal classico “conosci
te stesso”: si tratta di un guardarsi, di uno stare attenti, di un “essere presenti” a
se stessi. Non è un giudicarsi, perché qualunque giudizio sarebbe condizionato
da altri valori.
La meditazione è invece un tentativo di uscita dal mondo dei valori mentali,
uno sforzo di allontanamento dal vecchio ego, un esercizio di distacco e di
pacificazione. Prendendo le distanze dalle attività mentali quotidiane, con tutto il
loro stress, si lascia spazio a quel centro dell’essere che corrisponde alla nostra
vera natura: una natura che è permeata di calma e di benessere.
Ecco perché il consiglio di Seneca, se ottemperato sistematicamente, si
trasforma in una specie di autoterapia mentale. «Quando la mente è immobile»
leggiamo nel lesto taoista del Wen-tzu «lo spirito si troverà in uno stato di
attenzione. Se ritorni al vuoto, ciò estinguerà le azioni compulsive e porrà la
mente in quiete. Questa è la libertà dei saggi.»
Non c'è via della serenità che non passi, inconsapevolmente o
deliberatamente, per questa operazione di decondizionamento.
Afferma Bacchilide: «Una è la regola, una è la via della felicità: conservare la
mente libera da preoccupazioni, crucci e angosce inutili».
3. L’ascolto
Il principio fondamentale dell’ascolto è svuotare la mente in modo che sia
chiara e calma: metti da parte ogni sensazione, ogni pensiero, ogni riflessione.
WEN-TZU, CLASSICO TAOISTA

“Ascoltare” in questo contesto significa non tanto cercare di comprendere


parole e concetti, quanto situazioni, eventi e stati d’animo, nostri e altrui. Si
tratta sempre di decifrare un linguaggio, ma non più quello verbale e
convenzionale.
Se vogliamo comprendere a che punto sia la nostra esistenza, se cerchiamo di
decifrare come si evolverà un evento, se intendiamo capire l’atteggiamento di
una persona, se ci sforziamo di interpretare i sentimenti di qualcuno, non è la
parola ciò che ci aiuterà. Lo strumento indispensabile sarà l’ascolto, che è
proprio un “ mettere da parte” la solita attività mentale condizionata, con tutti i
valori, i concetti e i pensieri che da essa derivano.
Dobbiamo quindi cercare di fare un po’ di silenzio mentale, dobbiamo
interrompere il continuo chiacchiericcio interiore. Solo quando la mente si fa
calma e silenziosa, tutto ci appare più chiaro.
Questa trasparenza è anche un principio di igiene psicologica e di serenità.
«Diventerai saggio» scrive Seneca «solo quando diventerai sordo ai rumori del
mondo.» Ma i “rumori del mondo” penetrano nell’interiorità attraverso i
pensieri. È la nostra mente che, anche nell’ambiente più ovattato, continua a fare
chiasso.
L’ascolto meditativo è dunque un metodo per far tacere i pensieri e le
sensazioni abituali, e per affinare la sensibilità, al di là delle parole. A questo
punto potremo percepire, “vedere”, cose che ci erano rimaste nascoste.
«Quando l’orecchio si affina» sostiene il mistico islamico Rumi «diventa un
occhio.»
4. La speranza
Se non si spera, non si troverà l’insperato.
ERACLITO

Benché la speranza - come dice Plauto - abbia «ingannato molti che


speravano», nessuno è più triste di chi non ha più né progetti né iniziative. Si
dovrebbe naturalmente saper distinguere tra speranze e illusioni, ma, se
vogliamo raggiungere degli obiettivi, dobbiamo comunque rischiare uno scacco.
Tutto è oggetto di speranza: anche la fine delle illusioni.
Uno dei motivi per cui la nostra vita può diventare asfittica e deprimente è la
caduta delle speranze. Ci muriamo allora in una realtà rigida e stereotipata che
viene erroneamente scambiata per una “visione matura” dell’esistenza.
Così facendo, ci autolimitiamo in una dimensione senza aperture; è la nostra
stessa operazione di rinuncia che ci impedisce di accedere all’inatteso. Diceva
Confucio: «Se l’arciere non coglie il bersaglio, non se la prenda né con l’arco né
con la freccia né con il bersaglio, ma con se stesso».
La realizzazione di un uomo non è mai finita. Continuare a sperare è un modo
per lasciare aperta una fessura all’inusitato, alle possibilità di perfezionamento.
Niente ci impedisce di diventare ciò che siamo: dentro di noi possiamo già
esserlo.
Solo se restiamo in attesa, vigili e sensibili, ci si presenterà l’insperato o,
comunque, saremo in grado di non farcelo sfuggire.
«Se sei saggio» scrive Seneca «mescola la speranza alla disperazione: non
sperare senza disperazione e non disperare senza speranza.»
5. Il piacere
Il piacere del divenire porta con sé il piacere dell’annientamento.
FRIEDRICH NIETZSCHE

Questo pensiero ci fa capire una verità che di solito ci sfugge perché è


paradossale: il piacere del divenire, del vivere, si fonda sulla disgregazione, sulla
dissoluzione, in una parola sulla morte.
Ciò che noi consideriamo il male peggiore è in realtà ciò che ci permette di
assaporare l’esistenza. «Bello è ogni tanto smettere e cambiare,» canta Pindaro
«perfino del dolce miele viene fastidio.»
Questa meditazione sulla morte è fondamentale per cogliere il senso sereno
della vita. La fine delle cose - e il tempo cui è collegata - non è l’aspetto
sgradevole dell’esistere, ma ne è, al contrario, la condizione prima.
Chi sceglie il piacere di vivere sceglie il “piacere dell’annientamento”: di
questo dobbiamo essere continuamente consapevoli, soprattutto quando
pensiamo che la morte sia qualcosa di assolutamente negativo, “l'ultimo nemico
da sconfiggere” come direbbe san Paolo.
L’uomo lavora per allungare la vita e per renderla più felice, ma non può
pensare di eliminare la disgregazione e la morte: se ci riuscisse, cancellerebbe
l’esistenza stessa. «Se il produrre è la cosa migliore,» scrive per esempio Goethe
«anche il distruggere ha conseguenze positive.»
Non può esserci accrescimento di qualcosa senza diminuzione di
qualcos’altro; questa verità va sempre tenuta a mente: i contrari sono collegati
dialetticamente.
Mentre in Occidente un Nietzsche arriva a parlare di “piacere
dell’annientamento”, in Oriente si definisce la morte il “grande orgasmo”. Dice
l’antico saggio cinese Chuang-Tzu: «Ciò che rende la vita un bene è ciò che
rende la morte un bene».
6. L’indeterminazione
Nello stesso fiume scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo.
ERACLITO

Siamo abituati a vedere le cose in maniera dualistica: o sono bianche o sono


nere, o sono buone o sono cattive, o sono vive o sono morte. Ma la realtà è più
indeterminata e sfumata, e i grandi contrasti rivelano profonde complicità.
Proprio la fisica più moderna - la fisica quantistica - ci dice che in alcuni casi
uno stesso fenomeno può essere e non essere contemporaneamente.
Sembra una novità assoluta, ma non è così. Già il Buddha, 2500 anni fa,
faceva il seguente esempio: il burro che è stato ricavato dal latte è in un certo
senso ancora quel latte, eppure in un altro senso non lo è più.
Possiamo dire tanto che sia quanto che non sia quel latte.
Lo stesso ragionamento può essere ripetuto per ogni cosa che sia “nata” o
prodotta da altre, e quindi anche per noi. Ecco perché si può dire che ogni
individuo è e non è nello stesso tempo se stesso (e un altro).
Tutte le cose, tutti gli esseri, sono interdipendenti e si condizionano a vicenda,
e perciò non possono essere in maniera assoluta se stessi. Per questo motivo è
necessario che la persona “si scelga”, si auto-determini.
Il primo requisito per un approccio sereno alla vita è vedere le cose il più
possibile così come sono e non come vorremmo che fossero. È per questo che
dobbiamo abbandonare il pensiero che contrappone nettamente le cose. Se
partiamo dal presupposto che esistano entità isolate e autonome, nonché processi
indipendenti, non capiremo più il corso degli avvenimenti; non potremo
comprendere, per esempio, come mai una persona o un evento negativo possano
comportare anche elementi positivi, e viceversa.
Una concezione saggia si fonda sempre su una visione d’insieme, e una
visione d’insieme coglie l’interdipendenza dei fenomeni e una certa loro
indeterminazione.
«Ogni cosa finisce e non finisce, dice il Budda»
«ogni cosa esiste e non esiste.»
7. La scelta di sé
La grandezza non consiste nell’essere questo o quello, ma nell’essere se
stesso, e questo ciascuno lo può se lo vuole.
SÖREN KIERKEGAARD

«Quando tutto è silenzio intorno a noi,» scrive Kierkegaard in Aut aut «tutto è
solenne come una notte piena di stelle, quando l’anima si trova sola in mezzo al
mondo, di fronte a essa appare non un uomo ragguardevole, ma l’eterna potenza
stessa, il cielo quasi si spalanca, e l’io sceglie se stesso, o piuttosto riceve se
stesso. In quell’istante l’anima ha visto l’altezza suprema, ciò che nessun occhio
mortale può vedere e ciò che non sarà mai dimenticato, la personalità riceve lo
stendardo da cavaliere, che la nobilita per l’eternità. L’uomo non diventa diverso
da quello che era prima, diventa solo se stesso; la coscienza si raccoglie, ed egli
è se stesso.»
Qui il filosofo danese descrive l’effetto del raccoglimento, nel silenzio e nella
solitudine. La persona si sviluppa a contatto con gli altri, ma si autodetermina, si
“autoconsacra”, quando si trova di fronte a se stessa. Questo momento è
essenziale per ritrovare ed essere se stessi, per isolare il nucleo di ciò che siamo.
La base di ogni realizzazione serena parte da qui; non dobbiamo sforzarci di
adeguarci a questo o a quel modello impostoci dall’esterno, non dobbiamo essere
qualcun altro: se lo faremo, saremo finti, saremo artificiali, e pagheremo con
l’infelicità il nostro stesso sforzo.
Il compito dell'uomo - che coincide con la via della serenità - è di essere se
stesso, ossia di realizzarsi, “e questo ciascuno lo può se lo vuole.”
Dice Schopenhauer: «Ciò che uno è in sé e ha in sé, in breve la personalità e il
suo valore, è l’unico agente diretto della sua felicità e del suo benessere. Tutto il
resto opera indirettamente».
8. I bilanciamenti
Per raggiungere la serenità interiore, è bene non trascurare quel che c'è di
favorevole e di buono negli avvenimenti che ci capitano contro la nostra
volontà, oscurando e bilanciando il peggio con il meglio.
PLUTARCO

Quando i nostri occhi sono abbagliati da qualcosa di troppo luminoso - scrive


Plutarco - noi li distogliamo e li riposiamo guardando il verde dell’erba o i colori
dei fiori. Lo stesso dovremmo fare con i paesaggi della mente; anziché
concentrarci sulle considerazioni tormentose, sugli aspetti degli avvenimenti che
ci sembrano più negativi - accrescendone quindi la dolorosità -, dovremmo
adottare un atteggiamento positivo: dovremmo cercare di scoprire in essi anche
«quel che c'è di favorevole e di buono.»
Non si tratta beninteso di un tentativo di fuga dalla realtà sgradevole, ma di
una forma di bilanciamento, di riequilibratura, basata sulla constatazione che non
esistono negli eventi né un bene né un male assoluti e che anche nella situazione
peggiore si trova qualcosa di positivo. Il potere della saggezza sta proprio in
questa visione d’insieme, che presuppone un minimo di distacco da sé e dalle
circostanze.
Bilanciare gli aspetti negativi con quelli positivi aiuta anche a trovare il
proprio centro psicologico, che è quel punto immaginario in cui si è ugualmente
lontani dalle esaltazioni e dalle depressioni. Qui s’incomincia a comprendere
l’importanza del nostro atteggiamento mentale, ossia del modo in cui ci
predisponiamo ad affrontare gli avvenimenti.
Se per esempio siamo immersi nello scoraggiamento e nel pessimismo, ci
sembrerà che le cose ci vadano sempre peggio, e questo parrà confermare la
giustezza delle nostre fosche previsioni.
Ma è possibile il percorso contrario: non tanto abbandonarsi a un altrettanto
inconsulto ottimismo, quanto tenere sempre d’occhio gli aspetti positivi delle
circostanze sfavorevoli. Scrive a questo proposito Montaigne: «Ce da fare per
godere la vita: io la godo il doppio degli altri, perché la misura del godimento
dipende dalla maggiore o minore applicazione che vi mettiamo».
9. La sofferenza
Nel dolore c'è tanta saggezza quanta nel piacere.
FRIEDRICH NIETZSCHE

«Chi non ha mai sofferto» diceva Fénelon «non conosce niente: non conosce
né il bene né il male, né conosce se stesso.» Però filosofi e psicologi hanno
anche affermato il contrario: è il piacere, è il desiderio che determina la
formazione dell’io. Che cosa pensare? Quale delle due tesi sposare? In realtà, noi
tutti sappiamo bene di essere continuamente ammaestrati sia dal dolore sia dal
piacere; anzi ci accorgiamo che l’uno esiste perché esiste l’altro, e quindi ha
ragione Nietzsche a vedere la saggezza in entrambi.
Afferma Eraclito: «La malattia rende piacevole la salute, la fame la sazietà, e
la fatica il riposo».
Esiste però una sofferenza naturale, utile a maturare, ed esiste una sofferenza
inutile, che ottunde lo spirito; esiste una sofferenza prodotta dalle circostanze e
ineliminabile, ed esiste una sofferenza che provochiamo noi stessi. È su
quest’ultima che possiamo agire, perché - come è scritto nel Dhannnapada -
«ciò che dalla mente è fatto, dalla mente può essere disfatto».
Dobbiamo dunque chiederci in ogni circostanza quale sia il nostro contributo
all’origine o all’amplificazione del dolore che ci colpisce. Se perdiamo una
persona cara, non possiamo lare a meno di soffrire; ma qual è la nostra parte di
responsabilità nella sofie: enza che ci investe quando veniamo privati di cose
non necessarie?
La distinzione fra i due tipi di dolore può non essere chiara in partenza e,
quindi, deve essere sottoposta a un’opera di meditazione, a un esame di
coscienza.
Dobbiamo domandarci in ogni occasione fino a che punto contribuiamo noi
stessi - con le nostre pretese, con i nostri bisogni superflui, con le nostre nevrosi
- a incrementare e a mantenere uno stato di sofferenza.
Nella nostra società, esistono bisogni del tutto artificiali, indotti dalla
pubblicità e dal conformismo di massa; eppure anche questi bisogni inutili,
quando non vengono soddisfatti, provocano frustrazione e dolore. È a questo
punto che dovrebbe intervenire l’opera della saggezza: dobbiamo saper
discriminare i bisogni e i desideri naturali da quelli che possono essere
tranquillamente soppressi.
Una semplificazione dei nostri obiettivi, una ricerca di maggiore essenzialità:
ecco che cosa dobbiamo cercare.
Ridurre l’area dei bisogni significa ridurre l’area della sofferenza. «Il saggio
cerca di raggiungere l’assenza di dolore, non il piacere» diceva Aristotele.
Ma che cosa dobbiamo fare quando un dolore non può essere eliminato?
Dobbiamo affrontarlo con la consapevolezza che ha comunque una sua
“saggezza”, che è collegato indissolubilmente al nostro desiderio del piacere.
«Avete mai detto sì a un piacere?» domanda Nietzsche. «Allora dite sì anche a
tutto il dolore.»
10. La via
Ogni nomo può conoscere la propria via. Ma solo se la cerca.
DETTO TAOISTA

La via di ciascuno di noi non è qualcosa che sia stato deciso dall'alto, dal
cielo, da Dio. È piuttosto l’espressione del nostro io più profondo, è esattamente
ciò che siamo.
Però è un percorso da compiere, un cammino da srotolare, qualcosa che esiste
solo in potenza. Non si rivela se non la vogliamo.
Se non cerchiamo la nostra via, percorreremo un cammino casuale, secondo
scopi e mete che non saranno i “nostri”, che noi non avremo scelto. Saremo così
uomini alienati, uomini che sentono dentro di sé con insoddisfazione di non aver
voluto quasi niente di ciò che hanno.
«Destino per ognuno è il suo carattere» dice Eraclito. Ma non tutti i caratteri
sono “facili” e non tutti sono accettati: c’è chi impegna buona parte delle proprie
energie a lottare contro di sé, a combattersi. E invece è necessario un atto di
accettazione e di scelta, che ci permetta di impiegare tutte le nostre forze.
Il primo compito è dunque quello di arrivare a capire chi siamo e come siamo
fatti: ecco che cosa significa “conoscere la propria via.”
Per giungere a questo risultato, è necessario saper ritrovare il fondo di sé,
quella zona della nostra interiorità che rimane dopo aver sospeso tutte le attività
mentali rivolte all'esterno. Non si tratta di un tentativo di conoscenza discorsiva,
ma di un atto di identificazione e di reintegrazione.
Saper trovare la propria via significa saper trovare se stessi, e saper trovare se
stessi significa sapersi togliere gli strati sovrapposti dalla società e dalla cultura.
Una simile ricerca è una forma di riequilibratura psicologica. Ritrovare se
stessi, ritrovare la propria via, è approdare a una sensazione di serenità, è sentirsi
al posto giusto nel momento giusto, è mettersi nella condizione di risolvere
finalmente i propri problemi.
«Quando un uomo trova la sua strada,» sostiene ancora la saggezza taoista «il
Cielo lo aiuta.»
11. La maturità
Persona matura è quella che è arrivata al punto di essere la madre e il padre
di se stessa.
ERICH FROMM

Finché rimaniamo “figli”, finché ci aspettiamo che i genitori o altre figure


autorevoli giungano ad aiutarci nei momenti difficili, ci troviamo in uno stato di
sottomissione. Non abbiamo assunto la vita nelle nostre mani; in un certo senso
siamo ancora dei bambini. E questo ci predispone a dipendere sempre da
qualcuno: il professore, il capufficio, il padrone, il prete, il coniuge, lo stato e
così via.
È vero che ognuno di noi dipende per la sua sopravvivenza dagli altri, ma un
conto è vivere in un rapporto “alla pari” e un altro è trovarsi in un rapporto di
subordinazione. Chi vive in un simile stato è un individuo che già in partenza
rinuncia a essere se stesso.
Questa rinuncia impedisce la realizzazione del compito della vita: il
dispiegamento delle proprie potenzialità.
Le filosofie e le religioni del passato (che continuano a esercitare il loro
influsso nel presente) partono da un principio opposto: che lo scopo
dell’esistenza non sia tanto la realizzazione di sé, quanto l’obbedienza a una
presunta “volontà divina”. Nella tradizione giudaico-cristiana, per esempio, il
primo comandamento stabilisce l’autorità del “capo supremo” e il conseguente
principio della sottomissione: qui l'uomo deve rimanere un eterno “figlio” di un
altrettanto eterno “padre”.
Se esistesse una religione della libertà (e della felicità), i suoi primi
comandamenti dovrebbero essere più o meno: «Sii te stesso… Vivi la tua vita
fino in fondo… Sii autonomo… Combatti la sofferenza, ecc.».
La definizione di Fromm delinea una via della completa realizzazione
psicologica: finché infatti non diventeremo madri e padri di noi stessi, finché
non diventeremo persone autonome e mature, vivremo in una condizione di
dipendenza. Continuando ad aspettarci tutto dagli altri, non saremo mai noi
stessi, non vivremo mai in prima persona e, soprattutto, non porremo le
condizioni per essere felici.
Ma non è meglio rimanere bambini? Non è meglio affidare la responsabilità
del nostro sviluppo a qualcun altro? La risposta ci viene da un maestro indiano
recentemente scomparso, Rajneesh:
«Se un uomo ha voluto la dipendenza, può venir distrutto in un attimo.»
12. Il desiderio
Il nostro desiderio disprezza e trascura ciò che ha fra le mani per correre
dietro a ciò che non ha.
MICHEL DE MONTAIGNE

«L’uomo non conosce la vera gioia» scrive Bacchilide «perché desidera


sempre ciò che non ha.» Qui però bisogna intendersi: non si può desiderare se
non ciò che non si ha o che non si crede di avere.
Il desiderio ha proprio la funzione di cercare sempre qualcosa di nuovo; è
come un motore in continua azione, che da una parte ci permette di rapportarci
alle cose e dall’altra è una fonte di costante insoddisfazione. Ambiguo come
tutto, è l’emblema e l’essenza della vita.
Un maestro come il Buddha, quando cerca l’origine della sofferenza, la trova
proprio nel desiderio; e quando vuol liberare gli uomini dal ciclo della vita e
della morte, dice loro di eliminare ogni attaccamento, sia all’essere sia al non
essere.
Questo significa che, se vogliamo distruggere gran parte della sofferenza,
dobbiamo fare i conti con il desiderio, con la sua insaziabilità. Secondo l’antica
saggezza dell’ebraismo, «l’uomo muore senza aver soddisfatto nemmeno la metà
dei suoi desideri».
Ma quanti di questi desideri meritavano davvero uno spreco di tempo e di
energie? «Quante cose ci sono» diceva Socrate «di cui non sento il bisogno.»
Agli effetti della serenità (e anche di una vera ecologia della mente), è dunque
importante saper ridurre i desideri, distinguendo ciò che è utile ed essenziale da
ciò che è superfluo. Per poter compiere questa operazione, occorre rendersi
conto di quali siano i beni fondamentali della vita: ecco il primo compito di
un’autentica saggezza.
Fra i due estremi dell’edonismo più sfrenato e della rinuncia ascetica, forse la
posizione epicurea è la più equilibrata: «Non dobbiamo rovinare il bene attuale»
dice il filosofo greco «con il desiderio di ciò che non abbiamo, ma non
dobbiamo dimenticarci che anche ciò che abbiamo lo abbiamo desiderato.»
Il problema è quello di un’adeguata educazione del desiderio: da una parte
non bisogna inseguire ogni minimo impulso della mente, ma dall’altra non è
neppure saggio rinunciare ai piaceri essenziali.
Per sentirci realizzati, non abbiamo bisogno di grandi mete. La gioia è fatta di
piccole cose, ovvero del soddisfacimento di bisogni che sembrano piccoli alla
voracità del nostro desiderio ma che in realtà sono l’essenza del vivere.
«Se non desidererai tante cose» scrive Platone «anche le piccole cose ti
sembreranno grandi.»
13. I limiti
I desideri non necessari sono quelli che, se non soddisfatti, non provocano
dolore.
EPICURO

Ecco un criterio per distinguere un desiderio necessario da uno superfluo e,


perciò, per eliminare inutili sofferenze. Quante volte ci sembra che una cosa ci
sia assolutamente indispensabile, salvo poi accorgerci, quando è passata
l'“ondata” del desiderio, che possiamo farne benissimo a meno. Allora ci
accorgiamo che siamo stati vittime consenzienti di un attacco di cupidigia. Ma,
poco dopo, ecco che l’attacco si ripete per qualche altra cosa.
In Oriente si dice che la mente umana è sempre in balia di Maya, la dea
dell’illusione, la quale ci fa scambiare per importante ciò che è inutile, e
viceversa. Sprechiamo così tempo ed energie nell'inseguimento di mete fasulle,
di sogni inconsistenti, di desideri privi di sostanza. E, soprattutto, perdiamo di
vista i beni preziosi che abbiamo a portata di mano.
Spesso gli uomini cercano lontano ciò che hanno già a loro disposizione. A
questo proposito, le Upanisad, le grandiose scritture indiane, paragonano la
ricerca umana a quella di un uomo che passa e ripassa sopra il luogo dove è
nascosto un tesoro, senza mai vederlo.
Ciò è particolarmente vero per certi “tesori” come la serenità, la calma, la
pace. Li possediamo dentro di noi, ma li cerchiamo lontani; anzi, proprio perché
li cerchiamo lontani, li perdiamo continuamente. È un po’ come inseguire la
propria ombra: non serve a nulla mettersi a correre.
Il problema non è tanto quello di reprimere con uno sforzo della volontà i
desideri, quanto quello di stabilire una reale scala di valori e di priorità. Scrive
Schopenhauer: «Il modo migliore per evitare una grande infelicità è di ridurre le
proprie pretese commisurandole ai propri mezzi».
Spesso noi non siamo capaci di individuare il reale oggetto del desiderio e
continuiamo a spostare l’impulso da una cosa all’altra. Per esempio,
un’insoddisfazione affettiva può portare a trasferire il desiderio sul cibo, sulla
camera o sul possesso di beni. Per capire quindi che cosa vogliamo veramente,
dovremmo seguire il consiglio di Epicuro, provando a rinunciare a qualcosa e
osservando se non possiamo davvero farne a meno. Imparare a conoscere, a
selezionare e a ridurre i desideri è certo la via maestra per la saggezza. È,
comunque, la via per la serenità. «Poni un limite ai tuoi desideri:» dice Orazio «a
chi è troppo avido manca sempre qualcosa.»
E il testo taoista del Wen-tzu afferma: «I saggi riducono i desideri per cogliere
l’essenza della vita.»
14. Il raccoglimento
Quando gli avvenimenti ti turbano nel profondo, rientra subito in te stesso.
MARCO AURELIO

Questa è una regola basilare per riuscire a recuperare l’equilibrio che le


circostanze possono sconvolgere. In realtà non esiste avvenimento esteriore che
non abbia un riflesso interno, ed è da questo riflesso interno che noi giudichiamo
la sua rilevanza. È dunque molto importante registrare subito le risonanze di
ogni evento.
Il “ritorno a sé” e l’osservazione dello stato mentale costituiscono già una
prima forma di recupero dell’armonia. Non a caso, quando qualcuno è sconvolto,
si dice che è “fuori di sé”.
Purtroppo sono molti coloro che - come dice Seneca - «preferiscono stare con
chiunque altro piuttosto che con se stessi». Questo atteggiamento trasforma gli
uomini in alienati, in individui cioè che non conoscono se stessi, che non sono
abituati a stare con se stessi.
Perché raccogliersi spesso? Perché - risponde Seneca - «il rapporto con le
persone di differente mentalità turba l'armonia interiore». L’abitudine al
raccoglimento è un metodo per ritrovare il proprio centro che le ondate emotive
spostano di continuo. Lo scopo è quello di recuperare un punto fermo in mezzo
alle tempeste.
«Il saggio diviene un’isola che il diluvio non può sommergere» dice il
Dhammapada, l’importante scrittura buddhista.
Quando si sia rioccupata questa posizione di equilibrio, ci si potrà di nuovo
volgere all’esterno, compiendo quelle azioni che le circostanze ci impongono.
Scrive Seneca: «Il bene dell’animo deve essere ritrovato dall’animo: se gli
daremo un momento di respiro, una sola occasione di raccogliersi su se stesso,
sarà in grado, distaccandosi da sé, di scoprire la via giusta».
Ecco il primo passo per ritrovare la serenità perduta. «Non uscir di misura più
di quanto sia necessario,» suggerisce Marco Aurelio «perché tornando
continuamente all’armonia ne diverrai sempre più padrone.»
15. I viaggi
L'importante è sapere in che stato d’animo arrivi, non dove arrivi.
SENECA

Il viaggio può essere un motivo di arricchimento e di conoscenza, oppure una


semplice fuga; spesso entrambe le cose.
In realtà ciò che si cerca all'esterno è sempre un’esperienza interiore: si
“utilizza” il viaggio per allontanarsi da un’esistenza divenuta troppo monotona e
per trovare qualche nuova emozione. Ma questa ricerca viene delusa quando ci
portiamo dietro i nostri pregiudizi, le nostre illusioni, le nostre paure, insomma
l’intero bagaglio della nostra mente.
«Perché ti stupisci che i tuoi viaggi non ti giovino?» scrive Seneca. «Vai in
giro con te stesso: ti porti dietro il motivo che ti ha fatto fuggire.» Dunque, la
condizione prima per compiere un viaggio proficuo sarà quella di lasciare a casa
il pesante fardello delle opinioni.
Anche la nostra esistenza è un viaggio per cui vale la stessa regola: è meglio
compiere un breve giro intorno alla nostra casa con la mente fresca che un lungo
periplo intorno al mondo con tutto il peso dei nostri pregiudizi.
«Più lontano si va» dichiara il Tao te ching «meno si conosce: perciò i saggi
conoscono senza muoversi.»
Naturalmente qui si parla della conoscenza di sé e delle leggi fondamentali
della vita. Ma non bisogna sottovalutare l’importanza dei viaggi.
Questo tipo di esperienza sarà tanto più fruttuoso quanto più riusciremo a
liberarci delle idee ricevute, dei nostri valori, dei nostri abituali punti di
riferimento, in breve di tutta la nostra mente. Solo così potremo entrare
veramente a contatto con il nuovo, con il diverso.
«Tutti fuggono se stessi,» scrive Seneca «ma non riescono a farlo, perché l’io
tallona e insegue se stesso, come un amico insopportabile.»
Per compiere con profitto qualunque viaggio, e in particolare il viaggio della
nostra vita, il requisito indispensabile è la capacità di “mettere fra parentesi” la
nostra abituale attività mentale. Che, se da una parte è utilissima per farci
orientare nel mondo, dall’altra può diventare una specie di armatura o di camicia
di forza, costruita più per conservare che per apprendere.
L’arte di viaggiare consiste proprio nella capacità di abbandonare
temporaneamente l’io abituale. A questo scopo, non c'è bisogno di compiere
lunghi viaggi in terre lontane. Il cambiamento, l’apertura, deve avvenire a livello
mentale.
Afferma Orazio: «Chi corre di continuo da un luogo all’altro cambia cielo, ma
non stato d’animo».
16. Il silenzio mentale
Se ti è caro ascoltare, imparerai; se porgerai l'orecchio, diventerai saggio.
SIRACIDE

Ogni forma di apprendimento è basata sull’ascolto. Ma non tutte le forme di


ascolto si equivalgono.
«Fate attenzione a come ascoltate,» dice per esempio Gesù «perché a chi ha
[la capacità di comprensione] sarà dato, ma a chi non ha sarà tolto anche quello
che crede di avere.» In effetti, quando non si sa ascoltare, ci si imprigiona nel
proprio orticello e a poco a poco ci si impoverisce. «Incapaci di ascoltare e di
parlare» troviamo scritto in uno dei frammenti di Eraclito, con evidente
riferimento a «coloro che ascoltano ma non comprendono» e che «presenti, sono
assenti.»
Non può esserci vera comprensione se non siamo capaci prima di ascoltare. E,
per ascoltare bene e a fondo, occorre mettere da parte, almeno per un po', il
complesso delle nostre convinzioni e dei nostri pregiudizi. Dobbiamo riuscire a
ottenere ciò che nel linguaggio meditativo si definisce “silenzio o vuoto
mentale”.
Più riusciamo a far tacere i nostri pensieri e i nostri “metri di giudizio”, più
possiamo cogliere il nuovo e il diverso, ossia la fonte del nostro autentico
arricchimento. I verbi “cogliere” e “comprendere” esprimono chiaramente l’idea
della necessità di un preventivo raccoglimento.
La comprensione presuppone un atteggiamento di vuoto ricettivo, in
mancanza del quale ci limitiamo semplicemente a inserire ogni dato, ogni
esperienza, nel contesto del già noto e quindi a non acquisire mai qualcosa di
veramente nuovo.
«Abituati ad ascoltare attentamente ciò che gli altri dicono» scrive Marco
Aurelio «e cerca di penetrare il più possibile nell’animo di chi ti parla.»
Non si può ascoltare se non si fa un po’ di silenzio dentro di sé, se non si è
capaci di tacere. C'è gente invece che è talmente impegnata nell’esprimersi, nel
parlare, che non è in grado di afferrare che cosa dicono gli interlocutori. Si cade
così nel “dialogo fra sordi” in cui nessuno ascolta veramente che cosa l’altro
abbia da comunicare.
Per poter parlare, per riuscire a dire cose autentiche, per svolgere un dialogo
(e non il solito monologo o l’inutile chiacchiera), imponiamoci ogni tanto un po’
di silenzio mentale, cerchiamo di ascoltare gli altri nel vuoto dei nostri
pregiudizi.
«Dobbiamo disporci all’ascolto con animo disponibile e pacato,» afferma
Plutarco «come fossimo invitati a un banchetto sacro o alle cerimonie
preliminari di un sacrificio.»
17. L’immaginazione negativa
Quanta gente ignora quale vantaggio comporti, al fine di evitare il dolore,
l'esercitarsi a guardare in faccia il destino a occhi aperti e a non crearsi
fantasie delicate e molli.
PLUTARCO

Niente è peggio che sfuggire la realtà - dice Plutarco - costruendosi fantasie e


sogni a occhi aperti. In effetti si tratta di un atteggiamento nevrotico che, anziché
contribuire a far diminuire l’ansia, la fa accumulare e poi la fa esplodere in crisi
drammatiche. Potremmo definirlo una malattia o una disfunzione mentale. Forse
si tratta del vizio più comune, legato alla struttura stessa della mente che è
portata, nel bene e nel male, a immaginare la realtà e a ricostruirla così come
preferisce.
È difficile mantenersi aderenti alla nostra esperienza, soprattutto quando essa
è noiosa o dolorosa. In questi casi ci si difende immaginando quello che ci
sembra più piacevole. Se da un lato questa funzione permette alla mente umana
di concepire grandi visioni artistiche, filosofiche e scientifiche, dall'altro lato è
una minaccia al suo equilibrio.
Corriamo il pericolo di vivere in un mondo virtuale, in una specie di sogno a
occhi aperti, senza più nessun rapporto con i dati di fatto. Anzi, più ci
allontaniamo dalla realtà, più questa si ripresenta in forma spaventosa.
L’uomo moderno, in particolare, vivendo in ambienti sempre più artificiali e
dovendo sviluppare soprattutto le facoltà intellettuali, perde il contatto con il
mondo della natura, con i suoi sapienti equilibri.
Questo può portarci a una sorta di alienazione di massa: si fa una cosa, ma non
si è più presenti in essa. Per esempio si può camminare per strada e continuare a
rimuginare un problema di lavoro, o si può mangiare e continuare a rivivere un
incontro precedente.
Smarrito l'ancoraggio alla realtà, si ingigantiscono le ombre mentali.
L’immaginazione può farci precipitare di volta in volta nella disperazione o
nell’esaltazione, indipendentemente da ciò che viviamo.
E necessaria, a questo punto, una forma di igiene mentale che sia in grado di
ridarci l’equilibrio e il senso delle cose presenti. Se non lo faremo, non saremo
noi a dirigere la nostra mente, ma sarà la nostra mente a essere padrona di noi.
Si potrebbe credere che tutto ciò non abbia niente a che fare con la spiritualità
e con la ricerca religiosa. Invece il problema dell’attenzione e della presenza
mentale è stato posto in primo piano da parecchie religioni.
Esiste per esempio una tradizione - quella dello Zen - che pone come scopo
ultimo della vita “la visione delle cose così come sono”. In effetti, come negare
che da questa capacità derivino tutte le altre e anche il successo o meno delle
nostre iniziative? E come pretendere di parlare di Dio, di anima, di bene e di
male se non sappiamo distinguere una fantasia dalla realtà?
Dobbiamo dunque esercitarci nell’essere presenti mentalmente in ciò che
facciamo e viviamo, dobbiamo imparare a far tacere le mille deviazioni
dell’immaginazione.
Esiste una tecnica buddhista - la meditazione vipassana - che insegna a essere
consapevoli di ogni minima azione quotidiana: se camminiamo concentriamoci
solo nel camminare, se mangiamo solo nel mangiare, se lavoriamo solo nel
lavorare e così via.
Questo metodo ha effetti rigeneranti se viene applicato per esempio alla
respirazione: è un modo per ritrovare il contatto con il nostro corpo e quindi con
la natura in genere. Ma non è solo questo: è anche un mezzo per uscire dal
mondo dei sogni e delle fantasie negative, dal dominio di Maya, la potente dea
dell’illusione.
Chi riesce a ritrovare la via della realtà può recuperare la serenità: l’unico vero
accesso alla pienezza di questo mondo e di ciò che lo segue.
«Per imbrigliare la fantasia» scrive Schopenhauer negli Aforismi sulla
saggezza del vivere «non dobbiamo consentirle di ripresentarci alla memoria le
immagini dei torti subiti, dei danni, delle perdite, delle offese, delle umiliazioni,
delle mortificazioni e via dicendo, perché in tal modo ridestiamo in noi
risentimenti da poco sopiti, l’ira e le altre passioni perverse che contaminano il
nostro animo.»
18. La cura di sé
Conoscendo noi stessi, potremo sapere come prenderci cura di noi stessi,
mentre, se non ci conosciamo, non potremo farlo.
PLATONE

C’è gente che si cura con la massima attenzione di ogni altro bene - delle
proprietà, della carriera, dei soldi, della famiglia, della reputazione, dei
passatempi, ecc. -, ma non ha la minima considerazione di ciò che è la base di
tutto, del bene che permette di avere ogni altro bene: il proprio sé.
Si impiegano venti e più anni per conquistare un titolo di studio o comunque
per accumulare le conoscenze necessarie a svolgere una professione, mentre non
si compie nessuno sforzo per cercare di conoscere lo strumento di ogni
conoscenza. Anche i nostri curricoli scolastici prevedono tante materie, ma non
lo studio della mente umana.
Così abbiamo uomini che sanno tante cose della fisica o dell’economia,
mentre conoscono pochissimo di sé e degli altri.
Le conseguenze sono sotto i nostri occhi: tecnologie sofisticatissime e talora
distruttive in mano a persone che hanno una psicologia da bambini; oppure
potenti mezzi d’informazione e incarichi di responsabilità gestiti da individui
squilibrati.
Nelle nostre società manca la scienza più importante: quella
dell’autoconoscenza e dello sviluppo mentale. Proprio il punto fondamentale del
processo educativo è affidato al caso o a ideologie e religioni nate secoli o
millenni fa.
È per questo motivo che corriamo continuamente il rischio di
autodistruggerci. L’idea della fine del mondo, dell’apocalisse, nasce dalla nostra
consapevolezza di essere profondamente ignoranti e quindi di avere la capacità
di fare il male quasi senza accorgercene, quasi senza volerlo. Solo menti
oscurate possono continuare a illudersi, per esempio, che l’attuale sfruttamento
delle risorse naturali o l’aumento indiscriminato della popolazione terrestre non
portino prima o poi a un disastro.
«Il massimo dei peccati è l’ignoranza» dice il Dhammapada, che si riferisce in
particolare all’“ignoranza di sé”, alla mancanza di autoconoscenza. E il Wen-tzu
conferma: «Cercare negli altri non è così utile come cercare in sé».
In effetti ogni conoscenza che non sia stata assimilata nel profondo resta per
così dire lettera morta: non aiuta la crescita dell’individuo. È una nozione che
non dà nessun contributo all’esperienza, né tanto meno alla saggezza.
Sarebbe dunque importante colmare tale lacuna: introdurre un processo di
autoconoscenza, basato non tanto su un’analisi della personalità (che sarebbe
difficile compiere da soli), quanto su uno sviluppo della consapevolezza.
«Se c’è oscurità interiore,» afferma Rajneesh «la luce esterna non sarà di
nessuna utilità.»
Prendere le distanze dal proprio io empirico, osservare la propria attività
mentale, riuscire a creare un certo silenzio o vuoto interiore, in breve la “cura di
sé”, tutto ciò costituisce la base di partenza di un processo psicologico che è
ormai indispensabile non solo per sapere quale sia il nostro bene personale, ma
anche quello generale.
«Non si può vivere felici e non si può nemmeno vivere in modo tollerabile,»
scrive Seneca «se non si coltiva la saggezza.»
19. L’autonomia
Paradossalmente la capacità di stare soli è la condizione prima della
capacità d'amare.
ERICH FROMM

Chi non ha un buon rapporto con se stesso non può avere un buon rapporto
con gli altri: è illusorio pensare che la volontà o la socialità possano ovviare a
questo difetto d’origine. Sono piuttosto necessari un minimo di distacco da sé e
la capacità di osservarsi, di “conoscersi”.
Senza questa operazione preliminare, non si arriverà neppure a diagnosticare
il disturbo che ci affligge e, di conseguenza, si continuerà ad attribuire agli altri o
alla sfortuna la responsabilità dei propri fallimenti.
Non serve a niente invitare genericamente ad “amare” il prossimo quando
esiste proprio un cattivo rapporto con se stessi; occorre far comprendere come si
debba amare, prima se stessi e poi gli altri. Esistono infatti vari modi di amare, e
alcuni sono inconsapevolmente distruttivi per la persona amata.
La madre, per esempio, che ama il proprio figlio fino al punto da desiderare
che non si stacchi più da lei, non sta facendo il bene del figlio; eppure sarà
convinta di amarlo più di chiunque altro.
In realtà questa modalità sbagliata di amare nasce dalla pretesa che l’amore
colmi una lacuna, la quale deriva invece da un cattivo rapporto con se stessi.
È vero che questo cattivo rapporto nasce a sua volta da una relazione anomala
con i genitori o con altri individui che hanno avuto una grande importanza nella
nostra prima infanzia, ma è anche vero che queste persone non possono
comprendere il nostro problema, né possono più aiutarci. Se vogliamo risolverlo,
dobbiamo ricorrere a ligure sostitutive (psicoterapeuti, psicoanalisti, ecc.) che ci
aiutino a “conoscerci”, a “vederci”. Oppure dobbiamo lare da soli.
Fortunatamente il primo terapeuta è dentro di noi: è quel sé profondo che resta,
nonostante tutti gli strati sovrapposti dalla società e dalla cultura, il nostro centro
di equilibrio e di serenità. Il problema è di riuscire a disseppellirlo. È per questo
che uno psicoanalista come Fromm finisce per riscoprire le virtù della
meditazione e giunge a scrivere ne L'arte d’amare: «Sarebbe utile praticare
pochi semplici esercizi, come, ad esempio, sedere in una posizione di relax (né
molle né rigida), chiudere gli occhi e cercare di vedere uno schermo bianco
davanti a sé respingendo figure e pensieri che possano oscurarlo; quindi cercare
di seguire il proprio respiro; non pensarci né sforzarsi di farlo, ma seguirlo, e
così facendo, sentirlo; inoltre cercare di avere un senso dell'io, me stesso, come il
centro dei miei poteri, come il creatore del mio mondo. Si dovrebbe, perlomeno,
fare un simile esercizio di concentrazione ogni mattina per venti minuti (se
possibile di più) e ogni sera, prima di coricarsi.»
20. Il controllo
Agitata e ondeggiante è la mente, difficile da proteggere, difficile da
controllare: il saggio la dirige come l’arciere la freccia.
DHAMMAPADA

Ecco il primo dei problemi umani: se riuscissimo a controllare la mente, la


nostra evoluzione compirebbe un balzo gigantesco; non dovremmo sprecare gran
parte delle nostre energie a correggere deviazioni, distrazioni, confusioni,
illusioni ed errori di ogni tipo. Ma naturalmente questo non è possibile in modo
assoluto, perché il nostro processo di apprendimento si basa proprio
sull’esistenza dell’errore.
Resta il fatto, comunque, che la chiave di volta della nostra felicità è la
possibilità, prima, di osservare la nostra attività mentale (percezioni, pensieri,
sensazioni, sentimenti, emozioni, desideri, ecc.) e, poi, di intervenire a
correggerla. La mente infatti non si limita a registrare gli influssi della realtà
esterna, ma, a sua volta, dà un’interpretazione preventiva di questi influssi,
fornendoci dati già condizionati.
Dunque, è importantissimo il suo stato di partenza, la “visione delle cose” che
precede la registrazione dei dati. Niente è veramente oggettivo: tutto è già
interpretato, “colorato”, condizionato, personalizzato.
Il problema del controllo della mente è innanzitutto il problema della
distinzione fra soggettivo e oggettivo, almeno nei limiti del possibile. La prima
cosa da imparare è l’osservazione della condizione psicologica: lo stato di
benessere o di malessere, di accoglienza o di ostilità, di desiderio o di
avversione; poi occorre notare gli stati d’animo di fondo (calma, ira, odio,
amore, ecc.); infine i singoli sentimenti, i singoli pensieri e così via. Tutte queste
sensazioni condizioneranno in modo decisivo i cosiddetti dati oggettivi.
Se osserveremo per un po' il nostro complesso psicofisico, ci accorgeremo che
esso è attraversato di continuo da pensieri e da stati d’animo su cui non abbiamo
nessun controllo, ma che hanno su di noi una influenza determinante: in simili
condizioni è facile scambiare per oggettivo ciò che è una nostra opinione o una
nostra sensazione. Perdendo di vista la realtà, vedremo fallire ogni nostro sforzo
per dare un indirizzo all’esistenza e, soprattutto, per raggiungere un minimo di
serenità. Se ci affidiamo al caso e agli eventi esterni per ottenere l’equilibrio,
non potremo raggiungere nessuna stabilità: saremo come foglie in balia delle
ventate.
Dobbiamo invece imparare a porre una certa distanza fra noi e la nostra
mente: dobbiamo arrivare a osservarla come se ci trovassimo al suo esterno. Già
la decisione e l’atto d’attenzione ci impongono un primo distacco e ci
permettono di introdurre un elemento d’ordine nella sua attività caotica e
incontrollata.
Diventando coscienti di ciò che ci succede, metteremo in azione una facoltà
superiore - quella della consapevolezza che vive in una dimensione di calma e di
chiarezza. È un nuovo centro con cui non avevamo familiarità e che è in grado di
darci una serenità e una saggezza nuove. Allora comprenderemo il senso
profondo di uno degli aforismi di Schopenhauer: «Ce in noi qualcosa di più
savio della mente».
21. La tempestività
L’importante in tutte le faccende è saper cogliere il momento opportuno.
PITTACO

Ogni evento ha un suo corso: ha un inizio, uno svolgimento e una


conclusione; così succede per un fenomeno naturale o per un avvenimento
storico e così succede per la vita umana.
Inoltre ogni evento è collegato dialetticamente al suo contrario: dopo un
periodo di piogge non può che venire il bel tempo, dopo un periodo di guerre la
pace e dopo un periodo di sfortuna un colpo di fortuna. Niente può essere fisso e
immutabile.
Un campione o una squadra di calcio hanno un periodo in cui si formano e
crescono, poi un altro in cui sono all’apogeo e vincono, e infine uno di
decadenza. Ma nessuno può sempre vincere o sempre perdere.
Naturalmente le varie fasi non sono sempre ordinate e graduali, e talvolta
l’intero corso può abortire all’improvviso. Non è nemmeno facile prevedere i
tempi e le durate.
Proprio per questi motivi è necessario affinare la sensibilità, la capacità di
avvertire in anticipo come si evolverà un certo fenomeno. L’importante è essere
preparati, è stare all'erta, è avere una chiara visione dei movimenti, della legge
dell’alternanza e del processo dei corsi e ricorsi, sia nella vita personale sia nella
storia dei popoli.
«Niente dura, e solo il mutamento è la legge costante:» scrive a questo
proposito Schopenhauer «saggio è colui che non si lascia ingannare dalla
stabilità apparente, e che prevede in quale direzione andrà il prossimo
mutamento.»
Occorre quindi sviluppare un’arte dell’ascolto e dell’osservazione che
permetterà di sfruttare al meglio ogni occasione. Bisogna per così dire tastare il
polso della situazione e rendersi conto del punto della parabola in cui ci si trova.
Solo in tal modo si può essere tempestivi.
Ci sono momenti in cui è opportuno muoversi velocemente e altri in cui è
opportuno attendere; ci sono periodi di preparazione e altri di azione e di
raccolto.
«In tutte le occasioni» scrive Esiodo «la cosa essenziale è la scelta giusta del
momento.» Quante volte abbiamo perso un’opportunità perché abbiamo esitato,
quante volte abbiamo rovinato tutto perché abbiamo anticipato i tempi!
Per affinare questo intuito, non basta il comune senso pratico: occorre
piuttosto starsene in silenzio e fermi e osservare. È dalla chiarezza mentale che
nasce la sensibilità, ed è dalla sensibilità che si sviluppa la capacità di muoversi
in armonia con il corso delle cose.
«Come si fa ad avere successo» dice il testo taoista del Wen-tzu «senza essere
tempestivi?»
22. L’interiorità
La fonte principale della felicità umana scaturisce dalla propria interiorità.
ARTHUR SCHOPENHAUER

Una delle massime fondamentali della saggezza di tutti i tempi e di tutte le


culture è che, per essere felici, bisogna bastare a se stessi.
Il motivo è intuibile: se si affida il proprio benessere - che è sempre un fatto
interiore - a condizioni esterne, la nostra felicità è incerta e ci può essere tolta in
ogni momento. Ma qui bisogna distinguere tra felicità, intesa come l'effetto di
eventi esteriori, e la serenità, l’equilibrio, l’armonia… tutti stati d’animo che
dipendono dal nostro assetto interiore e quindi dalla nostra volontà.
Mentre le condizioni esterne possono variare e non sono quasi mai sotto il
nostro controllo, la serenità dipende in gran parte da noi, anche se può essere
messa a dura prova dalle circostanze.
Se la luce ci viene dall’esterno, anziché dall’interiorità, ci potrà sempre venire
oscurata, e noi, in quel buio improvviso, ci troveremo senza punti di riferimento
e di appoggio. Come scrive Schopenhauer negli Aforismi sulla saggezza del
vivere, «tutte le fonti esterne della felicità e del godimento sono per loro natura
estremamente precarie, difficili, caduche e soggette al caso, e possono quindi,
anche nelle circostanze più favorevoli, inaridirsi facilmente».
Tuttavia questo non vuol essere un consiglio a chiudersi in una munita
fortezza e a difendersi dagli altri; non vuol essere un’esortazione a non esporsi,
non amare, non rischiare e a murarsi in un gelido controllo di sé. Vuol
rappresentare piuttosto un invito a coltivare contemporaneamente nella propria
interiorità una zona incontaminata e calma, dove potersi ritirare nel corso delle
peggiori tempeste della vita.
Il Buddha parla a questo proposito di un“'isola” e Marco Aurelio di una
“rocca” capace di resistere alla violenza delle ondate.
Da una parte abbiamo quindi un rifugio, ma dall’altra anche qualcosa di più:
una fonte di serenità che non potrà esserci portata via dalle circostanze. Si tratta
infatti di uno strato così profondo che non può essere toccato dai marosi della
superficie.
Il problema è semmai quello di individuarlo nei momenti di calma, in modo
da poterlo agevolmente ritrovare nei periodi di crisi. Come sostiene
Schopenhauer, «l’uomo dotato di una ricca interiorità è simile alla chiara, calda,
allegra stanza preparata per il Natale in mezzo alla neve e al gelo della notte di
dicembre».
23. L’impermanenza
Nello stesso modo in cui svanisce la gioia, svanisce anche il dolore.
SÖREN KIERKEGAARD

Quando diciamo che tutto passa e svanisce, sembriamo indicare qualcosa di


negativo. Ma la natura ha una saggezza che dobbiamo imparare ad apprezzare,
anche quando si volge a nostro sfavore.
Il fatto che i sentimenti non siano permanenti è una forma di protezione, che
rivela la sua utilità in caso di perdite e di lutti: se infatti non esistesse un
meccanismo automatico di evoluzione, non potremmo mai uscire da uno stato di
sconforto e di disperazione.
Quindi l’impermanenza della gioia e della felicità è compensata
dall’impermanenza della sofferenza. Ecco una meditazione utile a chi attraversi
un periodo di dolore. Quando Plutarco, per esempio, scrive che «il tempo è il più
saggio dei consiglieri», si riferisce a questo tipo di saggezza. Se la natura (o ciò
che chiamiamo Dio) avesse reso permanenti le cose, avrebbe reso eterno anche il
dolore. Il divenire, invece, ci salva dall’irreparabile, ci salva dal definitivo, che è
l’unica vera morte.
Coloro che si immaginano paradisi eterni, non possono fare a meno di
concepire anche inferni eterni: i due estremi, che in apparenza sembrano
inconciliabili, si dimostrano inseparabili. Per fortuna, l’unica cosa eterna è il
divenire, che ci offre infinite possibilità.
La realtà ci presenta un continuo trascorrere, un mutare senza posa, una
dialettica fra opposti che non dà mai la vittoria definitiva a nessuno dei due.
Nulla ci autorizza a pensare che, dopo la morte, le cose cambino. Per il
Buddhismo, per esempio, e anche per certi fisici moderni, può esistere un
numero altissimo (o addirittura infinito) di altri universi.
La constatazione dell’impermanenza di tutte le cose, che all’inizio ci
sembrava una triste scoperta, si rivela una grande speranza, e può dare conforto a
chi soffre o a chi ha commesso errori che sembrano irreparabili.
Ma ci porta anche a un’altra considerazione: che tutto è fatto per essere
superato e trasceso.
La natura sembra invitarci a cercare una composizione superiore dei dissidi, a
scoprire l'armonia nascosta” che sta al di là tanto del bene quanto del male, tanto
del piacere quanto del dolore. È ciò che noi chiamiamo serenità o
imperturbabilità, ossia uno stato di limpida consapevolezza.
«Se sarò schiavo del piacere,» dichiara Seneca «lo sarò anche della
sofferenza.»
24. La flessibilità
Quando gli uomini nascono sono teneri e quando muoiono sono rigidi.
Oliandogli alberi nascono sono flessibili e quando muoiono sono duri. La
rigidità è quindi compagna della morto e la flessibilità è compagna della vita.
TAO LE CHING

Poiché niente è stabile e immutabile, la qualità fondamentale della vita è la


duttilità, la flessibilità, la fluidità. Chi pretende di restare fermo e fisso verrà
spezzato, o comunque dovrà assistere con disperazione allo sfacelo di sé e del
mondo circostante.
Nel Taoismo ci si pone il seguente interrogativo: chi resiste meglio alla
tempesta, il tronco rigido o il flessuoso giunco? Ciò che sembrava debole e
fragile, alla fine può rivelarsi più resistente; proprio come l’acqua, che è molle e
cedevole eppure scava le rocce e abbatte i ponti.
Tutto scorre e si trasforma; ma questo a molti uomini fa paura. Essi hanno
bisogno di punti fermi, di sicurezze, di verità assolute. Se questa esigenza si fa
patologica, ecco che nasce l’individuo rigido, autoritario, conservatore, l’“uomo
di principi”. Egli si opporla al nuovo e al cambiamento, perché li sentirà come
minacce alla sua stessa esistenza.
Tuttavia chi si oppone al fluire della vita è destinato non solo a essere
sconfitto, ma anche a vivere in uno stato di sofferenza continua: ogni
cambiamento, ogni novità gli darà fastidio ed egli finirà per murarsi in una
corazza di rigidità. E, siccome starà male, Unirà per credere che l’esistenza
stessa sia una sofferenza, una forma di espiazione di qualche fantomatico
peccato originale.
A quel punto diventerà un sostenitore di religioni e di ideologie che
giustificano la coercizione, la repressione e, in sostanza, il malessere generale.
Il vero saggio ha una concezione diversa della vita; come dice Confucio, «è
puro ma non puritano, è retto ma non rigido». E soprattutto è a contatto con la
fonte dell’armonia, che gli permette di adattarsi ai mutamenti senza per questo
rinunciare a essere se stesso, ad avere cioè un costante punto di riferimento
interiore.
«La migliore delle mie tendenze naturali» scriveva Montaigne «è di essere
flessibile e poco ostinato.»
25. La calma
Gli scatti d'ira e i dispiaceri che ne seguono producono in noi danni di gran
lunga più gravi delle stesse cose per cui ci adiriamo e ci affliggiamo.
MARCO AURELIO

La calma è il primo dei requisiti necessari a realizzare se stessi, a essere se


stessi. «Chi è in preda all’ira è come un pazzo» scrive Seneca, e, in effetti, anche
nel linguaggio comune, si dice che è “fuori di sé”. Non è più lui che agisce, ma
un altro individuo che emerge dalle profondità della preistoria.
L’ira è insomma una forma di regressione, almeno quando si configura come
una perdita di controllo.
«Nessun’altra passione è costata così cara all’umanità» dice ancora Seneca,
che si riferisce evidentemente agli spropositi, alle liti, alle guerre e ai disastri di
ogni genere che ne sono venuti.
Per evitare di cadere nella sua trappola, sono stati escogitati diversi
stratagemmi. Consiglia per esempio Pitagora: «Quando sei in preda all’ira, non
fare e non dire niente».
Le tecniche di meditazione insegnano a osservarne la nascita nel momento
stesso in cui si innesca: bisogna notare la causa che la scalena e la reazione
interna. Quando ci si abitua a esercitare la consapevolezza su questo impulso - e
sugli analoghi moti interni (odio, rabbia, collera, ecc.) -, si crea già una prima
distanza e si dà l'avvio a un processo di trasformazione. Si può anche marcare
mentalmente: “Questa è ira, questa è rabbia, questo è odio…”.
L’osservazione distaccata di queste potenti ondate emotive, negative e
positive, costituisce il fondamento della ‘‘conoscenza di sé”. Chi arriva a
contemplarne il sorgere, la crescita, la diminuzione e lo svanire, si trova di fronte
allo stesso spettacolo dello scorrere di una giornata, con la sua alba, il suo
mezzogiorno, il suo pomeriggio e il suo tramonto.
Ogni fenomeno naturale, esterno o interno, segue questa evoluzione.
Una simile contemplazione può diventare una vera e propria “cura di sé”.
L’ira va evitata - come scrive Seneca - «non solo per ottenere la moderazione,
ma anche per acquisire la salute». Infatti, giungere a controllare ciò che Publilio
Siro definisce «il più grande dei nemici» significa acquisire notevoli benefici sul
piano della salute fisica e su quello della salute psicologica, due condizioni
strettamente collegate.
Una forte ira sfocia nel furore, il quale provoca sia una tempesta ormonale che
danneggia il corpo, sia uno squilibrio psicologico che'per un certo tempo oscura
il nostro stato di benessere.
«Chi non frena l’ira» dice Orazio «poi vorrà non aver fatto ciò che il
risentimento o la passione l’hanno costretto a fare.»
Lo scopo della meditazione non è tanto quello di reprimere un sentimento che
può anche essere giustificato (per esempio quando si reagisce a un’ingiustizia),
quanto quello di evitarne i danni e di utilizzarne nello stesso tempo la carica
emotiva.
Il saggio non è un uomo che non prova sentimenti (e risentimenti), bensì un
individuo che non si fa travolgere e guidare dalle opposte emozioni,
riconoscendo che il comportamento giusto non può che scaturire da una mente
calma e limpida. Quale giudice potrebbe essere equo se si facesse ispirare
dall’odio o dall’amore?
Dichiara Seneca: «La maggior prova di saggezza è non cedere all’ira».
26. L’equilibrio
Il saggio non si esalta per i successi c non si deprime per gli insuccessi.
BHAGAVAD-GITA

Ecco un principio che troviamo espresso in tutta la saggezza antica, orientale e


occidentale, e che è tuttora valido per chiunque voglia gestire il proprio
equilibrio interiore.
In realtà non sono solo le grandi emozioni negative
(ira, odio, invidia, rivalità, ecc.) quelle che minano l’armonia psicologica, base
di tutta la nostra salute, ma anche le forti emozioni positive: l’esaltazione, la
gioia sfrenata, l'attaccamento, il desiderio, l’idolatria, l’ebbrezza, l’entusiasmo,
la frenesia, il fervore e così via.
Siamo abituati a pensare che solo i dolori siano responsabili di stress, di
malattie e di morte, ma i medici sanno che anche le grandi gioie possono avere
gli stessi effetti: per esempio un uomo può essere colpito da un infarto sia
quando perde tutto il suo patrimonio sia quando scopre di essere il fortunato
vincitore di una lotteria. Prescindendo comunque dalle gravi malattie, è
l’equilibrio psicologico dell’individuo che viene turbato tanto dalla depressione
quanto dall’esaltazione. «Bisogna conservare la mente serena anche nei momenti
difficili» dice Orazio «e tenerla lontana da una gioia troppo sfrenata nella buona
fortuna.» E Tacito conferma: «A nessuno toccherà di dolersi più di chi si rallegra
in modo eccessivo».
Il saggio non si fa trascinare dalle opposte ed estreme emozioni perché è
consapevole che nessun evento può essere né così terribile né così esaltante,
perché si rende conto che quando le cose gli vanno male c'è anche qualcosa di
buono e che quando gli vanno bene c’è anche qualcosa di male.
«Se toccati dalla gioia o dal dolore,» dice il testo buddhista del Dhammapada
«i saggi non si esaltano né si deprimono.» E in un altro punto aggiunge: «Proprio
come un blocco di solida roccia non si muove con il vento, così dalla lode o dal
biasimo non sono scossi i saggi».
Dall’altra parte del mondo, sembra fargli eco Seneca: «Il saggio non si esalta
nella prosperità, né si abbatte nell’avversità».
A ben vedere, la parola d’ordine di chi punta alla serenità è
“ridimensionamento”: riequilibrare i sentimenti estremi e le impressioni
eccessive.
Quest’opera di riassetto, che potrebbe dare l’impressione di smorzare i
sentimenti e di rendere opaca la vita emotiva, riesce al contrario a conferire alla
mente una particolare limpidezza. E la chiarezza e la lucidità sono le condizioni
migliori per godersi le emozioni dell’esistenza.
«Non deprimerti e non eccitarti troppo» consiglia Marco Aurelio «e lasciati
del tempo libero nella vita.»
La conclusione può essere affidata a Schopenhauer, che riassume l’intera
questione nei suoi Aforismi: «Nessun avvenimento dovrebbe indurci a
manifestare grande esultanza o grande dolore, sia per la mutevolezza di tutte le
cose che potrebbero da un momento all’altro modificarlo, sia per la fallacia del
nostro giudizio riguardo a quanto può esserci di vantaggio o di danno: pressoché
a ognuno è capitato di lamentarsi per qualcosa che in seguito si è rivelato quanto
di meglio era possibile per lui, e di aver esultato per una cosa che poi è divenuta
per lui fonte di gravissime sofferenze».
27. La paura
E da stolti continuare a perdere i piaceri della vita per paura della morte.
DISTICI DI CATONE

Tutte le paure si riducono alla paura della sofferenza e alla paura della morte.
La prima può diventare così insopportabile da farci preferire la morte stessa e la
seconda ci accompagna sempre, ora in modo latente ora in modo cosciente.
La paura di cui stiamo parlando non è necessariamente legata a dati di fatto
reali: è molto spesso un’idea, una minaccia, un’anticipazione, una fantasia.
L’uomo in effetti è l’unico animale che sa di dover morire, e quindi ognuno di
noi, se vuole combattere efficacemente l’infelicità, deve fare i conti con questa
previsione. Come dice Pallada, «quello che fa soffrire non è morire, ma sapere di
dover morire».
Per affrontare questa paura, è importantissimo ancora una volta il modo in cui
si gestisce la coscienza.
Nella nostra mente si trovano i più spaventosi incubi e le fantasie più
piacevoli, e in tal senso inferno e paradiso sono condizioni psicologiche, sempre
attuali. Qui la funzione della consapevolezza diventa decisiva: chi non la sa
guidare, può finire in un pericoloso baratro e pagare un prezzo altissimo per
uscirne.
Mille sono i motivi per cui la mente umana può precipitare in uno di questi
“buchi neri”. Proprio per evitare un simile pericolo, è necessaria un’opera di
prevenzione, affidata alla saggezza.
Attenzione e consapevolezza sono le armi decisive. «Tutte le cose non sono
altro se non ciò che noi pensiamo che siano» scrive per esempio Marco Aurelio.
Ci sono persone che soffrono pene enormi non per fatti reali, ma per paure su
quei fatti: è la loro mente che produce quelle sofferenze. Anzi, nel momento in
cui quei fatti si verificano, la paura diminuisce.
L’immaginazione negativa è il nostro peggior nemico. «Chi ha paura vede
anche i pericoli che non ci sono» scrive Publilio Siro.
Ma tutto ciò è la conseguenza di una mancanza di conoscenza e di cura di sé:
non esistono solo i tumori fisici, esistono anche le proliferazioni abnormi della
psiche. Dunque, le nostre anticipazioni, le nostre fantasie, i percorsi della nostra
coscienza possono crearci serenità o infelicità. Occorre una sorta di igiene
mentale, ciò che noi chiamiamo meditazione.
Una vera cultura della serenità deve agire sulla mente, sull’immaginazione e
sulle opinioni; deve imparare a osservare e a controllare l’attività psicologica,
perché è da questa che nasce il nostro benessere o la nostra sofferenza.
Dobbiamo imparare a identificare gli attacchi dell’immaginazione negativa,
con le sue fosche fantasie, con le sue previsioni pessimistiche, con le sue paure
immotivate. A ogni suo impulso contrapponiamo un ragionamento o
un’immagine riequilibrante, in modo da recuperare il senso della realtà.
Esercitiamoci a rimanere nel presente, senza ingigantire le possibilità
sfavorevoli, e cerchiamo di ritrovare quotidianamente quel nostro centro
interiore che è permeato di tranquillità e di chiarezza mentale.
«Non bisogna rendersi infelici prima del tempo:» scrive Seneca «i mali che
hai temuto come imminenti forse non verranno mai e, in ogni caso, non sono
ancora venuti.»
Immersi nelle fantasie paurose, in questi prodotti oscuri della mente, perdiamo
il contatto con i beni del presente. Dice Marco Aurelio: «Smetti di dare un
significato alle cose in base a ciò che pensi, sopprimi le opinioni che ti fai
intorno alle cose, e come chi ha doppiato un promontorio, troverai un mare
calmo, un’assoluta tranquillità e un’insenatura riparata dai flutti».
28. Il conformismo
La maggior parte della gente non si rende nemmeno conto del proprio
bisogno di conformismo. Vive nell’illusione di seguire le proprie idee e
inclinazioni, di essere individualista, di aver raggiunto da sé le proprie
convinzioni.
ERICH FROMM

Crediamo di essere individui unici e irripetibili, e forse sul piano fisico lo


siamo; tuttavia, sul piano mentale, non solo tutti i nostri sentimenti sono
programmati dalla specie, ma anche i nostri pensieri ci vengono confezionati e
tramandati da chi ci ha preceduto.
Quelle che riteniamo opinioni personali sono spesso le idee di qualcun altro
che abbiamo fatto nostre. Per generazioni continuiamo a ripetere gli stessi
concetti e gli stessi comportamenti, proprio come dischi o registratori. Cambiano
i volti, i nomi e le persone, ma i nostri istinti sono ancora quelli dei nostri
antenati, e le nostre idee risalgono certamente a qualche secolo o millennio fa.
Che cosa può esserci di originale, per esempio, nelle nostre scelte politiche
quando le alternative possibili sono solo due o tre? E che cosa può esserci di
personale in religioni che sono nate molti secoli fa e che ci chiedono solo o di
accettarle o di rifiutarle?
Quando siamo giovani, quasi nessuna delle nostre idee è veramente nostra. Si
tratta di opinioni, di convinzioni e di principi che ci vengono tramandati dalla
famiglia, dalla scuola, dalla cultura, dalla religione e così via. Ma lo stesso
avviene per i comportamenti, per i desideri, per le reazioni e per i sentimenti.
Il nostro modo di amare, per esempio, è profondamente influenzato dai
rapporti avuti con i genitori, dal modo in cui ci hanno amato o non amato: noi
non abbiamo potuto scegliere nulla. Anche i modelli e i valori di riferimento
sono largamente precostituiti: forse un giorno ci ribelleremo e li cambieremo, ma
è comunque da essi che dobbiamo partire. All’inizio niente è veramente nostro:
né opinioni, né pensieri, né sentimenti. Siamo i prodotti di tutto ciò che ci ha
preceduto. Ci sembra di pensare con la nostra testa, ma in realtà anche la nostra
mente è un prodotto del passato.
Come fare a realizzare il compito di diventare noi stessi? Ovviamente non
esiste una bacchetta magica e il risultato non può essere ottenuto in un colpo so
lo. La nostra cultura ha messo a disposizione vari metodi, tutti basati sullo
sviluppo della conoscenza e del senso critico. Ma, per poterli utilizzare, c'è
bisogno innanzitutto di prendere le distanze da sé: occorre imparare a guardarsi
dall’esterno e osservare la propria mente così come si osserva un oggetto.
Tutti siamo in partenza figli di qualcun altro. Ma tutti possiamo e dobbiamo
dare alla luce noi stessi. Dice Platone: «È difficile sostenere opinioni contrarie a
quelle che sono sulla bocca della maggioranza». Ed è difficile farsi delle
opinioni personali. Però questo è anche l’unico metodo per diventare individui
autonomi.
Prima di tutto dobbiamo fare i conti con ciò che ci è stato tramandato dal
passato, osservando con distacco la nostra stessa mente, che di quel patrimonio è
l’erede diretta. E, solo in un secondo momento, quando la nostra coscienza si
sarà latta calma e limpida, potremo concepire qualcosa di nuovo.
Senza una meditazione personale non c'è possibilità di un’evoluzione
individuale, di una crescita spirituale, di una liberazione dal conformismo
generale. Non c'è bisogno di concepire grandi e originali pensieri, di diventare
un Kant o un Einstein: basta semplicemente essere se stessi. E questo obiettivo
può essere raggiunto prendendo le distanze dalle opinioni comuni. «La regola
che dobbiamo osservare più fedelmente» dichiara Seneca «è quella di non
seguire il gregge come pecore.»
29. I doni naturali
La natura ha fatto in modo che non ci volessero grandi mezzi per vivere bene;
ognuno è in grado di essere felice.
SENECA

Se l'esistenza non fosse fondamentalmente una condizione piacevole, il


mondo non si sarebbe conservato per milioni di anni. Se la vita fosse sofferenza,
nessuno sceglierebbe di esistere: non ci sarebbe nessun vantaggio.
Le piante, gli animali, tutti gli esseri viventi hanno un istinto sapiente che li
porta a ritenere - più o meno consapevolmente - che questo vantaggio esista;
intuiscono che, nonostante lotte e sofferenze, ne valga comunque la pena.
Ma negli uomini questo istinto può essere soffocato: molti sono convinti che
la felicità sia qualcosa di impossibile, che tutti siano condannati a stare più o
meno male.
«Quando ho esaminato più da vicino e dopo aver trovato la causa di tutte le
nostre disgrazie ho voluto scoprirne le ragioni,» scrive Pascal «ho scoperto che
ce n'è una ben effettiva che consiste nell'infelicità della nostra condizione debole
e mortale e così miserabile che niente ci può consolare quando la consideriamo
da presso.»
Ecco uno scampolo di quella ideologia che ci ha per secoli asfissiato con la
sua tetra concezione dell’esistenza. Come dice Nietzsche, «si è spinta questa
follia fino a far sentire la vita come un castigo: è come se l'educazione
dell’umanità fosse stata affidata fino a oggi alla folle fantasia di carcerieri e
carnefici.»
Il problema è che proprio queste idee hanno dato il loro contributo allo stato di
malessere generale. Chi infatti sposa queste convinzioni ha una concezione così
negativa della “naturale malvagità umana” che fa di tutto perché il sistema
educativo e le varie istituzioni sociali siano coercitive e repressive.
Allora l’esistenza diventa davvero una sofferenza, un dovere privo di gioia. Le
vittime si fanno complici dei distruttori dell’armonia.
Come uscire da questo stato d’animo e da queste idee? Bisogna cercare di
mettere fra parentesi i vari condizionamenti sociali e recuperare l’originaria
condizione naturale, quella che garantisce a ogni essere vivente un sentimento di
benessere.
Bisogna uscire per un po’ dalla società o, comunque, evadere da quella parte
della mente che è il prodotto della cultura sociale. Ciò è possibile se si placa per
un po’ l'attività mentale, se si crea un po’ di vuoto interiore, magari
concentrandosi su un oggetto piacevole.
Dobbiamo decondizionarci, rallentando o sospendendo i giudizi e le opinioni.
Eliminate le barriere mentali, dobbiamo recuperare quel rapporto originale
con la natura o con la parte più naturale di noi stessi che è in grado di restituirci
un sentimento generale di piacevolezza, la sensazione di essere a nostro agio, e
non di vivere per qualche perverso fine espiatorio.
«Se stai bene di pancia, di polmoni e di piedi» dichiara realisticamente Orazio
«tutte le ricchezze del mondo non potrebbero aggiungere niente alla tua felicità.»
30. La fonte della vita
Quando le cose esterne non ti disturbano interiormente, allora la tua natura
trova ciò che le è adatto.
WEN-TZU

Il piacere dell’essere è un’esperienza originale: è la condizione di partenza che


va attentamente preservata.
I suoi nemici sono numerosi e incominciano ad attaccare fin dai primi mesi di
vita.
Poi il sistema educativo e l’inquadramento sociale e culturale completano
l’opera. Un ragazzo viene considerato “maturo” quando è convinto che la vita
sia sofferenza, quando si predispone ormai a rendere pan per focaccia al suo
prossimo.
Una moltitudine di esigenze non autentiche, di obblighi, di doveri, di prove
d’iniziazione e di precetti etici e religiosi si sovrappone all’originale stato
d’animo e a poco a poco lo sommerge. Allora si eclissa quel senso magico
dell’esistenza tipico dell’infanzia, e subentra la convinzione che la realtà sia
qualcosa di grigio e di sgradevole, qualcosa più da subire che da godere.
L’esistenza rientra nei canoni della “normalità”, diventa sempre più lontana
dalla sorgente dell’essere, sempre più artificiale e asfittica. E l’individuo giunge
alla conclusione che vivere sia soffrire.
Ritornare alla fonte della vita, costi quel che costi, dev’essere il compito di chi
si trovi in questa condizione di alienazione. E ciò è possibile se si rinnova il
rapporto con la natura o con quel suo rappresentante interiore che è il nostro sé
più profondo.
Per ritrovarlo, occorre liberarlo dei vari rivestimenti sovrapposti dalla società
e dalla cultura, togliendoli uno dopo l'altro come gli strati di una cipolla.
Dobbiamo eliminare i diversi ruoli con cui ci identifichiamo, alla ricerca del
nucleo ultimo: questo è appunto ^individuo”, il non diviso.
Si tratta di un processo di spoliazione progressiva cui corrisponde
un’immersione in sé. Ritrovare questo centro interiore significa recuperare il
senso dell'essere e, con esso, la via verso la serenità. Scrive Schopenhauer:
«Ognuno sta dentro la propria coscienza come dentro la propria pelle e solo in
essa vive con immediatezza».
31. Il rispetto
Rispetto significa desiderare che l’altra persona cresca e si sviluppi per quello
che è.
ERICH FROMM

Non basta parlare d'amore, non basta dire con sant’Agostino: «Ama e fa’ quel
che vuoi!», non basta neppure seguire l’appello di Confucio, di Hilici e di Gesù
ad amare il prossimo.
Bisogna invece chiarire che esistono vari modi d’amare e che alcuni sono
distruttivi come e più dell’odio. Se all’amore non si accompagna il rispetto,
abbiamo in realtà a che lare con un moto di acquisizione che rientra nel desiderio
di affermazione, nella volontà di potenza.
Il rispetto è l’amore che non vuole soffocare, possedere, convincere,
dominare; è la gioia di vedere nell’altro un diverso-da-sé; è il sentimento di chi
osserva e ama l’altro per quello che è, di chi non intende invadergli lo spazio.
“Rispettare” è un verbo che deriva dal latino respicere (guardare), e indica
quindi un atto contemplativo.
Molti al contrario confondono l’amore con la loro volontà di influenzare e di
dominare: vedono in questo sentimento la possibilità di sottomettere l’altro, di
lame un altro se stesso, di piegarlo alle proprie convinzioni.
Quanti padri e quante madri, per esempio, amano ma non rispettano; quanti
missionari religiosi amano il prossimo per convertirlo alla loro fede!
Il caso dei genitori è tipico: molti vogliono che i figli siano la realizzazione
dei loro desideri e fanno di tutto per conformarli a un loro modello, senza
neppure porsi il problema di chi veramente essi siano e di che cosa vogliano.
Dice a questo proposito l’antico saggio cinese Chuang-Tzu: «Figli e nipoti
non vi appartengono: sono vite che vi sono state semplicemente affidate dal cielo
e dalla terra».
Per riuscire ad amare con rispetto occorre dunque uscire dal proprio piccolo
mondo egoico, spogliarsi delle proprie ambizioni, delle proprie opinioni e
cercare di “vedere” l’altro, di capirlo; occorre fermarsi a considerare la diversità
come strumento di arricchimento, non come anomalia da riportare alla propria
regola.
Anche l'amore ha bisogno di educazione e di meditazione: bisogna essere
capaci, prima, di prendere le distanze dal proprio io empirico, dai suoi desideri e
dalla sua volontà di appropriazione, e poi di osservare con questo occhio
purificato la varietà di forme, di caratteri e di destini che si manifestano negli
altri esseri viventi.
Solo così si potrà fare dell’amore non una delle tante forme di
condizionamento e di uniformazione, ma una vera forza di armonia. Afferma
Nietzsche: «Il modo più sicuro per corrompere un giovane è insegnargli a
stimare più chi la pensa come lui di chi la pensa diversamente».
32. Il criterio interno
Ciò che non rende peggiore l’uomo nella sua interiorità, non peggiora
neppure la sua vita, né gli reca danno esteriore o interiore.
MARCO AURELIO

Questo è un criterio molto utile per stabilire l’incidenza degli avvenimenti e


delle nostre stesse azioni sul nostro processo di sviluppo: abbiamo dentro di noi
un rivelatore, un metro di giudizio, che non sbaglia.
Ciò che non danneggia il nostro stato d’animo, non può nuocere neppure alla
nostra vita; invece, ciò che turba, altera o sconvolge il nostro io più profondo, ci
procura sicuramente un danno.
Dobbiamo tenere sotto controllo questo nostro rivelatore o “senso interno”,
che ci comunica immediatamente il valore di ciò che stiamo facendo. Se ci
sentiamo oppressi, angosciati o infelici, stiamo in realtà facendo qualcosa che va
contro noi stessi: stiamo accumulando qualcosa di negativo, come i nuvoloni di
un temporale. Ma anche se ci sentiamo esaltati, euforici o frenetici, stiamo
preparando qualche esperienza spiacevole, almeno come contraccolpo.
Lo stato da conservare e proteggere è quello dell’equilibrio, quello in cui la
mente è limpida e consapevole: ciò che verrà compiuto in questa condizione di
spirito ci sarà comunque utile, ci farà crescere beneficamente.
Ricordiamoci quel che scrive Seneca: «Ogni disgrazia ci costa quel prezzo che
abbiamo noi stessi fissato».
33. La durata della vita
Perché è limitata la mia conoscenza, la mia statura, la mia durata a cento
anni piuttosto che a mille? Quale ragione ha avuto la natura a darmela così e a
scegliere questa misura piuttosto che un’altra nell'infinità?
BLAISE PASCAL

Molti pensano, come Pascal, che se potessimo vivere mille anni piuttosto che
cento, avremmo la possibilità di accumulare un’enorme quantità di esperienze, di
conoscenze e (si spera) di saggezza.
In effetti, oggi un terzo della vita è dedicato all’apprendimento, un terzo
all’invecchiamento e soltanto un terzo all’esistenza piena e matura. E quando
siamo al massimo delle nostre possibilità, ecco che incominciamo a decadere.
Se vivessimo mille anni, quante occasioni potremmo sfruttare, quanti libri
potremmo leggere, quanti paesi, quante persone potremmo conoscere e,
soprattutto, quanti sbagli potremmo evitare!
Dalla brevità dell'esistenza nasce certamente l’idea di una vita ultraterrena,
della reincarnazione, di altri mondi possibili. Non ci basta questa manciata di
tempo, ci ribelliamo all’ingiustizia della natura e lottiamo con tutta la nostra
scienza per allungare gli anni disponibili, la durata dell’esistenza.
Non ci sono alcuni alberi che vivono migliaia di anni?
Come al solito, vediamo solo metà del problema: allungare la durata della vita
significa moltiplicare non solo le cose positive, bensì anche quelle negative. Già
oggi compaiono molte malattie (le malattie della vecchiaia) che un tempo erano
più rare. Ma, se allungassimo gli anni dell’esistenza, moltiplicheremmo anche
gli errori e le soflerenze.
Forse, dopo mille anni di vita, moriremmo veramente appagati; o forse no.
Forse, a quel punto, aspireremmo a vivere duemila anni, diecimila o (perché
no?) l’eternità. Non dice san Paolo che l’ultimo nemico a essere sconfitto sarà la
morte?
In realtà, tutti questi ragionamenti rivelano una fondamentale mancanza di
saggezza, l’incapacità di dare un’intensità, uno spessore, una profondità alla
nostra vita: ci illudiamo che l’allungamento della durala ci dia una qualità che,
forse, non otterremmo neppure in mille anni.
Dice Epicuro: «Un tempo limitato comprende la stessa quantità di piacere di
un tempo illimitato, se si sanno amministrare i piaceri con saggezza».
Per quanto a lungo si viva ci sembrerà sempre che ci manchi qualcosa. «La
vita umana» scrive Schopenhauer «non si può definire propriamente né breve né
lunga, perché è in fondo l’unità di misura con cui valutiamo ogni altro periodo di
tempo.»
E Plauto sembra concludere: «La saggezza non si conquista con l’età, ma con
l’intelligenza».
34. Giudicare
Per giudicare bene un uomo, bisogna controllare principalmente le sue azioni
ordinarie e osservarlo nel suo procedere ogni giorno.
MICHEL DE MONTAIGNE

Questo principio è valido per giudicare sia gli altri sia noi stessi. Se vogliamo
evitare delusioni e sofferenze dovute a giudizi sbagliati, dobbiamo arrivare a
capire chi abbiamo di fronte, quale sia il suo vero carattere.
Ciò è ancora più importante quando la persona si presenta come una guida, un
maestro, un consigliere, un educatore, un politico e cosi via. Prima di affidare a
qualcuno del potere, dobbiamo sapere se non abbiamo a che lare con un ipocrita
o con un imbroglione.
Bisogna allora prescindere da quello che dice, perché lo strumento principale
dell’arte della truffa è la parola. Nella nostra civiltà dei mass-media, sono state
messe a punto tecniche sofisticate per sedurre e convincere, per creare miti che
non corrispondono minimamente alla realtà.
Gli uomini che aspirano al potere possono imporre una loro immagine
artificiale, del tutto infondata, e spesso del tutto opposta a ciò che veramente
sono: utilizzano semplicemente i metodi con cui i pubblicitari vendono i prodotti
commerciali.
Dobbiamo dunque diffidare non solo dei bei discorsi, ma anche delle belle
immagini. «In un uomo osserva la maniera di agire,» consiglia Confucio
«esamina le sue motivazioni, guarda dove trova appagamento. Questo è un
mezzo sicuro per conoscere il suo carattere.»
Per giudicare una persona, dobbiamo osservare come si comporta nella vita di
tutti i giorni; e, beninteso, questo vale anche per noi stessi.
Spesso noi non ci conosciamo affatto, non sappiamo chi siamo, abbiamo
immagini sbagliate di noi stessi. Anche in questo caso, vale il medesimo
principio: giudicare non in base alle parole o alle dichiarazioni d’intento, ma in
base a ciò che si fa e al modo in cui ci si comporta nella realtà di tutti i giorni.
Dice un proverbio arabo: «La prima volta che un uomo ti inganna la colpa è
sua, ma la seconda la colpa è tua».
35. I nemici
Il saggio impara molte cose dai suoi nemici.
ARISTOFANE

Ci dobbiamo abituale a considerare gli aspetti positivi di ciò che in un primo


momento ci sembra del tutto negativo. Anche la presenza di nemici - di persone
cioè che ci combattono e ci contraddicono -può esserci di vantaggio.
In primo luogo ci conferma che contiamo qualcosa o che tocchiamo punti
dolenti; in secondo luogo, un nemico può esserci più utile di un amico, o peggio
di un adulatore, nel farci conoscere noi stessi.
Il giudizio espresso da un nostro critico, anche il più malevolo, illumina
comunque un aspetto della nostra personalità, qualche elemento che ci era
probabilmente restato oscuro. Come diceva La Rochefoucauld, «nel giudicarci, i
nostri nemici vanno più vicini alla realtà di noi stessi.»
Naturalmente dovremo fare una tara di questi giudizi e soprattutto dovremo
tener conto dell'intenzione con cui sono stati formulati. Spesso infatti sono
concepiti proprio per colpirci e quindi esagerano o distorcono un diletto.
La stessa operazione, però, va compiuta anche nei confronti dei giudizi
positivi, delle lodi e degli incensamenti: anche questi possono nascere da
adulatori oppure da persone che ci amano troppo o che non ci conoscono bene.
Catone diceva che «spesso dei nemici aspri e accaniti ci sono più utili di certi
amici gentili e compiacenti: quelli dicono spesso la verità, questi mai».
Bisogna infine considerare che un confronto fra opinioni contrastanti ci porta
più vicino alla realtà di quanto possa farlo un unico punto di vista.
È per questo che un proverbio cinese consiglia: «Conservati un nemico per la
vecchiaia».
36. Mezzi e fini
Compromette non poco la nostra serenità interiore non saper manovrare,
come fossero vele, le nostre inclinazioni in rapporto alle nostre possibilità, e
aspirare invece con la speranza a mele troppo grandi, salvo poi, di fronte
all’insuccesso, prendercela con la sorte e con la sfortuna, invece che con la
nostra stoltezza.
PLUTARCO

Non saper valutare le nostre capacità e proporci mete superiori alle nostre
forze, o comunque contrarie alla nostra natura, significa andare incontro a un
sicuro fallimento. Anche qui la conoscenza di noi stessi resta fondamentale.
Molti sognano grandi cose, ma, appena viene data loro una possibilità, si
rivelano inferiori o inadatti al compito: avevano creduto di essere quel che non
erano, avevano di sé un’idea sbagliata. Anziché prendersela con gli altri o con la
sfortuna, dovrebbero accettare la lezione e ridimensionare i loro progetti.
«Potersi sentire soddisfatti della propria vita è come vivere due volte» scrive
Marziale. Ma questo non è possibile se si ha di sé un’immagine falsa o se non ci
si accetta per quel che si è.
Dobbiamo diventare consapevoli di ciò che siamo, indipendentemente dalle
ambizioni e dai desideri che possono esserci stati instillati dagli altri, per
esempio dai genitori o da qualche educatore. Il nostro compito è realizzare noi
stessi, non conformarci a qualche modello precostituito. Se non siamo adatti a
fare qualcosa, saremo certamente portati a fare qualcos’altro.
Conoscere se stessi è la condizione prima per non andare incontro a delusioni,
che possono amareggiare tutta la vita. Come dice Montaigne, «la grandezza
d’animo non consiste tanto nell’andare in alto o in avanti, ma nel saper stare al
proprio posto e nel sapere i circoscrivere».
37. Il valore della parola
Parlare è un mezzo per esprimere se stessi agli altri, ascoltare è un mezzo per
accogliere gli altri in se stessi.
WEN-TZU

Ecco ben distinte e valorizzate le due fondamentali funzioni del parlare e


dell’ascoltare.
In alcune religioni, alla parola viene attribuito un valore sacro: certi miti
raccontano che «in principio era il Verbo» o che Dio diede alla luce le cose
semplicemente nominandole.
Per un filosofo come Heidegger, l’essere stesso si presenta come un
linguaggio. Ma c'è una netta differenza tra il parlare per esprimere qualche moto
dell’animo e il parlare come semplice chiacchiera: il primo contraddistingue la
vita autentica, il secondo lo spreco e l’inautenticità. Le parole dovrebbero quindi
essere pensate e misurate. Parlare troppo e in continuazione ci fa perdere di vista
il loro valore e in genere il valore della comunicazione stessa. Se la parola è
sacra, lo è per lo stesso motivo l’ascolto.
Infatti, senza l’ascolto e senza il silenzio con cui esso si esprime, non ci
sarebbe la possibilità di dire cose sensate. Tutti impariamo ascoltando.
«Ascoltare è meglio che parlare troppo» dichiarava Cleobulo.
Una parola che nasca dalla riflessione e dal silenzio ha certo più valore, più
peso, di un discorso tenuto per motivi convenzionali. E come possibile esprimere
qualcosa di autentico, qualcosa di sé, se si utilizzano espressioni di comodo?
Ecco perché in quasi tutte le tradizioni spirituali esiste l’esercizio del silenzio:
è da esso che la parola può trarre più autorità. Bisogna però tener presente che il
linguaggio non è solo quello pronunciato verbalmente, ma anche quello pensato.
Non serve a nulla restare in silenzio se dentro di noi continua un incessante
dialogo o monologo interiore.
L’esercizio dell’ascolto silenzioso, se accompagnato anche da un effettivo
rallentamento dell’attività mentale discorsiva, sarà dunque la migliore
preparazione ad “accogliere gli altri in noi stessi”. Nietzsche sosteneva che «se si
tace per un anno si impara a parlare, ma si disimpara a chiacchierare». Il che non
sarebbe una gran perdita. «Bisogna imparare a cogliere il momento giusto per
parlare» sostiene Platone «e il momento giusto per tacere.»
38. La totalità
Vi è una sola saggezza: comprendere come tutto sia governato attraverso
tutto.
ERACLITO

Ecco una meditazione che è in grado di elevare lo spirito al di sopra delle


contingenze e delle meschinità umane: è quindi di per se stessa in grado di
riportarci un po’ di serenità tutte le volte che siamo incalzati dagli avvenimenti.
Vedere intatti come tutto sia governato da tutto significa accedere a una visione
secondo cui tutti i fenomeni si rivelano interdipendenti e quindi niente si
presenta isolato e separato.
Se ci fosse un’intelligenza diceva il matematico Laplace - che conoscesse tutte
le forze da cui è animata la natura e la situazione degli esseri, potrebbe
abbracciare i movimenti dei più grandi corpi dell'universo e del più piccolo
atomo, e aver presente sia il passato sia il futuro. In altri termini, riuscirebbe a
vedere come ogni cosa influenza ed è influenzata dalle altre.
Questo significa capire come ogni cosa esista in funzione delle altre.
«Siamo le membra di un immenso organismo» dice Seneca, e, per quanto una
parte possa sembrare piccola o insignificante, essa è comunque fondamentale,
perché, se mancasse, il tutto sarebbe diverso. Quando uno di noi dà un calcio a
una sedia, in qualche parte dell’universo potrebbe far cadere una stella. Questa
constatazione ci attribuisce da un lato una grande responsabilità e dall’altro ci
assicura che non dobbiamo fare grandi cose: ognuno è importante per quello che
è, ognuno è determinante con la sua stessa presenza. Nessuno è inutile, nessuno
è ininfluente. In un certo senso siamo tutti parenti. E per questo che un
Empedocle arriva a scrivere: «Sono stato ragazzo, ragazza, albero, uccello e
muto pesce che sorge dal mare».
Dunque, anche le nostre piccole o grandi scelte influenzeranno coloro che ci
stanno intorno, i posteri e il corso della storia.
«Cooperiamo tutti a un unico scopo,» dice Marco Aurelio «alcuni in modo
consapevole e intelligente, altri senza rendersene conto.» E aggiunge: «Il mondo
è come un’unica creatura vivente, costituito di un’unica sostanza e di un’unica
anima».
Già Aristotele sosteneva che «la natura non fa niente di inutile». Ma la
meditazione ci fa capire qualcosa di più importante: che ognuno di noi è un vero
e proprio microcosmo, di cui dovrebbe essere il signore incontrastato.
«Con l’esperienza, con il sapere, con l’esercizio e con la riflessione» scrive
Schopenhauer «viene potenziata la percezione della realtà, il giudizio si fa più
acuto e la visione d’insieme diventa chiara: si acquisisce così in tutte le cose un
dominio sempre più comprensivo della totalità.»
39. La via di mezzo
Una vita retta non deve né cercare i piaceri né cercare di evitare
assolutamente i dolori, ma deve scegliere una via di mezzo, quella che ho
chiamato “serenità”.
PLATONE

«Ce una misura in ogni cosa e tutto sta nel capirlo» cantava Pindaro.
Una “via di mezzo”, ugualmente lontana dagli estremi dell’edonismo e della
mortificazione ascetica, viene enunciata anche dal Buddha, vissuto nell’altra
parte del mondo quasi nella stessa epoca di Platone, a dimostrazione che la
saggezza di ogni tempo e di ogni paese finisce per giungere alle stesse
conclusioni. Tuttavia, ciò che il Buddhismo definisce “via di mezzo” per noi
sarebbe ancora una vita di rinunce. Perché diventare monaci? Noi siamo convinti
che, per realizzarci, dobbiamo vivere pienamente la nostra esistenza e fare tutte
le esperienze che un uomo deve fare.
Che cosa rimane allora di questi antichi insegnamenti? Che cosa è utilizzabile
ancora oggi? Ovviamente l’invito all’equilibrio, all’armonia interiore, alla
moderazione; il principio secondo cui dobbiamo evitare,sistemi di vita che, pur
nella loro contrapposizione, conducono ugualmente alla sofferenza. Infatti è
infelice sia chi rinuncia alle gioie naturali dell’esistenza, chiudendosi per
l’appunto nella rinuncia e nella mortificazione, sia chi insegue ogni piacere, costi
quel che costi.
“Serenità” è la parola chiave: lo aveva capito Platone. Questo stato d’animo ci
dice chiaramente se stiamo seguendo la via giusta, la via equilibrata, che deve
pur sempre correre fra due precipizi.
«Negli affari del mondo,» afferma Confucio «il saggio evita sia
l’atteggiamento di rigido rifiuto sia quello di accettazione incondizionata: la sua
regola è la via di mezzo.»
Si tratta insomma di barcamenarsi fra i due estremi, tenendo come rotta, come
punto di riferimento, lo stato interiore: le scelte che ci conservano la serenità ci
confermano che sono giuste; le scelte invece che ci fanno sentire a disagio o in
conflitto con noi stessi ci dicono che stiamo sbagliando strada.
In tal senso la serenità contraddistingue la virtù, che - secondo Orazio - «sta
nel mezzo fra due vizi opposti, ben lontana da entrambi.»
40. Il denaro.
Noi non cambieremo la nostra virtù con le loro ricchezze: quella è stabile, il
denaro invece passa da un uomo al l’altro.
SOLONE

Il problema non è naturalmente quello di disprezzare il denaro, ma quello di


non dover rinunciare alla propria “virtù” - al proprio equilibrio - per accumularlo
o pei' conservarlo.
L’obiettivo, infatti, non dovrebbe essere tanto quello di diventare ricchi,
quanto quello di vivere serenamente. «Avere molto non è sinonimo di vivere
bene» scrive Erich Fromm in Avere o essere?. Nella società umana, invece, si
finisce per identificare il vivere bene con l’essere ricchi.
Quando si punta alla serenità, ci si accorge che il denaro è un mezzo utile, ma
non necessariamente il migliore. Il fine è un altro: è l’armonia interiore.
«Essere liberi è meglio che essere ricchi» dice Nevio. E Platone conferma che
«non sfugge all'infelicità chi diventa ricco, ma chi diventa temperante». Infatti
«chi aspira alla felicità non deve cercare il guadagno a ogni costo, bensì con
giustizia e con moderazione».
Il punto di riferimento resta dunque lo stato d’animo, che è l’unica vera cosa
in nostro potere. Da esso, non dal denaro, deriva il nostro benessere.
«La fortuna può togliere al saggio le ricchezze,» dice Seneca «ma non la forza
d’animo.» Ed è quest'ultima che fa la differenza tra la riuscita o no di una vita.
Scrive a questo proposito Schopenhauer: «È più saggio prodigarsi per
conservare la salute e per perfezionare le proprie facoltà piuttosto che per
l'acquisto di ricchezze».
Forse la parola conclusiva sull’intera questione è quella di Fedro: «Il saggio
ha sempre con sé le proprie ricchezze».
41. La responsabilità
Si appartiene al volgo finché si attribuisce la colpa sempre agli altri; si è
sulla via della saggezza quando si considera responsabile solo se stesso: ma il
vero saggio non trova colpevole né gli altri né sé.
EPITTETO

La mancanza di una riflessione personale porta a considerare responsabile del


male che ci capita sempre qualcun altro: una persona, Dio, il destino, ecc. Si
proietta sugli altri la colpa delle nostre sventure, e questo tipo di operazione ci
procura un senso di sollievo.
In tal modo, non facciamo mai i conti con la nostra coscienza, e quindi non
progrediamo: restiamo degli eterni bambini incapaci di diventare autonomi.
Come dice Giovenale, «la pena più grande è portare sul cuore, giorno e notte, il
testimone delle proprie colpe».
L’uomo che riflette capisce questo meccanismo elementare e incomincia a
considerare le proprie responsabilità. Naturalmente, per far questo, ha bisogno di
guardarsi dall’esterno, di esaminare se stesso come se osservasse un estraneo; e,
a questo punto, rischia di attribuirsi tutte le colpe che prima addossava agli altri.
Ora gli sembra di essere la causa di ogni sua disgrazia.
Ma anche questa è una posizione estrema e poco realistica. Più si dilata la
visione delle cose, più si vede la realtà come un gigantesco processo di
interrelazione, in cui ognuno influenza gli altri ed è da loro influenzato.
Ciò non significa, però, che la responsabilità individuale scompaia: se infatti è
vero che la nostra volontà è condizionata da mille fattori esterni, è anche vero
che ogni nostra decisione, ogni nostra azione, contribuirà a conferire un corso
diverso al mondo.
Il risultalo ultimo di questo percorso di consapevolezza non è dunque né il
senso di colpa masochistico né la deresponsabilizzazione totale, ma una via di
mezzo, da cui emerge la necessità di allargare la comprensione e di restare vigili,
anche nei propri confronti. Solo una coscienza continuamente in azione è in
grado di farci capire l’esatta misura delle nostre responsabilità.
«Quando mai l’uomo» si chiede Confucio «sarà capace di vedere i propri
errori e di giudicarsi da solo?»
42. La felicità
Il modo più sicuro di diventare infelici è desiderare di essere più felici.
ARTHUR SCHOPENHAUER

Qui si delinea la differenza tra felicità e serenità. La prima è un’emozione


estrema che non può mantenersi a lungo e che, per una reazione dialettica, dà
vita al suo contrario; la seconda è una via di mezzo che non ha nessun opposto
naturale: essendo il punto centrale, il centro d’equilibrio, è in realtà minacciata
dalle oscillazioni dell’emotività.
E logico pensare che la ricerca di una sempre maggiore felicità, eliminando il
centro d’equilibrio, finisca per generare il suo esatto opposto.
Dice Platone: «È evidente che dolore e piacere si generano a vicenda, secondo
natura». E il testo taoista del Wen-tzu conf erma: «Se dirigi i tuoi sforzi verso
una sempre maggiore felicità, allora sarai colpito da ciò che è spiacevole e
doloroso».
Non si tratta di semplici paure, di pessimismo, ma della constatazione che gli
opposti sono complementari.
Per sfuggire a questa dialettica dei contrari, il sistema migliore è quello di
attenersi il più possibile al centro, a quello stato d’animo equilibrato che noi
definiamo serenità. Questo sentimento ci è dato in partenza dalla natura e può
essere mantenuto indefinitamente se viene curato con attenzione, se cioè si
interviene a ripristinarlo ogni volta che le circostanze tendono a spostarlo verso
gli estremi dell’esaltazione o della depressione. Ovviamente gli avvenimenti
esterni non sono in nostro potere, ma le loro reazioni interiori dipendono dal
modo in cui gestiamo la mente. Esiste un'azione preventiva, che consiste nella
costrizione di una visione filosofica e saggia della realtà; ed esiste un’azione
terapeutica, che consiste nel l’intervenire con correttivi per riequilibrare gli stati
d’animo opposti.
«La virtù» afferma il saggio cinese Chuang-Tzu «consiste nel mantenimento
dell’armonia.»
43. La prevenzione
Come chi è in buone condizioni fisiche resiste al caldo e al freddo, così chi
mantiene l'anima in buone condizioni può resistere all’ira, al dolore, alla
commozione e a qualsiasi altra affezione.
EPITTETO

Tutti conoscono l’importanza della prevenzione nelle malattie fisiche, ma


pochi si rendono conto che la stessa linea di difesa va adottata contro i disturbi
della mente. Qui non parliamo tanto delle vere e proprie malattie psicologiche,
quanto degli stati di malessere, di pessimismo, di umor nero e dei loro contrari:
sono queste le condizioni mentali che definiscono il nostro benessere o la nostra
sofferenza di tutti i giorni.
Dice Terenzio: «La vera saggezza consiste non so lo nel vedere ciò che ci sta
davanti al naso, ma anche nel prevedere ciò che accadrà».
Per impedire il passaggio e l’invasione di stati d’animo negativi, occorre
osservare il sorgere di questi sentimenti nel momento stesso in cui nascono;
bisogna prender coscienza dei meccanismi che li innescano e di quelli che
possono scacciarli.
«Proprio come nella casa mal ricoperta penetra la pioggia,» troviamo scritto
nel testo buddhista del Dhammapada «così nella mente non controllata si genera
lo squilibrio.»
Il “controllo” in questo caso corrisponde a ciò che gli antichi definivano la
“cura dell’anima”: si tratta di un’abitudine all’osservazione interiore,
all’introspezione, accompagnata da sapienti interventi per conservare lo stato
d’armonia e di equilibrio.
Nelle malattie fisiche come in quelle mentali, se l’organismo è debilitato e
indifeso, non potrà opporre un’efficace resistenza e gli attacchi potranno avere
pericolose conseguenze.
Con un po’ di osservazione e di allenamento, tutti possiamo cogliere
l’avvicinarsi di pensieri neri e di stati di depressione e di sconforto; e lo stesso
può avvenire per l’esaltazione, per l’euforia e per tutte quelle emozioni che sono
anch’esse perturbatrici dell’equilibrio interno.
Lo sviluppo della consapevolezza può portarci a scoprire e a rimuovere le
cause esterne. E, se ciò non è possibile, è in grado di diminuirne o di annullarne
gli effetti sulla nostra mente.
Dichiara a questo proposito Seneca: «L’animo può resistere ai mali che si è
preparato a fronteggiare».
44. Le illusioni
Ci sono uomini cui le illusioni sulle cose che ritengono importanti sono
necessarie come la vita stessa.
NICOLAS DE CHAMFORT

Le illusioni possono essere come una droga: impediscono di guardare in


faccia la realtà. Quando poi le cose si rivelano diverse da come le avevamo
sognate, ecco che subentrano la delusione e l’amarezza.
«Il genere umano non può sopportare troppa realtà» dice Eliot riferendosi
proprio a questo problema.
L’educazione alla serenità è innanzitutto un’educazione alla realtà. Per una
profonda tradizione spirituale come quella dello Zen, la realizzazione dell’uomo
consiste proprio in questo: arrivare a “vedere il mondo così come”.
Cosa non facile, in verità, perché la nostra cultura fa di tutto per instillarci fin
dalla prima infanzia ogni genere di illusioni, spacciate per ideali e valori. E, così
facendo, ci manda incontro a sicure delusioni.
«Le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria» sostiene
Nietzsche; e il motivo è che queste “verità” sono semplici prodotti della mente,
senza nessuna corrispondenza con la realtà.
Noi soffriamo meno per i colpi naturali della vita che per il crollo delle nostre
illusioni. Ciò avviene perché viviamo in un mondo di sogni e di utopie, viviamo
in un mondo immaginario.
Le fantasie compensatorie nascono dalla sensazione che la realtà sia
insufficiente; però il mondo diventa doloroso perché ci culliamo nell’illusione
che le nostre opinioni rispecchino la realtà. Ci siamo dimenticati che, come
diceva Eraclito, «le opinioni umane sono giochi di fanciulli».
La fine delle illusioni, delle ideologie e delle utopie non va vista perciò come
una tragedia, come un naufragio nel pessimismo, ma come una nuova possibilità
di ritrovare l’essenza delle cose e, con essa, la nostra fondamentale serenità; è un
mezzo dunque per crescere, per diventare adulti.
Afferma Schopenhauer: «Il carattere fondamentale dell’età matura è il
disincanto».
45. Le rappresentazioni
Non c'è tempesta più folle di quella scatenata dalle rappresentazioni mentali
negative.
EPITTETO

Fra le tempeste della vita, le più insidiose sono quelle provocate dalla nostra
stessa mente; e su di esse possiamo e dobbiamo estendere il nostro controllo.
Per le grandi prove dell’esistenza siamo più preparati di quanto non si creda,
abbiamo per così dire degli anticorpi naturali. Invece, per quelle provocate dalle
nostre fantasie negative, dalle immagini morbose e dai pensieri distorti, non
disponiamo di nessuna linea di difesa: ci aspettavamo un nemico esterno, non
uno interno.
Quasi senza accorgercene, cadiamo in preda a impulsi di ira, di odio, di paura,
di frenesia, di sconforto e così via: all’esterno non è successo nulla, ma dentro di
noi siamo in piena crisi.
Basta un'ombra, un sospetto, un momento di stanchezza o un semplice
pensiero tetro, ed ecco che penetriamo in una specie di incubo a occhi aperti: ci
sentiamo oppressi, infelici, demoralizzati, siamo in balia dell'immaginazione
mentale negativa, un vero e proprio cancro della psiche.
Come fare a uscirne?
Epitteto, nelle sue Diatribe, sostiene che «il vero atleta» è colui che combatte
tali rappresentazioni. E la posta in gioco è molto importante: è la capacità di
essere padroni di noi stessi e quindi di essere liberi e sereni.
Per prima cosa bisogna diventarne coscienti, cogliere la negatività al suo
apparire. E poi bisogna impedirle di avanzare, ponendo a contrastarla una
rappresentazione mentale positiva, «bella e nobile».
La vera saggezza, afferma Epitteto, consiste nella socratica «cura dell'anima»,
in ciò che oggi potremmo chiamare meditazione. Se ci preoccupiamo con tanta
attenzione dei nostri beni, dobbiamo curare a maggior ragione la nostra anima, il
nostro sé, che ci permette di godere di ogni altra cosa.
È più che saggio impiegare un po’ di tempo della nostra giornata in questo
controllo periodico dello stato della mente, esaminando in particolare se la causa
per cui ci tormentiamo è un fatto esterno o una nostra rappresentazione negativa,
oppure entrambe le cose.
In alcuni casi, infatti, la motivazione esteriore è aggravata dall’intervento della
mente che la ingigantisce, che la fa apparire più grave di quanto non sia.
La meditazione è sempre una “cura di realtà”, un tentativo cioè di eliminare la
componente soggettiva degli stati di sofferenza e di crisi. È con tale operazione
di “igiene mentale” che riprendiamo contatto con le cose e recuperiamo la nostra
serenità.
Come dice Nietzsche, «non le cose, bensì le opinioni sulle cose che non
esistono, hanno confuso gli uomini».
46. La tranquillità
In una cosa il saggio supera Dio: questi non teme nulla per propria natura, il
saggio per propria virtù. Che grande cosa essere debole come un uomo e
tranquillo come un Dio!
SENECA

L'uomo che, pur conoscendo i propri limiti e la propria fragilità, arriva a


dominare la paura dei mali e della morte, è già simile a un Dio: nessuno potrà
impedirgli di essere ciò che è.
La calma è già il segno del divino in noi. «I saggi antichi» dice Chuang-Tzu
«nutrivano il loro spirito con la tranquillità.» E aggiunge: «La concentrazione
rende simile a un dio».
Il fatto è che, mentre gli avvenimenti esterni non sono in nostro potere, la
nostra reazione a tali avvenimenti dipende da noi, e, se noi reagiamo con calma,
diventiamo in ogni caso i padroni del microcosmo che abitiamo: nessuno potrà
turbarlo.
In un certo senso, tocchiamo l’assoluto, e lo siamo. È per questo che la
Chandogva-upanisad afferma: «La calma profonda che nasce dal corpo e che
raggiunge per sua propria natura la luce suprema è l’immortalità».
Chi riesce a esercitare il distacco e la calma ha in mano la chiave del proprio
destino. In un testo taoista, Il libro dell'equilibrio e dell’armonia, troviamo
scritto: «Lascia che l’azione provenga dalia tranquillità» perché «quando sei
quieto, fermo e pieno di attenzione, il disegno celeste è sempre chiaro, la
consapevolezza è senza veli, e tu sei autonomo nell’agire e puoi affrontare
qualsiasi cosa si presenti».
Spesso cerchiamo nelle emozioni più forti, nella lotta e nella concitazione,
un’esperienza che ci dia il senso vivo dell’esistenza. Ma dovremmo meditare
sulla seguente sentenza di Lao-tzu: «La più grande rivelazione è la quiete».
47. La ruota
Quando la ruota gira, ora sta sopra una parte ora l’altra.
PLUTARCO

Fa parte della normale dialettica dei contrari che le due parti di un ciclo si
alternino di continuo: niente rimane a lungo nel punto più alto, niente rimane a
lungo nel punto più basso. Memore di questa legge, Kierkegaard scrive:
«Quando tutto ti sembra perduto, è allora che incominci a vivere». Una volta
toccato il fondo, se non ci si disintegra, non si può che risalire a galla.
Ecco dunque una meditazione che deve essere tenuta presente da chi
attraversa una crisi, da chi ha l’impressione di non potercela più fare. Si tratta di
tener duro il tempo sufficiente a far sì che la ruota compia il suo giro.
Spesso non possiamo far nulla, non siamo noi che abbiamo in mano il bandolo
della matassa: allora dobbiamo risparmiare le energie e aspettare che la crisi
passi. Si tratta di una prova di resistenza, in cui vince chi sa mantenersi più
calmo, chi ha più pazienza. Dobbiamo solo aspettare che il “corso delle cose’’
cambi direzione.
È come trovarsi in mezzo a una tempesta: può essere terribile, può anche
distruggerci; ma, se riusciremo a tener duro, la tempesta passerà da sola. Siamo
spesso più forti di quanto crediamo.
Dice Seneca: «Chi non ha più nulla in cui sperare, non deve nemmeno
disperare di nulla».
48. La fioritura
Quando si verifica un’abbondante fioritura, seguono inevitabilmente tristezza
e decadenza.
WEN-TZU

Ecco il rovescio della situazione precedente: là avevamo il culmine della crisi


e della devastazione, e non potevamo che aspettarci un miglioramento; qua
abbiamo il massimo della fioritura. Si contempla questa meraviglia e si è pieni di
gioia, ma già si avverte il segno della flessione. Dentro di noi sappiamo
benissimo che il ciclo ha raggiunto l’acme e che ha ormai imboccato la china
discendente.
Se abbiamo realizzato una grande opera, non potremo più fame un’altra allo
stesso livello; se un’epoca storica ha raggiunto il suo vertice, non potrà che
decadere; se oggi siamo molto felici, domani non potremo esserlo altrettanto.
Come difenderci in questa fase? Come prepararci per il futuro?
Se ci si pensa bene, questa è la situazione della seconda parte della vita,
quando si incominciano ad avvertire i segni della vecchiaia.
Scrive Montaigne: «La morte si mescola e si confonde dappertutto nella
nostra vita: il declino anticipa il momento della morte e s’insinua nel corso del
nostro stesso fiorire».
Bisogna dunque per prima cosa costruirsi una visione filosofica della vita,
conoscere quali sono i suoi ritmi: la consapevolezza della realtà ci dà una
capacità di accettazione che la negazione o l’ignoranza ci negano ostinatamente,
gettandoci nella confusione e nella sofferenza.
«Niente giunge inaspettato:» afferma Euripide «bisogna aspettarsi tutto.»
49. La vecchiaia
Davanti alla vecchiaia talvolta è il corpo a capitolare per primo, ma talvolta
è l’anima.
MICHEL DE MONTAIGNE

L’anima capitola per prima quando incomincia ad aver paura delle novità, dei
cambiamenti e delle emozioni, quando si fossilizza nelle abitudini, quando si
sclerotizza nelle opinioni. La vecchiaia è invece qualcosa da sperimentare fino in
fondo, non una resa alla vita.
La crescita dello spirito non si arresta certo nella tarda età: deve anzi compiere
altri passi decisivi. L’esistenza è contrassegnata da fasi non per il capriccio di
qualche Dio, ma per una saggezza che ha profonde ragioni. Se una giornata fosse
costituita soltanto del mattino, e non anche del pomeriggio e del tramonto, non ci
sarebbe possibilità di un altro giorno; se il tempo fosse costituito soltanto del
passato e del presente, non ci sarebbe posto per il futuro.
«Arriviamo sempre impreparati alle diverse età della vita, e ci manca spesso
l’esperienza nonostante gli anni» scrive ironicamente La Rochefoucauld, e molti
la pensano così. Ma, se potessimo essere perfettamente preparati, il “fare
esperienza” - cioè la vita stessa - sarebbe inutile.
In realtà chi ragiona così soffre già di senilità, ossia di quella malattia dello
spirito che non ha età. «C’è gente che smette di vivere ancor prima di
incominciare» diceva Seneca.
L’atteggiamento positivo consiste nel pensare che tutte le esperienze
fondamentali, tutte le fasi dell'esistenza, vadano sperimentate fino in fondo e
siano utili. Se si ha la fortuna di vivere a lungo, c'è sempre la possibilità di
imparare qualcosa, di perfezionarsi.
La paura di invecchiare è la conseguenza di una concezione immatura della
vita.
«La vecchiaia è uno stato di riposo e di libertà:» sostiene Platone «spenta la
violenza delle passioni, si è finalmente liberi da una folla di forsennati tiranni.»
50. II dovere della felicità
Non c'è dovere più trascurato del dovere della felicità.
ROBERT LOUIS STEVENSON

Diceva Malebranche: «La nostra volontà non può non desiderare la felicità».
Tendiamo naturalmente a uno stato di benessere proprio come aspiriamo
all'aria e alla luce. Ed è la frustrazione di questo legittimo desiderio che rende
cattivo l'uomo.
Fino a oggi ci è stato insegnato il contrario: che l’uomo è malvagio per natura,
magari in conseguenza di qualche “peccato originale”, e che questa malignità è
la causa della sua sofferenza.
Invece, l’uomo diventa cattivo perché è infelice.
Bisogna però distinguere tra felicità e stato naturale di benessere, quello che
noi chiamiamo serenità. La prima è una vetta o un picco che non può essere
mantenuto a lungo e che dipende in gran parte dalle circostanze esterne; la
seconda invece è uno stato d’animo originale che viene oscurato non solo dalle
esperienze negative, ma anche e soprattutto dalle concrezioni sociali e culturali,
dalle ideologie distorte e da tutti quegli insegnamenti che presentano l’uomo
come un peccatore inveterato e il mondo come un luogo d'espiazione, una “valle
di lacrime”.
Se cosi fosse, non ci sarebbe nessun vantaggio a esistere.
«La cosa più importante» dice Platone «non è vivere, ma vivere bene.» A
questo scopo, il nostro primo compilo è liberare la mente delle distorsioni
religiose, filosofiche e ideologiche che ci presentano la natura umana diversa da
quella che è.
La nostra natura è esattamente quella che ci serve per sopravvivere, né buona
né cattiva. Nessuno, quando vede un leone che sbrana la gazzella, giudica cattivo
il leone: lo fa per necessità, e la necessità è una condizione di sofferenza che non
ha deciso lui.
Analogamente, i comportamenti che riteniamo “malvagi” sono il frutto di uno
stato di bisogno. È questo stato che, a rigore, dovrebbe essere giudicato cattivo, e
perciò dovremmo prendercela non con chi ne è la vittima, bensì con chi lo ha
creato, e in particolare con coloro che vedono il male in ogni piacere.
«Nessun piacere è di per sé un male;» conferma Epicuro «in realtà sono i
mezzi impiegati che portano più dolori che gioie.»
51. L’armonia
L’armonia dell’universo, come quella dì una lira o di un arco, è l’effetto di
tensioni contrastanti.
PLUTARCO

Questa è una legge che è valida non solo per i fenomeni fisici ma anche per gli
stati d’animo: ecco perché i saggi consigliano di mantenersi in equilibrio fra le
tensioni contrastanti. Chi vive per esempio in uno stato di esaltazione o di
euforia, non potrà che precipitare prima o poi nel suo esatto contrario: nella
depressione.
Nessun sentimento estremo è stabile e la sua esistenza è collegata a quella del
suo opposto.
Ce una profonda saggezza in questa legge del divenire e dell’alternanza, che
in un primo momento può apparire crudele: se pretendiamo che il tempo risani
ogni dolore, dobbiamo accettare che, per lo stesso principio, sgretoli ogni
felicità.
Scrive a questo proposito Montaigne: «La nostra vita è composta, come
l'armonia del mondo, di cose contrastanti, come di diversi toni dolci e aspri, acuti
e bassi, molli e gravi». Bisogna dunque essere preparati al fluire delle cose e
degli stati d’animo.
«Tutto accade secondo contesa» ricorda Eraclito: dobbiamo sempre tener
presente questa legge. Possiamo però mettere in azione una strategia per ridurre
il più possibile le oscillazioni interiori.
Per conservare la serenità, ovvero lo stato d’animo mediano, dobbiamo
identificare dentro di noi quel nucleo profondo, quel “centro dell’essere”, che
non è toccato né dalle gioie né dai dolori estremi: un centro di calma e di
consapevolezza che non si fa travolgere dagli sbandamenti emotivi e che tende a
ridimensionare gli eccessi, in un senso o nell’altro.
Come dice Eraclito, «gli elementi contrastanti si accordano e da ciò deriva la
più bella armonia».
52. Il potere della mente
I dolori più grandi sono quelli di cui noi stessi siamo la causa.
SOFOCLE

Questa frase afferma che noi possiamo essere, in ultima istanza, i veri artefici
della nostra peggiore infelicità. E quindi del nostro benessere.
Dice a questo proposito Menandro: «Nulla di grave ti è successo, se non lo
immagini tale». È lo stesso principio espresso dal Buddhismo e da altre filosofie
orientali.
Tutte queste tradizioni hanno messo l’accento sulla necessità del controllo
della mente. Per esempio, il Dhammapada sostiene che «una mente controllata
dà la Felicità». E precisa: «Come i falegnami lavorano il legno, così i saggi
dominano il proprio sé».
Esistono fatti dolorosi e perdite ai limiti dell’insopportabile. Ma ogni
sentimento viene filtrato e interpretato dalla mente: ecco perché è utile, è saggio,
mettersi a osservare il modo in cui essa accoglie o respinge, amplifica o
minimizza i dati oggettivi.
Lo spazio d’intervento è molto più ampio di quanto non si creda. «Il mondo in
cui ciascuno vive» dichiara Schopenhauer «dipende in primo luogo dal proprio
modo di concepirlo.»
È da questa “osservazione di sé” che l’uomo impara ad attutire i colpi
peggiori, senza farsene travolgere.
«Ciascuno è tanto infelice» scrive Leopardi «quanto esso crede.» Non c'è
niente di così tragico se non siamo noi stessi a ritenerlo tale. Dunque abbiamo
grandi possibilità di correggere e modificare.
«Tutto è opinione» afferma Marco Aurelio «e l’opinione è in tuo potere.»
53. Il rifugio
I più saggi possono costruirsi un rifugio tutto spirituale e avete un'anima forte
e salda.
MICHEL DE MONTAIGNE

Il consiglio di costruirsi un luogo dello spirito in cui ripararsi e ritemprarsi


viene dato sia dagli stoici sia dalle tradizioni orientali. Il Buddha, per esempio,
ammonisce: «Fate di voi stessi un’isola, fate di voi stessi un rifugio».
Montaigne, che segue da vicino la saggezza antica, spiega che, per trovare un
po’ di tregua agli affanni quotidiani, non dobbiamo allontanarci dalla gente,
cambiare luogo, viaggiare o rincorrere mille avventure, ma cercare di guardare in
noi, di conoscerci, di ascoltarci e di utilizzare quella forza e quella volontà che di
solito sprechiamo all’esterno.
Anche uno psicoanalista come Erich Fromm la pensa allo stesso modo, e ne
L'amore perla vita scrive: «Per resistere bisogna disporre di un nocciolo solido,
di una convinzione, poter avere fiducia in se stessi, essere in grado di pensare
criticamente, essere insomma individui autonomi - uomini e non pecore».
Ciò non significa isolarsi dal mondo e rinchiudersi in un guscio, ma coltivar e
dentro di sé un’“isola”, che ci farà da rifugio e da sostegno nei momenti più
difficili. Anche se tutto crollerà intorno, noi potremo rimanere “forti e saldi”.
Scrive Schopenhauer: «Ciò che più conta è quello che ognuno ha dentro di sé,
perché è quello che più di ogni altra cosa avrà durata».
Tale rifugio è il centro dell’anima, un “luogo” che è contrassegnato da calma e
da serenità. Non lo si può raggiungere se si è in preda ad ansia o ad agitazione,
ma solo se si fa acquietare lo spirito.
«La mente libera da passioni è una rocca:» dice Marco Aurelio «l’uomo non
ha niente di più forte dove rifugiarsi ed essere inespugnabile.»
54. La sensibilità
I beni e i mali che ci arrivano non ci toccano secondo la loro grandezza, ma
secondo la nostra sensibilità.
FRANCOIS DE LA ROCHEFOUCAULD

Ecco un altro pensiero che mette in evidenza l’importanza di coltivare la


propria interiorità. Noi pensiamo che beni e mali, eventi positivi ed eventi
negativi, siano dati di fatto, realtà oggettive. E in parte lo sono; ma il loro
riflesso dentro di noi dipende anche dalla nostra sensibilità.
Per esempio, una notizia sfavorevole o un incidente che in tempi normali
rappresentano solo un fastidio, possono scatenare, quando siamo esacerbati o
nervosi, una crisi o un crollo psicologico. Lo stesso avviene per le esperienze
positive: se abbiamo uno stato d’animo disteso, possiamo apprezzare molto di
più un avvenimento che, in altri momenti, sarebbe passato del tutto inosservato.
«L’unica vera quiete è quella prodotta dalla mente» afferma Seneca. Egli ci
rivela una grande verità: è illusorio attenderci pace e quiete dall’esterno, quando
dentro di noi ci sono irrequietezza e confusione.
Viceversa, se siamo calmi e ben disposti, avremo come una barriera di difesa
contro ogni genere di difficoltà. Per vivere serenamente, il primo requisito è
quello di allenarsi a placare il corpo e la mente. «Quando il corpo si calma,» dice
il Buddha «nasce il benessere e, quando nasce il benessere, il pensiero si
assorbe.»
Esistono tecniche naturali per acquietare l’attività psicofisica e ritrovare uno
stato di tranquillità: la più diffusa è quella di concentrarsi sul ritmo della
respirazione. Ma si può anche contemplare un punto ideale posto fra le
sopracciglia, l’immensità del cielo, il mare, un albero maestoso, una montagna,
una sorgente, una grotta o qualunque altra cosa che ci ispiri un senso di pace e di
grandezza.
Come scrive La Rochefoucauld, «quando non si trova la quiete in se stessi, è
inutile cercarla altrove».
55. La complementarità
Tutti conoscono il vantaggio del bene e lo svantaggio del male: soltanto i
saggi sanno come il male possa essere benefico e il bene malefico.
WEN-TZU

Abituali come siamo a dividere e a considerare contrapposti i principi del bene


e del male, non ci rendiamo conto della loro complementarità. Non avendo una
visione obiettiva della realtà, veniamo periodicamente turbati e sconvolti
dall’apparente incongruità delle cose.
Benché certe verità siano già presenti in noi, troppo spesso preferiamo dare
ascolto più alle idee astratte che alla nostra sensibilità. Come dice Epicuro,
«talvolta scopriamo che il bene è per noi un male e il male un bene».
Non si tratta però di un caso: si tratta di una legge fondamentale che certe
antiche culture - come quella del Taoismo - avevano ben chiara.
Paradossalmente il principio di complementarità sembra essere stato
riscoperto dalla scienza, mentre il mondo etico e filosofico continua a essere
dominato da un ingenuo dualismo: il bene contro il male, il male come principio
assolutamente negativo, l’inevitabile vittoria della positività sulla negatività…
tutte idee che ci sono state tramandate da una parte da Platone e dall’altra dalla
tradizione giudaico-cristiana.
Eppure, «quante volte» scrive Seneca «ciò che consideravamo una disgrazia è
stata causa e principio di felicità, e quante volte un avvenimento accolto con
gioia ha aperto la strada alla sventura!».
Per riuscire a cogliere questi movimenti dialettici, è necessario sviluppare una
certa sensibilità. Fortuna e sfortuna, vantaggio e svantaggio, guadagno e perdita,
progresso e regresso, si devono necessariamente mescolare e alternare, e nessuno
dei due può vincere in modo definitivo: sarebbe come pretendere che fra i due
poli di una calamita l’uno debba aver ragione sull’altro; se ciò avvenisse, la
calamita scomparirebbe.
Così è per la presunta lotta fra bene e male, che in apparenza sembrano
escludersi a vicenda, ma che nel profondo si sostengono e si giustificano a
vicenda: se l’uno trionfasse, perirebbero entrambi.
Tutto ciò serve a darci una diversa visione delle cose, a farci capire che i
princìpi contrapposti sono in realtà complementari e relativi, e a proteggerci
dalle periodiche delusioni cui approda la concezione dualistica.
Se adottassimo questo tipo di saggezza, non daremmo vita a guerre in cui
ognuno dei contendenti è convinto immancabilmente di essere dalla parte del
“giusto” e del “bene”.
«La fine del bene è un male,» fa osservare freddamente La Rochefoucauld «e
la fine del male è un bene.»
56. La salute
L’aumento della saggezza può essere misurato con precisione dalla
diminuzione della bile.
FRIEDRICH NIETZSCHE

Più modernamente potremo dire che l’acquisizione della saggezza è


dimostrata, più che dall’esibizione di qualche dote mirabolante, dalla scomparsa
dei mali psicosomatici.
Epatopatie, ulcere, coliti, disturbi digestivi, alta pressione, attacchi cardiaci e
innumerevoli altre malattie ci possono rivelare che la nostra saggezza è ancora
molto scarsa e che passiamo il nostro tempo a roderci, a consumarci, a tenderci
come corde, a competere, a invidiare, a odiare, a disprezzare, a desiderare, a
sentirci inferiori o superiori e così via.
In realtà la saggezza dovrebbe senile proprio a questo: a vivere meglio, a
essere sereni, non certo a scrivere libri di filosofia. Come già aveva capito
Menandro, «la maggior parte delle malattie nasce da un dispiacere» o dalle
tensioni dell’anima, e perciò una vera cura dovrebbe partire da una
riconsiderazione del nostro stato spirituale.
Ma come fare a uscire dal nostro mondo di immagini mentali che si
ripercuotono incessantemente sul corpo?
Addestriamoci a “mollare la presa”, a meditare, a ritrovare il nostro rapporto
con la natura, a respirare in armonia col tutto e a espandere la coscienza.
«La saggezza è per l’anima ciò che la salute è per il corpo» diceva La
Rochefoucauld. Ma in effetti dovremmo dire: la saggezza è la salute sia
dell’anima sia del corpo.
Sostiene a questo proposito Antifonte: «E la mente che dirige il corpo verso la
salute o verso la malattia, come verso tutto».
57. Il tempo
L’uomo moderno crede di perdere qualcosa - il tempo -quando non la le cose
in fretta; eppure non sa che cosa lare del tempo clic guadagna, tranne che
ammazzarlo.
ERICH FROMM

Se un individuo non è padrone di almeno due terzi del suo tempo non può
essere considerato un uomo libero.
La schiavitù si perpetua anche nelle nostre società, che hanno sostituito alla
dura coercizione di un tempo una condizione più sottile ma non meno
vincolante: quella dell’uomo che non ha più nessun rapporto con se stesso, che
non ha nessuna interiorità e che, se non ha qualcosa da fare, si sente perduto.
Scrive Schopenhauer: «Il tempo libero è il fiore o piuttosto il frutto
dell’esistenza di ognuno, in quanto esso solo lo insedia nel possesso del proprio
io».
Ma proprio questo è il punto debole, perché, quando l'individuo ha perso il
rapporto con se stesso, si ritrova, nei rari momenti liberi, con un perfetto
estraneo. Può darsi che sia proprietario di palazzi o di industrie, però non è
padrone di se stesso.
«Felici coloro che trovano in se stessi anche qualcosa di buono,» afferma
Schopenhauer «mentre nella maggioranza dei casi il tempo libero non rende che
un buono a nulla, uno che si annoia mortalmente e che è di peso a se stesso.»
Questo succede perché per tutta la vita si sono sviluppate attività e relazioni
esterne senza pensare di coltivare se stessi, di arricchire il proprio patrimonio
interiore. Un bel giorno, in seguito a qualche cambiamento esteriore (per
esempio il pensionamento), ci si ritrova privi di impegni, e tutto il vuoto o,
peggio, il tormento del cattivo rapporto con se stessi, ci ricade addosso. Allora è
la crisi, e la vita appare priva di senso.
In realtà, questo stato era stato preparalo a poco a poco nel corso degli anni,
evitando o rimandando a un futuro indeterminato l’incontro con noi stessi:
avevamo rinunciato per pigrizia o per paura ad avere un po’ di tempo veramente
libero, un po’ di tempo veramente nostro.
Non basta in effetti trovarsi soli: non è propriamente una questione di tempo.
È piuttosto necessario essere liberi mentalmente, interrompere il dialogo
continuo che, anche in solitudine, intratteniamo con gli altri.
«L’unica cosa veramente nostra che la natura ci ha dato è il tempo:» scrive
Seneca «un bene sommamente fuggevole che noi ci lasciamo togliere dal primo
venuto.» E conclude: «Non è vero che non abbiamo tempo: la verità è che ne
sprechiamo molto».
58. L’attività
Tutta l’infelicità degli uomini viene da una sola cosa: dal non saper stare in
riposo in una stanza.
BLAISE PASCAL

Il concetto espresso da Pascal è lo stesso esposto da Schopenhauer quando


scrive: «Gli uomini hanno bisogno di attività esterne, perché sono inattivi
interiormente».
Benché l’impegno attivo faccia parte della natura umana, è vero che spesso ci
si muove per una sorta di agitazione compulsiva, per l'incapacità appunto di
starsene in pace con se stessi. L’azione non è mirata a un fine, ma è motivata da
un malessere.
Scrive Erich Fromm ne L'amore per la vita: «Ci si riempie di cose per
scacciare il vuoto interiore».
Molti non sono capaci di stare un po’ di tempo da soli senza entrare in uno
stato di sofferenza. Ma questo comportamento è patologico. L'individuo che non
sta bene nei propri panni è volubile e incostante anche nei rapporti con gli altri.
Infatti, mentre cerca negli altri quello che non trova in sé, non può trovare
negli altri quello che non cerca in sé.
Bisogna dunque guarire da questo stato di nevrosi, da questa continua fuga da
se stessi; o costruiremo una società dove tutti si agitano e nessuno sa perché, la
società della perfetta alienazione.
Bisogna ricordarsi che la condizione fondamentale dell’uomo è la
“piacevolezza dell’essere”, è il benessere.
Se proviamo insofferenza a starcene un po’ da soli in una stanza, significa che
qualcosa è penetrato in noi a oscurarci tale rapporto piacevole, distorcendo lo e
trasformandolo in un tormento. Soffriamo di una malattia che ci devasta fin
nell'interiontà, che ci impedisce una vera realizzazione.
Ha ragione Pascal a sostenere che tutta l'infelicità degli uomini deriva da
questa incapacità. Si tratta di una ferita che che li spinge a lenire nell’agitazione
il dolore interno.
Afferma Schopenhauer: «È principalmente da tale vuoto interiore che
scaturisce la ricerca di trattenimenti, di distrazioni, di svaghi e di ogni sorta di
lussi che conduce molti alla dissipazione e poi alla miseria. Una miseria che
niente scongiura più sicuramente della ricchezza interiore, la ricchezza dello
spirito».
59. Confronti
Per raggiungere la serenità interiore è importante anche osservare se gli
uomini grandi abbiano sofferto per gli stessi nostri mali.
PLUTARCO

È utile stabilire questo confronto per vedere come anche gli uomini grandi e
famosi, gli individui che consideriamo baciati dalla fortuna, abbiano sofferto di
tanti mali, se non dei nostri. Ma il confronto può essere fatto con tutte le persone
che conosciamo.
Scopriremo allora che la condizione dell’essere umano non esenta nessuno da
malattie, da sofferenze e da errori. Come dice Publilio Siro, «a chiunque può
accadere ciò che capita a tutti».
Plutarco cita il caso di un tale che, tirato un sasso alla cagna, sbagliò il colpo e
colpì la matrigna. «Neanche così è male!» egli esclamò; e il caso di Diogene, il
quale, bandito dalla patria, disse le stesse parole: «Neanche così è male!» e si
dedicò alla filosofia. Erano persone che sapevano trarre il meglio da situazioni
negative.
Così, a chi si lamenti perché non ha figli, perché è povero o perché è tr adito
dalla moglie, lo scrittore greco ricorda i casi di uomini famosi che subirono le
stesse disgrazie, ma che continuarono a essere sereni.
Esser e uomini significa non poter sfuggire a una certa dose di sofferenza,
come d’altronde a una certa dose di felicità. È la dialettica stessa degli eventi e
degli stati d’animo che porta a questa alternanza.
Il problema non consiste dunque nel riuscire a evitare le cose negative, ma
nell’essere preparali a queste vicissitudini e nel riuscire ad assorbirle con
saggezza, senza farci distruggere, senza credere di essere gli unici a patirle.
«È di grande conforto» scrive Seneca «pensare che il male che soffri, tutti
l’hanno sofferto prima di te e tutti lo soffriranno dopo di te.»
60. Gli opposti
Senza vanità ed egoismo che cosa sarebbero le virtù umane?
FRIEDRICH NIETZSCHE

Ecco un’altra conferma della complementarità degli opposti. Senza il male


non esisterebbe il bene, senza la morte non esisterebbe la vita, senza la malattia
non esisterebbe la salute, senza l’odio non esisterebbe l’amore, senza il dolore
non esisterebbe la gioia e così via.
«Contraria sunt complementa» dice un antico motto latino.
Se non comprendiamo questa legge fondamentale, non capiremo perché a
ogni passo avanti corrisponda un passo indietro e ci stupiremo dolorosamente
del motivo per cui quello che per noi è “buono” e “positivo” non riesca ad avere
definitivamente la meglio.
In realtà la natura, anche quando crea uno sconvolgimento, assicura sempre un
certo equilibrio fra gli opposti. Il vero obiettivo non è mai la vittoria di una parte
sola, ma la compresenza dei due poli opposti.
Quindi il dualismo è più apparente che reale: si tratta di un unico processo che
ora si presenta sotto un aspetto e ora sotto un altro.
Acquisire una simile consapevolezza significa porsi dal punto di vista della
trascendenza, che è al di là e al di sopra della logica dualistica. «A ogni azione
corrisponde una reazione uguale e contraria»… tanto nel campo fisico quanto in
quello psicologico ed etico. Ma nessuna delle due polarità è destinata a
prevalere.
Per comprendere il senso ultimo delle cose, dobbiamo metterci al di fuori del
dualismo e della contingenza, cogliendo il processo unitario che sta alla base del
tempo e del divenire. Senza vanità ed egoismo, per esempio, le virtù umane non
avrebbero nessun senso, e viceversa.
Al di là della lotta e della contrapposizione vi è dunque un’“armonia
nascosta”, che è esattamente quella che afferriamo quando mettiamo da parte
ogni impulso di acquisizione e di avversione e osserviamo le cose con distacco.
Lo scopo della natura non è la prevalenza di un polo sul suo opposto, ma un
equilibrio fra i due. Questo è valido anche per la vita interiore.
«Sii eterno nella verità,» consiglia Krishna nella Bhagavad-gita «al di là delle
contrapposizioni terrene.»
61. Le avversità
Che cosa c'è di peggio nelle disgrazie e nelle avversità? Il cedimento,
l’indebolimento e la sconfitta dell'animo.
SENECA

In ogni momento si abbattono su di noi disgrazie e colpi di fortuna, dolori e


gioie, perdite e acquisizioni. Se si tratta di eventi esterni su cui non abbiamo
alcuna influenza, le nostre possibilità di difesa stanno tutte nel modo in cui
accogliamo dentro di noi le conseguenze di questi avvenimenti, cioè nel modo in
cui controlliamo la mente.
Dunque, la cosa peggiore che possa capitarci è il cedimento del nostro stesso
animo.
In mezzo alla tempesta il pilota deve tenere saldamente la barra del timone, in
modo che l’imbarcazione non sia travolta dalle ondate. Ma se perde il controllo
dei propri nervi, il naufragio è sicuro. In realtà egli non ha nessun potere sulle
condizioni atmosferiche ed è costretto a subirle: il suo unico potere riguarda le
condizioni del suo spirito. Se riesce a mantenerlo calmo, ha più probabilità di
salvarsi.
Dice a questo proposito Plauto: «Nelle avversità, un animo sereno riduce il
male a metà».
62. Il corpo
Ce più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza.
FRIEDRICH NIETZSCHE

Il corpo sa quando deve muoversi o riposare, quando deve mangiare o è sazio,


quando sta bene o quando soffre. Ma la mente non sempre gli dà retta: spesso
vuole imporgli esigenze che non hanno niente a che lare con la saggezza e con
l’equilibrio della natura. Ecco perché è bene fermarci ogni tanto ad ascoltare che
cosa ci dice il corpo.
Quando non sappiamo che cosa ci faccia bene e che cosa ci faccia male,
ricorriamo a questo consigliere che ha un’esperienza di milioni d’anni.
Ricordiamoci che tutte le esperienze nascono dal corpo, che non è solo il
“tempio dell’anima’’ secondo l’espressione paolina, ma anche qualcosa di più.
Si consideri per esempio l’ammirazione con cui ne parla il Buddha: «Proprio in
questo corpo, che contiene la mente e le sue percezioni, ho potuto conoscere
l’universo, la sua origine e la sua fine». Non dunque un semplice involucro o
un’appendice dello spirito, ma un vero e proprio microcosmo che riflette
l’infinito.
È necessario mettersi periodicamente ad ascoltare il corpo, che parla con varie
voci. Una di esse è il respiro. E non è un caso che una forma di meditazione
consista proprio nel seguire il ritmo della respirazione: su e giù, dentro e fuori,
espansione e contrazione… il ritmo di tutte le cose, dell’intero universo.
Non c’è esperienza più rigenerante di questa: quando la mente è oberata di
pensieri e di stress, ritroviamo con tale metodo il rapporto perduto con la natura
e con le sue esigenze.
Il corpo ci dice sempre ciò di cui abbiamo bisogno. Ma, per capirlo, occorre
far tacere per un po’ l’instancabile attività mentale (che ce ne allontana sempre)
e metterei in un atteggiamento di ascolto. Allora emergerà chiaramente quale sia
la via migliore per il nostro benessere e per la nostra serenita.
Dice il testo taoista del Wen-tzu: «Onori, potere e ricchezze sono le cose cui
anelano gli uomini, ma, paragonate al corpo, sono insignificanti».
63. L’intelligenza
La grande intelligenza comprende, la piccola intelligenza discrimina; i grandi
discorsi sono concisi, i piccoli discorsi sono prolissi.
CHUANC-TZU

Benché le fasi della discriminazione e dell'analisi siano indispensabili, è solo


quando si abbracciano tutti i dati in un unico sguardo che si giunge alla
comprensione. Fermarsi ai particolari impedisce di arrivare a una visione
complessiva. Ecco perché la “grande intelligenza” è sintetica, comprensiva ed
essenziale, mentre la “piccola intelligenza” è pignola e prolissa.
Il verbo “comprendere” ha due significati che esprimono alla perfezione
questa attività intelligente: da una parte vuol dire “contenere” e dall’altra
“capire”. Ma ha anche un terzo significato: guardare le cose con una certa
benevolenza.
Non c'è comprensione senza una certa contemplazione. Non si contempla solo
la natura, ma anche una persona, un’opera d’arte, un avvenimento o il proprio sé.
Quando per esempio contempliamo un bel paesaggio, non ci stanchiamo di
guardare, di ammirare e, nello stesso tempo, ci sentiamo pervasi da un senso di
pace e di benessere.
In quel momento scompare ogni altro pensiero e noi siamo concentrati solo su
ciò che guardiamo. Forse non abbiamo analizzato il paesaggio, ma certo lo
abbiamo compreso; anzi, ci siamo “compresi”, ci siamo assorbiti in esso.
Questo può avvenire per tutte le cose belle e piacevoli, ma anche per certe
esperienze terribili. Ci si assorbe e ci si comprende, senza averlo deciso.
In tali casi la contemplazione è spontanea. Esiste però anche la possibilità di
praticare deliberatamente la meditazione, in modo da ottenere gli stessi benefici
di allargamento della comprensione e di sviluppo della serenità.
Questa pratica ci aiuterà ad avere una visione generale delle cose, senza
perderci nei particolari. Ne guadagnerà il nostro equilibrio interiore, ma anche il
benessere della collettività.
Dichiara Confucio: «L’uomo saggio mira all’universale ed è imparziale,
mentre l’uomo da poco ignora l’universale ed è parziale».
64. Il lavoro interiore
Come la scarpa prende la forma del piede e non viceversa, così le disposizioni
d’animo foggiano la vita a loro immagine.
PLUTARCO

Questo significa, secondo Plutarco, che la vita può diventare più piacevole e
più bella se noi predisponiamo l’animo a considerarla tale, se cioè sviluppiamo
la saggezza. «Cerchiamo di purificare la sorgente della serenità che è dentro di
noi,» prosegue lo scrittore greco «in modo che anche le cose esterne, una volta
considerate familiari, amiche e trattate senza asprezza, possano accordarsi con
noi.»
D’altronde, è inutile prendersela con gli eventi, perché, come dice Euripide,
«a loro non imporla nulla di noi».
Ciò che Plutarco sottolinea è l'importanza delle “disposizioni d’animo”, della
preparazione psicologica e spirituale, del modo cioè in cui ci siamo esercitati ad
accogliere la buona o la cattiva sorte.. Non è la vita a essere più o meno bella,
ma è la nostra “filosofia”, la nostra saggezza, a renderla tale.
Stando così le cose, diventa fondamentale il lavoro interiore, che viene
comunque svolto, inconsciamente o consapevolmente.
Scrive a questo proposito un maestro di saggezza dei nostri tempi, Osho
Rajneesh: «Un uomo diventa il suo pensiero: quello che pensa lo crea. L'uomo è
l’architetto del suo stesso fato. La costante ripetizione di qualche pensiero o idea
si consoliderà alla fine in una situazione reale; quindi, ricorda, qualsiasi cosa sei
è quello che hai voluto essere».
65. La natura
La stessa cosa è vivere felici e vivere secondo natura.
SENECA

Vivere secondo natura non significa soltanto curare la salute del corpo, ma
anche cercare di vivere in armonia con le nostre esigenze profonde, con il nostro
sé più intimo, che a sua volta è il prodotto più sofisticato di una lunga
evoluzione. Non basta preoccuparsi del mangiare, del bere, del dormire e della
sessualità; occorre anche esercitare una forma di “igiene mentale”: ossia ridurre
ed eliminare tutte quelle attività mentali che ci pongono in conflitto con la nostra
natura interiore.
«La natura non fa niente di inutile» diceva Aristotele; ma la mente umana è
capace di fare molte cose superflue, quando non completamente dannose. Ad
esempio, per pura avidità è capace di distruggere l'ambiente naturale, per
questioni ideologiche e religiose è capace di scatenare guerre, per combattere
altri uomini è capace di costruire armi nucleari, e così via.
Gli esempi sono infiniti: c'è solo l’imbarazzo della scelta. Ma, al fondo di tutti
questi comportamenti aggressivi, c’è l’uscita dall’ambito naturale, c'è la perdita
dell’equilibrio interiore.
«Il sommo bene è l’armonia interiore» dice ancora Seneca, esprimendo forse
l’essenza della saggezza di tutti i tempi e di tutti i paesi.
Epicuro sostiene che «non bisogna far violenza alla natura, ma persuaderla».
Noi, invece, ci siamo messi sulla strada della violenza: abbiamo trascurato i
valori dell’equilibrio e della serenità, e abbiamo costruito un mondo sempre più
artificiale.
L’uscita dal mondo naturale, fuori e dentro di noi, va di pari passo con la
perdita dell’armonia e con l’aumento della sofferenza. L’uomo che ha perso il
contatto con la natura è un individuo dilacerato, tormentato, che cerca di lenire la
tensione interna con altri comportamenti aggressivi, i quali producono a loro
volta nuova sofferenza… e così di seguito in un circolo vizioso senza fine.
Non servono le religioni, non serve tutta la nostra scienza, non serve la
ricchezza, se non c’è un rapporto armonico con la natura esterna e con le nostre
esigenze naturali.
«La virtù più grande è essere saggio,» sostiene Eraclito «e la più grande
saggezza è dire e fare cose vere operando secondo natura.»
66. Il dualismo
Platone credette, come tutti gli antichi, al bene e al male come al bianco e al
nero, ossia a una differenza radicale fra uomini buoni e uomini cattivi, fra
qualità buone e qualità cattive.
FRIEDRICH NIETZSCHE

Ecco uno dei grandi errori della mente umana: pensare che esista una netta
contrapposizione fra bene e male, avere cioè una visione dualistica delle cose.
Tutte le religioni monoteistiche e la filosofia platonica sono convinte che
esistano due princìpi o due forze - luna tutta positiva e l’altra tutta negativa - che
si combattono su questa terra e che si escludono a vicenda; e si aspettano
ovviamente che la prima trionfi.
Ma la realtà ci dice che bene e male sono strettamente intrecciati in ogni cosa
e in ogni persona; sono due principi complementari che, mentre si combattono,
si giustificano a vicenda.
Si tratta in effetti di un “gioco delle parti”, in cui nessuno può avere la meglio,
in quanto l’interesse di entrambi è che la partita continui indefinitamente. Le due
forze che si spartiscono il mondo sono luna relativa all’altra; e il loro vero
nemico è la visione unitaria, al di là del dualismo.
Anche il nostro animo è un campo di battaglia di questi due principi, e non
sempre noi ci rendiamo conto da quale parte stiamo. Tuttavia non è una nostra
colpa, perché - come diceva san Paolo - appena crediamo di fare il bene, ecco
che ci troviamo a fianco il male, e viceversa.
Ed è inevitabile, dato che le due polarità sono tra loro in un rapporto dialettico
e, quindi, sono tra loro sotterraneamente conciate, complici, solidali.
Dio e Diavolo, santo e peccatore, paradiso e inferno, virtù e vizio, redenzione
e peccalo, bontà e cattiveria… sono queste le ingenue contrapposizioni cui crede
un’umanità di bambini che ama i forti contrasti senza mai riuscire a uscirne. La
nostra mente si sposta da un estremo all’altro, illudendoci ogni volta di trovare la
soluzione definitiva, assoluta. Ma il gioco riprende sempre uguale a se stesso.
Scrive Montaigne: «Il nostro essere non può esistere senza questo miscuglio, e
una parte è non meno necessaria dell’altra».
Che cosa farebbero i tutori della legge senza i fuorilegge? Ed esisterebbero dei
fuorilegge senza la legge?
«Quando la Grande Via decade,» dice l’inarrivabile Lao-tzu «ecco che
compaiono la bontà e la giustizia. Quando la mente si impone, ecco che nasce la
grande impostura.» E, con essa, l’interminabile lotta tra buoni e cattivi e tutti i
valori dualistici.
La via d’uscita è trascendere le polarità contrapposte e mantenersi al centro.
«Punta all’essenza,» consiglia il saggio cinese «abbraccia ciò che non è
artefatto, diminuisci l’egocentrismo, riduci i desideri.»
67. Le cadute
La grandezza dell’uomo non sta nel non cadere mai, ma nel risollevarsi dopo
ogni caduta.
CONFUCIO

Si può vedere la vita come il passaggio continuo da una trasformazione


all’altra, da una crisi all’altra, da una caduta all’altra.
Dall’infanzia all’adolescenza, dall’adolescenza alla maturità e dalla maturità
alla vecchiaia, il nostro corpo e la nostra psiche sono sottoposti a una costante
metamorfosi, non sempre piacevole. Ma anche, lo studio, il lavoro e la vita
affettiva comportano successi e insuccessi, conquiste e perdite, promozioni e
cadi» e.
Capita di rado di percorrere una via piana e scorrevole, una via senza salite e
discese: quando non c'è da lottare all’esterno, ecco che subentrano i conflitti
interiori.
Il problema non è dunque quello di non cadere mai: è piuttosto quello di
mantenersi elastici e flessibili, per riuscire a risollevarsi dopo ogni crollo. C'è
gente così rigida che, appena si trova davanti a un cambiamento imprevisto, va
in pezzi: si era fatta della vita un’idea sbagliata, si aspettava che le cose
andassero solo in un certo modo.
E ora non riesce a riprendersi dal trauma della rivelazione: tutto ciò in cui
aveva creduto era sbagliato.
«Il saggio» dice Lao-tzu «sa quando ritirarsi.» E lo fa per meditare, per trarre
un insegnamento da ciò che gli è successo.
Le cadute, le crisi, hanno questo aspetto positivo: ci fanno comprendere
meglio le cose; dobbiamo quindi sfruttarle come fonti di esperienza. Il fatto
stesso di utilizzarle in tal modo ci evita di esserne travolti. «Dobbiamo amare e
curare l’errore,» scrive Nietzsche «perché è la sorgente della conoscenza.»
68. L'arte di governare
Coltiva te stesso, e solo allora potrai governale gli altri.
WEN-TZU

Chi non è in grado di governare se stesso non può essere capace di governare
gli altri: ecco un principio che dovrebbero tenere a mente coloro che intendono
guidare gli uomini.
È anche un criterio con cui i “governati” possono giudicare dei loro capi:
nessuna azione veramente disinteressata potrà essere compiuta da chi non coltiva
se stesso, da chi non è abituato a fare i conti con la propria coscienza.
In fondo gran parte delle difficoltà dei popoli nasce dal non sapersi scegliere i
governanti giusti. Uomini aggressivi, arrivisti, partigiani, egocentrici, uomini che
non sono capaci di distacco e di obiettività, una volta giunti al potere non
sapranno fare gli interessi generali, ma solo i propri e quelli della propria
“parte”. Uomini che non hanno equilibrio e saggezza, uomini che non hanno una
propria armonia interiore, diffonderanno anche fuori di sé il conflitto e
l’ingiustizia.
Scrive a questo proposito Platone: «Ho capito che l’umanità non si sarebbe
mai potuta liberare dalle sue disgrazie, finché non fossero giunti al potere i veri
filosofi o finché i governanti non fossero diventati veri filosofi».
69. La conoscenza
Non temere di restare sconosciuto agli uomini, ma di non conoscerli.
CONFUCIO

Cercare di conoscere gli uomini è ovviamente uno dei mezzi basilari per
riuscire a orientarsi nel mondo. Ma non si può conoscere gli altri senza
conoscere se stessi.
Nello stesso tempo la conoscenza degli altri aiuta a conoscere se stessi. Dice
Chuang-Tzu: «Non c'è nessuno che non sia “altro” e nessuno che non sia “sé”».
Tuttavia, una conoscenza approfondita di se stessi e degli altri è un’operazione
lunga e complessa, e non sempre abbiamo a disposizione tanto tempo. È
necessario farsi velocemente un’idea complessiva di chi ci troviamo di fronte,
spesso senza mai averlo incontrato prima. A questo scopo è bene utilizzare il
metodo dell'ascolto meditativo.
Si tratta di sospendere il più possibile giudizi e opinioni preconcette, per
cercare di assorbire la personalità dell’interlocutore. Se infatti conserviamo una
barriera di convinzioni personali, magari desunte da suggerimenti e da idee di
altre persone, finiremo per sovrapporre un’immagine precostituita: finiremo cioè
per non uscire dalle nostre convinzioni.
Lo stesso discorso vale per la conoscenza di sé: nell’ambito meditativo, non si
tratta tanto di un’analisi della personalità, quanto di un’osservazione il più
possibile libera da preconcetti, uno “stare insieme” che sospende in un primo
momento i giudizi, un’attenzione che cerca di cogliere la nuda essenza
dell’oggetto.
In realtà, anche nella conoscenza di sé, si ha sempre a che fare con un “altro”,
e la difficoltà risiede sempre nella moltitudine di opinioni che già possediamo in
partenza.
Dichiara Chuang-Tzu: «Se non fosse per l’altro non ci sarebbe nessun sé, e se
non fosse per il sé non si apprenderebbe nulla».
E Lao-tzu conclude: «Chi conosce gli altri è saggio, ma chi conosce se stesso
è illuminato».
70. La memoria
Coloro che non conservano e non richiamano il passato mediante la memoria,
ma lo lasciano svanire a poco a poco, di l’atto si rendono giorno dopo giorno
poveri e vuoti.
PLUTARCO

«Una cosa non la può fare neppure Dio:» afferma Agatone «disfare il
passato.»
Chi cerca di dimenticare o di censurare il passato, volontariamente o
inconsciamente, ha qualcosa di sgradevole da cancellare: è come in fuga da se
stesso.
Il risultato non è mai piacevole: si crea un vuoto o uno stato di nevrosi.
L'individuo è mutilato e sofferente: deve reprimere una parte di sé.
Fatti, avvenimenti ed esperienze sono indelebilmente registrati dentro di noi, e
continuano ad agire, anche se non ce ne rendiamo conto. Ciò che siamo stati, ciò
che abbiamo pensato, ciò che abbiamo voluto o negato, goduto o sofferto, è in
realtà il fondamento di ciò che siamo oggi, e niente e nessuno potrà togliercelo,
se non eliminando la nostra stessa identità.
«Chi non ricorda il bene passato» afferma Epicuro «è già vecchio oggi.»
Il passato è dunque una ricchezza, anche quando non è piacevole; e va
attentamente ripensato e rivalutato, in modo che possa servire da
ammaestramento per il futuro.
«Duplice è la virtù della memoria:» scrive Quintiliano «capire prontamente e
fedelmente conservare.» Questo significa che il ricordo non è qualcosa di morto,
ma è la base di ogni nostra attività di comprensione.
Dobbiamo in sostanza sviluppare una grande attenzione verso la memoria ed
esaminare anche il modo in cui essa registra. Non sempre ciò che ricordiamo è
esattamente quel che è avvenuto. Ma ciò che ricordiamo condiziona
immancabilmente quel che conosciamo.
Se però ci trinceriamo nella memoria, se ci facciamo dominare solo da ciò che
è passato, ci precludiamo esperienze autenticamente nuove.
I ricordi vanno quindi riesaminati in questa duplice prospettiva: utilizzarli
come esperienze e non farsene del tutto condizionare; non vanno però mai
rimossi, perché sono la sostanza di cui siamo fatti.
Scrive Schopenhauer: «Quello che si è imparato va esercitato e il passato va
rimeditato, se non si vuole che a poco a poco l’uno e l’altro sprofondino
nell’abisso dell’oblio».
71. I giudizi
Non l’azione, ma il nostro giudizio sull’azione (magari sbagliato) forma la
nostra coscienza, la nostra storia privata.
FRIEDRICH NIETZSCHE

In effetti noi non possiamo fare a meno di valutare, di giudicare e di dare un


significato a tutto ciò che ci succede. Si tratta di un’attività in gran parte
inconscia che tende a inquadrare, a incasellare, a dare un senso alle cose. Tali
giudizi sono del tutto personali: dipendono dalle esperienze vissute e dalla scala
di valori che abbiamo adottato nel passato.
Ma, proprio per questo, è importante riportare alla memoria i ricordi, cercando
di separarli dai giudizi che li hanno accompagnati. Ci dobbiamo render conto dei
nostri sistemi di riferimento, perché sono essi che ci portano a vedere le cose in
un modo piuttosto che nell’altro.
La nostra coscienza è un ammasso di giudizi e di pregiudizi, che ci
condizionano ogni altra esperienza. Non sempre è possibile analizzarli tutti, ma è
comunque possibile prendere da loro una certa distanza, almeno per il periodo di
una seduta di meditazione.
Se si osserva l’attività mentale, si nota come certe sensazioni si accompagnino
a reazioni di approvazione o di condanna, e come altre siano invece “neutre”.
Allenandoci a identificare tale attività “giudicante”, possiamo arrivare a
separare il più possibile i fatti dalle nostre opinioni, e quindi a valutare questi
stessi fatti in maniera diversa.
Si tratta di un'opera di decondizionamento mentale che ci apre la via della
saggezza. Il saggio infatti è colui che mantiene un certo distacco anche dalle
proprie convinzioni: proprio come un giudice obiettivo, ha delle opinioni
personali, ma non se la influenzare nel momento in cui emette un verdetto.
Il giudizio finale sarà allora ben più realistico ed equilibrato della prima
reazione istintiva. E a poco a poco ci sentiremo sempre più padroni della mente
con cui guardiamo le cose e, quindi, della realtà stessa. Sostiene Schopenhauer:
«Il mondo in cui ciascuno vive dipende in primo luogo dal proprio modo di
concepirlo».
72. L’imprevisto
Vivere è un'arte che assomiglia più alla lotta che alla danza, perché bisogna
sempre tenersi pronti e saldi contro i colpi che arrivano imprevisti.
MARCO AURELIO

Dice il saggio imperatore: se anche lutti si mettessero a urlare contro di te, se


anche le belve ti sbranassero le membra, «che cosa può impedire alla tua mente
di mantenersi serena, capace di giudicare rettamente ciò che la circonda, sempre
pronta a servirsi di tutto ciò in cui s’imbatte?».
Non esistono avvenimenti veramente imprevisti, perché tutto ciò che ci può
accadere è già accaduto. In tal senso Seneca afferma: «Al saggio non può
accadere nulla di imprevisto».
Ma non è nemmeno giusto cercare di immaginare a ogni momento le possibili
disgrazie. «Chi ha paura di soffrire, sol i re già perché ha paura» osserva
Montaigne.
È bene avere una visione filosofica delle cose, tenere presente il quadro
generale, per assorbire più agevolmente i colpi della sorte e per un utile
ridimensionamento delle proprie vicende.
Marco Aurelio ci consiglia di contemplare «dall’alto lo spettacolo di schiere
infinite, di cerimonie infinite, di viaggi per mare con tempesta e calma, di tutte le
varietà di esseri che nascono, stanno insieme e se ne vanno»; le cose che
vediamo «periranno presto, e anche coloro che le hanno viste perire periranno
ben presto a loro volta».
Questa contemplazione ci dà il senso delle cose, perché «chi ignora l'esistenza
dell’universo, ignora anche dove sia egli stesso; chi ignora per quale fine esista
l’universo, ignora anche chi egli stesso sia, come pure che cosa il mondo sia».
Per l'imperatore filosofo, e per tutti noi, è rasserenante sapere che «qualunque
cosa ti capiti, è stata prestabilita per te fin dall’eternità, e un fitto intreccio di
cause ha da sempre legato la tua esistenza a quell'evento».
Schopenhauer, quasi proseguendo il medesimo ragionamento, scrive; «Tutto
ciò che accade, dalla cosa più grande alla più piccola, accade necessariamente».
«Si aggiunga inoltre» prosegue il filosofo tedesco «che per una disgrazia
considerata in anticipo noi abbiamo pensato anche agli eventuali motivi di
consolazione e ai possibili rimedi, o almeno ci siamo abituati all’idea.»
73. Le prove
Nelle disgrazie è meglio conservare il più possibile la calma, e non ribellarsi,
perché non è chiaro che cosa ci sia di bene e di male in simili avvenimenti.
PLATONE

Platone paragona nella Repubblica la vita a un gioco di dadi, in cui la prima


cosa da fare è cercare di lanciarli bene e la seconda è cercare di fare buon uso del
risultato, qualunque esso sia. Soprattutto non bisogna arrabbiarsi né indignarsi,
perché l’ira e i lamenti ci impediscono di mettere in azione ciò che è più utile: la
riflessione.
Invece di perder tempo a gridare e ad autocommiserarci, dobbiamo «abituare
l’anima a intervenire immediatamente, in modo da guarire ciò che è malato e
rimettere in piedi ciò che è caduto.» La calma e la riflessione ci permettono di
non sprecare energie e di riuscire a vedere, anche nella peggiore delle sventure,
qualcosa di positivo.
In ogni caso questo atteggiamento di autocontrollo ci permetterà di
ridimensionare l’accaduto e quindi di limitare i danni aggiuntivi della
depressione e della disperazione.
«In generale chi conserva la calma di fronte a ogni possibile disgrazia» scrive
Schopenhauer continuando idealmente il discorso di Platone «mostra di
conoscere quanto enormi e innumerevoli siano i mali che minacciano l’esistenza:
perciò egli considera quello subito una piccolissima parte di quanto potrebbe
accadere.» Qui il pessimismo del filosofo tedesco si dimostra un utile strumento
di consolazione.
Più positiva invece è la visione di Plutarco, il quale, commentando la frase
iniziale di Platone, scrive: «Di queste due azioni, il gettare i dadi non è in nostro
potere, ma l’accogliere senza recriminazioni ciò che la sorte ci assegna e dare a
ogni evento un posto in cui ciò che è propizio possa giovarci di più, e ciò che è
contrario alle nostre aspettative, se capita, danneggiarci di meno, questo sì è
affar nostro, se siamo assennati».
74. Il destino
Gli uomini, qualche volta, sono padroni del loro destino.
WILLIAM SHAKESPEARE

Ci sono momenti in cui una parola detta o non detta, un’azione compiuta o
non compiuta, una decisione presa o non presa, danno un nuovo indirizzo alla
nostra esistenza. Non sempre sappiamo perché siamo arrivati a quel punto e
perché abbiamo deciso in quel modo: tutto è avvenuto così improvvisamente e
rapidamente che non ci siamo resi conto di nulla.
Il problema è proprio questo: renderci consapevoli delle cose che ci
succedono, renderci padroni della situazione, non essere semplici fuscelli in
balia del vento.
Ciò è possibile se ci si abitua a esercitare l’attenzione, a tenere sott’occhio il
corso della nostra vita. Non dobbiamo compiere sforzi della volontà: dobbiamo
solo allenarci a essere spettatori di noi stessi, a mantenerci consapevoli e attenti,
dapprima nelle situazioni circoscritte di una seduta di meditazione e poi in tutte
le circostanze dell’esistenza.
Per prendere in mano il nostro destino, dobbiamo diventare più sensibili, più
ricettivi, dobbiamo sostituire all’automatismo delle nostre azioni e reazioni una
quieta consapevolezza.
Non si tratta dunque, come si potrebbe credere, di imporre alla nostra vita una
camicia di forza, una ferrea determinazione, ma di capire che cosa sia meglio per
noi e verso che cosa ci stiamo già dirigendo.
Non dobbiamo cercare qualcuno che ci dica che cosa dobbiamo fare:
dobbiamo semplicemente realizzare noi stessi.
Dichiara il Dhammapada: «Soltanto il sé è signore di se stesso: chi altri
potrebbe esserne il signore?».
75. I beni
Non dobbiamo trascurare i beni che sono comuni a tutti, ma tenerli in una
certa considerazione: dobbiamo essere riconoscenti per il fatto che viviamo,
godiamo buona salute, vediamo la luce del sole; non ci sono né guerre né
rivolte, ma la terra si lascia coltivare e il mare navigare senza pericoli da chi
vuole; ci è consentito di parlare e di agire, di tacere e di stare in ozio.
PLUTARCO

Ecco invece i beni che tendiamo tutti a trascurare. Perdendo di vista le cose
essenziali, ci mettiamo a inseguire la carriera, i soldi, gli amori, le avventure, il
successo, la fama e tanti altri desideri.
Eppure, dice ancora Plutarco, basta considerare quanto sia importante la salute
per chi sia malato o la pace per chi sia in guerra per renderci conto di quali siano
i veri valori.
Naturalmente non è un male sviluppare interessi e attività di ogni genere, ma
dovremmo dedicare periodicamente un po’ di tempo a ricordare quali siano i
beni essenziali.
Si può dire con sicurezza che gran parte dei mali dell’uomo derivi dal suo
perdere di vista questa scala di valori, dal considerare importanti cose che sono
in realtà secondarie.
Non dobbiamo trascurare e disprezzare questi beni solo perché sono naturali e
comuni a tutti. «Bisogna, al contrario, servirsene per trarne piacere e godimento,
in modo da poterne sopportare più dolcemente anche l’eventuale perdita.»
Questa opinione di Plutarco è confermata da Montaigne, il quale scrive: «La
natura è una dolce guida, ma non più dolce che prudente e giusta: io seguo
sempre la sua traccia; l'abbiamo confusa con tracce artificiali».
76. La malinconia
La personalità vuole diventare cosciente di sé nei suo eterno valore. Se questo
non accade, se il movimento si ferma e viene represso, subentra la malinconia.
SOREN KIERKEGAARD

Qui Kierkegaard ci dice che un bisogno spirituale è altrettanto importante


delle necessità naturali. In effetti ci siamo abituati a pensare che i bisogni
essenziali siano il mangiare, il bere, la sessualità, l’affettività e il lavoro, ma
tendiamo sempre a trascurare un’altra esigenza che, se non viene soddisfatta,
può dar origine a un sentimento di profonda tristezza.
Potremmo definire questa necessità un bisogno di conferma, un bisogno
d'essere se stessi in maniera sicura.
Per sentirsi appagati, non basta avere una buona vita affettiva e un buon
lavoro, come affermava Freud, ma occorre anche avere il senso stabile della
propria identità. Il “bisogno d'essere”, che coincide negli altri animali con
l’istinto riproduttivo, nell’uomo diventa un bisogno di riconoscimento.
Le religioni hanno utilizzato questa necessità istituendo appositi “riti di
passaggio”; per esempio il cristianesimo ha dato vita al sacramento della
Cresima, chiamato anche, non a caso, “confermazione”.
Ma la conferma di cui sentono bisogno gli uomini non è solo un rituale: è
un’esigenza reale, come quella della fame e della sete. Se questo bisogno non
viene soddisfatto, l’individuo si sente privo di fondamento e soffre di una forma
particolare di malinconia.
La malinconia è il sentimento che nasce dalla constatazione che tutto muore,
che tutto si dissolve, che tutto è destinato a disgregarsi, e che noi non siamo
capaci di trattenere nulla, di stringere veramente nulla. È il sentimento della
vecchiaia; ma è anche quello di chi non si sente a proprio agio nel mondo, di chi
non trova una propria collocazione, dei giovani che non sanno bene che cosa
fare.
Tutte queste persone si sentono spaesate e, quel che è peggio, straniere a se
stesse.
Osservando la propria persona al cospetto dell’universo, il problema è quello
di percepire il proprio valore assoluto. Al di là delle fedi religiose - che
demandano comunque la “conferma” a un altro, a ciò che si chiama Dio -,
l’uomo ha bisogno di sentire questa certezza dentro di sé, come parte di sé. Non
cerca né un significato razionale né una fede, ma un’esperienza che gli confermi
di essere qualcosa di più del corpo, qualcosa di più della mente.
Ciò è possibile se identifichiamo il centro dell’essere, il centro che è
consapevole sia del corpo sia della mente. Questa interiorità, che è ciò per cui
siamo coscienti, riesce a percepire - nel momento in cui ogni altra attività
corporea e mentale è sospesa - di avere un valore eterno: qualcosa di unico che,
con la sua sola presenza, cambia indelebilmente il volto del tutto.
Il nostro sé, quando riesce a liberarsi da ogni interferenza mentale e a
considerarsi pura consapevolezza, si sente lo spirito di tutte le cose. Da nucleo
della soggettività diventa centro dell’universalità.
«Ogni cosa è animata da un’essenza sottile;» afferma la Chandogya-upanisad
«essa è l’unica realtà, è il sé. E tu stesso lo sei.»
77. Il prossimo
Dobbiamo temere chi odia se stesso, perché saremo vittime del suo rancore e
della sua vendetta. Cerchiamo dunque di sedurlo all’amore di sé.
FRIEDRICH NIETZSCHE

Chi non ha un buon rapporto con se stesso, chi non ama se stesso (perché a
sua volta non è stato amato o è stato amato in modo sbagliato), si trova in uno
stato di sofferenza. E chi si sente infelice, finisce per rendere infelici anche gli
altri, volutamente o inconsapevolmente: la catena del rancore e della vendetta si
allunga all’infinito e ammorba il mondo.
«Il mio prossimo sono io stesso!» diceva Terenzio, enunciando il principio per
cui non si può amare gli altri se non si ama se stessi.
Quindi la prima cosa da fare per essere in grado di amare chi ci sta intorno è
ritrovare l’amore di sé. «La religione inizia dentro di te,» scrive Rajneesh
«quando diventi amico di te stesso.»
L’ascetismo antico invitava al “disprezzo di sé”. Ma si dava la zappa sui piedi:
perché chi disprezza se stesso, non ama l’uomo, e perciò non può amare neppure
gli altri. Per interrompere la catena delle sofferenze, non ci resta allora che
seguire l’invito di Nietzsche a “sedurre all’amore di sé” quelle persone, così
numerose, che hanno con gli altri l’esatto rapporto che hanno con se stessi: di
conflitto, di prevaricazione, di aggressività, di odio.
Purtroppo “sedurre all’amore di sé” è molto difficile: più difficile che sedurre
e basta.
Non è sufficiente a questo scopo amare una persona: occorre in più rispettarla,
infonderle fiducia e portarla ad amare se stessa.
Come si vede esiste un rapporto stretto fra amore ed equilibrio, fra amore e
armonia, fra amore e serenità. Solo quando si possiedono e si infondono queste
tre virtù - equilibrio, armonia e serenità - si può ricostituire un tessuto dilacerato,
dentro di noi e nel prossimo.
Rajneesh dà il seguente consiglio: «Pratica fedelmente la meditazione, in
modo che la tua vita possa colmarsi della luce della saggezza. E quando ci sarà
luce dentro di te, l’amore fluirà da te e si spargerà dappertutto».
78. L’ambivalenza
Le cose che sono benefiche possono essere anche dannose, mentre quelle che
sono dannose possono essere anche benefiche.
WEN-TZU

Questo principio ci dice che bene e male non possono essere definiti in
anticipo, in base a regole astratte, ma che è necessario vedere la compresenza
delle due polarità e decidere caso per caso quali siano gli elementi positivi e
quali quelli negativi.
Non abbiamo mai, in sostanza, un bene o un male assoluto, una
contrapposizione netta, per cui un estremo escluda del tutto l’altro; abbiamo
soltanto una prevalenza di elementi che ci fa definire qualcosa più un bene che
un male, e viceversa.
Si tratta di una specie di valutazione complessiva che inette temporaneamente
fra parentesi gli elementi opposti.
Per esempio, una malattia, che è certamente un evento dannoso, può dotarci di
anticorpi preziosi, e un cibo prelibato, che è certamente qualcosa di benefico,
può provocarci -, attraverso vari passaggi, una malattia al fegato o al cuore.
A maggior ragione questo succede per gli eventi complessi, per i latti della
nostra vita.
In alcuni casi ci rendiamo conto della compresenza delle due polarità, tanto è
vero che siamo indecisi e valutiamo con attenzione i prò e i contro; ma, in molti
altri casi, ci sfugge completamente l’aspetto contrario e siamo convinti di lare
solo del bene o so lo del male.
«Ogni male quaggiù è compensato da un bene» scriveva a questo proposito
Claude Tillier «e ogni bene che taccia mostra di sé è attenuato da un male che
non si vede.»
È una constatazione che è stata fatta da tanti altri scrittori e filosofi, e che era
ben presente al Taoismo antico; ma che è sfuggita, un po’ per comodità e un po’
per superficialità, alle nostre concezioni etico-religiose, tutte rigidamente
dualistiche.
Per quanti secoli gli uomini sono stati tormentati da queste nette
contrapposizioni tra bene e male, tra salvezza e perdizione, tra virtù e peccato,
tra progresso e regresso, tra Dio e Satana, tra paradiso e inferno, tra verità ed
errore, tra vita e morte, tra luce e tenebre, e così via: contrapposizioni che hanno
provocato dolorosi conflitti interiori e sanguinose guerre esterne.
Ancora oggi sentiamo parlare di questa ‘‘eterna lotta” tra le forze del bene e le
forze del male; mai nessuno che ci parli della loro sotterranea complicità.
Eppure questa complicità deve entrare nelle coscienze di tutti se non vogliamo
continuare a essere bambini che giocano con le loro idee, facendone strumenti di
distruzione. Ignorando come tutte le nostre crociate in nome del bene e del
progresso contengano anche elementi maligni e regressivi, continueremo a
comportarci con una distruttività di cui non ci renderemo conto.
La convinzione di aver sposato una volta per tutte la causa del bene è una
delle maggiori illusioni, una forma di presunzione.
«Così ora hai abbandonato il male?» chiede ironicamente Osho al solito
convertito, pieno di entusiasmo e di zelo. «Bene. Ma adesso rinuncia anche al
bene. La vanità rimarrà con te finché tieni stretto uno dei due.»
Sarebbe bello poter abbracciare definitivamente tutto ciò che è positivo. Ma è
la natura delle cose che ce lo impedisce: appena crediamo di essere dalla parte
giusta, ecco che incominciamo a fare del male.
Non ci resta allora che meditare attentamente, caso per caso, che cosa vi sia di
bene e che cosa vi sia di male.
Dobbiamo sviluppare un’agile capacità di valutazione, un centro di
consapevolezza e di autocontrollo, una facoltà mobile e vigile che sia in grado di
farci muovere con responsabilità e maturità.
«Non è possibile che il male scompaia del tutto,» scrive Platone (che è uno dei
campioni del pensiero dualistico) «perché è necessario che al bene sia sempre
contrapposto qualcosa.»
79. La conoscenza
Il massimo dei peccati è l’ignoranza.
DHAMMAPADA

Quando non c'è consapevolezza, si crede di aiutare qualcuno e invece lo si


danneggia irreparabilmente; si crede di favorire la nostra salute e invece si
predispone una malattia; si crede di inseguire la felicità e invece si va incontro
alla sofferenza.
Il motivo di questi errori è sempre lo stesso: l’ignoranza, la non conoscenza di
che cosa sia veramente il nostro e l’altrui bene.
La consapevolezza di cui parliamo non è tanto un insieme di nozioni che si
possano imparare a scuola, quanto qualcosa di molto simile alla saggezza: è in
primo luogo un essere attenti alla complessità dei fenomeni, alla loro
interdipendenza e alla loro ambiguità, e in secondo luogo è una flessibile
capacità di adattarsi alle circostanze.
E intuizione e sensibilità. In ogni caso presuppone una continua osservazione
e cura di sé, non per concentrarsi ossessivamente sul proprio piccolo ego, ma per
avere un punto costante di riferimento e di controllo.
Da una parte si deve sviluppare la consapevolezza delle varie attività mentali e
del loro modo di reagire agli avvenimenti e di influenzarli, e dall’altra parte si fa
perno sul centro più profondo del nostro ego, che rappresenta il “testimone” e il
giudice di tali attività: è questo l'assetto psicologico che permette di districarsi
meglio nel groviglio degli eventi e degli impulsi.
È inutile illudersi che possano esistere regole e principi validi una volta per
tutte: anche questa convinzione fa parte della mente ottusa, della sua pretesa di
sapere in partenza quale sia il comportamento più giusto.
Affidarsi alla conoscenza/saggezza significa mantenersi desti e consapevoli,
cercando di volta in volta, con un’attenta verifica interiore, la via della chiarezza
mentale e dell’equilibrio.
«L’infelicità» sostiene Rajneesh «non è che ignoranza di sé.»
80. La ricettività
Concentrarsi nei rapporti con il prossimo significa soprattutto essere capaci
di ascoltare. La maggior parte delle persone ascolta gli altri - oppure dà
consigli - senza ascoltare veramente
ERICH FROMM

L’incapacità di comprendere gli altri deriva dall’impossibilità di uscire da se


stessi, dalle proprie opinioni, dai propri interessi. Si “ascolta” l’altro, ma si
continua a svolgere una specie di monologo interiore. Si pensa a che cosa dire, si
rimuginano le proprie convinzioni, ma non si è veramente attenti a ciò che il
prossimo dice.
Cosi la parola e il pensiero, anziché comunicare, mantengono una distanza fra
sé e l'altro. Spesso le ideologie svolgono questa funzione: un esempio tipico è
quello dei missionari che si recavano presso i popoli ‘‘primitivi” con l'intenzione
di convertirli.
Un simile atteggiamento è sempre possibile nei rapporti umani: quanti sono
veramente interessati a conoscere l’interlocutore e non sono invece protesi
soltanto a imporgli qualcosa o a convincerlo? Il risultato è che non c'è un dialogo
basato sulla reciprocità.
Non avendo un’educazione all’ascolto rispettoso dell’altro, siamo scarsamente
ricettivi. La ricettività è la capacità di accogliere i messaggi esterni per
trasformarli in strumenti di conoscenza; e, per far questo, bisogna cercare di
svuotarsi temporaneamente del proprio ego e delle proprie idee.
Quando c'è troppo rumore, non si riesce ad ascoltare; quando si è troppo pieni,
non si riesce ad accogliere.
«Chi si sente portato alla contemplazione e non alla fede,» scrive Nietzsche
«trova tutti i credenti troppo rumorosi e fastidiosi: e si difende da loro.»
81. Le passioni
Le grandi anime non sono quelle die hanno meno passioni e più virtù delle
anime comuni, ma solo quelle che hanno più grandi propositi.
FRANCOIS DE LA ROCHEFOUCAULD

Non è possibile sfuggire alle passioni. «Un uomo senza passioni e senza
desideri» diceva d’Holbach «cesserebbe di essere un uomo.»
Anche il desiderio di equilibrio e di serenità è una passione; anche chi
desidera la salvezza, la liberazione o la verità è in preda a una grande passione;
anche l’asceta che crede di combattere i desideri della carne si fa dominare da un
desiderio. L’individuo senza passioni è in realtà un depresso che non trova più
un motivo per vivere.
Il problema, allora, è di saper scegliere tra piccole e grandi passioni, tra
desideri che arricchiscono la vita e desideri che la impoveriscono. La saggezza
sta tutta in questa capacità di distinguere gli obiettivi meschini dalle mete
veramente meritevoli dei nostri sforzi.
Ma non bisogna illudersi di poter stabilire in anticipo ciò per cui valga la pena
di lottare: anzi, di solito, i grandi ideali sono travestimenti di piccoli desideri.
Bisogna quindi guardarsi dagli imbonitori di utopie e di valori morali; e
bisogna piuttosto tenere sempre d’occhio il proprio stato interiore, la propria
condizione psicologica, che è il vero paradigma, in definitiva, della felicità.
Esiste un’ambivalenza di fondo tra obiettivi contrastanti, al punto che, mentre
se ne insegue uno ritenuto positivo, è facile ricadere nel suo opposto. Quanti
santi pei'esempio si sono trasformati in feroci oppressori, e quanti peccatori si
sono trasformati in santi!
La via della “realizzazione di sé” non può essere riassunta in un decalogo, non
è un insieme di dogmi; si fonda piuttosto su una mobile e duttile sensibilità, che
si evolve e si adatta incessantemente.
Contrariamente a quanto si pensa, non è la passione ciò che può distruggere
l’anima; è semmai la meschinità del desiderio.
Afferma Nietzsche: «La volontà di vincere le passioni non è in fondo che la
volontà di un'altra o di altre passioni».
82. La serenità
Chi è sereno dà serenità a se stesso e agli altri.
EPICURO

Questo pensiero vuol mettere in evidenza un processo psicologico che spesso


ci sfugge: la comunicazione inconsapevole dei nostri stati d’animo. Se per
esempio ci troviamo in un ambiente in cui tutti sono nervosi, sarà difficile per
noi mantenerci calmi; se ci troviamo in mezzo a persone che ispirano serenità,
anche noi ne saremo gradatamente pervasi.
Si delinea quindi una nostra responsabilità individuale negli stati d’animo
collettivi. Esiste in tal senso una specie di “dovere della serenità”: il dovere cioè
di diffondere intorno a noi sentimenti, se non di benevolenza (come vorrebbe il
Buddhismo) o di amore (come vorrebbe il Cristianesimo), almeno di equilibrio.
Il problema è che questi sentimenti non possono essere il frutto di una
finzione, perché noi in realtà non possiamo fare a meno di comunicare il nostro
più autentico stato d’animo. E perciò il “dovere della serenità” è innanzitutto il
dovere di una nostra personale igiene mentale, che consiste nel cercare e
mantenere l’armonia interiore.
Molti predicano la pace, ma dentro di loro sono pieni di aggressività e di
sentimenti di dominio; e, alla fine, saranno proprio questi stati d’animo che essi
comunicheranno.
Non c'è modo di dare pace al mondo se non la proviamo prima dentro noi
stessi.
«Il tuo primo dovere è di far felice te stesso» scrive Feuerbach. «Quando sarai
felice, farai felici anche gli altri.»
83. Peccati e virtù
Qualcuno si eleva con il peccato, qualcuno cade con la virtù.
WILLIAM SHAKESPEARE

Ecco un altro esempio dell’interdipendenza dei valori e delle funzioni. Il


peccato, l’errore, non è una falla dell'essere; ne è piuttosto un elemento
costitutivo.
Non si può concepire la realtà senza il male, così come vorrebbero certi
idealisti; né si può concepire una vittoria finale del bene: in entrambi i casi, il
mondo cesserebbe di esistere. in tal senso, anche il male è un bene: se non ci
fosse il peccato, non ci sarebbe la virtù; se non ci fosse la caduta, nessuno
potrebbe rialzarsi né alzarsi; tutto sarebbe piatto e immobile.
Il motore è dato proprio dalla dialettica, dal conflitto, e dunque l’errore è già
previsto dalla costituzione del divenire. «Nessuno sbaglia volontariamente»
diceva Senofonte.
Proprio per questo, non è possibile definire in anticipo e in modo rigido quali
siano, in una realtà che muta di continuo, i peccati e le virtù: può capitare che
uno stesso comportamento sia in una situazione un peccato e in un’altra una
virtù.
Non solo: può anche succedere che un comportamento virtuoso, se non viene
rapidamente adattalo, degeneri in un vizio e che, viceversa un errore, un peccato,
una caduta, facciano comprendere più cose e, quindi, stimolino un processo di
elevazione.
Ad una simile dialettica dei contrari si ispira, per esempio, quel brano del
Manzoni in cui si dice che donna Prassede era «una vecchia gentildonna molto
inclinata a far del bene: mestiere certamente il più elevato che l’uomo possa
esercitare; ma che purtroppo può anche guastare, come tutti gli altri».
L’idea di fondo è sempre la stessa: non si possono stabilire in modo assoluto
peccati e virtù, e la linea che li divide è mobile e cangiante. Certamente chi tiene
un comportamento rigido in nome di qualche virtù è già, senza accorgersene,
sulla via di cadere.
Sostiene Molière: «Ci vuole nel mondo una virtù malleabile».
84. L’apprendimento
A quindici anni decisi di apprendere, a trenta ero termo sulla via, a quaranta
non avevo più dubbi, a cinquanta compresi i decreti del cielo, a sessanta avevo
una buona capacità di discernimento, a settanta agivo in completa libertà.
CONFUCIO

L’apprendimento è un processo che dura tutta la vita. Lungo il percorso


possono esserci fasi di stasi o di accelerazione, ma è certo che il nostro senso
dell’esistenza è dato dalla somma delle esperienze e può essere completo
soltanto in tarda età.
Affermava Seneca: «È con la vita che dobbiamo imparare l’arte di vivere».
Confucio, il saggio per eccellenza, mette in evidenza il suo processo di
progressiva emancipazione, che dovrebbe essere un modello per tutti. Ma
naturalmente, in questo campo, non esiste niente di prefissato.
Non è raro, anzi, che con l’età si abbia una regressione della capacità di
apprendimento: c’è gente che è molto più acuta a vent'anni che a cinquanta.
L’idea che il trascorrere degli anni arricchisca la personalità trova una
conferma nella realtà solo a una condizione: che ci sia uno sforzo consapevole
dell’individuo. In caso contrario, Finita la spinta della giovinezza, anche lo
spirito si richiude, e la persona, più che cercare nuove esperienze, va alla ricerca
del sicuro, del noto, del ripetitivo. Ogni fase dell’esistenza sviluppa un
particolare aspetto del percorso conoscitivo; e anche qui vige la legge secondo
cui a un miglioramento di qualche facoltà corrisponde il peggioramento di altre.
Scrive Plauto: «La saggezza non si conquista con l’età, ma con l’intelligenza».
85. La sessualità
Quando si effettua la penetrazione reciproca, il cielo e la terra si
armonizzano.
I CHING

La via della serenità si basa sul principio dell’armonia. In particolare è


importante che le coppie di opposti, dentro e fuori di noi, trovino il loro punto di
equilibrio.
«Gli uomini e le donne sono opposti,» dice l'antico testo cinese I Ching «ma il
loro desiderio è di essere uniti: ogni cosa ha un’individualità e adempie il suo
compito quando si riunisce in armonia con il suo contrario.»
Yiang e yin sono le due polarità taoiste del maschile e del femminile,
dell’attivo e del passivo, del positivo e del negativo, del cielo e della terra, e,
finché rimangono separate non adempiono la loro funzione: non giungono a
essere «in armonia con l’armonia universale».
Dunque viene riconosciuto fin dall’antichità che la sessualità non svolge solo
la funzione di riproduzione, ma anche quella di armonizzazione. Essa è stata
predisposta dalla natura proprio per farci trascendere le polarità opposte, per
farci uscire dalla prigione dell’individualità. Il sesso viene così presentato come
principio di trascendenza e di armonia, come funzione fondamentale per il
mantenimento dell’equilibrio interiore. È quindi importante avere regolari e
soddisfacenti rapporti sessuali, fino a tarda età.
Non è un caso che la vecchiaia abbia inizio con la diminuzione del desiderio
sessuale.
Gli antichi taoisti cercavano di conservare l’attività sessuale il più a lungo
possibile, sapendo che essa prolunga l’esistenza, permettendo all’individuo di
non isolarsi e di comunicare. Ma questo è anche il consiglio che ci viene dalla
medicina e dalla psicologia moderne. Non può esserci serenità senza un'adeguata
gestione della vita sessuale.
«La gioia del sesso, che si manifesta in tanti modi piacevoli,» dice un antico
testo tantrico «è ciò che rende veramente benedetta la condizione umana.»
86. L’igiene mentale
Starsene silenziosi pensando poco è la medicina più economica per ogni
malattia dell'anima e, con un po’ di buona volontà, procura sempre più
benessere.
FRIEDRICH NIETZSCHE

Certe “malattie dell'anima” nascono in realtà dall’incapacità di controllare la


mente, da uno sviluppo abnorme dell’attività immaginativa, da una continua
tensione psicologica. È come se la mente prendesse il sopravvento sulla volontà
e l’individuo fosse sommerso da una massa farraginosa di pensieri, di fantasie, di
stati d’animo, di fantasmi e di allucinazioni.
Da una parte egli si muove nel mondo di tutti i giorni, ma dall’altra vive in
una dimensione tutta sua. In tal senso non è mai concentrato in quello che fa.
Vive come una persona che non si sia del tutto svegliata, che continui ad avere la
testa piena di sogni e di incubi. Non è interamente presente né agli altri né a se
stesso.
Questa sindrome è molto più comune di quanto non si pensi: è un po’ un
“vizio d’origine”, un difetto costitutivo dell’essere umano che è portato, proprio
per lo sviluppo della sua attività mentale, a vivere sempre di più in un mondo
virtuale.
Se entro certi limiti una simile sfasatura è normale, può diventare con facilità
patologica, staccando la persona dalla realtà. Allora le ansie, i pensieri, le
preoccupazioni, le esaltazioni e gli stati d'animo più vari si amplificano a
dismisura e minacciano di travolgere l'equilibrio psichico.
In tutti questi casi, occorre compiere un’operazione di vera e propria igiene
mentale, interrompendo per un po’ le attività psichiche e recuperando così il
rapporto con la sana realtà. «Starsene silenziosi pensando poco» è il primo
indispensabile rimedio: si tratta di sospendere la dannosa proliferazione di
pensieri e di sensazioni, di ottenere ciò che nelle tecniche meditative si chiama
“silenzio” o “vuoto mentale”.
L’operazione viene facilitata se ci si concentra su qualche elemento naturale.
La natura, infatti, ci invia tutta una serie di messaggi che a poco a poco ci
traggono fuori dal nostro mondo di fantasie, e ci riportano a contatto con le cose.
Tradizionalmente si utilizza la concentrazione sulla respirazione, in quanto
ritmo corporeo naturale. Con questa tecnica si può ripulire la mente e ritrovare il
rapporto con il mondo e con le persone che ci circondano.
«È piacevole stare in compagnia di se stessi il più a lungo possibile,» dichiara
Seneca «se, ovviamente, ci si è resi degni di godere di tale compagnia.»
87. L’amore
E grande e giusto chi, amando se stesso, ama in ugual misura il prossimo.
MEISTER ECKHART

«E opinione comune» scrive Erich Fromm ne L’arte d’amare «che sia


virtuoso amare gli altri e peccato amare se stessi.» Ma chi non ama se stesso,
cioè chi non ha un buon rapporto con se stesso, non può averlo neppure con il
prossimo.
Quando Gesù dice: «Ama il prossimo tuo come te stesso», presuppone che
nell’individuo sia già presente e sano un tale “amore perse”. Tuttavia, quando
questo rapporto interiore è deteriorato, l’uomo non sarà in grado di amare
equilibratamente né sé né l’altro.
Tale squilibrio può essere provocato da un eccesso di “amore per sé”
(«ognuno ama se stesso più del prossimo» dice Euripide) o da un difetto. Nel
primo caso abbiamo a che fare con il narcisismo, con l’ipertrofia dell’ego, per
cui l'individuo non vede che se stesso e i propri interessi. Nel secondo caso la
persona non ha nessuna fiducia in se stessa, soffre di un complesso di inferiorità
e si sentirà a suo agio solo quando potrà sacrificarsi per qualcuno o per qualcosa.
L'amore per sé e l’amore per gli altri non si escludono affatto a vicenda: al
contrario, l’uno dipende dall’altro, l'uno riequilibra l’altro. Per esempio, l’egoista
non solo non sa amare gli altri, ma non sa neppure amare se stesso: si ama cioè
in modo spropositato. Lo stesso accade all’altruista che si vanta di non essere
importante, che vuole annullare se stesso: egli è in effetti infelice sia nei rapporti
con gli altri sia nei rapporti con se stesso: qualche esperienza precoce gli ha
insegnato che non deve amarsi.
«Ma come può amare gli altri chi odia se stesso?» si domanda Erasmo da
Rotterdam.
Per poter amare in modo equilibrato è dunque necessario possedere o
ripristinare un buon rapporto con se stessi, sviluppando innanzitutto la
consapevolezza del proprio modo d’amare. Bisogna guardarsi da chi pretende di
amare senza la minima coscienza di sé, senza sottoporsi mai al gioco
riequilibrante dell’introspezione.
Scrive Nietzsche: «Bisogna imparare ad amare se stessi di un amore sano e
salutare: per rimanere con se stessi e non andare vagando intorno».
88. La consapevolezza
Molti uomini non si rendono conto di ciò che fanno da svegli, cosi come non
sono coscienti di ciò che fanno dormendo.
ERACLITO

L’uomo si distingue dagli altri animali proprio per il suo maggior grado di
consapevolezza, che è non solo la coscienza delle cose che lo circondano ma
anche la coscienza di se stesso in rapporto a quelle cose.
Chi è dominato solo dagli istinti e dalle pulsioni della propria mente è come se
vivesse in un sogno ad occhi aperti: si muove senza rendersi conto del come e
del perché, agisce come un automa.
Però non tutti gli esseri umani hanno la stessa consapevolezza. Che è
oltretutto variabile da un momento all’altro.
Quante volte ci diciamo: «Non so perché ho fatto quella cosa», quante volte ci
accorgiamo di agire come sonnambuli!
Per quanto si possa essere consapevoli, c'è sempre qualcosa che ci sfugge, c’è
sempre qualcosa di cui non siamo coscienti.
Per essere davvero intelligenti, dovremmo conoscere non solo tutte le nostre
motivazioni, ma anche quelle di tutti gli altri. E chiaramente noi non ci troviamo
a questo livello: il nostro livello è appena al di sopra di quello degli animali, è
appena al di sopra di quello del sonno e del sogno.
Afferma il libro biblico del Siracide: «Se parli con uno stolto, parli con uno
che dorme».
Le Upanisad indiane distinguono quattro livelli di consapevolezza: quello del
sonno con sogni, quello del sonno senza sogni, quello della veglia e il cosiddetto
“quarto stato”, dove dovremmo essere perfettamente “svegli”.
Esiste comunque la possibilità di essere più presenti in ciò che facciamo.
Il punto di partenza è ovviamente quello di renderci conto del nostro stato di
sonnambulismo: questo è il primo passo per schiarire la mente.
Il secondo passo consiste nell’isolare di volta in volta l’azione più importante
che stiamo compiendo e nel concentrarci esclusivamente su di essa. Il terzo
passo consiste infine nel liberare la mente da tutte quelle fantasie e quegli stati
d’animo che rappresentano deviazioni rispetto al centro di attenzione.
Ci accorgeremo allora che la mente si farà più trasparente, ci sentiremo
perfettamente equilibrati fra il “dentro” e il “fuori”, e usciremo
dall’annebbiamento in cui viviamo di solito.
Capiremo così perché l'Oriente parli di “risveglio” per simili condizioni di
chiarificazione o di “illuminazione”. Non si tratta di stati mistici, ma di
esperienze che sono alla portata di tutti.
Dichiara Chuang-Tzu: «Un giorno ci sveglieremo e scopriremo che tutto non
è stato che un sogno».
89. Il presente
Ricordati che l’uomo non vive altro tempo che quell’istante che è il presente.
MARCO AURELIO

L’imperatore filosofo vuole ricordarci di utilizzare nel migliore dei modi


l’attimo presente e ci invita a non perder tempo in recriminazioni sul passato o in
preoccupazioni sul futuro; l’uomo «o ha già vissuto il resto del tempo o non sa
nemmeno se lo vivrà.»
La frase può anche essere considerata un consiglio a vivere ogni situazione
con presenza mentale, con grande immediatezza, senza disperderci in inutili
fantasie e immaginazioni.
Scrive su questo tema Schopenhauer: «Quando intraprendiamo una cosa,
dobbiamo prescindere da tutte le altre e sbrigarla, sì da curare, godere e
sopportare ogni cosa a suo tempo, senza preoccuparci del resto: dobbiamo
dunque, per così dire, avere per i nostri pensieri dei cassetti, e aprirne uno
mentre tutti gli altri restano chiusi. Con ciò otterremo che una grave
preoccupazione non ci farà intristire ogni piccola gioia del presente, togliendoci
completamente la tranquillità; che un ordine di pensieri non ne scacci un altro;
che l’apprensione per una faccenda importante non ce ne faccia trascurare tante
minori, e così via».
Vivere il momento presente, vivere un'esperienza alla volta, non farsi
sopraffare dalle ansie per il futuro, è il consiglio che danno i saggi di tutti i tempi
e di tutti i paesi.
Dice per esempio Gesù: «Non affannatevi per il domani, perché il domani
avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basti la sua pena». E Seneca: «Le
bestie fuggono i pericoli che vedono, ma, una volta che li hanno evitati, sono
tranquille. Noi, invece, ci preoccupiamo sia per il futuro che per il passato».
Ma, per poter vivere con una simile immediatezza, occorre una certa
disciplina mentale: ce ne accorgiamo quando siamo presi da troppi impegni, da
troppi pensieri, da troppe immagini. Sentiamo allora il bisogno di staccare la
spina e di immergerci in qualcosa di vivificante e di piacevole.
Di solito ricorriamo a qualche distrazione, che ha il potere di farci dimenticare
per un po’ ciò che ci preoccupa. Poi, però, alla prima occasione, tutto ritorna
come prima; oppure la distrazione può mancare o non essere sufficiente.
È meglio dunque disporre di un metodo che ci consenta di affrontare un solo
problema alla volta. Quando ci accorgiamo che la mente incomincia a essere
sopraffatta dalle ansie, dobbiamo operare uno sforzo di concentrazione su un
unico punto e lasciar perdere tutti gli altri; dobbiamo dare requie al pensiero.
Se non ci riusciamo, possiamo aiutarci con certe tecniche yoga: per esempio,
fissando l'attenzione sull’aria che entra ed esce dalle narici, oppure facendo
convergere gli occhi in un punto mediano, posto idealmente tra le sopracciglia.
Questi sistemi hanno il vantaggio di non ricorrere a distrazioni, ma di farci
concentrare su qualcosa di attuale e di vivo: usciamo così dagli appestanti fumi
della mente e ritorniamo alla realtà concreta, che è sempre meno spaventosa di
quanto possa apparire all’immaginazione.
E bene ricordarci di una frase di Marziale: «Non è da saggio dire “vivrò”.
Vivere domani è già troppo tardi: vivi oggi».
90. Il godimento
Chi gode è nel momento e, per quanto molteplice sia questo godimento, egli è
sempre immediato, perché è nel momento.
SOREN KIERKEGAARD

Benché Kierkegaard dia a questa frase un significato negativo (condannando


chi «scorge nel godimento il senso e lo scopo della vita»), noi dobbiamo dire
che, per la pienezza dell’esistenza, il piacere è essenziale, almeno tanto quanto la
sofferenza. Fra questi due estremi si edifica la personalità.
Ma con una differenza: che è più facile reprimere il godimento che il dolore.
Se è sbagliato porre a fondamento della vita il solo godimento, è altrettanto
erralo pensare che, senza di esso - e, specifichiamo, senza una massiccia dose di
piacere -, possano crescere individui sani. La cultura repressiva per fortuna ha
fatto il suo tempo, ma, a ogni crisi sociale, ecco che si rifanno vive le ideologie e
le religioni che vedono nella coercizione ogni soluzione ai problemi dell’uomo.
Un altro errore è sottolineare la differenza tra piaceri “materiali” e piaceri
“spirituali”: in effetti in un rapporto sessuale, goduto fino in fondo, può esserci
più spiritualità che in cento messe cantate. m
Forse si pensa di più alla religione e a Dio quando si è infelici, ma si è
certamente più vicini al senso della vita quando si gode. Il piacere, come il
dolore, struttura il sé, lo solidifica e lo spiritualizza. Semmai l’unica distinzione
possibile è fra un piacere (e un dolore) che dilata i confini dell’io e lo
arricchisce, e un piacere (e un dolore) che li restringe.
Ma non si può stabilire a priori un elenco dei piaceri che abbrutiscono.
Lasciamo che ognuno faccia le proprie esperienze e decida da solo. Il compito
della cultura è di informare, non di vietare.
Il grande insegnamento del godimento è l’immediatezza, è la capacità di far
vivere nell’attimo presente, unificando pensiero, volontà ed esperienza.
Ed è il migliore antidoto alla tendenza pericolosa della mente a costruire
mondi immaginari. In tal senso è il metodo più efficace di “igiene mentale”
messoci a disposizione dalla natura.
Scrive D’Annunzio: «Il piacere è il più certo mezzo di conoscimento… Colui
il quale molto ha sofferto è men sapiente di colui il quale molto ha gioito.»
91. La libertà
L’uomo è nato libero, e dappertutto è in catene.
JEAN-JACQUES ROUSSEAU

Le catene non sono solo quelle dell’indigenza e dei regimi totalitari, ma anche
quelle che ci fabbrichiamo con le nostre stesse mani. Non basta essere privi di
vincoli. Come dice Persio, «bisogna saper essere liberi».
Dalla società ci vengono tanti condizionamenti, non sempre sotto forma di
divieti o di costrizioni, ma anche sotto forma di messaggi suadenti di chi sembra
volere soltanto il nostro bene. I genitori, gli insegnanti, i politici, i religiosi, i
pubblicitari e via dicendo fanno a gara per offrirci belle fatta la nostra felicità:
basta adeguarsi alle loro regole.
Nessuno ci fa una violenza esplicita.
Però siamo noi che dobbiamo vivere in prima persona, siamo noi che
dobbiamo pensare con la nostra testa. Ed è proprio questo che ci viene impedito,
talora con le migliori intenzioni, talaltra con una volontà di dominio.
Maturare, crescere, diventare uomini, significa prendere in mano le redini
della propria vita e cercare di essere se stessi. Ma, per riuscire a farlo, dobbiamo
prima esaminare criticamente il complesso di valori e di conoscenze che ci è
stato dato. In questo percorso di liberazione, le difficoltà e gli ostacoli sono
innumerevoli: oltre a quelli scontati di chi non la pensa come noi o di chi vuole
influenzarci, ci sono quelli che ormai abbiamo introiettato.
Nel processo di emancipazione, gli avversari più pericolosi sono i nostri stessi
condizionamenti, sono le idee e le convinzioni che abbiamo adottato senza
rendercene conto. Occorre quindi una buona dose di autocritica: la capacità di
prendere le distanze da noi stessi.
Sostiene Epitteto: «Nessuno è libero se non è padrone di se stesso».
92. Le ambizioni
Chi è privo di un'educazione spirituale pretende sempre di vincere, a ogni
costo.
PLATONE

“Educazione spirituale” significa essenzialmente autocoscienza e


autocontrollo.
Chi non riflette e non medita neanche un po’, chi non è capace di autocritica,
chi aderisce completamente ai propri sentimenti di amore e di odio, chi
obbedisce al primo impulso che gli passa per la mente, non è in grado di
dominare quella carica di aggressività che tutti abbiamo in partenza.
L’aggressività non è in sé qualcosa di negativo: è un istinto che condividiamo
con gli altri animali e che ci è utile per sopravvivere. Se non avessimo questa
carica, non avremmo nemmeno la forza di esplorare, di difenderci, di conoscere,
di amare, di reagire, ecc.
Ma il problema dell’uomo è che questa forza, non più regolata dalla natura,
può essere rivolta contro tutto e tutti, compreso se stesso. Può quindi diventare
distruttiva. Al di là della violenza vera e propria, l’aggressività si esprime in
mille modi diversi: è l’ambizione di vincere, di diventare sempre più potente e
ricco, di essere il primo, in qualunque settore.
Ecco un altro esempio dell’ambivalenza fondamentale degli istinti, del fatto
che per essi il bene e il male sono divisi solo da un capello. Basta poco perché
questa spinta positiva dia origine a lotte e a conflitti.
L’impulso aggressivo e competitivo è talmente radicato in noi da esprimersi
anche nel campo della cultura e della religione. Per esempio, i discepoli di Gesù
si misero un giorno a discutere su chi tra loro fosse “il più grande”, dimostrando
di non aver dimenticato le loro ambizioni. Il maestro rispose: «Chi vuol essere il
primo, si faccia ultimo e il servo di tutti».
Dobbiamo però notare che la risposta di Gesù non è priva di ambizioni: infatti,
anche chi vuol essere ultimo aspira a un primato. L’ambizione e la volontà di
predominio, pur essendo state finora il motore stesso della storia, possono anche
segnarne la fine: sono queste forze che ci hanno portato a costruire armi di una
distruttività senza precedenti e a devastare scriteriatamente gli ambienti naturali.
E, in ogni caso, sono le cause di gran parte delle sofferenze umane.
Occorre dunque un cambiamento di cultura, che ponga in primo piano non la
meta o la conquista, ma la qualità degli stati d’animo. Va infatti detto con
chiarezza che nessun uomo potrà mai trovare la vera serenità se sarà dominato
dall’ambizione di avere sempre di più e di essere sempre il primo. Ma soprattutto
non ci potrà essere pace sulla tetra finché i suoi abitanti non adotteranno ideali di
equilibrio e di armonia.
Diceva Seneca: «È instabile non solo l’ambizione ma anche ogni forma di
cupidigia, perché per essa non esiste nessun punto di arrivo».
93. La salute dell’anima
Ciò che solleva l'anima, giova anche al corpo.
SENECA

Quanto più restringiamo i nostri interessi alle piccole beghe della vita, alle
chiacchiere, agli spettacoli insulsi, alle letture d’evasione e alle pure necessità
della sopravvivenza, tanto più si impoverisce il nostro spirito; e quanto più si
impoverisce il nostro spirito, tanto più ci troviamo privi di difese in caso di crisi.
Dovremmo tutti abituarci ad allargare i nostri orizzonti, a rialzare
periodicamente il capo dalla mangiatoia, non solo leggendo e meditando le opere
dei grandi saggi, ma anche contemplando la maestà della natura e del cosmo,
oppure semplicemente decondizionando la mente. E in tal modo che, secondo
un’espressione del Taoismo, si giunge a “nutrire lo spirito”.
Decondizionare la mente significa svuotarla per un po’ dalle dottrine, dalle
interpretazioni, dalle opinioni e dalle idee ricevute. Per comprendere il Tao, la
Via, dobbiamo far tacere il chiacchiericcio dei pensieri e sollevare l’anima al di
sopra delle questioni meschine.
«Non si può parlare del mare a una rana chiusa nel suo pozzo» dice Chuang-
Tzu.
Il nostro spirito si alimenta esattamente come il nostro corpo, ed è giusto
trovare per entrambi il cibo migliore. Mentre però compiamo tanti sforzi per
cercare cibi prelibati, ben poco facciamo per alimentare l’anima, che è proprio
l’essenza di ciò che siamo.
Fin dall’antichità si è riconosciuta l’interrelazione fra psiche e soma. Scriveva
per esempio Seneca: «Se vuoi star bene, cura innanzitutto la salute dell’animo, e
poi quella del corpo, che non ti costerà molto».
Benché il dualismo di certo pensiero occidentale abbia finito per inventarsi
una netta separazione fra spirito e materia, ai saggi non è mai sfuggito che tutto
ciò che solleva l’anima giova anche al corpo.
Forse la posizione più equilibrata è quella espressa da Montaigne, il quale
scrive: «Che lo spirito risvegli e vivifichi la pesantezza del corpo, e il corpo freni
la leggerezza dello spirito e la renda stabile».
94. La gioia
Il segno più caratteristico della saggezza è una gioia costante.
MICHEL DE MONTAIGNE

Questo pensiero ci dice che acquisire la saggezza non è accumulare un


insieme di nozioni, e neppure sposare una filosofia o una religione, ma utilizzare
una “tecnologia della coscienza” mirata a ottenere e a conservare uno stato
d’animo contrassegnato dalla serenità.
Scrive a questo proposito Schopenhauer: «Tra tutti i beni, quello che ci rende
più immediatamente felici è la serenità dell’animo, perché questa buona qualità
gratifica simultaneamente se stessa».
La serenità è all’inizio una condizione comune a tutti, perché è limpida
armonia, è assenza di turbamento. Ma l’educazione e i condizionamenti sociali
la oscurano precocemente. «Sarai feliice,» ci dice la società «non perché godrai
del piacere di esistere, ma solo se sarai abbastanza ambizioso da farti una buona
posizione sociale.» In tal modo lo stato di tranquillità non viene più percepito
come qualcosa di dato, come qualcosa di naturale, ma come una meta da
raggiungere con grandi sforzi.
Il percorso della saggezza consiste allora, prima di tutto, in un processo di
spoliazione o di decondizionamento, che riporti all’essenza della nostra
condizione esistenziale: e, poi, in un’attività di mantenimento, basata su una
difesa della naturale piacevolezza dell’essere.
La serenità non si presenta più come una meta da conquistare a prezzo di duri
sforzi, ma come lo stato d’animo che consiste proprio nell’assenza di ogni
sforzo.
Scrive Seneca: «Il risultato della saggezza è una gioia stabile: l’animo del
saggio è come il cielo lunare, sempre limpido. Hai dunque una buona ragione
per voler essere saggio».
95. Il distacco
I saggi dell’antichità non provavano né attaccamento per la vita né orrore per
la morte.
CHUANG-TZU

Nella nostra civiltà si sente periodicamente esaltare ('“amore per la vita” come
se fosse un valore da caldeggiare oppure un prodotto da vendere, come se
l’essere non bastasse a giustificare se stesso. Se si sente questo bisogno,
evidentemente abbiamo talmente impoverito e soffocato la vita da dover poi
ricorrere a campagne pubblicitarie per sostenerla. Nelle civiltà in cui f esiste un
rapporto equilibrato con la natura (quella esterna e quella interna), nessuno si
chiede se valga o no la pena di vivere: si vive e basta. Esattamente quel che
diceva Chuang-Tzu degli antichi saggi cinesi.
Anche il rapporto con la morte è completamente cambiato. Mentre una volta
era un fenomeno naturale, da vivere e da contemplare, ora sembra qualcosa di
innaturale e di vergognoso, uno scacco, un’umiliazione da nascondere. I due
atteggiamenti sono correlati: perso il senso spontaneo della vita, si smarrisce
anche il senso della morte.
Tutto ciò è la conseguenza di una civiltà che ha sostituito ai valori naturali i
valori sociali. Non si vive più per il piacere di vivere, ma per raggiungere degli
obiettivi: si tratta di farsi una posizione di prestigio, di procurarsi un buon posto
sia in questa vita sia (eventualmente) nell’altra.
I credenti si predispongono con azioni virtuose e meritorie a essere ben
ripagati nell'altro mondo”: più o meno la stessa cosa che fanno in questa vita con
i conti in banca e con le pensioni. D’altronde, l’idea che Dio sia una specie di
banchiere che rimunera il capitale investito viene direttamente dalle parabole
evangeliche a base di talenti da far fruttare e di interessi da riscuotere: è il
portalo delle religioni levantine.
Chi invece non crede in nulla, spera in qualche scoperta scientifica che vinca
definitivamente la morte e quindi si fa imbalsamare o conservare in celle
frigorifere.
Tutti sperano in qualche resurrezione: chi nell’aldilà e chi, più prosaicamente,
in questo stesso mondo. E la teologia garantisce ai fedeli un recupero finale
anche del corpo.
Da questo tipo di spiritualità, che oscilla tra perdita del senso genuino della
vita e negazione della morte, non può derivare nessun tipo di serenità: ci si
attacca morbosamente all’esistenza, costi quel che costi, e si vede la morte come
una perdita di tutti quei beni che abbiamo accumulato con tanta fatica. Anche
l’io viene considerato un possesso, alla stessa stregua di una casa o di
un’automobile.
Non potevamo non finire così dopo che per millenni abbiamo esaltato ogni
tipo di attaccamento e di appartenenza. Abbiamo nei confronti della vita lo
stesso tipo di rapporto che l’avaro usuraio ha nei confronti del suo denaro:
dobbiamo sfruttarla, dobbiamo tesaurizzarla al massimo. E, di fronte a questo
atteggiamento, la morte è come un ladro di patrimoni.
Una civiltà più equilibrata deve esaltare il valore del distacco, non solo dai
beni e dalle ambizioni, ma anche dalla vita e dalla morte.
I saggi dell’antichità, scrive Chuang-Tzu, «non si rallegravano per la loro
esistenza e non si addoloravano per la loro scomparsa; venivano naturalmente e
se ne andavano naturalmente. Non dimenticavano il loro inizio e non cercavano
la loro fine. Accettavano serenamente il destino e poi restituivano la vita senza
preoccuparsi».
96. La diversità
Clic coso l’amore se non capire e gioire del fatto che un altro vive, agisce o
sente in modo diverso o opposto al nostro?
FRIEDRICH NIETZSCHE

Quando si pretende che l’altro sposi le nostre idee e i nostri comportamenti,


quando cioè si vuole che diventi uguale a noi, non lo si ama affatto: in realtà non
si riesce a uscire dal proprio egocentrismo.
Alla base di un simile atteggiamento c'è la convinzione di essere degli
insuperabili modelli di riferimento, e quindi una grande presunzione. C’è gente
che non arriva neppure a porsi il problema se il proprio sistema di vita sia
davvero il migliore: appena entra in contatto con il membro di un’altra civiltà, fa
di tutto per “convertirlo”. Il motivo è sempre lo stesso: la mancanza di senso
critico, l’incapacità di vedere la propria aggressività. In queste condizioni
l’amore è solo un’espressione della possessi vita, e finisce per essere
autolesionista. Poiché infatti esso nasce dalla diversità, l’omologazione dell’altro
elimina a poco a poco ogni interesse.
Ben diverso è il sentimento che non vuole né conquistare né convertire né,
tanto meno, conformare. Questo atteggiamento, pur nascendo come il primo
dalla contrapposizione, non intende né negarla né eliminarla, ma ne riconosce
l’importanza fondamentale proprio per la sua stessa sopravvivenza. Perfino
l’amore di sé - fa notare Nietzsche - nasce da una dualità che non può e non deve
essere cancellata.
Per molti, invece, l’amore tende irresistibilmente a sopprimere la difformità, a
ridurre tutto a un unico ammasso indistinto; un risultato che non è molto
dissimile da quello dell’odio e della guerra: distruggere l’altro, o annientarne
l’anima.
Come possiamo capire se qualcuno ci ama? La risposta ci viene da Platone,
che ci offre il seguente criterio di verifica: «Ti ama soltanto chi ama la tua
anima».
97. La beatitudine
I momenti di beatitudine non sono altro che momenti di meditazione
cristallizzata, di attenzione cosciente al massimo della sua espressione.
OSHO RAJNEESH

La nostra attenzione varia da un minimo a un massimo: quando si trova al


minimo, noi agiamo inconsapevolmente, automaticamente, siamo come
addormentati; quando invece è al massimo, ci sentiamo svegli, lucidi e presenti.
Istintivamente siamo tutti alla ricerca di momenti di attenzione appassionata:
nell’amore, nell’arte, nello spettacolo, nel viaggio, nel rischio, nella scoperta,
nella novità, ecc. Ci dimentichiamo allora delle piccole beghe quotidiane, ci
liberiamo per un po’ del nostro ego ingombrante e sentiamo di fare esperienze
vitali. Poi ricadiamo nell’abitudine, nella noia, nella ripetitività, nella
quotidianità, nella distrazione.
L’operazione mediante la quale l’anima si risveglia e si rivitalizza è un atto di
attenzione. Un quarto d’ora di vera attenzione - diceva per esempio Simone Weil
- distrugge un po’ di male in noi stessi e vale quanto molte opere buone.
Si tratta di sospendere il pensiero, di lasciarlo vuoto, disponibile e permeabile
all’oggetto; tutte le conoscenze acquisite sono messe fra parentesi, in prossimità
della coscienza, ma a un livello inferiore; la mente contempla come dall’alto, in
attesa. Questa è la posizione di massima ricettività e di massima attenzione.
Noi non siamo abituati a esercitare l’attenzione: lasciamo che siano gli oggetti
ad agire su di noi. Ma se la rivolgiamo deliberatamente sul nostro sé e sui nostri
stati d’animo, ecco che diventa autoconsapevolezza.
Sviluppare questa forma di coscienza rende la mente chiara e ricettiva,
potenziando le nostre facoltà. Nello stesso tempo, proprio la trasparenza mentale
ci riporta a sentimenti di serenità e di equilibrio.
Non si può fare dell’autentico bene - scriveva ancora Simone Weil - se non si
è attenti e consapevoli. Aggiungiamo che non può esserci gioia nella
disattenzione, nella meccanicità dei comportamenti, nella noia.
Ogni momento di felicità non è che un momento di intensa attenzione.
Nel Dhammapada troviamo scritto: «L’attenzione è la via che conduce
all’immortalità, la disattenzione è la via che conduce alla morte: gli attenti non
muoiono, i disattenti sono come già morti».
98. La realizzazione
Quando ci sentiamo dire da qualcuno che la nostra condizione è meschina e
terribilmente penosa, perché non siamo né consoli né governatori, possiamo
replicargli: «Splendida è la nostra condizione e invidiabile la nostra vita: non
siamo né mendicanti, né schiavi, né servili adulatori».
PLUTARCO

Il nostro compito non è quello di diventare personaggi importanti, ma di


diventare noi stessi.
Non è il tipo di lavoro o il compenso modesto che ci impediscono di crescere,
ma il servilismo, il conformismo, la dipendenza psicologica. Siamo noi stessi
che, in questi casi, restringiamo la circonferenza della nostra anima e ci
limitiamo a vivere in uno spazio meschino, rinunciando a sviluppare le nostre
potenzialità.
Questo vale anche per molte altre forme di subordinazione: il nostro compito
non è diventare, per esempio, cristiani o buddhisti; non è diventare seguaci o
imitatori di qualche maestro più o meno illuminato; non è far parte di questa o di
quella chiesa, di questa o di quella congregazione; di essere battezzati o
circoncisi. Il nostro compito è realizzare noi stessi, è diventare maturi, è
crescere.
Qualcuno si immagina un Dio che un giorno, per farlo entrare in paradiso, gli
chiederà la tessera di appartenenza… più o meno come il manager di un club
privato. Ma forse quel giorno qualcuno o la sua stessa coscienza gli chiederà
semplicemente: «Lascia perdere i tuoi titoli, i tuoi ruoli e le tue cariche, e dimmi
che cosa hai fatto della tua vita. Hai realizzato te stesso? Sei diventato un
uomo?».
«Il nostro grande e glorioso capolavoro» scrive Montaigne «è vivere
convenientemente; tutte le altre cose, regnare, ammassar tesori, fabbricare, non
ne sono che appendici e ammennicoli in più.»
E Gesù chiarisce: «A che giova all’uomo aver guadagnato il mondo intero, se
poi ha perduto o rovinato se stesso?».
99. Gli eccessi
Nessun maggior segno d'essere poco filosofo e saggio, che volere savia e
filosofica tutta la vita.
GIACOMO LEOPARDI

In effetti, voler essere saggi tutta la vita significa non aver capito la dialettica
degli eventi e degli stati d’animo, il continuo alternarsi delle coppie di opposti.
La saggezza è un tentativo di tenersi nel mezzo, di riportare verso il centro
una barra che sbanda ora da una parte ora dall’altra. Ma non sarebbe intelligente
credere che, senza quegli sbandamenti, senza quelle cadute, possa esistere
ugualmente un equilibrio. L’armonia esiste perché esistono quelle tendenze
contrastanti, quegli sbalzi.
Parafrasando Pascal, potremmo dire che negli squilibri, negli eccessi, nelle
passioni e negli errori c'è una saggezza che la ragione dualistica non riconosce.
Nessuno è più folle di chi vuol essere sempre saggio: in realtà si tratta di una
persona devitalizzata, di un uomo che crede di essere vivo mentre è già morto. r
Non dobbiamo quindi reprimere le emozioni (rabbia, indignazione, amore,
gioia, dolore e così via), ma mantenerci consapevoli di ciò che proviamo e
riuscire sempre a ritrovare il centro di equilibrio; riconoscere gli errori, come
anche saperli superare; accettare i propri limiti e guardarsi con distacco; vivere
comunque in prima persona.
Dobbiamo tenere presente che ci muoviamo in un mare continuamente mosso
dai venti, nel quale, oltretutto, i periodi di bonaccia non sono quasi mai i più
memorabili, i più istruttivi. Non dobbiamo illuderci che esista una rotta
predefinita e un metodo per seguirla senza deviazioni. Tutto è mutevole e
affidato a facoltà anch’esse mobili: ecco perché la dote della flessibilità è la più
importante.
Diceva Solone: «La cosa più difficile è cogliere l’invisibile misura della
saggezza, che sola reca in sé i limiti di tutte le cose».
100. Cambiamento e permanenza
Il sapere che finora possediamo ci dice che abbiamo bisogno di cose che
cambiano, ma abbiamo anche bisogno di cose che restano.
GIORGIO ABRAHAM

Proprio perché tutto cambia intorno a noi e in noi, è necessario che qualcosa
rimanga fisso.
Le persone invecchiano e muoiono, il corpo si modifica, le idee si evolvono,
l’ambiente muta aspetto, la storia inanella un avvenimento dietro l’altro, i
sentimenti si modificano, le cellule si differenziano, il cosmo stesso si espande e
si contrae, il tempo non ci dà tregua, tutto scorre, tutto si trasforma… e noi
sentiamo il bisogno di un centro in cui riconoscerci: il mozzo della ruota,
l’occhio del ciclone, il nucleo del nostro sé.
Il divenire è reso possibile dall’esistenza di un centro fisso, nei confronti del
quale le cose possano ruotare. Esiste sempre un punto di riferimento in rapporto
al quale si definisce il mutamento.
Se abbiamo un animo conservatore, se temiamo il cambiamento, ci
abbarbicheremo alla tradizione, a ciò che rassicura nella sua apparente
continuità. Se siamo degli innovatori, se vogliamo superare il passato,
punteremo invece sulle possibilità di mutamento, che possono offrirci qualcosa
di inusitato.
La realtà comunque è una mescolanza dei due processi, un’alternanza
dialettica che è anche complementarità, perché ciò che permane non deve
bloccare fino in fondo i cambiamenti, e ciò che muta non deve distruggere ogni
punto di riferimento.
Anche di questo rapporto dobbiamo tener conto ogni volta che sposiamo una
posizione o l’altra: siamo a nostra volta agenti e strumenti di un gigantesco
processo di interrelazione, di una danza cosmica, in cui ci troviamo ora da una
parte e ora dalla parte opposta. Nessuno è soltanto conservatore o innovatore: i
ruoli si alternano di continuo, nella società e dentro di noi.
Se non avessimo nella nostra interiorità un centro, un perno fisso cui
aggrapparci quando tutto muta vorticosamente, finiremmo per non riconoscerci
più, come certi alienati che non si ricordano chi sono. Questo è il porto sicuro, il
rifugio, l’isola nella corrente su cui ci ripariamo ogni volta per riprendere fiato,
per osservare il cambiamento e per fare il punto della situazione.
Prima o poi dovremo riprendere il viaggio e rimetterci in acqua; ma sappiamo
ormai che possiamo far affidamento nei momenti di crisi su questa oasi di
tranquillità e di riposo, dove possiamo approdare ogni sera per ritrovare noi
stessi, per ricrearci lo spirito.
Scrive su questo tema Schopenhauer: «La natura dell’uomo, risultante di una
parte assolutamente immutabile e di una parte che muta regolarmente, in due
modi opposti, spiega la diversità dei suoi aspetti e della sua validità nelle
differenti fasi della vita».
E il Wen-tzu specifica: «Gli uomini che si attengono alla Via cambiano
esternamente, ma non internali mente. Il cambiamento esterno è il mezzo con
cui interagiscono con gli altri uomini; l’immutabilità interna è il mezzo con cui
conservano se stessi. Dunque, se hai un controllo interno stabile e sei in grado di
contrarti e di espanderti esternamente muovendoti con le cose, allora puoi evitare
l’insuccesso in tutte le tue iniziative».
101. Coltivare lo spirito
Si falsa il proprio spirito, la propria coscienza e la propria ragione come ci si
guasta lo stomaco.
NICOLAS DE CHAMFORT

Diventare se stessi è un processo lungo e difficile, ma è anche l’unico grande


compito dell’esistenza. Si tratta di un vero e proprio lavoro, in parte di
decondizionamento e in parte di reintegrazione.
Molti sono coloro che congiurano contro l’identità del giovane individuo.
Genitori, educatori, sacerdoti, insegnanti, ecc. hanno in testa idee personali su
che cosa dovrà diventare il bambino e quindi agiscono per instillargli principi,
valori, nozioni; raramente lo amano e lo rispettano al punto di permettergli di
essere… se stesso.
Nei primi anni di vita, sfuggire a tale condizionamento è impossibile, perché,
entro certi limiti, esso fa parte del normale processo di apprendimento. Ma, dal
momento in cui la persona diventa cosciente di se stessa, deve incominciare a
farsi le proprie idee e a rendersi autonoma. Il processo non finisce mai, perché
anche quelle che riteniamo nostre opinioni sono spesso le opinioni di qualcun
altro che abbiamo adottato senza rendercene conto.
Da un certo punto in poi, però, non abbiamo più scuse: siamo noi stessi i
responsabili di ciò che siamo, diventiamo noi stessi gli agenti della nostra
liberazione o del nostro stato di subordinazione. Come dice Nicolas de
Chamfort, ci guastiamo da soli il nostro spirito, accettando o rif iutando valori e
sistemi di vita.
Da una certa età in avanti, ognuno è figlio di se stesso e non può più invocare
- come alibi - i condizionamenti subiti in precedenza.
La nostra civiltà mette a disposizione di tutti un’ampia gamma di valori e di
prodotti culturali, e offre anche modelli differenziati di comportamenti: in tal
senso siamo molto più fortunati degli abitanti di altre aree del globo, che
ricevono un indottrinamento a senso unico. Questa è la gloria dell’Europa che,
nonostante periodici cedimenti al totalitarismo, ha sempre saputo che il primo
dei valori è la libertà di coscienza.
Tuttavia tale libertà va difesa e conservata non so lo nei confronti degli
attacchi esterni, ma anche nei confronti dei propri errori, della propria pigrizia e
di tutte le proprie false identificazioni. Afferma La Rochefoucauld: «Siamo così
abituati a mascherarci di fronte agli altri che alla fine ci mascheriamo di fronte a
noi stessi».
Uno dei modi di guastarsi lo spirito consiste - secondo le parole di Seneca -
nel «dare grande importanza alle cose che dovrebbero contare poco o nulla».
E, fra queste cose, ci sono innanzitutto i ruoli sociali, che per noi diventano
una specie di seconda natura.
Finiamo per identificarci con l’immagine che di noi diamo agli altri, con
levarie funzioni che svolgiamo in famiglia e in società: diventiamo per così dire
schiavi di queste etichette, che ci aderiscono come una seconda pelle. Ci
dimentichiamo chi siamo veramente, che cosa ci sia al di sotto di questi
rivestimenti.
Ma una malattia, una perdita, una crisi o la fine stessa della vita possono un
giorno farci ricordare che noi non ci esauriamo in simili ruoli e che ci dobbiamo
ancora confrontare con noi stessi, con il nucleo più profondo del nostro essere,
quello che si misura sui valori essenziali della vita e della morte, dell’autenticità
e delle falsità, della gioia e dell'infelicità. Qui i rivestimenti e i travestimenti non
contano più nulla e viene alla luce semplicemente quel che siamo e quel che
valiamo.
Scopriremo allora quanto abbiamo indebolito o fortificato la nostra anima.
Sostiene il Wen-tzu: «Lo spirito dell’uomo, in modo simile a un secchio
d’acqua, è facile da intorbidare e difficile da rendere limpido».
102. Il movimento
I frequenti spostamenti da un luogo all’altro sono sintomi di un animo
instabile.
SENECA

«Non è lui che vuole andare,» scrive Seneca descrivendo un individuo agitato
che è sempre stato molto comune in tutti i tempi e in tutte le società «ma non
può star fermo.»
Questa incapacità a restare fermi, questa tendenza a spostarsi da un luogo
all'altro, da una persona all’altra, da un interesse all’altro, senza mai soffermarsi
a lungo su nulla, è evidentemente il sintomo di un’instabilità del carattere, di una
mancanza di centro. In simili casi, l’individuo si muove senza costrutto, senza
una meta definita; come dice Seneca, non è lui che ha deciso qualcosa, non è lui
che vuole andare veramente da qualche parte: è il tormento interiore che lo
spinge ad agire senza sosta.
Oggi si tratta di una situazione generalizzata: i più si muovono non perché
vogliono raggiungere una certa meta, ma perché non riescono a stare fermi. Il
movimento della società è come quello di un’autostrada, dove non puoi né
rallentare né fermarti senza correre il rischio di essere travolto, dove c'è quasi il
dovere di correre.
Questa è la differenza che intercorre anche tra un vero viaggio, dove si
guarda, si contempla e si impara, e uno spostamento, dove la strada e il
paesaggio sono del tutto indifferenti, dove l’importante è correre e arrivare; e
questa è anche la differenza tra una vita spesa a conoscere e a crescere e una vita
spesa ad agitarsi e a muoversi.
Un'esistenza del secondo tipo è quella in cui non si trova mai il tempo per
fermarsi e riflettere: le esperienze non vengono approfondite e non vengono
assimilate; restano alla superficie e non lasciano tracce. L’individuo non arriva a
crescere: è come un eterno infante che ripete sempre le stesse cose, senza mai
imparare niente, senza mai maturare.
«È proprio da tale ottusità mentale» scrive Schopenhauer «che deriva quel
vuoto interiore impresso su innumerevoli facce, e che si rivela con la costante,
eccitata attenzione a tutti i fatti, anche insignificanti, del mondo esterno.»
Per non cadere anche noi in questa vuota agitazione, dobbiamo ogni tanto
metterci in una posizione di non azione, osservando con distacco e in silenzio
noi stessi e il mondo. È da questo tipo di meditazione c di rallentamento
periodico delle nostre attività che possiamo trovare il senso della nostra azione.
Dice Chuang-Tzu: «Mentre il popolo si agita, il saggio siede immobile nella
sua stanza».
103. Il mestiere
Beato colui che ha trovato il suo lavoro: non chieda altra felicità.
THOMAS CARLYLE

Il lavoro può essere fonte di realizzazione, ma anche causa di alienazione: se è


imposto e sgradito diventa una fatica senza senso, sopportata solo per
sopravvivere, in cui il nostro tempo e le nostre energie vengono letteralmente
sprecate; se è stato scelto e corrisponde alla nostra vocazione naturale, si
trasforma in un mezzo per trovare se stessi.
Affinché diventi uno strumento di crescita, è necessario che aitivi e sostenga il
meccanismo di maturazione interiore: si dovrebbe lavorare non semplicemente
per sbarcare il lunario, ma per realizzare la propria vita. Il mondo, preso da
tutt’altri problemi, sembra continuamente dimenticarsi di questa fondamentale
verità; ma, quando si perde di vista la dimensione interiore, la dimensione
spirituale delle cose, ogni attività (come anche ogni ozio) si può trasformare in
una tonte di degradazione.
Poiché il mestiere che esercitiamo occupa gran parte della nostra vita, non
dovrebbe essere affidato al caso o alla volontà altrui: dobbiamo impegnarci in
ogni modo per trovare quello che fa per noi, quello per cui siamo tagliati. Ne va
della nostra felicità. Che, secondo Aristotele, consiste proprio «nel poter
esercitare senza impedimenti la facoltà in cui si eccelle, qualunque essa sia». La
scelta del lavoro non è cosa da poco. «Un buon mestiere dura per sempre» dice
Petronio.
Esistono tendenze e disposizioni naturali che devono essere assecondate, costi
quel che costi. Nessuno è più scontento di chi la un mestiere controvoglia, di chi
ha una dote e non la impiega. «Chi è nato con un talento e per un talento»
sostiene Goethe «trova in esso la sua più bella esistenza.»
Molte cose della nostra vita subiranno cambiamenti e mutazioni. Sentimenti,
rapporti affettivi, scelte religiose, impegni politici, convinzioni, ecc. potranno
subire notevoli variazioni, comparire per un po’ e poi affievolirsi e magari
dileguarsi. Ma un talento, un mestiere ci accompagnerà tutta la vita.
Non c’è possibilità di realizzarsi spiritualmente se non si esercitano le proprie
facoltà migliori, le proprie disposizioni più autentiche. Tutto sta nella scelta
giusta, e quindi nella conoscenza di se stessi, e nella giusta misura.
Scrive a questo proposito Democrito: «Chi vuol vivere sereno non deve
lavorare troppo né per questioni private né per questioni pubbliche e non deve
scegliere occupazioni che siano superiori alle sue forze e al suo carattere».
104. Giudicarsi
E un grave errore sia credersi più di ciò che si è, sia stimarsi meno di quel
che si vale.
JOHANN WOLFGANG GOETHE

In effetti, se potessimo vederci per quel che siamo, se potessimo conoscerci


obiettivamente, con le nostre capacità e i nostri limiti, eviteremmo una gran
quantità di errori. Quanti sbagli sono dovuti proprio a una sopravvalutazione o a
una sottovalutazione.
Ce chi si sente al centro del mondo, perno di tutto, indispensabile,
predestinato, “unto dal Signore”; e c'è chi si sente sempre inferiore, sempre in
colpa, vera e propria “spazzatura della terra”.
Spesso questi due atteggiamenti si alternano nella stessa persona, che ora vive
in uno stato di euforia e ora precipita nella più nera depressione. Il motivo è
sempre lo stesso: l’incapacità di giudicarsi, la non conoscenza di sé.
Bisogna quindi sottolineare l’importanza dell’esame di coscienza, l’abitudine
a guardarsi con distacco, come se si osservasse qualcun altro. Questi esercizi
fanno parte di ciò che chiamiamo meditazione, una pratica che non ha solo
generici scopi spirituali, ma che si rivela concretamente utile per risolvere i
nostri problemi, per acquisire uno stato di serenità.
È vero che - come diceva Thoreau - «guardare se stessi è difficile come
guardare indietro senza voltarsi», ma è anche vero che è fondamentale osservarsi
sia nell’azione sia nella quiete per evitare i dolorosi errori di valutazione.
Se infatti non acquisiamo una visione equilibrata di ciò che siamo, dei pregi e
dei difetti, ogni minimo sbaglio ci getterà nella disperazione e ogni successo ci
farà credere di essere più di ciò che valiamo; inoltre, non disponendo di un
giudizio nostro, finiremo per dipendere dal giudizio altrui, e questo accrescerà
ancora di più la nostra instabilità e il nostro stato di dipendenza.
Diceva Pierre de Ronsard: «Solo chi si conosce è padrone di se stesso».
105. La solitudine
L’individuo può essere interamente se stesso solo nella solitudine, e chi non
ama la solitudine non ama nemmeno la libertà, perché si è liberi solo quando si
è soli.
ARTHUR SCHOPENHAUER

Qualcuno potrebbe sostenere, al contrario, che siamo veramente noi stessi solo
quando siamo in società, in rapporto con gli altri. Ma si tratta di due livelli
diversi del nostro ego: la parte sociale è quella che deve avere le possibilità di
interagire e di adattarsi; la parte più profonda, quella che noi definiamo il “sé”,
dev’essere il più possibile stabile, poiché svolge la stessa funzione del mozzo di
una ruota.
È inutile porsi il problema di quale delle due parti sia la più autentica: tutte
due sono autentiche, sono parti diverse di noi stessi. È chiaro però che, nei
rapporti con gli altri, è inevitabile una certa dose di finzione. Nella vita sociale
sono necessari l’autocontrollo, il tatto, la diplomazia e un’attenzione continua
alle possibili reazioni altrui. Questo la sì che una parte di noi resti sempre
nascosta.
In tal senso, in società non siamo mai completamente noi stessi. È per questo
che quando, dopo una giornata di lavoro in mezzo agli altri, ci ritiriamo in casa
nostra, ci sentiamo sollevati, come se ci togliessimo un peso o una maschera di
dosso.
In famiglia o con le persone che amiamo possiamo essere più spontanei e
rilassati, ma non siamo ancora interamente noi stessi. È solo quando ci
chiudiamo da soli nella nostra stanza che non abbiamo più bisogno né di
maschere né di sforzi di adattamento.
Tuttavia non è finita: quando ci troviamo a tu per tu con noi stessi, c'è ancora
un confronto che dobbiamo affrontare: quello con la nostra mente, che non è
affatto un’entità unica e originale.
La mente, infatti, è a sua volta il portato dell’attività sociale e comprende
numerose componenti e centri di coscienza, spesso in contrasto fra loro.
Per esempio, ognuno di noi ha un ego maschile di derivazione paterna e un
ego femminile di derivazione materna, ma anche tanti altri centri, più o meno
stabili e radicati, che rappresentano tutte le figure che hanno avuto una certa
influenza (amici, amanti, insegnanti, sacerdoti, personaggi carismatici e così
via): queste persone sono presenti nella nostra coscienza e continuano a parlarci
o a scontrarsi dentro di noi.
Il nostro ego è dunque costituito da una folla di personaggi che continuano a
essere attivi anche quando siamo soli; perfino quando sogniamo, ne salta fuori
qualcuno, magari dimenticato da anni.
La vera solitudine non è dunque facile da raggiungere. Il nucleo più profondo
di ciò che siamo resta sempre ben nascosto sotto molti rivestimenti.
Per essere semplicemente noi stessi, per essere liberi da ogni sforzo di
apparire e di rapportarci, dobbiamo riuscire a far tacere questa complessa e
continua attività mentale.
Lo scopo non è solo quello conoscitivo. Ritrovare se stessi significa
recuperare chiarezza e serenità, significa poter fare il punto della situazione e
comprendere il senso di quello che stiamo facendo.
«Scava dentro di te,» scrive Marco Aurelio «dentro è la fonte del bene, e può
zampillare inesauribile, se continuerai a scavare.»
E il Buddha dichiara: «Se ti dedicherai alla solitudine e al distacco, ti
svilupperai fino a raggiungere l’illuminazione e la liberazione».
106. L'umorismo
Vivere nel mondo come non fosse il mondo, rispettare la legge e stare tuttavia
al di sopra della legge, possedere come se non si possedesse, rinunciare come se
non tosse rinuncia: tutte queste esigenze di un’alta saggezza di vita si possono
realizzare unicamente con l’umorismo.
HERMANN HESSE

Qui l’umorismo è in realtà la capacità di vedere con distacco il mondo e se


stessi, e rappresenta una grande risorsa nei momenti più drammatici.
Non è un caso che il termine “spirito” abbia il duplice significato di umorismo
e di spirituali là: può esserci più spirito in una battuta umoristica che in una sacra
scrittura. Infatti una battuta, un motto di spirito, può in un istante farci vedere,
può mettere in luce un aspetto inusitato della realtà. Si tratta di una
“illuminazione” improvvisa.
Il problema è che noi confondiamo la spiritualità con la religione, due
fenomeni che possono non coincidere. La religione è in sostanza l’adorazione di
un Dio che è già dato in partenza e che esiste indipendentemente da noi e dalla
nostra mente. La spiritualità è invece ricerca di un’esperienza, qualcosa che sta a
noi trovare.
Ora, una simile condizione si realizza con più facilità al di fuori delle normali
abitudini e delle convenzioni sociali e religiose: è un’improvvisa apertura di
senso.
Così opera anche l’umorismo: la situazione ci appare di colpo sotto una luce
diversa e, in quell’istante, noi capiamo una verità o un lato della realtà che ci era
rimasto nascosto.
Sono poche le religioni che ricorrono all’umorismo. In genere si crede che il
rapporto con il sacro rientri nel campo delle cose serie, e così si attribuisce
all’esistenza un carattere drammatico. Ma la saggezza è anche capacità di
demitizzare, di spiazzare, di scambiare i ruoli.
«Se sei saggio, ridi» consiglia Marziale.
Questa capacità ci è utile proprio nelle occasioni più difficili, quando
l’esistenza minaccia di diventare troppo “seria”. Chi si guarda e guarda il mondo
con un sorriso distaccato è in grado di ridimensionare anche i problemi più gravi.
Scrive Nietzsche: «Non è una verità per noi quella che non sia stata
accompagnata da un sorriso».
E Leopardi: «Chi ha il coraggio di ridere, è padrone del mondo, poco
altrimenti di chi è preparato a morire».
107. Il mutamento
Il grande amore porta con sé il malvagio pensiero di uccidere l'oggetto
amato, così da sottrarlo per sempre al sacrilego gioco del mutamento, perché
l'amore ha più paura del mutamento che della distruzione.
FRIEDRICH NIETZSCHE

Anche in questo caso si evidenzia l’incapacità di vedere e di accettare la realtà


del divenire, si dimostra il desiderio di fermare una volta per tutte l’inesorabile
orologio cosmico.
Ma la natura ha stabilito che nessun sentimento sia immobile, per il semplice
motivo che non può rendere stabili sentimenti come la disperazione, l’odio e la
paura.
Ecco un altro esempio dell’ambivalenza del reale. L’amante deluso dirà:
«Tutto muta, sfortunatamente». Invece chi ha subito una grave perdita penserà:
«Tutto muta, fortunatamente».
Quando le cose ci vanno bene, vorremmo che niente cambi; poi, quando ci
vanno male, non aspettiamo che il mutamento. E, allora, bisogna essere saggi,
vedere contemporaneamente le due facce della medaglia e accettare la legge del
divenire anche quando non ci fa comodo.
«Si dovrebbe sempre aver presente l’azione del tempo e la mutevolezza delle
cose» scrive per esempio Schopenhauer.
E Marco Aurelio: «Tutte le cose che ora vedi muteranno in men che non si
dica e non esisteranno più. Di quante trasformazioni sei già stato testimone
anche tu! Pensaci continuamente».
Dobbiamo riflettere su questo punto per essere pronti alla trasformazione e
all’evoluzione, per non rimanere legati, come patetici ruderi, alle forme del
passato.
Dice lo psichiatra Giorgio Abraham: «Non possiamo mantenere per sempre le
stesse idee o le stesse cellule. Non possiamo dunque essere, esistere, senza
divenire, mutare giorno dopo giorno. Ma non possiamo divenire, evolvere, senza
essere quelli che siamo in ogni giorno della nostra vita».
108. Il transfert
Nel transfert noi vediamo il mondo con gli occhiali dei nostri desideri e delle
nostre paure, e scambiamo l’illusione per la realtà.
ERICH FROMM

In senso lato, il transfert è il fenomeno in base al quale noi trasferiamo o


proiettiamo l’immagine di una persona che ha avuto una grande importanza nel
nostro sviluppo su un’altra.
Il caso tipico è quello dell’amore, un sentimento che scatta quando scopriamo
in qualcuno una somiglianza con la figura materna (se siamo uomini) o con la
figura paterna (se siamo donne). Come scrive Nietzsche, «l'amore è la
condizione in cui l’uomo vede per lo più le cose come non sono: qui il potere
dell’illusione è al massimo».
Il guaio è che, con questa proiezione e sovrapposizione di immagini, noi non
vediamo la persona reale che ci sta di fronte, ma una nostra elaborazione; e
spesso pretendiamo che essa si adegui alle nostre aspettative. Questa è dunque la
prima fase dell’amore: l'infatuazione, l’illusione.
Dobbiamo esserne consapevoli, perché il vero amore nasce in una seconda
fase, quando incomincia a svanire l’immagine della nostra fantasia e, da sotto,
emerge un'altra persona che può apparirci ancora più affascinante della nostra
creazione mentale, oppure sempre più insopportabilmente estranea.
Lo stesso fenomeno può verificarsi nella religione, nella politica,
nell’insegnamento e in tutti quei movimenti e quei gruppi sociali in cui si trova
un leader carismatico: su di lui vengono proiettate speranze, attese, desideri,
fantasie e immagini che poco o niente hanno a che fare con la persona reale.
Nascono così i miti.
Non si può negare, per esempio, che la grande fortuna delle religioni che
hanno presentato Dio come “padre eterno” sia legata a proiezioni di questo tipo.
Scrive a questo proposito Sigmund Freud: «La psicoanalisi ci ha insegnato a
conoscere l'intima connessione tra il complesso paterno e la fede in Dio, ci ha
mostrato che il Dio personale non è altro, psicologicamente, che un padre
innalzato, e ci pone ogni giorno davanti agli occhi esempi di giovani che
perdono la fede religiosa non appena crolla in loro l’autorità del padre».
Ma, così facendo, restiamo degli eterni bambini che non sono capaci di
crescere, che si attendono sempre aiuto e protezione da qualcun altro: non
riusciamo a emanciparci e siamo disposti a seguire chiunque eserciti un’autorità.
Lo sanno bene certi capi politici e religiosi, che fanno leva su.questo nostro
bisogno per assumere il potere e comandare.
Se vogliamo diventare individui autonomi e responsabili, se non intendiamo
lasciare la nostra vita nelle mani altrui, dobbiamo per prima cosa riconoscere che
questo meccanismo del transfert ha un duplice effetto negativo: fa di noi dei
succubi, dei gregari, e ci impedisce di riconoscere le persone.
Torniamo così al primo obiettivo di un sano sviluppo psicologico, di
un'“educazione mentale”: distinguere in ogni momento le fantasie, le opinioni, le
identificazioni, le rappresentazioni, le proiezioni e le interpretazioni soggettive
dalla realtà. Questo è il compito fondamentale della meditazione, che è
essenzialmente una tecnica di auto-osservazione e di sviluppo della
consapevolezza.
Scrive Patanjali, l’antico autore degli Yogasutra: «L’esercizio ininterrotto
della consapevolezza del reale è lo strumento per la dispersione dell’ignoranza».
109. La noia
La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani.
GIACOMO LEOPARDI

Qui Leopardi si riferisce a un sentimento profondo, all’insoddisfazione che


talora proviamo verso tutte le cose, verso la vita stessa sulla Terra, verso
l’insufficienza del mondo. Troviamo che tutto è «poco e piccino» e che le nostre
azioni e le nostre possibilità sono limitate.
Vengono in mente le parole del Qoèlet, il libro biblico che denuncia
l’illusione della felicità sulla Terra: «Non rimarrà mai nessun ricordo né del
saggio né dello stolto, perché con il trascorrere degli anni ogni cosa sarà
dimenticata; e come muore il saggio così muore lo stolto… Tutto è vanità e un
pascersi di vento».
Da un lato questo stato d’animo è un «segno di grandezza e di nobiltà»,
perché rivela la capacità di considerare l’insieme delle cose, «il numero dei
mondi infinito», e, nello stesso tempo, la nostra aspirazione a essere sempre di
più, alla trascendenza. «Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun
momento, e pochissimo o nulla agli altri animali.»
Ma, dall’altro lato, è vicino a ciò che oggi chiamiamo depressione. Bisogna
quindi stare attenti a come si elabora questo sentimento.
La meditazione sull’infinito e sui nostri limiti porta taluni verso una gioiosa,
quasi estatica, coscienza cosmica, e talaltri verso un taedium vitae che a poco a
poco sconfina nella malattia.
Anche in questo caso la scelta è nelle nostre mani, anzi nella nostra mente, e
occorre esercitare una periodica osservazione degli stati d’animo. I sentimenti di
fondo, di accettazione o di negazione, dipendono più da noi che dagli eventi
esteriori.
Ci sono persone che riescono a mantenersi serene in mezzo a guerre e a
rivoluzioni, e altre che si suicidano per un insuccesso scolastico o lavorativo.
«L’anima è come un catino pieno d’acqua,» dice Epitteto «e il raggio di luce che
vi cade sopra sono le idee della nostra mente.»
È dunque questa la chiave di volta della nostra felicità o della nostra
sofferenza. Una mente lasciata a se stessa, di fronte agli avvenimenti spiacevoli,
può ingigantire e rimuginare talmente la negatività da finire in un gorgo di
disperazione.
Ecco perché occorre correggere il nostro stato d’animo quando inclina verso
la noia soffocante. E, soprattutto, bisogna coltivare quotidianamente la nostra
interiorità, esattamente come si cura una pianta che amiamo: la osserviamo
spesso, la innaffiamo, la potiamo, le togliamo i parassiti.
Scrive Schopenhauer: «Quanto più la ricchezza interiore si avvicina
all’eccellenza, tanto meno spazio concede alla noia».
110. L’esame di coscienza
Che cosa c'è di più bello di esaminare la giornata passata? Come sarà sereno
e lieve il sonno che seguirà questo esame di coscienza!
SENECA

L’abitudine a fare un esame della giornata trascorsa risale alla scuola


pitagorica, ma è una regola di “igiene mentale” consigliata dai saggi di tutto il
mondo e di tutti i tempi. Seneca cita il caso di Sestio che, a giornata finita, si
ritirava in camera e si chiedeva: «Quale difetto ho guarito oggi? A quale vizio mi
sono opposto? In che cosa sono diventato migliore?».
La consuetudine di riesaminare il proprio comportamento, quando rientra
nelle tecniche di meditazione, diventa un mezzo per controllare il proprio stato
d’animo, passato e presente; e diventa anche un metodo per sviluppare la
consapevolezza, momento per momento.
È quest’ultima operazione che schiarisce la mente e la riequilibra, prevenendo
i mali peggiori.
Come dice Seneca, l’esame di coscienza aiuta a essere più sereni, perché
permette di utilizzare l’errore non per aumentare il senso di colpa, ma per
migliorare se stessi.
La “presa di coscienza” consente di visualizzare in tempo reale gli impulsi, i
desideri e gli stati d’animo, apportandovi una correzione continua; attraverso il
distacco, realizza già in partenza una decantazione che permette il recupero
dell’armonia.
Questi metodi possono essere definiti tecniche di sviluppo mentale, tecniche
di autoapprendimento, in quanto ci mettono in grado di utilizzare tutte le
esperienze, anche quelle negative, per una crescita della personalità, per un
aumento dell’autonomia. Le pause di riflessione, rese sistematiche, ci
permettono di evolverci lungo una linea ascendente, anziché ripetere in un
circolo vizioso sempre gli stessi comportamenti.
«La propria coscienza vale mille testimoni» afferma Quintiliano.
E Seneca dichiara: «Chi non impara nulla è perché non vuole imparare».
111. Accettarsi
Accettatevi per quello che siete.
DETTO TANTRICO

Il nostro compito non è quello di adeguarci a modelli precostituiti, di


“diventare qualcuno”, ma di diventare ciò che siamo, cioè di essere
semplicemente noi stessi. Anche se sembra una meta a portata di mano, non è
così facile, perché noi siamo come alberi che uno stuolo di giardinieri vuole far
crescere secondo un proprio disegno; e raramente questo disegno coincide con la
nostra natura.
Il guaio è che l’albero, una volta impostato artificialmente, dovrà fare una
gran fatica per recuperare la propria forma. Dovrà essere lasciato crescere
spontaneamente per molto tempo e, qualche volta, i segni dell'intervento
estraneo resteranno per sempre. Lo stesso accade per la natura di ciascuno di noi:
ci sono persone che dovranno lottare tutta la vita contro il modello che è stato
loro imposto quando erano così piccole che non potevano difendersi.
Per conoscersi, bisogna eliminare proprio quei modelli che ci sono stati
imposti. Se infatti utilizzeremo quelle impostazioni, ci giudicheremo in maniera
distorta e quasi sempre negativa. Non resta allora che prendere le distanze da
quel sistema di valori (e di attività mentali connesse) che ci impedisce una
visione obiettiva e serena di noi stessi.
Questo in meditazione si ottiene con la quiete, con la solitudine, con il silenzio
e con lo svuotamento mentale: si tratta in realtà di un processo di
decondizionamento, volto a far emergere il nucleo sottostante del sé.
A questo punto può comparire qualche aspetto del carattere che non sembra
essere in armonia con i nostri stessi valori e modelli interni: qualcosa che siamo
tentati di rifiutare.
Il problema è che siamo estranei anche a noi stessi: non ci conosciamo e
adottiamo, per giudicarci, ancora criteri sociali. Premesso che le grandi
perversioni - contrarie alla vita - appartengono più alla mente che alla natura,
possiamo scoprire in noi difetti come l’avidità, la grettezza, l’invidia, l’odio, la
malevolenza, l’egoismo e così via. Forse ci scandalizzeremo sul nostro conto,
forse concluderemo che i genitori e gli altri educatori avevano ragione a punirci
e a cercare di raddrizzarci.
Ma in realtà ciò che abbiamo scoperto non è che una natura umana comune a
tutti, con lati negativi presenti più o meno in ogni uomo. Ancora una volta siamo
vittime di una cultura dualistica che vorrebbe le medaglie dotate di un’unica
taccia.
Ricordiamoci allora della frase di Terenzio: «Sono un uomo, e niente di ciò
che è umano mi è estraneo».
Dobbiamo accettarci con tutti questi difetti, che sono esattamente l’“altra
metà” di ciò che noi siamo. E dobbiamo cercare di mettere in atto il consiglio di
Persio: «Impara a vivere con te stesso».
112. L’età della saggezza
Non sempre invecchiare ed essere invecchiati coincidono.
GIORGIO ABRAHAM

Non sempre esiste una corrispondenza fra età esteriore ed età interiore. Si può
essere vecchi anche a vent'anni, quando si abbracciano - come scrive Abraham -
idee «troppo pessimistiche e retrograde», quando ci si attacca ad «anticaglie
ideologiche o sentimentali», oppure quando si perdono interessi, entusiasmi,
curiosità, emozioni, quando si cede all’inerzia e al torpore, quando ci si chiude in
abitudini di vita sempre più ristrette, quando non si è più capaci di progettare; e
questo può succedere a qualunque età.
Ma esiste anche il fenomeno contrario: gente che a cinquantanni ragiona
ancora come se ne avesse quindici, individui che - secondo l’espressione di
Seneca - «quando la vecchiaia li coglie, hanno ancora una mente infantile».
La vecchiaia dovrebbe essere il coronamento della vita, il periodo che
conclude e dà un senso all’intera esistenza. Dovrebbe anche essere l’età della
saggezza.
Dice a questo proposito Schopenhauer: «Solo chi diventa vecchio consegue,
della vita, una visione completa e adeguata». E aggiunge: «La vecchiaia ha la
serenità di chi si è affrancato da una catena portata a lungo, e ora si muove
liberamente».
Ma questo succede solo quando si è avuto il tempo di riflettere, quando si è
fatto tesoro delle esperienze. Se ci si limita ad atti ripetitivi, non si accumula
nessuna saggezza; e neppure si cresce. Insomma anche invecchiare può essere
un’arte, da apprendere e da sviluppare.
Afferma La Rochefoucauld: «Pochi sanno essere vecchi». E il Dhammapada
ricorda: «L’uomo di corte vedute diviene vecchio come un bove: le sue carni
aumentano, ma la sua saggezza non cresce».
In effetti, se vogliamo fare della nostra vita uno strumento di crescita e di
maturazione, dobbiamo abbracciare il consiglio di Seneca: «Anche da vecchi si
deve imparare».
Quasi le stesse parole che troviamo nei Distici di Catone: «Non smettere mai
di imparare e fa’ in modo di accrescere sempre ciò che sai: raramente la
saggezza è frutto solo della vecchiaia».
113. La distanza
Il desiderio troppo intenso verso ogni cosa suscita la più intensa paura di
rimanerne privi, e in tal modo la nostra gioia diviene debole e malsicura, come
fiamma esposta al vento.
PLUTARCO

Anche nelle passioni più forti, anche nei vincoli più stretti, è necessario
mantenere una certa distanza. Può darsi che non si verifichi mai una brusca
interruzione, può darsi che si assista solo a un lento affievolimento. Ma l’uomo
assennato - scrive Plutarco - si aspetta anche il contrario: deve mettere in conto
un’eventuale perdita.
Non si tratta di guastarsi in anticipo ogni gioia, contemplandone la possibile
fine; si tratta piuttosto di mantenere un minimo di distacco, una vera e propria
“distanza di sicurezza”.
Il motivo è intuitivo: quanto più ci identifichiamo con qualcosa o con
qualcuno, tanto più abbiamo paura di restarne privi.
È giusto desiderare beni, piaceri e rapporti affettivi; se però li consideriamo
ineliminabili e insostituibili, la conditio sine qua non della nostra esistenza,
potremo essere travolti dalla loro perdita o comunque sentirci in ogni momento
minacciati da una simile eventualità. Il nostro attaccamento alle cose e alle
persone non deve giungere al punto di aderire completamente a esse, quasi
fossimo un tutt'uno. Se così fosse, le condizioni della nostra sopravvivenza
sarebbero in mano a circostanze esterne e a ogni momento potremmo essere
distrutti da un colpo avverso della sorte.
Ci dobbiamo allenare a questo esercizio: prevediamo ogni tanto la possibilità
di perdita delle cose e delle persone più care, e domandiamoci se saremmo in
grado di sopravvivere ugualmente. Questo ci aiuterà a cavarcela anche se esse ci
verranno sottratte.
Seguiamo in questo l’esempio di Seneca, il quale scriveva: «Ho conservato
una grande distanza ira le cose e me: per questo, quando la fortuna me le ha
rubate, non mi ha annientato».
114. La relatività
Beni e mali non possono essere disgiunti, ma esiste una loro mescolanza che
va a buon fine.
EURIPIDE

Alla mente del poeta e del saggio non può sfuggire questa continua
mescolanza, in ogni avvenimento, in ogni stato d’animo, di impulsi positivi e di
impulsi negativi: spesso da un atto ritenuto benefico si producono effetti maidici,
e viceversa da un atto cattivo si sprigionano conseguenze benefiche.
L’uomo non può quasi mai prevedere in anticipo quali risultati avranno le sue
decisioni e Le sue azioni: esistono troppe variabili che non dipendono da lui.
È importante non limitarsi a vedere il singolo atto e la particolare
motivazione, ma osservare l’insieme degli eventi in gioco: bisogna avere il
coraggio di mettere in luce anche le pulsioni personali meno nobili. Come dice
La Rochefoucauld, «spesso si fa del bene per poter impunemente far del male.»
Avviene però anche il contrario. Che cosa c'è per esempio di più spietato della
selezione naturale, dove è proprio il più debole e indifeso a essere distrutto?
Eppure, a lungo andare, quell’atto crudele rivela la sua positività nell’interesse
generale. Bisogna quindi tener sempre presente la relatività dei nostri valori. «La
vita è tale negozio» scriveva Arturo Graf «che non si fa mai guadagno che non
sia accompagnato da perdita.»
Questo principio è vero sia nelle esistenze individuali sia nella totalità delle
cose. «Non vi può essere guadagno di qualcuno» affermava Publilio Siro «senza
perdita di qualcun altro.»
Per Euripide, questa “mescolanza” va comunque a buon fine, e ciò è
probabilmente vero se si considera il cosmo nella sua interezza. Ma il singolo
non potrà aspettarsi una netta giustizia retributiva in questa vita finché non uscirà
dalla propria soggettività e non adotterà una visione impersonale delle cose.
Solo l’equilibrio che realizzerà dentro di sé gli permetterà di avere fin da ora
ciò che gli spetta… se non altro in termini di sentimenti e di esperienze. Quanto
al resto, «la tela della nostra vita è intessuta» come dice Shakespeare «di un filo
misto, buono e cattivo insieme.»
115. I valori
Gli uomini creano le distinzioni nella loro mente e poi le credono vere.
BUDDHA

Noi ci creiamo distinzioni, categorie, aspettative e giudizi di valore che non


hanno nessuna corrispondenza con la realtà, e poi ci sentiamo profondamente
delusi e amareggiati quando constatiamo che le cose si svolgono in modo
diverso da come le avevamo immaginate. Viviamo in un mondo mentale che
abbiamo fabbricato noi stessi e che, al momento della prova, si rivela spesso un
vero e proprio castello di carte.
Siamo dominati dai valori di “buono”, di “bello”, di “bene”, di “morale”, di
giusto”, di “sacro”, ecc., e siamo disposti a combattere delle guerre per essi,
siamo pronti anche a morire per vederli trionfare… salvo poi accorgerci che si
dileguano come neve al sole e che gli avvenimenti vanno per la loro strada,
indifferenti.
Il fatto è che la realtà non ha niente a che fare con le nostre rappresentazioni e,
in particolare, con i nostri valori dualistici, che contrappongono nettamente una
cosa all’altra. Ciò che ritenevamo così divergente, i due estremi che credevamo
inconciliabili, si rivelano alla prova dei fatti profondamente e nascostamente
solidali, anzi complici.
Il bene non trionfa mai, perché ha tutto l’interesse a mantenere in vita il suo
contrario, non a distruggerlo.
Nell’eterna lotta fra guardie e ladri, le prime non trarrebbero nessun vantaggio
dalla scomparsa degli avversari: non saprebbero più che cosa fare. La società,
nel suo complesso, ha interesse a conservare un certo equilibrio tra le due parti
contendenti, e lo stesso avviene per la presunta lotta cosmica tra bene e male, tra
vita e morte, tra forze costruttrici e forze distruttrici.
Dobbiamo imparare a riconoscere che la realtà è nel fondo ambivalente o, se
si preferisce, è al di là delle nostre categorie contrapposte. E, finché noi
utilizzeremo questi criteri, non potremo capire come vanno le cose:
continueremo a commettere errori di valutazione. Ci sembrerà di far del bene
mentre compiamo del male e viceversa; ci sembrerà di essere sulla via giusta
mentre stiamo sbagliando e viceversa.
Di fronte all’ambiguità del reale, l'errore più grande è quello di stabilire criteri
rigidi, elenchi di cose “buone” e “cattive”.
La saggezza ci consiglia un continuo esercizio del distacco, dell’atten/.ione e
della consapevolezza: dobbiamo tener continuamente presente la possibilità che i
nostri valori siano solo prodotti convenzionali, e che non corrispondano a niente
di essenziale, a niente di necessario.
Ecco perché dobbiamo cercare di recuperare il rapporto con ciò che sta al di
sotto e al di là della mente, con quel “centro dell’essere” che è anche il centro
del mondo e che reca impresse le regole non scritte della vita.
«Non legatevi alla vostra mente» dice Chuang-Tzu «e le cose appariranno così
come sono.»
116. Il senso della vita
Chi insegnasse agli uomini a morire insegnerebbe loro anche a vivere.
MICHEL DE MONTAIGNE

Questa frase vuol dire che il senso della vita è inestricabilmente connesso al
senso della morte, alla consapevolezza di dover morire. Ogni evento, ogni
attimo, assume una sua preziosità, un suo valore, proprio perché è irripetibile e
non tornerà più. Se il tempo fosse circolare, se ogni cosa potesse ritornare, se le
scadenze, le perdite e la morte non fossero definitive, l’esistere avrebbe un senso
diverso.
La morte viene dunque meditata in ogni momento ed è ciò che permette alle
esperienze di avere un certo sapore di fondo. Consapevolmente o
inconsapevolmente è il pensiero dominante.
Imparare a morire significa innanzitutto portare alla coscienza questo
pensiero, senza averne paura; significa considerare la morte non come un evento
traumatico, ma come un evento quotidiano, normale; significa apprezzare il
valore e la funzione della morte.
Confucio, a chi gli chiedeva che cosa fosse la morte, rispose: «Se non sai che
cose la vita, come puoi sapere che cos'è la morte?».
Ma come si fa a sapere che cose la vita se non si tiene continuamente presente
che tutto è destinato a morire? Le due coscienze - quella della vita e quella della
morte - vanno di pari passo e, come abbiamo visto per tutte le coppie di opposti,
si sostengono a vicenda.
Platone sosteneva che lo scopo della filosofia è proprio quello di insegnare
agli uomini a morire con serenità.
Ecco il punto: per riuscire a morire con serenità, occorre riuscire a vivere con
serenità. E vivere con serenità vuol dire contemplare e accettare la grande
saggezza della morte. «Chi teme la morte» diceva Seneca «non si comporta mai
da vivo» e, infatti, la sua vitalità sarà sempre oscurata dall’inevitabile sforzo di
rimozione e di nascondimento.
«Ci vuole tutta la vita per imparare a vivere» conclude Seneca «e, quel che
sembrerà forse più strano, ci vuole tutta la vita per imparare a morire.»
117. La scelta
Non sì può dire finché si è in vita: «Questo non mi capiterà», ma si può dire:
«Questo non lo farò!».
PLUTARCO

Ecco la grandezza dell’uomo, che non può, oltre certi limiti, impedire il
verificarsi degli eventi dolorosi, ma che può, in ogni caso, essere se stesso ed
esercitare la propria libertà di scelta.
Può anche, volendo, mantenersi sereno ed equilibrato in mezzo alle tempeste
della vita. Dice a questo proposito il Dhammapada: «Non trascurare il male
dicendo: “Questo a me non verrà”. La goccia, cadendo, riempie anche la
brocca».
Il male si abbatterà dunque inevitabilmente su tutti. Ma non su tutti avrà lo
stesso effetto. La sorte può farci ammalare - scrive Plutarco -, può privarci degli
averi, può calunniarci agli occhi del popolo o dei potenti, ma «non può far sì che
un uomo buono, coraggioso e magnanimo diventi malvagio, vile, abietto,
volgare e invidioso, non può privarlo di quella disposizione interiore, la cui
costante presenza è più utile di fronte alla vita di quella di un pilota di fronte al
mare.»
Questa “disposizione interiore” è appunto la capacità, da una parte, di
contemplare con distacco gli avvenimenti che ci capitano, buoni o cattivi che
siano, e, dall'altra parte, di non rinunciare alla nostra scelta morale, alla decisione
di essere sempre coerenti con noi stessi.
Scrive Marco Aurelio: «Bisogna sempre tener presente quale sia la natura
dell’universo, e quale la tua; in che relazione sia luna con l’altra; quale specie di
parte sia di quale specie di tutto; e come nessuno possa impedirti di fare e di dire
sempre ciò che è secondo questa natura, della quale sei parte».
118. L'unione estatica
Quando fai l'amore, entra in questo amore come nella vita eterna.
BHAIMVA TANTRA

L’amore sessuale può essere una grande esperienza di liberazione, una


fondamentale esperienza di trascendenza.
Nel rapporto erotico, infatti, le polarità opposte del maschile e del femminile -
espressioni a loro volta del dualismo generale - hanno la possibilità di incontrarsi
e di fondersi, realizzando quell’unità che rappresenta il superamento
dell’individualità, la caduta delle consuete barriere egoiche, di quegli steccati
che ci isolano e ci dividono gli uni dagli altri.
Per un istante, i due individui separati e contrapposti - divisi anche al proprio
interno - diventano un tutt’uno beato, dimentico di ogni altra cosa.
Si tratta di una condizione che può avere dimensioni spirituali e religiose, in
quanto ci avvicina alle fonti della vita, a quella origine in cui non si è ancora
manifestata la contrapposizione. Nella Bradaranyaka-upanisad, ad esempio, per
riferirsi alla vetta della meditazione, si fa il paragone con lo stato raggiunto da
«un uomo avvinto alla donna amata», il quale «non è più cosciente né della
realtà esteriore né di quella interiore.» Ma anche in altre tradizioni religiose,
parlando dei rapporti tra l’anima e Dio, si utilizza un “linguaggio sponsale” e si
impiegano termini come “fidanzamento”, “matrimonio”, “unione” e così via.
Nel rapporto sessuale abbiamo dunque una vera e propria esperienza di
superamento dei limiti individuali: un’unificazione interiore ed esteriore, un
arresto dell’abituale attività mentale e un’apertura verso la beatitudine cosmica.
Tutto ciò, però, ha poco a che fare con la sessualità ripetitiva e abitudinaria. Ci
vuole amore, ci vuole profondità, ci vuole l’incontro; e ci vuole soprattutto la
consapevolezza di stare entrando nella vita eterna, di stare per avere un assaggio
del divino.
Solo a queste condizioni l’unione sessuale può diventare ciò che Platone, nel
Simposio, definisce «un parto nella bellezza, sia nel corpo sia nell’anima».
119. La facoltà della mente
La sofferenza è un male o per il corpo, nel qual caso sia il corpo a dirlo, o per
l’anima. Ma questa può serbare la quiete e la serenità che le sono proprie, e non
giudicarlo un male; giacché ogni giudizio, impulso, desiderio o avversione
nasce dentro di noi, dove nessun male può penetrare.
MARCO AURELIO

Poiché ogni evento deve comunque passare ed essere interpretato dalla mente,
è questa che stabilisce se è piacevole, doloroso o neutro. Essa viene quindi a
possedere un potere enorme: in pratica, la nostra serenità o la nostra infelicità
sono affidate, più che ai fatti in se stessi, al modo in cui reagisce questa nostra
“facoltà sovrana”.
Vi è un sostanziale accordo fra Stoicismo e Buddhismo nell’affidare alla
mente un compito fondamentale per la nostra felicità: quello di controllare e di
valutare secondo il nostro interesse tutti i dati che le giungono dall’esterno.
«Cancella le false impressioni,» scrive Marco Aurelio «ripetendoti
continuamente: dipende da me far sì che in questa mia anima non vi sia nessuna
malvagità, nessuna brama, insomma nessun turbamento, ma che, vedendo
chiaramente come ogni cosa, di ognuna mi avvalga secondo il suo valore.
Ricordati sempre di questo potere che la natura ti ha dato.»
L’imperatore filosofo sottolinea come si debba sempre distinguere tra
sofferenza del corpo e sofferenza dell’anima; mentre è giusto che il corpo si
esprima come vuole, le manifestazioni dell’anima dipendono in gran parte dalla
nostra volontà. Sta a noi aderire completamente ai fatti o distaccarcene,
abbatterci o riprendere lena, cogliere solo gli elementi negativi o anche quelli
positivi; è in nostro potere interpretare i fatti.
Dunque va posta la massima attenzione proprio al sorgere delle sensazioni, a
quel preciso attimo in cui si manifesta nel nostro animo una certa reazione ai
fatti esterni: reazione che può essere di accettazione (perché sono giudicati
piacevoli), di rifiuto (perché sono giudicati spiacevoli) o di indifferenza.
I nostri giudizi, come si vede, nascono dalie nostre sensazioni.
«La perfezione della virtù» scrive Chuang-Tzu «è prenderci cura della nostra
mente in modo che le emozioni non possano turbarci quando si sa che non si può
più fare nulla, ed essere in pace con ciò che è, con i decreti del destino.»
Ma, nella maggior parte dei casi, possiamo intervenire attivamente e, perciò,
dobbiamo per prima cosa osservare quel che avviene in noi come reazione ai
fatti esterni. Tante sensazioni di ira, di odio o di attaccamento possono essere
accantonate per lasciare il posto a più costruttivi stati d’animo di chiarezza e di
calma, con cui possiamo dar vita a iniziative ben più efficaci.
Per seconda cosa dobbiamo a poco a poco costruirci una visione di saggezza,
che sia in grado nelle varie occasioni di offrirci un senso più positivo - ma
sempre realistico - delle cose. E, per terza cosa, dobbiamo identificare quel
centro profondo dentro di noi che resta equilibrato e non si fa turbare dalle
oscillazioni della mente.
Teniamo presente in ogni momento questo grande potere della nostra volontà,
legato all’osservazione e al controllo della mente; perché - come dice Marco
Aurelio - «colui che non avverte i moti della propria anima, è inevitabile che sia
infelice».
120. L’identità
Come corpo ogni uomo è uno, come anima mai.
HERMANN Hesse

Dobbiamo comprendere come ognuno sia se stesso e gli altri, come l’io sia un
insieme di personalità (ereditate da tutti coloro che ci hanno preceduto), come
l’identità sia qualcosa di necessario ma anche di superabile. «Nei paesi dell’India
antica» scrive Hermann Hesse ne Il lupo della steppa «questo concetto è
assolutamente ignoto, gli eroi dell'epopea indiana non sono persone, ma
conglomerati di persone, serie di incarnazioni.»
Forse l’idea di reincarnazione nasce proprio dalla constatazione che ogni
uomo è un insieme di antenati, che rivivono per così dire in lui. In ognuno di noi
confluisce una parte del padre, una parte della madre, una parte dei nonni, una
parte dei bisnonni e così via… fino a un numero incalcolabile di predecessori.
Quindi è anche possibile che qualcuno abbia ricordi di vite passate.
In tal senso tutti siamo già vissuti parecchie altre volte. Ma ciò non toglie che
la nostra identità attuale, proprio perché è una combinazione particolare di
eredità passate, sia unica e irripetibile.
Il problema non è dunque quello di conoscere ogni componente della nostra
personalità, quanto quello di come atteggiarci nei confronti di questo coacervo di
io.
Dato che - come dice Eraclito - «neppure camminando un’intera vita, potresti
trovare i confini dell’anima», la cosa più importante è identificare il nucleo più
profondo, quello che non appartiene a nessuno…o forse appartiene a tutti.
Si tratta di mettersi un po’ tranquilli e di calmare le attività mentali,
contemplando qualcosa di piacevole: a poco a poco cadranno tutte le domande e
ci accorgeremo che il fondo dell’essere non ha problemi di identità.
Noi non ci arrovelliamo, in realtà, perché non sappiamo rispondere
all’interrogativo: «Chi sono io?», ma perché non riusciamo a trovare un po’ di
pace. Conoscersi non significa soltanto conoscere i pregi e i difetti del proprio
carattere, bensì anche reintegrarsi con il proprio sé essenziale, quel centro
dell’essere che è permeato di benessere e di quiete.
Come dice Nietzsche, «comunque tu sia, utilizza il tuo essere come fonte di
esperienza. Elimina il malcontento su di te e perdonati il tuo io, perché hai
comunque in te una scala con cento gradini, che puoi salire per raggiungere la
conoscenza.»
121. L’arte di tacere
A che cosa serve il silenzio, se le passioni rumoreggiano?
SENECA

Il silenzio interiore, quello di una mente che, come il cuore, è fatta per
funzionare in continuità (anche quando si dorme), non è facile da trovare. Se ci
si fa caso, siamo sempre intenti a pensare o a immaginare qualcosa; siamo
immersi in una specie di monologo o di dialogo interno che non cessa mai, e
spesso, mentre compiamo una determinata azione, ne stiamo pensando un’altra.
Tutto ciò va bene finché il pensiero non si fa ossessivo e negativo: allora
siamo come prigionieri di un incubo.
La nostra mente non smette un attimo di parlare, di dialogare, di riflettere, di
fantasticare, di ricordare, di prevedere, di immaginare, di sognare e così via, e
porta dentro di noi, nel “tempio del nostro spirito”, tutto il chiasso e la
confusione esteriori. Ecco perché non basta recarsi in un posto silenzioso, non
basta starsene soli: è dentro di noi che risuona il rumore del mondo.
Per distenderci veramente, per poter riposare e ritrovare il nostro equilibrio,
per fare un po’ di silenzio interiore, dobbiamo imparare a far tacere questo
chiacchiericcio mentale, dobbiamo recuperare una condizione di spirito che è
anteriore alla parola e al pensiero.
L’assenza di pensieri importuni ci permette di essere completamente presenti
in ciò che facciamo, nell’attimo che viviamo, ed è una grande fonte di serenità,
una vera e propria forma di igiene mentale.
Facendo il silenzio dentro di noi, concentrandoci unicamente sul nostro
respiro o sul calore corporeo o sulla posizione fisica o su qualche oggetto
naturale, ritroviamo il senso perduto del nostro essere, che è ciò che sta prima
delle attività mentali.
In un certo senso è la nostra condizione naturale, ma in un altro senso è la
trascendenza (della mente, del linguaggio): è la trascendenza che tutti possiamo
raggiungere all’interno della nostra esperienza.
La civiltà della parola non poteva che concepire la trascendenza come Verbo.
Ma ciò che è trascendente è appunto al di là del nostro linguaggio e non può
certo essere espresso dai nostri poveri vocabolari.
Per avvicinarsi a esso il modo migliore è il silenzio. Riscoprendo il nostro
essere prima delle parole e dei pensieri, ritroviamo in realtà l’essere tout court.
Il Tao te ching arriva a dire: «Chi sa non parla, chi parla non sa». E un
filosofo dei nostri tempi, Wittgenstein, afferma: «Su ciò di cui non si può parlare
si deve tacere».
Più poeticamente Arturo Graf scrive: «Fa’ silenzio intorno a te, se vuoi udir
cantare l’anima tua».
122. La temperanza
La temperanza è moderatrice, non nemica, dei piaceli.
MICHEL DE MONTAIGNE

La saggezza non può essere nemica dei piaceri, perché troverebbe assurdo
sostenere - come l'anno certe religioni - che la natura sia corrotta o decaduta in
seguito a qualche fantastico “peccato originale”. Queste concezioni nascondono
in realtà un'avversione verso ciò che non si adegua alla volontà e agli schemi
umani. Ma l’errore è proprio lì: nelle pretese della mente. «C’è una misura in
ogni cosa» canta Pindaro «e tutto sta nel capirlo.»
Scrive Montaigne: «L’intemperanza è peste della voluttà, e la temperanza non
è il suo flagello: è il suo condimento». È sbagliato quindi «andare contro i
piaceri naturali, come prenderli troppo a cuore». Bisogna seguire una via di
mezzo, non per questioni moralistiche, ma per assicurare la continuità e la
serenità del nostro godimento.
«Una volta superala la misura» dice Epittelo «non c’è più alcun limite.»
Chi è nemico dei piaceri è in effetti nemico della vita; però, anche chi eccede
finisce per distruggere il fragile equilibrio su cui si basa l’esistenza. «Dove c’è
eccesso, c'è male» afferma icasticamente Quintiliano.
La natura, come una madre saggia, ha stabilito che alcune azioni siano
accompagnate dal piacere, ma ha anche stabilito che non si possa superare una
certa misura: quando la si oltrepassa, è la stessa possibilità di godimento che
viene distrutta.
Non possiamo sostenere che il piacere abbia come scopo la sopravvivenza,
perché questa funzione è svolta anche dal dolore. Si tratta in realtà di due stati
d’animo che segnalano il nostro percorso, come paletti opposti di uno slalom:
quando ci si avvicina troppo veloci, si rischia di finire fuori gara.
La natura ha fissato questi paletti per indicarci la direzione, ma ha anche
voluto che ci si tenga grosso modo su una linea sinusoidale mediana. Quando
conserviamo l’equilibrio, pur tra una sbandata e l’altra, stiamo seguendo la via
giusta.
Dichiara Confucio: «È difficile sbagliare quando si usa la moderazione».
123. L’esperienza
La fede che ripongo in me stesso, in un altro, nell’umanità, nella nostra
capacità di assurgere a piena umanità, implica del pari certezza, ma una
certezza che si fonda sulla mia propria esperienza, non sulla sottomissione a
un’autorità che impone una certa credenza.
EKICH FROMM

In passato, chi deteneva il potere ha sempre fatto di tutto perché gli uomini
fossero sottomessi, perché non pensassero con la loro testa, perché si
conformassero ai modelli che venivano loro imposti. E le grandi religioni
monoteistiche, con la loro esaltazione della fede e dell’ubbidienza, sono state - e
sono tuttora - le grandi ispiratrici di questo modo di intendere i rapporti fra
sudditi e autorità.
«Siate sottomessi alle autorità costituite,» scrive per esempio san Paolo nella
Lettera ai Romani «perché l’autorità viene da Dio e quelle che esistono sono
stabilite da Dio.»
In realtà - come dice Euripide - «l’esperienza per i mortali è maestra di tutto»;
chi dunque la vuole negare ai propri sudditi o ai propri seguaci, svolge un’azione
oscurantista, vuole cioè mantenere nell’ignoranza il prossimo, in modo da
poterlo meglio dominare.
In una civiltà evoluta questo tipo di divisione e di rapporto gerarchico
andrebbe superato, e ognuno dovrebbe rendersi responsabile di se stesso.
Quando infatti si delega l'autorità e la conoscenza ad altri, si perde la propria
autonomia di giudizio e si accetta lo stato di dipendenza: si entra a far parte del
gregge, che ha ovviamente bisogno di un “buon pastore” per essere guidato.
Affidandosi a un maestro, a una guida o a un leader, ci si toglie di dosso un
grande peso: quello di dover decidere da soli, quello dell’incertezza, quello
dell’ansia di sbagliare; si gode quindi di una forma di tranquillità che ci riporta
all’antico rapporto con i genitori, i quali erano responsabili al posto nostro. Molti
provano questo senso di sollievo quando entrano a far parte di una setta, di una
Chiesa, di un partito o comunque di un gruppo dotato di un capo che stabilisce
regole obbligatorie per tutti.
È inutile dire che queste persone rinunciano a crescere e che quindi falliscono
il compito primo dell'esistenza: sviluppare tutte le proprie potenzialità.
Ma soprattutto, affidando ad altri la propria facoltà di giudizio, possono essere
trascinate in avventure che distruggono proprio quella loro tranquillità e spesso
anche le loro vite: è questo il caso dei membri di sette che hanno finito per
suicidarsi o dei regimi totalitari della recente storia europea.
Chi rinuncia alla propria autonomia, chi preferisce la comoda
deresponsabilizzazione, commette sempre quello che potremmo definire un
“suicidio bianco”.
Nella storia delle religioni, solo nel Buddhismo troviamo l’appello a non
fidarsi né dei “testi sacri” né delle “autorità costituite”. E quindi questo
messaggio, al di là del contesto specifico, può essere considerato il “manifesto”
di ogni ideologia di liberazione.
«Non basatevi sul sentito dire,» raccomanda il Buddha «su quanto è stato
tramandato dagli altri, su quanto la gente dice, su quanto la tradizione vi
propone. Soltanto quando arriverete a sperimentare di persona che una dottrina è
valida, che una dottrina -una volta messa in pratica - conduce alla fine della
sofferenza e alla pace, soltanto allora accoglietela.»
124. La mortalità
Per chi creda che non ci sia nulla di temibile nel non vivere non c'è nulla da
temere nel vivere.
EPICURO

Esistono due strategie per affrontare la paura della morte: la prima è quella
abituale di credere in un “aldilà”. Questa fede dovrebbe darci la forza di
affrontare non solo le difficoltà del morire ma anche quelle del vivere.
Tuttavia una simile linea di difesa non dispone di nessuna prova, non può
essere adottata da chi non crede ed è quasi sempre collegata all’idea di una
possibile punizione, magari eterna. Così, alla fin fine, ciò che doveva servire a
proteggere dalla paura è fonte di una minaccia costante; ed è anche per questo
che nelle nostre società si è finito per rimuovere il problema, almeno a livello
superficiale.
La seconda possibilità è quella espressa da Epicuro: «La morte non è nulla per
noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte e quando c'è la morte non ci
siamo noi». Per il filosofo greco, la consapevolezza che la morte non è nulla per
noi ci rende piacevole la mortalità della vita, in quanto ci toglie anche il
turbamento del desiderio di immortalità. «Il saggio» egli dice «non rifiuta di
vivere, né teme di non vivere.»
Il difetto di questa linea di difesa è che si basa anch’essa su un atto di fede.
Proprio come la prima (di cui è l’esatto contrario), non può essere supportata da
nessuna esperienza. Nessuno può essere certo né di un’altra vita né dell’esistenza
di un nulla assoluto.
Esiste però una terza strategia, che ritroviamo più frequentemente in Oriente,
per esempio nel Buddhismo. Qui il problema è di andare al di là tanto del
desiderio di vivere quanto di quello di non vivere, tanto del desiderio di
immortalità quanto di quello di annientamento. Infatti, per il Buddha, è proprio il
desiderio in sé che è all'origine della sofferenza. La condizione ultima, il
nirvana, non è né vita né morte, ma qualcosa che sta al di là delle nostre
categorie dualistiche.
Quest’ultima concezione ha un merito: riporta di nuovo il problema allo stato
della nostra mente; e ci dice che, finché continueremo a pensare in questi termini
alla vita e alla morte, all'“aldiquà” e all'“aldilà”, alla mortalità e all’immortalità,
non potremo evitare né desideri né paure, non potremo uscire dal ciclo dei
condizionamenti.
L'“aldilà” è innanzitutto un superamento della mente, una capacità di uscire
dai pensieri e dai sentimenti dualistici. È da questo tipo di trascendenza,
realizzabile fin d’ora, che svaniscono le domande e le paure sulla vita e sulla
morte.
«Quello che fa veramente soffrire» diceva Pallada «non è morire, ma sapere di
dover morire.»
125. La saggezza
Ti ricordo che bisogna leggere e ascoltare i filosofi con il proposito di
raggiungere la felicità.
SENECA

Questo è in origine lo scopo della conoscenza filosofica e, in realtà, di ogni


scienza: essere utile alla vita di tutti i giorni, permetterci un maggior benessere,
trovare regole di saggezza. Certe astruse dissertazioni, invece, non solo ci
confondono le idee, ma ci fanno anche credere che la comprensione sia qualcosa
di complicato.
«Il linguaggio della verità è semplice» affermava Euripide. Se da una filosofia
non riusciamo a trarre nemmeno una regola di condotta, nemmeno un principio
per migliorare la nostra esistenza, vuol dire che è proprio inutile. A ben vedere,
tutte le varie discipline (filosofiche, scientifiche, religiose, tecniche,
psicologiche, mediche, ecc.), hanno un unico intento: giovare al nostro
benessere.
Se persone di cultura sono incapaci di un minimo di saggezza, di un minimo
di equilibrio, questo significa che le loro conoscenze sono rimaste al semplice
livello epidermico, interessando soltanto la mente.
Una delle grandi degenerazioni della vita moderna è che la cultura insegna a
discutere, a sottilizzare, a contrapporsi e a odiare, ma non a vivere in armonia.
In una civiltà matura, questa dovrebbe essere la vetta della conoscenza.
Scrive Orazio: «Tra le altre cose leggerai i filosofi e chiederai loro con quale
criterio tu possa condurre una vita tranquilla; perché non ti agiti e ti tormenti
l’avidità sempre insaziata, né la paura, né la speranza di cose inutili».
126. La benevolenza
Meglio vanno le cose alle persone che mi stanno intorno, meglio andranno
anche a me.
MIRKO FRYHA

Questo è il motivo “egoistico” per cui è bene amare e aiutare il prossimo.


Siamo in realtà un tutt'uno, siamo come l’equipaggio di un’unica nave: se siamo
in disaccordo, se lottiamo fra di noi per decidere chi avrà il comando, la nave
avrà tutto il tempo percolare a picco. Se invece siamo uniti, potremo andare dove
vorremo. «Dove c'è concordia, c'è vittoria» afferma Publilio Siro.
«L’arte di vivere felici» scrive lo psicologo Mirko Fryba (che è stato monaco
buddhista) «consiste nell’essere liberi di permettere la felicità a noi e agli altri.»
In effetti, la realizzazione di ciascuno di noi è legata alla realizzazione di tutti,
e nessuno può essere veramente felice in un ambiente dove tutti soffrono. Nel
mito buddhista, il Bodhisattva fa voto di non entrare nel nirvana definitivo e di
ritornare sulla Tetra finché tutti gli uomini non si saranno salvati.
Ma per salvare, oppure (più semplicemente) per far felici gli altri, bisogna
prima di tutto liberare se stessi. Come dice Fryba, «le strategie di solidarietà con
una pratica sistematica e un’applicazione concreta nelle situazioni della vita
quotidiana unificano e sviluppano entrambi gli approcci: condividere la felicità
con i nostri compagni di viaggio e coltivare la nostra capacità di felicità».
In altri termini, dobbiamo prima realizzare la nostra libertà e la nostra serenità
se vogliamo far sì che anche gli altri siano liberi e sereni.
Nelle parabole buddhiste si ripete spesso il concetto che un cieco non può
guidare un altro cieco: cadrebbero, infatti, tutte due in un fosso.
Così è per la serenità e per la saggezza: se uno non le ha in sé, non è in grado
di comunicarle agli altri.
«Il mondo è un’unica creatura vivente,» scrive Marco Aurelio «costituita di
un’unica sostanza e di un’unica armonia.» E prosegue: se voglio contribuire a
salvarlo, devo incominciare proprio da me, devo incominciare a produrre in me
la calma e la pace.
«Tutto ciò che è in armonia con l’universo» dice ancora l’imperatore filosofo
«è in armonia anche con me.» La frase però può essere rovesciata: tutto ciò che è
in armonia con me e in me è in armonia con l'universo. Un detto taoista - che
andrebbe meditato - ci pone il seguente interrogativo: «Siamo convinti di dover
combattere e sconfiggere gli altri: ma è meglio vincere o essere amati?».
127. La meditazione
Qualsiasi cosa ti riconduca a te stesso è meditazione. Ed è importantissimo
trovare la propria meditazione, perché in quella scoperta sarai felice.
OSHO RAJNEESH

Non può esserci vera felicità se non si è in armonia con se stessi; e, se si è in


armonia con se stessi, non solo si possono affrontare con successo le varie
difficoltà della vita, ma si è anche in grado di amare veramente qualcun altro.
Ecco perché è importantissimo curare quell’incontro periodico con se stessi
che chiamiamo meditazione.
Ogni volta che ritorniamo a noi stessi, in un momento di raccoglimento,
riscopriamo una gioia naturale che le vicende dell’esistenza tendono a offuscale.
Questa fonte di benessere e di equilibrio è sempre a nostra disposizione e, per
recuperarla, basta diventare per un po’ osservatori di noi stessi, rallentando il più
possibile ogni altra attività mentale.
Dice il Buddha: «Siediti con le gambe incrociate e il busto eretto, e poni la tua
consapevolezza davanti a te».
Ci si può concentrare sul respiro (mentre passa dalle narici o mentre muove i
polmoni, il torace e il ventre), sul calore corporeo, sulla propria mente, sui
pensieri che vanno e che vengono (come nuvole in un cielo terso), su un oggetto
naturale o su una preesistente sensazione di quiete.
Questa pratica può restituirci quel rapporto con noi stessi e quell’equilibrio
che la frequentazione con gli altri e le esigenze della vita quotidiana tendono a
farci perdere. Non abbiamo bisogno di recarci ogni volta in un ambiente naturale
e rilassante: possiamo ritrovare in ogni istante quella parte della natura che è
dentro di noi, quel centro dellessere che è sempre calmo.
«Poiché tutto quel che è e avviene per l’uomo è immediatamente solo nella
sua coscienza e per essa avviene,» scrive Schopenhauer «è evidente che la
qualità della coscienza è essenziale.»
Noi ci dimentichiamo sempre di questa semplice verità e trascuriamo la
“qualità” della nostra consapevolezza: perdiamo la cosa essenziale per dedicarci
ad altre attività, per inseguire ambizioni e sogni. Non è forse questo il senso del
mito biblico della “caduta”?
«Mi chiedi che cosa fare per meditare» dice Rajneesh. «Ti dico di non fare
assolutamente nulla. Osserva consapevolmente il tuo respiro.»
128. II ritiro
Non è facile ottenere la felicità: è difficilissimo trovarla in noi, impossibile
scoprirla altrove.
NICOLAS DE CHAMFORT

La felicità cui allude Nicolas de Chamfort non è naturalmente quello stato


epidermico di euforia che si può provare ogni tanto in conseguenza di qualche
avvenimento fortunato, ma uno stato di benessere e di serenità che si prolunga
nel tempo e che dipende in gran parte dalla nostra volontà.
È difficilissimo trovare in noi la felicità proprio perché andiamo a cercarla in
ogni altro luogo. C'è gente che si affatica tutta la vita per accumulare soldi con
cui comprarsi una villa o un panfilo, e qui trovare finalmente un po’ di pace. Ma
quella pace avrebbe potuto trovarla in ogni momento dentro di sé se soltanto
avesse interrotto, per qualche momento, quell’attività forsennata.
«Alcuni vanno alla ricerca di luoghi in cui ritirarsi, in campagna, al mare o sui
monti, e anche tu hai l’abitudine di desiderare ardentemente tutto questo» scrive
Marco Aurelio. «Però è quanto mai sciocco, dato che puoi, in qualunque
momento tu lo voglia, ritirar ti in te stesso. Perché in nessun luogo più tranquillo
e calmo della propria anima ci si può ritirare; soprattutto se si hanno dentro di sé
principi tali che, al solo contemplar li, si acquista una perfetta serenità.
«E per serenità non intendo altro che ordine interiore. Concediti quindi
costantemente questo ritiro e in esso rinnovati».
129. Paradiso e inferno
In realtà quei tormenti che attribuiamo al più oscuro inferno sono tutti qui
nella vita.
LUCREZIO

Paradiso e inferno sono condizioni spirituali sempre presenti e divise soltanto


da un sottile capello. Certi tormenti dell’anima sono già l'inferno e certe gioie
sono già il paradiso.
Non ci vuole molta fantasia a capire che noi, quando parliamo di un’“altra
vita”, ci riferiamo sempre e soltanto a questa esistenza: non abbiamo nessun
altro termine di paragone.
Quando ci innamoriamo o vinciamo alla lotteria ci sentiamo certamente “al
settimo cielo”; ma, quando la persona amata sceglie un altro o qualcuno ci
deruba del nostro patrimonio o un medico ci dice che abbiamo un cancro, ecco
che precipitiamo nella disperazione.
Questi sentimenti dipendono da fattori esterni. Esistono però particolari
condizioni psicologiche, vere e proprie malattie della mente, che ci fanno
provare angosce e sofferenze forse non inferiori a quelle dell'inferno. I tormenti
dell’anima sono infatti innumerevoli, profondi e spesso rendono insopportabile
la vita. Non ci sono solo le nevrosi e le psicosi, che almeno possono essere
diagnosticate; ci sono anche stati di ansia, di depressione, di malinconia, di
sconforto, di paura, di invidia, di rancore, di avidità, ecc., che si traducono in un
malessere continuo.
Queste condizioni di sofferenza bruciano gran parte della nostra esistenza e si
ripercuotono inevitabilmente sul corpo.
Esiste però una via di uscita: quello che la mente crea, la mente può disfare.
Se sviluppiamo una consapevolezza dei nostri stati d’animo, ci accorgiamo
che spesso non esiste corrispondenza fra eventi esteriori e riflessi interni: un
fatto di scarsa rilevanza può scatenare una tempesta interiore, e un fatto che per
un altro o in un altro momento sarebbe importante ci lascia indifferenti. Tutto
dipende dalla nostra adesione o meno a quell’avvenimento, dal significato e dal
valore che assume per noi.
Lavorare sull’interiorità significa comprendere la centralità della mente,
tenerla sotto osservazione e intervenire tempestivamente per regolarla.
In un primo momento dobbiamo riconoscere ai fatti l’importanza reale che
hanno, né più né meno. In un secondo momento dobbiamo diventare noi i veri
controllori della coscienza, imparando a spostare l’attenzione dove più ci
aggrada.
Come dice il Dhammapada, «precorsi dalla mente sono gli elementi, originati
dalla mente, creati dalla mente: chi parla o agisce con mente serena, la felicità lo
accompagnerà aderente come un’ombra».
130. Il morire
Moriamo ogni giorno un po': ogni giorno infatti viene meno una parte della
nostra vita e, anche mentre noi cresciamo, la vita decresce.
SENECA

Seneca vuol dire che la morte è qualcosa di familiare, qualcosa che


sperimentiamo giorno dopo giorno.
Ci sbagliamo quando «crediamo che ci segua, mentre essa ci ha preceduto e ci
seguirà». Dopo di noi - spiega lo scrittore latino - ci sarà quello che c’era prima:
il puro e semplice non esistere. E, poiché prima non abbiamo sofferto, non
soffriremo nemmeno dopo.
Anzi, «prima e dopo c'è una profonda tranquillità».
Tuttavia Seneca non rileva che esiste una differenza tra il “non esistere prima”
e il “non esistere dopo”: c'è stato un mutamento nel tessuto delle cose. E come
“prima” era impossibile che ci fosse un nostro “non esistere” assoluto (dato che
esistevano altre cose e dato che dal nulla non può nascere qualcosa), così “dopo”
sarà impossibile che segua un nostro “non esistere” assoluto, dato che ci sarà un
“non esistere-più-quella-determinata-cosa”.
Qualcosa è indelebilmente cambiato, qualcosa è stato registrato per sempre, e,
tinche esisteranno le cose, resterà la sua traccia.
In realtà, proprio perché la morte ci accompagna fin dal primo istante di vita,
proprio perché moriamo ogni giorno un po’, il vivere/morire va visto come un
processo simultaneo in cui una polarità diminuisce mentre l’altra aumenta: un
processo che ha due punti estremi - il nascere e il morire - ma che, non per
questo, deve necessariamente iniziare e finire in questi due momenti.
Noi vediamo semplicemente l’apparire e lo scomparire di una fase di questo
processo; ma come prima c’erano altre fasi che lo hanno posto in essere, così
dopo ne seguiranno altre, ora non visibili.
Dall'esercizio della meditazione e dell’equilibrio mentale, nasce una visione
non più drammatica della morte.
«Ogni giorno è una piccola vita,» scrive Schopenhauer «ogni risveglio e
levata una piccola nascita, ogni nuovo mattino una piccola giovinezza, ogni
coricarsi e addormentarsi una piccola morte.»
131. La conoscenza dell'anima
Chi ha una qualche conoscenza della natura dell'anima e considera che con
la morte essa passa a una condizione migliore, o almeno non peggiore, ha la
mancanza di paura di fronte alla morte come viatico non piccolo verso la
serenità interiore.
PLUTARCO

Qui Plutarco sottolinea l’importanza che riveste, per la serenità interiore,


l’idea che noi ci facciamo della morte e del morire. E la collega giustamente alla
conoscenza dell’anima, cioè a un’esperienza che possiamo lare fin da ora.
Conoscere l’anima non significa in questo caso analizzare, esaminare,
apprendere pregi e difetti, ma avere una dimestichezza, un continuo rapporto,
con il proprio essere; significa sottoporlo al fuoco della consapevolezza, fino a
installarsi saldamente in esso, fino a essere convinti - come direbbe Kierkegaard
-del suo “eterno valore”.
Non serve a niente accettare dall’esterno una fede o una credenza
sull’“immortalità dell’anima”: bisogna in realtà percepirla, sentirla. Una
semplice opinione non dà nessuna sicurezza.
Cogliere questo “centro di sé” non è semplice, perché è un po' come cercare di
afferrare la propria ombra. Esso è ciò che le Upanisad chiamano il “testimone” o
l'“osservatore”.
Essendo ciò che conosce, non può a sua volta diventare oggetto di
conoscenza… di una conoscenza discorsiva normale. Può solo essere intuito: si
può solo esserlo.
A questo serve la meditazione, che non pone l’abituale contrapposizione
soggetto/oggetto, ma una forma di identificazione odi reintegrazione. Nel
momento in cui, lasciando da parte ogni altra attività mentale e ogni altra
identificazione con questo o quel ruolo, con questo o quell’io, si punta
direttamente al centro del proprio essere, «nascosto proprio qui nel cavo del
cuore», lo si diventa: si diventa il proprio sé, la propria anima, l'“interiorità
universale”.
È a questo punto che scompaiono le paure, i dubbi e le divisioni, e si riscopre
l’armonia.
Scrive Rajneesh: «Scoprire l’osservatore nella sua purezza è la più alta
realizzazione nella sfera della spiritualità, perché l’osservatore che esiste dentro
di te è la tua stessa anima, l’osservatore che esiste dentro di te è la tua
immortalità».
132. L’ego
Vivere intensamente si può soltanto a scapito dell’io.
HERMANN HESSE

Di solito a questa frase viene dato un significato negativo: chi insegue


emozioni, passioni e piaceri, lo può fare solo se rinuncia al controllo del proprio
io. Invece chi si installa in una «zona temperata e sana, senza burrasche e
temporali» deve rinunciare a «quell’intensità di vita e di sentimento che offre
un’esistenza rivolta all’assoluto e all'estremo».
Così si esprime Hermann Hesse ne Il lupo della steppa, dove delinea la
contrapposizione fra due tipi di esistenza: «L’uomo ha la possibilità di darsi tutto
allo spirito, al tentativo di avvicinarsi alla divinità, all’ideale della santità»,
oppure «può darsi tutto alla vita istintiva, al desiderio dei sensi e rivolgere tutte
le sue aspirazioni all’acquisto di piaceri fugaci».
In realtà questi due sistemi di vita sono compresenti in tutti e sono solo
apparentemente antagonisti: sono le due polarità di un unico processo che porta
lo stesso individuo prima a essere un gaudente e poi a essere un asceta, o
viceversa; hanno comunque in comune la stessa volontà di emozioni estreme.
Quando ci troviamo di fronte a una personalità che oscilla vistosamente da un
opposto all’altro, abbiamo a che fare con l’individuo infantile che popola il
nostro mondo: egli non è capace di restare fermo cinque minuti, né fisicamente
né mentalmente; è assetato di esperienze, che però continua a ripetere sempre
uguali, compulsivamente, spostandosi da un estremo all’altro.
Ed è convinto - disprezzandosi - che la via della religione e della santità sia
quella della rinuncia, l'esatto opposto della sua.
Ma si tratta di luoghi comuni di una stessa mente, che prima cerca la
realizzazione in un eccesso e poi nell’eccesso opposto. E come non è autentica
nell’edonismo, così è falsa nell’ascetismo.
Il problema è che la serenità si trova in una via di mezzo mobile tra i due stili
di vita: è la via dell’equilibrio, è la via di una mente che si è fatta calma e
limpida, non perché ha rinunciato a una parte di sé, ma perché riesce a conciliare
e a vivere pienamente le esperienze che sembravano contraddittorie. In tal senso
essa ha raggiunto la piena maturità, la piena armonia.
A questo punto l’individuo reintegra il proprio “io diviso” e realizza la propria
umanità, lasciandosi alle spalle le ambizioni di diventare un Casanova o un santo
eremita. Non è più al servizio di pezzi separati del proprio ego, ma si è installato
nel sé.
«All’inferno brucia soltanto la volontà egoica» è scritto nell’antico libretto
della Teologia germanica.
La saggezza non rinuncia né ai piaceri né alla spiritualità, e non vede un
contrasto fra le due dimensioni. Questo conflitto è una creazione della mente,
che ama dividere e contrapporre, che non è capace di cogliere l’unità dei
fenomeni, che crea l’idea di ego e vi si identifica.
La frase di Hermann Hesse può essere allora interpretata in modo diverso:
vive intensamente, vive veramente chi si è sottratto alla tirannia della mente, la
quale è dominata dalle idee dualistiche, dalla convinzione che vi sia una lotta
mortale fra princìpi contrapposti.
L’uomo immaturo crede di dover diventare “grande”, di dover conquistare e
acquisire ogni cosa. In realtà soffre di un’ipertrofia dell’ego.
«Ti sei sottratto a tanti mali» scrive Seneca «ma non ancora a te stesso.»
E Chuang-Tzu afferma: «Il saggio è senza io».
133. Gli ideali
Tutti i veri ideali hanno un elemento in comune: esprimono il desiderio di
qualcosa che non è ancora realizzato, ma che è desiderabile ai fini dello
sviluppo e della felicità dell’individuo.
ERICH FROMM

La differenza tra un ideale sano e un’ambizione sbagliata è che il primo


promuove la libertà e la serenità della persona tenendo conto anche degli altri,
mentre la seconda è guidata dalla volontà di dominio egoico. In altri termini, il
primo tende alla realizzazione delle potenzialità proprie nel contesto di quelle
altrui, mentre la seconda vede nelle libertà degli altri una minaccia alla propria.
Tutti cerchiamo di realizzare la nostra personale via alla felicità, ma c’è
qualcuno che intende farlo distruggendo la libertà altrui.
E questa aggressività che è responsabile della lotta tra uomini: quando va
bene, porta alla competizione, alle strutture gerarchiche e alle divisioni sociali e,
quando va male, porta alla guerra. Il problema è che il temperamento egoico-
aggressivo tende a concretizzare nella realtà la propria volontà di dominio,
elaborando sistemi sociali, ideali e comportamentali di tipo autoritario; e quindi
è inevitabile che susciti la reazione di chi non vuole sottomettersi.
I conflitti tra uomini nascono in realtà dai dissidi interiori di ciascun
individuo, dall’infelicità di alcune persone, che, non essendo capaci di
sviluppare una propria armonia, scaricano all’esterno l’aggressività. I grandi
leader sono spesso individui di questa specie. Chi è in pace con se stesso, non
sente il bisogno di conquistare e di sottomettere gli altri: ecco una verità su cui
non si riflette mai abbastanza.
E, dunque, più che i programmi in se stessi, bisogna esaminare la psicologia di
chi li propone. Anche le grandi personalità religiose soffrono di questi limiti, che
talora sfociano in ideali ambiziosi di “conversione” del mondo e talaltra in ideali
altrettanto morbosi di sacrifici, di rinunce e di martiri.
Per avere un’umanità equilibrata, che ponga finalmente fine ai conflitti e alle
guerre, ci vorrebbe una sorta di psicoterapia universale. Poiché ciò non è
possibile, non ci rimane che affidarci alle risorse della cultura e dell’autoanalisi.
Purtroppo l’appello alla meditazione non può essere accolto proprio da chi ne
avrebbe più bisogno. Bisogna quindi far capile a tutti quali siano gli autentici
valori da diffondere: non quelli della supremazia e della competitività, ma quelli
della quiete e dell’equilibrio.
Degli ideali bisogna infatti dire ciò che Herbert Spencer scriveva
dell’opinione: «È determinata in ultima analisi dai sentimenti, e non
dall’intelletto».
134. La coerenza
Libero è l’uomo per cui ogni avvenimento si verifica in armonia con la scelta
morale fondamentale, che nessuno può cancellare.
EPITTETO

Qui Epitteto ci dice che l’uomo libero è colui che sceglie una vita etica e che,
da quel momento, agisce sempre con coerenza rispetto a questa sua scelta; è
l’individuo che non si fa intimidire dai prepotenti, che resiste agli ambiziosi e ai
violenti, e che denuncia la falsificazione della verità.
A lui si contrappone non tanto quello che Kierkegaard definirebbe l’“uomo
estetico” (la persona che vive solo per il proprio piacere), quanto l’opportunista,
colui che non ha nessun principio, colui che è pronto a cambiare qualsiasi
bandiera, qualsiasi ideale, qualsiasi padrone, pur di restare a galla, pur di godere
dei propri beni e dei propri privilegi.
Questo individuo è convinto che il valore di un uomo sia dato dal ruolo o dalla
posizione che occupa. Non condividerebbe mai ciò che scrive Schopenhauer: «Il
nostro valore, morale come intellettuale, non ci perviene dall’esterno, ma
scaturisce dal profondo del nostro essere». Per lui, tale “essere profondo” non
esiste: esiste soltanto ciò che gli altri riconoscono.
Quest’uomo, che crede di essere libero, è in realtà l’ultimo degli schiavi,
perché ha mille padroni. Non avendo una guida interiore, si fa dirigere dalle
opinioni altrui e dal leader di turno. È come una banderuola al vento, che finisce
per girare in tutte le direzioni, senza mai capire se ve ne sia una giusta, senza mai
tenere in mano il bandolo della propria vita.
«È l’animo che dà valore a ogni cosa» dice Seneca.
E Orazio dichiara: «Libero è solo il saggio, perché solo il saggio è padrone di
sé».
135. Le scoperte
Sembra che la natura abbia nascosto nel fondo del nostro spirito talenti e
abilità che non conosciamo; solo le passioni riescono a scoprirli.
FRANCOIS DE LA ROCHEFOUCAULD

Dunque non è vero che le passioni - tanto aborrite dalla saggezza antica -
siano soltanto sconvolgimenti dell’animo che mettono in crisi la nostra
tranquillità. In realtà sono anch’esse fonti di una profonda saggezza: sono
esperienze che possono mettere in luce doti e aspetti del nostro carattere che non
credevamo di possedere, e anche difetti da cui pensavamo di essere esenti.
Magari credevamo di non poter superare certe prove, e poi scopriamo che
possiamo farlo; magari pensavamo di essere superiori all'invidia e alla gelosia, e
poi scopriamo che ne soffriamo come tutti gli altri. «Finché si vive, c'è da
imparare» diceva Solone.
In tal senso, le passioni vanno viste come cartine di tornasole, come potenti
strumenti di conoscenza: ci spalancano all’improvviso nuovi campi della realtà,
ci offrono nuovi spunti di riflessione e di crescita. Talvolta ci illuminano e ci
riscaldano, talaltra ci devastano; ma sono comunque fonti di arricchimento.
Quando usciamo da esperienze di questo genere, sappiamo molte più cose, su
di noi e sul mondo. Abbiamo capito, senza bisogno di libri e di insegnanti. La
nostra consapevolezza si è allargata. Dopo essere discesi dal cielo o risaliti
dall’inferno, possiamo tornare alla realtà di tutti i giorni, con una diversa visione
delle cose.
«La verità è che tutte le passioni umane, sia “buone” sia “cattive”,» scrive
Erich Fromm in Anatomia della distruttività umana «possono essere intese
soltanto come il tentativo di un individuo di dare un senso alla propria vita, di
trascendere le pure e semplici esigenze di sussistenza. Un cambiamento di
personalità è possibile soltanto se egli è in grado di “convertirsi”: di trovare cioè
un modo nuovo di dare un senso all’esistenza mobilitando le passioni che
incoraggiano la vita, sperimentando così un senso di vitalità e integrazione
superiore a quello che aveva prima.»
136. La completezza
Bisogna ammettere che, per vivere felici nel mondo, dobbiamo completamente
paralizzare alcuni lati della nostra anima.
NICOLAS DE CHAMFORT

Se ciò avviene, saremo forse “felici nel mondo”, ma non dentro di noi. «Colui
che tu definisci meno felice» dice Seneca «non è affatto felice: questa parola non
ammette diminuzioni.»
È vero che non possiamo caricarci delle pene e delle sofferenze di tutti gli
uomini, è vero che dobbiamo rivestirci di una “scorza dura” e mantenere un
certo distacco dalle cose, ma non dobbiamo per questo irrigidire la nostra anima.
Se “paralizzeremo” alcuni lati del nostro essere, avremo un io ridotto a
compartimenti stagni. Sarà come possedere una Ferrari di cui potremo usare so
lo un paio di marce. E così falliremo il nostro compito: quello di dispiegare tutte
le nostre possibilità, quello di vivere con completezza.
Se le esigenze della vita sociale ci portano a queste compartimentazioni,
dobbiamo fare in modo che non siano definitive: dobbiamo cioè continuare a
mantenere vive dentro di noi quelle zone e quelle facoltà che siamo stati costretti
a paralizzare. Possiamo alimentare questi piccoli o grandi orti della nostra anima
curandoli e innaffiandoli con dosi di consapevolezza. Nessuno, oltre a noi, è in
grado di impedirci questa operazione, che ci mantiene aperti e sensibili.
«La differenza tra il semplice esistere e il vivere la vita» afferma Rajneesh «è
tanto grande quanto la differenza tra morire e vivere.»
137. Il non fare
Il saggio non si sforza di agire, eppure non c'è niente che egli non faccia.
CHUANG-TZU

Non si tratta di un invito a non far niente, a starsene in ozio. «È inutile agire in
contrasto con le proprie inclinazioni naturali» dice Seneca, enunciando la prima
regola. Ma non bisogna neppure sforzarsi di agire nei momenti inopportuni:
questa è la seconda regola.
Dobbiamo cercare di agir e in accordo con la natura e con il corso delle cose,
dobbiamo imparare a “meditare” le nostre iniziative.
“Meditare” le proprie iniziative significa tastare il polso della situazione,
significa diventare più sensibili: capire quando è il momento di muoversi e
quando è il momento di attendere.
È inutile illudersi che ci siano criteri fissi. «Chi tende a riposare troppo deve
essere più operoso» dice ancora Seneca. «Chi lavora troppo deve trovare il
tempo per riposare. Tu comportati secondo natura che, come ben sai, ha fatto sia
il giorno sia la notte.»
Dunque bisogna essere flessibili e attenti: esiste un rapporto tra lare e non lare,
tra movimento e immobilità, tra attività e passività; un rapporto che è variabile e
che va continuamente osservato e seguito.
Il problema non è solo quello del ritmo tra azione e non azione, bensì anche
quello della tempestività e dell’efficacia di ciò che andiamo facendo. Il saggio
non è colui che stringe i denti e s’impegna fino a scoppiare; è invece colui che
compie ciò che deve fare senza sforzo, con naturalezza: ecco il vero obiettivo.
«II Tao è sempre privo di sforzo» dice Lao-tzu, esprimendo proprio questo
concetto «eppure compie ogni cosa.»
Questo è l’esempio da imitare: l’abile azione che va diritta alla meta senza
dover violare o costringere: un’azione agile e paziente, cui in realtà niente può
opporsi. Scoprire un simile modo di fare e di non fare significa trovare l’intima
ragione delle cose, il loro ritmo interno, e muoversi all’unisono.
Ciò è possibile se si prende periodicamente la distanza da tutto quel che si
muove e agisce, se si calmano le proprie attività esterne e interne e se ci si mette
semplicemente a osservare, a contemplare.
Trovando il proprio centro, ci si pone in armonia con gli eventi. E da questa
calma scaturisce la giusta ispirazione ad agire, a intraprendere quelle iniziative
che saranno a loro volta in accordo con i movimenti circostanti.
«Pratica il non agire, sforzati di non sforzarti» dice ancora paradossalmente
Lao-tzu. «Chi forza distrugge, chi afferra perde.»
138. Al di là del bene e del male
Ciò che si fa per amore si pone sempre al di là del bene e del male.
FRIEDRICH NIETZSCHE

È un dato di fatto, non un giudizio etico. Ma, proprio per questo, dà


enormemente fastidio a chi vorrebbe che il mondo rispondesse a certe ristrette
regole morali. La realtà è invece al di fuori delle nostre contrapposizioni di bene
e di male, di giusto e di ingiusto, di buono e di cattivo, e quindi noi continuiamo
a operare con semplici convenzioni.
Le nostre categorie etiche hanno lo stesso valore e la stessa funzione degli
articoli del codice stradale: sono utili, ma relative; servono a regolamentare la
circolazione nel formicaio umano, ma non possono pretendere di avere un valore
assoluto.
Questa constatazione mette in crisi, in particolare, coloro che credono che le
nostre leggi morali abbiano un’origine divina. In effetti è la nostra mente
dualistica che proietta nel mondo i propri limiti e i propri conflitti. Perché se è
vero che i nostri princìpi ci permettono di dare un ordine alla società umana, è
anche vero che sono all’origine della lotta senza fine che la contraddistingue.
Proprio l’amore, che è il fondamento della vita, si rivela una forza refrattaria
alle nostre convenzioni: può costruire le famiglie ordinate, ma può anche
distruggerle. È un sentimento istintivo, “barbaro”, naturale, che non rispetta
nessun codice. Come dice Menandro, «non è facile badare alle convenienze
sociali quando si è innamorati».
Certo, spetta a noi la scelta morale, ma spesso questa scelta è tanto più etica
quanto meno è moralistica.
Domandiamoci: è più morale mantenere in piedi un matrimonio senza amore
o mandare all’aria tutto e vivere la propria vita autenticamente? È più morale un
rapporto formalmente approvato dalla società, ma privo di vera gioia, o un
rapporto che, pur essendo al di fuori delle convenzioni, fa la felicità
dell’individuo?
Non si può rispondere con sicurezza, non si può stabilire un criterio rigido:
bisogna valutare i pro e i contro della varie situazioni. Ma questo ci dice che
amore ed etica possono non avere niente in comune, possono essere divergenti;
ovvero che l’amore ha una sua trascendenza, che ha poco a che lare con le nostre
idee di bene e di male.
Bisogna riflettere su questi problemi se non vogliamo finire al di fuori di
un’etica autentica e rimanere prigionieri di un “moralismo immorale”. Il mito
biblico della “caduta” dal paradiso terrestre ci dice esattamente la stessa cosa: la
prima coppia infrange la legge divina unitaria nel momento in cui mangia il
frutto dell’“albero della conoscenza (dualistica) del bene e del male”.
Analogo concetto è espresso da Lao-tzu quando scrive: «Quando tutti
riconoscono il bello come bello, questo è brutto. Quando tutti riconoscono il
bene come bene, questo è male. Quando la Grande Via decade, nascono i valori
della bontà e della giustizia».
139. L’autenticità
Il piacere può basarsi sull'illusione, ma la felicità riposa sulla verità. Solo la
verità può darci ciò di cui la natura umana è capace.
NICOLAS DE CHAMFORT

Questo succede perché la felicità nasce solo dall’autenticità, ossia da una


corrispondenza fra ciò che siamo e le nostre azioni. Se non siamo autentici, se
non siamo noi stessi, anche le gioie riguarderanno non il nostro essere, ma una
specie di simulacro che ci portiamo addosso.
Il piacere può essere ovviamente presente in ogni stato, anche nel più falso;
però non è in grado in questo caso di superare la superficie e di penetrare nel
fondo dell’animo, là dove si irradia come una luce calda e confortevole.
I simulacri, le maschere, non possono essere felici, perché non hanno nessuna
interiorità. Le loro gioie, come i loro dolori, saranno volubili e passeggeri.
Faranno baldoria quando le cose andranno loro bene, e cadranno nella
depressione appena andranno male. Non avendo un centro stabile, saranno in
balia di un’alternanza vertiginosa di emozioni.
Al contrario, l’uomo che ha sviluppato e consolidato una propria interiorità,
riuscendo ad agire in armonia con le proprie disposi/ioni naturali e con le proprie
scelte, disporrà di una serenità che nessuno potrà togliergli.
«Considerati felice» scrive Seneca «soltanto quando ogni gioia nascerà dal tuo
intimo.»
140. Il rinnovamento
Il giovane deve lare le sue prove, il vecchio goderne i risultati, dicono i saggi.
E il più grande diletto che notano nella nostra natura è che i nostri desideri
ringiovaniscono senza posa. Noi ricominciamo sempre a vivere.
MICHEL DE MONTAIGNE

La differenza fondamentale tra saggezza antica e saggezza moderna sta


proprio in questa diversa valutazione dei desideri. Mentre nell’antichità si
vedeva nel desiderio la Ionie di ogni schiavitù, oggi si rivaluta la sua funzione,
soprattutto nella terza età; e semmai si distingue fra desideri naturali e autentici,
e desideri fittizi, creati dalle esigenze commerciali e dal consumismo.
In realtà, un uomo senza desideri non diventa ipso facto un saggio; molto più
spesso diventa un depresso.
Il “ringiovanimento dei desideri” non è dunque qualcosa di negativo, ma è al
contrario il segno che - come scrive Montaigne - «noi ricominciamo sempre a
vivere». L’età dovrebbe semmai portare all’operazione descritta da Plutarco:
«Come nei buoi e nei cavalli si cerca di eliminare gli scarti e i morsi, ma non i
movimenti e le energie, così la ragione utilizza le passioni domate e rese
mansuete».
Il problema nasce perché, quando si parla di desideri, si pensa subito al sesso,
al denaro e al potere. Ma esiste anche il desiderio di apprendere e di conoscere,
quello di esprimersi e di comunicare, quello di essere utili a qualcuno o, ancora
più semplicemente, quello di assistere alla crescita di altri individui o di altre
forme di vita.
Non è vero che, rinunciando alle passioni, si possa vivere di più; è piuttosto
vero il contrario, dato che vivere è anch’esso una grande passione.
Dice Rousseau ne Le confessioni: «Ecco la mia storia: le mie passioni mi
hanno fatto vivere, e le mie passioni mi hanno ucciso».
141. L’innocenza
La via verso l’innocenza, verso l’increato, verso Dio non è un ritorno, ma un
proseguire, non porta verso il lupo o verso il fanciullo, ma sempre avanti nella
colpa, sempre più addentro nel divenire dell'uomo.
HERMANN HESSE

Quando Gesù dice che per entrare nel regno dei cieli dobbiamo diventare
come bambini, quando il Taoismo ci raccomanda di tornare allo stato di “legno
grezzo” o quando lo Zen ci invita a riscoprire il nostro “volto originario”, non
intendono farci regredire a una condizione infantile, non ci impongono di
rinunciare alla nostra esperienza di adulti.
Oltretutto, nessuno può veramente tornare indietro: tutto ciò che abbiamo
vissuto, le conoscenze accumulate, non può essere cancellato se non annientando
il nostro stesso essere.
Il problema non è quello di spogliarci, di depauperarci: le esperienze, anche
quelle negative, sono sempre una ricchezza. Il problema è quello di
approfondire, di assimilare e di proseguire oltre.
Ciò che più ritarda la nostra evoluzione è la ripetitività: anziché andare avanti,
giriamo in tondo, senza mai lare un passo avanti. È penoso vedere persone di una
certa età che continuano a compiere gli stessi errori (per esempio sposare più
volte lo stesso tipo di donna o di uomo, e poi divorziare): è la dimostrazione che
non conoscono se stessi, che non hanno capito che cosa e chi faccia per loro.
La difficoltà a maturare, a imparare, deriva dall’incapacità di riflettere; allora
si compiono esperienze che non vengono assimilate, che non giungono a
costituire una visione saggia dell’esistenza.
È quindi necessario fermarsi ogni tanto a riesaminare ciò che si sta facendo, a
osservare se non si ripetono compulsivamente sempre le stesse azioni. In questi
casi c'è bisogno di un salto di qualità.
La nostra vita è contraddistinta proprio dalla ripetitività ciclica di certe
esperienze basilari, che rimangono per lungo tempo sempre le stesse. Ma, a un
certo punto, incominciamo a desiderare qualcosa di diverso, qualcosa di più:
siamo come farfalle in procinto di subire una metamorfosi.
Per un po’ crediamo di dover tornare indietro, di dover recuperare
un’esperienza perduta. In realtà stiamo solo assimilando il passato.
Se non vogliamo regredire a stadi vegetativi, non ci resta che andare ancora
più avanti, lasciandoci alle spalle senza tanti rimpianti ciò che siamo stati.
Intraprendiamo allora una nuova fase della vita, che è appunto un «inoltrarsi
sempre più addentro nel divenire dell’uomo».
Scrive Kierkegaard: «L’innocenza non è una perfezione di cui si debba
desiderare il ritorno; infatti desiderarla significa che la si è già perduta, ed è un
nuovo peccato perder tempo a desiderarla».
142. L’essere
Renditi conto d’aver dentro di te qualcosa di più folle e divino di ciò che
genera le passioni e ti muove come un burattino.
MARCO AURELIO

Il percorso verso la “realizzazione di sé” deve passare necessariamente per


questo punto che si trova al centro dell’essere. È nella calma e nel silenzio che
possiamo trovarlo.
«La sfera dell’anima resta fedele alla sua forma» scrive Marco Aurelio
«quando non si protende verso un oggetto esterno né si muove verso un oggetto
interno, quando non si disperde né si deprime, ma brilla della luce grazie a cui
vede la verità di tutte le cose e quella che racchiude in sé.»
Quando nella meditazione si riesce a identificare e a sperimentare questa
condizione, si scopre che non siamo soltanto un coacervo di forze e di impulsi
contrastanti, specie di burattini manovrati da fili esterni, ma che abbiamo una
dignità, una nobiltà, qualcosa che definiamo spirituale o divino. È per questo che
san Giovanni della Croce arriva ad affermare: «Il centro dell’anima è Dio».
Ma non è vero che siano le passioni a oscurarlo. Ciò che lo opprime è la
quotidianità, il disinteresse, la noia, le inutili preoccupazioni, le strettoie della
vita materiale. «Tu sei Dio, ma non lo sai» dichiara Nisargadatta, un maestro
moderno del Vedanta. E il Buddhismo, di fronte alla domanda: «Che differenza
c’è tra un illuminato e un uomo comune?» risponde: «Nessuna, ma l’illuminato
sa di esserlo».
Non si tratta di megalomania: l'uomo non si sente divino quando compie cose
straordinarie o miracoli, ma quando si coglie nella propria essenzialità, nella
propria nudità.
Rendersi conto di questo puro essere significa prender coscienza anche della
propria trascendenza, ossia di una condizione che è al di là delle opinioni della
mente, delle oscillazioni del desiderio, della paura e delle contingenze temporali.
«Non il nostro essere in sé,» scrive Schopenhauer «bensì solo la sua parvenza
fenomenica è situata nel tempo.»
Da una certa età in poi, è bene prender coscienza di questo nostro centro
spirituale, che è in grado di dare all’esistenza una nuova dimensione. «Più il
possesso della vita si fa breve,» dice Montaigne «più mi occorre renderlo
profondo e pieno.»
143. La storia
È legge di natura che tutto muti, si trasformi e perisca, così che altre cose
possano a loro volta generarsi dalle antiche.
MARCO AURELIO

Nella nostra esperienza, tutto si trasforma continuamente da uno stato


all’altro, tutto è in divenire. «Osserva il ritorno delle cose» scrive per esempio
Seneca «e guarda come nulla si estingua, ma come ogni cosa ora declini e ora
risorga.»
Questi ritmi ciclici sono presenti in tutti i fenomeni, da quelli esterni (il giorno
e la notte, il caldo e il freddo, la pioggia e la siccità, ecc.) a quelli interiori (la
calma e l’agitazione, l’attività e il riposo, l’attrazione e la repulsione, ecc.). Ogni
cosa, ogni stato d’animo è un processo che si evolve: compare e scompare, sorge
e tramonta.
Dato che tutto è in continuo divenire, anche la nostra morte non può essere un
ingresso nel nulla, ma il passaggio a un altro stadio. «Nulla si crea e nulla si
distrugge: tutto si trasforma» dice una legge basilare della fisica. Bisogna
dunque essere aperti al divenire: dobbiamo accettare con animo trepidante ma
sereno ogni nuova avventura, compresa quella ultima del morire.
E la miglior preparazione consiste nel prendersi cura dell’unica cosa che ci
rimarrà e che ci servirà: la nostra anima, il centro del nostro essere. Tutto ciò che
abbiamo accumulato in vita - le esperienze, le conoscenze, la saggezza -
costituisce ciò che siamo, e non può che rappresentare la base di partenza di ciò
che saremo.
«Soltanto la qualità della coscienza» scrive Schopenhauer «è ciò che dura e
persiste.»
144. L’autoperfezionamento
La vita come mezzo di conoscenza: con questo principio nel cuore si può non
solo vivere valorosamente, ma anche vivere gioiosamente e gioiosamente ridere.
FRIEDRICH NIETZSCHE

Ci sono molti modi di intendere la vita, e non è indifferente quale modo si


scelga, perché - come afferma Schopenhauer - «a renderci felici o infelici non è
ciò che le cose obiettivamente e realmente sono, ma ciò che sono per noi, nella
nostra interpretazione».
Si può pensare all’esistenza come a una fortuna, a un dovere, a un caso, a un
intermezzo, a una punizione, a un gioco, oppure alluna e alle altre cose insieme.
Ma forse la maniera più serena per concepirla e per affrontarla è quella
dell’avventura: un’avventura il cui scopo è la conoscenza.
Questa idea ci aiuta non solo a gioire dei piaceri, ma anche a far tesoro delle
sofferenze. Se il nostro animo è rivolto a fare esperienze e a trarre conoscenze,
nessuna vicenda potrà essere considerata veramente negativa: tutto sarà utile,
tutto ci fornirà insegnamenti e lezioni.
Tenendoci fermi nel nostro centro di osservazione, nella nostra
consapevolezza, ogni avvenimento ci apparirà come un interessante spettacolo,
di cui possiamo essere nello stesso tempo testimoni, attori e coautori. E questa
più ampia coscienza ci permetterà di crescere e di procedere lungo la strada di un
infinito autoperfezionamento verso mete che sono per ora inimmaginabili.
«La natura umana» scrive Epitteto «si realizza nella contemplazione, nella
comprensione e in una condotta di vita in armonia con la natura.»
E aggiunge: «Se vuoi, sei libero».
Table of Contents
L'arte della serenità
Introduzione
1. Rinascere
2. “Guardarsi”
3. L’ascolto
4. La speranza
5. Il piacere
6. L’indeterminazione
7. La scelta di sé
8. I bilanciamenti
9. La sofferenza
10. La via
11. La maturità
12. Il desiderio
13. I limiti
14. Il raccoglimento
15. I viaggi
16. Il silenzio mentale
17. L’immaginazione negativa
18. La cura di sé
19. L’autonomia
20. Il controllo
21. La tempestività
22. L’interiorità
23. L’impermanenza
24. La flessibilità
25. La calma
26. L’equilibrio
27. La paura
28. Il conformismo
29. I doni naturali
30. La fonte della vita
31. Il rispetto
32. Il criterio interno
33. La durata della vita
34. Giudicare
35. I nemici
36. Mezzi e fini
37. Il valore della parola
38. La totalità
39. La via di mezzo
40. Il denaro.
41. La responsabilità
42. La felicità
43. La prevenzione
44. Le illusioni
45. Le rappresentazioni
46. La tranquillità
47. La ruota
48. La fioritura
49. La vecchiaia
50. II dovere della felicità
51. L’armonia
52. Il potere della mente
53. Il rifugio
54. La sensibilità
55. La complementarità
56. La salute
57. Il tempo
58. L’attività
59. Confronti
60. Gli opposti
61. Le avversità
62. Il corpo
63. L’intelligenza
64. Il lavoro interiore
65. La natura
66. Il dualismo
67. Le cadute
68. L'arte di governare
69. La conoscenza
70. La memoria
71. I giudizi
72. L’imprevisto
73. Le prove
74. Il destino
75. I beni
76. La malinconia
77. Il prossimo
78. L’ambivalenza
79. La conoscenza
80. La ricettività
81. Le passioni
82. La serenità
83. Peccati e virtù
84. L’apprendimento
85. La sessualità
86. L’igiene mentale
87. L’amore
88. La consapevolezza
89. Il presente
90. Il godimento
91. La libertà
92. Le ambizioni
93. La salute dell’anima
94. La gioia
95. Il distacco
96. La diversità
97. La beatitudine
98. La realizzazione
99. Gli eccessi
100. Cambiamento e permanenza
101. Coltivare lo spirito
102. Il movimento
103. Il mestiere
104. Giudicarsi
105. La solitudine
106. L'umorismo
107. Il mutamento
108. Il transfert
109. La noia
110. L’esame di coscienza
111. Accettarsi
112. L’età della saggezza
113. La distanza
114. La relatività
115. I valori
116. Il senso della vita
117. La scelta
118. L'unione estatica
119. La facoltà della mente
120. L’identità
121. L’arte di tacere
122. La temperanza
123. L’esperienza
124. La mortalità
125. La saggezza
126. La benevolenza
127. La meditazione
128. II ritiro
129. Paradiso e inferno
130. Il morire
131. La conoscenza dell'anima
132. L’ego
133. Gli ideali
134. La coerenza
135. Le scoperte
136. La completezza
137. Il non fare
138. Al di là del bene e del male
139. L’autenticità
140. Il rinnovamento
141. L’innocenza
142. L’essere
143. La storia
144. L’autoperfezionamento

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