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Claudio Lamparelli
Editore Mondadori
ISBN-13 9788804486053
Data pubblicazione: 1997
La serenità, che può essere definita la chiave di volta del nostro benessere psicofisico, nasce dal naturale
equilibrio fra interiorità ed esteriorità e si situa sulla linea di demarcazione fra opposte esigenze: è
quell'armonia nei confronti di se stessi e degli altri che viene messa a dura prova dagli avvenimenti, positivi
o negativi che siano. Come fare a conservarla o a ripristinarla quando la si è perduta? Il problema è stato
dibattuto dai saggi di tutti i tempi e di tutti i paesi. Partendo dalle loro considerazioni Claudio Lamparelli
svolge una serie di riflessioni riguardanti le situazioni pratiche della nostra esistenza che mirano a un
duplice scopo: identificare le cause profonde che mettono in crisi la serenità e realizzare, con queste stesse
meditazioni, una particolare specie di difesa e di terapia, quella che un tempo si chiamava "cura dell'anima".
Introduzione
Scopo di questa opera è indicare una serie di riflessioni con cui si possa
trovare e mantenere quello stato di equilibrio che è la condizione prima del
nostro benessere. «Tutti vogliono essere felici,» scrive Seneca in una sua
operetta «ma poi sono confusi quando devono decidere ciò che rende felice la
loro vita.»
In effetti, questa è una lacuna anche del nostro sistema educativo: manca una
materia, una disciplina, che sappia suggerirci la via della saggezza, la via
dell’armonia e della misura. Esistono ideologie, filosofie, religioni, scuole di
psicologia e rami della scienza che si disputano la scena e che ci propongono
soluzioni a questo o quel problema. Noi però abbiamo bisogno di qualcosa di più
semplice e di più pratico, e anche di meno specialistico: un insieme coordinato di
conoscenze che ci dica come comportarci nella vita di tutti i giorni, come
cavarcela nelle difficoltà, come gestire i nostri stati d’animo, la nostra “economia
interiore”, e come ordinare la scala dei nostri valori. Ponendo all’inizio di questa
scala proprio la serenità, abbiamo scelto il bene su cui poggiano tutti gli altri, la
chiave di volta dell’intero sistema psicologico. È inutile propagandare ideali di
amore, di fratellanza e di pace se ci si dimentica dell'esigenza fondamentale
degli esseri umani: vivere con tranquillità.
Nessun insegnamento, nessun messaggio è veramente utile se non assicura
l’armonia di base dell’individuo, nei confronti di se stesso, degli altri e
dell’ambiente. È da qui che parte ogni possibilità di serenità e di convivenza, il
senso positivo dell’esistenza.
Serenità significa non essere in ansia, non sentirsi in colpa, non provare
disagio, non vivere né troppo tesi né troppo fiacchi, non indulgere né
all’attivismo né all’abulia, non cedere né all’esaltazione né al pessimismo, non
credersi né superiori né inferiori agli altri; serenità è seguire una flessibile via di
mezzo, è godere saggiamente dei beni dell’esistenza. Serenità è conoscere se
stessi, cercando di capire anche il prossimo.
Troppi sono però gli ostacoli che si frappongono a questa condizione, che
dovrebbe essere naturale.
La società e l’educazione fanno di tutto per convincere i giovani che la vita sia
una specie di gara a premi, dove l’altro è inevitabilmente un concorrente da
battere. Da simili ideali competitivi nascono tutti i nostri problemi. E nasce
l’esigenza di un’opera di decondizionamento, di un “lavoro interiore”.
Due sono le tradizioni spirituali che si sono occupate di questo tipo di lavoro:
da una parte quella orientale che fa capo ad almeno sei sistemi culturali
(Vedanta, Yoga, Taoismo, Buddhismo, Tantrismo e Zen) e dall’altra parte quella
occidentale che, partendo dalla corrente orfico-pitagorica, giunge fino allo
Stoicismo e al Neoplatonismo, nonché a tanti autori successivi (alcuni dei quali
sono citati in questo libro).
Nel nostro tentativo di offrire al lettore odierno una sorta di guida alla
serenità, ci è sembrato naturale fare riferimento principalmente a questi due
grandi filoni della meditazione di tutti i tempi, con i loro vari addentellati
moderni. In più, abbiamo aggiunto qualche esponente di quella psicologia
contemporanea che non può ovviamente mancare in un’opera dedicata all’arte
del vivere bene.
Su questi argomenti esiste come un filo continuo, un dialogo costante, fra
Oriente e Occidente, fra antichità e modernità, tanto che il libro, assume un
sorprendente carattere di omogeneità. Talora, in questo scambio di battute
attraverso i secoli e le culture, si scopre una perfetta concordanza di vedute tra
autori tanto diversi.
Le “meditazioni” sono state scelte privilegiando certi temi comuni e seguendo
un criterio preciso: offrire suggerimenti pratici, metodi psicologici e riflessioni
che siano utili a superare i momenti difficili e a ritrovare la serenità. Questo è
infatti il potere della saggezza: precostituire una rete di tecniche, di ragionamenti
e di processi mentali che siano in grado di parare i colpi peggiori e di
ridimensionare le illusioni, in modo da mantenere un buon rapporto con la realtà,
un livello ottimale di equilibrio.
Il fine è quello di costruire un individuo responsabile e autonomo, capace di
essere padrone di se stesso. «Sono pochi coloro che dispongono saggiamente di
se stessi e delle proprie cose» scrive Seneca. «Tutti gli altri, a somiglianza degli
oggetti che galleggiano nei fiumi, non vanno da sé, ma sono trasportati.»
1. Rinascere
Nella vita il compito principale dell’uomo è dare alla luce se stesso.
ERICH FROMM
Per riuscire nel compito di “diventare ciò che siamo”, dobbiamo imparare
l’arte di osservare noi stessi, dobbiamo arrivare a guardarci come farebbe un
estraneo. Questa operazione di auto-osservazione è essenziale per fare il punto
della nostra condizione interiore.
La “presa di distanza” meditativa è qualcosa di diverso dal classico “conosci
te stesso”: si tratta di un guardarsi, di uno stare attenti, di un “essere presenti” a
se stessi. Non è un giudicarsi, perché qualunque giudizio sarebbe condizionato
da altri valori.
La meditazione è invece un tentativo di uscita dal mondo dei valori mentali,
uno sforzo di allontanamento dal vecchio ego, un esercizio di distacco e di
pacificazione. Prendendo le distanze dalle attività mentali quotidiane, con tutto il
loro stress, si lascia spazio a quel centro dell’essere che corrisponde alla nostra
vera natura: una natura che è permeata di calma e di benessere.
Ecco perché il consiglio di Seneca, se ottemperato sistematicamente, si
trasforma in una specie di autoterapia mentale. «Quando la mente è immobile»
leggiamo nel lesto taoista del Wen-tzu «lo spirito si troverà in uno stato di
attenzione. Se ritorni al vuoto, ciò estinguerà le azioni compulsive e porrà la
mente in quiete. Questa è la libertà dei saggi.»
Non c'è via della serenità che non passi, inconsapevolmente o
deliberatamente, per questa operazione di decondizionamento.
Afferma Bacchilide: «Una è la regola, una è la via della felicità: conservare la
mente libera da preoccupazioni, crucci e angosce inutili».
3. L’ascolto
Il principio fondamentale dell’ascolto è svuotare la mente in modo che sia
chiara e calma: metti da parte ogni sensazione, ogni pensiero, ogni riflessione.
WEN-TZU, CLASSICO TAOISTA
«Quando tutto è silenzio intorno a noi,» scrive Kierkegaard in Aut aut «tutto è
solenne come una notte piena di stelle, quando l’anima si trova sola in mezzo al
mondo, di fronte a essa appare non un uomo ragguardevole, ma l’eterna potenza
stessa, il cielo quasi si spalanca, e l’io sceglie se stesso, o piuttosto riceve se
stesso. In quell’istante l’anima ha visto l’altezza suprema, ciò che nessun occhio
mortale può vedere e ciò che non sarà mai dimenticato, la personalità riceve lo
stendardo da cavaliere, che la nobilita per l’eternità. L’uomo non diventa diverso
da quello che era prima, diventa solo se stesso; la coscienza si raccoglie, ed egli
è se stesso.»
Qui il filosofo danese descrive l’effetto del raccoglimento, nel silenzio e nella
solitudine. La persona si sviluppa a contatto con gli altri, ma si autodetermina, si
“autoconsacra”, quando si trova di fronte a se stessa. Questo momento è
essenziale per ritrovare ed essere se stessi, per isolare il nucleo di ciò che siamo.
La base di ogni realizzazione serena parte da qui; non dobbiamo sforzarci di
adeguarci a questo o a quel modello impostoci dall’esterno, non dobbiamo essere
qualcun altro: se lo faremo, saremo finti, saremo artificiali, e pagheremo con
l’infelicità il nostro stesso sforzo.
Il compito dell'uomo - che coincide con la via della serenità - è di essere se
stesso, ossia di realizzarsi, “e questo ciascuno lo può se lo vuole.”
Dice Schopenhauer: «Ciò che uno è in sé e ha in sé, in breve la personalità e il
suo valore, è l’unico agente diretto della sua felicità e del suo benessere. Tutto il
resto opera indirettamente».
8. I bilanciamenti
Per raggiungere la serenità interiore, è bene non trascurare quel che c'è di
favorevole e di buono negli avvenimenti che ci capitano contro la nostra
volontà, oscurando e bilanciando il peggio con il meglio.
PLUTARCO
«Chi non ha mai sofferto» diceva Fénelon «non conosce niente: non conosce
né il bene né il male, né conosce se stesso.» Però filosofi e psicologi hanno
anche affermato il contrario: è il piacere, è il desiderio che determina la
formazione dell’io. Che cosa pensare? Quale delle due tesi sposare? In realtà, noi
tutti sappiamo bene di essere continuamente ammaestrati sia dal dolore sia dal
piacere; anzi ci accorgiamo che l’uno esiste perché esiste l’altro, e quindi ha
ragione Nietzsche a vedere la saggezza in entrambi.
Afferma Eraclito: «La malattia rende piacevole la salute, la fame la sazietà, e
la fatica il riposo».
Esiste però una sofferenza naturale, utile a maturare, ed esiste una sofferenza
inutile, che ottunde lo spirito; esiste una sofferenza prodotta dalle circostanze e
ineliminabile, ed esiste una sofferenza che provochiamo noi stessi. È su
quest’ultima che possiamo agire, perché - come è scritto nel Dhannnapada -
«ciò che dalla mente è fatto, dalla mente può essere disfatto».
Dobbiamo dunque chiederci in ogni circostanza quale sia il nostro contributo
all’origine o all’amplificazione del dolore che ci colpisce. Se perdiamo una
persona cara, non possiamo lare a meno di soffrire; ma qual è la nostra parte di
responsabilità nella sofie: enza che ci investe quando veniamo privati di cose
non necessarie?
La distinzione fra i due tipi di dolore può non essere chiara in partenza e,
quindi, deve essere sottoposta a un’opera di meditazione, a un esame di
coscienza.
Dobbiamo domandarci in ogni occasione fino a che punto contribuiamo noi
stessi - con le nostre pretese, con i nostri bisogni superflui, con le nostre nevrosi
- a incrementare e a mantenere uno stato di sofferenza.
Nella nostra società, esistono bisogni del tutto artificiali, indotti dalla
pubblicità e dal conformismo di massa; eppure anche questi bisogni inutili,
quando non vengono soddisfatti, provocano frustrazione e dolore. È a questo
punto che dovrebbe intervenire l’opera della saggezza: dobbiamo saper
discriminare i bisogni e i desideri naturali da quelli che possono essere
tranquillamente soppressi.
Una semplificazione dei nostri obiettivi, una ricerca di maggiore essenzialità:
ecco che cosa dobbiamo cercare.
Ridurre l’area dei bisogni significa ridurre l’area della sofferenza. «Il saggio
cerca di raggiungere l’assenza di dolore, non il piacere» diceva Aristotele.
Ma che cosa dobbiamo fare quando un dolore non può essere eliminato?
Dobbiamo affrontarlo con la consapevolezza che ha comunque una sua
“saggezza”, che è collegato indissolubilmente al nostro desiderio del piacere.
«Avete mai detto sì a un piacere?» domanda Nietzsche. «Allora dite sì anche a
tutto il dolore.»
10. La via
Ogni nomo può conoscere la propria via. Ma solo se la cerca.
DETTO TAOISTA
La via di ciascuno di noi non è qualcosa che sia stato deciso dall'alto, dal
cielo, da Dio. È piuttosto l’espressione del nostro io più profondo, è esattamente
ciò che siamo.
Però è un percorso da compiere, un cammino da srotolare, qualcosa che esiste
solo in potenza. Non si rivela se non la vogliamo.
Se non cerchiamo la nostra via, percorreremo un cammino casuale, secondo
scopi e mete che non saranno i “nostri”, che noi non avremo scelto. Saremo così
uomini alienati, uomini che sentono dentro di sé con insoddisfazione di non aver
voluto quasi niente di ciò che hanno.
«Destino per ognuno è il suo carattere» dice Eraclito. Ma non tutti i caratteri
sono “facili” e non tutti sono accettati: c’è chi impegna buona parte delle proprie
energie a lottare contro di sé, a combattersi. E invece è necessario un atto di
accettazione e di scelta, che ci permetta di impiegare tutte le nostre forze.
Il primo compito è dunque quello di arrivare a capire chi siamo e come siamo
fatti: ecco che cosa significa “conoscere la propria via.”
Per giungere a questo risultato, è necessario saper ritrovare il fondo di sé,
quella zona della nostra interiorità che rimane dopo aver sospeso tutte le attività
mentali rivolte all'esterno. Non si tratta di un tentativo di conoscenza discorsiva,
ma di un atto di identificazione e di reintegrazione.
Saper trovare la propria via significa saper trovare se stessi, e saper trovare se
stessi significa sapersi togliere gli strati sovrapposti dalla società e dalla cultura.
Una simile ricerca è una forma di riequilibratura psicologica. Ritrovare se
stessi, ritrovare la propria via, è approdare a una sensazione di serenità, è sentirsi
al posto giusto nel momento giusto, è mettersi nella condizione di risolvere
finalmente i propri problemi.
«Quando un uomo trova la sua strada,» sostiene ancora la saggezza taoista «il
Cielo lo aiuta.»
11. La maturità
Persona matura è quella che è arrivata al punto di essere la madre e il padre
di se stessa.
ERICH FROMM
C’è gente che si cura con la massima attenzione di ogni altro bene - delle
proprietà, della carriera, dei soldi, della famiglia, della reputazione, dei
passatempi, ecc. -, ma non ha la minima considerazione di ciò che è la base di
tutto, del bene che permette di avere ogni altro bene: il proprio sé.
Si impiegano venti e più anni per conquistare un titolo di studio o comunque
per accumulare le conoscenze necessarie a svolgere una professione, mentre non
si compie nessuno sforzo per cercare di conoscere lo strumento di ogni
conoscenza. Anche i nostri curricoli scolastici prevedono tante materie, ma non
lo studio della mente umana.
Così abbiamo uomini che sanno tante cose della fisica o dell’economia,
mentre conoscono pochissimo di sé e degli altri.
Le conseguenze sono sotto i nostri occhi: tecnologie sofisticatissime e talora
distruttive in mano a persone che hanno una psicologia da bambini; oppure
potenti mezzi d’informazione e incarichi di responsabilità gestiti da individui
squilibrati.
Nelle nostre società manca la scienza più importante: quella
dell’autoconoscenza e dello sviluppo mentale. Proprio il punto fondamentale del
processo educativo è affidato al caso o a ideologie e religioni nate secoli o
millenni fa.
È per questo motivo che corriamo continuamente il rischio di
autodistruggerci. L’idea della fine del mondo, dell’apocalisse, nasce dalla nostra
consapevolezza di essere profondamente ignoranti e quindi di avere la capacità
di fare il male quasi senza accorgercene, quasi senza volerlo. Solo menti
oscurate possono continuare a illudersi, per esempio, che l’attuale sfruttamento
delle risorse naturali o l’aumento indiscriminato della popolazione terrestre non
portino prima o poi a un disastro.
«Il massimo dei peccati è l’ignoranza» dice il Dhammapada, che si riferisce in
particolare all’“ignoranza di sé”, alla mancanza di autoconoscenza. E il Wen-tzu
conferma: «Cercare negli altri non è così utile come cercare in sé».
In effetti ogni conoscenza che non sia stata assimilata nel profondo resta per
così dire lettera morta: non aiuta la crescita dell’individuo. È una nozione che
non dà nessun contributo all’esperienza, né tanto meno alla saggezza.
Sarebbe dunque importante colmare tale lacuna: introdurre un processo di
autoconoscenza, basato non tanto su un’analisi della personalità (che sarebbe
difficile compiere da soli), quanto su uno sviluppo della consapevolezza.
«Se c’è oscurità interiore,» afferma Rajneesh «la luce esterna non sarà di
nessuna utilità.»
Prendere le distanze dal proprio io empirico, osservare la propria attività
mentale, riuscire a creare un certo silenzio o vuoto interiore, in breve la “cura di
sé”, tutto ciò costituisce la base di partenza di un processo psicologico che è
ormai indispensabile non solo per sapere quale sia il nostro bene personale, ma
anche quello generale.
«Non si può vivere felici e non si può nemmeno vivere in modo tollerabile,»
scrive Seneca «se non si coltiva la saggezza.»
19. L’autonomia
Paradossalmente la capacità di stare soli è la condizione prima della
capacità d'amare.
ERICH FROMM
Chi non ha un buon rapporto con se stesso non può avere un buon rapporto
con gli altri: è illusorio pensare che la volontà o la socialità possano ovviare a
questo difetto d’origine. Sono piuttosto necessari un minimo di distacco da sé e
la capacità di osservarsi, di “conoscersi”.
Senza questa operazione preliminare, non si arriverà neppure a diagnosticare
il disturbo che ci affligge e, di conseguenza, si continuerà ad attribuire agli altri o
alla sfortuna la responsabilità dei propri fallimenti.
Non serve a niente invitare genericamente ad “amare” il prossimo quando
esiste proprio un cattivo rapporto con se stessi; occorre far comprendere come si
debba amare, prima se stessi e poi gli altri. Esistono infatti vari modi di amare, e
alcuni sono inconsapevolmente distruttivi per la persona amata.
La madre, per esempio, che ama il proprio figlio fino al punto da desiderare
che non si stacchi più da lei, non sta facendo il bene del figlio; eppure sarà
convinta di amarlo più di chiunque altro.
In realtà questa modalità sbagliata di amare nasce dalla pretesa che l’amore
colmi una lacuna, la quale deriva invece da un cattivo rapporto con se stessi.
È vero che questo cattivo rapporto nasce a sua volta da una relazione anomala
con i genitori o con altri individui che hanno avuto una grande importanza nella
nostra prima infanzia, ma è anche vero che queste persone non possono
comprendere il nostro problema, né possono più aiutarci. Se vogliamo risolverlo,
dobbiamo ricorrere a ligure sostitutive (psicoterapeuti, psicoanalisti, ecc.) che ci
aiutino a “conoscerci”, a “vederci”. Oppure dobbiamo lare da soli.
Fortunatamente il primo terapeuta è dentro di noi: è quel sé profondo che resta,
nonostante tutti gli strati sovrapposti dalla società e dalla cultura, il nostro centro
di equilibrio e di serenità. Il problema è di riuscire a disseppellirlo. È per questo
che uno psicoanalista come Fromm finisce per riscoprire le virtù della
meditazione e giunge a scrivere ne L'arte d’amare: «Sarebbe utile praticare
pochi semplici esercizi, come, ad esempio, sedere in una posizione di relax (né
molle né rigida), chiudere gli occhi e cercare di vedere uno schermo bianco
davanti a sé respingendo figure e pensieri che possano oscurarlo; quindi cercare
di seguire il proprio respiro; non pensarci né sforzarsi di farlo, ma seguirlo, e
così facendo, sentirlo; inoltre cercare di avere un senso dell'io, me stesso, come il
centro dei miei poteri, come il creatore del mio mondo. Si dovrebbe, perlomeno,
fare un simile esercizio di concentrazione ogni mattina per venti minuti (se
possibile di più) e ogni sera, prima di coricarsi.»
20. Il controllo
Agitata e ondeggiante è la mente, difficile da proteggere, difficile da
controllare: il saggio la dirige come l’arciere la freccia.
DHAMMAPADA
Tutte le paure si riducono alla paura della sofferenza e alla paura della morte.
La prima può diventare così insopportabile da farci preferire la morte stessa e la
seconda ci accompagna sempre, ora in modo latente ora in modo cosciente.
La paura di cui stiamo parlando non è necessariamente legata a dati di fatto
reali: è molto spesso un’idea, una minaccia, un’anticipazione, una fantasia.
L’uomo in effetti è l’unico animale che sa di dover morire, e quindi ognuno di
noi, se vuole combattere efficacemente l’infelicità, deve fare i conti con questa
previsione. Come dice Pallada, «quello che fa soffrire non è morire, ma sapere di
dover morire».
Per affrontare questa paura, è importantissimo ancora una volta il modo in cui
si gestisce la coscienza.
Nella nostra mente si trovano i più spaventosi incubi e le fantasie più
piacevoli, e in tal senso inferno e paradiso sono condizioni psicologiche, sempre
attuali. Qui la funzione della consapevolezza diventa decisiva: chi non la sa
guidare, può finire in un pericoloso baratro e pagare un prezzo altissimo per
uscirne.
Mille sono i motivi per cui la mente umana può precipitare in uno di questi
“buchi neri”. Proprio per evitare un simile pericolo, è necessaria un’opera di
prevenzione, affidata alla saggezza.
Attenzione e consapevolezza sono le armi decisive. «Tutte le cose non sono
altro se non ciò che noi pensiamo che siano» scrive per esempio Marco Aurelio.
Ci sono persone che soffrono pene enormi non per fatti reali, ma per paure su
quei fatti: è la loro mente che produce quelle sofferenze. Anzi, nel momento in
cui quei fatti si verificano, la paura diminuisce.
L’immaginazione negativa è il nostro peggior nemico. «Chi ha paura vede
anche i pericoli che non ci sono» scrive Publilio Siro.
Ma tutto ciò è la conseguenza di una mancanza di conoscenza e di cura di sé:
non esistono solo i tumori fisici, esistono anche le proliferazioni abnormi della
psiche. Dunque, le nostre anticipazioni, le nostre fantasie, i percorsi della nostra
coscienza possono crearci serenità o infelicità. Occorre una sorta di igiene
mentale, ciò che noi chiamiamo meditazione.
Una vera cultura della serenità deve agire sulla mente, sull’immaginazione e
sulle opinioni; deve imparare a osservare e a controllare l’attività psicologica,
perché è da questa che nasce il nostro benessere o la nostra sofferenza.
Dobbiamo imparare a identificare gli attacchi dell’immaginazione negativa,
con le sue fosche fantasie, con le sue previsioni pessimistiche, con le sue paure
immotivate. A ogni suo impulso contrapponiamo un ragionamento o
un’immagine riequilibrante, in modo da recuperare il senso della realtà.
Esercitiamoci a rimanere nel presente, senza ingigantire le possibilità
sfavorevoli, e cerchiamo di ritrovare quotidianamente quel nostro centro
interiore che è permeato di tranquillità e di chiarezza mentale.
«Non bisogna rendersi infelici prima del tempo:» scrive Seneca «i mali che
hai temuto come imminenti forse non verranno mai e, in ogni caso, non sono
ancora venuti.»
Immersi nelle fantasie paurose, in questi prodotti oscuri della mente, perdiamo
il contatto con i beni del presente. Dice Marco Aurelio: «Smetti di dare un
significato alle cose in base a ciò che pensi, sopprimi le opinioni che ti fai
intorno alle cose, e come chi ha doppiato un promontorio, troverai un mare
calmo, un’assoluta tranquillità e un’insenatura riparata dai flutti».
28. Il conformismo
La maggior parte della gente non si rende nemmeno conto del proprio
bisogno di conformismo. Vive nell’illusione di seguire le proprie idee e
inclinazioni, di essere individualista, di aver raggiunto da sé le proprie
convinzioni.
ERICH FROMM
Non basta parlare d'amore, non basta dire con sant’Agostino: «Ama e fa’ quel
che vuoi!», non basta neppure seguire l’appello di Confucio, di Hilici e di Gesù
ad amare il prossimo.
Bisogna invece chiarire che esistono vari modi d’amare e che alcuni sono
distruttivi come e più dell’odio. Se all’amore non si accompagna il rispetto,
abbiamo in realtà a che lare con un moto di acquisizione che rientra nel desiderio
di affermazione, nella volontà di potenza.
Il rispetto è l’amore che non vuole soffocare, possedere, convincere,
dominare; è la gioia di vedere nell’altro un diverso-da-sé; è il sentimento di chi
osserva e ama l’altro per quello che è, di chi non intende invadergli lo spazio.
“Rispettare” è un verbo che deriva dal latino respicere (guardare), e indica
quindi un atto contemplativo.
Molti al contrario confondono l’amore con la loro volontà di influenzare e di
dominare: vedono in questo sentimento la possibilità di sottomettere l’altro, di
lame un altro se stesso, di piegarlo alle proprie convinzioni.
Quanti padri e quante madri, per esempio, amano ma non rispettano; quanti
missionari religiosi amano il prossimo per convertirlo alla loro fede!
Il caso dei genitori è tipico: molti vogliono che i figli siano la realizzazione
dei loro desideri e fanno di tutto per conformarli a un loro modello, senza
neppure porsi il problema di chi veramente essi siano e di che cosa vogliano.
Dice a questo proposito l’antico saggio cinese Chuang-Tzu: «Figli e nipoti
non vi appartengono: sono vite che vi sono state semplicemente affidate dal cielo
e dalla terra».
Per riuscire ad amare con rispetto occorre dunque uscire dal proprio piccolo
mondo egoico, spogliarsi delle proprie ambizioni, delle proprie opinioni e
cercare di “vedere” l’altro, di capirlo; occorre fermarsi a considerare la diversità
come strumento di arricchimento, non come anomalia da riportare alla propria
regola.
Anche l'amore ha bisogno di educazione e di meditazione: bisogna essere
capaci, prima, di prendere le distanze dal proprio io empirico, dai suoi desideri e
dalla sua volontà di appropriazione, e poi di osservare con questo occhio
purificato la varietà di forme, di caratteri e di destini che si manifestano negli
altri esseri viventi.
Solo così si potrà fare dell’amore non una delle tante forme di
condizionamento e di uniformazione, ma una vera forza di armonia. Afferma
Nietzsche: «Il modo più sicuro per corrompere un giovane è insegnargli a
stimare più chi la pensa come lui di chi la pensa diversamente».
32. Il criterio interno
Ciò che non rende peggiore l’uomo nella sua interiorità, non peggiora
neppure la sua vita, né gli reca danno esteriore o interiore.
MARCO AURELIO
Molti pensano, come Pascal, che se potessimo vivere mille anni piuttosto che
cento, avremmo la possibilità di accumulare un’enorme quantità di esperienze, di
conoscenze e (si spera) di saggezza.
In effetti, oggi un terzo della vita è dedicato all’apprendimento, un terzo
all’invecchiamento e soltanto un terzo all’esistenza piena e matura. E quando
siamo al massimo delle nostre possibilità, ecco che incominciamo a decadere.
Se vivessimo mille anni, quante occasioni potremmo sfruttare, quanti libri
potremmo leggere, quanti paesi, quante persone potremmo conoscere e,
soprattutto, quanti sbagli potremmo evitare!
Dalla brevità dell'esistenza nasce certamente l’idea di una vita ultraterrena,
della reincarnazione, di altri mondi possibili. Non ci basta questa manciata di
tempo, ci ribelliamo all’ingiustizia della natura e lottiamo con tutta la nostra
scienza per allungare gli anni disponibili, la durata dell’esistenza.
Non ci sono alcuni alberi che vivono migliaia di anni?
Come al solito, vediamo solo metà del problema: allungare la durata della vita
significa moltiplicare non solo le cose positive, bensì anche quelle negative. Già
oggi compaiono molte malattie (le malattie della vecchiaia) che un tempo erano
più rare. Ma, se allungassimo gli anni dell’esistenza, moltiplicheremmo anche
gli errori e le soflerenze.
Forse, dopo mille anni di vita, moriremmo veramente appagati; o forse no.
Forse, a quel punto, aspireremmo a vivere duemila anni, diecimila o (perché
no?) l’eternità. Non dice san Paolo che l’ultimo nemico a essere sconfitto sarà la
morte?
In realtà, tutti questi ragionamenti rivelano una fondamentale mancanza di
saggezza, l’incapacità di dare un’intensità, uno spessore, una profondità alla
nostra vita: ci illudiamo che l’allungamento della durala ci dia una qualità che,
forse, non otterremmo neppure in mille anni.
Dice Epicuro: «Un tempo limitato comprende la stessa quantità di piacere di
un tempo illimitato, se si sanno amministrare i piaceri con saggezza».
Per quanto a lungo si viva ci sembrerà sempre che ci manchi qualcosa. «La
vita umana» scrive Schopenhauer «non si può definire propriamente né breve né
lunga, perché è in fondo l’unità di misura con cui valutiamo ogni altro periodo di
tempo.»
E Plauto sembra concludere: «La saggezza non si conquista con l’età, ma con
l’intelligenza».
34. Giudicare
Per giudicare bene un uomo, bisogna controllare principalmente le sue azioni
ordinarie e osservarlo nel suo procedere ogni giorno.
MICHEL DE MONTAIGNE
Questo principio è valido per giudicare sia gli altri sia noi stessi. Se vogliamo
evitare delusioni e sofferenze dovute a giudizi sbagliati, dobbiamo arrivare a
capire chi abbiamo di fronte, quale sia il suo vero carattere.
Ciò è ancora più importante quando la persona si presenta come una guida, un
maestro, un consigliere, un educatore, un politico e cosi via. Prima di affidare a
qualcuno del potere, dobbiamo sapere se non abbiamo a che lare con un ipocrita
o con un imbroglione.
Bisogna allora prescindere da quello che dice, perché lo strumento principale
dell’arte della truffa è la parola. Nella nostra civiltà dei mass-media, sono state
messe a punto tecniche sofisticate per sedurre e convincere, per creare miti che
non corrispondono minimamente alla realtà.
Gli uomini che aspirano al potere possono imporre una loro immagine
artificiale, del tutto infondata, e spesso del tutto opposta a ciò che veramente
sono: utilizzano semplicemente i metodi con cui i pubblicitari vendono i prodotti
commerciali.
Dobbiamo dunque diffidare non solo dei bei discorsi, ma anche delle belle
immagini. «In un uomo osserva la maniera di agire,» consiglia Confucio
«esamina le sue motivazioni, guarda dove trova appagamento. Questo è un
mezzo sicuro per conoscere il suo carattere.»
Per giudicare una persona, dobbiamo osservare come si comporta nella vita di
tutti i giorni; e, beninteso, questo vale anche per noi stessi.
Spesso noi non ci conosciamo affatto, non sappiamo chi siamo, abbiamo
immagini sbagliate di noi stessi. Anche in questo caso, vale il medesimo
principio: giudicare non in base alle parole o alle dichiarazioni d’intento, ma in
base a ciò che si fa e al modo in cui ci si comporta nella realtà di tutti i giorni.
Dice un proverbio arabo: «La prima volta che un uomo ti inganna la colpa è
sua, ma la seconda la colpa è tua».
35. I nemici
Il saggio impara molte cose dai suoi nemici.
ARISTOFANE
Non saper valutare le nostre capacità e proporci mete superiori alle nostre
forze, o comunque contrarie alla nostra natura, significa andare incontro a un
sicuro fallimento. Anche qui la conoscenza di noi stessi resta fondamentale.
Molti sognano grandi cose, ma, appena viene data loro una possibilità, si
rivelano inferiori o inadatti al compito: avevano creduto di essere quel che non
erano, avevano di sé un’idea sbagliata. Anziché prendersela con gli altri o con la
sfortuna, dovrebbero accettare la lezione e ridimensionare i loro progetti.
«Potersi sentire soddisfatti della propria vita è come vivere due volte» scrive
Marziale. Ma questo non è possibile se si ha di sé un’immagine falsa o se non ci
si accetta per quel che si è.
Dobbiamo diventare consapevoli di ciò che siamo, indipendentemente dalle
ambizioni e dai desideri che possono esserci stati instillati dagli altri, per
esempio dai genitori o da qualche educatore. Il nostro compito è realizzare noi
stessi, non conformarci a qualche modello precostituito. Se non siamo adatti a
fare qualcosa, saremo certamente portati a fare qualcos’altro.
Conoscere se stessi è la condizione prima per non andare incontro a delusioni,
che possono amareggiare tutta la vita. Come dice Montaigne, «la grandezza
d’animo non consiste tanto nell’andare in alto o in avanti, ma nel saper stare al
proprio posto e nel sapere i circoscrivere».
37. Il valore della parola
Parlare è un mezzo per esprimere se stessi agli altri, ascoltare è un mezzo per
accogliere gli altri in se stessi.
WEN-TZU
«Ce una misura in ogni cosa e tutto sta nel capirlo» cantava Pindaro.
Una “via di mezzo”, ugualmente lontana dagli estremi dell’edonismo e della
mortificazione ascetica, viene enunciata anche dal Buddha, vissuto nell’altra
parte del mondo quasi nella stessa epoca di Platone, a dimostrazione che la
saggezza di ogni tempo e di ogni paese finisce per giungere alle stesse
conclusioni. Tuttavia, ciò che il Buddhismo definisce “via di mezzo” per noi
sarebbe ancora una vita di rinunce. Perché diventare monaci? Noi siamo convinti
che, per realizzarci, dobbiamo vivere pienamente la nostra esistenza e fare tutte
le esperienze che un uomo deve fare.
Che cosa rimane allora di questi antichi insegnamenti? Che cosa è utilizzabile
ancora oggi? Ovviamente l’invito all’equilibrio, all’armonia interiore, alla
moderazione; il principio secondo cui dobbiamo evitare,sistemi di vita che, pur
nella loro contrapposizione, conducono ugualmente alla sofferenza. Infatti è
infelice sia chi rinuncia alle gioie naturali dell’esistenza, chiudendosi per
l’appunto nella rinuncia e nella mortificazione, sia chi insegue ogni piacere, costi
quel che costi.
“Serenità” è la parola chiave: lo aveva capito Platone. Questo stato d’animo ci
dice chiaramente se stiamo seguendo la via giusta, la via equilibrata, che deve
pur sempre correre fra due precipizi.
«Negli affari del mondo,» afferma Confucio «il saggio evita sia
l’atteggiamento di rigido rifiuto sia quello di accettazione incondizionata: la sua
regola è la via di mezzo.»
Si tratta insomma di barcamenarsi fra i due estremi, tenendo come rotta, come
punto di riferimento, lo stato interiore: le scelte che ci conservano la serenità ci
confermano che sono giuste; le scelte invece che ci fanno sentire a disagio o in
conflitto con noi stessi ci dicono che stiamo sbagliando strada.
In tal senso la serenità contraddistingue la virtù, che - secondo Orazio - «sta
nel mezzo fra due vizi opposti, ben lontana da entrambi.»
40. Il denaro.
Noi non cambieremo la nostra virtù con le loro ricchezze: quella è stabile, il
denaro invece passa da un uomo al l’altro.
SOLONE
Fra le tempeste della vita, le più insidiose sono quelle provocate dalla nostra
stessa mente; e su di esse possiamo e dobbiamo estendere il nostro controllo.
Per le grandi prove dell’esistenza siamo più preparati di quanto non si creda,
abbiamo per così dire degli anticorpi naturali. Invece, per quelle provocate dalle
nostre fantasie negative, dalle immagini morbose e dai pensieri distorti, non
disponiamo di nessuna linea di difesa: ci aspettavamo un nemico esterno, non
uno interno.
Quasi senza accorgercene, cadiamo in preda a impulsi di ira, di odio, di paura,
di frenesia, di sconforto e così via: all’esterno non è successo nulla, ma dentro di
noi siamo in piena crisi.
Basta un'ombra, un sospetto, un momento di stanchezza o un semplice
pensiero tetro, ed ecco che penetriamo in una specie di incubo a occhi aperti: ci
sentiamo oppressi, infelici, demoralizzati, siamo in balia dell'immaginazione
mentale negativa, un vero e proprio cancro della psiche.
Come fare a uscirne?
Epitteto, nelle sue Diatribe, sostiene che «il vero atleta» è colui che combatte
tali rappresentazioni. E la posta in gioco è molto importante: è la capacità di
essere padroni di noi stessi e quindi di essere liberi e sereni.
Per prima cosa bisogna diventarne coscienti, cogliere la negatività al suo
apparire. E poi bisogna impedirle di avanzare, ponendo a contrastarla una
rappresentazione mentale positiva, «bella e nobile».
La vera saggezza, afferma Epitteto, consiste nella socratica «cura dell'anima»,
in ciò che oggi potremmo chiamare meditazione. Se ci preoccupiamo con tanta
attenzione dei nostri beni, dobbiamo curare a maggior ragione la nostra anima, il
nostro sé, che ci permette di godere di ogni altra cosa.
È più che saggio impiegare un po’ di tempo della nostra giornata in questo
controllo periodico dello stato della mente, esaminando in particolare se la causa
per cui ci tormentiamo è un fatto esterno o una nostra rappresentazione negativa,
oppure entrambe le cose.
In alcuni casi, infatti, la motivazione esteriore è aggravata dall’intervento della
mente che la ingigantisce, che la fa apparire più grave di quanto non sia.
La meditazione è sempre una “cura di realtà”, un tentativo cioè di eliminare la
componente soggettiva degli stati di sofferenza e di crisi. È con tale operazione
di “igiene mentale” che riprendiamo contatto con le cose e recuperiamo la nostra
serenità.
Come dice Nietzsche, «non le cose, bensì le opinioni sulle cose che non
esistono, hanno confuso gli uomini».
46. La tranquillità
In una cosa il saggio supera Dio: questi non teme nulla per propria natura, il
saggio per propria virtù. Che grande cosa essere debole come un uomo e
tranquillo come un Dio!
SENECA
Fa parte della normale dialettica dei contrari che le due parti di un ciclo si
alternino di continuo: niente rimane a lungo nel punto più alto, niente rimane a
lungo nel punto più basso. Memore di questa legge, Kierkegaard scrive:
«Quando tutto ti sembra perduto, è allora che incominci a vivere». Una volta
toccato il fondo, se non ci si disintegra, non si può che risalire a galla.
Ecco dunque una meditazione che deve essere tenuta presente da chi
attraversa una crisi, da chi ha l’impressione di non potercela più fare. Si tratta di
tener duro il tempo sufficiente a far sì che la ruota compia il suo giro.
Spesso non possiamo far nulla, non siamo noi che abbiamo in mano il bandolo
della matassa: allora dobbiamo risparmiare le energie e aspettare che la crisi
passi. Si tratta di una prova di resistenza, in cui vince chi sa mantenersi più
calmo, chi ha più pazienza. Dobbiamo solo aspettare che il “corso delle cose’’
cambi direzione.
È come trovarsi in mezzo a una tempesta: può essere terribile, può anche
distruggerci; ma, se riusciremo a tener duro, la tempesta passerà da sola. Siamo
spesso più forti di quanto crediamo.
Dice Seneca: «Chi non ha più nulla in cui sperare, non deve nemmeno
disperare di nulla».
48. La fioritura
Quando si verifica un’abbondante fioritura, seguono inevitabilmente tristezza
e decadenza.
WEN-TZU
L’anima capitola per prima quando incomincia ad aver paura delle novità, dei
cambiamenti e delle emozioni, quando si fossilizza nelle abitudini, quando si
sclerotizza nelle opinioni. La vecchiaia è invece qualcosa da sperimentare fino in
fondo, non una resa alla vita.
La crescita dello spirito non si arresta certo nella tarda età: deve anzi compiere
altri passi decisivi. L’esistenza è contrassegnata da fasi non per il capriccio di
qualche Dio, ma per una saggezza che ha profonde ragioni. Se una giornata fosse
costituita soltanto del mattino, e non anche del pomeriggio e del tramonto, non ci
sarebbe possibilità di un altro giorno; se il tempo fosse costituito soltanto del
passato e del presente, non ci sarebbe posto per il futuro.
«Arriviamo sempre impreparati alle diverse età della vita, e ci manca spesso
l’esperienza nonostante gli anni» scrive ironicamente La Rochefoucauld, e molti
la pensano così. Ma, se potessimo essere perfettamente preparati, il “fare
esperienza” - cioè la vita stessa - sarebbe inutile.
In realtà chi ragiona così soffre già di senilità, ossia di quella malattia dello
spirito che non ha età. «C’è gente che smette di vivere ancor prima di
incominciare» diceva Seneca.
L’atteggiamento positivo consiste nel pensare che tutte le esperienze
fondamentali, tutte le fasi dell'esistenza, vadano sperimentate fino in fondo e
siano utili. Se si ha la fortuna di vivere a lungo, c'è sempre la possibilità di
imparare qualcosa, di perfezionarsi.
La paura di invecchiare è la conseguenza di una concezione immatura della
vita.
«La vecchiaia è uno stato di riposo e di libertà:» sostiene Platone «spenta la
violenza delle passioni, si è finalmente liberi da una folla di forsennati tiranni.»
50. II dovere della felicità
Non c'è dovere più trascurato del dovere della felicità.
ROBERT LOUIS STEVENSON
Diceva Malebranche: «La nostra volontà non può non desiderare la felicità».
Tendiamo naturalmente a uno stato di benessere proprio come aspiriamo
all'aria e alla luce. Ed è la frustrazione di questo legittimo desiderio che rende
cattivo l'uomo.
Fino a oggi ci è stato insegnato il contrario: che l’uomo è malvagio per natura,
magari in conseguenza di qualche “peccato originale”, e che questa malignità è
la causa della sua sofferenza.
Invece, l’uomo diventa cattivo perché è infelice.
Bisogna però distinguere tra felicità e stato naturale di benessere, quello che
noi chiamiamo serenità. La prima è una vetta o un picco che non può essere
mantenuto a lungo e che dipende in gran parte dalle circostanze esterne; la
seconda invece è uno stato d’animo originale che viene oscurato non solo dalle
esperienze negative, ma anche e soprattutto dalle concrezioni sociali e culturali,
dalle ideologie distorte e da tutti quegli insegnamenti che presentano l’uomo
come un peccatore inveterato e il mondo come un luogo d'espiazione, una “valle
di lacrime”.
Se cosi fosse, non ci sarebbe nessun vantaggio a esistere.
«La cosa più importante» dice Platone «non è vivere, ma vivere bene.» A
questo scopo, il nostro primo compilo è liberare la mente delle distorsioni
religiose, filosofiche e ideologiche che ci presentano la natura umana diversa da
quella che è.
La nostra natura è esattamente quella che ci serve per sopravvivere, né buona
né cattiva. Nessuno, quando vede un leone che sbrana la gazzella, giudica cattivo
il leone: lo fa per necessità, e la necessità è una condizione di sofferenza che non
ha deciso lui.
Analogamente, i comportamenti che riteniamo “malvagi” sono il frutto di uno
stato di bisogno. È questo stato che, a rigore, dovrebbe essere giudicato cattivo, e
perciò dovremmo prendercela non con chi ne è la vittima, bensì con chi lo ha
creato, e in particolare con coloro che vedono il male in ogni piacere.
«Nessun piacere è di per sé un male;» conferma Epicuro «in realtà sono i
mezzi impiegati che portano più dolori che gioie.»
51. L’armonia
L’armonia dell’universo, come quella dì una lira o di un arco, è l’effetto di
tensioni contrastanti.
PLUTARCO
Questa è una legge che è valida non solo per i fenomeni fisici ma anche per gli
stati d’animo: ecco perché i saggi consigliano di mantenersi in equilibrio fra le
tensioni contrastanti. Chi vive per esempio in uno stato di esaltazione o di
euforia, non potrà che precipitare prima o poi nel suo esatto contrario: nella
depressione.
Nessun sentimento estremo è stabile e la sua esistenza è collegata a quella del
suo opposto.
Ce una profonda saggezza in questa legge del divenire e dell’alternanza, che
in un primo momento può apparire crudele: se pretendiamo che il tempo risani
ogni dolore, dobbiamo accettare che, per lo stesso principio, sgretoli ogni
felicità.
Scrive a questo proposito Montaigne: «La nostra vita è composta, come
l'armonia del mondo, di cose contrastanti, come di diversi toni dolci e aspri, acuti
e bassi, molli e gravi». Bisogna dunque essere preparati al fluire delle cose e
degli stati d’animo.
«Tutto accade secondo contesa» ricorda Eraclito: dobbiamo sempre tener
presente questa legge. Possiamo però mettere in azione una strategia per ridurre
il più possibile le oscillazioni interiori.
Per conservare la serenità, ovvero lo stato d’animo mediano, dobbiamo
identificare dentro di noi quel nucleo profondo, quel “centro dell’essere”, che
non è toccato né dalle gioie né dai dolori estremi: un centro di calma e di
consapevolezza che non si fa travolgere dagli sbandamenti emotivi e che tende a
ridimensionare gli eccessi, in un senso o nell’altro.
Come dice Eraclito, «gli elementi contrastanti si accordano e da ciò deriva la
più bella armonia».
52. Il potere della mente
I dolori più grandi sono quelli di cui noi stessi siamo la causa.
SOFOCLE
Questa frase afferma che noi possiamo essere, in ultima istanza, i veri artefici
della nostra peggiore infelicità. E quindi del nostro benessere.
Dice a questo proposito Menandro: «Nulla di grave ti è successo, se non lo
immagini tale». È lo stesso principio espresso dal Buddhismo e da altre filosofie
orientali.
Tutte queste tradizioni hanno messo l’accento sulla necessità del controllo
della mente. Per esempio, il Dhammapada sostiene che «una mente controllata
dà la Felicità». E precisa: «Come i falegnami lavorano il legno, così i saggi
dominano il proprio sé».
Esistono fatti dolorosi e perdite ai limiti dell’insopportabile. Ma ogni
sentimento viene filtrato e interpretato dalla mente: ecco perché è utile, è saggio,
mettersi a osservare il modo in cui essa accoglie o respinge, amplifica o
minimizza i dati oggettivi.
Lo spazio d’intervento è molto più ampio di quanto non si creda. «Il mondo in
cui ciascuno vive» dichiara Schopenhauer «dipende in primo luogo dal proprio
modo di concepirlo.»
È da questa “osservazione di sé” che l’uomo impara ad attutire i colpi
peggiori, senza farsene travolgere.
«Ciascuno è tanto infelice» scrive Leopardi «quanto esso crede.» Non c'è
niente di così tragico se non siamo noi stessi a ritenerlo tale. Dunque abbiamo
grandi possibilità di correggere e modificare.
«Tutto è opinione» afferma Marco Aurelio «e l’opinione è in tuo potere.»
53. Il rifugio
I più saggi possono costruirsi un rifugio tutto spirituale e avete un'anima forte
e salda.
MICHEL DE MONTAIGNE
Se un individuo non è padrone di almeno due terzi del suo tempo non può
essere considerato un uomo libero.
La schiavitù si perpetua anche nelle nostre società, che hanno sostituito alla
dura coercizione di un tempo una condizione più sottile ma non meno
vincolante: quella dell’uomo che non ha più nessun rapporto con se stesso, che
non ha nessuna interiorità e che, se non ha qualcosa da fare, si sente perduto.
Scrive Schopenhauer: «Il tempo libero è il fiore o piuttosto il frutto
dell’esistenza di ognuno, in quanto esso solo lo insedia nel possesso del proprio
io».
Ma proprio questo è il punto debole, perché, quando l'individuo ha perso il
rapporto con se stesso, si ritrova, nei rari momenti liberi, con un perfetto
estraneo. Può darsi che sia proprietario di palazzi o di industrie, però non è
padrone di se stesso.
«Felici coloro che trovano in se stessi anche qualcosa di buono,» afferma
Schopenhauer «mentre nella maggioranza dei casi il tempo libero non rende che
un buono a nulla, uno che si annoia mortalmente e che è di peso a se stesso.»
Questo succede perché per tutta la vita si sono sviluppate attività e relazioni
esterne senza pensare di coltivare se stessi, di arricchire il proprio patrimonio
interiore. Un bel giorno, in seguito a qualche cambiamento esteriore (per
esempio il pensionamento), ci si ritrova privi di impegni, e tutto il vuoto o,
peggio, il tormento del cattivo rapporto con se stessi, ci ricade addosso. Allora è
la crisi, e la vita appare priva di senso.
In realtà, questo stato era stato preparalo a poco a poco nel corso degli anni,
evitando o rimandando a un futuro indeterminato l’incontro con noi stessi:
avevamo rinunciato per pigrizia o per paura ad avere un po’ di tempo veramente
libero, un po’ di tempo veramente nostro.
Non basta in effetti trovarsi soli: non è propriamente una questione di tempo.
È piuttosto necessario essere liberi mentalmente, interrompere il dialogo
continuo che, anche in solitudine, intratteniamo con gli altri.
«L’unica cosa veramente nostra che la natura ci ha dato è il tempo:» scrive
Seneca «un bene sommamente fuggevole che noi ci lasciamo togliere dal primo
venuto.» E conclude: «Non è vero che non abbiamo tempo: la verità è che ne
sprechiamo molto».
58. L’attività
Tutta l’infelicità degli uomini viene da una sola cosa: dal non saper stare in
riposo in una stanza.
BLAISE PASCAL
È utile stabilire questo confronto per vedere come anche gli uomini grandi e
famosi, gli individui che consideriamo baciati dalla fortuna, abbiano sofferto di
tanti mali, se non dei nostri. Ma il confronto può essere fatto con tutte le persone
che conosciamo.
Scopriremo allora che la condizione dell’essere umano non esenta nessuno da
malattie, da sofferenze e da errori. Come dice Publilio Siro, «a chiunque può
accadere ciò che capita a tutti».
Plutarco cita il caso di un tale che, tirato un sasso alla cagna, sbagliò il colpo e
colpì la matrigna. «Neanche così è male!» egli esclamò; e il caso di Diogene, il
quale, bandito dalla patria, disse le stesse parole: «Neanche così è male!» e si
dedicò alla filosofia. Erano persone che sapevano trarre il meglio da situazioni
negative.
Così, a chi si lamenti perché non ha figli, perché è povero o perché è tr adito
dalla moglie, lo scrittore greco ricorda i casi di uomini famosi che subirono le
stesse disgrazie, ma che continuarono a essere sereni.
Esser e uomini significa non poter sfuggire a una certa dose di sofferenza,
come d’altronde a una certa dose di felicità. È la dialettica stessa degli eventi e
degli stati d’animo che porta a questa alternanza.
Il problema non consiste dunque nel riuscire a evitare le cose negative, ma
nell’essere preparali a queste vicissitudini e nel riuscire ad assorbirle con
saggezza, senza farci distruggere, senza credere di essere gli unici a patirle.
«È di grande conforto» scrive Seneca «pensare che il male che soffri, tutti
l’hanno sofferto prima di te e tutti lo soffriranno dopo di te.»
60. Gli opposti
Senza vanità ed egoismo che cosa sarebbero le virtù umane?
FRIEDRICH NIETZSCHE
Questo significa, secondo Plutarco, che la vita può diventare più piacevole e
più bella se noi predisponiamo l’animo a considerarla tale, se cioè sviluppiamo
la saggezza. «Cerchiamo di purificare la sorgente della serenità che è dentro di
noi,» prosegue lo scrittore greco «in modo che anche le cose esterne, una volta
considerate familiari, amiche e trattate senza asprezza, possano accordarsi con
noi.»
D’altronde, è inutile prendersela con gli eventi, perché, come dice Euripide,
«a loro non imporla nulla di noi».
Ciò che Plutarco sottolinea è l'importanza delle “disposizioni d’animo”, della
preparazione psicologica e spirituale, del modo cioè in cui ci siamo esercitati ad
accogliere la buona o la cattiva sorte.. Non è la vita a essere più o meno bella,
ma è la nostra “filosofia”, la nostra saggezza, a renderla tale.
Stando così le cose, diventa fondamentale il lavoro interiore, che viene
comunque svolto, inconsciamente o consapevolmente.
Scrive a questo proposito un maestro di saggezza dei nostri tempi, Osho
Rajneesh: «Un uomo diventa il suo pensiero: quello che pensa lo crea. L'uomo è
l’architetto del suo stesso fato. La costante ripetizione di qualche pensiero o idea
si consoliderà alla fine in una situazione reale; quindi, ricorda, qualsiasi cosa sei
è quello che hai voluto essere».
65. La natura
La stessa cosa è vivere felici e vivere secondo natura.
SENECA
Vivere secondo natura non significa soltanto curare la salute del corpo, ma
anche cercare di vivere in armonia con le nostre esigenze profonde, con il nostro
sé più intimo, che a sua volta è il prodotto più sofisticato di una lunga
evoluzione. Non basta preoccuparsi del mangiare, del bere, del dormire e della
sessualità; occorre anche esercitare una forma di “igiene mentale”: ossia ridurre
ed eliminare tutte quelle attività mentali che ci pongono in conflitto con la nostra
natura interiore.
«La natura non fa niente di inutile» diceva Aristotele; ma la mente umana è
capace di fare molte cose superflue, quando non completamente dannose. Ad
esempio, per pura avidità è capace di distruggere l'ambiente naturale, per
questioni ideologiche e religiose è capace di scatenare guerre, per combattere
altri uomini è capace di costruire armi nucleari, e così via.
Gli esempi sono infiniti: c'è solo l’imbarazzo della scelta. Ma, al fondo di tutti
questi comportamenti aggressivi, c’è l’uscita dall’ambito naturale, c'è la perdita
dell’equilibrio interiore.
«Il sommo bene è l’armonia interiore» dice ancora Seneca, esprimendo forse
l’essenza della saggezza di tutti i tempi e di tutti i paesi.
Epicuro sostiene che «non bisogna far violenza alla natura, ma persuaderla».
Noi, invece, ci siamo messi sulla strada della violenza: abbiamo trascurato i
valori dell’equilibrio e della serenità, e abbiamo costruito un mondo sempre più
artificiale.
L’uscita dal mondo naturale, fuori e dentro di noi, va di pari passo con la
perdita dell’armonia e con l’aumento della sofferenza. L’uomo che ha perso il
contatto con la natura è un individuo dilacerato, tormentato, che cerca di lenire la
tensione interna con altri comportamenti aggressivi, i quali producono a loro
volta nuova sofferenza… e così di seguito in un circolo vizioso senza fine.
Non servono le religioni, non serve tutta la nostra scienza, non serve la
ricchezza, se non c’è un rapporto armonico con la natura esterna e con le nostre
esigenze naturali.
«La virtù più grande è essere saggio,» sostiene Eraclito «e la più grande
saggezza è dire e fare cose vere operando secondo natura.»
66. Il dualismo
Platone credette, come tutti gli antichi, al bene e al male come al bianco e al
nero, ossia a una differenza radicale fra uomini buoni e uomini cattivi, fra
qualità buone e qualità cattive.
FRIEDRICH NIETZSCHE
Ecco uno dei grandi errori della mente umana: pensare che esista una netta
contrapposizione fra bene e male, avere cioè una visione dualistica delle cose.
Tutte le religioni monoteistiche e la filosofia platonica sono convinte che
esistano due princìpi o due forze - luna tutta positiva e l’altra tutta negativa - che
si combattono su questa terra e che si escludono a vicenda; e si aspettano
ovviamente che la prima trionfi.
Ma la realtà ci dice che bene e male sono strettamente intrecciati in ogni cosa
e in ogni persona; sono due principi complementari che, mentre si combattono,
si giustificano a vicenda.
Si tratta in effetti di un “gioco delle parti”, in cui nessuno può avere la meglio,
in quanto l’interesse di entrambi è che la partita continui indefinitamente. Le due
forze che si spartiscono il mondo sono luna relativa all’altra; e il loro vero
nemico è la visione unitaria, al di là del dualismo.
Anche il nostro animo è un campo di battaglia di questi due principi, e non
sempre noi ci rendiamo conto da quale parte stiamo. Tuttavia non è una nostra
colpa, perché - come diceva san Paolo - appena crediamo di fare il bene, ecco
che ci troviamo a fianco il male, e viceversa.
Ed è inevitabile, dato che le due polarità sono tra loro in un rapporto dialettico
e, quindi, sono tra loro sotterraneamente conciate, complici, solidali.
Dio e Diavolo, santo e peccatore, paradiso e inferno, virtù e vizio, redenzione
e peccalo, bontà e cattiveria… sono queste le ingenue contrapposizioni cui crede
un’umanità di bambini che ama i forti contrasti senza mai riuscire a uscirne. La
nostra mente si sposta da un estremo all’altro, illudendoci ogni volta di trovare la
soluzione definitiva, assoluta. Ma il gioco riprende sempre uguale a se stesso.
Scrive Montaigne: «Il nostro essere non può esistere senza questo miscuglio, e
una parte è non meno necessaria dell’altra».
Che cosa farebbero i tutori della legge senza i fuorilegge? Ed esisterebbero dei
fuorilegge senza la legge?
«Quando la Grande Via decade,» dice l’inarrivabile Lao-tzu «ecco che
compaiono la bontà e la giustizia. Quando la mente si impone, ecco che nasce la
grande impostura.» E, con essa, l’interminabile lotta tra buoni e cattivi e tutti i
valori dualistici.
La via d’uscita è trascendere le polarità contrapposte e mantenersi al centro.
«Punta all’essenza,» consiglia il saggio cinese «abbraccia ciò che non è
artefatto, diminuisci l’egocentrismo, riduci i desideri.»
67. Le cadute
La grandezza dell’uomo non sta nel non cadere mai, ma nel risollevarsi dopo
ogni caduta.
CONFUCIO
Chi non è in grado di governare se stesso non può essere capace di governare
gli altri: ecco un principio che dovrebbero tenere a mente coloro che intendono
guidare gli uomini.
È anche un criterio con cui i “governati” possono giudicare dei loro capi:
nessuna azione veramente disinteressata potrà essere compiuta da chi non coltiva
se stesso, da chi non è abituato a fare i conti con la propria coscienza.
In fondo gran parte delle difficoltà dei popoli nasce dal non sapersi scegliere i
governanti giusti. Uomini aggressivi, arrivisti, partigiani, egocentrici, uomini che
non sono capaci di distacco e di obiettività, una volta giunti al potere non
sapranno fare gli interessi generali, ma solo i propri e quelli della propria
“parte”. Uomini che non hanno equilibrio e saggezza, uomini che non hanno una
propria armonia interiore, diffonderanno anche fuori di sé il conflitto e
l’ingiustizia.
Scrive a questo proposito Platone: «Ho capito che l’umanità non si sarebbe
mai potuta liberare dalle sue disgrazie, finché non fossero giunti al potere i veri
filosofi o finché i governanti non fossero diventati veri filosofi».
69. La conoscenza
Non temere di restare sconosciuto agli uomini, ma di non conoscerli.
CONFUCIO
Cercare di conoscere gli uomini è ovviamente uno dei mezzi basilari per
riuscire a orientarsi nel mondo. Ma non si può conoscere gli altri senza
conoscere se stessi.
Nello stesso tempo la conoscenza degli altri aiuta a conoscere se stessi. Dice
Chuang-Tzu: «Non c'è nessuno che non sia “altro” e nessuno che non sia “sé”».
Tuttavia, una conoscenza approfondita di se stessi e degli altri è un’operazione
lunga e complessa, e non sempre abbiamo a disposizione tanto tempo. È
necessario farsi velocemente un’idea complessiva di chi ci troviamo di fronte,
spesso senza mai averlo incontrato prima. A questo scopo è bene utilizzare il
metodo dell'ascolto meditativo.
Si tratta di sospendere il più possibile giudizi e opinioni preconcette, per
cercare di assorbire la personalità dell’interlocutore. Se infatti conserviamo una
barriera di convinzioni personali, magari desunte da suggerimenti e da idee di
altre persone, finiremo per sovrapporre un’immagine precostituita: finiremo cioè
per non uscire dalle nostre convinzioni.
Lo stesso discorso vale per la conoscenza di sé: nell’ambito meditativo, non si
tratta tanto di un’analisi della personalità, quanto di un’osservazione il più
possibile libera da preconcetti, uno “stare insieme” che sospende in un primo
momento i giudizi, un’attenzione che cerca di cogliere la nuda essenza
dell’oggetto.
In realtà, anche nella conoscenza di sé, si ha sempre a che fare con un “altro”,
e la difficoltà risiede sempre nella moltitudine di opinioni che già possediamo in
partenza.
Dichiara Chuang-Tzu: «Se non fosse per l’altro non ci sarebbe nessun sé, e se
non fosse per il sé non si apprenderebbe nulla».
E Lao-tzu conclude: «Chi conosce gli altri è saggio, ma chi conosce se stesso
è illuminato».
70. La memoria
Coloro che non conservano e non richiamano il passato mediante la memoria,
ma lo lasciano svanire a poco a poco, di l’atto si rendono giorno dopo giorno
poveri e vuoti.
PLUTARCO
«Una cosa non la può fare neppure Dio:» afferma Agatone «disfare il
passato.»
Chi cerca di dimenticare o di censurare il passato, volontariamente o
inconsciamente, ha qualcosa di sgradevole da cancellare: è come in fuga da se
stesso.
Il risultato non è mai piacevole: si crea un vuoto o uno stato di nevrosi.
L'individuo è mutilato e sofferente: deve reprimere una parte di sé.
Fatti, avvenimenti ed esperienze sono indelebilmente registrati dentro di noi, e
continuano ad agire, anche se non ce ne rendiamo conto. Ciò che siamo stati, ciò
che abbiamo pensato, ciò che abbiamo voluto o negato, goduto o sofferto, è in
realtà il fondamento di ciò che siamo oggi, e niente e nessuno potrà togliercelo,
se non eliminando la nostra stessa identità.
«Chi non ricorda il bene passato» afferma Epicuro «è già vecchio oggi.»
Il passato è dunque una ricchezza, anche quando non è piacevole; e va
attentamente ripensato e rivalutato, in modo che possa servire da
ammaestramento per il futuro.
«Duplice è la virtù della memoria:» scrive Quintiliano «capire prontamente e
fedelmente conservare.» Questo significa che il ricordo non è qualcosa di morto,
ma è la base di ogni nostra attività di comprensione.
Dobbiamo in sostanza sviluppare una grande attenzione verso la memoria ed
esaminare anche il modo in cui essa registra. Non sempre ciò che ricordiamo è
esattamente quel che è avvenuto. Ma ciò che ricordiamo condiziona
immancabilmente quel che conosciamo.
Se però ci trinceriamo nella memoria, se ci facciamo dominare solo da ciò che
è passato, ci precludiamo esperienze autenticamente nuove.
I ricordi vanno quindi riesaminati in questa duplice prospettiva: utilizzarli
come esperienze e non farsene del tutto condizionare; non vanno però mai
rimossi, perché sono la sostanza di cui siamo fatti.
Scrive Schopenhauer: «Quello che si è imparato va esercitato e il passato va
rimeditato, se non si vuole che a poco a poco l’uno e l’altro sprofondino
nell’abisso dell’oblio».
71. I giudizi
Non l’azione, ma il nostro giudizio sull’azione (magari sbagliato) forma la
nostra coscienza, la nostra storia privata.
FRIEDRICH NIETZSCHE
Ci sono momenti in cui una parola detta o non detta, un’azione compiuta o
non compiuta, una decisione presa o non presa, danno un nuovo indirizzo alla
nostra esistenza. Non sempre sappiamo perché siamo arrivati a quel punto e
perché abbiamo deciso in quel modo: tutto è avvenuto così improvvisamente e
rapidamente che non ci siamo resi conto di nulla.
Il problema è proprio questo: renderci consapevoli delle cose che ci
succedono, renderci padroni della situazione, non essere semplici fuscelli in
balia del vento.
Ciò è possibile se ci si abitua a esercitare l’attenzione, a tenere sott’occhio il
corso della nostra vita. Non dobbiamo compiere sforzi della volontà: dobbiamo
solo allenarci a essere spettatori di noi stessi, a mantenerci consapevoli e attenti,
dapprima nelle situazioni circoscritte di una seduta di meditazione e poi in tutte
le circostanze dell’esistenza.
Per prendere in mano il nostro destino, dobbiamo diventare più sensibili, più
ricettivi, dobbiamo sostituire all’automatismo delle nostre azioni e reazioni una
quieta consapevolezza.
Non si tratta dunque, come si potrebbe credere, di imporre alla nostra vita una
camicia di forza, una ferrea determinazione, ma di capire che cosa sia meglio per
noi e verso che cosa ci stiamo già dirigendo.
Non dobbiamo cercare qualcuno che ci dica che cosa dobbiamo fare:
dobbiamo semplicemente realizzare noi stessi.
Dichiara il Dhammapada: «Soltanto il sé è signore di se stesso: chi altri
potrebbe esserne il signore?».
75. I beni
Non dobbiamo trascurare i beni che sono comuni a tutti, ma tenerli in una
certa considerazione: dobbiamo essere riconoscenti per il fatto che viviamo,
godiamo buona salute, vediamo la luce del sole; non ci sono né guerre né
rivolte, ma la terra si lascia coltivare e il mare navigare senza pericoli da chi
vuole; ci è consentito di parlare e di agire, di tacere e di stare in ozio.
PLUTARCO
Ecco invece i beni che tendiamo tutti a trascurare. Perdendo di vista le cose
essenziali, ci mettiamo a inseguire la carriera, i soldi, gli amori, le avventure, il
successo, la fama e tanti altri desideri.
Eppure, dice ancora Plutarco, basta considerare quanto sia importante la salute
per chi sia malato o la pace per chi sia in guerra per renderci conto di quali siano
i veri valori.
Naturalmente non è un male sviluppare interessi e attività di ogni genere, ma
dovremmo dedicare periodicamente un po’ di tempo a ricordare quali siano i
beni essenziali.
Si può dire con sicurezza che gran parte dei mali dell’uomo derivi dal suo
perdere di vista questa scala di valori, dal considerare importanti cose che sono
in realtà secondarie.
Non dobbiamo trascurare e disprezzare questi beni solo perché sono naturali e
comuni a tutti. «Bisogna, al contrario, servirsene per trarne piacere e godimento,
in modo da poterne sopportare più dolcemente anche l’eventuale perdita.»
Questa opinione di Plutarco è confermata da Montaigne, il quale scrive: «La
natura è una dolce guida, ma non più dolce che prudente e giusta: io seguo
sempre la sua traccia; l'abbiamo confusa con tracce artificiali».
76. La malinconia
La personalità vuole diventare cosciente di sé nei suo eterno valore. Se questo
non accade, se il movimento si ferma e viene represso, subentra la malinconia.
SOREN KIERKEGAARD
Chi non ha un buon rapporto con se stesso, chi non ama se stesso (perché a
sua volta non è stato amato o è stato amato in modo sbagliato), si trova in uno
stato di sofferenza. E chi si sente infelice, finisce per rendere infelici anche gli
altri, volutamente o inconsapevolmente: la catena del rancore e della vendetta si
allunga all’infinito e ammorba il mondo.
«Il mio prossimo sono io stesso!» diceva Terenzio, enunciando il principio per
cui non si può amare gli altri se non si ama se stessi.
Quindi la prima cosa da fare per essere in grado di amare chi ci sta intorno è
ritrovare l’amore di sé. «La religione inizia dentro di te,» scrive Rajneesh
«quando diventi amico di te stesso.»
L’ascetismo antico invitava al “disprezzo di sé”. Ma si dava la zappa sui piedi:
perché chi disprezza se stesso, non ama l’uomo, e perciò non può amare neppure
gli altri. Per interrompere la catena delle sofferenze, non ci resta allora che
seguire l’invito di Nietzsche a “sedurre all’amore di sé” quelle persone, così
numerose, che hanno con gli altri l’esatto rapporto che hanno con se stessi: di
conflitto, di prevaricazione, di aggressività, di odio.
Purtroppo “sedurre all’amore di sé” è molto difficile: più difficile che sedurre
e basta.
Non è sufficiente a questo scopo amare una persona: occorre in più rispettarla,
infonderle fiducia e portarla ad amare se stessa.
Come si vede esiste un rapporto stretto fra amore ed equilibrio, fra amore e
armonia, fra amore e serenità. Solo quando si possiedono e si infondono queste
tre virtù - equilibrio, armonia e serenità - si può ricostituire un tessuto dilacerato,
dentro di noi e nel prossimo.
Rajneesh dà il seguente consiglio: «Pratica fedelmente la meditazione, in
modo che la tua vita possa colmarsi della luce della saggezza. E quando ci sarà
luce dentro di te, l’amore fluirà da te e si spargerà dappertutto».
78. L’ambivalenza
Le cose che sono benefiche possono essere anche dannose, mentre quelle che
sono dannose possono essere anche benefiche.
WEN-TZU
Questo principio ci dice che bene e male non possono essere definiti in
anticipo, in base a regole astratte, ma che è necessario vedere la compresenza
delle due polarità e decidere caso per caso quali siano gli elementi positivi e
quali quelli negativi.
Non abbiamo mai, in sostanza, un bene o un male assoluto, una
contrapposizione netta, per cui un estremo escluda del tutto l’altro; abbiamo
soltanto una prevalenza di elementi che ci fa definire qualcosa più un bene che
un male, e viceversa.
Si tratta di una specie di valutazione complessiva che inette temporaneamente
fra parentesi gli elementi opposti.
Per esempio, una malattia, che è certamente un evento dannoso, può dotarci di
anticorpi preziosi, e un cibo prelibato, che è certamente qualcosa di benefico,
può provocarci -, attraverso vari passaggi, una malattia al fegato o al cuore.
A maggior ragione questo succede per gli eventi complessi, per i latti della
nostra vita.
In alcuni casi ci rendiamo conto della compresenza delle due polarità, tanto è
vero che siamo indecisi e valutiamo con attenzione i prò e i contro; ma, in molti
altri casi, ci sfugge completamente l’aspetto contrario e siamo convinti di lare
solo del bene o so lo del male.
«Ogni male quaggiù è compensato da un bene» scriveva a questo proposito
Claude Tillier «e ogni bene che taccia mostra di sé è attenuato da un male che
non si vede.»
È una constatazione che è stata fatta da tanti altri scrittori e filosofi, e che era
ben presente al Taoismo antico; ma che è sfuggita, un po’ per comodità e un po’
per superficialità, alle nostre concezioni etico-religiose, tutte rigidamente
dualistiche.
Per quanti secoli gli uomini sono stati tormentati da queste nette
contrapposizioni tra bene e male, tra salvezza e perdizione, tra virtù e peccato,
tra progresso e regresso, tra Dio e Satana, tra paradiso e inferno, tra verità ed
errore, tra vita e morte, tra luce e tenebre, e così via: contrapposizioni che hanno
provocato dolorosi conflitti interiori e sanguinose guerre esterne.
Ancora oggi sentiamo parlare di questa ‘‘eterna lotta” tra le forze del bene e le
forze del male; mai nessuno che ci parli della loro sotterranea complicità.
Eppure questa complicità deve entrare nelle coscienze di tutti se non vogliamo
continuare a essere bambini che giocano con le loro idee, facendone strumenti di
distruzione. Ignorando come tutte le nostre crociate in nome del bene e del
progresso contengano anche elementi maligni e regressivi, continueremo a
comportarci con una distruttività di cui non ci renderemo conto.
La convinzione di aver sposato una volta per tutte la causa del bene è una
delle maggiori illusioni, una forma di presunzione.
«Così ora hai abbandonato il male?» chiede ironicamente Osho al solito
convertito, pieno di entusiasmo e di zelo. «Bene. Ma adesso rinuncia anche al
bene. La vanità rimarrà con te finché tieni stretto uno dei due.»
Sarebbe bello poter abbracciare definitivamente tutto ciò che è positivo. Ma è
la natura delle cose che ce lo impedisce: appena crediamo di essere dalla parte
giusta, ecco che incominciamo a fare del male.
Non ci resta allora che meditare attentamente, caso per caso, che cosa vi sia di
bene e che cosa vi sia di male.
Dobbiamo sviluppare un’agile capacità di valutazione, un centro di
consapevolezza e di autocontrollo, una facoltà mobile e vigile che sia in grado di
farci muovere con responsabilità e maturità.
«Non è possibile che il male scompaia del tutto,» scrive Platone (che è uno dei
campioni del pensiero dualistico) «perché è necessario che al bene sia sempre
contrapposto qualcosa.»
79. La conoscenza
Il massimo dei peccati è l’ignoranza.
DHAMMAPADA
Non è possibile sfuggire alle passioni. «Un uomo senza passioni e senza
desideri» diceva d’Holbach «cesserebbe di essere un uomo.»
Anche il desiderio di equilibrio e di serenità è una passione; anche chi
desidera la salvezza, la liberazione o la verità è in preda a una grande passione;
anche l’asceta che crede di combattere i desideri della carne si fa dominare da un
desiderio. L’individuo senza passioni è in realtà un depresso che non trova più
un motivo per vivere.
Il problema, allora, è di saper scegliere tra piccole e grandi passioni, tra
desideri che arricchiscono la vita e desideri che la impoveriscono. La saggezza
sta tutta in questa capacità di distinguere gli obiettivi meschini dalle mete
veramente meritevoli dei nostri sforzi.
Ma non bisogna illudersi di poter stabilire in anticipo ciò per cui valga la pena
di lottare: anzi, di solito, i grandi ideali sono travestimenti di piccoli desideri.
Bisogna quindi guardarsi dagli imbonitori di utopie e di valori morali; e
bisogna piuttosto tenere sempre d’occhio il proprio stato interiore, la propria
condizione psicologica, che è il vero paradigma, in definitiva, della felicità.
Esiste un’ambivalenza di fondo tra obiettivi contrastanti, al punto che, mentre
se ne insegue uno ritenuto positivo, è facile ricadere nel suo opposto. Quanti
santi pei'esempio si sono trasformati in feroci oppressori, e quanti peccatori si
sono trasformati in santi!
La via della “realizzazione di sé” non può essere riassunta in un decalogo, non
è un insieme di dogmi; si fonda piuttosto su una mobile e duttile sensibilità, che
si evolve e si adatta incessantemente.
Contrariamente a quanto si pensa, non è la passione ciò che può distruggere
l’anima; è semmai la meschinità del desiderio.
Afferma Nietzsche: «La volontà di vincere le passioni non è in fondo che la
volontà di un'altra o di altre passioni».
82. La serenità
Chi è sereno dà serenità a se stesso e agli altri.
EPICURO
L’uomo si distingue dagli altri animali proprio per il suo maggior grado di
consapevolezza, che è non solo la coscienza delle cose che lo circondano ma
anche la coscienza di se stesso in rapporto a quelle cose.
Chi è dominato solo dagli istinti e dalle pulsioni della propria mente è come se
vivesse in un sogno ad occhi aperti: si muove senza rendersi conto del come e
del perché, agisce come un automa.
Però non tutti gli esseri umani hanno la stessa consapevolezza. Che è
oltretutto variabile da un momento all’altro.
Quante volte ci diciamo: «Non so perché ho fatto quella cosa», quante volte ci
accorgiamo di agire come sonnambuli!
Per quanto si possa essere consapevoli, c'è sempre qualcosa che ci sfugge, c’è
sempre qualcosa di cui non siamo coscienti.
Per essere davvero intelligenti, dovremmo conoscere non solo tutte le nostre
motivazioni, ma anche quelle di tutti gli altri. E chiaramente noi non ci troviamo
a questo livello: il nostro livello è appena al di sopra di quello degli animali, è
appena al di sopra di quello del sonno e del sogno.
Afferma il libro biblico del Siracide: «Se parli con uno stolto, parli con uno
che dorme».
Le Upanisad indiane distinguono quattro livelli di consapevolezza: quello del
sonno con sogni, quello del sonno senza sogni, quello della veglia e il cosiddetto
“quarto stato”, dove dovremmo essere perfettamente “svegli”.
Esiste comunque la possibilità di essere più presenti in ciò che facciamo.
Il punto di partenza è ovviamente quello di renderci conto del nostro stato di
sonnambulismo: questo è il primo passo per schiarire la mente.
Il secondo passo consiste nell’isolare di volta in volta l’azione più importante
che stiamo compiendo e nel concentrarci esclusivamente su di essa. Il terzo
passo consiste infine nel liberare la mente da tutte quelle fantasie e quegli stati
d’animo che rappresentano deviazioni rispetto al centro di attenzione.
Ci accorgeremo allora che la mente si farà più trasparente, ci sentiremo
perfettamente equilibrati fra il “dentro” e il “fuori”, e usciremo
dall’annebbiamento in cui viviamo di solito.
Capiremo così perché l'Oriente parli di “risveglio” per simili condizioni di
chiarificazione o di “illuminazione”. Non si tratta di stati mistici, ma di
esperienze che sono alla portata di tutti.
Dichiara Chuang-Tzu: «Un giorno ci sveglieremo e scopriremo che tutto non
è stato che un sogno».
89. Il presente
Ricordati che l’uomo non vive altro tempo che quell’istante che è il presente.
MARCO AURELIO
Le catene non sono solo quelle dell’indigenza e dei regimi totalitari, ma anche
quelle che ci fabbrichiamo con le nostre stesse mani. Non basta essere privi di
vincoli. Come dice Persio, «bisogna saper essere liberi».
Dalla società ci vengono tanti condizionamenti, non sempre sotto forma di
divieti o di costrizioni, ma anche sotto forma di messaggi suadenti di chi sembra
volere soltanto il nostro bene. I genitori, gli insegnanti, i politici, i religiosi, i
pubblicitari e via dicendo fanno a gara per offrirci belle fatta la nostra felicità:
basta adeguarsi alle loro regole.
Nessuno ci fa una violenza esplicita.
Però siamo noi che dobbiamo vivere in prima persona, siamo noi che
dobbiamo pensare con la nostra testa. Ed è proprio questo che ci viene impedito,
talora con le migliori intenzioni, talaltra con una volontà di dominio.
Maturare, crescere, diventare uomini, significa prendere in mano le redini
della propria vita e cercare di essere se stessi. Ma, per riuscire a farlo, dobbiamo
prima esaminare criticamente il complesso di valori e di conoscenze che ci è
stato dato. In questo percorso di liberazione, le difficoltà e gli ostacoli sono
innumerevoli: oltre a quelli scontati di chi non la pensa come noi o di chi vuole
influenzarci, ci sono quelli che ormai abbiamo introiettato.
Nel processo di emancipazione, gli avversari più pericolosi sono i nostri stessi
condizionamenti, sono le idee e le convinzioni che abbiamo adottato senza
rendercene conto. Occorre quindi una buona dose di autocritica: la capacità di
prendere le distanze da noi stessi.
Sostiene Epitteto: «Nessuno è libero se non è padrone di se stesso».
92. Le ambizioni
Chi è privo di un'educazione spirituale pretende sempre di vincere, a ogni
costo.
PLATONE
Quanto più restringiamo i nostri interessi alle piccole beghe della vita, alle
chiacchiere, agli spettacoli insulsi, alle letture d’evasione e alle pure necessità
della sopravvivenza, tanto più si impoverisce il nostro spirito; e quanto più si
impoverisce il nostro spirito, tanto più ci troviamo privi di difese in caso di crisi.
Dovremmo tutti abituarci ad allargare i nostri orizzonti, a rialzare
periodicamente il capo dalla mangiatoia, non solo leggendo e meditando le opere
dei grandi saggi, ma anche contemplando la maestà della natura e del cosmo,
oppure semplicemente decondizionando la mente. E in tal modo che, secondo
un’espressione del Taoismo, si giunge a “nutrire lo spirito”.
Decondizionare la mente significa svuotarla per un po’ dalle dottrine, dalle
interpretazioni, dalle opinioni e dalle idee ricevute. Per comprendere il Tao, la
Via, dobbiamo far tacere il chiacchiericcio dei pensieri e sollevare l’anima al di
sopra delle questioni meschine.
«Non si può parlare del mare a una rana chiusa nel suo pozzo» dice Chuang-
Tzu.
Il nostro spirito si alimenta esattamente come il nostro corpo, ed è giusto
trovare per entrambi il cibo migliore. Mentre però compiamo tanti sforzi per
cercare cibi prelibati, ben poco facciamo per alimentare l’anima, che è proprio
l’essenza di ciò che siamo.
Fin dall’antichità si è riconosciuta l’interrelazione fra psiche e soma. Scriveva
per esempio Seneca: «Se vuoi star bene, cura innanzitutto la salute dell’animo, e
poi quella del corpo, che non ti costerà molto».
Benché il dualismo di certo pensiero occidentale abbia finito per inventarsi
una netta separazione fra spirito e materia, ai saggi non è mai sfuggito che tutto
ciò che solleva l’anima giova anche al corpo.
Forse la posizione più equilibrata è quella espressa da Montaigne, il quale
scrive: «Che lo spirito risvegli e vivifichi la pesantezza del corpo, e il corpo freni
la leggerezza dello spirito e la renda stabile».
94. La gioia
Il segno più caratteristico della saggezza è una gioia costante.
MICHEL DE MONTAIGNE
Nella nostra civiltà si sente periodicamente esaltare ('“amore per la vita” come
se fosse un valore da caldeggiare oppure un prodotto da vendere, come se
l’essere non bastasse a giustificare se stesso. Se si sente questo bisogno,
evidentemente abbiamo talmente impoverito e soffocato la vita da dover poi
ricorrere a campagne pubblicitarie per sostenerla. Nelle civiltà in cui f esiste un
rapporto equilibrato con la natura (quella esterna e quella interna), nessuno si
chiede se valga o no la pena di vivere: si vive e basta. Esattamente quel che
diceva Chuang-Tzu degli antichi saggi cinesi.
Anche il rapporto con la morte è completamente cambiato. Mentre una volta
era un fenomeno naturale, da vivere e da contemplare, ora sembra qualcosa di
innaturale e di vergognoso, uno scacco, un’umiliazione da nascondere. I due
atteggiamenti sono correlati: perso il senso spontaneo della vita, si smarrisce
anche il senso della morte.
Tutto ciò è la conseguenza di una civiltà che ha sostituito ai valori naturali i
valori sociali. Non si vive più per il piacere di vivere, ma per raggiungere degli
obiettivi: si tratta di farsi una posizione di prestigio, di procurarsi un buon posto
sia in questa vita sia (eventualmente) nell’altra.
I credenti si predispongono con azioni virtuose e meritorie a essere ben
ripagati nell'altro mondo”: più o meno la stessa cosa che fanno in questa vita con
i conti in banca e con le pensioni. D’altronde, l’idea che Dio sia una specie di
banchiere che rimunera il capitale investito viene direttamente dalle parabole
evangeliche a base di talenti da far fruttare e di interessi da riscuotere: è il
portalo delle religioni levantine.
Chi invece non crede in nulla, spera in qualche scoperta scientifica che vinca
definitivamente la morte e quindi si fa imbalsamare o conservare in celle
frigorifere.
Tutti sperano in qualche resurrezione: chi nell’aldilà e chi, più prosaicamente,
in questo stesso mondo. E la teologia garantisce ai fedeli un recupero finale
anche del corpo.
Da questo tipo di spiritualità, che oscilla tra perdita del senso genuino della
vita e negazione della morte, non può derivare nessun tipo di serenità: ci si
attacca morbosamente all’esistenza, costi quel che costi, e si vede la morte come
una perdita di tutti quei beni che abbiamo accumulato con tanta fatica. Anche
l’io viene considerato un possesso, alla stessa stregua di una casa o di
un’automobile.
Non potevamo non finire così dopo che per millenni abbiamo esaltato ogni
tipo di attaccamento e di appartenenza. Abbiamo nei confronti della vita lo
stesso tipo di rapporto che l’avaro usuraio ha nei confronti del suo denaro:
dobbiamo sfruttarla, dobbiamo tesaurizzarla al massimo. E, di fronte a questo
atteggiamento, la morte è come un ladro di patrimoni.
Una civiltà più equilibrata deve esaltare il valore del distacco, non solo dai
beni e dalle ambizioni, ma anche dalla vita e dalla morte.
I saggi dell’antichità, scrive Chuang-Tzu, «non si rallegravano per la loro
esistenza e non si addoloravano per la loro scomparsa; venivano naturalmente e
se ne andavano naturalmente. Non dimenticavano il loro inizio e non cercavano
la loro fine. Accettavano serenamente il destino e poi restituivano la vita senza
preoccuparsi».
96. La diversità
Clic coso l’amore se non capire e gioire del fatto che un altro vive, agisce o
sente in modo diverso o opposto al nostro?
FRIEDRICH NIETZSCHE
In effetti, voler essere saggi tutta la vita significa non aver capito la dialettica
degli eventi e degli stati d’animo, il continuo alternarsi delle coppie di opposti.
La saggezza è un tentativo di tenersi nel mezzo, di riportare verso il centro
una barra che sbanda ora da una parte ora dall’altra. Ma non sarebbe intelligente
credere che, senza quegli sbandamenti, senza quelle cadute, possa esistere
ugualmente un equilibrio. L’armonia esiste perché esistono quelle tendenze
contrastanti, quegli sbalzi.
Parafrasando Pascal, potremmo dire che negli squilibri, negli eccessi, nelle
passioni e negli errori c'è una saggezza che la ragione dualistica non riconosce.
Nessuno è più folle di chi vuol essere sempre saggio: in realtà si tratta di una
persona devitalizzata, di un uomo che crede di essere vivo mentre è già morto. r
Non dobbiamo quindi reprimere le emozioni (rabbia, indignazione, amore,
gioia, dolore e così via), ma mantenerci consapevoli di ciò che proviamo e
riuscire sempre a ritrovare il centro di equilibrio; riconoscere gli errori, come
anche saperli superare; accettare i propri limiti e guardarsi con distacco; vivere
comunque in prima persona.
Dobbiamo tenere presente che ci muoviamo in un mare continuamente mosso
dai venti, nel quale, oltretutto, i periodi di bonaccia non sono quasi mai i più
memorabili, i più istruttivi. Non dobbiamo illuderci che esista una rotta
predefinita e un metodo per seguirla senza deviazioni. Tutto è mutevole e
affidato a facoltà anch’esse mobili: ecco perché la dote della flessibilità è la più
importante.
Diceva Solone: «La cosa più difficile è cogliere l’invisibile misura della
saggezza, che sola reca in sé i limiti di tutte le cose».
100. Cambiamento e permanenza
Il sapere che finora possediamo ci dice che abbiamo bisogno di cose che
cambiano, ma abbiamo anche bisogno di cose che restano.
GIORGIO ABRAHAM
Proprio perché tutto cambia intorno a noi e in noi, è necessario che qualcosa
rimanga fisso.
Le persone invecchiano e muoiono, il corpo si modifica, le idee si evolvono,
l’ambiente muta aspetto, la storia inanella un avvenimento dietro l’altro, i
sentimenti si modificano, le cellule si differenziano, il cosmo stesso si espande e
si contrae, il tempo non ci dà tregua, tutto scorre, tutto si trasforma… e noi
sentiamo il bisogno di un centro in cui riconoscerci: il mozzo della ruota,
l’occhio del ciclone, il nucleo del nostro sé.
Il divenire è reso possibile dall’esistenza di un centro fisso, nei confronti del
quale le cose possano ruotare. Esiste sempre un punto di riferimento in rapporto
al quale si definisce il mutamento.
Se abbiamo un animo conservatore, se temiamo il cambiamento, ci
abbarbicheremo alla tradizione, a ciò che rassicura nella sua apparente
continuità. Se siamo degli innovatori, se vogliamo superare il passato,
punteremo invece sulle possibilità di mutamento, che possono offrirci qualcosa
di inusitato.
La realtà comunque è una mescolanza dei due processi, un’alternanza
dialettica che è anche complementarità, perché ciò che permane non deve
bloccare fino in fondo i cambiamenti, e ciò che muta non deve distruggere ogni
punto di riferimento.
Anche di questo rapporto dobbiamo tener conto ogni volta che sposiamo una
posizione o l’altra: siamo a nostra volta agenti e strumenti di un gigantesco
processo di interrelazione, di una danza cosmica, in cui ci troviamo ora da una
parte e ora dalla parte opposta. Nessuno è soltanto conservatore o innovatore: i
ruoli si alternano di continuo, nella società e dentro di noi.
Se non avessimo nella nostra interiorità un centro, un perno fisso cui
aggrapparci quando tutto muta vorticosamente, finiremmo per non riconoscerci
più, come certi alienati che non si ricordano chi sono. Questo è il porto sicuro, il
rifugio, l’isola nella corrente su cui ci ripariamo ogni volta per riprendere fiato,
per osservare il cambiamento e per fare il punto della situazione.
Prima o poi dovremo riprendere il viaggio e rimetterci in acqua; ma sappiamo
ormai che possiamo far affidamento nei momenti di crisi su questa oasi di
tranquillità e di riposo, dove possiamo approdare ogni sera per ritrovare noi
stessi, per ricrearci lo spirito.
Scrive su questo tema Schopenhauer: «La natura dell’uomo, risultante di una
parte assolutamente immutabile e di una parte che muta regolarmente, in due
modi opposti, spiega la diversità dei suoi aspetti e della sua validità nelle
differenti fasi della vita».
E il Wen-tzu specifica: «Gli uomini che si attengono alla Via cambiano
esternamente, ma non internali mente. Il cambiamento esterno è il mezzo con
cui interagiscono con gli altri uomini; l’immutabilità interna è il mezzo con cui
conservano se stessi. Dunque, se hai un controllo interno stabile e sei in grado di
contrarti e di espanderti esternamente muovendoti con le cose, allora puoi evitare
l’insuccesso in tutte le tue iniziative».
101. Coltivare lo spirito
Si falsa il proprio spirito, la propria coscienza e la propria ragione come ci si
guasta lo stomaco.
NICOLAS DE CHAMFORT
«Non è lui che vuole andare,» scrive Seneca descrivendo un individuo agitato
che è sempre stato molto comune in tutti i tempi e in tutte le società «ma non
può star fermo.»
Questa incapacità a restare fermi, questa tendenza a spostarsi da un luogo
all'altro, da una persona all’altra, da un interesse all’altro, senza mai soffermarsi
a lungo su nulla, è evidentemente il sintomo di un’instabilità del carattere, di una
mancanza di centro. In simili casi, l’individuo si muove senza costrutto, senza
una meta definita; come dice Seneca, non è lui che ha deciso qualcosa, non è lui
che vuole andare veramente da qualche parte: è il tormento interiore che lo
spinge ad agire senza sosta.
Oggi si tratta di una situazione generalizzata: i più si muovono non perché
vogliono raggiungere una certa meta, ma perché non riescono a stare fermi. Il
movimento della società è come quello di un’autostrada, dove non puoi né
rallentare né fermarti senza correre il rischio di essere travolto, dove c'è quasi il
dovere di correre.
Questa è la differenza che intercorre anche tra un vero viaggio, dove si
guarda, si contempla e si impara, e uno spostamento, dove la strada e il
paesaggio sono del tutto indifferenti, dove l’importante è correre e arrivare; e
questa è anche la differenza tra una vita spesa a conoscere e a crescere e una vita
spesa ad agitarsi e a muoversi.
Un'esistenza del secondo tipo è quella in cui non si trova mai il tempo per
fermarsi e riflettere: le esperienze non vengono approfondite e non vengono
assimilate; restano alla superficie e non lasciano tracce. L’individuo non arriva a
crescere: è come un eterno infante che ripete sempre le stesse cose, senza mai
imparare niente, senza mai maturare.
«È proprio da tale ottusità mentale» scrive Schopenhauer «che deriva quel
vuoto interiore impresso su innumerevoli facce, e che si rivela con la costante,
eccitata attenzione a tutti i fatti, anche insignificanti, del mondo esterno.»
Per non cadere anche noi in questa vuota agitazione, dobbiamo ogni tanto
metterci in una posizione di non azione, osservando con distacco e in silenzio
noi stessi e il mondo. È da questo tipo di meditazione c di rallentamento
periodico delle nostre attività che possiamo trovare il senso della nostra azione.
Dice Chuang-Tzu: «Mentre il popolo si agita, il saggio siede immobile nella
sua stanza».
103. Il mestiere
Beato colui che ha trovato il suo lavoro: non chieda altra felicità.
THOMAS CARLYLE
Qualcuno potrebbe sostenere, al contrario, che siamo veramente noi stessi solo
quando siamo in società, in rapporto con gli altri. Ma si tratta di due livelli
diversi del nostro ego: la parte sociale è quella che deve avere le possibilità di
interagire e di adattarsi; la parte più profonda, quella che noi definiamo il “sé”,
dev’essere il più possibile stabile, poiché svolge la stessa funzione del mozzo di
una ruota.
È inutile porsi il problema di quale delle due parti sia la più autentica: tutte
due sono autentiche, sono parti diverse di noi stessi. È chiaro però che, nei
rapporti con gli altri, è inevitabile una certa dose di finzione. Nella vita sociale
sono necessari l’autocontrollo, il tatto, la diplomazia e un’attenzione continua
alle possibili reazioni altrui. Questo la sì che una parte di noi resti sempre
nascosta.
In tal senso, in società non siamo mai completamente noi stessi. È per questo
che quando, dopo una giornata di lavoro in mezzo agli altri, ci ritiriamo in casa
nostra, ci sentiamo sollevati, come se ci togliessimo un peso o una maschera di
dosso.
In famiglia o con le persone che amiamo possiamo essere più spontanei e
rilassati, ma non siamo ancora interamente noi stessi. È solo quando ci
chiudiamo da soli nella nostra stanza che non abbiamo più bisogno né di
maschere né di sforzi di adattamento.
Tuttavia non è finita: quando ci troviamo a tu per tu con noi stessi, c'è ancora
un confronto che dobbiamo affrontare: quello con la nostra mente, che non è
affatto un’entità unica e originale.
La mente, infatti, è a sua volta il portato dell’attività sociale e comprende
numerose componenti e centri di coscienza, spesso in contrasto fra loro.
Per esempio, ognuno di noi ha un ego maschile di derivazione paterna e un
ego femminile di derivazione materna, ma anche tanti altri centri, più o meno
stabili e radicati, che rappresentano tutte le figure che hanno avuto una certa
influenza (amici, amanti, insegnanti, sacerdoti, personaggi carismatici e così
via): queste persone sono presenti nella nostra coscienza e continuano a parlarci
o a scontrarsi dentro di noi.
Il nostro ego è dunque costituito da una folla di personaggi che continuano a
essere attivi anche quando siamo soli; perfino quando sogniamo, ne salta fuori
qualcuno, magari dimenticato da anni.
La vera solitudine non è dunque facile da raggiungere. Il nucleo più profondo
di ciò che siamo resta sempre ben nascosto sotto molti rivestimenti.
Per essere semplicemente noi stessi, per essere liberi da ogni sforzo di
apparire e di rapportarci, dobbiamo riuscire a far tacere questa complessa e
continua attività mentale.
Lo scopo non è solo quello conoscitivo. Ritrovare se stessi significa
recuperare chiarezza e serenità, significa poter fare il punto della situazione e
comprendere il senso di quello che stiamo facendo.
«Scava dentro di te,» scrive Marco Aurelio «dentro è la fonte del bene, e può
zampillare inesauribile, se continuerai a scavare.»
E il Buddha dichiara: «Se ti dedicherai alla solitudine e al distacco, ti
svilupperai fino a raggiungere l’illuminazione e la liberazione».
106. L'umorismo
Vivere nel mondo come non fosse il mondo, rispettare la legge e stare tuttavia
al di sopra della legge, possedere come se non si possedesse, rinunciare come se
non tosse rinuncia: tutte queste esigenze di un’alta saggezza di vita si possono
realizzare unicamente con l’umorismo.
HERMANN HESSE
Non sempre esiste una corrispondenza fra età esteriore ed età interiore. Si può
essere vecchi anche a vent'anni, quando si abbracciano - come scrive Abraham -
idee «troppo pessimistiche e retrograde», quando ci si attacca ad «anticaglie
ideologiche o sentimentali», oppure quando si perdono interessi, entusiasmi,
curiosità, emozioni, quando si cede all’inerzia e al torpore, quando ci si chiude in
abitudini di vita sempre più ristrette, quando non si è più capaci di progettare; e
questo può succedere a qualunque età.
Ma esiste anche il fenomeno contrario: gente che a cinquantanni ragiona
ancora come se ne avesse quindici, individui che - secondo l’espressione di
Seneca - «quando la vecchiaia li coglie, hanno ancora una mente infantile».
La vecchiaia dovrebbe essere il coronamento della vita, il periodo che
conclude e dà un senso all’intera esistenza. Dovrebbe anche essere l’età della
saggezza.
Dice a questo proposito Schopenhauer: «Solo chi diventa vecchio consegue,
della vita, una visione completa e adeguata». E aggiunge: «La vecchiaia ha la
serenità di chi si è affrancato da una catena portata a lungo, e ora si muove
liberamente».
Ma questo succede solo quando si è avuto il tempo di riflettere, quando si è
fatto tesoro delle esperienze. Se ci si limita ad atti ripetitivi, non si accumula
nessuna saggezza; e neppure si cresce. Insomma anche invecchiare può essere
un’arte, da apprendere e da sviluppare.
Afferma La Rochefoucauld: «Pochi sanno essere vecchi». E il Dhammapada
ricorda: «L’uomo di corte vedute diviene vecchio come un bove: le sue carni
aumentano, ma la sua saggezza non cresce».
In effetti, se vogliamo fare della nostra vita uno strumento di crescita e di
maturazione, dobbiamo abbracciare il consiglio di Seneca: «Anche da vecchi si
deve imparare».
Quasi le stesse parole che troviamo nei Distici di Catone: «Non smettere mai
di imparare e fa’ in modo di accrescere sempre ciò che sai: raramente la
saggezza è frutto solo della vecchiaia».
113. La distanza
Il desiderio troppo intenso verso ogni cosa suscita la più intensa paura di
rimanerne privi, e in tal modo la nostra gioia diviene debole e malsicura, come
fiamma esposta al vento.
PLUTARCO
Anche nelle passioni più forti, anche nei vincoli più stretti, è necessario
mantenere una certa distanza. Può darsi che non si verifichi mai una brusca
interruzione, può darsi che si assista solo a un lento affievolimento. Ma l’uomo
assennato - scrive Plutarco - si aspetta anche il contrario: deve mettere in conto
un’eventuale perdita.
Non si tratta di guastarsi in anticipo ogni gioia, contemplandone la possibile
fine; si tratta piuttosto di mantenere un minimo di distacco, una vera e propria
“distanza di sicurezza”.
Il motivo è intuitivo: quanto più ci identifichiamo con qualcosa o con
qualcuno, tanto più abbiamo paura di restarne privi.
È giusto desiderare beni, piaceri e rapporti affettivi; se però li consideriamo
ineliminabili e insostituibili, la conditio sine qua non della nostra esistenza,
potremo essere travolti dalla loro perdita o comunque sentirci in ogni momento
minacciati da una simile eventualità. Il nostro attaccamento alle cose e alle
persone non deve giungere al punto di aderire completamente a esse, quasi
fossimo un tutt'uno. Se così fosse, le condizioni della nostra sopravvivenza
sarebbero in mano a circostanze esterne e a ogni momento potremmo essere
distrutti da un colpo avverso della sorte.
Ci dobbiamo allenare a questo esercizio: prevediamo ogni tanto la possibilità
di perdita delle cose e delle persone più care, e domandiamoci se saremmo in
grado di sopravvivere ugualmente. Questo ci aiuterà a cavarcela anche se esse ci
verranno sottratte.
Seguiamo in questo l’esempio di Seneca, il quale scriveva: «Ho conservato
una grande distanza ira le cose e me: per questo, quando la fortuna me le ha
rubate, non mi ha annientato».
114. La relatività
Beni e mali non possono essere disgiunti, ma esiste una loro mescolanza che
va a buon fine.
EURIPIDE
Alla mente del poeta e del saggio non può sfuggire questa continua
mescolanza, in ogni avvenimento, in ogni stato d’animo, di impulsi positivi e di
impulsi negativi: spesso da un atto ritenuto benefico si producono effetti maidici,
e viceversa da un atto cattivo si sprigionano conseguenze benefiche.
L’uomo non può quasi mai prevedere in anticipo quali risultati avranno le sue
decisioni e Le sue azioni: esistono troppe variabili che non dipendono da lui.
È importante non limitarsi a vedere il singolo atto e la particolare
motivazione, ma osservare l’insieme degli eventi in gioco: bisogna avere il
coraggio di mettere in luce anche le pulsioni personali meno nobili. Come dice
La Rochefoucauld, «spesso si fa del bene per poter impunemente far del male.»
Avviene però anche il contrario. Che cosa c'è per esempio di più spietato della
selezione naturale, dove è proprio il più debole e indifeso a essere distrutto?
Eppure, a lungo andare, quell’atto crudele rivela la sua positività nell’interesse
generale. Bisogna quindi tener sempre presente la relatività dei nostri valori. «La
vita è tale negozio» scriveva Arturo Graf «che non si fa mai guadagno che non
sia accompagnato da perdita.»
Questo principio è vero sia nelle esistenze individuali sia nella totalità delle
cose. «Non vi può essere guadagno di qualcuno» affermava Publilio Siro «senza
perdita di qualcun altro.»
Per Euripide, questa “mescolanza” va comunque a buon fine, e ciò è
probabilmente vero se si considera il cosmo nella sua interezza. Ma il singolo
non potrà aspettarsi una netta giustizia retributiva in questa vita finché non uscirà
dalla propria soggettività e non adotterà una visione impersonale delle cose.
Solo l’equilibrio che realizzerà dentro di sé gli permetterà di avere fin da ora
ciò che gli spetta… se non altro in termini di sentimenti e di esperienze. Quanto
al resto, «la tela della nostra vita è intessuta» come dice Shakespeare «di un filo
misto, buono e cattivo insieme.»
115. I valori
Gli uomini creano le distinzioni nella loro mente e poi le credono vere.
BUDDHA
Questa frase vuol dire che il senso della vita è inestricabilmente connesso al
senso della morte, alla consapevolezza di dover morire. Ogni evento, ogni
attimo, assume una sua preziosità, un suo valore, proprio perché è irripetibile e
non tornerà più. Se il tempo fosse circolare, se ogni cosa potesse ritornare, se le
scadenze, le perdite e la morte non fossero definitive, l’esistere avrebbe un senso
diverso.
La morte viene dunque meditata in ogni momento ed è ciò che permette alle
esperienze di avere un certo sapore di fondo. Consapevolmente o
inconsapevolmente è il pensiero dominante.
Imparare a morire significa innanzitutto portare alla coscienza questo
pensiero, senza averne paura; significa considerare la morte non come un evento
traumatico, ma come un evento quotidiano, normale; significa apprezzare il
valore e la funzione della morte.
Confucio, a chi gli chiedeva che cosa fosse la morte, rispose: «Se non sai che
cose la vita, come puoi sapere che cos'è la morte?».
Ma come si fa a sapere che cose la vita se non si tiene continuamente presente
che tutto è destinato a morire? Le due coscienze - quella della vita e quella della
morte - vanno di pari passo e, come abbiamo visto per tutte le coppie di opposti,
si sostengono a vicenda.
Platone sosteneva che lo scopo della filosofia è proprio quello di insegnare
agli uomini a morire con serenità.
Ecco il punto: per riuscire a morire con serenità, occorre riuscire a vivere con
serenità. E vivere con serenità vuol dire contemplare e accettare la grande
saggezza della morte. «Chi teme la morte» diceva Seneca «non si comporta mai
da vivo» e, infatti, la sua vitalità sarà sempre oscurata dall’inevitabile sforzo di
rimozione e di nascondimento.
«Ci vuole tutta la vita per imparare a vivere» conclude Seneca «e, quel che
sembrerà forse più strano, ci vuole tutta la vita per imparare a morire.»
117. La scelta
Non sì può dire finché si è in vita: «Questo non mi capiterà», ma si può dire:
«Questo non lo farò!».
PLUTARCO
Ecco la grandezza dell’uomo, che non può, oltre certi limiti, impedire il
verificarsi degli eventi dolorosi, ma che può, in ogni caso, essere se stesso ed
esercitare la propria libertà di scelta.
Può anche, volendo, mantenersi sereno ed equilibrato in mezzo alle tempeste
della vita. Dice a questo proposito il Dhammapada: «Non trascurare il male
dicendo: “Questo a me non verrà”. La goccia, cadendo, riempie anche la
brocca».
Il male si abbatterà dunque inevitabilmente su tutti. Ma non su tutti avrà lo
stesso effetto. La sorte può farci ammalare - scrive Plutarco -, può privarci degli
averi, può calunniarci agli occhi del popolo o dei potenti, ma «non può far sì che
un uomo buono, coraggioso e magnanimo diventi malvagio, vile, abietto,
volgare e invidioso, non può privarlo di quella disposizione interiore, la cui
costante presenza è più utile di fronte alla vita di quella di un pilota di fronte al
mare.»
Questa “disposizione interiore” è appunto la capacità, da una parte, di
contemplare con distacco gli avvenimenti che ci capitano, buoni o cattivi che
siano, e, dall'altra parte, di non rinunciare alla nostra scelta morale, alla decisione
di essere sempre coerenti con noi stessi.
Scrive Marco Aurelio: «Bisogna sempre tener presente quale sia la natura
dell’universo, e quale la tua; in che relazione sia luna con l’altra; quale specie di
parte sia di quale specie di tutto; e come nessuno possa impedirti di fare e di dire
sempre ciò che è secondo questa natura, della quale sei parte».
118. L'unione estatica
Quando fai l'amore, entra in questo amore come nella vita eterna.
BHAIMVA TANTRA
Poiché ogni evento deve comunque passare ed essere interpretato dalla mente,
è questa che stabilisce se è piacevole, doloroso o neutro. Essa viene quindi a
possedere un potere enorme: in pratica, la nostra serenità o la nostra infelicità
sono affidate, più che ai fatti in se stessi, al modo in cui reagisce questa nostra
“facoltà sovrana”.
Vi è un sostanziale accordo fra Stoicismo e Buddhismo nell’affidare alla
mente un compito fondamentale per la nostra felicità: quello di controllare e di
valutare secondo il nostro interesse tutti i dati che le giungono dall’esterno.
«Cancella le false impressioni,» scrive Marco Aurelio «ripetendoti
continuamente: dipende da me far sì che in questa mia anima non vi sia nessuna
malvagità, nessuna brama, insomma nessun turbamento, ma che, vedendo
chiaramente come ogni cosa, di ognuna mi avvalga secondo il suo valore.
Ricordati sempre di questo potere che la natura ti ha dato.»
L’imperatore filosofo sottolinea come si debba sempre distinguere tra
sofferenza del corpo e sofferenza dell’anima; mentre è giusto che il corpo si
esprima come vuole, le manifestazioni dell’anima dipendono in gran parte dalla
nostra volontà. Sta a noi aderire completamente ai fatti o distaccarcene,
abbatterci o riprendere lena, cogliere solo gli elementi negativi o anche quelli
positivi; è in nostro potere interpretare i fatti.
Dunque va posta la massima attenzione proprio al sorgere delle sensazioni, a
quel preciso attimo in cui si manifesta nel nostro animo una certa reazione ai
fatti esterni: reazione che può essere di accettazione (perché sono giudicati
piacevoli), di rifiuto (perché sono giudicati spiacevoli) o di indifferenza.
I nostri giudizi, come si vede, nascono dalie nostre sensazioni.
«La perfezione della virtù» scrive Chuang-Tzu «è prenderci cura della nostra
mente in modo che le emozioni non possano turbarci quando si sa che non si può
più fare nulla, ed essere in pace con ciò che è, con i decreti del destino.»
Ma, nella maggior parte dei casi, possiamo intervenire attivamente e, perciò,
dobbiamo per prima cosa osservare quel che avviene in noi come reazione ai
fatti esterni. Tante sensazioni di ira, di odio o di attaccamento possono essere
accantonate per lasciare il posto a più costruttivi stati d’animo di chiarezza e di
calma, con cui possiamo dar vita a iniziative ben più efficaci.
Per seconda cosa dobbiamo a poco a poco costruirci una visione di saggezza,
che sia in grado nelle varie occasioni di offrirci un senso più positivo - ma
sempre realistico - delle cose. E, per terza cosa, dobbiamo identificare quel
centro profondo dentro di noi che resta equilibrato e non si fa turbare dalle
oscillazioni della mente.
Teniamo presente in ogni momento questo grande potere della nostra volontà,
legato all’osservazione e al controllo della mente; perché - come dice Marco
Aurelio - «colui che non avverte i moti della propria anima, è inevitabile che sia
infelice».
120. L’identità
Come corpo ogni uomo è uno, come anima mai.
HERMANN Hesse
Dobbiamo comprendere come ognuno sia se stesso e gli altri, come l’io sia un
insieme di personalità (ereditate da tutti coloro che ci hanno preceduto), come
l’identità sia qualcosa di necessario ma anche di superabile. «Nei paesi dell’India
antica» scrive Hermann Hesse ne Il lupo della steppa «questo concetto è
assolutamente ignoto, gli eroi dell'epopea indiana non sono persone, ma
conglomerati di persone, serie di incarnazioni.»
Forse l’idea di reincarnazione nasce proprio dalla constatazione che ogni
uomo è un insieme di antenati, che rivivono per così dire in lui. In ognuno di noi
confluisce una parte del padre, una parte della madre, una parte dei nonni, una
parte dei bisnonni e così via… fino a un numero incalcolabile di predecessori.
Quindi è anche possibile che qualcuno abbia ricordi di vite passate.
In tal senso tutti siamo già vissuti parecchie altre volte. Ma ciò non toglie che
la nostra identità attuale, proprio perché è una combinazione particolare di
eredità passate, sia unica e irripetibile.
Il problema non è dunque quello di conoscere ogni componente della nostra
personalità, quanto quello di come atteggiarci nei confronti di questo coacervo di
io.
Dato che - come dice Eraclito - «neppure camminando un’intera vita, potresti
trovare i confini dell’anima», la cosa più importante è identificare il nucleo più
profondo, quello che non appartiene a nessuno…o forse appartiene a tutti.
Si tratta di mettersi un po’ tranquilli e di calmare le attività mentali,
contemplando qualcosa di piacevole: a poco a poco cadranno tutte le domande e
ci accorgeremo che il fondo dell’essere non ha problemi di identità.
Noi non ci arrovelliamo, in realtà, perché non sappiamo rispondere
all’interrogativo: «Chi sono io?», ma perché non riusciamo a trovare un po’ di
pace. Conoscersi non significa soltanto conoscere i pregi e i difetti del proprio
carattere, bensì anche reintegrarsi con il proprio sé essenziale, quel centro
dell’essere che è permeato di benessere e di quiete.
Come dice Nietzsche, «comunque tu sia, utilizza il tuo essere come fonte di
esperienza. Elimina il malcontento su di te e perdonati il tuo io, perché hai
comunque in te una scala con cento gradini, che puoi salire per raggiungere la
conoscenza.»
121. L’arte di tacere
A che cosa serve il silenzio, se le passioni rumoreggiano?
SENECA
Il silenzio interiore, quello di una mente che, come il cuore, è fatta per
funzionare in continuità (anche quando si dorme), non è facile da trovare. Se ci
si fa caso, siamo sempre intenti a pensare o a immaginare qualcosa; siamo
immersi in una specie di monologo o di dialogo interno che non cessa mai, e
spesso, mentre compiamo una determinata azione, ne stiamo pensando un’altra.
Tutto ciò va bene finché il pensiero non si fa ossessivo e negativo: allora
siamo come prigionieri di un incubo.
La nostra mente non smette un attimo di parlare, di dialogare, di riflettere, di
fantasticare, di ricordare, di prevedere, di immaginare, di sognare e così via, e
porta dentro di noi, nel “tempio del nostro spirito”, tutto il chiasso e la
confusione esteriori. Ecco perché non basta recarsi in un posto silenzioso, non
basta starsene soli: è dentro di noi che risuona il rumore del mondo.
Per distenderci veramente, per poter riposare e ritrovare il nostro equilibrio,
per fare un po’ di silenzio interiore, dobbiamo imparare a far tacere questo
chiacchiericcio mentale, dobbiamo recuperare una condizione di spirito che è
anteriore alla parola e al pensiero.
L’assenza di pensieri importuni ci permette di essere completamente presenti
in ciò che facciamo, nell’attimo che viviamo, ed è una grande fonte di serenità,
una vera e propria forma di igiene mentale.
Facendo il silenzio dentro di noi, concentrandoci unicamente sul nostro
respiro o sul calore corporeo o sulla posizione fisica o su qualche oggetto
naturale, ritroviamo il senso perduto del nostro essere, che è ciò che sta prima
delle attività mentali.
In un certo senso è la nostra condizione naturale, ma in un altro senso è la
trascendenza (della mente, del linguaggio): è la trascendenza che tutti possiamo
raggiungere all’interno della nostra esperienza.
La civiltà della parola non poteva che concepire la trascendenza come Verbo.
Ma ciò che è trascendente è appunto al di là del nostro linguaggio e non può
certo essere espresso dai nostri poveri vocabolari.
Per avvicinarsi a esso il modo migliore è il silenzio. Riscoprendo il nostro
essere prima delle parole e dei pensieri, ritroviamo in realtà l’essere tout court.
Il Tao te ching arriva a dire: «Chi sa non parla, chi parla non sa». E un
filosofo dei nostri tempi, Wittgenstein, afferma: «Su ciò di cui non si può parlare
si deve tacere».
Più poeticamente Arturo Graf scrive: «Fa’ silenzio intorno a te, se vuoi udir
cantare l’anima tua».
122. La temperanza
La temperanza è moderatrice, non nemica, dei piaceli.
MICHEL DE MONTAIGNE
La saggezza non può essere nemica dei piaceri, perché troverebbe assurdo
sostenere - come l'anno certe religioni - che la natura sia corrotta o decaduta in
seguito a qualche fantastico “peccato originale”. Queste concezioni nascondono
in realtà un'avversione verso ciò che non si adegua alla volontà e agli schemi
umani. Ma l’errore è proprio lì: nelle pretese della mente. «C’è una misura in
ogni cosa» canta Pindaro «e tutto sta nel capirlo.»
Scrive Montaigne: «L’intemperanza è peste della voluttà, e la temperanza non
è il suo flagello: è il suo condimento». È sbagliato quindi «andare contro i
piaceri naturali, come prenderli troppo a cuore». Bisogna seguire una via di
mezzo, non per questioni moralistiche, ma per assicurare la continuità e la
serenità del nostro godimento.
«Una volta superala la misura» dice Epittelo «non c’è più alcun limite.»
Chi è nemico dei piaceri è in effetti nemico della vita; però, anche chi eccede
finisce per distruggere il fragile equilibrio su cui si basa l’esistenza. «Dove c’è
eccesso, c'è male» afferma icasticamente Quintiliano.
La natura, come una madre saggia, ha stabilito che alcune azioni siano
accompagnate dal piacere, ma ha anche stabilito che non si possa superare una
certa misura: quando la si oltrepassa, è la stessa possibilità di godimento che
viene distrutta.
Non possiamo sostenere che il piacere abbia come scopo la sopravvivenza,
perché questa funzione è svolta anche dal dolore. Si tratta in realtà di due stati
d’animo che segnalano il nostro percorso, come paletti opposti di uno slalom:
quando ci si avvicina troppo veloci, si rischia di finire fuori gara.
La natura ha fissato questi paletti per indicarci la direzione, ma ha anche
voluto che ci si tenga grosso modo su una linea sinusoidale mediana. Quando
conserviamo l’equilibrio, pur tra una sbandata e l’altra, stiamo seguendo la via
giusta.
Dichiara Confucio: «È difficile sbagliare quando si usa la moderazione».
123. L’esperienza
La fede che ripongo in me stesso, in un altro, nell’umanità, nella nostra
capacità di assurgere a piena umanità, implica del pari certezza, ma una
certezza che si fonda sulla mia propria esperienza, non sulla sottomissione a
un’autorità che impone una certa credenza.
EKICH FROMM
In passato, chi deteneva il potere ha sempre fatto di tutto perché gli uomini
fossero sottomessi, perché non pensassero con la loro testa, perché si
conformassero ai modelli che venivano loro imposti. E le grandi religioni
monoteistiche, con la loro esaltazione della fede e dell’ubbidienza, sono state - e
sono tuttora - le grandi ispiratrici di questo modo di intendere i rapporti fra
sudditi e autorità.
«Siate sottomessi alle autorità costituite,» scrive per esempio san Paolo nella
Lettera ai Romani «perché l’autorità viene da Dio e quelle che esistono sono
stabilite da Dio.»
In realtà - come dice Euripide - «l’esperienza per i mortali è maestra di tutto»;
chi dunque la vuole negare ai propri sudditi o ai propri seguaci, svolge un’azione
oscurantista, vuole cioè mantenere nell’ignoranza il prossimo, in modo da
poterlo meglio dominare.
In una civiltà evoluta questo tipo di divisione e di rapporto gerarchico
andrebbe superato, e ognuno dovrebbe rendersi responsabile di se stesso.
Quando infatti si delega l'autorità e la conoscenza ad altri, si perde la propria
autonomia di giudizio e si accetta lo stato di dipendenza: si entra a far parte del
gregge, che ha ovviamente bisogno di un “buon pastore” per essere guidato.
Affidandosi a un maestro, a una guida o a un leader, ci si toglie di dosso un
grande peso: quello di dover decidere da soli, quello dell’incertezza, quello
dell’ansia di sbagliare; si gode quindi di una forma di tranquillità che ci riporta
all’antico rapporto con i genitori, i quali erano responsabili al posto nostro. Molti
provano questo senso di sollievo quando entrano a far parte di una setta, di una
Chiesa, di un partito o comunque di un gruppo dotato di un capo che stabilisce
regole obbligatorie per tutti.
È inutile dire che queste persone rinunciano a crescere e che quindi falliscono
il compito primo dell'esistenza: sviluppare tutte le proprie potenzialità.
Ma soprattutto, affidando ad altri la propria facoltà di giudizio, possono essere
trascinate in avventure che distruggono proprio quella loro tranquillità e spesso
anche le loro vite: è questo il caso dei membri di sette che hanno finito per
suicidarsi o dei regimi totalitari della recente storia europea.
Chi rinuncia alla propria autonomia, chi preferisce la comoda
deresponsabilizzazione, commette sempre quello che potremmo definire un
“suicidio bianco”.
Nella storia delle religioni, solo nel Buddhismo troviamo l’appello a non
fidarsi né dei “testi sacri” né delle “autorità costituite”. E quindi questo
messaggio, al di là del contesto specifico, può essere considerato il “manifesto”
di ogni ideologia di liberazione.
«Non basatevi sul sentito dire,» raccomanda il Buddha «su quanto è stato
tramandato dagli altri, su quanto la gente dice, su quanto la tradizione vi
propone. Soltanto quando arriverete a sperimentare di persona che una dottrina è
valida, che una dottrina -una volta messa in pratica - conduce alla fine della
sofferenza e alla pace, soltanto allora accoglietela.»
124. La mortalità
Per chi creda che non ci sia nulla di temibile nel non vivere non c'è nulla da
temere nel vivere.
EPICURO
Esistono due strategie per affrontare la paura della morte: la prima è quella
abituale di credere in un “aldilà”. Questa fede dovrebbe darci la forza di
affrontare non solo le difficoltà del morire ma anche quelle del vivere.
Tuttavia una simile linea di difesa non dispone di nessuna prova, non può
essere adottata da chi non crede ed è quasi sempre collegata all’idea di una
possibile punizione, magari eterna. Così, alla fin fine, ciò che doveva servire a
proteggere dalla paura è fonte di una minaccia costante; ed è anche per questo
che nelle nostre società si è finito per rimuovere il problema, almeno a livello
superficiale.
La seconda possibilità è quella espressa da Epicuro: «La morte non è nulla per
noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte e quando c'è la morte non ci
siamo noi». Per il filosofo greco, la consapevolezza che la morte non è nulla per
noi ci rende piacevole la mortalità della vita, in quanto ci toglie anche il
turbamento del desiderio di immortalità. «Il saggio» egli dice «non rifiuta di
vivere, né teme di non vivere.»
Il difetto di questa linea di difesa è che si basa anch’essa su un atto di fede.
Proprio come la prima (di cui è l’esatto contrario), non può essere supportata da
nessuna esperienza. Nessuno può essere certo né di un’altra vita né dell’esistenza
di un nulla assoluto.
Esiste però una terza strategia, che ritroviamo più frequentemente in Oriente,
per esempio nel Buddhismo. Qui il problema è di andare al di là tanto del
desiderio di vivere quanto di quello di non vivere, tanto del desiderio di
immortalità quanto di quello di annientamento. Infatti, per il Buddha, è proprio il
desiderio in sé che è all'origine della sofferenza. La condizione ultima, il
nirvana, non è né vita né morte, ma qualcosa che sta al di là delle nostre
categorie dualistiche.
Quest’ultima concezione ha un merito: riporta di nuovo il problema allo stato
della nostra mente; e ci dice che, finché continueremo a pensare in questi termini
alla vita e alla morte, all'“aldiquà” e all'“aldilà”, alla mortalità e all’immortalità,
non potremo evitare né desideri né paure, non potremo uscire dal ciclo dei
condizionamenti.
L'“aldilà” è innanzitutto un superamento della mente, una capacità di uscire
dai pensieri e dai sentimenti dualistici. È da questo tipo di trascendenza,
realizzabile fin d’ora, che svaniscono le domande e le paure sulla vita e sulla
morte.
«Quello che fa veramente soffrire» diceva Pallada «non è morire, ma sapere di
dover morire.»
125. La saggezza
Ti ricordo che bisogna leggere e ascoltare i filosofi con il proposito di
raggiungere la felicità.
SENECA
Qui Epitteto ci dice che l’uomo libero è colui che sceglie una vita etica e che,
da quel momento, agisce sempre con coerenza rispetto a questa sua scelta; è
l’individuo che non si fa intimidire dai prepotenti, che resiste agli ambiziosi e ai
violenti, e che denuncia la falsificazione della verità.
A lui si contrappone non tanto quello che Kierkegaard definirebbe l’“uomo
estetico” (la persona che vive solo per il proprio piacere), quanto l’opportunista,
colui che non ha nessun principio, colui che è pronto a cambiare qualsiasi
bandiera, qualsiasi ideale, qualsiasi padrone, pur di restare a galla, pur di godere
dei propri beni e dei propri privilegi.
Questo individuo è convinto che il valore di un uomo sia dato dal ruolo o dalla
posizione che occupa. Non condividerebbe mai ciò che scrive Schopenhauer: «Il
nostro valore, morale come intellettuale, non ci perviene dall’esterno, ma
scaturisce dal profondo del nostro essere». Per lui, tale “essere profondo” non
esiste: esiste soltanto ciò che gli altri riconoscono.
Quest’uomo, che crede di essere libero, è in realtà l’ultimo degli schiavi,
perché ha mille padroni. Non avendo una guida interiore, si fa dirigere dalle
opinioni altrui e dal leader di turno. È come una banderuola al vento, che finisce
per girare in tutte le direzioni, senza mai capire se ve ne sia una giusta, senza mai
tenere in mano il bandolo della propria vita.
«È l’animo che dà valore a ogni cosa» dice Seneca.
E Orazio dichiara: «Libero è solo il saggio, perché solo il saggio è padrone di
sé».
135. Le scoperte
Sembra che la natura abbia nascosto nel fondo del nostro spirito talenti e
abilità che non conosciamo; solo le passioni riescono a scoprirli.
FRANCOIS DE LA ROCHEFOUCAULD
Dunque non è vero che le passioni - tanto aborrite dalla saggezza antica -
siano soltanto sconvolgimenti dell’animo che mettono in crisi la nostra
tranquillità. In realtà sono anch’esse fonti di una profonda saggezza: sono
esperienze che possono mettere in luce doti e aspetti del nostro carattere che non
credevamo di possedere, e anche difetti da cui pensavamo di essere esenti.
Magari credevamo di non poter superare certe prove, e poi scopriamo che
possiamo farlo; magari pensavamo di essere superiori all'invidia e alla gelosia, e
poi scopriamo che ne soffriamo come tutti gli altri. «Finché si vive, c'è da
imparare» diceva Solone.
In tal senso, le passioni vanno viste come cartine di tornasole, come potenti
strumenti di conoscenza: ci spalancano all’improvviso nuovi campi della realtà,
ci offrono nuovi spunti di riflessione e di crescita. Talvolta ci illuminano e ci
riscaldano, talaltra ci devastano; ma sono comunque fonti di arricchimento.
Quando usciamo da esperienze di questo genere, sappiamo molte più cose, su
di noi e sul mondo. Abbiamo capito, senza bisogno di libri e di insegnanti. La
nostra consapevolezza si è allargata. Dopo essere discesi dal cielo o risaliti
dall’inferno, possiamo tornare alla realtà di tutti i giorni, con una diversa visione
delle cose.
«La verità è che tutte le passioni umane, sia “buone” sia “cattive”,» scrive
Erich Fromm in Anatomia della distruttività umana «possono essere intese
soltanto come il tentativo di un individuo di dare un senso alla propria vita, di
trascendere le pure e semplici esigenze di sussistenza. Un cambiamento di
personalità è possibile soltanto se egli è in grado di “convertirsi”: di trovare cioè
un modo nuovo di dare un senso all’esistenza mobilitando le passioni che
incoraggiano la vita, sperimentando così un senso di vitalità e integrazione
superiore a quello che aveva prima.»
136. La completezza
Bisogna ammettere che, per vivere felici nel mondo, dobbiamo completamente
paralizzare alcuni lati della nostra anima.
NICOLAS DE CHAMFORT
Se ciò avviene, saremo forse “felici nel mondo”, ma non dentro di noi. «Colui
che tu definisci meno felice» dice Seneca «non è affatto felice: questa parola non
ammette diminuzioni.»
È vero che non possiamo caricarci delle pene e delle sofferenze di tutti gli
uomini, è vero che dobbiamo rivestirci di una “scorza dura” e mantenere un
certo distacco dalle cose, ma non dobbiamo per questo irrigidire la nostra anima.
Se “paralizzeremo” alcuni lati del nostro essere, avremo un io ridotto a
compartimenti stagni. Sarà come possedere una Ferrari di cui potremo usare so
lo un paio di marce. E così falliremo il nostro compito: quello di dispiegare tutte
le nostre possibilità, quello di vivere con completezza.
Se le esigenze della vita sociale ci portano a queste compartimentazioni,
dobbiamo fare in modo che non siano definitive: dobbiamo cioè continuare a
mantenere vive dentro di noi quelle zone e quelle facoltà che siamo stati costretti
a paralizzare. Possiamo alimentare questi piccoli o grandi orti della nostra anima
curandoli e innaffiandoli con dosi di consapevolezza. Nessuno, oltre a noi, è in
grado di impedirci questa operazione, che ci mantiene aperti e sensibili.
«La differenza tra il semplice esistere e il vivere la vita» afferma Rajneesh «è
tanto grande quanto la differenza tra morire e vivere.»
137. Il non fare
Il saggio non si sforza di agire, eppure non c'è niente che egli non faccia.
CHUANG-TZU
Non si tratta di un invito a non far niente, a starsene in ozio. «È inutile agire in
contrasto con le proprie inclinazioni naturali» dice Seneca, enunciando la prima
regola. Ma non bisogna neppure sforzarsi di agire nei momenti inopportuni:
questa è la seconda regola.
Dobbiamo cercare di agir e in accordo con la natura e con il corso delle cose,
dobbiamo imparare a “meditare” le nostre iniziative.
“Meditare” le proprie iniziative significa tastare il polso della situazione,
significa diventare più sensibili: capire quando è il momento di muoversi e
quando è il momento di attendere.
È inutile illudersi che ci siano criteri fissi. «Chi tende a riposare troppo deve
essere più operoso» dice ancora Seneca. «Chi lavora troppo deve trovare il
tempo per riposare. Tu comportati secondo natura che, come ben sai, ha fatto sia
il giorno sia la notte.»
Dunque bisogna essere flessibili e attenti: esiste un rapporto tra lare e non lare,
tra movimento e immobilità, tra attività e passività; un rapporto che è variabile e
che va continuamente osservato e seguito.
Il problema non è solo quello del ritmo tra azione e non azione, bensì anche
quello della tempestività e dell’efficacia di ciò che andiamo facendo. Il saggio
non è colui che stringe i denti e s’impegna fino a scoppiare; è invece colui che
compie ciò che deve fare senza sforzo, con naturalezza: ecco il vero obiettivo.
«II Tao è sempre privo di sforzo» dice Lao-tzu, esprimendo proprio questo
concetto «eppure compie ogni cosa.»
Questo è l’esempio da imitare: l’abile azione che va diritta alla meta senza
dover violare o costringere: un’azione agile e paziente, cui in realtà niente può
opporsi. Scoprire un simile modo di fare e di non fare significa trovare l’intima
ragione delle cose, il loro ritmo interno, e muoversi all’unisono.
Ciò è possibile se si prende periodicamente la distanza da tutto quel che si
muove e agisce, se si calmano le proprie attività esterne e interne e se ci si mette
semplicemente a osservare, a contemplare.
Trovando il proprio centro, ci si pone in armonia con gli eventi. E da questa
calma scaturisce la giusta ispirazione ad agire, a intraprendere quelle iniziative
che saranno a loro volta in accordo con i movimenti circostanti.
«Pratica il non agire, sforzati di non sforzarti» dice ancora paradossalmente
Lao-tzu. «Chi forza distrugge, chi afferra perde.»
138. Al di là del bene e del male
Ciò che si fa per amore si pone sempre al di là del bene e del male.
FRIEDRICH NIETZSCHE
Quando Gesù dice che per entrare nel regno dei cieli dobbiamo diventare
come bambini, quando il Taoismo ci raccomanda di tornare allo stato di “legno
grezzo” o quando lo Zen ci invita a riscoprire il nostro “volto originario”, non
intendono farci regredire a una condizione infantile, non ci impongono di
rinunciare alla nostra esperienza di adulti.
Oltretutto, nessuno può veramente tornare indietro: tutto ciò che abbiamo
vissuto, le conoscenze accumulate, non può essere cancellato se non annientando
il nostro stesso essere.
Il problema non è quello di spogliarci, di depauperarci: le esperienze, anche
quelle negative, sono sempre una ricchezza. Il problema è quello di
approfondire, di assimilare e di proseguire oltre.
Ciò che più ritarda la nostra evoluzione è la ripetitività: anziché andare avanti,
giriamo in tondo, senza mai lare un passo avanti. È penoso vedere persone di una
certa età che continuano a compiere gli stessi errori (per esempio sposare più
volte lo stesso tipo di donna o di uomo, e poi divorziare): è la dimostrazione che
non conoscono se stessi, che non hanno capito che cosa e chi faccia per loro.
La difficoltà a maturare, a imparare, deriva dall’incapacità di riflettere; allora
si compiono esperienze che non vengono assimilate, che non giungono a
costituire una visione saggia dell’esistenza.
È quindi necessario fermarsi ogni tanto a riesaminare ciò che si sta facendo, a
osservare se non si ripetono compulsivamente sempre le stesse azioni. In questi
casi c'è bisogno di un salto di qualità.
La nostra vita è contraddistinta proprio dalla ripetitività ciclica di certe
esperienze basilari, che rimangono per lungo tempo sempre le stesse. Ma, a un
certo punto, incominciamo a desiderare qualcosa di diverso, qualcosa di più:
siamo come farfalle in procinto di subire una metamorfosi.
Per un po’ crediamo di dover tornare indietro, di dover recuperare
un’esperienza perduta. In realtà stiamo solo assimilando il passato.
Se non vogliamo regredire a stadi vegetativi, non ci resta che andare ancora
più avanti, lasciandoci alle spalle senza tanti rimpianti ciò che siamo stati.
Intraprendiamo allora una nuova fase della vita, che è appunto un «inoltrarsi
sempre più addentro nel divenire dell’uomo».
Scrive Kierkegaard: «L’innocenza non è una perfezione di cui si debba
desiderare il ritorno; infatti desiderarla significa che la si è già perduta, ed è un
nuovo peccato perder tempo a desiderarla».
142. L’essere
Renditi conto d’aver dentro di te qualcosa di più folle e divino di ciò che
genera le passioni e ti muove come un burattino.
MARCO AURELIO