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Heinrich

Von Kleist.
LETTERE ALLA FIDANZATA.
a cura di Ervino Pocar.
Copyright 1985 SE Studio Editoriale S.R.L., Milano.
Su concessione Edizioni SE.
Indice.
Francoforte sull’Oder, principio del 1800: pagina 5.
Francoforte sull’Oder, principio del 1800: pagina 7.
Francoforte sull’Oder, primavera del 1800: pagina 14.
Francoforte sull’Oder, 30 maggio 1800: pagina 22.
Berlino, 16 agosto 1800: pagina 27.
Pasewalk, 20 agosto 1800: pagina 38.
Koblentz presso Pasewalk, 21 agosto 1800: pagina 44.
Lipsia, 30 agosto e 1 settembre 1800: pagina 51.
Dresda, 3 e 4 settembre 1800: pagina 59.
(tm)deran nei Monti Metalliferi, 4 settembre 1800: pagina 72.
Chemnitz, 5 settembre: pagina 73.
Lungwitz: pagina 76.
Zwickau: pagina 80.
Reichenbach: pagina 83.
W rzburg, 9 o 1O settembre 1800: pagina 85.
W rzburg, 11 e 12 settembre 1800: pagina 86.
W rzburg, 13 (- 18) settembre 1800: pagina 94.
W rzburg, 16 settembre 1800: pagina 107.
W rzburg, 19 (- 23) settembre 1800: pagina 114.
W rzburg, 1O (e 11) ottobre 1800: pagina 125.
Berlino, 13 novembre 1800: pagina 137.
Berlino, 16 (- 18) novembre 1800: pagina 148.
Berlino, 22 novembre 1800: pagina 159.
Berlino, 29 e 30 novembre 1800: pagina 162.
Berlino, 11 (e 12) gennaio 1801: pagina 169.
Berlino, 21 e 22 gennaio 1801: pagina 177.
Berlino, 31 gennaio 1801: pagina 183.
Berlino, 22 marzo 1801: pagina 195.
Berlino, 28 marzo 1801: pagina 204.
Berlino, 9 aprile 1801: pagina 206.
Berlino, 14 aprile 1801: pagina 212.
Dresda, 4 maggio 1801: pagina 215.
Lipsia, 21 maggio 1801: pagina 218.
Gottinga, 3 giugno 1801: pagina 226.
Strasburgo, 28 giugno 1801: pagina 233.
Parigi, 21 luglio 1801: pagina 235.
Parigi, 15 agosto 1801: pagina 242.
Parigi, 1O ottobre 1801: pagina 250.
Parigi, 27 ottobre 1801: pagina 258.
Francoforte sul Meno, 2 dicembre 1801: pagina 262.
Dall’isola nell’Aare presso Thun, 20 maggio 1802: pagina 266.
Epilogo.
A Marie von Kleist. Berlino, maggio 1811: pagina 268.
A Marie von Kleist. Berlino, agosto 1811: pagina 270.
A Marie von Kleist. Berlino, primi di ottobre 1811: pagina 272.
A Ulrike von Kleist. Francoforte sull’Oder, ottobre 1811: pagina 274.
A Marie von Kleist. Berlino, 9 novembre 1811: pagina 275.
A Marie von Kleist. Berlino, 1O novembre 1811: pagina 277.
A Marie von Kleist. Berlino, 12 novembre 1811: pagina 280.
A Sophie M ller. Berlino, il 20 novembre 1811: pagina 282.
A Ernst Friedrich Peguilhen. Da Stimming presso Potsdam, 21 novembre
1811: pagina 284.
A Ulrike von Kleist: pagina 288.
Note: pagina 289.
Postfazione di Ervino Pocar: pagina 297.
Note: pagina 311.
[Francoforte sull’Oder, principio del 1800].
Ho deciso di consegnare domani sera a Suo padre la lettera acclusa. Da ieri
sera sento che non posso rimanere fedele alla promessa di non fare per il mio
amore nulla che possa costituire un inganno verso i Suoi degni genitori. Stare in
Sua presenza e non dover parlare perché altri non abbiano a sentire i nostri
discorsi, tenere la Sua mano nella mia e dover rimanere in silenzio perché non
mi è permesso parlarLe in un certo modo, è una tortura che voglio e devo
togliere di mezzo. Perciò desidero sapere se posso amarLa a buon diritto oppure
no. In quest’ultimo caso sono risoluto a mantenere la promessa che faccio a Suo
padre nelle ultime righe della mia lettera. In caso contrario, sono felice…
Guglielmina! Ottima fanciulla! Nella lettera a Suo padre ho forse parlato alla
Sua anima con troppo ardimento? Se qualcosa in quella lettera Le fosse
dispiaciuto, me lo dica domani e io la cambierò.
Vedo che la nuova aurora del mio cuore brilla troppo luminosa ed è già
troppo visibile. Senza questa lettera potrei nuocere alla Sua reputazione, che
però mi è più cara di qualunque altra cosa al mondo.
Ora avvenga ciò che il cielo mi ha destinato, io sono tranquillo nella
convinzione che agisco per il meglio.
HEINRICH KLEIST.
P.S. Se domani non mi negasse una passeggiata, potrei sapere da Lei che
cosa pensa di questo passo e come lo giudica. Non ho fatto cenno del mio
viaggio per ragioni che vorrà perdonare. La prego quindi di non parlarne
nemmeno Lei. Noi infatti ci intendiamo.
[Francoforte sull’Oder, principio del 1800].
[Manca il principio] … evidente la certezza di essere amato da Lei?
Non spira da ogni riga la lieta convinzione dell’amore esaudito e felice?
Eppure… chi me l’ha detto? E dove è scritto?
E’ vero… che cosa posso arguire dalla letizia che da ieri anima anche Lei,
che cosa dalle lacrime di gioia che ha versato alla dichiarazione di Suo padre,
che cosa dalla bontà con la quale a volte mi ha guardato in questi giorni, che
cosa dalla profonda fiducia con cui mi ha parlato in alcune delle sere passate,
specialmente ieri presso il pianoforte, che cosa dall’ardire con cui ora, perché Le
è lecito, si avvicina a me persino alla presenza di altri, mentre prima si teneva
sempre timidamente lontana? - Che cosa, domando, posso arguire da tutti questi
segni quasi indubitabili, cos’altro, Guglielmina, se non che sono amato?
Ma posso fidarmi dei miei occhi e delle mie orecchie della mia intelligenza e
del mio acume, del sentimento dei mio cuore credulo, che già una volta si è
lasciato ingannare da simili segni? Non devo diffidare delle mie deduzioni dopo
che Lei stessa mi ha già mostrato una volta quanto siano talora errate? In fondo,
dopo matura riflessione, che cosa posso credere oltre a ciò che sapevo già sei
mesi fa, che cosa, dico, posso credere oltre il fatto che Lei mi stima e mi ama
“come un amico”?
Eppure desidero di più, eppure vorrei “sapere” che cosa il Suo cuore sente
per me. Guglielmina, mi lasci gettare uno sguardo dentro il Suo cuore! Me lo
apra almeno una volta con fiducia e sincerità. Tanta fiducia, tanta illimitata
fiducia da parte mia merita pure una qualche reciprocità da parte Sua. Non
voglio dire che Lei mi debba amare perché io La amo; ma fiducia in me deve
averne, perché io l’ho avuta senza limiti in Lei… Guglielmina, mi scriva con
intima e autentica franchezza. Mi conduca una volta nel sacrario del Suo cuore
che non conosco ancora con certezza. Se la convinzione che ho ricavato dalla
cordialità del Suo contegno verso di me fu troppo ardita e troppo avventata, non
si faccia riguardi di dirmelo. Mi basteranno le speranze che Lei certo non vorrà
togliermi. Ma anche allora, Guglielmina, se la mia convinzione fosse fondata,
anche allora non abbia riguardo di confidarsi totalmente. Me lo dica, se mi
ama…
perché infatti dovrebbe vergognarsene? Non sono forse un gentiluomo,
Guglielmina?
A dire il vero - glielo voglio confessare apertamente, Guglielmina, qualunque
cosa Lei debba pensare della mia vanità - a dire il vero, sono fermamente
convinto che Lei mi ama. Ma Dio solo sa quale concatenazione di pensieri mi fa
desiderare che sia Lei a dirmelo.
Credo che cadrei in estasi e che Lei mi donerebbe un istante pieno della gioia
più esuberante e più ardente, se la Sua mano potesse decidersi a scrivere queste
tre parole: “Io ti amo”.
Sì, Guglielmina, me le dica, queste tre stupende parole; e avranno valore per
tutta la durata della mia vita. Me le dica “una volta” e faccia in modo che si
giunga presto al punto di non aver più bisogno di ripetercele. Non a parole,
infatti, ma con le azioni si mostra la vera felicità e il vero amore. Faccia in modo
che sia possibile confidarci intimamente così da poterci conoscere appieno. Io
non so nulla, Guglielmina, nel mio spirito non si agita alcun pensiero, nel mio
petto alcun sentimento che io debba evitare di comunicarLe. E Lei che cosa
potrebbe avere da nascondermi? E che cosa potrebbe indurla a violare la prima
condizione dell’amore, la confidenza? - Sia sincera dunque, Guglielmina,
sempre sincera. Qualunque cosa pensiamo e sentiamo e desideriamo… ignobile
non può essere, quindi possiamo confidarcela con franchezza. Fiducia e stima,
ecco i due inseparabili pilastri fondamentali dell’amore, senza i quali non può
reggersi, senza stima, infatti, l’amore non ha valore e senza fiducia non ha gioia.
Sì, Guglielmina, anche la stima è una irrevocabile condizione dell’amore.
Sforziamoci dunque incessantemente non solo di conservare, ma anche di
accrescere quella stima che proviamo a vicenda. Soltanto questo fine conferisce
all’amore il valore supremo. Più nobili e più buoni dobbiamo divenire in virtù
dell’amore, e se non raggiungiamo, Guglielmina, questo scopo, significa che non
ci intendiamo. Cerchiamo dunque di vegliare sempre con dolce e umana severità
sul nostro reciproco comportamento. Vorrei che almeno Lei mi dicesse
apertamente tutto ciò che in me può forse dispiacerLe. Oso promettere di
adempiere a tutte le Sue richieste giacché non temo che possano essere
eccessive. Continui almeno a comportarsi sempre in modo che io possa porre la
mia suprema felicità nel Suo amore e nella Sua stima, allora tutti i buoni influssi
che Lei stessa forse non immagina, per i quali io Le sono intimamente e
affettuosamente grato, si raddoppieranno e si triplicheranno. In compenso,
anch’io intendo contribuire alla Sua formazione, Guglielmina, e rendere sempre
più nobile e più elevato il valore della fanciulla che amo.
E adesso, Guglielmina, ancora una cosa molto importante. Lei sa che ormai
ho deliberato di prepararmi a un impiego; ma non ho ancora deciso per quale
impiego debba formarmi. Dedico tutte le mie ore libere a riflettere su questo
argomento. I desideri del mio cuore contro le esigenze della ragione, ma i piatti
della bilancia oscillano sotto pesi indeterminati. Devo forse studiare diritto?
Guglielmina, recentemente, a proposito di diritto naturale, ho sentito porre il
quesito se i patti degli amanti possano aver valore, dato che si stipulano nella
passione… e che cosa devo pensare di una scienza che si rompe il capo per
decidere se esista nel mondo la proprietà e m’indurrebbe quindi a dubitare sulla
legittimità dell’affermazione che Lei mi appartiene? No, no, Guglielmina, non
voglio studiare diritto, non voglio studiare i diritti oscillanti, incerti, ambigui,
della ragione, ma voglio attenermi ai diritti del mio cuore e li voglio far valere,
qualunque cosa abbiano a obiettare i sistemi dei filosofi… O
devo abbracciare la carriera diplomatica?… Oh, Guglielmina, io riconosco
soltanto una legge suprema, la “rettitudine”, mentre la politica conosce soltanto
l’utile. E, oltre a questo, il soggiorno presso corti straniere non si addice alla
felicità dell’amore. Nelle corti regna la moda e l’amore fugge dinanzi a questa
impertinente motteggiatrice… O devo dedicarmi alla scienza delle finanze?
Questa sarebbe un’idea, anche se il tintinnare di monete rotolanti non mi è
piacevole e gradito. Sia pure. L’accordo dei nostri cuori mi compenserebbe, e io
non ripudio questa strada se può condurci alla meta. Ho come prospettiva anche
un altro impiego, un impiego onorevole che mi aprirebbe tutti i godimenti della
scienza; ma certo non sarebbe brillante, poiché non vi si fa carriera come
cittadini dello stato, ma soltanto come cittadini del mondo… voglio dire un
impiego accademico. Infine mi rimarrebbe ancora da studiare economia per
imparare l’arte importante di produrre grandi effetti con forze esigue. Se potessi
riuscire a impadronirmi di questa grande arte, allora, Guglielmina, potrei
dedicare l’intera esistenza a Lei e al mio fine supremo - o meglio, perché così
vuole l’ordine di precedenza - al mio fine supremo e a Lei.
Ora mi trovo, come Ercole, all’incrocio di cinque strade e medito su quale
debba scegliere. L’importanza del fine a cui miro mi rende pavido nella scelta.
Felice, Guglielmina, vorrei essere felice e allora non è forse lecito il timore di
sbagliare strada? Io credo, è vero, che sarei felice prendendo una strada
qualunque, a patto di poterla percorrere al Suo fianco. Ma forse, Guglielmina,
Lei nutre desideri particolari, degni anch’essi di essere presi in considerazione.
Perciò La prego di comunicarmi il Suo pensiero su tutti questi progetti e le Sue
preferenze. E inoltre mi sarebbe caro sapere che cosa realmente si ripromette da
un futuro al mio fianco.
Non le prometto in modo assoluto di accogliere il Suo desiderio, ma le
prometto di scegliere, a parità di vantaggi nelle previsioni, quella strada che più
risponde ai Suoi desideri. E fosse pure, Guglielmina, la strada più faticosa, più
disagiata, mi sento il coraggio e l’energia di superare tutti gli ostacoli; e quando
il sudore mi scorresse dalle tempie e per lo sforzo continuo le mie energie
venissero meno, voglio che mi sorrida la confortante visione dell’avvenire, e mi
doni nuovo coraggio, nuove forze questo pensiero:
“ma io lavoro per Guglielmina!
HEINRICH KLEIST.
QUESITI PER ESERCITAZIONI DI PENSIERO
PROPOSTI A WILHELMINE VON ZENGE.
[Francoforte sull’Oder, primavera del 1800].
1. Quando qualcuno biasima in altri un difetto del quale egli stesso non va
esente, si ode spesso obiettargli: Tu biasimi gli altri e non sei migliore di loro!
Io domando: Non dobbiamo biasimare un errore negli altri proprio perché lo
abbiamo commesso anche noi?
2. Che differenza c’è tra giustificare e perdonare?
3. Se un uomo e una donna fanno l’un per l’altro tutto ciò che possono,
secondo la loro natura, quale dei due perde di più, se l’altro muore prima?
4. Una donna può avere conquistato la stima e la fiducia del marito senza
essere da lui desiderata. Con che cosa conquista e conserva quest’uomo?
DOMANDA.
Una donna che sia degna di stima, non necessariamente per questo è
interessante. In che modo acquista e conserva l’interessamento del marito?
RISPOSTA.
L’interessamento ha la stessa sorte di tutte le cose di questo mondo.
Non basta che il cielo le abbia create, deve anche mantenerle, se si vuole che
durino. E’ nulla ha bisogno di un nutrimento sceltissimo più di quella realtà
misteriosa che nasce, non sappiamo come, e spesso scompare, non sappiamo
come: l’interessamento.
Destare interesse e abbandonarlo a se stesso significa dar vita a un bambino e
abbandonarlo a se stesso. L’uno muore come l’altro, non perché gli si faccia del
male, ma perché non si fa “niente” per lui.
Il bambino, però, non è così esigente come l’interesse riguardo
l’alimentazione. Il bambino si appaga di “un” solo alimento, l’interesse vuol
sempre un nutrimento scelto, raffinato e vario. Muore se gli si mette dinanzi oggi
e domani ciò che ha già gustato ieri e ier l’altro.
Nulla infatti è così dannoso all’interessamento come l’uniformità e niente
invece è così favorevole come la varietà e la novità. Il viaggiare ci arreca un
piacere così grande perché con l’incessante mutare dei luoghi variano anche le
vedute della natura e per questo la vita in genere offre un interesse così grande,
anzi il massimo interesse, essendo, per così dire, un grande viaggio che sempre
ci porta un qualcosa di nuovo, ci mostra una nuova veduta e ci apre una nuova
prospettiva.
Ora, non vi è nulla che possa assumere forme diverse come il talento.
La virtù e l’amore indossano sempre per loro natura un unico abito e per la
loro natura non possono mutarlo. Il talento invece può mutare continuamente
forma e abito, e forse piace proprio perché lo può fare.
E cosi una donna che vuol conservare l’interessamento del marito dovrà
sempre sviluppare e esercitare il suo talento, se la natura gliel’ha donato,
affinché il marito trovi sempre in lei quel godimento del bello, di cui non potrà
mai fare interamente a meno e che altrimenti dovrebbe cercare in estranei. Se
infatti la virtù e l’amore sono il fondamento della felicità familiare, solo il
talento può renderla veramente attraente. E non è necessario che il talento della
musica, del disegno, della lettura o di altro sia sviluppato fino alla perfezione;
basta che in esso predomini il senso della vera bellezza.
DOMANDA,
Che cosa è preferibile: essere stati felici per breve tempo o non esserlo stati
mai?
RISPOSTA.
Se confrontiamo la condizione di chi ha perduto la felicità con la condizione
di chi non l’ha goduta mai, i piatti della bilancia oscillano sotto il peso di mali
quasi identici, ed è difficile dirimere la questione. Ma sembra tuttavia che la
bilancia scenda dalla parte del secondo.
Chi ha sognato un tempo l’aureo sogno della vita sul seno della felicità e poi
viene destato dalla voce aspra della sorte, tende, sì, tristemente le braccia verso
le forme divine che fuggono per sempre e il suo dolore è tanto più grande quanto
più grande era la felicità da lui goduta; ma la cornucopia della beatitudine che si
riversa dall’alto gli ha pur offerto un piccolo fiore che può allietarlo persino nel
ricordo, anche se sia già sfiorito da tempo. Le esigenze che egli poteva aver
posto alla vita non gli sono state respinte interamente, non del tutto gli venne
rifiutata la grande eredità che il cielo ha lasciato ai figli della terra, non
mormorerà contro il padre degli uomini per averlo escluso dal suo amore, non
invidierà con acre rancore i suoi fratelli che hanno ricevuto solo parti uguali alla
sua, non si scaglierà contro il godimento della sua felicità perché non è durata
eternamente, nello stesso modo in cui nessuno si scaglia contro la primavera
perché è breve, né maledice il giorno perché sta già calando la notte. Più forte e
sicuro di quanto sarebbe se non avesse mai camminato per il sentiero luminoso,
camminerà ora anche per le strade buie della vita e talvolta nella memoria
visiterà con gioia malinconica le rovine muscose della perduta felicità per
cogliere il piccolo fiore autunnale della saggezza.
Ma chi non ha visto adempiersi neppure il più modesto dei suoi desideri
ardenti, chi della grande eredità nella cui abbondanza sguazzano tutti i fratelli
non ha ricevuto neppure la legittima parte, si sentirà come un figlio ripudiato,
escluso dall’amore del padre di tutti, che a lui non è padre, e il piatto contenente
la sua condizione calerà profondamente rispetto al piatto dell’altro.
1. Se l’uomo esercita verso la donna il brutale diritto del più forte con le armi
della violenza, non ha anche la donna un pari diritto contro l’uomo, quello che si
potrebbe chiamare il diritto del più debole, che essa può far valere con le armi
della dolcezza?
2. Che cosa unisce maggiormente gli uomini tra di loro: i legami della
fiducia, le virtù o le debolezze?
3. Deve la moglie non piacere a nessun altro che non sia suo marito?
4. Quale gelosia turba la pace della vita coniugale?
Ma perché non si eserciti soltanto la tua intelligenza, cara Guglielmina, ma
anche le tue altre forme spirituali, assegnerò ora un piccolo compito alla tua
fantasia. Dovresti descrivermi la situazione che potrebbe meglio corrispondere a
quanto ti attendi dalla futura felicità del matrimonio. Facendo ciò, potrai dar
libero corso alla fantasia, descrivere l’ambiente della felicità coniugale in base ai
tuoi concetti del bello, arredare e ordinare la casa a tuo arbitrio, scegliere i lavori
ai quali preferiresti dedicarti e indicare i divertimenti che più volentieri vorresti
in essa predisporre per te o per me o per altri.
DOMANDE.
1. E’ lecito combattere tutti i principi errati degli altri o non si devono
tollerare e rispettare i principi innocui, se da loro dipende la tranquillità del
prossimo?
2. Si deve sempre pretendere dall’uomo con rigore inesorabile
l’adempimento dei suoi doveri o si può forse essere soddisfatti di lui se li
riconosce soltanto e non perde mai la disponibilità ad adempierli?
3. E’ lecito all’uomo fare tutto ciò che è giusto o deve accontentarsi di
considerare giusto tutto ciò che fa?
4. Si può aspirare in questo mondo ad attuare la perfezione o non ci si deve
limitare al perfezionamento di quello che già esiste?
5. Che cosa è meglio: essere buoni o agire bene?
Quando si chiede a una fanciulla che cosa pretenda da un futuro matrimonio
per poter godere della massima felicità, essa deve anzitutto indicare:
1. quali virtù debba possedere il futuro marito, se debba essere straordinario
oppure comune di spirito e di corpo e in quale grado debba esserlo, eccetera. Poi
se debba essere ricco, nobile, eccetera; 2. quale impiego debba avere, se uno
militare o uno civile o nessun impiego;
3. l’ambiente in cui debba svolgersi la vita coniugale, se in città o in
campagna, e come debba essere il luogo nei particolari, in ognuno di questi casi,
se in montagna o in pianura o al mare, eccetera; 4. come debba essere la casa, se
grande e sontuosa o soltanto spaziosa e comoda, eccetera;
5. se il tenore di vita debba essere lussuoso o da benestanti, eccetera;
6. quali compiti ella voglia assumersi e quali no, ecc; 7. quali divertimenti
debbano svolgersi in casa, se rumorosi o silenziosi, magnifici o nobili, moderni o
intelligenti, eccetera; 8. quale grado di governo debba spettare a lei e quale
voglia riservare al coniuge;
9. come debba comportarsi il marito con lei, se con modi carezzevoli o
sinceri, umili o superbi; se in casa debba essere allegro o lieto o serio; se fuori di
casa debba onorarla con “éclat” o se basta che lo faccia nella tranquillità della
casa; se in genere si debba vivere molto tra gli altri, in pubblico, o se non sia
sufficiente godere la vita piuttosto nel silenzio.
Essendo tutto questo nient’altro che un desiderio, la fantasia ha giuoco
illimitato e non deve legarsi ai ceppi della realtà…
Francoforte sull’Oder, 30 maggio 1800.
Cara Guglielmina, la reciproca esercitazione nel rispondere a questioni
dubbie ha un’importanza così articolata per la nostra formazione che dobbiamo
affrontare la cosa con quella serietà che richiede, e devo fornirti di una piccola
guida per trovare soluzioni più facili e più opportune. Infatti con queste
risoluzioni scritte di quesiti interessanti ci esercitiamo non solo nell’applicazione
della grammatica e nello stile, ma anche nell’uso delle nostre superiori energie
spirituali; e infine definiamo il nostro giudizio su argomenti dubbi e noi stessi ci
arricchiamo progressivamente di interessanti verità.
La tua risposta alla prima domanda è esattamente come l’avrei data io stesso
e la risposta alla seconda forse ancora migliore, almeno per quanto riguarda il
contenuto. Solo nella forma, nell’ordinamento e nello svolgimento delle due
risposte sarebbe possibile avanzare qualche critica.
Ma mi riservo di farlo a voce e ora mi limito a tracciarti soltanto la strada che
io seguirei nel rispondere a una simile domanda.
Nel caso in cui tu mi domandassi quale dei due sposi, adempienti entrambi ai
loro doveri coniugali, perda maggiormente per la morte prematura dell’altro, i
pensieri suscitati nella mia anima si concatenerebbero pressappoco nell’ordine
seguente.
Innanzi tutto il mio intelletto indaga: a che cosa tende? Cerca così di
comprendere il significato della tua domanda. Poi il mio giudizio chiede: quale è
l’aspetto che più conta? Cerca così di scoprire il nocciolo della controversia.
Infine la mia ragione domanda: a dove porta tutto questo? Cerca così di ricavare
il risultato da quanto precede.
Prima di tutto, dunque, il mio intelletto si chiarisce perfettamente il
significato della tua domanda e comprende che tu pensi a due coniugi, ciascuno
dei quali fa per l’altro tutto quanto è in suo potere, secondo la sua indole; tu
dunque presupponi che ognuno alla morte dell’altro perda “qualcosa” e vorresti
solamente sapere da quale delle due parti stia la perdita preponderante.
Ora, il mio giudizio risale all’origine del quesito e si domanda: che cosa fa
veramente per l’altro ciascuno dei due coniugi secondo la sua indole?
Individuato questo, confronta ciò che essi fanno l’uno per l’altro e stabilisce
quale dei due faccia di più. Allora il giudizio comincia a comprendere che il
marito è non solo il marito di sua moglie, ma anche un cittadino dello stato,
mentre la donna non è altro che la moglie di suo marito; che il marito non ha
soltanto doveri verso la moglie, ma anche doveri verso la patria, mentre la donna
non ha altri doveri se non quelli riguardo al marito; che, di conseguenza, la
felicità della donna è bensì un compito importante e indiscutibile del marito, ma
non l‘“unico”, mentre la felicità del marito è il solo compito della moglie; che
pertanto il marito non agisce per la moglie con “tutte” le sue energie, la moglie
invece agisce con “tutta l’anima” per il marito; che la moglie, quando il marito
adempia ai suoi principali doveri, non riceve altro che la protezione contro gli
attacchi al suo onore e alla sua sicurezza e il sostentamento per i bisogni della
vita, mentre il marito, quando la moglie adempia ai suoi principali doveri, riceve
da lei la somma totale della felicità domestica, vale a dire di “ogni felicità”; che
infine il marito non è sempre felice quando lo è la moglie, la moglie invece è
sempre felice quando lo è il marito, e che pertanto la felicità del marito è, a
rigore, il principale oggetto delle aspirazioni di entrambi.
Confrontando queste tesi fra loro, il giudizio stabilisce che il marito riceve
dalla moglie di gran lunga, anzi infinitamente di più che la moglie dal marito.
Ora la ragione si assume il compito finale e da quest’ultima tesi trae la ovvia
conseguenza che colui che maggiormente riceve deve anche perdere
maggiormente, e pertanto, ricevendo il marito infinitamente più che la moglie, se
lei muore deve anche perdere infinitamente più di quanto non perda la moglie se
è il marito che muore.
Per questa via, dunque, attraverso una catena di pensieri che prima di
arrischiarmi ad affrontare la totalità dell’argomento solitamente annoto su un
foglio a parte, sarei giunto al risultato richiesto e non mi rimarrebbe altro che
ordinare i pensieri sparsi nella loro concatenazione di causa e conseguenza e
dare al componimento una forma completa ed elegante.
Questo, all’incirca, sarebbe il risultato migliore:
“L’uomo non è soltanto il marito di sua moglie, ma anche un cittadino dello
stato; la donna invece non è altro che la moglie di suo marito; l’uomo non ha
soltanto doveri verso sua moglie, ma anche doveri verso la patria; la donna
invece non ha altri doveri se non quelli verso il marito; la felicità della donna è
bensì un oggetto indispensabile per l’uomo, ma non l’unico oggetto, giacché a
lui sta a cuore anche la felicità dei suoi connazionali; la felicità del marito invece
è l’unico oggetto della donna; il marito non opera con tutte le sue forze soltanto
per la moglie, non le appartiene totalmente, non appartiene unicamente a lei,
poiché anche il mondo conta su di lui e sulle sue forze; la moglie invece opera
con tutta l’anima per il marito, non appartiene a nessun altro se non a lui e gli
appartiene totalmente; la moglie, infine, quando il marito adempie ai suoi doveri
principali, non riceve da lui se non la protezione contro gli attacchi al suo onore
e alla sua sicurezza e il sostentamento per i bisogni della vita, mentre il marito,
quando la moglie adempie ai suoi doveri principali, riceve da lei l’intera sua
felicità terrena; la moglie è felice purché lo sia il marito, il marito invece non lo è
sempre quando lo è la moglie e questa deve pensare a renderlo felice. Il marito
riceve dunque infinitamente di più dalla moglie che lei dal marito.
Per conseguenza il marito perde infinitamente di più con la morte della
moglie di quanto perde la moglie con la morte del marito. La donna non perde
altro che la protezione contro gli attacchi al suo onore e alla sua sicurezza e il
sostentamento per i bisogni della vita; la prima la ritrova nelle leggi o il marito
stesso continua a procurargliela per mezzo dei parenti e forse dei figli adulti;
l’altro può averlo ottenuto come eredità dal marito. Ma come potrebbe la moglie
lasciare al marito ciò che egli perde con la morte di lei? Egli perde la somma
della sua felicità terrena, con la perdita della moglie gli si è inaridita la fonte di
ogni felicità, tutto gli manca se gli manca una sposa, e tutto quanto essa può
lasciargli è il malinconico ricordo della felicità di un tempo, ricordo che rende
ancora più triste la sua condizione”.
Aggiungo qui un altro quesito a cui si potrebbe rispondere in un modo
simile: Sono le donne prive di ogni influenza sul governo dello stato?
H. K.
Berlino, 16 agosto 1800.
Mia cara, amata Minetta, non essere in collera se ricevi questa lettera con
tanto ritardo. Ieri non ho potuto scrivere perché ero trattenuto da molte
faccende… ma questa è una magra scusa. Nessuna occupazione deve impedirmi
di compiere il dovere di dar notizie di me tempestivamente alla mia cara e fedele
fanciulla. Via, perdonami per questa volta! Certo, se portassi ora queste righe
alla posta, troveresti una mia lettera al tuo ritorno da Tamsel; ma sette righe si
possono dire una lettera? Lasciami dunque chiacchierare ancora un poco con te
confidenzialmente e affettuosamente.
Con quali sentimenti abbia lasciato Francoforte… oh, cara fanciulla, non te
lo posso descrivere, giacché non mi comprenderesti interamente.
Quando mi separai da te andai ancora a coricarmi e rimasi così forse un’ora e
mezza, ma ad occhi aperti, senza dormire. Quando nella semioscurità del mattino
partii, ebbi l’impressione di udire un rumore a una finestra del vostro salotto. Mi
balenò il pensiero che potessi essere tu. Ma non eri tu, benché avessi l’ardente
desiderio di rivederti ancora una volta. La carrozza si allontanò mentre i miei
sguardi, avendo il corpo rivolto all’indietro, erano ancora fissi sulla casa diletta.
Le lacrime mi salirono agli occhi, desiderai ardentemente di piangere, ma da
troppo tempo ne ho perduto l’abitudine.
Durante tutto il viaggio fino a Berlino il pensiero di te mi ha lasciato solo
raramente, assai raramente. Sono sicuro che se si volessero assommare gli istanti
di distrazione non si potrebbe ottenere più di un quarto d’ora. Nulla poteva
distarmi, né il veramente romantico Steinh”fel (una tenuta del maresciallo di
corte Massow) dove si può dire che ogni albero, ogni ramo, persino ogni foglia
siano piantati, curvati e ordinati secondo una precisa idea del bello; né il fumo
che saliva dai camini del castello rammentandomi i preparativi per ricevere una
famiglia reale; né tutto il corteo reale che mi passò davanti avvolto in una nuvola
di polvere; né la bella strada ormai pronta da Friedrichsfelde a Berlino, sulla
quale viaggiavo con gioia e, se l’avessi costruita io stesso, non senza orgoglio; e
nemmeno il calore cocente del sole che mi avvampava la testa come se avessi
passato l’Equatore, e mi toglieva ogni forza fisica, senza però turbare la più cara
occupazione del mio spirito, il pensiero di te.
Quando entrai dal portale nella penombra della sera e vidi da principio le
case ampie e larghe disseminate qua e là e isolate, ma poi sempre più fitte, e la
vita divenne sempre più animata e il rumore sempre più fragoroso, quando
finalmente mi trovai immerso nella superba città regale e la mia anima si apriva
per accogliere tutta la folla di quelle visioni, pensai: Dove sarà mai il caro tetto
che un giorno proteggerà me e il mio amore? qui, accanto a questo superbo
colonnato? là, in quell’angolo recondito? o qui, sulle rive aperte della Sprea? Mi
perderò un giorno in quel vasto edificio con quattro file di finestre o resterò
sempre in questa angusta casetta? Mi avvierò verso casa la sera, dopo aver
terminato il lavoro, a piedi, con un fascio di carte sotto il braccio, per questo
stretto vicolo, o passerò con un tiro a quattro per questa magnifica strada,
davanti a quel solenne portale? E quando starò per entrare in casa, la mia cara
Minetta mi saluterà con un cenno cordiale dall’alto e mi correrà incontro su
questa scala buia per imprimere sulle mie labbra assetate il bacio dell’amore, o
dovrò cercarla in questo vasto palazzo e attraversare una fuga di stanze per
trovarla finalmente sul divano imbottito, in un crocchio di donne agghindate e
imbellettate? Basterà che in questa camera buia lei sposti la tendina leggera per
darmi il buongiorno con un sorriso, o mi manderà dall’ala più lontana di quel
castello un attendente a informarsi come abbia dormito il signore consorte? No,
no, mia cara Minetta, certamente non farai cosi.
Qualunque sacrificio richiedano i costumi della città, quelli dell’amore ti
saranno sempre più sacri e perciò, ovunque mi porti il destino, o in questa casetta
nascosta o in quell’orgoglioso castello, una cosa sono certo di trovare sotto
qualsiasi tetto: “confidenza e amore”.
Ma, detto fra noi, ogni volta che vedo Berlino sempre più mi convinco che
questa città, come tutte le capitali e le residenze, non è la vera dimora
dell’amore. Qui gli uomini sono troppo manierati per essere veritieri, troppo
navigati per essere sinceri. La grande quantità di immagini turba il godimento
del cuore, si finisce con l’abituarsi a inseguire tanti vani interessi e col perdere di
vista quelli autentici.
Con Carlo (1) ho parlato subito ieri mattina, a mezzogiorno ho fatto
colazione da lui e la sera è venuto a cena da me. Ho salutato Kleist alla
passeggiata e ne fui punito con un invito per questa sera che viene a intralciare i
miei progetti. Prima di tutto andai da Struensee che, come temevo pur senza
esserne sicuro, non era in casa. Non occorre che tu tenga nascosto questo fatto.
Struensee ritorna il 26 e allora gli parlerò. Questo è “certo”. Puoi dire che fino ad
allora resterò qui, anche se non è vero. “Tu” invece verrai a sapere tutta la
verità… In secondo luogo andai da Benecke (2), ma ci devo ritornare oggi
perché non era in casa. Mi recai infine in una libreria dove comperai libri e carte
per Ulrica e il “Wallenstein” di Schiller - sei contenta, vero? - per te. Leggilo,
cara fanciulla, anch’io lo leggerò.
Così le nostre anime si incontreranno anche in questo. Fallo rilegare a mie
spese secondo il tuo gusto e scrivi sulla prima pagina del volume la solita dedica:
H. v. K. a W. v. Z. Cerca di passare il tempo in cui siamo separati sognando
queste belle visioni. Tutto ciò che dice Max Piccolomini valga per me, se
presenta una qualche somiglianza, e tutto ciò che dice Tecla valga per te, se
presenta una qualche somiglianza.
Ieri sera sono andato a vedere il celebre “Panorama del la città di Roma”.
Ma, a quanto mi è parso, deve la sua fama soltanto alla novità.
E’ la prima idea di un panorama (panorama è una parola greca. Per te, lo so
bene, è soltanto un suono incomprensibile. Ma perché tu possa fartene un
concetto, te lo spiegherò secondo la tua capacità di comprensione. La prima metà
della parola significa all’incirca: “da ogni parte, intorno intorno”; la seconda
metà equivale approssimatamente a: “vedere, da vedere, veduto”. Con questi
elementi puoi costruirti a piacimento un sostantivo tedesco). Dicevo dunque che
è la prima idea di un panorama, un’idea che potrebbe raggiungere una perfezione
molto maggiore. Se infatti si intendesse dare allo spettatore l’illusione perfetta di
essere immersi nella natura in modo che “nulla” gli rammenti l’inganno, si
dovrebbero prendere ben altre misure. Nessuna forma di edificio può attuare
questo scopo se non, a mio modo di vedere, la forma sferica. Bisognerebbe
rimanere fisicamente sulla pittura e non trovare da nessuna parte un punto che
non sia dipinto. Ma dovendo la luce cadere dall’alto ed essendo quindi
necessario che in alto ci sia un’apertura, bisognerebbe nasconderla facendo
innalzare nel mezzo, poniamo, un tronco d’albero che allargasse i rami frondosi
e coprisse, per così dire, gli spettatori con la sua ombra. Stai a sentire invece
come hanno fatto. Affinché tu comprenda meglio, ti allego la pianta.
All’ingresso ti invitano cortesemente a immaginare di trovarti sulle rovine
del palazzo imperiale, cosa che in realtà, quando sali per un buio passaggio e
arrivi al centro non puoi fare senza molta condiscendenza. Ci si trova infatti su
un piano di comuni assi d’abete che, come è noto, non hanno proprio molta
somiglianza con il marmo di Carrara. Nel mezzo s’innalza un palo
quadrangolare che regge un tetto piatto di legno per nascondere l’apertura
superiore. Ma non si capisce che cosa voglia rappresentare; e per uccidere del
tutto l’illusione con il pugnale della realtà hanno appeso a ciascun lato del palo
uno specchio grazioso che riflette il soggetto della pittura in modo artificioso e
sgradevole. Lo spazio per gli spettatori è limitato da una barriera di legno che
ricorda perfettamente quelle dei saltimbanchi e dei cavallerizzi. Sopra a questa
sta appesa e sorretta, abbassata e rialzata in forme disordinate, una tela
marmorizzata in bianco e rosso che, come puoi facilmente immaginare,
dovrebbe rappresentare nientemeno che le rovine del palazzo imperiale corrose
dal dente del tempo. Dietro questo primo piano segue tutto intorno una
tappezzeria verticale, alta circa tre piedi e dipinta a fogliami, pietre e macerie, la
quale simula, come nei nostri teatri, il primo fondo della scena. Immagina poi
come fondale la rappresentazione pittorica vera e propria su una parete verticale
rotonda, raffigurati una torre rotonda dipinta all’interno e avrai la visione del
famoso panorama.
Il soggetto della pittura è interessante, essendo Roma. Ma anche questo è in
certi punti eseguito male. La natura stessa, immagino, deve aver fatto di meglio.
C’è una quantità di oggetti, una dovizia di bellezze e paesaggi, ciascuno dei
quali renderebbe interessante una località. Ci sono valli, colline, viali, boschetti
sacri, sepolcri, ville, rovine, bagni, acquedotti (ma senz’acqua), cappelle, chiese,
piramidi, archi di trionfo, il circo enorme e la magnifica Roma.
Quest’ultima soprattutto compie ogni sforzo possibile per creare l’illusione.
L’artista ha colto bene il momento del tramonto senza mostrare il sole che è
nascosto dietro una rupe (numero 1). E ha collocato Roma con le sue cupole e i
suoi pinnacoli così abilmente fra il sole e lo spettatore da ottenere tutto l’effetto
del malinconico e azzurro velo della sera, steso sopra la grande antichità, da cui
a tratti emergono solo le punte illuminate da un vivido rosso purpureo.
Ma nessuna fresca brezza di ponente soffiava sulle rovine tra cui ci
trovavamo, faceva un caldo soffocante nella vicinanza di questa Roma e perciò
ritornai di corsa a Berlino compiendo un viaggio che questa volta non fu né
lungo né faticoso.
In questo momento è entrato un poliziotto armato a domandarmi se posso
dimostrare con documenti che la mia identità è quella dell’ex tenente v. K. Sia
ringraziato il cielo, pensai, che non sei un fuoruscito francese o polacco,
altrimenti saresti riaccompagnato gentilmente fuori porta prima di poter sbrigare
i tuoi affari. Chissà che tuttavia non scriva a Francoforte per chiedere più precise
informazioni sul mio conto. Questo strano ibrido fra militare e accademico
continuava infatti a sembrargli un’anomalia (eccezione alla regola) nel suo
raggio di esperienza.
Ritorno in questo momento dalla visita a Benecke e porto buone notizie per
mia sorella Guglielmina (3). Consegnale il biglietto che accludo.
A quali turpitudini si abbassa l’uomo quando ha di mira soltanto il proprio
vantaggio! Orrore! Meglio perdere tutto che guadagnare con tali mezzi. La mia
povera Minetta meritava una sorte migliore. Queste sono le conseguenze di una
sola disgraziata risoluzione! Ma ci separeremo un giorno anche noi? Ci
scambieremo querele giudiziarie e rimbrotti invece di queste lettere piene di
tenerezza? Nutriremo un giorno odio e vendetta nei nostri cuori ora colmi di
benevolenza? Ci precipiteremo a vicenda con queste forze fidate nell’ignominia
e nella sventura? - Ci separeremo anche noi? - “Noi no”, mia cara fanciulla.
Lei sola ci potrà separare, lei che dicono vesta di nero, benché non sia un
prete. Ma costei separa soltanto i corpi Ritornando dalla visita a Benecke ho
incontrato Neddermann tutto in ghingheri, in scarpe basse, grondante sudore:
“Da dove viene, caro amico?”. “Dagli esami”.
Mi affretto a concludere. Leggi e rileggi le istruzioni. Ancor meglio sarebbe
se tu le imparassi a memoria. Ne avrai bisogno. Confido in te
“pienamente” e per questo saprai di me più di chiunque altro.
Il mio progetto, o meglio, i mezzi per attuarlo hanno subito una
modificazione; lo scopo infatti non muta. Mi sento troppo debole per agire “da
solo” quando è in giuoco una posta così importante. Per questo prima di agire
cercherò un amico savio e più vecchio di me e ti dirò chi sia non appena l’avrò
trovato. Qui non c’è, e neppure nei paraggi. E’ invece… devo dirti il luogo? Sì,
te lo voglio dire!
Ulrica deve sapere sempre dove “sono”, ma tu, mia diletta, devi sapere anche
dove “sarò”. Dunque, per farla breve, domani vado a… Pasewalk.
Pasewalk? Sì, Pasewalk, Pasewalk. Che diavolo ci vai a fare? Ecco, bimba
mia, così si interrogano i bifolchi! Accontentati di indovinare finché non avrai la
felicità di “sapere”. Fra cinque o al massimo fra sette giorni tornerò nuovamente
qui e sbrigherò i miei affari con Struensee. Dunque il mio viaggio non è ancora
terminato… sei forse spaventata? Continua a leggere le mie lettere per
tranquillizzarti come io leggo i tuoi temi. E non scrivermi finché non ti
comunico esattamente dove devi indirizzare. E inoltre devi scrivere sempre sulle
lettere: da ritirare personalmente. Domani spero di trovare una tua lettera. Ora
però devi scrivermi immediatamente affinché la tua lettera arrivi a Berlino al più
tardi il 22. Sii prudente e riservata.
“Restés fidèle”.
IL TUO AMICO H. K.
P.S. Carlo mi sta sempre alle costole e si rompe il capo per scoprire le mie
intenzioni. Mi farò promettere di non indagare sui miei progetti. A questa
condizione sono disposto a promettergli che gli comunicherai sempre il mio
indirizzo. Questo glielo puoi scrivere, ma niente altro. Puoi anche dire che a
Berlino abito da Carlo. Se per caso dovesse venire in licenza a Francoforte, dite
che ho cambiato casa, che sono andato a Potsdam, come tu e Ulrica ritenete
meglio, ma dovete sempre essere d’accordo. Se Carlo vedrà che sai tutto, non si
meraviglierà e non rimarrà stupito, lo vorrei evitare in ogni caso.
Aiutami, mia diletta, ad attuare il mio progetto, da cui dipende la felicità tua
forse ancor più che la mia. Un giorno capirai meglio tutto questo. Addio.
Raccomanda in tutte le tue lettere a Carlo che stia zitto. Digli che non parli di me
con nessuno, e se qualcuno insiste, risponda che non sa niente. Addio, addio. Fra
tre giorni seguirà una seconda lettera.
(Tieni sempre vicina la carta della Germania e cerca sempre il luogo in cui
mi trovo.)
La prima persona alla quale presterai il poema di Schiller deve essere Ulrica.
Pasewalk, 20 agosto 1800.
Mia cara e diletta fanciulla, ho appena trovato la prima ora di pace e già
penso nuovamente a compiere il mio dovere, il mio caro gradito dovere. E’ vero
che ho scritto a te durante il viaggio da Berlino a Pasewalk, nonostante la
mancanza di tutto l’occorrente per scrivere, nonostante gli insopportabili sussulti
della diligenza, nonostante le chiacchiere ancora più insopportabili dei
passeggeri, che d’altronde turbavano così poco il filo dei miei pensieri come la
bomba di Stralsund quelli di Carlo Dodicesimo. Ma ne è venuta una lettera che
non posso comunicarti se non mediante me stesso, poiché, detto fra noi, questa
lettera è il mio cuore. Ma tu vuoi vedere nero sul bianco, e perciò ti dipingerò nel
modo migliore possibile il mio cuore su questo foglio, e tu non devi mai
dimenticare che è soltanto una copia che non raggiunge, che non potrà mai
raggiungere l’originale.
Il 17 alle otto di mattina sono partito da Berlino con la diligenza di Stettino.
Da tuo fratello mi ero fatto promettere di non indagare né sulla meta né sullo
scopo del mio viaggio e a mia volta gli avevo promesso che avrebbe sempre
saputo da te i luoghi in cui facevo sosta.
Questi dunque glieli puoi sempre comunicare, a meno che in seguito non
subentrino ragioni che mi facciano desiderare il contrario. Ma di ciò ti scriverò.
La seconda sera prima della mia partenza avevo cenato dai Kleist e benché la
tavola non fosse apparecchiata in modo opulento e allettante, tuttavia nel fervore
della conversazione con uomini molto interessanti, mangiai più del necessario. Il
giorno seguente, e specialmente durante l’ultima notte, stetti molto male, ma osai
comunque intraprendere il viaggio, che era indispensabile, e l’aria libera, la
dieta, gli scossoni della diligenza e forse anche la speranza di un lieto avvenire
mi fecero guarire perfettamente.
A Berlino ho anche visto e parlato col tuo caro Wittich e mi sembra di non
dovermi vergognare di questo mio antico rivale. Ne ho conosciuto, è vero,
soltanto l’aspetto esteriore, soltanto l’armatura, ma mi pare che sotto ci sia
qualcosa di buono. Tuttavia non paventerei un confronto con lui per il tuo amore.
Benché infatti le sue armi siano più lustre delle mie, io possiedo un cuore che
può misurarsi con quello dei migliori; e tu, spero, sapresti scegliere secondo
giustizia.
Del mio viaggio non c’è niente da dire questa volta. Sono passato da
Oranienburg, Templin, Prenzlow, e di questa regione l’unica cosa interessante
che si possa dire è che non ha alcun interesse. Non si vede altro che grano sulla
sabbia o abeti sulla sabbia, villaggi miserabili, città che sembrano raccolte a
mucchio con la scopa.
Intorno alle mura il terreno è così sgombro e pulito che vi si cercherebbe
invano un viburno. Si direbbe che tutta la zona settentrionale della Germania sia
stata destinata dalla natura ad essere eternamente il fondo di un mare e che il
mare si sia ritirato per sbaglio e abbia lasciato libero un tratto di terreno che in
origine era destinato a dimora di balene e di aringhe piuttosto che di uomini.
Questa volta devi dunque accontentarti di una così magra impressione di
viaggio. Spero di poterti scrivere in avvenire cose più interessanti. E ora
veniamo al punto che attendi con tutta l’anima, mentre te ne posso parlare così
poco. Ma ora voglio dirti tutto ciò che è bene tu sappia.
Saprai certo a memoria la tua lezione, non è vero? Di quando in quando leggi
le mie istruzioni? Non dimenticare, cara fanciulla, ciò che mi hai promesso:
immutabile fiducia nel mio amore e serenità verso il futuro. Se questi due
sentimenti fossero sempre vivi nell’anima tua e non venissero mai turbati da
alcun dubbio, se lo sapessi con piena certezza, se potessi averne la ferma
convinzione, oh, allora potrei andare incontro alla meta con gioia e serenità. Ma
il pensiero… tu non sei che una debole fanciulla, il mio viaggio inesplicabile,
questa separazione di settimane, forse di mesi… Dio mio, se tu dovessi
ammalarti! Cara diletta fedele fanciulla! Sii anche “forte”! Confida in me
pienamente! Riponi tutta la tua felicità nella mia onestà! Pensa di essere salita
sulla nave della mia felicità con tutte le tue speranze, i tuoi desideri, le tue
previsioni. Tu sei debole, non puoi lottare con le onde e con le tempeste, perciò
affidati a me che ho progettato con saggezza l’ardua rotta, che so scegliere per
guida gli astri del cielo e so reggere il timone della nave con braccia forti, certo
più forti di quanto tu possa credere! Perché dovresti lagnarti, tu che ignori
persino la meta del viaggio e non ne conosci i pericoli reali ed anzi ne vedi forse
di inesistenti? Sta’ dunque tranquilla!
Finché il timoniere è vivo, sii tranquilla! “Entrambi” saranno sommersi dalle
onde o “entrambi” arriveranno felicemente in porto; può l’amore, il “vero”
amore augurarsi una sorte più benigna?
Appunto perché tu possa essere perfettamente serena, ti ho detto tutto, a te
sola, unica al mondo, ciò che potevo dire, non ho mentito minimamente, ho
taciuto soltanto ciò che dovevo tacere. Per questo ritengo che tu possa avere
fiducia in me. La mia in te non vacillerà mai. E’ vero che domenica non ho
trovato alcuna tua lettera, benché tu mi avessi promesso di scrivermi prima del
tuo viaggio a Tamsel, ma temo piuttosto che tu abbia perduto la salute anziché
l’amore per me, sebbene anche una simile eventualità sarebbe ugualmente
spaventevole… Cara fanciulla, se tu dovessi essere ammalata e io ne avessi
notizia a Berlino, in due giorni sono da te. Ma spero che non sia così… via
questo brutto pensiero!
Vengo ora a una notizia lieta, di certo molto lieta anche per te.
Infatti, tutto ciò che mi accade sia nel bene che nel male, anche se tu non lo
conosci esattamente, riguarda anche te, non è forse vero?
Questo è stato sempre il fondamento della nostra alleanza. Ascolta dunque! Il
mio primo progetto è riuscito perfettamente. Ho trovato un amico più anziano e
più savio, proprio quello che desideravo più ardentemente. Egli non esitò un
istante ad aiutarmi nella mia impresa.
Fin quando non sarà compiuta resterà con me. Ora spero che sarai tranquilla.
Ricorderai con quanta stima io e Ulrica parlammo di un certo “Brockes”
conosciuto a R gen. E’ lui… Voglia Iddio che la cosa principale riesca altrettanto
bene: allora non saranno mai esistite due creature più felici di “te” e di “me”…
Ma tutte queste cose tienile segrete. Non le ho confidate a nessuno tranne che
alla “donna amata”. E però la signorina von Zenge sa soltanto che sono a
“Berlino”
e più di questo nessuno deve apprendere da lei. Saluta il babbo e la mamma
ed entrambe le famiglie da parte del signor von Kleist che è a Berlino. Ci
ritornerò realmente il 24 agosto, senza però trattenermi a lungo. Ritirerò soltanto
una lettera tua, che sono certo di trovare, e parlerò con Struensee; poi proseguirò.
Per dove? Te lo dirò, per ora non lo so con certezza neppure io. Ti darò maggiori
notizie di tutto il mio viaggio; ma la tua lettera che riceverò a Berlino deciderà…
quante cose! Se posso contare con ferma convinzione sulla tua fiducia e sulla
tua serenità, farò cadere tutti i veli che non siano necessari. Il tuo fedele amico
H. K.
Koblentz presso Pasewalk, 21 agosto 1800.
Poiché la posta non parte prima di domani sera, voglio scrivere ancora un
foglio per te e mi auguro cordialmente che il leggerlo ti doni almeno la metà del
piacere che a me procura scriverlo. Certo tra poco manderai un paio di volte
invano a ritirare la corrispondenza e il tuo cuoricino si metterà a battere sempre
più forte. Ma devi essere ragionevole, Guglielmina. Tu mi conosci e spero tu
abbia una buona opinione di me. Conservala. Oltre a questo sai sempre dove mi
trovo e circa lo scopo del mio viaggio sai almeno che è eccellente. Esso mira alla
nostra felicità e, questa è la cosa più bella, non può farci perdere nulla, ma
guadagnare tutto. Stai dunque tranquilla una volta per sempre, qualunque cosa
accada. E’ molto facile che una lettera resti giacente alla posta o vada smarrita in
altro modo; non è il caso di stare in ansia. Io di certo ti ho scritto, sappilo, anche
se per caso tu non dovessi ricevere subito la lettera. Ma affinché possiamo sapere
sempre se le nostre lettere ci siano giunte, annoteremo ogni volta quante ne
abbiamo già scritte e quante ricevute. Così comincio subito con la seguente
rubrica:
SPEDITO
da Berlino la prima lettera
RICEVUTO
Spero di poter riempire presto anche la seconda colonna… Un’altra cosa
ancora. Io tengo un diario nel quale vado sviluppando e perfezionando ogni
giorno il mio piano. Molte volte sarei costretto a ripetermi, se vi dovessi
registrare la cronaca della giornata dopo averla già comunicata a te. Perciò la
ometto una volta per sempre e riempirò a suo tempo le lacune con le lettere che
ti spedisco. Spero infatti che il tutto sarà un giorno molto interessante per te. Tu
però devi conservare con molta cura queste lettere: lo farai? O questa preghiera
era già superflua? Cara Guglielmina, ti bacio.
E ora veniamo alla cronaca del giorno… O mia ottima Minetta, quale felicità
inesprimibile trovare un amico savio e affettuoso proprio quando ne abbiamo il
più vivo bisogno. Mi sento abbastanza forte per progettare l’alta impresa, ma
troppo debole per realizzarla da solo.
Mi necessitava non tanto un appoggio quanto un savio consiglio per non
errare nella scelta dei mezzi più adeguati. Nel mio amico Brockes ho trovato
tutto ciò che andavo cercando, e ora quest’uomo dovrebbe essere caro anche a te
più di ogni altro, più di tutti gli altri “dopo di me”. Con lui mi sono confidato
pienamente ed egli ha apprezzato il mio scopo non appena l’ha conosciuto, come
ogni nobile creatura che sia in grado di comprenderlo “deve” fare. O mia diletta
“nobile”
fanciulla, se anche tu potessi apprezzare il mio scopo, magari senza
conoscerlo! Per me sarebbe un attestato della tua stima, un attestato che mi
renderebbe indicibilmente orgoglioso. Mai come in questo caso potresti darmi
una prova così chiara della tua stima. Oh, se tu non lo facessi… lo farai? O era
superfluo anche questo invito? Cara fanciulla, nuovamente ti bacio…
Anche Brockes riconosce che la probabilità di un esito felice è grande.
Perlomeno, dice, non vi è alcun pericolo, in nessun senso, e se io potessi contare
sulla tua tranquillità, avrei eliminato il principale ostacolo. Da molto tempo
accarezzavo l’idea di questo disegno. Non me la sentivo di affidarmi al caso e di
stare a vedere se finalmente ci avrebbe condotti al porto della felicità. Bisognava
agire, lo dovevo a te e a me. “Non dal solo desiderio del cuore germina…”,
“Deve l’uomo con il vomere della fatica…” (4). Sono pensieri veri e stupendi. Li
ho riletti molte volte e mi sembrano scaturiti dalla tua anima a tal punto che la
tua scrittura compie il resto per indurmi a credere che la poesia non sia opera
d’altri, ma tua. Ogni volta che la rileggo mi sento la forza di raggiungere anche
le cose più grandi e cammino quasi con sicurezza verso la mia meta. Ma prima è
certo che parlerò ancora con Struensee per assicurarmi a ogni buon conto la
ritirata. Brockes, che aveva già destinato l’autunno a un viaggio, mi
accompagnerà. Dunque puoi stare perfettamente tranquilla. Non devi che
alimentare nel cuore la più grande speranza per il futuro.
Hai ritrovato anche tu la “tua” amica? La Clausius (5) o la Koschenbahr? Di
cuore, di cuore te lo auguro. Una vera autentica amicizia può “quasi” sostituire
le gioie dell’amore… no, ho forse un po’ esagerato; ma molto, moltissimo può
fare un amico quando manca la persona amata. O almeno non esistono altre gioie
che l’amore, avendo assaporato una felicità piena ed essendo costretto a
rimanerne privo per qualche tempo, si degni di accettare così volentieri come le
gioie dell’amicizia. Tutte le altre cose gli ripugnano come il vino paesano
ripugna al gaudente che si sia inebriato di champagne. Perciò uno dei miei più
vivi desideri è che tu possa mantenere a lungo una di codeste tue amicizie,
almeno fino al mio ritorno. E parlale pure di me se lei ti ha parlato del suo
fidanzato, perché voi donne non potete, si sa, farne a meno, non è forse vero?
Ma sii prudente. Quello che confido a te, “a te sola”, deve rimanere chiuso nel
tuo seno, inaccessibile agli altri. Non lasciarti sedurre in un momento di
tenerezza a dire più di quanto ti sia lecito. Tu non sai, Minetta, quanto dipenda
dal tuo silenzio. Anche la “tua” felicità è in gioco; pensa dunque a entrambi e
segui esattamente senza eccezioni, senza interpretazioni, alla lettera, le preghiere
che ti rivolgo cordialmente e seriamente. Se non puoi rinunciare alla gioia di far
vedere alla tua cara amica alcune delle mie lettere, mostrale lettere precedenti,
ma non “queste”, o almeno non quei passi dai quali si possa dedurre in quale
località effettivamente soggiorni. Questo infatti deve essere segreto per tutti,
tranne che per te e Ulrica.
Ma io volevo riferirti della giornata, e ritorno invece continuamente al mio
piano perché questo mi sta sempre nel cuore. Tu sei indissolubilmente unita al
mio piano e anche da questo puoi capire quanto spesso io pensi a te. Anche tu mi
pensi così intensamente? Ma veniamo all’argomento.
Poiché, ripeto, il postale che deve portare me e Brockes a Berlino parte
soltanto domani sera (è lo stesso che si dirama a Prenzlow e ti reca questa lettera
a Francoforte), ho deciso insieme con Brockes di trascorrere questo tempo nella
sua abituale dimora, vale a dire a Koblentz, una tenuta del conte Eickstedt, il
quale ha avuto la bontà di invitarmi. La sua consorte l’avevo conosciuta a R gen.
Impegnammo la diligenza postale a Pasewalk per Berlino e partimmo di là il
giorno 20 alle due pomeridiane.
Nei dintorni di Koblentz trovai vaste praterie intersecate da fossati, cinte da
grandi foreste bene tenute, con molte piante novelle, sempre chiuse e cintate,
strade riattate, ponti robusti, numerose fattorie di costruzione massiccia
disseminate qua e là, innumerevoli greggi ben pasciuti di mucche e pecore,
eccetera, eccetera. Le fattorie si chiamano: Augustenhain, Peterswalde,
Karolinum, Karolinenburg, Dorotheenhof, eccetera, eccetera. Sopra ogni porta
splendeva una croce maltese, e questa era anche infissa su tutti i tetti, su tutti i
pali.
Quando arrivai davanti al castello mi apparve, dall’esterno, un edificio
antichissimo e nello stesso tempo nuovo di zecca, incominciato dieci volte e mai
terminato, con aggiunte e ampliamenti costruiti secondo i bisogni del momento,
oggi seguendo un’idea, tra un anno seguendone un’altra, con una sporgenza qua,
una rientranza là.
Fui accolto gentilmente dalla vecchia e veneranda contessa. Il conte non era
in casa. Aveva raggiunto con alcune signore Augustenhain. Ma prima di vederlo,
lo conobbi tuttavia dalla sua casa. Stanze buie con bei mobili, molta argenteria,
ancora croci maltesi, ritratti di gran signori, feldmarescialli, conti, ministri,
duchi, lui stesso ritratto in grandezza naturale con il mantello scarlatto, con una
stella sul petto a destra e una a sinistra, la fascia dell’ordine intorno alla vita, una
croce maltese a ogni angolo della cornice. Anche noi, Brockes e io, andammo ad
Augustenhain. Un parco ben tenuto, a metà francese e a metà inglese, bei
padiglioni, serre, altari, sepolcri di nobili amici, un tempio dedicato al grande
Federico, estese foreste, vaste campagne dissodate, un tempo deserte e ora
feconde, molte cascine, cavalli, uomini, mucche, belle e utili stalle sulle quali
però non mancava mai la croce maltese… se si può riconoscere la chiocciola dal
guscio, esclamai, so chi abita in questo luogo!
Avevo colpito nel segno. Trovai parsimonia e generosità, ambizione e
grettezza, saggezza e stupidità unite in un uomo che altri non era se non il conte
von Eickstedt.
Mia diletta, mi vengono a chiamare e non posso più continuare. Addio.
A Berlino troverò una tua lettera e se mi piacerà, se sarà assai ragionevole e
calma, ti racconterò molte altre novità. Addio.
H. K.
Lipsia, 30 agosto [e 1 settembre] 1800.
Mia cara Minetta, prima di tutto voglio darti le notizie necessarie, cioè la
descrizione del mio viaggio, dopo vedrò se mi rimane il tempo per farti altre
confidenze. Ma ne dubito, essendo ormai le otto di sera e già domani mattina,
alle 11, si riparte.
La sera prima della mia partenza da Berlino, la Begerow ci pregò di far visita
a lei e alla L”schbrandt (6). (Devi sapere che la L”schbrandt mi aveva
annunciato in precedenza il suo arrivo a Berlino chiedendo il mio appoggio, che
però le avevo dovuto negare). Ma quella sera non potevo andarci. D’altra parte,
poiché la mattina seguente prima di partire dovevo recarmi da Struensee, decisi
di rivedere anche mia sorella. Ma ascolta come si sono svolti i fatti.
Lei mi abbracciò con molta tristezza dicendo che non aveva sperato di
rivedermi ancora una volta. Colsi subito il vero significato di queste parole e con
te voglio parlare senza riserbo, perché noi ci capiamo.
Con le lacrime agli occhi mi disse che tutti in famiglia, e particolarmente la
zia Massow, sono molto inquieti e temono che io non ritorni più a Francoforte.
Per quanto ciò mi addolorasse profondamente, riuscii a rimanere esteriormente
calmo, e le dissi che ero invitato dal ministro, che alla zia avevo dato la mia
parola e che in tutta la mia vita non avevo mai agito in modo disonesto. Ma tutto
questo servì a poco. Ella promise di stare calma e di tranquillizzare anche la zia,
ma sono convinto che intimamente diffida di me come prima.
E ora giudica tu stessa, Guglielmina, quale abominevole diceria si sia potuta
diffondere a Francoforte sul mio conto durante la mia assenza!
Solo tu e Ulrica potete salvarmi. Ulrica mi ha scritto alcune bellissime lettere
e da parte tua spero per il meglio. In voi due ripongo tutta la mia fiducia. Finché
voi resterete calme e sicure, lo sarà anche il mondo. Ma se voi diffidate di me
allora, certo, allora la calunnia troverà campo libero e la mia reputazione ne
uscirà distrutta. Il mio prossimo ritorno, è vero, annullerebbe ogni cosa e
ristabilirebbe il mio onore; ma io non so se potrei ancora onorare due persone
che mi avessero così profondamente disonorato. Ma non temo.
Potessi almeno ricevere presto una tua lettera per sapere come hai accolto la
notizia che sarei andato a Vienna! Mi auguro che tu l’abbia accolta
favorevolmente. Ma ascolta ciò che ho ancora da dirti.
Il 28, alle undici di mattina, partii da Berlino per Potsdam con Brockes, in
compagnia di Carlo. Quando passammo davanti alla casa dei Linckersdorf (7), il
cuore mi diede un tuffo. Tutti gli oggetti intorno ad essa ridestavano nel mio
cuore impressioni profonde.
Osservai attentamente tutte le finestre della grande casa, pur sapendo che la
famiglia era partita. Ma quale fu il mio stupore, il mio lieto stupore quando, in
quella buia cameretta nella quale ero entrato tante volte, scorsi Luisa. La salutai
con un inchino profondo. Lei mi riconobbe e rispose al mio saluto con molta,
molta cortesia. Infiniti ricordi mi si affollarono alla mente. Ripetutamente volli
voltarmi a guardare la fanciulla che un tempo mi era stata così diletta. Strani
sentimenti mi agitarono. La vista della fanciulla che mi era stata così cara e nella
stanza nella quale avevo provato tanta gioia… Sta’
tranquilla… Pensai a te e al capanno del giardino e dopo un istante ero
nuovamente tuo.
A Potsdam prendemmo alloggio da Leopoldo (8). Ebbi un doveroso scambio
di idee con R hle intorno al nostro soggiorno a Berlino. Questo fu il vero scopo
della nostra sosta a Potsdam. R hle ha già chiesto il congedo e spera di ottenerlo
prima dell’inverno. Poiché restava tempo prima che annottasse, ci fu possibile
far visitare rapidamente Sanssouci a Brockes. La mattina seguente, alle quattro,
ripartimmo.
L’itinerario ci portò verso la Marca, e non vi è dunque niente di interessante
da raccontare. Passammo da Treuenbrietzen e da Wittenberg e, quando alla
frontiera sassone ripetutamente rivolgemmo i nostri sguardi alla patria,
sentimmo che più ci si allontanava da lei, più appariva in una luce migliore.
Soltanto il pensiero di lasciare in essa “la creatura a me più cara” mi rese
difficile il distacco.
A Wittenberg ci sarebbero state molte cose interessanti da vedere, per
esempio le tombe del dottor Lutero e di Melantone. E inoltre sarebbe stato
bellissimo risalire l’Elba fino a Dresda. Ma poiché non viaggiamo per
divertimento, ripartimmo subito senza fermarci e proseguendo tutta la notte
giungemmo a Lipsia (passando da D ben) il 30 (oggi) alle undici del mattino. Per
prima cosa andammo a iscriverci all’accademia con i nostri nuovi nomi e
ottenemmo le matricole necessarie per farci rilasciare i passaporti senza alcuna
difficoltà.
Ma poiché il nostro postale parte soltanto domani, ci rimase a disposizione il
pomeriggio per visitare i bei parchi pubblici intorno alla città. Verso sera
andammo entrambi a teatro, non per il meschino dramma “Abellino” (9), ma per
conoscere gli attori che qui sono molto lodati. Trovammo invece una
rappresentazione così meschina e un pubblico così maleducato che io lasciai il
teatro al secondo atto.
Tornai a casa per scriverti e in questo momento adempio la mia promessa e il
mio dovere. Ma per aver vegliato tutta la notte sono molto stanco, come tu stessa
verificherai da questa brutta lettera, incapace di continuare a scrivere, e così
m’interrompo per coricarmi.
Buona notte, cara fanciulla. Domani ti scriverò più a lungo e forse anche
qualcosa di più bello. Buona notte.
1 settembre.
Questa volta non posso dire che il viaggio in sé mi procuri molto piacere. In
primo luogo il tempo è generalmente cattivo e anche la regione non ha
presentato alcun interesse particolare e anche laddove ci sarebbero cose degne di
essere viste, dobbiamo passar via di corsa tenendo l’occhio alla meta. Se tuttavia
ho qualche momento di contentezza, me lo dona solo il ricordo di te. Ieri l’altro
sul far della notte me ne stavo supino sulla paglia della carrozza, contemplando
in alto l’immensità dell’universo. Il cielo era bello e pittoresco. Sopra di me
passavano lembi di nuvole, ora totalmente buie ora illuminate dalla luna.
Entrambi, Brockes e io, cercavamo e trovavamo somiglianze nelle forme della
nuvolaglia, lui le sue e io le mie. Non sentivamo la pioggia sottile che dall’alto ci
inumidiva leggermente il viso. Infine però ne ebbi abbastanza e mi tirai il
pastrano sopra la testa. Ed ecco allora davanti a me limpidamente, nella breve
tenebra, l’amata figura che le nuvole mi avevano indicata, con tutti i suoi tratti a
colori. In quel momento ti ho immaginata molto vivamente e certo in un modo
corrispondente alla realtà, e sono certo che nulla mancava a quell’immagine,
neppure un particolare della tua persona e del tuo vestito, né la croce d’oro e la
sua posizione, né il duro bracciale che tante volte mi ha dato fastidio, e
nemmeno il neo bruno sulla morbida metà del tuo braccio destro. Mille volte
l’ho baciato e ho baciato te. Poi ti ho stretta al seno e mi sono addormentato tra
le tue braccia..
Nella tua lettera precedente mi scrivevi che avresti presto terminato il
componimento iniziato. Mandamelo a Vienna appena sarà finito. A molte mie
domande non hai ancora risposto e quindi avrai sufficienti argomenti, purché tu
voglia riflettere e scrivere.
Il nostro itinerario è stato modificato. Andiamo a Vienna passando da Dresda
e Praga anziché da Ratisbona. La via è più breve e a Dresda dobbiamo cercare
un funzionario della legazione inglese che ci può dare i passaporti. Ti scriverò da
Dresda.
RICEVUTO
2 lettere
SPEDITO
la prima da Berlino
la seconda da Pasewalk
la terza da Berlino
la quarta da Berlino
e questa da Lipsia.
Addio, cara fanciulla. Devo sbrigare alcune cose. Fra due ore parto per
Dresda.
IL TUO FEDELE AMICO HEINRICH KLINGSTEDT.
P.S. Che cosa dirà Kleist quando un giorno scoprirà le lettere di Klingstedt?
Le mie commissioni sono terminate e poiché mi rimane ancora un’ora prima
della partenza, la utilizzo nel miglior modo possibile intrattenendomi con te.
Ti racconterò con maggiori particolari la storia della nostra
immatricolazione.
Andammo dal rettore magnifico, il professor Wenck, gli spiegammo che
venivamo dall’isola di R gen e volevamo frequentare il prossimo inverno questa
università; prima però dovevamo fare ancora un viaggio ai Monti Metalliferi e
desideravamo quindi ricevere subito le matricole. Egli ci chiese informazioni sui
nostri padri. Il padre di Brockes era un podestà, il mio un capitano svedese
invalido Quello non fece altre difficoltà, ci lesse le norme accademiche, ce ne
diede una copia stampata, vi aggiunse molti savi consigli, ci consegnò poi le
matricole e ci congedò affabilmente. Noi tornammo a casa, prenotammo i posti
per la partenza, avvolgemmo le scarpe e gli stivali nelle norme accademiche e
riponemmo accuratamente le matricole.
Prendi una carta geografica, ti prego, affinché tu possa seguire sempre con lo
spirito l’amico tuo. Ogni qualvolta ho un’ora di calma stendo davanti a me
l’itinerario postale, torno indietro a Francoforte e ti cerco, la mattina alla finestra
del tinello, il pomeriggio alla finestra della sala di sotto, verso sera nel buio
capanno, e a mezzanotte nel tuo letto che ho visto una sola volta fuggevolmente
e che quindi la mia fantasia può raffigurarsi liberamente e a piacimento.
Cara fanciulla, ti bacio… addio. Devo sigillare. Ho scritto anche alla zia e a
Ulrica.
TUO HEINRICH.
Dresda, 3 [e 4] settembre 1800
5 del mattino.
Ieri, 2 settembre, di sera tardi, alle dieci, arrivai in questa città dopo 34 ore di
viaggio.
Non ho visto ancora niente, né la città stessa, né i suoi dintorni, né il fiume
che l’attraversa, né le alture che la incoronano; e se scrivo che sono a Dresda, lo
“credo” soltanto, ma non lo “so” ancora.
Certo, metterebbe conto di persuadersene. La mattinata è bella. La mia sosta
non sarà lunga. Forse dovrò lasciare la città già domani.
Domani? E la bella Dresda? Senza averla visitata? Una rapida passeggiata.
No, anche se non dovessi vederla mai! In tal caso non potrei forse scriverti
da qui, e così preferisco compiere subito il mio dovere.
Con queste continue lettere, con questa conversazione quasi ininterrotta, con
questa instancabile preoccupazione per la tua serenità, io mi propongo di fare in
modo che, quando le condizioni contingenti ti angosciano e quando l’altrui
dubbio e l’altrui diffidenza ti inquietano, tu possa dire a te stessa con certezza,
con convinzione con profonda consapevolezza: sì, è certo, è certo che mi ama!
Si sa, se tu mi avessi fatto scorgere sia pure un’ombra di dubbio, la tua
tranquillità mi starebbe meno a cuore. Ma essendoti affidata a me con tutta
l’anima aperta, voglio approfittare di ogni occasione, voglio cogliere ogni istante
per mostrarti che merito pienamente la tua fiducia.
Per questo ora subordino il piacere di visitare questa bella città al dovere di
darti mie notizie, o, a rigore, scambio quel piacere con un altro, nel quale il mio
cuore e il mio sentimento trovano un godimento ancora più grande.
Probabilmente questo mio soggiorno sarà di brevissima durata. In questo
momento parte la posta per Praga e la prossima non partirà se non fra otto giorni.
Non ci rimane dunque altra possibilità che prendere una diligenza speciale, non
appena avremo sbrigato le nostre faccende alla legazione inglese. Ti racconterò
quindi, possibilmente in breve, le vicende del mio viaggio da Lipsia a Dresda.
Quando partimmo da Lipsia (il primo settembre a mezzogiorno) c’era come
al solito cattivo tempo. Nella diligenza aperta ne avvertivamo doppiamente il
disagio. La regione pareva fertile e fiorente, ma il sole era nascosto dietro una
cortina di nubi temporalesche, e se il re è triste, è triste anche il paese.
Così, sempre attraversando un territorio piuttosto piano, arrivammo verso
sera a Grimma. Quando fu buio ripartimmo. Immagina il nostro stupore allorché,
appena usciti dalle porte di questa città, ci trovammo improvvisamente
circondati da montagne. Proprio davanti a noi si stendeva un paesaggio come
uno scenario trasparente. Percorremmo una strada paurosamente bella tagliata
nella roccia a metà di una rupe. A destra avevamo l’erta rupe, con i suoi cespugli
sporgenti, a sinistra il brusco abisso che fa deviare il corso della Mulde, e al di là
del rapido torrente rupi nere coperte di boschi, sopra i quali la luna saliva in un
cielo finalmente sereno. Per completare il quadro avevamo davanti a noi lungo la
riva della Mulde, sopra un’altra roccia isolata, una casa quadrata a due piani le
cui finestre erano tutte illuminate e pareva lo fossero appositamente per noi. Non
riuscimmo a capire il motivo di quella stranezza e passammo oltre sempre
guardando in alto, riflettendo e fantasticando, quasi avessimo veduto un castello
fatato.
Così delizioso fu il nostro ingresso in quella notte deliziosa. La strada
continuava lungo la riva della Mulde accanto a rupi illuminate dalla luna come
esseri notturni. Il cielo era perfettamente sereno, la luna piena, l’aria limpida,
l’insieme magnifico. Durante la prima ora il sonno non calò sui miei occhi. La
natura e la pipa accesa mi tenevano desto. Il mio sguardo non si staccava dalla
luna. Pensavo a te e cercavo nella luna il punto che forse il tuo sguardo fissava e
misuravo col pensiero l’angolo che formavano i nostri sguardi e seguivo
sognando la linea del tuo per trovarti, finché realmente t’incontrai nel sogno.
Al risveglio ci trovammo a Waldheim, una cittadina anch’essa situata sulla
Mulde. Quando l’avevamo già alle spalle e la cittadina montana venne a trovarsi
dietro a noi in fondo alla valle circondata da alture cespugliose, si offrì ai nostri
occhi un panorama delizioso. Di lì continuammo lungo le pendici dei Monti
Metalliferi o delle loro propaggini. Di tanto in tanto blocchi di granito nudo
apparivano tra i colli. Ma la montagna è fatta di schisto che a causa delle
sfaldature a lastre ha un aspetto ancora più selvaggio e accidentato del granito
stesso. La pianta più diffusa è l’abete resinoso, un bell’albero che ha un certo
aspetto severo e conferisce alla regione un tono desolato, forse a causa del suo
verde cupo o del silenzio profondo che regna all’ombra dei suoi rami. Su
quest’albero infatti fanno il nido, oltre al gufo e alla civetta, solo poche e
limitatissime specie di uccelli.
Camminai nel bosco lungo la riva di un piccolo torrente e sorridevo per la
fretta con cui saltellava ciarliero e flessuoso di sasso in sasso. Non riposa,
pensavo, finché non arriva al mare; e poi ricomincia il suo viaggio… Eppure, se
si fermasse in una pozza, marcirebbe producendo esalazioni.
Questa montagna ci parve simile a tutte le altre, ben coltivata e densamente
popolata; estesi villaggi di case a due piani, con tetti per lo più di tegole; le valli
verdi, fertili trasformate in giardini; la gente calda e cordiale, per lo più bella di
forme, specialmente le fanciulle. Sembra in genere che la strettezza della
montagna agisca sul sentimento, al punto che vi si possono incontrare filosofi
sentimentali, filantropi, amici delle arti, specie della musica.
L’ampiezza della pianura agisce piuttosto sull’intelletto e per questo in essa
vivono i pensatori e gli eruditi. Io vorrei essere nato in un luogo dove i monti
non siano troppo angusti né le pianure troppo ampie. Sono lieto che dietro la tua
casa la pergola sia stretta e buia, propizia al sentimento, che nelle aule
universitarie si disimpara con grande facilità.
Generalmente però il sassone ha un livello di cultura superiore a quello dei
nostri compatrioti. Dovresti sentire con quale disinvoltura una di queste ragazze
sassoni rispondeva alle domande. Le nostre brandeburghesi (lente di parola)
impiegherebbero ore per fare ciò che qui si sbriga in pochi minuti. Spesso si
trovano persino nei villaggi pergole, giardini, giuochi dei birilli perché qui non ci
si preoccupa come da noi solo del necessario, ma si è fatto un passo innanzi e si
pensa anche allo svago.
A mezzogiorno (del 2) passammo da Nossen e attraversammo per la terza
volta la Mulde che qui offre una vista ancora più bella. La riva orientale scende
dolcemente, mentre l’occidentale è ripida, rocciosa e coperta di cespugli. Al di là
di una curva la cittadina di Nossen sorge sopra un promontorio, vicinissima alla
Mulde, con un antico castello. Verso destra la vista si apre oltre la valle della
Mulde sulle rovine del monastero di Zell.
Questo monastero accoglie da tempi antichissimi le spoglie di tutti i margravi
di Meissen. In tempi recenti si è voluto dedicare un monumento funebre a
ciascuno di loro. Gli scheletri furono esumati e le ossa di ognuno raccolte con la
massima cura, ma rimane sempre il dubbio se ognuno abbia ricevuto realmente
la testa che fu sua.
Verso sera superammo Wilsdruf giungendo sino alle alture di Kesselsdorf,
luogo celebre perché nelle sue vicinanze fu riportata una vittoria (10). Così si
può acquistare gloria nel mondo senza il sia pur minimo merito.
Era già buio pesto quando scendemmo dalle alture dell’Elba e al chiaro di
luna scorgemmo le torri di Dresda. Sopra la città era sospeso precisamente quel
velo vantaggioso che, come dice il Wieland, ci fa presumere più di quanto esso
nasconda. Ci guidarono per certe vie strette, fra case alte, per lo più di cinque o
sei piani, fino al centro della città e davanti alla Posta ci annunciarono che
eravamo giunti al termine del viaggio. Erano le 10 e mezzo. Ma poiché il ponte
sull’Elba non era lontano, lo raggiungemmo rapidamente, e così ci apparve sulla
destra la città vecchia nelle tenebre, sulla sinistra la città nuova nelle tenebre,
nello sfondo le altre rive dell’Elba nelle tenebre: tutto nel buio, insomma, e
tornammo indietro col proposito di ritornare non appena si fosse riaccesa la
grande lampada in Oriente.
Cara Minetta, in questo momento ritorniamo dalla visita a Lord Elliot,
l’ambasciatore inglese da cui abbiamo saputo cose che ci inducono a non
raggiungere Vienna, ripiegando su W rzburg o su Strasburgo. Sta’
tranquilla, e se il cuoricino dovesse inquietarsi, rileggi le istruzioni (11)
oppure guarda la tua nuova tazza dal di sopra e dal di sotto (12).
Questo mutamento di itinerario presenta alcune difficoltà, però non
insormontabili, soprattutto per le tue lettere che avrei trovato a Vienna. Ma di
certo escogiterò qualche rimedio e te lo comunicherò alla fine di questa lettera.
Per il resto tutto rimane immutato. Mi fermerò in una delle due città indicate,
e ritornerò certamente entro il termine stabilito, cioè entro l‘1 novembre, se non
forse anche prima.
Non stare a tormentarti e se l’impossibilità di comprendermi ti turba, devi
avere cieca fiducia nella mia rettitudine che non t’ingannerà,
“come è vero che Dio è sopra di me”.
Un giorno saprai tutto e mi ringrazierai con gli occhi pieni di lacrime.
Ti scriverò ogni giorno. Domani riparto e non mi fermerò più, né di giorno
né di notte. Ma mi resterà sempre un ora per scriverti. Di più ora non posso fare
per la tua serenità, cara, “amata” fanciulla.
Alle 8 di sera.
Ho utilizzato il resto della giornata odierna per ammirare alcune cose
notevoli di Dresda, e desidero comunicarti cosa ho visto e pensato e sentito.
Le vie di Dresda sono strette, con case per lo più di cinque o sei piani, la vita
e l’attività sono intense, mentre scarso è il buon gusto e la magnificenza. Il ponte
sull’Elba è di pietra, però non splendido. Nello Zwinger (il parco del principe
elettore) c’è, sì, dello splendore, ma privo di gusto. Lo stesso castello del
principe lo si individua appena, tanto è vecchio e fuligginoso.
Siamo andati a visitare la famosa pinacoteca. Ma se non si ha la preparazione
necessaria, non si può far altro che ammirare a bocca aperta, così come i bambini
ammirano le bambole. A dire il vero ho imparato una cosa sola: che ci sarebbe
molto da imparare.
Avendo il pomeriggio libero potevamo scegliere fra la visita alla Galleria
verde e la gita a Pillnitz o a Tharandt. Fra l’antichità, l’arte e la natura,
scegliemmo quest’ultima e non ci pentimmo della scelta.
La strada per Tharandt attraversa la splendida piana di Plauen. Si costeggia
la Weissritz che avanza scrosciando incontro al viaggiatore.
Raramente si può trovare in una valle una varietà così grande. La gola è ora
stretta ora larga, ora ripida ora piana, e qui rocciosa e là verdeggiante, qui
selvaggia e là coltivata e feracissima. Così si giunge alla fine del viaggio prima
di quanto non si desideri. Ma proprio allora appare uno spettacolo ancora più
bello di tutto ciò che si è ammirato lungo l’intero percorso.
Si sale sopra una rupe su cui sorgono le rovine di una rocca antica.
E’ stata un’idea infelice quella di sgomberare le pietre cadute e di spianare il
sentiero fin lassù. In questo modo il tutto ha cessato di essere un’antichità.
Bisogna pure conquistarsi il godimento, magari con una sola goccia di sudore.
Tu mi sei diventata doppiamente cara, poiché viaggio per amor tuo.
Ma la natura ha operato troppo splendidamente perché si scenda di lassù
insoddisfatti. Quante bellezze! In verità, l’idea di costruire qui una casa mi venne
spontanea, essendo difficile immaginare un luogo più bello. In mezzo alla stretta
montagna si gode la vista di tre bellissime valli. Dove s’incrociano sorge una
rupe e su questa l’antica rovina. Di lì si domina tutto il paesaggio. Alle sue falde,
quasi radicate nella roccia, stanno le case sparse di Tharandt. In ciascuna delle
valli si vedono acque, rive verdeggianti, colli boscosi. La valle più splendida è
quella di Sud-Ovest. Vi spumeggia la Weissritz tra aspre rocce ricoperte di abeti
e di betulle, raggruppate con grazia come le penne sul cappello di una fanciulla.
Proprio al di sotto della rovina si è formato un bacino naturale che riflette
pittorescamente l’immagine rovesciata del paesaggio.
Al ritorno vidi Dresda in lontananza. La città con le numerose torri,
attraversata dall’Elba, si adagia in una vasta conca fra i monti. La conca è quasi
troppo larga. Appaiono case infinite a perdita d’occhio, disseminate come se
fossero cadute dal cielo. La città stessa sembra rotolata giù dalle montagne. Se la
valle fosse più stretta, tutto ciò sarebbe maggiormente raccolto. Ma è bello anche
così.
Buona notte, cara fanciulla. Sono le dieci, domattina voglio scriverti
nuovamente, e mi alzerò presto. Buona notte.
4 settembre, alle 5 di mattina.
Buon giorno, Minetta. Ieri nel mio racconto ho sorvolato troppo rapidamente
su alcuni argomenti interessanti e oggi voglio rimediare.
A metà della piana di Plauen la valle fa una curva e forma una profonda
rientranza. La Weissritz si scaglia contro una parete di roccia sporgente, quasi
volesse frantumarla. Ma la roccia è più forte, non vacilla e piega il corso
impetuoso del fiume.
Su quella rientranza tra la roccia e il fiume sorge una casa stretta e modesta,
che si direbbe la dimora di un savio. La roccia retrostante conferisce sicurezza a
quel posticino, ombreggiato dalle piante che lo sovrastano, e la corrente del
fiume gli dona frescura. Più in alto la valle appare orrida, più in giù, verso la
pianura di Dresda, serena.
La Weissritz isola quel piccolo luogo dal mondo, e una passerella sottile
permette il passaggio. Stretta, ho detto, è quella casa?
Certo, stretta per assemblee e balli in maschera. Ma per due persone e per
l’amore è ampia abbastanza, più che sufficiente.
Così mi persi nei sogni. Scelsi la stanza dove avrei preferito abitare, una
seconda per un’altra persona, una terza dove noi due avremmo abitato insieme.
Mi apparve una madre seduta sulla scala con un bambino addormentato al seno.
Nello sfondo dei fanciulli si arrampicavano sulla roccia balzando di pietra in
pietra e lanciando grida di gioia.
Nella splendida valle di Tharandt rimasi indicibilmente commosso.
Provai un immenso desiderio che tu fossi con me. Queste valli così strette e
misteriose sono la vera patria dell’amore. Là avremmo goduto gioie ancor più
grandi che sotto la pergola del giardino. E quale stupenda impressione
susciterebbe nella tua anima anche un breve soggiorno tra questa natura ideale!
Profonde sono infatti le impressioni che la vista della sublime e nobile creazione
suscita nei cuori teneri e sensibili. Certo la natura desterebbe in te il sentimento e
il pensiero; io cercherei poi di svilupparli e di plasmare a mia volta altri pensieri
e altri sentimenti… Oh, un giorno dobbiamo visitare insieme una regione
splendida, e potremo così sperimentare gioie nuove e sconosciute.
Così quasi ogni oggetto, per rapporti lontani o vicini, mi ricorda te, mia
diletta fanciulla… E se talvolta il mio spirito, seguendo una catena di pensieri
scientifici, si allontana da te, uno sguardo alla tua borsa del tabacco che mi
pende sempre dal bottone del panciotto o ai tuoi guanti che mi tolgo raramente o
al nastrino azzurro, che mi hai legato intorno al polso sinistro e non ho mai
sciolto proprio come se fosse il vincolo del nostro amore, mi riporta a te.
SPEDITO
la prima lettera da Berlino
la seconda da Pasewalk
la terza da Berlino
la quarta da Berlino
la quinta da Lipsia
e questa da Dresda
RICEVUTO
due lettere, soltanto due ma stupende, che ho letto più di una volta.
Quando rivedrò ancora qualcosa di tuo?
Nel darti le istruzioni sarò breve. Ho scritto quanto era necessario a Ulrica e
l’ho pregata di mostrarti la lettera. Comportati con le tue lettere come lei deve
comportarsi col denaro. Scrivi subito a W rzburg in Franconia. Sta’ tranquilla.
Addio. Domani ti scrivo nuovamente.
Parto fra cinque minuti.
IL TUO FEDELE AMICO HEINRICH.
(Questo carteggio ti costerà molti quattrini. Vedrò di mutar sistema fin dove
è possibile. Ma quello che spendi cercherò un giorno di rifondertelo).
(tm)deran nei Monti Metalliferi,
4 settembre 1800, ore 9 di sera.
Così si chiama il luogo che mi ospita questa notte. Tu non lo conosci, è vero,
ma risponde tuttavia ai tuoi desideri come a quelli di un vecchio amico. Mi offre
infatti una cameretta proprio come la tua a Francoforte; e non mi addormenterò
senza averti pensato mille volte.
Il nostro viaggio ci portò da Dresda verso Sud-Ovest, sempre lungo le falde
dei Monti Metalliferi, oltre Freiberg a (tm)deran. La regione sembra un mare di
terra agitato. Non si vedono altro che onde, una più ardita dell’altra. Ma
l’autentica alta montagna non l’abbiamo ancora incontrata. Presso Freiberg
attraversammo ancora quello stesso torrente che avevamo varcato presso Nossen
venendo a Dresda; ma non è la Mule. Nella vallata c’è la miniera. La vedemmo
da lontano e mi venne una gran voglia di visitarla. Ma pensai alla mia meta e
dopo una mezz’ora Freiberg era già alle mie spalle.
Siamo a sei miglia da Dresda. Brockes ha voluto pernottare qui per motivi
che ti spiegherò in seguito. E io approfitto di questo primo quarto d’ora per
scriverti in un sol giorno una seconda lettera. Anche la mia ultima da Dresda è
del 4, cioè di oggi. Le notizie mie non ti mancheranno. Compiuto questo dovere,
ti confesso che sono veramente stanco. Dunque buona notte, cara fanciulla.
Domani ti scriverò ancora.
Chemnitz, 5 settembre, 8 di mattina.
Nell’uomo agiscono pur sempre due forze in conflitto fra loro! L’una, il
dovere, mi allontana sempre più da te, mentre l’altra, l’affetto, vorrebbe
ricondurmi sempre da te. Ma la potenza superiore deve vincere e vincerà.
Guglielmina, lascia che io proceda serenamente verso la meta. Sono su una
buona strada lo sento dalla serenità della mia coscienza, dalla letizia che mi
scalda il cuore. Altrimenti come potrei parlarti con tanta convinzione? Come
potrei dirti ancora mia con intima gioia? Come potrei godere con tanta letizia e
serenità la splendida natura che ora mi circonda? Sì, cara fanciulla, quest’ultimo
è il punto decisivo. La solitudine immersi nella natura, ecco la pietra di paragone
della coscienza. In società, per le strade, a teatro la coscienza può tacere perché
gli oggetti agiscono solo sull’intelletto e per essi non necessita il cuore. Ma
quando si ha dinanzi il creato immenso, nobile, sublime… allora sì che il cuore è
necessario, e lo si sente agitarsi nel petto e urgere alla coscienza.
Il primo sguardo vola via nella natura, il secondo si insinua segretamente
nell’intima coscienza. Se allora ci vediamo squallidi, tutti soli in quell’ideale di
bellezza, la serenità svanisce e bisogna dire addio a gioie e piaceri. Allora ci
sentiamo stringere il petto, non riusciamo a comprendere le cose elevate e divine
e passiamo ottusi e insensibili come schiavi attraverso i palazzi dei loro padroni.
Allora il silenzio delle foreste ci angoscia, lo scrosciare della fonte ci
atterrisce, la presenza di Dio ci opprime e ci perdiamo tra la folla per dimenticare
noi stessi, con il desiderio di non ritrovarci mai, mai più.
Come sono contento che esista al mondo almeno una persona che mi
comprende appieno. Senza Brockes mi mancherebbe forse la serenità, forse
persino l’energia che la mia impresa richiede. Saper fare assegnamento
solamente sulla propria coscienza, non cercare mai uno sguardo che accenni un
plauso… e tuttavia agire rettamente, sarebbe, dicono, la virtù degli eroi. Ma chi
può dire se Cristo sul la croce avrebbe fatto ciò che fece, qualora in mezzo ai
persecutori furibondi sua madre e i suoi discepoli non gli avessero lanciato
sguardi umidi ed estatici?
La diligenza postale è davanti alla porta. Addio. Questa lettera la porto
ancora con me. Così si allontana maggiormente da te e tu la riceverai con ritardo.
Ma la tassa è cara e noi due dobbiamo sfruttarla totalmente.
Ancora una riflessione… Perché, ti chiederai, perché accenno a dei pensieri
misteriosi che non voglio esprimere compiutamente? Perché parlo di cose che
non puoi e non devi capire? Cara fanciulla, te lo dirò. Quando scrivo queste cose
mi sento come invecchiato di due mesi.
E quando un giorno sotto la pergola sfoglieremo in solitudine queste missive
e ti spiegherò le mie oscure allusioni, tu esclamerai con stupore: oh guarda, così
era inteso…
Addio. Il postiglione suona il corno.
Lungwitz, ore dieci e mezzo.
Quale magnifico dono del cielo è una bella patria! Abbiamo attraversato una
valle unica, romanticamente bella. Tra un continuo susseguirsi di villaggi, di
giardini magnificamente irrigati, con splendidi gruppi d’alberi sulle rive, il tutto
tenuto come un parco inglese. Ogni fattoria è un paesaggio. Pulizia e benessere
ovunque. Da tutto si può capire che anche il servo e la fantesca si godono la vita.
Tutti gli sguardi irradiano allegria e benevolenza. Una gran parte delle ragazze
sono ben fatte e molto interessanti. Così accade per lo più in tutte le località
montane. In verità, se non avessi te e fossi ricco direi “à dieu à toutes les beautés
des villes”. Viaggerei tra i monti, specie nelle vallate cupe, entrerei di casa in
casa e dove trovassi occhi azzurri sotto ciglia scure o riccioli castani su un
bianco collo, mi fermerei per vedere se la fanciulla è anche interiormente così
bella come esteriormente appare. E se così fosse, se vivesse in lei anche una sola
scintilla d’anima, la prenderei con me per formarla secondo i miei intendimenti.
Inutile ribellarsi, questo è ormai il mio bisogno, e una fanciulla anche perfetta, se
già compiuta, non fa per me. Io stesso voglio formarla e farla crescere, altrimenti
temo che mi accada come con l’ancia del mio clarinetto (13). A dozzine se ne
possono comperare al mercato, ma poi non si riesce a cavarne neppure un
accordo puro. Una volta il musicista Baer me ne diede una a Potsdam
garantendomi che era buona e che a lui serviva benissimo. Già, “a lui”, lo credo.
A “me” invece dava soltanto suoni stonati e striduli. Allora presi una canna sana,
ne tagliai un pezzo, lo modellai secondo le mie labbra, lo raschiai e levigai col
temperino, finché fu adatto alla forma della mia bocca… e tutto procedette
magnificamente. Suonava a meraviglia…
A tratti per qualche istante sono felice. Quando me ne sto seduto nella
diligenza aperta, ben coperto dal pastrano, la pipa accesa, Brockes al mio fianco,
i cavalli possenti, la strada agevole, e a destra e a sinistra il paesaggio che scorre
come immagini sulla tela della lanterna magica, e davanti a me la bella meta e
dietro a me la cara fanciulla, e dentro a me la soddisfazione… allora, sì, allora
sono felice, intimamente felice.
Potessi avere te almeno una volta a fianco alla mia sinistra, e tenerti a
braccetto, la mano nella mano, scambiando pensieri e sentimenti ora con le
labbra ora con le dita… sì, allora questi sarebbero giorni belli, giorni dolci e
stupendi.
Come si viaggia velocemente, tu non lo crederesti. Oppure è il tempo che
passa così rapidamente? Erano le cinque quando siamo partiti da (tm)deran,
adesso sono le dieci e mezzo, dunque in cinque ore e mezzo abbiamo percorso
quattro miglia. Adesso proseguiamo subito per Zwickau. Voliamo come gli
uccelli di paese in paese. In compenso però non impariamo gran che. Poche
impressioni fugaci sono l’unico frutto del nostro viaggio.
“E’ stato a Dresda?”. “Sì, di passaggio”. “Ha visto la Galleria verde?”. “No”.
“Il castello?”. “Dall’esterno”. “K”nigstein?”. “Da lontano”. “Phillnitz,
Moritzburg?”. “No, affatto”. “Dio mio, come è possibile?”. “Possibile? Caro
amico, “era necessario””.
A proposito di Dresda… ti ho mandato alcune vedute della regione.
Così potrai immaginarti meglio i luoghi dove è stato l’amico tuo.
Presso Dresda, a destra, quel primo piano verde è lo Zwinger. Cioè no… lo
Zwinger, vale a dire il parco del principe elettore, è la torre, contigua al colle
verde e al verde viale. Su quel verde colle sono salito e ho potuto ammirare
dall’alto il ponte sull’Elba. La riproduzione di Tharandt è riuscita male. La
natura l’ha fatta mille volte più bella di questo pasticcione d’artista. Tuttavia può
servire a illustrare la mia descrizione. Sul ponte più alto, nel mezzo, dove
crescono splendidi arbusti, là io sono stato. La veduta del lago è la più bella. Le
altre due qui sono nascoste. Anche la terza illustrazione, la Halsbr cke a
Freiberg, l’ho acquistata a Dresda con la speranza di poterla ammirare
personalmente. Ma non ci sono riuscito, nemmeno da lontano.
Addio. Alla prossima tappa aggiungerò ancora una parola, poi suggellerò e
spedirò la lettera.
Zwickau, ore 3 pomeridiane.
Ho appena ammirato lo spettacolo più splendido di tutto il viaggio e te lo
voglio descrivere.
E’ stato il castello di Lichtenstein. Guardavo dall’alto di un monte, scuri
abeti a destra e a sinistra, proprio come il primo piano di un quadro e nel mezzo
un paesaggio, esattamente come un dipinto. In fondo, sulla destra, si adagiava
lungo l’acqua la cittadina montana; dietro a questa, ancora a destra, a metà di
una rupe fittamente ricoperta di vegetazione, il vecchio castello di Lichtenstein;
dietro a questo, sempre a destra, un colle eminente su cui sorge un tempio. A
sinistra invece si apre una vasta campagna come un tappeto intessuto di villaggi,
di giardini e foreste. Nella lontananza l’occhio scorge pallide montagne e sopra a
queste, oltre il più alto e sfumato orizzonte dei monti, splende il cielo azzurrino,
il cielo del Nord, il cielo di Francoforte, che illumina la mia cara Minetta, e la
possa proteggere fin quando un giorno nuovamente l’avrò tra le braccia.
Sì, mia cara fanciulla, lo stile di questa regione è molto diverso da quello
della nostra malinconica Marca. E’ vero che la valle bagnata dall’Oder è molto
bella, specialmente nei dintorni di Francoforte, ma in fondo è soltanto una
miniatura. Qui invece la natura si mostra, per così dire, in grandezza naturale.
Quella assomiglia ai disegni occasionali di un artista, solo schizzati, sebbene con
tratti magistrali, ma non rifiniti; questa invece è un quadro tracciato con
entusiasmo, messo sulla tela con diligenza e genialità, e presentato al mondo con
la certezza di suscitare ammirazione.
E tutta la zona è fertile, persino le più alte cime sono coltivate e i prati
verdeggianti arrivano spesso, come nella Svizzera, fino a metà della montagna.
Adesso però devo sigillare la lettera. Addio. Scrivimi se tuo padre e tua
madre hanno chiesto di me; e in che modo. Però sii totalmente sincera. Non mi
offenderò se i loro pensieri sono fuggevoli: sarebbe una cosa naturale. Ma tu
abbi costanza e sii certa che in questo periodo penso al tuo bene, e quindi anche
a quello dei tuoi genitori, meglio che in qualunque altro momento del passato.
Addio… o devo scriverti ancora una volta dalla prossima tappa? Lo devo
fare? Sono le 3, alle 6 saremo a Reichenbach. Sì, farò così. Però come premio
per questa lettera, per la mia abilità di scrivere otto pagine durante un viaggio
ininterrotto in diligenza speciale, come premio mi devi dare al mio ritorno… o
un bacio o un nastro nuovo per la borsa del tabacco, perché il vecchio si è
strappato.
Ma ora è necessario che vada a mangiare qualcosa. Addio. A Reichenbach ti
scriverò nuovamente.
Ancora due parole in fretta. Il postiglione è pigro e lento. Io invece sono
alacre e rapido. Ma è naturale, perché lui lavora per i quattrini, io per il premio
dell’amore.
Presto dunque: sono entrato qui a Zwickau nella così detta chiesa grande.
C’è parecchio da vedere. Appena si entra si ha un’impressione piacevole ed
edificante. Un’ampia volta è sorretta da rari e tuttavia esili pilastri. E’ piacevole
osservare come sia possibile ottenere con forze esigue ciò che sembra richiedere
forze considerevoli. Si può inoltre ammirare un quadro di Luca Cranach dai tratti
magistrali, ma senza un piano ben definito, simile a quelle pitture sforacchiate
che si appendono alle porte dei contadini, dei soldati e dei domestici; ma tu non
sai queste cose. Era possibile infine ammirare un modello del Santo Sepolcro di
Gerusalemme, di legno intagliato, e altre cose.
Mi viene ora in mente una chiesa che non ti ho ancora descritta: è quella di
San Nicola a Lipsia. All’esterno è antica come la religione che vi si predica,
l’interno invece è ornato secondo il gusto più moderno. Attraverso l’ardimento
delle volte esterne ci parlava l’idolo degli avventurieri goti; sulla nobile
semplicità dell’interno aleggiava lo spirito dei greci raffinati (14). Ma peccato
che uno…
stavo per dire una cosa di cui i preti si offendono. So però che le nobili forme
delle pietre inanimate parlavano al mio cuore un linguaggio più fervido che
quello del prete saccente dal pulpito.
Reichenbach, 8 di sera.
Due cose vorrei sapere con certezza. Così mi sarebbe più facile consolarmi
dell’assoluta mancanza di tue notizie: primo, se sei viva; secondo, se mi ami. Mi
basterebbe la prima perché questa include, spero, per te come per me, anche
l’altra. Ma forse più di tutto mi piacerebbe sapere se sei perfettamente serena.
Se almeno non avessi pianto quella sera sotto la pergola quando ti comunicai
un pensiero a doppio senso del quale cogliesti subito il significato peggiore! Ma
poiché mi promettesti di ricrederti, sono certo che manterrai la parola e sarai
ragionevole. Quanto dovresti pentirti, Guglielmina, se un giorno, forse fra poco,
dovessi comprendere con vergogna di aver diffidato del tuo più onesto amico. E
quanto invece esulteresti se tra poche settimane tu potessi stringere fra le
braccia l’amico in cui hai riposto una totale fiducia che non ti ha mai ingannato
in nulla.
Addio, cara fanciulla, ora chiudo la lettera. Alla prossima tappa ne
incomincerò un’altra. Ci sarà un intervallo di due giorni prima che tu riceva la
successiva. Forse le riceverai tutte insieme… Ma ignoro che cosa penserò
durante la notte, perché è buio e la luna velata…
Scriverò una poesia. Su che cosa? Oggi mi è parso di rivedere gli aghi che
raccolsi un giorno sotto la pergola. Ci ho pensato per tutto il giorno. Questa notte
farò una poesia su un ago o a un ago. Addio.
Dormi bene, io veglio su di te.
H. K.
P.S. In questo momento vengo a sapere che l’armistizio fra gli imperiali e i
francesi scade domani 6. Noi andiamo proprio verso i francesi e ci sarà certo
qualche novità da osservare. Purché passino le lettere! Ma riguardo a lettere
indirizzate a una donna - i francesi sono gentili - spero per il meglio. Non stare
in apprensione per me.
W rzburg, 9 o 10 settembre 1800.
[Manca il principio] … Riceverò presto una tua lettera? Mia cara, diletta,
unica amica! Se in tutto questo tempo ti fossi ammalata… e magari tu non fossi
più… oh Dio! Allora tutti i sacrifici, tutte le fatiche di questo viaggio sarebbero
vani! Poiché di amore ho bisogno… e dove troverei di nuovo tanto amore? Per te
ho fatto ciò che non feci mai per una creatura umana… Tu mi avresti amato con
più fervore, più fedeltà, più tenerezza, più gratitudine di qualunque altra
fanciulla… Oh Dio! sarebbe spaventevole! Scrivi, scrivi presto. Ogni giorno
vado alla posta. Devo ricevere presto notizie tue o la mia calma, conservata così
a lungo, vacilla… Scrivimi sempre a W rzburg. Resto qui fin quando non abbia
ricevuto tue notizie, altrimenti non potrei proseguire serenamente il mio viaggio.
Forse, anzi, probabilmente non lo proseguo affatto. Addio.
W rzburg, 11 settembre 1800.
Mia carissima e amata fanciulla, potessi dirti quanto sono contento!… Ma
non posso. Sii contenta anche tu. Ma non parliamo di questo. Presto, presto di
più.
Ora ti voglio parlare di altro.
Prima di tutto di W rzburg. Anche questa città è situata in una bassura, a una
curva del Meno, chiusa tra alture brulle, del tutto prive di fronde e solo
verdeggianti per piccole viti. Su entrambe le rive del Meno sorgono case. Il
numero 1 dello… scarabocchio che accludo (disegno non lo si può chiamare) è
la città sulla riva
“destra” del fiume, e noi siamo giunti proprio da questa parte, scendendo dal
monte “a”. Il numero 2 è la città sulla riva “sinistra”; il così detto quartiere del
Meno con la cittadella. L’insieme ha un aspetto genuinamente cattolico.
Trentanove campanili indicano che qui risiede un vescovo, come a suo tempo le
piramidi d’Egitto indicavano la tomba di un re. L’intera città formicola di santi,
apostoli e angeli, e camminando per le strade si ha l’impressione di passeggiare
nel paradiso dei cristiani. Ma l’illusione non dura a lungo. Infatti eserciti di preti
e di frati, vestiti di vari colori come le truppe imperiali, ci vengono incontro
incessantemente e ci ricordano la volgarissima terra.
Le vie sono state formate dal caso più sfrenato. W rzburg non si distingue per
nulla del più comune villaggio. Ognuno ha costruito la sua casa dove più gli
garbava, senza alcun riguardo per il vicino. E
così non si vede altro che un’accozzaglia di singole case prive dell’idea di un
insieme, di un interesse generale. Spesso uno si trova, prima che se ne accorga,
in un labirinto di edifici dove è costretto a desiderare il filo di Arianna per
trovare l’uscita. Tutto ciò si potrebbe ancora perdonare ai tempi antichi, ma
quando oggi si costruiscono le case esattamente al posto delle vecchie,
dimostrando in tal modo che non esiste l’idea di conferire un ordine alla città,
questo significa che si vuole perpetuare un errore.
Fra gli edifici si distingue il castello della sede episcopale. E’
lungo e alto. Bello non lo si può certo dire. La piazza prospiciente è ariosa e
piacevole, chiusa da un colonnato ornato da entrambi i lati da un obelisco. Le
altre case possono appagare soltanto le esigenze più comuni. Solo a tratti appare
sopra le case basse una cupola o un convento o il tetto elevato di un edificio
canonico.
Nessuna delle chiese di qui ci è parsa così bella come quella di Eberach, che
ti ho descritta nella mia lettera precedente. Nemmeno il duomo è così splendido
e fastoso. Ma tutte queste chiese sono frequentate dalla mattina presto fino alla
sera tardi. Lo scampanio non conosce interruzioni. E’ come se le campane
suonassero a morto per loro stesse, poiché può darsi che i francesi le fondano
presto. Le messe e le ore canoniche si alternano continuamente e i grani dei
rosari sono in perpetuo moto. E’ in giuoco la salvezza della città, e poiché i
francesi pregano per la sua rovina, tutto dipende da chi prega maggiormente.
“Io”, bimba cara, ho un’indulgenza di 200 giorni. In un monastero sul monte
2 presso “b”, dietro la cittadella, davanti a un’immagine miracolosa della
Madonna stava una preghiera stampata annunciante che chi l’avesse letta con
devozione avrebbe ottenuto una simile indulgenza. Io l’ho letta, ma poiché non
l’ho fatto con la dovuta devozione, dovrò guardarmi dal peccato e compiere il
bene come prima.
Quando si entra in una di queste chiese cattoliche e si vede il largo arco della
volta e questi altari e questi dipinti - e questa folla adunata, con i suoi gesti -
quando si osserva e si riflette su un simile complesso religioso, non si riesce
proprio a comprendere dove conduca tutto questo. Da noi la predica del
sacerdote o un canto di Gellert suscita pur sempre un qualche pensiero elevato;
qui invece non è possibile, con quel borbottio del prete che nessuno sente e
nessuno comprenderebbe, se anche lo sentisse, essendo in latino. Sono persuaso
che tutti questi apparati non siano in grado di suscitare alcun pensiero
ragionevole (15).
Generalmente mi sembra che tutte le cerimonie soffochino il sentimento.
Esse occupano la nostra mente, ma il cuore rimane inerte.
E la stessa intenzione di scaldarlo, quando diventa manifesta, è sufficiente a
raffreddarlo del tutto. Il mio cuore almeno, non appena capisco che si sollecita il
mio sentimento, è pervaso da un gelo mortale.
Per questo generalmente falliscono tutti i divertimenti per i quali occorrono
grandi preparativi. Quante volte entriamo in salotti, in sale da ballo, senza
trovarvi di più che i preparativi della gioia, mentre spesso scopriamo la gioia
proprio dove meno la speravamo.
Perciò saprò festeggiare il giorno più bello che mi vedo dinanzi, al modo non
della gente, ma mio.
Ritorno al mio oggetto. Se le immagini miracolose della Madonna faranno
almeno in parte il loro dovere, fra poco non rimarrà più alcun francese in vita. E
sembrano efficaci, queste immagini: lo si nota dagli ex-voto di cera, bambini,
gambe, braccia, dita eccetera eccetera che stanno appesi attorno all’immagine:
testimonianze dei desideri esauditi dalla Santa Madre di Dio. Tra breve ci sarà
qui una processione per la sconfitta dei nemici o, come dicono, per “lo sterminio
di tutti gli eretici”. Dunque anche per lo sterminio tuo e mio.
Passo ora a un’istituzione ragionevole, che ho visitato con maggior piacere
che questi conventi e queste chiese.
Un monaco ha utilizzato il tempo lasciatogli dalle messe e dalle ore
canoniche per costituire un raro gabinetto di storia naturale. Non so per certo se
egli sia un benedettino, ma lo deduco da questa utile applicazione del suo tempo,
giacché i monaci di quest’ordine sono sempre stati i più diligenti e laboriosi.
Costui è professore all’università del luogo e si chiama Blank (16).
Con l’aiuto dell’attuale principe vescovo, un certo von Fechendach, ha
raccolto nel castello una cospicua galleria di uccelli e di muschi. Le penne degli
uccelli sono incollate, senza la pelle, su pergamena e così pienamente preservate
dalle insidie degli insetti. Perdona tutti questi particolari. Un giorno prevedo di
utilizzare ciò che ti sto scrivendo.
Già l’impianto è degno di essere visto e ha richiesto una diligenza quasi
impareggiabile. In numerose vetrine, in speciali cassetti e armadi, sono raccolte
nel più perfetto ordine piume di ogni sorta, pelli, schegge di legno, foglie,
muschi, polline, ragnatele, giunchi, lane, ali di farfalle, eccetera eccetera.
Ma questa collezione di materiali di ogni specie ha indotto il brav’uomo a
una stranezza, più che a un completamento della sua utile esposizione di uccelli
e di muschi. Con tutti questi materiali, senza usare alcun colore, ha “dipinto”
paesaggi, mazzi di fiori, uomini, e spesso con una somiglianza perfetta: l’acqua
con lana, le fronde con musco, la terra con polline, il cielo con ragnatele, sempre
con le più esatte variazioni di luce e d’ombra. Ma gli esempi migliori erano già
stati spediti via per paura dei francesi.
Più avanti ti dirò che cosa significa tutto questo.
12 settembre.
L’animazione delle strade per paura dei francesi è indescrivibile.
Fuggiaschi, preti, truppe imperiali, tutti si affollano alla rinfusa e fanno
domande e danno risposte e recano novità che dopo due ore sono dichiarate
false.
Il comandante della piazza, generale Dall’Aglio (17), pare che voglia
seriamente difendere la fortezza. Ma tu sta’ tranquilla! Si tratta soltanto della
cittadella, non della città. Anche questa è fortificata, ma sta giù in fondo ed è
indifendibile, al punto che, a quanto si dice, stanno già trattando la capitolazione.
A mio avviso anche la cittadella è altrettanto indifendibile. E’ costruita secondo
l’arte fortificatoria medioevale, cioè male. E’ stata un’idea infelice costruire in
quel punto una fortezza. Ma pare che in origine fosse una vecchia rocca, che poi
venne progressivamente ampliata. La sua stessa posizione è del tutto
sfavorevole, perché a un tiro di schioppo sorge un monte molto più alto che
domina l’altura della cittadella. Per ora si sono arroccati nelle casematte, e il
comandante sembra abbia detto che vuol resistere finché non gli brucia il
fazzoletto in tasca. Se è intelligente, gli appiccherà fuoco lui stesso salvando così
la parola data e la vita. La cittadella ha però realmente provviste per tre mesi.
Lassù ci dovrebbe anche essere molta artiglieria, ma tutte queste sono voci,
nessuno ha il permesso di visitare quel luogo. Si vedono molte feritoie, questo è
vero, ma può darsi che siano soltanto metonimie (18).
Specialmente la sera sul ponte c’è un passaggio continuo. Noi due, Brockes e
io, ce ne stiamo allora in una nicchia e facciamo commenti, leggendo sulla faccia
di questo o di quello se ha messo al sicuro il suo vino, se ha paura della
secolarizzazione o se offrirà gentilmente da bere ai francesi. Ritengo che la
maggioranza, almeno tra i civili, alla fine si deciderà per quest’ultima
alternativa. Ma bisogna leggerlo dai loro volti, poiché dai discorsi non traspare
nulla. Non puoi immaginare quale silenzio regni in tutti gli edifici pubblici.
Tutti ci vanno per carpire qualche novità, nessuno per recare notizie.
Si direbbe che ognuno attenda di vedere come lo si tratti per poi trattare gli
altri alla stessa stregua. Ma, lo sappiamo, questo è il carattere peculiare delle
città cattoliche. Si volta il gabbano secondo il vento che tira.
In questo momento apprendo da fonte “sicura” che l’armistizio è prorogato a
tempo indeterminato; chiudo quindi la presente, affinché tu riceva il più presto
possibile questa lieta notizia che farà maturare i “nostri desideri”. Addio.
Restami fedele. Presto ti scriverò più a lungo. Il tuo amico
HEINRICH.
W rzburg, 13 (-18) settembre 1800.
Fanciulla! Come sarai felice! E anch’io. Come piangerai sulla mia spalla
cocenti e fervide lacrime di gioia! Come mi ringrazierai con tutta l’anima!… Ma
silenzio! Niente è ancora deciso “del tutto”, ma… il dado è tratto e, se vedo
bene, se tutto non m’inganna, i punti sono favorevoli! Sta’ tranquilla. Fra pochi
giorni riceverai una lettera lieta, una lettera, Guglielmina, che… ma già, non
devo parlare, e tacerò dunque ancora questi pochi giorni. Solo questa notizia
“certa” voglio comunicarti: di qui non proseguo pel Strasburgo, ma resto a W
rzburg. Prima che tu possa immaginarlo, sarò nuovamente con te a Francoforte.
Baciami fanciulla, perché lo merito.
(19)
Suvvia, facciamo come se non avessimo niente di più interessante da dirci
che cose estranee! Poiché ciò che mi empie l’anima, non devo comunicartelo,
“almeno non ancora”.
Dunque parliamo nuovamente di questa città.
Una delle migliori istituzioni che un monaco abbia mai creato è certamente
questo Ospedale Julius (20), fondato nel secolo sedicesimo dal principe vescovo
Julius, più che raddoppiato, abbellito e migliorato dal penultimo principe
vescovo Ludwig. Già l’edificio primitivo era vasto come un castello; a questo
furono poi annessi altri edifici di stile simile, e così la facciata ha ora 63 finestre
e il tutto forma un quadrato chiuso. Nel cortile interno si trova una grande
fontana; sul retro ci sono un bellissimo orto botanico, impianti di bagni, un teatro
anatomico e un’aula medico-chirurgica.
L’insieme è un prodotto della più fervida filantropia. Ogni malato, qualora
sia veramente povero, ha il diritto di esservi accolto del tutto gratuitamente.
Quando uno è guarito e ristabilito deve uscire, ma gli incurabili e i vecchi
ricevono alimento, vesti e alloggio fino alla fine dei loro giorni. Questo istituto
infatti è creato per i più indigenti e chi può in qualche modo aiutarsi da sé non vi
trova posto, perché lo sottrarrebbe a uno più disgraziato e più bisognoso di lui.
In modo particolare va notato e lodato il fatto che la tolleranza religiosa,
inesistente in tutta la diocesi, ha trovato posto proprio in questo ospedale dove
era più necessaria, e in questo istituto cattolico può trovare rifugio qualunque
sventurato, anche se protestante o ebreo.
L’interno dell’edificio è organizzato, dicono, in modo molto razionale. Il
piano che ho visto mi è parso ordinato. Ogni reparto ospita un tipo particolare di
malati, per cure mediche o chirurgiche, e ogni ala un sesso. Ci sono poi edifici a
parte per gli inguaribili, uno per i vecchi, uno per gli epilettici, uno per i ragazzi,
eccetera Il parco è a disposizione di ogni persona civile. Si prendono i pasti in
grandi sale. Una chiesa di ottimo gusto accoglie ogni giorno i devoti. Persino i
pazzi vi hanno un posto, chiuso da un’inferriata.
Tra i pazzi abbiamo visto alcune cose sconvolgenti, altre ridicole, molte
istruttive e pietose. Due folli stavano coricati l’uno sopra l’altro come pezzi di
legno, assolutamente insensibili, tanto da far dubitare che potessero dirsi ancora
uomini. Ma poi ci venne incontro, vispo e allegro, un professore uscito di senno
per eccesso di studio, il quale cominciò ad arringarci in latino facendo di
sfuggita domande così rapide e parlando un latino così esatto e coerente che ci
trovammo seriamente in difficoltà a rispondere, e ci parve un uomo normale. In
una cella era seduto un monaco vestito di nero, dallo sguardo assorto, severo e
tenebroso. Alzò lentamente gli occhi e parve scandagliasse i nostri cuori. Poi
prese a parlare con voce debole, ma sonante e tale da stringere il cuore,
ammonendoci di stare in guardia contro la gioia e di pensare alla vita eterna e
alla sacra preghiera.
Noi non rispondemmo. Egli parlava con lunghe pause. Ogni tanto ci lanciava
un’occhiata malinconica come se ci considerasse comunque perduti. Una volta
durante una predica sul pulpito aveva detto una frase errata e da quel momento si
era convinto di aver falsato la voce di Dio. Da costui passammo a un
commerciante impazzito di orgoglio e rabbia, avendo suo padre ricevuto un
diploma di nobiltà, ma non ereditaria. La cosa più spaventevole però fu la vista
di un individuo che era impazzito per un vizio contro natura - un giovane
diciottenne che fino a poco tempo prima doveva essere stato florido e bello e
portava ancora i segni del suo splendore; stava chino sull’immondo orifizio con
le membra nude, pallide e smunte, col petto incavato, la testa inerte e
penzolante… un rossore scialbo e venato come quello dei tisici gli tingeva il viso
cadaverico; la palpebra gli cadeva senza forza sull’occhio quasi spento e
morente, pochi stinti capelli di vecchio gli coprivano la testa incanutita anzi
tempo, la lingua gli penzolava asciutta e riarsa sulle labbra pallide e secche,
aveva le mani fasciate e legate dietro il dorso… non aveva la forza di muovere la
lingua per parlare, e a mala pena quella per respirare ansimando… i nervi del
suo cervello non erano impazziti, ma infiacchiti, sfiniti, ormai incapaci di
obbedire all’anima, e tutta la sua vita era ridotta a una perpetua e paralizzante
impotenza… oh, meglio mille morti che una sola vita come quella! Così terribile
è la natura quando si vendica di un delitto contro il suo volere. Via, via questa
visione spaventosa!
Non senza rispetto e commozione si percorrono i corridoi dell’ampio edificio
se si valuta la grandiosità, la complicazione e il costo degli impianti, se si pensa
ai sacrifici sostenuti dal fondatore e dai sostenitori. Il solo mantenimento
dell’istituzione richiede 60 mila fiorini all’anno. All’edificio è annessa anche
una sorta di scuola chirurgica, e così nell’ospedale stesso i suoi futuri medici
ricevono la loro istruzione. Insegnanti sono i medici incaricati come Seybold, Br
nningshausen e altri.
Ma quando si pensa all’utilità di questa istituzione, quando ci si chiede se
con così gravi sacrifici non si potrebbero ottenere dei risultati maggiori anche se
meno appariscenti, si smette di ammirare l’istituzione ottima in sé e ci si augura
che l’edificio piuttosto non esista. Si provvede molto meglio all’interesse del
malato indigente se lo si aiuta in casa sua con cure e con vestiario e alimenti,
oppure con denaro. Egli non ricava certamente gioia dal superbo palazzo e dal
parco regale che gli rammenta sempre la sua condizione umiliante e il beneficio
che non potrà mai ripagare; tutta questa magnificenza probabilmente servirà solo
a prostrare ancor più il degente e a umiliarlo per il doloroso contrasto con la
propria miseria. E’ una specie di ironia dover scendere alla completa indigenza
per poter essere alloggiato tra agi principeschi… ma forse non mi esprimo
abbastanza bene. Sono certo però che le persone buone, tranquille e sofferenti
accettano con maggiore gioia un beneficio segreto piuttosto che questi aiuti
donati con così vistosa pubblicità. Oltre a questo, il malato potrebbe davvero
essere aiutato meglio altrove, perché qui, in presenza di tante miserie egli si
disanima e si scoraggia.
Specialmente i pazzi non riacquisteranno mai la sanità di mente finché
saranno tra loro. Invece sarebbe certo possibile che molti di loro guarissero se
alcune persone sane di mente, che so, i loro stessi familiari, sotto la guida del
medico si sforzassero di ricondurre l’infelice alla ragione. Si potrebbe obiettare
che tutto ciò richiederebbe spese ancora maggiori, ma va considerato che il solo
impianto di questo istituto costa milioni, e che non sarebbe più necessario. E
d’altra parte è certamente vero che la beneficenza non sarebbe così visibile. Che
ci debba essere sempre l’ombra accanto alla luce!
14 settembre.
In nessun luogo si può conoscere più rapidamente e nello stesso tempo più
esattamente il grado di cultura di una città e, in genere, lo spirito del gusto che vi
regna quanto nelle biblioteche di lettura.
Sta’ a sentire che cosa ho trovato qui, e non sarà necessario che ti dica altro
sul tono che vige a W rzburg.
“Vorremmo avere un paio di buoni libri” - Ecco qui la raccolta a disposizione
- “Per esempio Wieland” - Ho i miei dubbi che ci sia. -
“Oppure Schiller, Goethe” - Sarà difficile trovarli qui - “Come? tutti questi
libri sono esauriti? Si legge tanto in questa città?” - Questo non direi - “Quali
sono i lettori più assidui?” - Giuristi, commercianti e signore maritate. - “E le
nubili?” - Non possono chiederne. - “E gli studenti?” - Abbiamo l’ordine di non
dargliene. -
“Ma dica un po’, se si legge così poco, dove diavolo sono le opere di
Wieland, di Goethe, di Schiller?” - Scusi, codeste opere non si leggono affatto
qui. “Dunque non le avete neanche in biblioteca?” -
Non sono permesse. - “Che libri ci sono dunque qui, su queste pareti?”
- Racconti cavallereschi, solo racconti cavallereschi, a destra quelli con
fantasmi, a sinistra senza fantasmi, a piacere. - “Bene, bene”.
Divertimenti si cercherebbero invano. Qui non si pensa altro che alla futura
beatitudine celeste e per quella si dimentica la presente felicità terrena. Un
misero parco francese, quello di Hutten, qui lo chiamano luogo di ricreazione.
Ma si sta in esso così silenziosi e devoti come in un cimitero. Non s’incontra mai
uno sguardo che faccia prevedere una risposta interessante a un’interessante
domanda. Anche qui il suono delle campane ricorda implacabilmente la
religione cattolica, come il tintinnare della catena rammenta al prigioniero la sua
schiavitù. Anche durante una conversazione, allo squillo delle campane tutte le
ginocchia si piegano, tutte le teste si chinano, tutte le mani si giungono; e chi
rimane in piedi è un eretico.
15 settembre.
Mia cara, carissima amica! Come brama il mio cuore anche poche parole
amichevoli scritte di tuo pugno, una breve lettera sulla tua vita, sulla tua salute,
sul tuo amore, sulla tua tranquillità! Quanti giorni abbiamo trascorso separati
l’uno dall’altra e quante cose saranno accadute che riguardano da vicino anche
me! E perché non so più nulla di te? Non esisti più? O stai male? O ti sei
dimenticata di me, che ti ho sempre nel mio pensiero? Sei forse in collera con
l’amato che si allontanò così capricciosamente dall’amica? Muovi forse un
rimprovero di leggerezza a colui che in questo suo viaggio cerca di conquistare
la tua stessa felicità con sacrifici incredibili e ora forse…
“forse” l’ha conquistata? Vorrai ripagare con diffidenza e infedeltà colui che
forse fra breve ritornerà con i frutti della sua azione?
Troverà ingratitudine nella fanciulla per la cui felicità ha arrischiato “la
vita”? Non otterrà il premio su cui faceva assegnamento, l’eterna, fervida, tenera
gratitudine? No, no… tu non puoi essere ingrata. Eterni rimorsi ti
tormenterebbero. Mille ostacoli hanno impedito che le tue lettere giungessero a
me. Mi tengo stretto al tuo amore. La fiducia in te non deve vacillare. Nessuna
apparenza mi deve confondere. “In te” voglio credere e in nessun altro. Del
resto, io stesso ho disposto che tutte le lettere rimanessero, giacenti a Bayreuth.
E’ vero che altre potevano prendere un’altra via, per Duderstadt… tuttavia sono
tranquillo. Già: quattro giorni or sono ho scritto a Bayreuth di respingermi le
lettere a W rzburg, oggi non c’era niente alla posta di qui, ma domani, domani…
o posdomani o…
E quante cose conoscerò! Con quali presentimenti guarderò la busta, il
piccolo recipiente che racchiude in sé tante gioie! O Guglielmina, in sei parole
può essere espresso tutto ciò che mi necessita per la mia pace! Scrivimi: io sono
sana; io ti amo… e non voglio altro.
Eppure sì… notizie dei tuoi ottimi genitori e dei fratelli. Stanno nuovamente
tutti bene in famiglia? La mamma dorme nuovamente da basso?
Tuo padre non ha chiesto di me? E che cosa si dice di me a Francoforte? Ma
non “tu” avrai occasione di sentire simili voci. Sia pure, dicano quello che
vogliono, mi condannino pure! Se noi due ci comprendiamo pienamente, non vi
è giudizio altrui, non vi è opinione che m’importi. A chiunque sono disposto a
perdonare la diffidenza tranne che a te, avendo compiuto ogni sforzo per
liberartene. Hai compreso l’iscrizione della tazza (21)? In questo caso
adempiresti il mio più profondo desiderio. In questo caso sapresti onorarmi.
Forse riceverò anche il tuo componimento… o non l’hai ancora terminato?
Non importa, non affrettarti. Un raggio di sole a primavera fa maturare il fiore
dell’arancio, ma per la quercia è necessario un secolo. Da te vorrei ricevere doni
buoni, rari, utili che possano servire anche a me; e il buono richiede tempo per
formarsi. Ciò che si forma rapidamente perisce rapidamente. Due giorni di
primavera… e il fiore dell’arancio è appassito; la quercia invece sopravvive al
millennio. Ciò che mi viene da te deve profumare non solo per pochi istanti; io
ne voglio godere per tutta la vita.
Sì, Guglielmina, se tu potessi darmi la gioia di far progredire costantemente
la tua formazione con lo spirito e con il cuore, se potessi concedermi di renderti
una moglie così come l’auguro a me, una madre come l’auguro ai miei figli,
illuminata, istruita, senza pregiudizi, obbediente sempre alla ragione, pronta ad
assecondare il cuore… allora, sì, allora mi potresti ricompensare per un’azione,
per un’azione…
Ma tutti questi sarebbero desideri vani, se tu non fossi già predisposta alle
cose eccellenti. Io non posso far nascere nulla nella tua anima, posso soltanto
sviluppare quello che vi pose la natura. A rigore, nemmeno questo posso fare
“io”, “tu” sola lo puoi. Tu stessa devi porvi mano, tu stessa devi fissare la meta;
io non posso che indicarti la via più breve, più agibile e se ora ti fisserò una
meta, lo farò soltanto perché sono convinto che tu stessa l’hai riconosciuta da
tempo. Voglio esporre soltanto con chiarezza ciò che forse è oscuramente
assopito nella tua anima.
In definitiva la vera saggezza di una donna consiste nel saper riflettere
ragionevolmente sulla missione della sua vita “terrena”.
Riflettere sullo scopo di tutta la nostra esistenza “eterna”, indagare se
l’ultimo fine dell’uomo sia il godimento della felicità, come pensava “Epicuro”,
o il raggiungimento della perfezione, come credeva
“Leibniz”, o l’adempimento dell’arido dovere, come insegna “Kant”: questo
è sterile anche per gli uomini, e spesso dannoso. Come possiamo osare di
intervenire nel piano che la natura ha tracciato per l’eternità, se il nostro sguardo
ne può abbracciare soltanto una parte infinitamente piccola, la nostra vita
terrena? Non avventurarti dunque con il tuo intelletto oltre i limiti della tua
esistenza. Sta’
tranquilla riguardo l’avvenire. Ciò che devi fare per questa vita terrena lo
puoi capire, ciò che devi fare per l’eternità, no; e nessuna divinità può pretendere
da te se non l’adempimento del tuo destino su questa terra. Vedi dunque di
limitarti a questo breve tempo. Non curarti della tua destinazione dopo la morte,
perché pensando ad essa potresti facilmente trascurare la tua destinazione su
questa terra.
18 settembre 1800.
Ero arrivato a questo punto quando mi venne da pensare che forse erano
necessarie alcune spiegazioni per non offendere i tuoi concetti religiosi. Nello
stesso tempo mi resi conto che questo argomento era troppo vasto per una lettera
e decisi quindi di scriverti un saggio a parte. Il principio di questo è nel terzo
foglio allegato. Cerchiamo entrambi, cara Guglielmina, di considerare ogni
aspetto del nostro scopo per potere un giorno realizzarlo totalmente. A questo
“soltanto”
dobbiamo rivolgere ogni nostra attività. Svilupperemo tutte le nostre facoltà
appunto per attuare questo compito. Tu aiuterai me e io aiuterò te, e per farlo
completerò presto questo saggio.
Come ne abbia avuto l’idea, ti sarà facile intuirlo tra poco. Perché abbia
ritenuto opportuno invitarti a lasciar perdere i problemi religiosi, te lo dico
subito. L’ho fatto non tanto perché ritenga che tu sia particolarmente esposta a
questo pericolo, ma perché vivo proprio in una città in cui le pratiche religiose
fanno dimenticare ogni altro dovere dell’esistenza, e anche perché frequento
Brockes che è turbato da un conflitto incessante con la natura: egli afferma che
non riesce a trovare la sua destinazione eterna, e così non fa nulla per quella
terrena. Ma di questo ti parlerò in seguito più a lungo.
Adesso devo concludere. Volevo attendere fin quando non avessi ricevuto
finalmente una tua lettera per annunciartelo, ma invano. Cara Guglielmina…
Sta’ tranquilla. Io continuo a volerti bene caldamente, nella ferma convinzione
che anche tu mi voglia bene caldamente…
sempre che tu sia viva… Oh, mia speranza! Sii serena. Non fare alcun passo
per le lettere. Se non le ricevo entro tre giorni, manderò io stesso un reclamo.
Poiché hai “certamente” scritto. Addio.
TUO HEINRICH.
[Allegato]
W rzburg, 16 settembre 1800.
Ogni vera istruzione della donna consiste infine, mia cara amica, in questo:
saper riflettere ragionevolmente sulla missione della propria esistenza “terrena”.
Riflettere sulla destinazione della nostra esistenza eterna, indagare se
l’ultimo fine dell’uomo sia il godimento della felicità (come pensava “Epicuro”)
o il raggiungimento della perfezione (come credeva
“Leibniz”) o l’adempimento dell’arido dovere (come “Kant”): questo, cara
amica, è sterile anche per gli uomini, spesso dannoso. Se lo fanno, cadono
nell’errore che commettevo io quando mi trasferivo in spirito da Francoforte a
Stralsund e di nuovo da Stralsund a Francoforte. Essi vivono nel futuro e così
dimenticano ciò che il presente esige da loro.
Giudicherai tu stessa: come possiamo noi, esseri limitati che dell’eternità
abbracciamo con lo sguardo soltanto un frammento così infinitamente piccolo, la
scheggia della nostra vita terrena, come possiamo arrischiarci a sviscerare il
piano che la natura ha tracciato per l’eternità? E se ciò non è possibile, come può
una divinità giusta pretendere che ci intromettiamo in questo suo piano eterno, se
non siamo neppure in grado di concepirlo?
La destinazione, invece, della nostra vita “terrena” la possiamo
indubbiamente scoprire, e per questo la Divinità può certo esigere a buon diritto
che noi l’adempiamo.
Può darsi, cara amica, che in questo punto la tua religione mi contraddica e
t’imponga di agire anche in vista della tua vita futura.
Tu avrai certo valide ragioni per la tua fede, come io ne ho per la mia, e così
non temo che questo piccolo dissidio religioso possa recare grande danno al
nostro amore. Dove predomina la ragione è naturale che ci sia tolleranza per le
opinioni reciproche; e poiché la tolleranza è già divenuta una virtù di interi
popoli anche in campo religioso, non credo che incontrerà gravi ostacoli a
regnare in due cuori innamorati.
Se tu dunque dovessi sentirti spinta dalle influenze della tua educazione
precedente ad agire anche in vista della tua vita eterna con l’osservanza di
cerimonie religiose, mi limiterei a pregarti di non trascurare la tua esistenza
terrena.
Troppo facilmente, infatti, si crede di aver fatto “tutto” quando si osservano
le severe pratiche della religione, quando si frequenta assiduamente la chiesa,
quando si prega ogni giorno e si fa la comunione due volte all’anno.
Eppure tutti questi sono soltanto “segni” di un sentimento che può esprimersi
anche in forme totalmente diverse. Con quel medesimo sentimento, infatti, con il
quale nella comunione prendi il pane dalla mano del sacerdote, con quello stesso
sentimento, dico, il messicano scanna suo fratello davanti all’altare del suo idolo.
Con questo voglio soltanto farti notare che tutte le usanze religiose non sono
che precetti “umani” i quali furono diversi in tutti i tempi e anche nell’epoca
nostra sono diversi in tutti i luoghi della terra.
In “essi” non può dunque consistere l’essenza della religione, perché
altrimenti questa sarebbe molto oscillante e incerta. Chi ci assicura che tra poco
non sorga fra noi un secondo Lutero e rovesci ciò che l’altro ha costruito? In noi
però fiammeggia un precetto, e questo dev’essere divino, perché è eterno e
universale; esso dice: “Compi il tuo dovere”, e questa tesi riassume le dottrine di
tutte le religioni.
Tutte le altre tesi derivano da questa e in essa hanno il loro fondamento,
oppure non vi derivano, e allora sono sterili e inutili.
Che vi sia un Dio, che esista una vita eterna, una ricompensa per la virtù, un
castigo per il vizio, tutte codeste sono tesi non fondate su quella, sicché noi ne
possiamo fare a meno. E’ certo infatti che sono superflue per volere della
divinità stessa, che ha voluto fosse incomprensibile e imperscrutabile. Tu forse
non faresti più ciò che è giusto, se l’idea di Dio e dell’immortalità fosse soltanto
un sogno?
Io no.
Io non ho necessità di simili tesi; talvolta però, “quando ho compiuto il mio
dovere”, mi prendo la libertà di pensare con tacita speranza a un Dio che mi
guarda e a una eternità che mi attende; verso entrambi infatti mi sento attratto
con una fede che il cuore mi garantisce e l’intelligenza mi conferma più di
quanto non contraddica.
Ma sia questa fede errata o no, poco importa. Mi attenda una vita futura o no,
poco importa! Io adempio in questa vita al mio dovere, e se tu mi domandi il
perché, la risposta è facile: perché questo è il mio dovere.
Perciò mi limito ad agire in questa vita terrena. Non voglio curarmi della mia
destinazione dopo la morte, per timore di trascurare la mia destinazione in questa
vita. Io non temo il castigo infernale futuro, perché temo la mia coscienza e non
faccio assegnamento su una ricompensa oltre la tomba giacché posso
conquistarla in questa vita.
D’altro canto sono certo di inserirmi pienamente nel grande, eterno piano
della natura, purché realizzi compiutamente ciò che mi ha dato in sorte su questa
terra. Non per nulla mi ha assegnato questa presente sfera d’azione, e, ammesso
che io la trascurassi sognando e indagando quella avvenire… l’avvenire non è
forse un presente che sta per giungere? e dovrei trascurare questo presente
inseguendo sogni?
Ma ritorno al mio argomento. Ti ho presentato questi pensieri solo perché tu
li possa esaminare. Io mi sento più calmo e più sicuro se allontano totalmente da
me il pensiero dell’oscura destinazione futura e mi attengo esclusivamente alla
destinazione certa e palese di questa vita terrena.
Ora voglio spiegarti il mio primo pensiero fondamentale. Destinazione della
nostra vita terrena significa scopo di essa o finalità secondo cui Dio ci ha posti
su questa terra. Riflettere ragionevolmente su di essa significa non solo
conoscere chiaramente questo fine, ma anche trovare in tutte le circostanze della
nostra vita i mezzi più adatti per raggiungerlo.
Questa, dicevo, sarebbe la vera istruzione della donna e l’unica filosofia che
le convenga.
La tua destinazione, cara amica, o più generalmente la destinazione della
donna, è fuori di ogni dubbio e palese; quale altra infatti potrebbe essere se non
questa, di divenire madre e di allevare per il mondo uomini virtuosi?
E ben per voi che il vostro destino sia così semplice e limitato! Per mezzo
vostro è soltanto la natura a voler raggiungere i propri fini, mentre attraverso noi
uomini anche lo stato vuole raggiungere i propri, e di qui sorgono spesso le più
sciagurate contraddizioni.
(Proseguirò una prossima volta).
18, pomeriggio.
Vorrei trattenere questa lettera fino a domani perché domani spero proprio di
riceverne una tua, anzi ne sono certo. Ma già da sei giorni non ho spedito
nessuna lettera per te, e della tua quiete non c’è da fidarsi molto… Fanciulla!
Fanciulla!
Lo sai? Può darsi che le lettere passino con tanta difficoltà proprio attraverso
Bayreuth. Scrivimene una subito e indirizzala a W rzburg via Duderstadt. Forse
andrà meglio.
Quando penso che anche tu potresti non aver ricevuto tutte le mie lettere e
avermi reputato infedele, mentre ero legato a te da una così profonda fedeltà…
oh Dio!
Anche da Ulrica non ho ricevuto ancora nulla. Diglielo. Ma che non mandi
per ora una circolare di ricerca!
E ora ti comunico una novità. L’armistizio era scaduto ieri per la seconda
volta. Qui si aspettano i francesi di giorno in giorno. Si dice però che truppe
imperiali siano in arrivo. La fortezza dovrebbe essere tenuta ancora. Ma tu sta’
tranquilla per me. Questo mutamento non può esercitare più alcun influsso
sull’attuazione del mio progetto, che ormai posso considerare quasi realizzato.
Devo però rimanere qui ancora qualche tempo e verso la guerra non sarò che uno
spettatore neutrale. Addio. Bacio la cara mano che un giorno dirò mia.
Il tuo amico H. K.
SPEDITO
1. Lettera da Berlino
2. Lettera da Pasewalk
3. Lettera da Berlino
4. Lettera da Berlino
5. Lettera da Lipsia
6. Lettera da Dresda
7. Lettera da Reichenbach
8. Lettera da Bayreuth
9. Lettera da W rzburg
10. Lettera da W rzburg
e questa.
RICEVUTO
2 lettere.
W rzburg, 19 (- 23) settembre 1800.
E ancora nessuna notizia tua, mia “cara” amica? Non esiste un messo che
possa portarmi una tua riga? Non esiste più tra noi alcun collegamento, alcuna
via, alcun ponte? E’ forse sprofondato tra noi un abisso, al punto che i paesi non
si tendono più le braccia, cioè le strade maestre? T’hanno dunque rapita da
questa terra, se nessun pensiero mi giunge più da te, come da un altro mondo? O
si è frapposto fra noi un qualche mostro della diffidenza per strapparmi dal tuo
cuore? E vi è riuscito, veramente riuscito? Oh, Guglielmina, non conto dunque
più nulla per te? Non hai più stima di me? Hai già condannato questo mio
viaggio del quale ancora non conosci lo scopo? Ah, ti perdono…. Soffrirai
abbastanza per il tuo pentimento… non vogli o renderti ancora più infelice con il
mio rancore. Torna indietro, cara fanciulla! Se hai voluto staccarti da me per
diffidenza, abbandona codesta idea, ora che un sole sta per sorgere al mio
orizzonte. Come mi guarderesti tra breve, con tristezza e malinconia, se ti fossi
separata da me proprio nel momento in cui ero più degno del tuo amore!
Come ti sentiresti umiliata se io sorgessi davanti ai tuoi occhi ornato con il
lauro della mia azione! Questo non lo potresti tollerare!… Torna indietro, cara
fanciulla. Ti perdonerò tutto.
Unisciti nuovamente a me, fallo con cieca fiducia. Ancora non sai chi stringi
fra le braccia,… ma presto, presto! E il cuore ti tremerà quando guarderai dentro
al mio, te lo prometto.
Hai mai visto sorgere il sole sopra una regione in cui eri giunta nelle tenebre
notturne? Io sì. Tre anni fa, ad Harz. A mezzanotte ero salito sullo Stufenberg
dietro Gernrode. Stavo lì, rabbrividendo, tra le forme notturne come tra pietre
tombali, e fredda mi alitava in volto la notte come uno spettro, e deserto mi
pareva il monte come un cimitero. Ma fui in errore solo fin tanto che le tenebre
regnarono sopra di me. Quando infatti il sole sorse dietro ai monti e riversò la
sua luce sulle amene campagne e fece scendere i suoi raggi sulle valli
verdeggianti incoronò di bagliori le cime dei monti e tinse dei suoi colori i petali
dei fiori e i germogli degli alberi… oh, allora il cuore mi balzò nel petto, poiché
vidi e udii e sentii e percepii con tutti i sensi che un paradiso si apriva di fronte a
me. Qualcosa di simile ti prometto per quando il sole sorgerà sopra il tuo
incomprensibile amico.
Talvolta… Non so se ti sia mai accaduto qualcosa di simile e se ti sia quindi
possibile credermi. Ma talvolta, quando nel crepuscolo cammino solitario
incontro al soffio del vento di ponente, soprattutto se chiudo gli occhi, sento
autentici concerti, completi, con tutti gli strumenti, dal tenero flauto al rombante
contrabbasso. Così mi ricordo in modo particolare di quando, ragazzo, nove anni
fa, risalivo il Reno e camminavo contro il vento della sera e le onde dell’aria e
dell’acqua rumoreggiavano intorno a me, e all’improvviso udii uno struggente
adagio con tutto il fascino della musica, con tutte le frasi melodiche e l’armonia
dell’accompagnamento. Era un effetto come d’orchestra, un intero “Vaux-hall”;
anzi credo persino che tutto quanto i savi della Grecia concepirono sull’armonia
delle sfere non sia stato più tenero, più bello, più celestiale di quella strana
fantasticheria.
E questo concerto me lo posso ripetere senza orchestra a mio piacimento…
ma non appena sorge un “pensiero”, tutto svanisce per incanto, quasi spazzato
via dal magico ““disparois!””, melodia, armonia, suono, tutta insomma la musica
delle sfere.
Così talvolta rimango alla finestra quando il crepuscolo invade la via, e apro
i vetri e i polmoni all’aria serale che irrompe, e chiudo gli occhi e lascio
trascorrere il suo respiro nei miei capelli, e non penso a nulla, e resto in ascolto.
Oh, se tu mi potessi portare una voce di “lei”, alitante messaggero d’amore! Oh,
se a queste due domande: Vive? Mi ama? tu potessi sussurrarmi un sì sommesso.
Queste cose “penso”, ed ecco tutta l’orchestra sonante scompare, nulla più si ode
se non i rintocchi della campana che invita alla preghiera dai campanili della
cattedrale.
Domani, penso allora, domani giungerà un messaggero più fedele di te!
Se anche non ha le ali per volare veloce come te, porta però sulla giubba
gialla l’aquila bicipite dell’imperatore, che lo rende fedele e puntuale e sicuro.
Ma spunta l’indomani e non giunge nessuno, né il messaggero d’amore né il
corriere dell’imperatore.
Buona notte. Domani più a lungo. Voglio scriverti e non smettere finché tu
non mi scriva che non vuoi più leggere le mie lettere.
Sono le 12 di notte. Un’altra volta ti dirò perché ho scritto a un’ora così
tarda. Buona notte, amata fanciulla.
20 settembre.
Sapessi almeno se tutte le mie lettere sono giunte puntualmente nelle mani
tue e di nessun’altra persona, se anche questa giungerà nelle tue mani senza
essere stata aperta prima da qualche curioso; potrei così comunicarti cose che,
pur senza darti ancora una spiegazione, ti fornirebbero però materia per giuste
supposizioni. Sempre, a ogni lettera, è come se avessi il presentimento che sia
scritta invano, che vada perduta, che un estraneo l’apra, e così via non potrebbe
infatti accadere alle mie lettere ciò che accade alle tue? Come saresti allora
indignata di quest’uomo trascurato, infedele, che ha dimenticato l’amata appena
uscito dalle sue mura, non sapendo che in ogni città, in ogni luogo ti ha pensato,
anzi, che tutto il suo viaggio non fu altro che un lungo pensiero di te! Ma quando
penso che questo foglio sul quale sto scrivendo, che è sotto le mie mani, davanti
ai miei occhi, sarà un giorno nelle tue mani, davanti ai tuoi occhi, lo bacio, in
segreto, affinché Brockes non veda, e lo ribacio, il caro foglio, che forse anche tu
porterai alle labbra… e mi illudo che siano già davvero le tue labbra… Poiché,
quando chiudo gli occhi, posso immaginare ciò che desidero.
Voglio scriverti qualcosa della vita che qui conduco, e se da ciò tu dovessi
“intuire qualcosa”, sia pure… Non spedisco infatti questa lettera prima di aver
ricevuto notizie tue, e di poter quindi giudicare se tu sia degna o meno della mia
confidenza.
In primo luogo devo informarti che non mi sono fermato nell’albergo che mi
accolse all’arrivo. Non appena fui certo di non dovermi recare a Strasburgo,
prevedendo che; avrei dovuto trattenermi qui per alcune settimane, presi in
affitto un appartamento insieme a Brockes, per evitare l’albergo troppo caro.
Benché infatti in complesso non abbia temuto le spese di questo viaggio, e
anzi avrei sacrificato volentieri al suo scopo dieci volte tanto e più ancora,
cerchiamo però, nei particolari, di realizzarlo al minor prezzo possibile. Ma pur
avendo entrambi la volontà di risparmiare, in fondo non ne siamo capaci, né
Brockes né io. Per riuscirci bisognerebbe valutare di continuo il proprio
vantaggio, badare continuamente al metallo coniato, il che per lo più riesce
arduo ai giovani di sangue caldo, soprattutto quando in viaggio hanno davanti
agli occhi il grande conio della natura. Ma anche le inezie, se troppo trascurate,
si vendicano e sono quindi fermamente risoluto ad abituarmi a prestare maggiore
attenzione al denaro. Mi è molto prezioso aver trovato in te una fanciulla amante
dell’ordine, che non rifugge neppure da questa piccola incombenza. E la
divideremo fra noi.
Nelle grandi amministrazioni è necessario tenere i conti. In grande li deve
tenere l’uomo, in piccolo la donna. L’ordine non è il suo unico vantaggio. Se
ogni giorno si tirano le somme della propria crescente felicità, il piacere di
accrescerla va aumentando e alla fine la felicità diviene realmente più grande.
Sono certo che molti hanno messo da parte migliaia di talleri perché il calcolo
del primo che risparmiarono e misero a frutto fu per loro motivo di gioia.
Ma facciamo un passo indietro. Abbiamo dunque lasciato il nostro magnifico
albergo per una casetta nascosta che tu certo non saresti capace di trovare se non
te la indicassi. E’ una casa d’angolo, stretta su tre lati da case molto vicine, tetre
come le persone che vi abitano. Come indicazione generale, risalendo fino alla
botte di Diogene, si potrebbe concludere che l’esterno delle case esprime il
carattere dei loro inquilini. Qui, per esempio, ogni casa ha un gran numero di
porte, e molto vi potrebbe entrare; ma sono chiuse, tranne una, e anche questa è
aperta soltanto al curatore d’anime (o …) e a pochi altri. Così le case hanno
anche una grande abbondanza di finestre, anzi si potrebbe dire che la facciata è
tutta una grande finestra, e di lì potrebbe entrare certamente abbastanza luce
diurna se non sorgesse proprio di fronte una chiesa alta o un convento, per cui la
notte regna eterna… all’incirca come nei proprietari. La nostra camera è però
piuttosto luminosa. Abbiamo la stanza d’angolo con quattro finestre su due lati.
A Roma c’era un uomo che abitava tra pareti di vetro per avere l’intera città
come testimone delle sue azioni. Qui tutta W rzburg potrebbe essere testimone
delle nostre, se non ci fossero quelle gesuitiche persiane, dalle quali si può
benissimo guardar fuori senza che dal di fuori si possa guardare dentro.
Avendo visitato quasi totalmente questa città, ora restiamo molto in casa,
Brockes e io e leggiamo e scriviamo, e in ciò i libri scientifici portati da
Francoforte mi sono non poco utili. Della noia, che non ho mai provato, non so
dunque nulla neppure qui. La noia non è altro che l’assenza di ogni pensiero o,
più precisamente, la coscienza di essere privi di idee che ci interessino. Questo
non può accadere a un uomo pensante fin quando ancora esistono per lui delle
cose nel mondo; a ogni soggetto, infatti, per quanto sia apparentemente futile, si
possono associare pensieri interessanti e in ciò consiste appunto l’ingegno dei
poeti, che non vivono in Arcadia nello stesso modo in cui non ci viviamo noi,
ma sanno scoprire gli elementi arcadici o, in genere, interessanti, anche nelle
realtà più comuni che ci circondano.
Quando non abbiamo altre occupazioni ci affacciamo alla finestra facendo
commenti sui passanti, ma benevoli, poiché non dimentichiamo che quando
siamo noi a passare per la strada le parti si scambiano e gli attori criticati
diventano spettatori criticanti e viceversa.
Interessante è soprattutto il mercato del sabato: i provvedimenti che sono
necessari per garantire ai cittadini gli approvvigionamenti di una settimana, il
contrasto dei vantaggi, in quanto ognuno cerca di comperare possibilmente a
buon mercato e di vendere possibilmente caro, e anche la donna all’angolo con
intorno un branco di oche dalle zampe legate, simile a una governante francese
con le sue signorine, le quali talvolta hanno anch’esse le mani legate, eccetera,
eccetera.
In questa casa ci troviamo benissimo. Ci serve una ragazza con soave
cortesia e si preoccupa per noi quasi fossimo suoi fratelli; ci porta frutta senza
accettare assolutamente denaro, e altre cose oltre a questa. E quando gli esseri
che abbiamo intorno ci piacciono, ci piace l’intera umanità. Non esiste virtù più
femminile che quella di pensare al bene altrui; per contro non vi è nulla che
renda la donna brutta e quasi simile a un gatto quanto il sordido interesse, e
l’avidità di arraffare per il proprio vantaggio. Certo, questo si può nascondere;
ma esiste una divina bontà della donna, quella di stringere a sé, di custodire nel
cuore e di proteggere “tutto quanto” le si avvicina, come il sole (che chiamiamo
“regina”, non re) (22) attrae tutte le stelle che si librano entro il suo raggio
d’azione, con dolci invisibili legami, e le fa ruotare intorno a sé in lieti circoli
donando loro luce e calore e vita.
Ma tutto questo non si può imparare…
Buon riposo, Guglielmina. Sono nuovamente le dodici della notte.
23 settembre.
Finalmente, finalmente… ecco, tu vivi e mi ami ancora. E’ scritto in questa
lettera, la prima che ricevo da te dopo tre settimane. E’ la tua risposta alla mia
lettera da Dresda:
SPEDITO
1. Lettera da Berlino
2. Lettera da Pasewalk
3. Lettera da Berlino
4. Lettera da Berlino
5. Lettera da Lipsia
6. Lettera da Dresda
7. Lettera da Reichenbach
8. Lettera da Bayreuth
9. Lettera da W rzburg
10. Lettera da W rzburg
11. Lettera da W rzburg
e questa dodicesima.
RICEVUTO
3 lettere
Anche le tue lettere da Vienna arriveranno certamente presto.
Che tu sia andata a Berlino mi fa molto piacere, se speri di trovarvi maggior
calma che a Francoforte; sii serena, giacché ormai il buon esito della mia
impresa non deve più farti stare in ansia. Però sii anche ragionevole e ritorna
senza ripugnanza al luogo in cui dovrai pur vivere ancora a lungo senza di me.
C’è miele in ogni fiore, gioia in ogni luogo, solo bisogna, come l’ape, saperlo
trovare. E dove potrebbe fiorire per te con maggior certezza se non nel luogo che
fu il teatro del nostro primo amore e dove abitano la tua stessa famiglia e la mia?
Ma di questo ti scriverò nuovamente. Cerca di utilizzare il tuo mutamento di
domicilio nel miglior modo possibile. Per un po’
Berlino può piacere, a lungo andare no, almeno non a me… salvo che non
fossimo insieme, giacché questo non l’ho ancora sperimentato.
Addio. Mantieni la parola e ritorna a Francoforte entro il termine stabilito.
Lo farò anch’io. Sta’ bene e attendi con gioia la prossima lettera, giacché, se
tutto non m’inganna…
W rzburg, 10 (e 11) ottobre 1800.
Cara Guglielmina! Oggi pensi certamente a me, come io ho pensato a te
durante tutto il 18 agosto, non è forse vero? Con quanto fervore ti penso in
questo stesso momento! E quale indescrivibile godimento è per me la
convinzione che ora, in questo esatto istante, i nostri pensieri s’incontrano! Sì,
oggi è il mio compleanno, e mi sembra di udire gli auguri che il tuo cuore
formula tacitamente per me, di sentire la stretta della tua mano che me li
trasmette. Sì, i tuoi auguri si avvereranno, sii certa di questo come io lo sono. Se
un re ci augura un’onorificenza, non vuol forse dire che ce la promette? Egli
stesso ha nella sua mano la realizzazione del suo augurio… così anche tu, cara
fanciulla. Tutto quello che chiamo “felicità”, non mi può giungere che dalla tua
mano; e se questa felicità me l’auguri “tu”, posso guardare serenamente al
futuro, perché l’otterrò di certo. Amore e cultura, ecco tutto ciò che desidero, e
come sono lieto che l’adempimento di queste due ineludibili esigenze, senza le
quali ora non potrei più essere felice, non dipenda dal cielo che, com’è noto,
lascia così spesso inappagati i desideri dei miseri mortali, ma unicamente da te.
La mia ultima lettera, che scrissi al principio di questo mese e che oserei
definire capitale, se non dovesse apparirne presto una seconda ancora più
importante… l’hai ricevuta, vero? Forse l’hai ricevuta in questi giorni, forse la
ricevi in questo istante… Oh, potessi essere accanto a te, potessi commentarti
questa lettera incomprensibile, potessi preservarti dai malintesi, soffocare ogni
moto irritato del tuo sentimento, immediatamente, nell’istante stesso in cui
sorgesse…
Non essere in collera, cara fanciulla, prima di comprendermi pienamente. Se
ho peccato contro di te, ho anche espiato con i più dolorosi sacrifici. Lasciami la
speranza di un tuo perdono, e io troverò il coraggio di confessarti ogni cosa.
Ascolta prima la mia confessione, e sono certo che dopo non sarai più in collera
con me.
In quella lettera ti promettevo che sarei partito da qui entro otto giorni o ti
avrei scritto. Il termine è passato e la prima cosa non è stata ancora possibile.
Non inquietarti: la partenza può avvenire domani o posdomani e sempre attendo
che mi giunga qualcosa di cui sono ancora in attesa. In seguito mi spiegherò più
chiaramente; per ora lascia perdere. Ma desidero mantenere la mia promessa e
farti avere, se non me stesso, almeno una lettera. Accontentati per ora di questo:
ben presto il postale mi porterà sino a te.
Ma del nostro principale argomento non ti posso scrivere di più per ora,
prima di sapere come hai accolto la mia ultima lettera. Dunque parliamo d’altro.
La mia anima assomiglia alla scrivania d’un filosofo che ha escogitato un
nuovo sistema e ha scritto alcuni pensieri fondamentali su fogli sparsi. Una
grande idea… per te Guglielmina, si libra incessante dinanzi alla mia anima! Te
ne ho comunicato il pensiero fondamentale già alla fine della mia ultima lettera e
anche prima, su un foglio a parte. Non l’avrai forse dimenticato?
Ti pregai un giorno di scrivere per me che cosa veramente ti riprometti dalla
felicità di un futuro matrimonio… Non indovini perché? Ma come lo potresti
intuire? Aspetto con grande desiderio questo saggio, che ancora non ho ricevuto
da Vienna. Il primo foglio che mi hai consegnato e che mi procurò una gioia
ineffabile, sia pur agrodolce, mi fece fuggire dalle tue braccia e affrettare la
partenza.
Ricordi ancora con quanta commozione lo lessi il giorno prima della nostra
separazione e con quanta inquietudine me lo portai a casa… e sai forse anche
quali fossero i miei sentimenti quando mi trovai solo con quel foglio? Esso
proiettò il mio cuore verso di te, ma nello stesso tempo mi respinse
irrevocabilmente dalle tue braccia… Ora, quando lo rileggerò, mi riporterà a te.
Allora non ero degno di te, oggi lo sono. Allora piansi, perché eri così buona,
così nobile, così degna di stima, così degna della massima felicità: ora tutto
questo sarà il mio orgoglio e la mia delizia. Allora ero tormentato dalla
coscienza di non essere in grado di appagare le tue più sacre esigenze, e ora,
ora… Ma silenzio!
Ora, Guglielmina, ti dirò a mia volta cosa mi riprometto dalla felicità di un
futuro matrimonio. In precedenza non potevo farlo, ma adesso… Oh Dio, come
ne sono contento! Ti descriverò la moglie che può rendermi felice… e questo è il
grande progetto che ho concepito per te. L’impresa è grande, ma lo è anche il
fine. A questo dedicherò ogni ora che i miei futuri doveri mi lasceranno libera.
Ciò conferirà alla mia vita un fascino, nuovo e farà superare ad entrambi più
rapidamente il periodo di prova che ci attende. Fra cinque anni spero che l’opera
sia compiuta.
Non temere che la moglie da me descritta non appartenga a questa terra e che
io possa trovarla soltanto in paradiso. Fra cinque anni l’incontrerò su questa terra
e la stringerò fra le mie braccia mortali… Non chiederò al giglio di salire in
altezza quanto il cedro, né fisserò alla colomba la meta dell’aquila. Non scolpirò
una statua di tela né dipingerò sul marmo. Conosco la materia che ho a
disposizione e so quanto se ne possa trarre. E’ un minerale che contiene oro puro
e a me non rimane altro che sceverare il metallo dalla pietra. Il suono, il peso e la
resistenza alla prova del fuoco li ha avuti in dono dalla natura, il sole dell’amore
gli conferirà lustro e splendore, e dopo la separazione del metallo non dovrò far
altro che scaldarmi e illuminarmi ai raggi riflessi dal suo lucido specchio.
Io stesso sento quanto sia scialbo questo linguaggio metaforico in confronto
all’idea che mi anima… Oh, potessi comunicarti almeno un raggio di quel fuoco
che mi fiammeggia dentro! Potessi tu intuire come il pensiero di renderti un
giorno un essere perfetto riscaldi in me ogni forza vitale, muova in me ogni
facoltà, renda viva e attiri ogni mia energia! Tu forse non mi crederai, ma spesso
resto ore e ore a guardare dalla finestra, oppure entro in dieci chiese e visito
questa città in tutte le sue parti, e però non vedo altro che un’unica immagine…
te, Guglielmina, e ai tuoi piedi due creaturine e sulle ginocchia una terza, e ti
ascolto mentre insegni al più piccolo a parlare, al secondo a sentire, al maggiore
a pensare, e vedo come sai trasformare la caparbietà dell’uno in tenacia,
l’arroganza dell’altro in franchezza, la timidezza del terzo in modestia e la
curiosità di tutti in avidità di sapere; vedo come, senza molte parole, insegni con
l’esempio a fare il bene e come con la tua stessa immagine mostri loro che cosa
sia la virtù e quanto essa sia amabile. C’è da stupirsi, Guglielmina, se non riesco
a tradurre in parole questi sentimenti?
Oh, posa dinanzi al tuo seno come uno scudo adamantino questo pensiero: io
sono nata per essere madre! Ogni altro pensiero, ogni altro desiderio sia respinto
da questa corazza impenetrabile. Quale altro fine potrebbe offrirti la terra che
non sia disprezzabile? Essa non ha nulla che possa conferirti valore più di quanto
non sia la formazione di uomini nobili. A questa meta rivolgi le tue più sante
aspirazioni! E’ l’unica cosa per cui la terra potrà un giorno esserti debitrice. Non
congedarti da essa in modo che debba vergognarsi di averti inutilmente nutrita
durante una generazione! Disprezza i volgari scopi dell’esistenza. Questo solo
potrà sollevarti al di sopra di tutti. In esso scoprirai la tua vera felicità, tutti gli
altri non potrebbero che soddisfarti per qualche istante. E saprà ispirarti rispetto
per te stessa, mentre ogni altra cosa non potrebbe che adulare la tua vanità; e
quando un giorno sarai giunta alla meta, riandrai a te stessa, alla tua giovinezza e
non rimpiangerai in ore amare di solitudine, come mille altre creature infelici del
tuo sesso, il fine perduto e la perduta felicità.
Cara Guglielmina, non voglio che tu smetta di agghindarti o di frequentare
compagnie allegre o feste da ballo, ma vorrei soltanto istillare nella tua anima il
pensiero che esistono gioie più elevate di quelle che ci sorridono dallo specchio
o dalla sala da ballo. Il sentimento di essere belli “interiormente” e l’immagine
che lo specchio della coscienza ci rimanda nelle ore della solitudine sono gli
unici godimenti che possono appagare il nostro ardente desiderio di felicità.
Possa questo pensiero accompagnarti a ogni tuo passo: davanti allo specchio,
in società, nella sala da ballo. Offri pure alla moda o, diciamo meglio, al gusto, i
piccoli sacrifici che esso richiede, non proprio a torto, da giovani fanciulle, cerca
pure di farti bella, chiedi allo specchio se la tua fatica è riuscita, ma fallo in fretta
e ritorna il più presto possibile al tuo fine supremo. Frequenta pure la sala da
ballo, ma sii lieta quando ritorni da un divertimento in cui soltanto i piedi hanno
avuto il loro tornaconto, mentre il cuore e la mente hanno cessato del tutto di
palpitare e la coscienza era, per così dire, spenta. Frequenta le gaie compagnie,
ma ricerca sempre le conversazioni migliori e più nobili, da cui puoi imparare
qualche cosa… poiché questo non devi trascurare in alcun momento della vita.
Ogni minuto, ogni persona, ogni oggetto può darti un utile insegnamento, a
patto che tu poi sappia metterlo a frutto. Ma di questo argomento ti parlerò più a
lungo un’altra volta.
Avanziamo dunque insieme, tenendoci per mano, incontro alla nostra meta,
ognuno verso la propria, che è la più vicina, e entrambi incontro all’ultima, alla
quale entrambi aspiriamo. La tua meta prossima sia quella di prepararti ad essere
madre, la mia quella di divenire un cittadino dello stato, e la meta più lontana,
alla quale tendiamo entrambi e che possiamo reciprocamente assicurarci, sia la
felicità dell’amore.
Buona notte, Guglielmina, un giorno mia sposa e madre dei miei figlioli!
11 ottobre.
Non voglio che questa lettera diventi simile a un libro come la precedente, e
ti comunicherò quindi brevemente solo qualche notizia prima che parta la posta.
Adesso la regione che circonda questa città mi sembra molto più piacevole di
quanto mi apparve al mio arrivo; anzi direi quasi che mi sembra bella, e non so
dire se sia mutato il paesaggio o il cuore che provò quell’impressione. Adesso,
quando mi soffermo sul ponte di pietra che attraversa il Meno e separa il castello
dalla città, e osservo il fiume che scorre verso di me serpeggiando tra monti e
prati sino ai miei piedi, ho come l’impressione di essere al di sopra della vita. E
così indugio spesso di sera sopra questi archi e lascio che le correnti dell’aria e
dell’acqua sussurrino intorno a me. Oppure mi volgo indietro e seguo il corso del
fiume fin dove si perde fra i monti, e io stesso mi perdo in taciti pensieri.
Soprattutto uno spettacolo attira la mia attenzione. Dal ponte il Meno scorre in
linea diretta, rapido come una freccia, quasi avesse già in vista la meta, come se
nulla dovesse trattenerlo dal raggiungerla, come se, impaziente, volesse toccarla
per la via più breve… e però un colle coperto di vigneti flette il suo corso
impetuoso, dolcemente ma con ferma intenzione, come una sposa la volontà
irruenta del marito, e con nobile fermezza gli addita la via che lo condurrà al
mare - ed esso accetta il discreto monito e obbedisce all’amichevole ingiunzione
e abbandona la volontà di precipitarsi sulla meta, e non perfora il colle coperto di
vigne, ma lo aggira baciandogli nel corso più calmo i piedi fioriti (23).
Persino dal monte dal quale vidi W rzburg per la prima volta la città mi piace
e direi quasi che questa parte è più bella di ogni altra. La vidi ultimamente da
questa cima nelle prime ombre della sera, non senza intima letizia. L’altura
scende con dolce declivio e la città si stende sul fondo. Catene di monti le
sorgono alle spalle a semicerchio e si avvicinano quasi volessero stringersi le
mani come due vecchi amici che anticamente si offesero… ma il Meno
s’interpone fra loro come un amaro ricordo, ed essi esitano, e nessuno osa
passare di là per primo, ed entrambi seguono lentamente il fiume che si
allontana, scambiandosi sguardi malinconici oltre l’ostacolo…
Nel fondo, ho detto, giaceva la città come al centro di un anfiteatro.
Le terrazze dei monti circostanti erano come palchetti, creature d’ogni specie
l’ammiravano con gioia come spettatori e cantavano e applaudivano, mentre in
alto, nel palco del cielo, stava Iddio. Dalla volta del grande teatro scendeva il
lampadario del sole e si celava dietro la terra, essendo quello un dramma
notturno. Un velo azzurro avvolgeva tutta la regione; pareva che la volta del
cielo fosse calata sulla terra. Le case nel fondo sorgevano come masse oscure,
quasi gusci di chiocciole; ma alte nell’aria notturna si elevavano le cime dei
campanili come le antenne di un insetto, e il suono delle campane squillava
come il richiamo rauco del grillo… e nello sfondo il sole moriva, ma ardendo
incandescente per la gioia come un eroe, e la pallida luce zodiacale gli vibrava
intorno come un’aureola intorno alla testa di un santo…
Ieri l’altro sono uscito per scalare un secondo monte sul versante
settentrionale. Era una montagna coperta di vigne e uno stretto sentiero saliva
sino alla vetta attraverso viti benedette. Non avevo immaginato che il monte
fosse così alto, e forse non lo era nemmeno, ma dai vigneti avevano buttato tutte
le pietre a destra e a sinistra su quel sentiero per rendere più difficile la salita…
esattamente come la sorte o gli uomini mi resero arduo il cammino verso la meta
che pure ho raggiunto. A questa evidente somiglianza mi misi a ridere.
Cara fanciulla, tu non sai ancora tutto quanto mi è capitato a Berlino, a
Dresda, a Bayreuth e persino qui a W rzburg; tutto ciò richiederà ancora una
lunga lettera. Allora mi adiravo fortemente per le pietre che mi erano state
gettate sul cammino, senza però lasciarmene turbare; versai bensì gocce di
sudore cocente, ma - come ier l’altro - raggiunsi la meta. La salita sui monti,
come la via della virtù, è faticosa soprattutto per la prospettiva che si ha davanti.
Si vede a tre passi di distanza, ma non oltre; non si vedono che i gradini da
superare e appena si è scavalcata una pietra, se ne trova subito un’altra, e ogni
passo falso fa doppiamente male e tutta la fatica è, per così dire, ruminata.. ma
bisogna pensare alla visione che si potrà contemplare dalla cima. Com’era
stupendo il panorama della valle del Meno da quell’altezza! Colline e valli e
acque, e città e villaggi si fondevano come in un tappeto ricamato! Il Meno si
volgeva ora a destra ora a sinistra, lambiva ora questo ora quel vigneto, ed era
incerto fra le due sponde, che gli parevano ugualmente care, come un bimbo tra
babbo e mamma. La rocca sorvegliava la città e la custodiva, come un gigante il
suo gioiello, e lungo le fortificazioni esterne serpeggiava una stradicciuola come
una spia, e si insinuava in ogni bastione quasi volesse esplorarlo, ma non osava
entrare in città, preferendo perdersi fra i monti…
Ma nessun fenomeno della natura mi procura una gioia malinconica come la
bufera mattutina, specialmente quando i tuoni sono cessati. Qui abbiamo avuto
un simile spettacolo alcuni giorni fa. Oh, è stata una scena stupenda! A occidente
si era addensato il temporale notturno e infuriava come un tiranno e da oriente il
sole sorgeva placido e silenzioso come un eroe. La tempesta lanciava folgori
sibilanti contro di lui e lo rimproverava con la voce tonante, ma l’astro divino
taceva e saliva e guardava maestoso la nebbia mobile ai suoi piedi e cercava
benevolo gli altri soli che lo circondavano, quasi volesse rincuorare degli amici.
Poi la bufera gli lanciò contro un ultimo tuono tremendo, come volesse vomitare
in una scintilla tutta la sua provvista di fiele e bava velenosa, però il sole non
vacillò nella sua orbita e si avvicinò impavido e salì sul trono del cielo - e,
pallida come di spavento, la nuvolaglia notturna si stinse e si dissolse come fumo
sottile e sprofondò sotto l’orizzonte mormorando deboli imprecazioni…
Ma quale giornata seguì quella mattina! Correnti d’aria tiepida mi alitavano
incontro, le fronde sussurravano lievi grosse gocce precipitavano a lunghi
intervalli dagli alberi una luce scialba si era riversata sulla regione, e tutta la
natura pareva spossata da quello sforzo immane, come un eroe dopo la fatica del
combattimento. Ma ho detto che non volevo scrivere un libro, e perciò chiudo
immediatamente. Scrivimi “se puoi perdonarmi” e manda la lettera a Carlo,
affinché io la riceva subito al mio arrivo a Berlino. Poi ti scriverò più a lungo.
H. K.
Berlino, 13 novembre 1800.
Cara Guglielmina, la tua lettera mi ha donato una gioia veramente
straordinaria. Poiché rispondi a tal punto ai miei desideri, poiché partecipi così
intimamente al mio interesse… oh, certamente ne sarai ricompensata un giorno!
Proprio lungo questo cammino su cui abbandoni tutto ciò che solitamente alletta
le donne, onori, ricchezza, agiatezza, proprio su questo cammino troverai tanto
più sicuramente un bene diverso, che ha un valore assai superiore a tutto questo:
“amore”. Dove infatti ci sono anche altri godimenti, il cuore si divide, ma
dove non esiste altro che amore, l’intero essere gli si apre ed esso abbraccia tutta
la sua felicità ed esaurisce tutti i suoi infiniti godimenti… sì, certamente,
Guglielmina, un giorno sarai felice.
Ma non vogliamo abbandonarci soltanto a liete fantasie. E’ vero, se
immagino l’amena valle che un giorno ospiterà la nostra capanna, e me in questa
capanna e te e le scienze e nient’altro, oh, allora ho in dispregio tutti gli onori e
tutte le ricchezze, allora mi sembra che nulla possa rendermi felice se non la
realizzazione di questo desiderio e che senza indugiare oltre io debba balzare per
conquistarlo. Ma anche la ragione ha diritto alla parola e ora vogliamo ascoltare
ciò che essa dice. Esaminiamo dunque ragionevolmente l’intera questione.
Non voglio assumere un impiego. Perché non lo voglio? Oh quante risposte
mi salgono nell’animo! Io non posso occuparmi di un affare che non mi è lecito
prendere in esame con la mia ragione. Devo fare ciò che lo stato esige da me e
tuttavia non devo indagare se ciò che esige è bene. Devo essere mero strumento
dei suoi fini sconosciuti: no, non posso. Vedo davanti a me un fine mio proprio, e
secondo questo dovrei agire, e se lo stato vuole altrimenti, mi deve esser lecito
non obbedire allo stato. Istigherei il mio orgoglio nel far valere le sentenze della
mia ragione contro la volontà dei superiori: no, Guglielmina, non è possibile, io
non sono adatto ad alcun impiego. E
sono realmente troppo maldestro per assolverlo. L’ordine, la precisione, la
pazienza, l’assiduità sono qualità indispensabili in un impiego e a me mancano
totalmente. Io lavoro volentieri soltanto per la mia cultura e in questo sono
insuperabilmente paziente e assiduo.
Ma scrivere elenchi di stipendi e far conteggi… ah, mi affretterei soltanto a
portarli a termine per ritornare alle mie scienze dilette.
Ruberei il tempo all’impiego per dedicarlo alla mia cultura… No,
Guglielmina, non è possibile, non è possibile. E poi sono troppo inabile per
trovarmi un impiego. Poiché mi basta acquisire realmente conoscenze, poco
m’importa che altri le notino in me. Metterle in mostra od offrirle in vendita mi
sarebbe assolutamente impossibile…
e forse si favorirebbe colui che ha l’orgoglio di fare a meno di ogni favore,
colui che non vuol salire con altra intercessione che non sia quella dei propri
meriti? Ma il punto decisivo è questo: che nessun impiego, fosse anche un
incarico di ministro, può rendermi felice. Non me, Guglielmina, poiché una cosa
è certa: o io sarò felice nella mia casa o non lo sarò mai, né ai balli, né all’opera,
né in società, fosse pure la società dei principi, fosse pure quella del nostro Re…
e dovrei forse diventar ministro per godere la felicità domestica?
Vorrei forse seppellirmi in una capitale e avventurarmi in un caos di
situazioni intricate per vivere calmo e sereno a fianco della mia donna? Vorrei
forse acquistare onori e fregiarmi di decorazioni per farne sfoggio davanti a mia
moglie e ai miei figli? E non voglio parlare della libertà, giacché un’altra volta
su questo sollevasti obiezioni, sebbene, come tutte le donne, tu non possa
comprendere pienamente simili valori; in ogni caso però amore e cultura sono
due indispensabili condizioni della mia felicità futura… e quanto potrei averne,
qualora m’impiegassi, dell’uno e dell’altra se non al massimo una particella
misera e scarsa? Nel momento in cui volessi dedicarmi alle scienze, il segretario
verrebbe a portarmi un pacco di atti, e quando intendessi seguire un grande
pensiero, l’usciere verrebbe a dirmi che l’anticamera è piena di estranei. E
quando volessi passare la sera con mia moglie, il Re mi convocherebbe, e per
sottrarmi anche le notti, mi farebbe viaggiare nelle province e censire le
fabbriche.
Oh, come maledirei le onorificenze e le ricchezze e tutta la miseria del gran
mondo, come piangerei amaramente per aver fallito irrevocabilmente il mio
destino, con quanta ardente nostalgia mi augurerei un tozzo di pane asciutto e
con esso amore, cultura e libertà!… No, Guglielmina, non devo scegliere un
impiego perché disprezzo tutta la felicità che esso può dare.
Ma mi è poi lecito sottrarmi a ogni ufficio? Oh, Guglielmina, questa
domanda sottile me l’hanno già posta in molti. Si deve essere utili ai propri
concittadini, così dicono e sin qui hanno ragione, e quindi si deve assumere un
impiego, concludono, e in questo hanno torto. Ma come, non si può far del bene
anche se non si è stipendiati appositamente per questo? Basta che io pensi a
Brockes! Quante cose buone, eccellenti compie ogni giorno quest’uomo
meraviglioso. E poi se posso essere sincero anche a costo di apparire immodesto,
durante il mio soggiorno a Francoforte non ho fatto anch’io del bene, e molto,
alle nostre famiglie? Rafforzare negli altri con un tenore di vita irreprensibile la
fede nella virtù, stimolarli all’imitazione con saggi piaceri, aiutare sempre con
bontà e benevolenza il prossimo bisognoso: non significa anche questo fare del
bene? Formare te, mia amata fanciulla, non è una cosa eccellente? E poi, portare
me stesso su un gradino più vicino alla divinità… Oh, lascia, lascia! La meta è di
certo sufficientemente alta e sublime, qui c’è di certo bastante materia per
agire… e se non dovessi trovare il mio posto su questa terra, ne troverò forse uno
di gran lunga migliore su un altro astro.
Ma posso rifiutare un qualsiasi impiego? Voglio dire, è possibile? Oh,
Guglielmina, come mi batte il cuore mentre mi accingo a rispondere a questa
domanda! Ricordi ancora, l’ultima sera, il risultato dei nostri calcoli? Io però
credo ancora… non ho ancora perduto ogni speranza… Ecco, fanciulla, ti dirò
come mi sia venuto il pensiero che deve pur essere possibile. Tu vivi, pensavo, a
Francoforte, io a Berlino, perché non potremmo vivere insieme senza chiedere
“di più”?
Ma l’usanza impone che noi si formi una famiglia e il nostro rango esige che
si viva con decoro. Oh, gli sciagurati pregiudizi! Quanti uomini assaporano la
felicità dell’amore con poco, magari con un paio di centinaia di talleri… e noi
dovremmo rinunciare a questo perché apparteniamo alla nobiltà? Via tutti i
pregiudizi, pensai allora, via la nobiltà, via la posizione sociale: creature buone
vogliamo essere e accontentarci delle gioie che la natura ci dona. Vogliamo
amarci e perfezionarci e per questo non serve molto denaro… ma un poco sì,
“un poco sì”… e quello che abbiamo è forse sufficiente? Ecco, questo è il
grande problema. Se potessimo attendere finché sono in grado o voglio
guadagnare qualcosa, non avremmo bisogno che di pazienza perché questa in
futuro è una cosa certa. Lascia che sia pienamente sincero, cara fanciulla. Voglio
parlarti di me come se parlassi con me stesso.
Qualora il mio discorso ti sembrasse vano, che nuoce? Tu non sei diversa da
me stesso e al tuo cospetto non voglio apparire migliore che al mio stesso
cospetto, né voglio nasconderti le mie debolezze.
Sincerità, dunque, e senza alcuna riserva.
Mi lusingo di possedere molteplici capacità, capacità piuttosto rare, intendo.
Lo credo perché nessuna scienza mi riesce troppo difficile, perché nel loro studio
compio rapidi progressi e riesco sempre ad aggiungervi qualcosa di mia
invenzione… e infine lo credo anche perché tutti me lo confermano. Insomma,
lo credo. Qui mi si aprirebbe in futuro tutto il campo della letteratura. Sento che
in questo lavorerei con grande diletto. Qui le speranze di guadagno sono molto
larghe. Potrei andare a Parigi per trapiantare la filosofia più recente (24) in quel
paese avido di apprendere… ma queste cose tu non le puoi comprendere
pienamente così come io le comprendo. Quindi devi credere alla mia parola, e io
ti garantisco che se mi concedi un paio d’anni di tempo, sei al massimo, avrò
certamente occasione di guadagnar denaro.
Ma fino ad allora dobbiamo vivere separati? Cara Guglielmina, anche su
questo voglio essere totalmente sincero. Io sento che mi è necessario unirmi
“presto” in matrimonio. Neppure a te sarà sfuggita la mia impazienza: devo
cercar di placare questi miei desideri tormentosi che mi sollecitano
continuamente come creditori. Essi mi turbano nelle mie occupazioni… ed è
necessario anche perché io mi mantenga moralmente buono. Ma tu sta’
tranquilla, lo rimarrò certamente. Non avrei però voglia di lottare. Bisogna
rendersi la virtù più facile che sia possibile. Se possedessi una donna, andrei
incontro alla mia meta con tutta tranquillità e sicurezza… ma fino ad allora…
oh, cerca di essere presto, presto, mia moglie.
Questo desidero dunque con tutta l’anima e rinuncio alla splendida miseria
della nobiltà, della posizione sociale, degli onori e della ricchezza, pur di avere il
tuo amore. Se fosse possibile vivere insieme senza penuria per circa sei anni,
fintanto cioè che io possa guadagnare, oh allora sarei realmente felice.
Ma è possibile? Oh cara, ottima fanciulla! Se fosse possibile, lo sarebbe
soltanto per merito tuo. Se il destino mi avesse portato verso un’altra fanciulla
che non fosse così modesta e senza pretese come tu sei, dovrei immancabilmente
reprimere questo mio fervido desiderio. Ma anche tu non vuoi altro che amore e
cultura: da me avrai l’uno e l’altra, del primo assai più di quanto tu possa
chiedere, dell’altra quel tanto che sarò in grado di dare, ma l’uno e l’altra con
gioia.
Attendo con grande ansia le tue valutazioni. Tu puoi esaminare queste cose
meglio di me. Ma non lasciarti sedurre dal tuo amore. Sii avara con me, ma non
con te stessa. Ti giuro che con questa apparente abnegazione non voglio vincerti
in magnanimità. Non opporre dunque inutilmente magnanimità a magnanimità:
ciò non farebbe che confondere il nostro reciproco interesse. Vogliamo essere
veritieri senza eccedere in virtù. Se pretendo meno di te, è un’abnegazione che
non mi costa sacrificio. Sento realmente che ho bisogno di poco e con vero
piacere rinuncerei a qualcosa, se sapessi di renderti più lieta. Lo dico sul serio,
Guglielmina. Lasciami dunque questa gioia. Tu non esigerai il superfluo, ma il
necessario non dovrà mancarti mai, mai, perché questo renderebbe infelice anche
me. Non essere dunque avara con te stessa nel valutare ciò che ti serve. Chiedi
piuttosto più di quanto ti occorre che meno. In seguito potrai sempre donare a
me ciò che non ti serve, ed io lo accetterò sempre con gioia. Se a queste
condizioni non sarà possibile unirci presto… se non sarà
“possibile”, ebbene in tal caso “dovremo” attendere tempi migliori…
ma allora la previsione è buia, molto buia, e la cosa più spaventevole sarebbe
per me di aver ingannato te che mi amavi così fervidamente.
Via da me, via questo orribile pensiero!
Tuttavia conosco ancora un mezzo, se anche il nostro patrimonio non
corrispondesse ai tuoi calcoli. E sarebbe il progetto di guadagnare almeno
qualche centinaio di talleri all’anno con l’insegnamento. Non sorridere e sforzati
di combattere tutti i pregiudizi. Sono fermamente deciso a levarmi di dosso tutta
la nobiltà. Molti uomini hanno incominciato modestamente per concludere poi la
loro carriera in modo regale. Shakespeare era un mozzo di stalla, e ora gode
l’ammirazione dei posteri. Se una forma di onore ti sfugge, te ne potrà toccare
forse un’altra più elevata. Guglielmina, pazienta dieci anni e mi abbraccerai non
senza orgoglio.
Ascolta il progetto che ho elaborato. Noi vivremmo, poniamo, in Francia, per
esempio nella parte meridionale, nella Svizzera francese, la più bella regione
d’Europa, e lì impartirei lezioni di lingua tedesca. Tu sai come gli emigrati siano
da noi sovraccarichi di lezioni; e ancor più questo dovrebbe accadere in Francia
perché là vi sono meno tedeschi, mentre l’Accademia e tutti i dotti francesi
raccomandano istancabilmente lo studio del tedesco, probabilmente perché
hanno capito che in questo momento da nessun popolo della terra c’è tanto da
imparare quanto dal nostro. Il soggiorno in Francia mi sarebbe caro per tre
ragioni: in primo luogo perché a tale distanza mi sarebbe agevole vivere secondo
le mie inclinazioni senza dover ascoltare i consigli di buoni amici che non
comprendono assolutamente né me né la mia vera aspirazione; in secondo luogo
perché potrei vivere in incognito per qualche anno e sarei del tutto dimenticato,
il che mi auguro di cuore, in terzo luogo, e questa è la ragione principale, perché
potrei imparare perfettamente il francese che mi è necessario per il progettato
trapianto della novissima filosofia in quel paese dove è del tutto ancora ignorata.
Scrivimi francamente la tua opinione su questo punto. Ma che nessuno sappia
del progetto! Se tu non fossi la mia futura consorte, nessuno lo avrebbe mai
saputo da me prima della sua attuazione. In ogni caso ti esorto a studiare
diligentemente la lingua francese. Come si possa ottenere il consenso di tuo
padre, te lo dirò in futuro. E se tutto questo non si potrà attuare una cosa
comunque rimarrà certa fino alla morte, cioè il mio amore per te e il tuo amore
per me. Io almeno non concederò mai la mia mano a un’altra fanciulla.
E ora devo concludere. Non mi è più possibile scrivere lettere lunghe come
durante il viaggio perché devo lavorare per te e per me. Eppure avrei ancora
tante cose da dirti, per esempio sulla tua istruzione. Se fossi con te, tutto ciò si
potrebbe fare con maggiore rapidità. Quando ero a Francoforte volevo proporti
di tenere un diario, di scrivere ogni sera ciò che durante il giorno avevi visto,
pensato, udito.
Rifletti a questa proposta e considera se non sia un bene. In questa nostra vita
irrequieta ci rendiamo raramente conto di noi stessi… I pensieri e i sentimenti si
sperdono come una nota di flauto nell’uragano… Numerose esperienze vanno
inutilmente perdute: tutto ciò potrebbe essere evitato con un diario. Con questo
impariamo anche a ottenere felicità da noi stessi e sarebbe bene perché dagli
altri, se si esclude me, riceverai ben poche gioie. Queste cose me le potresti poi
comunicare di tempo in tempo, ma non per questo dovresti esaminarti con meno
rigore non sarò severo - pensa a come tu stessa hai perdonato il mio errore.
Anch’io ti comunicherò nelle mie lettere tutto ciò che mi accade. Addio. Bacio il
tuo ritratto.
H. K.
Berlino, 16 (-18) novembre 1800.
“Per Guglielmina”.
Si racconta di Newton che una volta, mentre passeggiava lungo un viale di
alberi da frutto, una mela si staccò da un ramo e gli cadde dinanzi. Noi due, di
fronte a questo fatto comune e senza importanza, non avremmo avuto nessun
pensiero interessante. Lui invece trasse dalla considerazione della forza che
spinse la mela a cadere una quantità di deduzioni finché, attraverso una catena di
ragionamenti, individuò la legge per cui i corpi celesti si librano nello spazio
infinito.
“Galilei” doveva andare talvolta in chiesa. Può darsi che le chiacchiere del
prete sul pulpito gli sembrassero noiose, e il suo sguardo si fissò sul lampadario
che, toccato da chi l’aveva acceso, continuava ad oscillare. Migliaia di persone,
come il bambino che sente il moto oscillante della culla, a quella vista sarebbero
state vinte dal sonno. Galilei invece, il cui spirito era sempre pregno di grandi
pensieri, ebbe un’improvvisa illuminazione e scoprì la legge del pendolo, legge
sommamente importante nella fisica.
Fu, mi sembra, “Pilƒtre” (25) che un giorno dalla sua stanza osservò il fumo
che saliva turbinando da una ciminiera. Molte persone prima di lui l’avevano
certamente veduto senza attribuirvi importanza. A lui invece accadde di pensare
che quel fumo, che pur saliva con una certa energia, poteva forse essere in grado
di sollevare con sé un certo peso. Egli ne fece l’esperimento e inventò l’arte
della navigazione aerea.
“Colombo” se ne stava su una spiaggia portoghese allorché il vento spinse a
riva un pezzo di legno. Un altro al suo posto non l’avrebbe probabilmente
neppure notato e noi non sapremmo ancora nulla dell’America. Lui, invece, che
osservava sempre attentamente la natura, pensò che quel legno doveva provenire
da una terra, giacché il mare non produce alberi, e così scoprì il quarto
continente.
In una fortezza alla frontiera olandese era imprigionato da molti anni un
detenuto. In prigione, si crede, non si possono compiere osservazioni
interessanti. Ma per lui ogni fenomeno era degno di nota.
Così osservò una certa concordanza tra la mutevole forma delle ragnatele e il
tempo imminente, e in tal modo fu in grado di prevedere infallibilmente le
condizioni atmosferiche. E così a lui dobbiamo una conquista di somma
importanza. Quando, infatti, nella guerra con la Francia l’Olanda fu allagata,
Pichegru avanzò durante l’inverno con un esercito sopra il ghiaccio fin sotto
quella fortezza, ma improvvisamente giunse il disgelo, e il comandante francese
per salvare l’esercito dalla morte per annegamento ordinò di ritirarsi con la
massima rapidità: quel prigioniero allora intervenne e mandò a dire al generale
che poteva rimanere tranquillamente poiché fra due giorni la temperatura
sarebbe ritornata allo zero e dava in pegno la sua testa per l’avverarsi della
profezia… e l’Olanda fu conquistata.
Questi esempi saranno sufficienti per dimostrarti, mia cara fanciulla, che
nella natura non esiste nulla di indifferente e di irrilevante e che tutti i fenomeni
sono degni dell’attenzione di un uomo pensante.
Certo, non pretenderò che con le tue osservazioni tu abbia ad arricchire di
verità le scienze, ma potrai perfezionare la tua mente ed esercitarla in mille modi
osservando con attenzione tutti i fenomeni.
Ecco, cara fanciulla, la raccomandazione che intendo farti con questa lettera.
Sempre più mi convinco che i libri sono cattivi maestri di morale. Ci dicono
ciò che è vero, forse anche ciò che è buono, ma tutto questo non penetra
nell’anima. C’è però una maestra eccellente, se sappiamo comprenderla, ed è la
natura.
Non ti voglio dimostrare questo con inutili chiacchiere, ma preferisco
presentarti alcuni esempi che sono sempre i più efficaci, soprattutto con le
donne.
La sera che precedette il giorno più importante della mia vita, passeggiavo
per W rzburg. Quando il sole fu al tramonto mi parve che tramontasse la mia
felicità. Un brivido mi percorse al pensiero che stavo forse per separarmi da
tutto, da tutto quanto mi è caro.
Allora ritornai assorto in città passando dall’arco della porta.
Perché, pensai, l’arcata non sprofonda dato che è senza appoggio? Sta ritta,
risposi, “perché tutte le pietre vogliono precipitare in una sola volta”; e da questo
pensiero trassi un conforto indicibile e consolante che mi sorresse fino al
momento decisivo con la speranza che anch’io avrei saputo reggermi quando
tutti volevano che cadessi.
Queste cose, mia cara Minetta, non me le avrebbe dette nessun libro e questo
si chiama veramente imparare dalla natura.
Un conforto simile già lo ebbi durante il viaggio a W. (26). Mi trovavo infatti
con le spalle rivolte al sole e potei ammirare a lungo uno splendido arcobaleno.
Così, pensai, c’è sempre un raggio di felicità che scende sulla nostra vita e a chi
volge le spalle al sole e guarda le grigie nuvole temporalesche, l’arcobaleno
dona la sua immagine più bella.
In quella notte stupenda in cui viaggiai da Lipsia a Dresda, pensavo con gioia
malinconica: di giorno vediamo, è vero, la terra, ma quando è notte possiamo
contemplare le stelle.
Ci sono momenti in cui simili messaggi della natura possono deliziarci come
i discorsi amichevoli di un maestro.
18 novembre.
Cerca dunque, da oggi in poi, di prestare molta attenzione a “tutti” i
fenomeni che ti circondano. Nessuno è privo d’importanza: tutti, anche quelli
apparentemente più insignificanti, contengono qualcosa che è degno di nota
purché lo si sappia scorgere. Ma cerca non solo di percepire i fenomeni, bensì di
imparare anche qualcosa da essi. A ogni fenomeno domanda: qual è il suo
significato? e allora la risposta ti arricchirà di qualche utile insegnamento; o se
questo non è possibile, chiedi almeno: a che cosa assomiglia? E allora la
scoperta della similitudine acuirà la tua intelligenza.
Ti voglio illustrare quanto ho detto con alcuni esempi introduttivi.
Se non tieni, come gli animali, la testa china verso “terra”, ma sei in
posizione eretta e puoi guardare verso “cielo”: quale ne è il significato? Prova a
darmi una risposta.
Tu hai due orecchie e una bocca sola. Con le orecchie devi ascoltare, con la
bocca devi parlare. Ti sembra, questa, una cosa del tutto indifferente? Si può
invece trarre un insegnamento molto importante.
Prova a interrogarti su quale sia il significato dell’avere due orecchie e una
bocca. A Troschke (27) la risposta potrebbe far comodo.
Tu da sola canti un’unica “nota”, anch’io da solo canto un’unica
“nota”; se vogliamo udire un “accordo”, dobbiamo cantare insieme. Qual è il
significato di tutto questo?
Se vai a passeggio e guardi verso il sole, tutti gli oggetti ti rivolgono la parte
che è in ombra. Da ciò non si può trarre un insegnamento, ma una similitudine
sì, e molto interessante. Prova dunque a chiederti: a che cosa assomiglia ciò?
Recentemente mi trovai a passare di notte per la K”nigsstrasse. Un uomo mi
venne incontro con una lanterna. Egli illuminava la via per sé, mentre a me la
rendeva ancora più buia. Con quale qualità dell’uomo ha una certa somiglianza
quella lanterna che accecava?
Una ragazza che è innamorata e lo vuol nascondere al mondo, a volte gioca
con il ventaglio in presenza dell’innamorato. Io chiamo quel ventaglio un
telegrafo dell’amore. Perché?
La bufera sradica l’albero ma non la viola, la più lieve brezza della sera fa
reclinare la viola ma non l’albero. A cosa somiglia tutto questo in modo
straordinario?
Queste e simili domande ti devi porre, mia cara Minetta, possibilmente con
frequenza, cercando di trovare le risposte. Argomenti per siffatte domande non ti
potranno mai mancare, purché tu sia molto attenta a tutto ciò che ti circonda. Se
non riesci a rispondere subito alla domanda non credere che la risposta sia
impossibile; ma rimanda la soluzione, perché non devi renderti sgradevole
questo compito che può conferire una grande attrattiva alla nostra esistenza e
accrescere l’importanza di tutte le cose che ci circondano, sino a divenire,
appunto per questo, sommamente piacevole. Il che significa realmente
“far uso” della nostra intelligenza… la possediamo proprio per questo, non ti
sembra?
Quando però ti viene in mente la risposta, annota subito il pensiero in un
quaderno destinato a questo scopo. Dobbiamo infatti custodire ciò che ci siamo
conquistati con i nostri sforzi. In seguito poi ti dirò anche un’altra ragione per
cui è opportuno che tu scriva le risposte.
Dunque, d’ora in poi dovrai rammaricarti, o magari pentirti, di ogni
passeggiata che non ti abbia reso più ricca di almeno un pensiero; se invece
un’intera giornata si consumasse senza questi acquisti morali e se trascorressero
addirittura intere settimane senza simili entrate…
allora… allora… sì, mia cara Minetta, dobbiamo avere un capitale e se non è
denaro, dev’essere cultura, poiché il corpo può anche soffrire la miseria, ma lo
spirito non deve patirla mai, mai… E di che vogliamo vivere se non risparmiamo
per tempo?
Ti prego dunque di dedicarti a questa occupazione il più frequentemente
possibile, persino durante il lavoro. In questo modo il lavoro stesso risulterà
nobilitato, non coinvolgendo soltanto il corpo, ma anche lo spirito. E come ciò
sia possibile, lo vedrai facilmente con un minimo di riflessione.
Se, quando fai la calza, una maglia ti cade dal ferro e prima di continuare tu
la riprendi con cautela, affinché il punto sciolto non sciolga gli altri distruggendo
in tal modo tutta la trama delicata, quale utile insegnamento puoi trarre da questo
per la tua istruzione?
Quando in cucina versi l’acqua bollente in un recipiente freddo e il liquido
ne risulta a sua volta raffreddato, finché le temperature dell’uno e dell’altro
trovano l’equilibrio, quale egregia speranza ne viene per noi due e specialmente
per me, o quale ne è il significato?
Infine, per darti un esempio ricavato dal più umile lavoro: quando lavi
nell’acqua un fazzoletto sporco, quale libro può offrirti un insegnamento così
alto e sublime come questo lavoro? E’ forse necessario qualcosa di più della
pulizia per splendere nel meraviglioso colore dell’innocenza?
Ma il migliore ausilio al tuo pensiero indipendente potrebbe essere offerto da
un libro utile come, per esempio, le “Conversazioni cosmologiche” di W nsch
che ti ho regalato. Se ogni giorno tu lo leggessi anche soltanto per un’ora, ne
avresti due vantaggi: una conoscenza più intima della natura, e materia per i tuoi
stessi pensieri.
Poniamo infatti che tu nel libro trovassi l’affermazione che la superficie
esterna (anteriore) dello specchio non è la parte principale di esso, che anzi
questa è soltanto un male necessario in quanto non fa che confondere la vera
immagine, mentre quel che più conta è la molatura della superficie interna
(posteriore), se vogliamo che l’immagine sia veramente pura e fedele, quale
analogia è possibile stabilire con la molatura di noi stessi, e quale ne è il
significato?
Oppure, se in quel libro trovi espressa la tesi che due lastre di marmo
aderiscono fra loro inseparabilmente solo quando si toccano in ogni loro punto, a
cosa sono paragonabili quelle lastre di marmo?
O che la pianta deve trarre l’alimento più dall’aria e dalla pioggia, dunque
più dal cielo che dalla terra per poter prosperare… quale pianta delicata del
cuore deve fare altrettanto?
A ciascuno di questi pensieri interessanti dovresti dunque chiedere: che cosa
significa, se lo si rapporta all’uomo? Oppure: a che cosa somiglia, se lo si
confronta con l’uomo? L’uomo, infatti, e la conoscenza della sua natura devono
essere il centro di ogni tuo interesse, perché un giorno avrai il compito di
formare degli uomini.
Posto dunque che tu trovassi in questo libro che l’acido carbonico si sviluppa
dalla putredine e tuttavia preserva dalla putredine, dovresti chiederti a che cosa
assomiglia, se in qualche modo lo si rapporta all’uomo. Concluderai facilmente
che dai vizi umani si sviluppa un qualcosa che ce ne preserva, cioè il pentimento.
Quando leggi che il sole luminoso non mostra macchie, se non le si ricerca
ostinatamente con il telescopio, quale eccellente insegnamento se ne ricava?
Oh, recentemente una semplice visione mi riportò all’improvviso con lo
spirito ai tempi in cui eravamo vicini di casa e ancora insensibili l’uno all’altra, e
ancora non sapevamo che un giorno saremmo diventati congiunti.
Aprii infatti il cassetto del tavolino nel quale c’era il mio acciarino con la
pietra focaia. Eccoli qua, l’uno accanto all’altra, pensai, come se non si
appartenessero, e si volgono l’un l’altro il lato freddo e ancora non è concepibile
la scintilla che pure è assopita in entrambi. Adesso però ti custodisco
teneramente nel mio caldo cuore, mia cara, cara Minetta… oh, la prima scintilla
ha preso fuoco e forse si sarebbe spenta, ma tu che hai saputo suscitare la
fiamma, cerca di conservarla viva, essendo ad essa unita la mia felicità, che
dipende solo da te. Veglia come le vestali sopra la sacra fiamma affinché non si
spenga, aggiungi di tempo in tempo qualche nuovo merito acquisito e non
addormentarti mai sui gradini…
oh, allora vedrai che la fiamma divamperà in perpetuo e ci riscalderà
entrambi.
E ora addio… Ma voglio ancora dirti un’altra ragione per cui sarebbe
opportuno che tu scrivessi i tuoi pensieri. Eccola. Tu sai che sto studiando per
diventare scrittore. Io stesso ho impiantato un piccolo magazzino di idee che un
giorno vorrei comunicarti e sottoporre al tuo giudizio. Lo vado arricchendo di
giorno in giorno. Se anche tu potessi dare un sia pur piccolo apporto, avresti
l’orgoglio di contribuire anche tu al futuro guadagno. Mi comprendi?
E ora addio. Ti ringrazio dei 6 franchi d’oro. Tra poco li riavrai.
Scrivimi presto e soprattutto mandami presto il calcolo. Addio.
H. K.
P.S. Sai che Brockes è arrivato improvvisamente e rimarrà con noi
quest’inverno? Oh, potessi anche tu avere un’amica che fosse per te ciò che
quest’uomo è per me! Sono molto felice e ti bacio di cuore.
Addio.
Berlino, 22 novembre 1800.
Cara Guglielmina. Ho ricevuto la tua lettera proprio mentre me ne stavo
assorto alla finestra e fissavo il cielo grigio con gli occhi, con l’anima il grigio
avvenire. Non ero per nulla lieto - e con la tua lettera speravo di rasserenarmi -
ma tu scrivi che l’avvenire inquieta anche te, anzi che questa inquietudine ti
angoscia… E così divenni triste del tutto e non potei più resistere in
quell’angusta stanza, mi vestii e sebbene piovesse mi avventurai nella penombra
della sera per le strade fangose, nel tentativo di distrarmi e di dimenticare la mia
sorte.
Cara Guglielmina! se un simile stato d’animo divenisse dominante,
vivremmo molto infelicemente il periodo di attesa che il destino ci impone.
Se concepivo una felicità che potesse colmare i nostri cuori, o almeno il mio,
se questa felicità non è pienamente raggiungibile, se le proposte per conquistarla
non ti sembrano attuabili, tutto sarà forse perduto? Ancora non ho abbandonato
la carriera nel campo della produzione, partecipo alle sedute della deputazione
tecnica, il ministro mi ha invitato per iscritto ad assumere l’impiego e se tu
insistessi, tra un paio d’anni mi metterei a viaggiare per altri tre e assumerei poi
un impiego che ci frutterebbe, certo, denaro e onori, ma ben poca felicità
domestica.
Cara Guglielmina, dimentichi forse che sono restio ad assumere un impiego
solo perché temo che in tal modo non potremo essere realmente felici?
Dimentichi che aspiro con tutte le mie forze a rendere entrambi realmente felici?
E tu tendi forse a qualcosa che non sia la felicità domestica? E non è forse
l’unico oggetto dei miei desideri quello di procurare a te e a me questa felicità,
senza limite alcuno?
Sta’ dunque tranquilla. In tutto ciò che dovessi intraprendere terrò sempre
presente quell’ultima meta, senza la quale non potrò mai essere felice su questa
terra, vale a dire di poter godere un giorno, il più presto possibile, la felicità della
vita coniugale.
Non credi che, con tanti incentivi a ben operare, non saprò diventare un
uomo utile, finalmente? Non credi che saprò adunare sufficienti energie per
mantenere un giorno entrambi? Non credi che, indirizzando tutte le mie forze
verso un’unica meta, saprò alla fine conquistare una felicità così modesta come
quella domestica?
Che la separazione dalla tua famiglia ti sembri così dolorosa è naturale ed è
bene. Non risponde, è vero, ai miei desideri, ma tu sai per qual motivo i miei
desideri seguono sempre i tuoi. La felicità
“mia” non è legata a nessuno se non a te, mentre per te la situazione è
diversa: è naturale e te lo perdono volentieri.
La vita però in casa della zia Massow e la nostra convivenza con lei ci
renderebbe talmente dipendenti, ci inserirebbe talmente in interessi a noi estranei
e priverebbe a tal punto il nostro matrimonio del suo fine peculiare, di costituire
cioè una famiglia “nostra”, che basterà enumerarti tutti questi svantaggi per
indurti ad abbandonare la proposta.
Raggiunta invece la maggiore età, io stesso potrei assumere e amministrare
tutta la casa e da ciò potrebbe derivare forse qualche vantaggio. In seguito potrei
anche accettare una cattedra accademica a Francoforte, e sarebbe l’unica
prospettiva per me tollerabile.
Tu vedi dunque che abbiamo speranze sufficienti per poter rimanere sereni.
Cerca dunque di esserlo, cara fanciulla. Più caldamente, più fervidamente di
me non potresti certo desiderare una prossima unione.
Tranquillizzati con questi desideri, che sono certo i tuoi buoni intercessori.
Essi sproneranno senza posa la mia attività, faranno in modo che le forze non mi
abbandonino mai e che io non mi perda d’animo e che possa giungere infine a
quel giorno felice… o Guglielmina!
Per Natale vorrei venire a F…. non ti dispiace, vero? Allora ti porterò
qualche dono. Addio.
IL TUO AMICO ETERNAMENTE FEDELE H. K.
Berlino, 29 novembre 1800
Cara, ottima Guglielmina, ti bacio col pensiero per la tua cara bellissima
lettera. Oh, fossi accanto a te e potessi stringerti al mio cuore! Ahimè, per essere
sereni bisognerebbe non pensare a questo. Ma com’è possibile?
La tua lettera mi ha fatto un piacere immenso e così le mille cose in essa
contenute, sia le risposte alle mie domande, sia i tuoi personalissimi pensieri, e
anche la tua accettazione gioiosa delle mie proposte per la tua istruzione e,
soprattutto, la tua piena comprensione di questo progetto. Certo, raramente
possono fondersi così intimamente l’utile e il dilettevole come in questa
occupazione in cui si parla, per così dire, con la natura stessa e la si costringe a
rispondere alle nostre domande. Il lato utile non poteva sfuggirti, ma sono
particolarmente lieto che tu possa ricavarne anche diletto, e questo non fa che
confermare ulteriormente la mia speranza che tu sia una creatura al di sopra del
comune. Anche per me le ore più care sono quelle nelle quali interrogo la natura
per comprendere cosa sia ben fatto e nobile e buono e bello. Tutti i giorni per
mia ricreazione dedico un’oretta a questa occupazione e non penso mai senza
gioia al momento (a W rzburg) in cui per la prima volta decisi di frequentare la
scuola di quella grande maestra che è la natura.
Le tue risposte alle mie domande hanno sempre colpito nel segno e ora,
secondo il tuo desiderio, passo ad esaminare i tuoi più personali pensieri.
Anzitutto sono lieto che tu possieda la capacità di percepire. Non è, mia cara,
una capacità comune. Vedere e udire è dato a tutti gli uomini, ma percepire, cioè
afferrare con l’anima l’impressione dei sensi e riflettere, non è concesso a tutti.
In genere gli uomini possiedono solo uno sguardo inerte che non è in grado di
cogliere l’immagine della natura come lo specchio del mare non percepisce
l’immagine del cielo. L’anima deve essere attiva, altrimenti tutti i fenomeni della
natura vanno perduti, anche se agissero su tutti i sensi… e io sono lieto che
questa condizione preliminare per poter apprendere dalla natura, la capacità cioè
di afferrare con l’anima i fenomeni, esista così pienamente in te.
Eccellente, soprattutto per il suo significato, è il pensiero che nell’uomo,
come nello specchio, quello che conta è la sua natura, su cui gli oggetti estranei
devono influire. Questo è forse il pensiero più alto che una fanciulla abbia mai
avuto sul tema dello specchio.
Adesso però, mia cara bimba, dobbiamo sfruttare questo insegnamento e
levigare diligentemente lo specchio della nostra anima affinché diventi liscio e
limpido e rifletta fedelmente l’immagine della bella natura. Quanti uomini
smetterebbero di lagnarsi della corruzione dei tempi e dei costumi se almeno una
volta balenasse in loro il dubbio che lo specchio, nel quale si riflette l’immagine
del mondo, possa essere incrinato e sudicio! Quante volte un uomo si è trovato
davanti lo specchio che gli ha rivolto un monito istruttivo, purché sapesse
comprenderlo… certo, purché sapesse comprenderlo!
Ottimi per il loro significato sono anche gli altri due pensieri, sebbene non
siano così decisamente interessanti. Voglio ora dirti alcune cose sul modo in cui
sono esposti.
Tu chiedi perché l’animale si sviluppi così rapidamente, mentre l’uomo così
lentamente. La domanda è certo molto interessante. Si potrebbe rispondere
secondo il principio generico che il tempo necessario alla natura per formare un
essere è proporzionale al suo grado di perfezione. Se ne trova conferma persino
nel regno vegetale. Per crescere e svilupparsi alla pianta dell’orto occorrono
alcune mattine di primavera, alla quercia mezzo secolo. Tu invece, per trovare la
risposta, paragoni l’uomo a una sonata a piena orchestra, l’animale alla musica
di un solo strumento. Ma mi sembra che tu non sia riuscita in questo modo a
esprimere perfettamente il tuo pensiero. In realtà non hai voluto probabilmente
paragonare alla sonata l’uomo, ma il suo fine, e in tal caso il paragone calza
davvero. Egli è infatti destinato ad eseguire un giorno, con tutti i tratti del suo
artistico strumento, la grande composizione del creatore mentre l’animale non
deve produrre con la sua zampogna se non l’unico suono che essa contiene. In
tal modo l’animale poté raggiungere la sua meschina destinazione prima che
l’uomo la propria, infinitamente difficile e complessa… questo intendevi dire,
non è forse vero?
In genere nelle immagini o nei paragoni quel che importa è la concordanza e
la somiglianza il più possibile esatta in tutte le parti dei due oggetti raffrontati.
Tutto ciò che vale per l’uno deve trovare qualche riscontro anche nell’altro. Se
vuoi esercitarti e individuare una similitudine veramente interessante, prova a
confrontare l’uomo con un pianoforte. In questo caso dovresti considerare le
corde, l’intonazione, il diapason, la cassa armonica, i tasti, il suonatore, le note, e
individuare in che modo ognuno di questi particolari abbia delle somiglianze con
l’uomo.
Esistono anche vari altri mezzi per esercitare in modo facile e piacevole il
tuo acume nella scoperta delle somiglianze. Annota, per esempio, su diversi fogli
i quesiti che vuoi porti, e annota la risposta sotto la rispettiva domanda. Per
esempio, che cosa è amabile?
Una giornata di maggio; un fiore di pesco; un sposa gaia… Che cosa è
edificante? Il levar del sole; un corale mattutino (penso alle belle mattine quando
lavoravo nel nostro giardino e dal vostro mi giungeva il corale degli oboisti).
Che cosa è terribile? Un temporale che s’approssima, l’avventarsi delle onde per
il marinaio… Che cosa è commovente? Un discorso funebre; un tramonto;
innocenza e ingenuità; assiduità e miseria… Che cosa è spaventevole? Lampo e
tuono; la casa del vicino o magari la propria scala in fiamme… Che cosa è
deprimente? La pioggia proprio quel mattino in cui si è progettata una gita
piacevole; la freddezza della risposta a una domanda affettuosa e cordiale; un
abito scadente quando il prossimo lo nota; una villania che ci viene fatta per un
malinteso, eccetera. Che cosa è adorabile?
Cristo sulla croce; l’innocenza in ceppi senza lagrime e lamenti; una parola
impavida davanti al tribunale di giudici assetati di sangue o, come afferma
Schiller (28), l’orgoglio virile al cospetto del trono dei re… Che cosa è
consolante? Guardare il cielo; un cimitero di fratelli moravi; un’eredità per il
nipote in lutto; un lume nella notte per lo sperduto. Che cosa è ridicolo?
Scavalcare al chiaro di luna l’ombra del palo d’un fanale pensando che sia un
fosso; i primi tentativi del bambino che impara a camminare (ma sull’erba
tenera); un contadino maldestro che danza per amore. Che cosa è insopportabile?
Le chiacchiere per il pensatore; le parole di conforto per chi soffre; la bonaccia
sotto l’equatore. Che cosa suscita l’attesa? Un fischio in un bosco; lontani colpi
di cannoni in guerra; la scampanellata quando sta per alzarsi il sipario a teatro.
Che cosa è invitante? Una pesca matura; una rosa sbocciata; una bocca simile a
ciliegia. Che cosa è seducente? Le lusinghe, e per tutti, poiché anche chi non
ascolta volentieri parole lusinghiere non se ne ha a male quando gli vengono
rivolte. Che cosa è scoraggiante? La mancata risposta; un grosso cane che ci
salta fra le gambe quando entriamo in una casa. Che cosa desta fiducia? La
mancanza di cerimonie; l’offerta di una pipa di tabacco.
Che cosa è maestoso? Il sorgere del sole sul mare; una nave ammiraglia
inglese che avanza a vele spiegate; una cascata; una montagna lontana, eccetera,
eccetera… basta, basta, basta. In questo modo puoi acuire ed esercitare la tua
intelligenza con un’infinità di risposte. E così potrai trovare tanto più facilmente
un paragone nel momento in cui ne avrai bisogno.
Mia cara Minetta, come è faticoso scrivere tutte queste cose… come sarà
bello quando saremo uniti e tu siederai accanto a me e io ti istruirò e ogni buon
insegnamento mi sarà compensato con un bacio…
Ma via, via queste visioni!… eppure è l’unico mio desiderio in questo
mondo… eppure è un desiderio ben modesto… e non si potrà attuare? Perché
no? Oh, non voglio neanche pensarci, altrimenti maledico la posizione sociale, la
nascita e tutto il miserabile peso dei pregiudizi. Ma io spero. La mia speranza è
l’unica cosa che in questo momento mi renda lieto. Buona notte. Vado a letto con
questa speranza. Bacio il tuo ritratto, buona notte, buona notte…
30 novembre.
Buon giorno, buon giorno, cara, cara, cara Guglielmina! E’ una mattina
d’inverno straordinariamente serena, fresca, e io stesso sono molto sereno e sarei
“totalmente” felice se, se, se… Addio. Ti bacio di cuore. Restami sempre fedele
e sebbene il destino si prenda beffa di noi, non lasciar raffreddare il tuo affetto,
ma conservalo come in questo felice periodo del nostro amore. Ahimè, un affetto
freddo non è più affetto… Addio, addio. Scrivimi nuovamente presto, scrivimi
molto spesso, tu non sai quanto sia utile. Addio. Desidero restituirti i tuoi 6
franchi oro, dimmi soltanto se li devo mandare a te o alla Randow. Ti ringrazio
cordialmente di questo piacere e ti prego di contare su di me in tutti i casi simili
e non simili a questo. Addio, addio, addio.
Berlino, 11 (e 12) gennaio 1801.
Cara, diletta Guglielmina, ecco, quando mi scrivi col cuore parlando al mio
cuore devo risponderti subito, anche se fossi dieci volte più occupato di quanto
sia. Come mi duole di averti spedito ieri l’altro nel mio malumore quella lettera
tetra che avrai ricevuto proprio oggi, proprio in questo giorno in cui ho ricevuto
la tua che ha ravvivato splendidamente il mio coraggio e il mio amore. Perdona
quest’ultimo sfogo del mio malumore verso me stesso, non rispondere a quella
lettera, bruciala piuttosto e leggi più e più volte la presente che ti scrivo con
animo lieto e sereno e con fervido affetto.
… Ero arrivato a questo, allorché ho sentito suonare il campanello; vado ad
aprire e chi trovo? Il tuo fratellino della scuola militare che non avevo mai
veduto e che sono stato molto lieto di conoscere.
Veniva a trovare Carlo che però non era in casa. In sostituzione di Carlo gli
ho dato notizie della sua famiglia, ho baciato il piccolo cognato (che assomiglia
a Enrichetta (29) e il cui viso promette bene), ho fatto lume al povero giovane
attraverso le stanze e le scale deserte e ancora disabitate di questa casa, ed
eccomi di nuovo con te…
Sì, cara fanciulla, tutte le volte che ti rispondo immediatamente dopo aver
ricevuto una tua lettera, puoi star certa che mi ha procurato una gioia autentica;
non già perché sia scritta bene o artisticamente -
questo poco m’importa e quindi non occorre che tu faccia grandi sforzi
- ma perché contiene tratti che mi rendono più caro il tuo cuore e più degna
di rispetto la tua anima. Poiché non posso vedere e giudicare te, che altro mi
rimane se non giudicarti dalle tue lettere? Presumo di poterlo fare prendendo le
tue parole non solo come parole, ma come la tua stessa ombra. E proprio per
questo ogni pensiero che ti pone sotto una luce più favorevole, ogni sentimento
che ti adorna mi è caro come pegno di un tuo gesto, come simbolo del tuo valore
morale; e la lettera che mi rivela una dimensione bella della tua anima e illumina
all’improvviso e rallegra in modo spontaneo, inatteso, sorprendente la coscienza
di possederti, una lettera siffatta, dico, agisce sul mio affetto come una goccia
d’olio sulla fiamma morente che così alimentata nuovamente divampa a un tratto
chiara e gioconda.
Ecco, cara Guglielmina, se un giorno il ricordo di te dovesse raffreddarsi in
me, sono profondamente convinto che la colpa sarebbe soltanto tua, non mia.
Potrei diventare indifferente verso di te solo quando l’esperienza mi costringesse
a capire che la pietra che ho lavorato con tutta l’anima per farne scaturire lo
splendore non era una gemma. Non per questo ti abbandonerei: perché infatti
dovresti scontare “tu” l’errore commesso da “me”? Ma sarei infelice e neppure
tu saresti felice, non potendolo essere io; delle persone comuni ci si può soltanto
servire, e solo le più nobili si possono amare e soltanto l’amore rende dolce la
vita.
Cerca di essere degna del mio amore e questo non ti mancherà mai. Non
esigerlo da me in dono; devi conquistarlo, devi ottenerlo da me con la forza e
soltanto così potrà rendere felici entrambi; il cuore infatti è l’unica proprietà che
preferiamo lasciarci rubare anziché donarla in virtù di preghiere e istanze. Per
nessuna fanciulla è mai stato così facile conservare l’affetto dell’innamorato
come per te, poiché io stesso sarei profondamente infelice se fossi costretto a
negartelo. E
comunque non ti abbandonerei, giacché il dovere conta per me anche più
della felicità ma proprio per questo sarei infelicissimo.
E così un cambiavalute non potrebbe esaminare l’autenticità della banconota,
che deve garantire il suo patrimonio, più meticolosamente di quanto io non
esamini la tua anima; e ogni bel tratto che vi scopro mi è più caro, sì, più caro
che se lo scoprissi in me stesso. Diverse fanciulle ho già confrontato con te e mi
hanno fatto riflettere seriamente, per esempio la Lettow, la Duhattois, eccetera.
Numerose ce ne sono anche qui a Berlino e ogni volta il confronto con te mi fa
riflettere; ma tu hai a tuo vantaggio la conoscenza di anni, una più intima
confidenza, un gesto senza esempio e un perdono anch’esso impareggiabile, e se
poni sulla bilancia soltanto un pochino ancora, solo la somiglianza col mio
ideale, soltanto la ferma volontà di rappresentarlo un giorno in te stessa, non
basterebbero sull’altro piatto tutte le fanciulle e tutti i tesori della terra.
Un pensiero è contenuto nella tua lettera, Guglielmina, che mi colma di
indicibile gioia e speranza, un pensiero del quale la mia anima aveva sete come
la rosa ha sete di rugiada sotto la vampa meridiana…
un pensiero che non osavo trapiantare nella tua anima perché, come
l’arancio, non tollera trapianti e dà frutto solamente quando lo fanno crescere le
forze naturali del terreno: tu mi scrivi che la tua mente è agitata da un
presentimento, come se per te iniziasse un’epoca nuova… Cara Guglielmina!
Devo forse confessarti che già molte volte nelle mie riflessioni mi sono chiesto,
grave e malinconico, perché quest’epoca non fosse già iniziata da tempo? Molte
esperienze mi avevano confermato la verità che l’amore produce sempre
nell’uomo incredibili mutamenti; ho visto giovani deboli divenire forti in virtù
dell’amore, rozzi divenire teneri di cuore, insensibili divenire affettuosi; giovani
trascurati dall’educazione e dalla sorte si facevano gentili, morigerati, nobili,
liberi; la loro natura subiva rapidamente un grande rivolgimento che per lo più
incominciava dall’abito; si vestivano con maggior cura, con più gusto, con
maggior squisitezza; seguiva poi la riforma del corpo, il loro portamento si
faceva più nobile, l’andatura più ferma, i gesti più aggraziati, più aperti e sinceri,
e qui la trasformazione si concludeva se l’amore non era di natura superiore; ma
quando lo era, la grande rivoluzione afferrava anche l’anima; desideri, speranze,
previsioni, tutto mutava; i vecchi volgari divertimenti erano ripudiati e sostituiti
con svaghi più gentili; coloro che prima si trovavano a loro agio soltanto nel
rumoroso turbine della società, tra il giuoco e il vino, ora si abbandonavano
gioiosamente in solitudine ai loro pacati sentimenti; invece dei romanzi
cavallereschi e avventurosi la loro lettura preferita diveniva un semplice
racconto di Lafontaine (30) o una canzone edificante di H”lty (31); non più
scorrazzavano sfrenatamente a cavallo per le strade maestre, ma quieti e solitari
cercavano rive ombrose o liberi colli e venivano a conoscere godimenti dei quali
prima non sospettavano neppure l’esistenza; mille sentimenti assopiti si
destavano e tra questi, più vivacemente che altri, la beneficenza; se avevano
notizia di un bisognoso essi lo cercavano per aiutarlo; se vedevano un occhio in
lagrime si affrettavano ad asciugarlo; con spirito aperto e disponibile
accoglievano tutto ciò che è bello e nobile e buono e grande per attuarlo in se
stessi; il loro cuore si espandeva, la loro anima si elevava ed essi abbracciavano
un ideale del quale volevano divenire degni… io stesso avevo fatto in me una
simile esperienza, e ora di fronte a te dovevo ben chiedermi: perché, perché?
Questa era la mia prima domanda. La seconda era: forse non mi ama? Era forse
fondato il mio primo presentimento che ella credesse soltanto di amarmi perché
io l’amo?…
Questa, cara fanciulla, era, per dirla di sfuggita, la vera causa della mia
tristezza di quella sera. Allora non volevo e non potevo parlartene, e anche ora te
l’avrei taciuta, se tu non me l’avessi strappata dall’anima. Ora tu stessa senti che
ti attende un’epoca nuova, e io intuisco con gioia indicibile che è l’amore a
svelartela.
I nostri padri e madri e maestri inveiscono sempre con accanimento contro
gli ideali, eppure non c’è nulla oltre ad essi che possa veramente elevare l’uomo.
Accadrebbe mai qualcosa di grande su questa terra se non esistessero uomini che
hanno davanti a sé una visione elevata che intendono far propria? Senza di essa
il marchese Posa non avrebbe salvato l’amico, né Max si sarebbe lanciato a
cavallo contro le truppe svedesi (32). Per questo tu non seguire mai l’oscuro
istinto che conduce soltanto a ciò che è volgare. In tutte le situazioni della vita
chiedi, prima di agire, quale potrebbe essere il modo più nobile, più bello, più
eccellente, e opera come ti suggerisce il primo sentimento. Questo è, a mio
avviso, l’ideale che devi avere sempre presente.
Ma quando la tua mente conferma questi pensieri, resta ancora dell’altro. Sai
quale risultato ebbe, quella penultima sera, il tuo buono e ragionevole consiglio
di parlare talvolta un poco con tuo padre? Io lo feci immediatamente.
Che tu abbia accolto infine il mio buon consiglio di tenere il diario mi
rallegra di cuore, e ti prometto fin d’ora che ne avrai grandi benefici. Anch’io
lavoro assiduamente e attentamente al mio ed eventualmente potremo un giorno
scambiarceli, almeno per certi passi.
Mi affretto a finire, cara Minetta, perché è tardi e domani mattina non potrò
scrivere.
I tuoi sentimenti sul Colle universitario (33), il tuo ricordo di me, i tuoi
pensieri sul sentiero asciutto che nessuno percorre e che si snoda nei pressi di un
sentiero faticoso, sono per me altrettante perle che vorrei incastonare in oro.
Ma eccoti ancora dell’altro filo da torcere.
1. La fiamma che procura a se stessa il soffio d’aria e così divampa sempre
più alta, come può essere paragonata alla passione?
2. Se la bufera spegne piccole fiamme, ma rende più grandi le grandi, in che
senso può essere confrontata alla sventura?
3. Quando vedi la nebbia che avvolge gli oggetti, ma non quella che avvolge
te stessa, a che cosa la puoi paragonare?
Scrivi “presto e a lungo e con frequenza”. Tu ne conosci il motivo.
H. K.
Poscritto, 12 gennaio 1801.
Mentre stavo per suggellare questa lettera, Carlo mi ha portato la cosa
promessa. Ti bacio, cara Guglielmina. L’ideale che custodisci nell’anima per me,
ti rende simile a quello che custodisco per te nella mia. Saremo felici,
Guglielmina… continua a far sì che questa speranza sia sempre più salda.
Donami spesso uno scritto uguale o simile a questo che, arrivando
inaspettatamente, mi raddoppia il piacere della lettura. Da questo scritto traspare
una serietà, una dignità, una calma, una modestia che mi colmano di gioia
ineffabile se penso che tutte queste qualità vivono nella tua persona… Chissà
che Carlo non abbia un altro scritto e voglia darmelo soltanto questa sera o
domani mattina…
21 gennaio 1801, Berlino.
Cara Guglielmina, a mezzogiorno ho fatto colazione da Clausius e mi sono
allontanato di nascosto verso sera (ora sono le 7) per chiacchierare un poco con
te. Quanto piacere mi procura la tranquilla solitudine della mia stanza se la
paragono alla rumorosa società da cui sono fuggito! Stavo seduto accanto a
Minna (34) e questa era la mia unica gioia; tutti gli altri erano individui che si
vedono e si dimenticano non appena si è chiusa la porta dietro di sé. La famiglia
di un commerciante di Magdeburgo costituiva il nucleo più importante della
festa. Il padre, un ipocondriaco, confessa di essere stato molto più sereno quando
possedeva “soltanto” l00000 talleri… La madre e la figlia portano indosso tutta
l’America, la madre quella del nord, il Labrador, la figlia quella del sud, il Perù.
La prima ha sulla testa tutto un firmamento di diamanti, con il sole, la luna e le
stelle, e sembra soddisfatta di questo cielo; l’altra ha il seno stretto entro dieci
catene d’oro e sembra che, tra quei ceppi, non aspiri a niente di più alto. In loro
presenza si diventa freddi come le pietre e il metallo con cui sono corazzate.
Sono leccornie che il pescatore applica all’amo, affinché il pesce non lo veda, e
poi lo lancia a caso nel fiume: ma chi conosce l’inganno rabbrividisce; infatti,
sebbene i gioielli siano belli, temo che per quelle donne rappresentino il bene più
prezioso.
Ma non parliamo più di loro - lasciami parlare di te, cara Minetta; per loro
non ho potuto trovare neppure una parola nell’anima mia…
per te ne ho mille nel cuore.
Devo rispondere a due lettere tue; ma posso farlo solo brevemente…
oh, di ogni frase che mi hai scritto vorrei discorrere con te per giorni interi,
ma tu la conosci, la cosa che più mi preme… Non dico perdute le ore che dedico
a te, eppure non dovrei sottrarle ai miei, o meglio, ai nostri fini. Avevo così
calcolato all’inizio di scrivere soltanto una lettera ogni quindici giorni; ma come
potrei tacere se mi scrivi così spesso? La tua prima lettera (del 15) la ricevetti un
quarto d’ora prima che la carrozza di Clausius si fermasse davanti all’uscio per
portarmi al ballo della “colonia”… quanto più volentieri mi sarei appartato per
risponderti. Così profondi possono essere i tuoi sentimenti, o fanciulla?… Non
conosco il “racconto di Las Casas” e non so se meriti un così fervido
interessamento, sebbene uno scrittore come Engel possa pretenderlo. Ma poco
importa… che tu possa sentire così profondamente e fervidamente fu per me una
nuova e lieta scoperta. Grandi sentimenti sono indizio di un’anima forte e vasta.
Dove il vento increspa solo fuggevolmente il mare, questo è basso, laddove
invece solleva ondate come torri, è profondo. Ti abbraccio con orgoglio, mia
forte fanciulla. Il dubbio che ti si affacciò alla lettura dell‘“Etna”, che tu potessi
divenirmi indifferente quando fossi stato certo di possederti, non ti deve
inquietare. Fa’ sempre in modo che il tuo amore sia per me il premio della virtù,
come il mio deve esserlo per te… allora esisterà sempre per entrambi qualcosa a
cui aspirare, e se non sarà più il dono dell’amore che già possediamo, sarà la
conservazione di esso, giacché possiamo sempre perderlo.
Tu hai molta fiducia nel fiume che trascinava i blocchi di ghiaccio, una
fiducia che entrambi possiamo e vogliamo giustificare e che giustificheremo. Per
quanto lo scoglio emerga dai flutti per attirare a sé e far naufragare il blocco che
la corrente trascina, il suo corso è fin troppo sicuro ed essa lo conduce, anche se
cozza contro lo scoglio, immancabilmente fino al mare…
Approvo pienamente la tua proposta di interrompere la nostra
corrispondenza per una o più settimane così da poterla poi riprendere con
maggiore intensità. Questo carteggio non deve mai procurarti apprensione e
fatica, dovendo unicamente sostituire un piacere, quello di conversare di
presenza.
La maggiore delle Schulz è una fanciulla che mi piace molto, da cui potresti
imparare molte cose. Ha tratto vantaggio dal frequentare persone di larghe
vedute e non ha soltanto letto, ma anche ascoltato buoni libri. Ma ora guardo
l’orologio e vedo che è tempo di separarmi da te. Devo ritornare da Clausius,
nonostante il mio desiderio di rimanerti vicino. Quando potrò non separarmi mai
da te?
22 gennaio.
Vengo ora alla tua seconda lettera.
Sono addolorato sentendo che mi consideri colpevole del fatto che trascuri il
tuo aspetto esteriore. Certo, dal modo in cui consideri la cosa, potresti aver
ragione. Per aspetto esteriore tu intendi soltanto l’abbigliamento, e se questo non
è più così scelto e prezioso e non costa più tanto denaro e, quel che è peggio,
tanto tempo, la colpa può essere mia, certamente, e non me ne pento. Io
preferisco le stanze di soggiorno ai salotti, nei quali mi sento a disagio e come
prigioniero, giacché non posso quasi posare i piedi per terra né toccar nulla. In
modo quasi simile distinguo le fanciulle soltanto vestite da quelle agghindate.
Queste montature artificiose di seta ed oro e gemme, la preoccupazione che ne
traspare, quella del passato per costruirla, quella presente per conservarla,
l’evidente intenzione di attirare gli sguardi e di brillare, in mancanza di uno
splendore proprio, con mezzi esteriori e privi di ogni intimo valore, tutto ciò
porta l’anima a un modo di pensare che non può assolutamente deporre in favore
di queste fanciulle. E così danneggiano per lo più se stesse con le fogge
ricercate… e che tu le abbia smesse non è stato mai per me motivo di
rimprovero. Non ti ho mai veduta vestita senza gusto e in disordine, e certo in tal
caso te lo avrei fatto notare; che le fanciulle semplicemente e garbatamente
vengano in aiuto alle loro bellezze naturali, è più che lecito, e se le trascurano
del tutto vanno certamente biasimate. Ma sui tuoi abiti, cara fanciulla, non ho
mai avuto da ridire e se qualche volta, “col mio silenzio”, ti ho fatto capire che il
tuo aspetto “esteriore” lasciava a desiderare, intendevo tutt’altra cosa… Ma
questa non è oggetto di linguaggio, e ancor meno d’insegnamento. “Questo”
aspetto esteriore non può essere modificato come un vestito, ha il suo
fondamento nell’anima e da essa deve procedere sino a comunicarlo al
portamento e al gesto, perché altrimenti è meramente teatrale.
Se tu non dovessi intendermi, non credere però che questo linguaggio
incomprensibile sia fatto di chiacchiere. Continua a istruirti e se un giorno anche
la tua mente si sarà così elevata e perfezionata da poter comprendere il bello,
rileggi queste parole. Allora le capirai.
Della tua avventatezza al tè della zia Massow non devo giudicare; tu stessa ti
sei già giudicata. Continua pure a osservare attentamente te stessa e se talvolta
gli sguardi nel tuo intimo ti riescono dolorosi, in avvenire ti delizieranno. Non
esiste virtù più femminile che la sopportazione dei difetti altrui. A questo
proposito ti scriverò in seguito. Ricordamelo. Addio. Ti ringrazio del denaro,
presto lo riavrai.
H. K.
Berlino, 31 gennaio 1801.
Cara Guglielmina, non dico che la tua lettera mi sia stata meno cara delle
altre: non per questa ragione oggi rispondo con maggiore esitazione che in
precedenza. Mi sono imposto come legge di rispondere immediatamente e senza
indugio a ogni scritto che mi presenti un lato bello del tuo essere, tale da
toccarmi più intimamente il cuore.
Questa volta però non mi è stato possibile. C’è qui Leopoldo, Huth mi ha
fatto partecipe dei suoi interessi e, strappandomi alla solitudine, mi ha introdotto
un poco nel mondo dei dotti di Berlino, in cui però, sia detto di sfuggita, mi
trovo a disagio come in quello degli ignoranti. Da questo puoi dedurre anche tu
quanto abbia dovuto economizzare il tempo per non trascurare del tutto le
occupazioni necessarie. Spenderei volentieri per acquistare del tempo, se fosse
possibile, e molti che ne hanno in abbondanza e non sanno che farsene
potrebbero guadagnarci. Le poche ore che mi rimasero dopo tante distrazioni, le
dovetti dedicare totalmente alla mia missione, ma oggi finalmente il Cielo mi ha
donato una sera libera che voglio sia riservata a te. Ma non revoco la legge e in
futuro risponderò subito a ogni tua lettera quando sia come quest’ultima, anche
se a volte dovrai accontentarti di poco.
Soprattutto lo sguardo che questa volta mi hai permesso di lanciare nel tuo
cuore pieno d’amore mi ha donato una gioia inesprimibile -
sebbene questo non fosse necessario per ispirarmi fiducia nella sincerità del
tuo affetto. Se tu non mi amassi saresti spregevole, e anch’io lo sarei se non lo
credessi. Già una volta ti ho spiegato il motivo, ricordi? E questo dunque è
stabilito una volta per sempre. Noi ci amiamo, spero, abbastanza profondamente
e fervidamente perché non sia necessario ripetercelo, e la storia del nostro amore
rende inutili tutte le dichiarazioni verbali.
Permettimi ora di dire una parola sul conto del mio amico Brockes, di cui ho
pieno il cuore. Egli mi ha lasciato, è andato a Mecklenburgo per assumere
l’impiego che lo attendeva. E con lui ho perduto l’unico uomo che in questa
popolosa capitale mi era amico, l’unico che veramente rispettavo e amavo,
l’unico per il quale potevo avere a Berlino cuore e sentimento, l’unico al quale
avevo aperto interamente l’animo mio, l’unico che ne conosceva tutte le pieghe,
anche le più segrete. Non posso parlare nello stesso modo di nessun altro,
nessuno mi capisce totalmente, nessuno può capirmi totalmente tranne lui e te.
Anzi, persino tu, cara Guglielmina, non comprenderai appieno me stesso e le
mie azioni future se non conquisterai come lui un concetto più alto di ciò che
stimo assai più dell’amore.
Più volte ti ho promesso di parlarti di quest’uomo stupendo, certamente uno
dei pochi che tengono alta la dignità della loro specie, e non è certo il peggiore
tra quei pochi. In questo momento non so parlare di lui se non in termini
elogiativi, e sebbene debba ammettere d’aver scoperto talvolta anche in lui ciò
che è tipicamente umano, vale a dire la non completa perfezione, la memoria per
i suoi difetti mi ha lasciato e non mi rimane se non quella delle sue virtù.
Preciso questo affinché tu non abbia a credere che la mia lode nasca da
un’anima abbagliata. E’ comunque vero che gli uomini, come le stelle, quando
scompaiono ci sembrano in un punto più alto di quello reale; ma lui per tutto il
tempo in cui ci frequentammo non è mai sceso dal gradino sul quale ora te lo
presenterò. L’ho osservato a lungo, l’ho esaminato nelle più diverse situazioni
assorbendo la sua immagine con tutta l’anima, come se fosse un fenomeno che si
ammira una volta sola e poi non più.
Se tra le fanciulle tu fossi ciò che lui è fra gli uomini… certo dovrei
sbigottire. Non dovrei allora essere anch’io come lui per essere amato da te?
Non ti dico nulla della sua figura che non è bella, ma molto nobile.
E’ alto, non molto robusto, ha i capelli d’un biondo scuro, gli occhi azzurri, il
volto pacato e dolce e così pure il contegno.
Anche della sua vita posso dirti ben poco. Ebbe una madre molto colta,
tenera e amorosa, un’educazione piuttosto poetica e tesa a rendere il suo cuore
tenero e immediatamente accessibile a tutte le impressioni del bene e del bello.
Studiò a Gottinga, conobbe a Francoforte sul Meno l’amore che non lo rese
felice, entrò poi al servizio dell’esercito danese, in cui il suo spirito libero non
resistette a lungo, prese il congedo, non seppe risolversi ad accettare un impiego,
frequentò, per far qualcosa di buono, l’università per la seconda volta insieme a
un giovane che vi si formò guidato da lui, e i suoi genitori si adoperarono per lui
presso la Corte mecklenburghese, la quale gli offre ora un impiego che dovrà
accettare, perché così vuole il suo destino.
Anche delle sue virtù potrò dirti soltanto poche parole generiche, altrimenti
questo foglio non sarebbe sufficiente. Egli è sempre stato squisitamente nobile,
non solo nelle azioni esteriori, ma anche nelle motivazioni interiori. In lui ha
sempre regnato un profondo senso di giustizia, e quando lo faceva valere si
mostrava ad un tempo forte e clemente. Nel complesso la clemenza era la base
della sua indole. Devo aggiungere che era di una moralità pura e immacolata, al
punto che una fanciulla non potrebbe essere più pura, più immacolata di lui.
L’anima sua era libera e senza pregiudizi, piena di bontà e di amore verso il
prossimo, e mai uomo apparve così modesto tra gli altri, pur essendo
infinitamente superiore a loro. Bastava un nulla per conquistare la sua simpatia;
infatti, come sentiva il bisogno di trovare amore, così aveva anche la necessità di
donarne. A volte era aspro, ma soltanto con i dotti, non già a fatti ma a parole, e
li chiamava per lo più sapientoni. Aveva come principio che l’agire è da
preferirsi al sapere. Perciò parlava talora con disprezzo della scienza e, a
giudicare dalle sue parole, pareva che avesse sempre trascurato e fuggito tutto
ciò che le somiglia, e però intendeva, a rigore, soltanto la saccenteria e se
parlava con disprezzo delle scienze, mi appariva chiaro dalle sue parole che
nessuna gli era estranea e che aveva domestichezza con molte. Della maggior
parte di esse aveva afferrato le linee fondamentali e delle altre per lo meno quei
tratti che si confacevano al suo spirito. E questa, infatti, di ridurre ogni cosa a
un’unità e di conservarla, era la sua aspirazione dominante.
Per questo il suo spirito era a un alto livello di cultura benché, a suo dire,
tendesse soltanto al perfezionamento del cuore. Tra questi due aspetti della
natura umana egli operava infatti una distinzione acuta e netta. Diceva sempre
che l’intelligenza è fredda e soltanto il cuore può agire e creare. Per questo
nutriva un’invincibile diffidenza verso l’intelletto e aveva invece una fiducia
altrettanto incrollabile nel cuore. Si abbandonava sempre al suo primo impulso,
quello che lui chiamava lo sguardo del sentimento, e io non ho mai potuto notare
che questo l’avesse ingannato. Parlava sempre con disprezzo dell’intelligenza,
sebbene mostrasse così dicendo di possederne più di altri che se ne vantano. Non
sentiva mai il bisogno, come invece si potrebbe credere, di comunicare i suoi
stati interiori raramente parlava di se stesso a singoli, mai a molti. In società era
per lo più silenzioso e passivo, come in genere in tutta la sua esistenza, e però
era socialmente stimato. Anzi, non ho mai veduto un uomo che suscitasse tanto
amore in tutti… e spesso mi sono fermato a riflettere, quando vedevo che perfino
il cagnolino di tuo fratello, che non era mai molto affettuoso né col suo padrone
né con me, saltava invece con gioia indescrivibile alle ginocchia di quest’uomo,
non appena entrava nella stanza. Era di una natura totalmente amorosa, infantile,
un istintivo amico di tutte le creature… cara Guglielmina, non esiste lingua che
possa dipingere fedelmente il ritratto di quest’uomo…
Della sua natura voglio mettere in rilievo soltanto l’elemento più
caratteristico: il suo “disinteresse”. Cara Guglielmina! Hai già considerato con la
massima attenzione te e gli altri? Sai che cosa significhi essere del tutto
disinteressati? E sai anche che cosa significhi esserlo sempre, e dall’intimo
dell’anima e con allegrezza?
Ah, è difficile… Se non capisci intimamente, dedica un’intera giornata al
compito di indagarlo in te stessa e negli altri. Presta tutta l’attenzione possibile a
te e a coloro che ti circondano, e spesso vedrai te e loro, oh, molto spesso, sia
pure soltanto per inezie, in situazioni nelle quali l’interesse personale contrasta
con l’altrui: considera allora il tuo comportamento e soprattutto le tue
motivazioni, e molte volte dovrai arrossire davanti agli altri o a te stessa. Forse la
natura ha negato a te, per tua fortuna, quella chiarezza, quella triste chiarezza che
a me fa intuire in ogni moto di un viso il pensiero, in ogni parola il significato, in
ogni azione il motivo. Mi rivela tutto quanto mi circonda e me stesso in tutta la
mia miserabile nudità, e la nebbia variopinta scompare e tutti i veli
condiscendenti cadono e infine il cuore è nauseato di questa nudità -
Beata te se non comprendi tutto questo! Ma, credimi, è molto difficile essere
“sempre” e “del tutto” disinteressati.
Questa “difficilissima” fra tutte le virtù! Oh, l’aureola di essa non ha mai
abbandonato quest’uomo, nemmeno un istante, da che lo conobbi.
Guidato costantemente dal suo spirito amoroso non sceglieva mai, nei casi
dubbi, il proprio tornaconto, ma sempre quello altrui; e non lo faceva soltanto in
situazioni importanti, non solo quando lo sguardo degli uomini era puntato su di
lui (in questi casi infatti molti, sia pure con sforzo, si mostrano disinteressati,
mentre senza questo sforzo non lo sarebbero), ma anche nei casi meno palesi,
meno appariscenti (e questo è ben di più) il suo spirito mostrava sempre lo stesso
intemerato disinteresse, persino in momenti in cui, nella vita comune, siamo
disposti a perdonare un piccolo egoismo, e lo faceva sempre, in silenzio, senza
alcuna pretesa, senza il sia pur minimo calcolo di suscitare l’altrui gratitudine, e
lo faceva quando nessuno l’avrebbe notato e compreso, se non ci fosse stata la
mia attenzione sempre nell’entusiasmo per questo fenomeno mai visto.
Di tutto ciò posso darti esempi. Quando a Pasewalk gli svelai la mia
situazione, non esitò un istante a seguirmi fino a Vienna. Già allora doveva
assumere l’impiego, era molto unito a sua sorella e costei ancor più a lui. Ed è
per me una dolorosa certezza che quella improvvisa e misteriosa partenza del
fratello e l’impressione di essere abbandonata dall’unica persona a lei cara, abbia
indotto quella povera giovane a scegliersi un marito con cui ora non è felice.
Tanto alto fu, Guglielmina, il prezzo della nostra felicità. Non dovremmo fare
anche noi qualcosa per meritarla?
Ma torniamo indietro. Egli - non sarà più necessario dirne il nome, non è
vero? - egli dimenticò tutti i suoi interessi e mi seguì. Per risparmiarmi il
sospetto che il vero scopo del viaggio fossi io e l’avessi indotto io a seguirmi, il
che avrebbe potuto nuocere ai miei progetti, presentò alla sua famiglia il viaggio
come frutto di una sua decisione. Egli possiede solo un piccolo capitale, ma non
volle farsi risarcire da me le spese del viaggio, e sacrificò 600 talleri di tasca sua
per seguirmi e rendere felici “noi due”… Anche tu lo ami, no?
Ma questo non è ancora “quel” disinteresse che io intendo. E’ vero che a lui
devo totalmente il corso felice che ha assunto il mio destino, eppure non è questo
il disinteresse che mi entusiasma. Tutto ciò, lo sento, avrei fatto anch’io per lui…
Ma egli ha fatto molto di più, oh molto di più! Sembra poco, e tu forse ne
sorriderai, se non lo comprendi… ma io ne sono rimasto incantato. Ascolta.
Quando montavamo entrambi nella diligenza postale, egli occupava sempre
il posto meno comodo. Della paglia che era talvolta sul pavimento non ne
prendeva mai, se non quando era sufficiente a scaldare i piedi di entrambi. Di
notte, se a volte nel sonno mi abbandonavo sul suo petto, egli mi reggeva senza
dormire. Quando arrivavamo a un alloggio per la notte sceglieva sempre per sé il
letto peggiore. E se mangiavamo frutta insieme, la più bella e la più succosa era
a me riservata. Quando a W rzburg ci consegnavano i libri della società di
lettura, egli non leggeva mai per primo quello che mi era più caro. Quando ci
portarono per la prima volta i giornali francesi e tedeschi io presi, senza
intenzione, prima i francesi. Da allora, ogni volta che ci consegnavano i giornali,
egli mi porgeva sempre quelli francesi. Lo notai e un giorno presi i giornali
tedeschi. Da allora mi porse sempre quelli tedeschi. Durante la visita del medico
egli usciva per una passeggiata. Non gli avevo mai detto nulla, ma sia che il
tempo fosse bello o fosse brutto, egli usciva sempre. Non entrava mai nella mia
camera; io non glielo avevo chiesto, ma egli intuì il mio desiderio ed evitò
sempre di venire. Di notte tenevo la luce accesa nella mia stanza e dalla porta
aperta il bagliore colpiva proprio il suo letto. Più tardi venni casualmente a
sapere che egli per questo non aveva dormito per molte notti, ma non si lamentò
mai. Di un altro episodio ti racconterò più avanti, non oggi… era un sacrificio
che lo costringeva ad attraversare “ogni notte”, con il solo cappotto sulle spalle,
la gelida anticamera, un sacrificio di cui venni a conoscenza solo molto tempo
dopo…
Ma tu sorridi forse di queste “inezie”. Oh, Guglielmina, come giudicheresti
male, se così facessi, gli uomini! I sacrifici grandi sono inezie, difficili sono i
piccoli; ed era più facile seguirmi a Vienna, più facile sacrificare a me 600 talleri
che acquistare il mio vantaggio a prezzo del suo, con instancabile benevolenza e
con zelo sempre silenzioso e privo di pretese, mostrandosi in un’infinità di
situazioni sempre, senza eccezioni, perfettamente disinteressato.
Non crederai, spero, che io tessa così vivi elogi di quel disinteresse soltanto
perché era a “mio” vantaggio. Vergogna! A un simile sospetto non voglio
neanche rispondere.
Potessi tu immaginare perché scrivo queste cose proprio a te! -
Rifletti su tutte le brutture cui l’egoismo spinge gli uomini, e considera in
quale mondo felice si vivrebbe se ognuno dimenticasse il proprio vantaggio per
l’altrui, e immagina almeno quel matrimonio felice in cui un disinteresse fervido
e affettuoso come questo fosse
“sempre” dominante. Tu senza dubbio comprendi con quale intenzione ti
abbia scritto queste righe che appunto per questo rileggerai molto spesso… non
già che io ti creda egoista, Dio mi guardi, poiché nemmeno io lo sono. Ma in me
stesso non trovo, tuttavia, una così pura, una così profonda benevolenza verso gli
altri, uno zelo così fervido, così costante in favore del loro vantaggio, una così
completa dimenticanza del mio, e questo è, ora, il grande ideale che cerco di
realizzare con tutta l’anima. Oh, potesse diventare anche il tuo…
Infatti, Guglielmina, non ho forse detto che la nostra felicità fu acquistata a
caro prezzo? Adesso possiamo meritarcela. Seguiamo l’esempio di
quell’eccellente fra gli uomini! Questa è la mia più ferma volontà. “Sempre” e in
“tutti” i casi voglio come lui dimenticare il mio proprio vantaggio ed essere,
come lui,
“perfettamente” disinteressato, non solo con te, ma con gli altri, mi fossero
anche del tutto estranei. Fa’ che questo splendido proponimento diventi anche
tuo! Abbi sempre in dispregio il tuo vantaggio, sia esso grande o piccolo, di
fronte a chiunque, di fronte alle tue sorelle, agli amici, ai conoscenti, ai
domestici, ai forestieri, a tutti. Cosa è mai il godimento di un vantaggio se lo
paragoniamo alla delizia di un sacrificio volontario? Anche nel caso più
trascurabile, adempi questo dovere splendido, anzi cerca avidamente le occasioni
nelle quali tu lo possa compiere. Ma non fare mai assegnamento sulla
gratitudine, mai, come lui. E se il tuo silenzioso, modesto sacrificio non dovesse
essere compreso, e se anche tu sapessi in precedenza che nessuno lo
comprenderà, fallo lo stesso… lo comprendi tu, e la tua coscienza te ne
ricompenserà. Ma non pretendere mai altrettanto dagli altri, mai. Il vero
disinteresse, infatti, si manifesta nella capacità di non sentirsi mai offesi
dall’egoismo altrui, e soprattutto dalla facoltà di prevenirlo in ogni circostanza.
E allora non accusare mai gli altri di questo difetto. Se il prossimo non
comprende il tuo sacrificio spontaneo, taci e non adirarti, e se ti chiede un
sacrificio, compilo senza indugiare, qualora ti sia possibile, e sia che egli ti
ringrazi o no, taci ancora e non adirarti mai. Oh, Guglielmina! Esiste forse
qualcosa che possa introdurti nella tua nuova esistenza con così alte speranze
come questi magnifici propositi? Sono felice al pensiero che quando ti rivedrò
mi apparirai diversa. Voglio che anche tu possa essere orgogliosa di me. Addio,
il tuo “amato”
H. K.
Berlino, 22 marzo 1801.
Mia cara e diletta Guglielmina, dopo la nostra separazione questo è uno dei
rari momenti che posso chiamare piacevoli, anzi forse è il primo… Dopo molte
giornate irrequiete sono ritornato oggi da una gita a piedi a Potsdam. Entrato
nella stanza di Carlo, chiesi se c’erano lettere tue e quando egli mi porse la tua
missiva, io l’aprii non senza preoccupazione temendo che fosse piena di
lamentele e di rimproveri per il mio lungo silenzio. Tu invece mi hai scritto una
lettera che da ogni punto di vista mi sembra quasi la più cara di tutte… sarei
quasi tentato di sentirmi orgoglioso: se infatti, ho detto a me stesso, il sentimento
di G. si è così raffinato, la sua intelligenza così chiarita, il suo linguaggio così
nobilitato, chi ne è… a chi lo… Insomma, non potei negarmi il piacere di
porgere la lettera, non appena l’ebbi letta, a Carlo, il che non avevo fatto mai.
Bacio la mano che l’ha scritta e il cuore che l’ha dettata. Continua così a
lottare per il premio, e sarà mio compito renderlo possibilmente invidiabile. Un
giorno stringerai al petto un uomo che le persone nobili onoreranno e se nel tuo
cuore dovesse nascere il desiderio di un qualcosa che io non potrò darti, vorrà
dire che la mia meta sarà errata, come lo sarà la tua se non terrai sempre viva in
me una simile aspirazione. Sì, Guglielmina, il mio amore è totalmente in tuo
potere. Sarei addolorato se dovessi esserti fedele soltanto per dovere. Vorrei
invece che la mia fedeltà fosse sempre dovuta solo all’amore. Io non sono
volubile, non sono incostante, non inseguo le gonnelle e disprezzo la ricchezza;
se un giorno dovessi negarti il mio cuore, dovresti ascriverne la colpa a te stessa,
non a me. Come infatti il mio amore fu opera tua, non mia, così anche il suo
durare è soltanto opera tua, non mia. Io mi preoccupo soltanto del tuo amore per
me, per il mio affetto verso di te non posso far nulla, assolutamente nulla, mentre
tu puoi “tutto”. Amarti, se non ti considerassi degna di essere amata, mi sarebbe
impossibile. Potrei darti la mia mano e mantenere così la mia promessa, ma non
il cuore…
Tu sai, infatti, come il cuore sia uno strano possesso, che bisogna farsi rubare
se si vuole che frutti interessi. Non temere dunque che io possa mai divenire
indifferente verso di te, ma bada a fare in modo che non sia “tu a rendermi”
indifferente. Sta’ tranquilla sin quando avrai l’intima convinzione di esser degna
del mio amore e quando ogni sera, dopo una giornata serena, compi il bilancio
delle tue azioni nel diario, e operate le detrazioni ti rimane un attivo di azioni
buone, e un sentimento pacato, dolce e inebriante ti avverte che sei ascesa un
gradino più in alto del giorno precedente, allora… allora puoi coricarti tranquilla
e pensare con fiducia a me che forse nello stesso istante penso a te con la
medesima fiducia, e sperare per il futuro -
non troppo ardentemente, ma neppure con eccessiva freddezza - in momenti
ancora più belli dei momenti più belli del passato… Ancora più belli?… Vedo la
scena e i ferri da maglia e la “Luisa” di Voss (35) e la pergola e le chiare notti di
luna… eppure… Silenzio!…
“Chi chiama?”… Ho avuto l’impressione che tu mi chiudessi la bocca coi
baci.
Poiché volevo rispondere punto per punto alla tua lettera, l’ho nuovamente
riletta (sempre con una gioia immutata). Ma tu hai saputo suscitare in ogni rigo
un interesse particolare e ogni rigo meriterebbe un foglio apposito di risposta.
Non posso però se non estrarre “un solo” pensiero quello che mi e’ più caro.
Sugli altri devo sorvolare.
Continua a seguire il bell’esempio che ti offre il fiore sul tuo davanzale. Ogni
qualvolta vai a un pranzo o a una cena o a un ballo, giralo, e quando al tuo
ritorno vedrai che il calice nuovamente è rivolto al sole, non essere da meno e
imita il suo esempio.
Ti faccio le più cordiali felicitazioni per il tuo Brockes femminile.
Non accetterei facilmente un simile paragone, ma in questo caso devo
approvarlo. A me la fanciulla è piaciuta molto. Tu mi hai parlato di alcuni suoi
tratti indescrivibilmente commoventi, e se la persona cui appartengono vale
moltissimo, anche colei che li ha compresi ha un valore. E’ infatti sempre indizio
della propria eccellenza il saper cogliere il bello dai tratti anche più insignificanti
del prossimo.
Non sarebbe stato facile trovare una circostanza che avesse il potere di
elevarti così rapidamente a uno stadio superiore come la tua passione per
Rousseau. In tutta la tua lettera trovo già un sentore del suo spirito: il secondo
regalo che ti farò, oggi stesso, sarà costituito dalle opere complete di Rousseau.
Ti indicherò anche l’ordine in cui dovrai leggerle; per ora continua pure
l‘“Emilio” sino alla fine.
Vengo ora a quel passo della tua lettera che nel mio attuale stato d’animo non
avrebbe potuto essermi più caro e che alla mia anima sofferente ha procurato lo
stesso sollievo che uno balsamo può arrecare a una ferita del corpo.
Tu scrivi: “Che cosa accade dentro di te? Mi faresti un grande piacere se me
ne parlassi più a lungo di quanto tu non abbia fatto fino ad ora; credimi, so
capire pienamente ciò che mi dici e vorrei condividere con te i tuoi pensieri
dominanti.”
Da queste cinque righe, cara Guglielmina, arguisco più che da qualunque
altra cosa che mi sei veramente amica. Gli uomini s’interessano unicamente alla
nostra sorte esteriore, e soltanto gli amici a quella interiore. La nostra situazione
esteriore può apparire tranquillissima, mentre il nostro intimo è in subbuglio…
Oh, non posso descriverti quanto mi sia dolce aprire una volta il mio cuore a un
essere che mi comprende. Sono costantemente preda di un’ansiosa inquietudine
quando mi trovo tra degli uomini affermanti il principio che soltanto un pazzo,
trovandosi senza patrimonio, può rifiutare un impiego. Tu invece non mi
giudicherai così severamente, non è vero?
Certo, la mia mente ruota intorno a un pensiero fondamentale che ha
afferrato l’intimo mio ed ha esercitato su di me un profondo sconvolgimento. Ma
non so come condensare su questo foglio tutto ciò che mi attraversa l’anima da
tre settimane. Tu dici però che sei capace di comprendermi, e così posso evitare
lunghi discorsi. Ma se desideri, potrò parlarti più diffusamente sull’origine e
sulla portata di un simile pensiero, e sulle sue conseguenze. Per ora, dunque,
soltanto questi accenni.
Fin da ragazzo (sul Reno, se non erro, attraverso uno scritto di Wieland) ho
fatto mio il pensiero che scopo della creazione deve essere il perfezionamento.
Mi convinsi che, dopo la morte, si debba progredire dal grado di perfezione
raggiunto su questo pianeta a un grado superiore sopra un’altra stella, su cui
potremo un giorno utilizzare il tesoro di verità qui accumulato. Da questo
pensiero mi venni formando a poco a poco una religione particolare, e
l’aspirazione a non star mai in ozio un istante su questa terra e ad ascendere
incessantemente verso un grado superiore di cultura, divenne ben presto l’unico
principio del mio agire. L’istruzione mi parve l’unica meta degna di essere
raggiunta, la verità l’unica ricchezza degna di essere posseduta… Non so, cara
Guglielmina, se tu sia in grado di nutrire la stessa mia riverenza verso questi due
principi:
“verità” e “istruzione”. Eppure sarebbe necessario per comprendere l’intero
svolgimento della mia anima. Per me questi principi erano a tal punto sacri che
pur di conquistare verità e di acquisire cultura avrei tollerato i massimi sacrifici.
Tu li conosci… Ma devo essere breve.
Poco tempo fa venni a conoscere la recente filosofia kantiana (36)…
e a te devo comunicare una delle sue tesi, poiché non temo che abbia a
scuoterti così profondamente e così dolorosamente come è accaduto a me.
D’altro canto non conosci a sufficienza l’insieme per poterne cogliere
pienamente l’importanza. Tuttavia cercherò di esporre con la maggiore chiarezza
possibile.
Se gli uomini avessero davanti agli occhi due vetri verdi, dovrebbero
concludere che gli oggetti osservati attraverso questi vetri “sono”
verdi, e non potrebbero mai stabilire se l’occhio mostri loro le cose così
come realmente sono o non attribuisca ad esse qualche proprietà che appartiene
non alle cose, bensì all’occhio. Lo stesso accade per l’intelletto. Noi non
possiamo decidere se quanto chiamiamo verità sia realmente verità o soltanto
apparenza. In questo secondo caso, la verità che conquistiamo vivendo non
esiste più dopo la morte, e ogni sforzo per far nostra una realtà che ci segua
anche nella tomba, è vano…
Oh, Guglielmina, se la punta aguzza di questo pensiero non colpisce il tuo
cuore, non sorridere se un altro ne resta profondamente ferito fin nei più sacri e
intimi recessi. Il mio unico, il mio più alto scopo è crollato e non ne ho più
alcuno…
Da quando mi si è affacciata questa convinzione, vale a dire che non è
possibile conquistare verità alcuna, non ho più toccato libro. Mi sono aggirato
indolente per la mia stanza, mi sono seduto davanti alla finestra, sono uscito
all’aperto, e un’intima inquietudine mi ha spinto a frequentare piccoli e grandi
caffè, teatri e concerti per distrarmi, sino al punto di commettere per stordirmi
una sciocchezza che sarà meglio ti racconti Carlo; e anche così l’ossessivo
pensiero che dominava la mia anima in quell’esteriore tumulto con ardente
angoscia, era sempre questo: il tuo “unico”, il tuo “più alto” scopo è crollato.
Una mattina volli costringermi a lavorare, ma un disgusto interiore annientò
la mia volontà. Provai un indicibile desiderio di piangere sulla tua spalla, o
almeno di abbracciare un amico. Sebbene il tempo fosse pessimo, corsi a
Potsdam, vi arrivai tutto bagnato, mi strinsi al petto Leopoldo, Gleissenberg (37)
e R hle, e mi sentii meglio…
Chi mi comprese meglio di tutti fu R hle. Leggi, mi disse, “Colui che porta la
catena” (un romanzo) (38). Questo libro è animato da una filosofia dolce e
gentile che saprà conciliarti con tutte le cose verso le quali sei in collera. E lui
stesso aveva attinto a questo libro alcuni pensieri che l’avevano reso
visibilmente più sereno e saggio. Trovai il coraggio per leggere questo romanzo.
Vi si parlava di cose che la mia anima aveva già elaborato da tempo.
Ciò che vi si diceva l’avevo già confutato in precedenza. Incominciai a voltar
le pagine con insofferenza laddove l’autore si dilunga a disquisire di lontani
conflitti politici… e questo dovrebbe essere il nutrimento per la mia sete
cocente? Taciturno e preoccupato deposi il libro sulla tavola, premetti la fronte
contro il cuscino del sofà, un vuoto indicibile si aprì nel mio cuore, anche
l’ultima possibilità di sollevarmi era fallita… Che fare ora? esclamai. Ritornare a
Berlino senza alcuna decisione? Ahimè, essere senza una meta verso la quale la
nostra mente possa procedere gaia e operosa è lo stato più doloroso che esista: e
in quello stato mi trovavo.
Spero che tu non voglia fraintendermi, Guglielmina. No, non lo temo.
In quei momenti di angoscia un pensiero attraversò la mia mente.
Cara Guglielmina, lasciami viaggiare. Lavorare non posso, non mi è
possibile, non saprei per quale scopo farlo. Se rimanessi a casa, dovrei stare con
le mani in mano, e pensare. Perciò preferisco muovermi, e pensare. Gli
spostamenti nel corso del viaggio mi saranno più propizi che il rimanere fermo a
tormentarmi. Se codesta è un’aberrazione, vi si può rimediare, e mi salva da
un’altra che forse potrebbe essere irrevocabile. Non appena avrò concepito un
pensiero che possa consolarmi, non appena avrò trovato un fine al quale poter
nuovamente tendere, torno indietro, te lo giuro. Ti mando il mio ritratto e porto
con me il tuo. Me lo vuoi permettere, a queste condizioni? Rispondi subito al tuo
fedele amico HEINRICH.
P.S. Scrivo oggi a Ulrica che, se me lo permetti, partirei probabilmente per la
Francia. Le ho promesso di non lasciare la patria senza avvertirla. Se vorrà
venire con me, bisogna che io accetti.
Dubito però che possa accogliere le mie condizioni. Intendo infatti ritornare
“appena saprò ciò che devo fare”. Sta’ tranquilla. Da questa lotta interiore dovrà
pur scaturire qualcosa di buono.
Berlino, 28 marzo 1801.
Cara fanciulla, secondo il tuo desiderio rispondo immediatamente alla tua
lettera, pur prevedendo che questa risposta non potrà essere lunga, dovendo
recarmi al massimo tra un’ora dal pittore e ricevere poi Leopoldo e un paio di
amici che arriveranno oggi da Potsdam per vedermi ancora una volta prima della
mia partenza.
Cara Guglielmina, rispetto il tuo cuore e il tuo sforzo di tranquillizzarmi, e
così il tuo ardimento, per cui non ti vergogni di avere una tua opinione, anche se
fosse in contraddizione con un famoso sistema. Ma l’errore non sta nel cuore,
bensì nell’intelletto e solo l’intelletto può annullarlo. Non so dirti quanto mi
abbia fatto piacere l’acume che dimostri a proposito del cristallino, ti ho
compresa meglio di quanto tu non ti sia espressa, e “tutto” ciò che dici su questo
argomento è vero. Ma nella mia lettera mi sono servito dell’occhio solo come
esempio esplicativo, non potendo parlarti nell’arido linguaggio della filosofia.
Ora tutto ciò che obietti può esser vero senza che si annulli il dubbio… Cara
Guglielmina, sono caduto per opera mia in un errore e solo per opera mia posso
sottrarmi ad esso. Questo errore, seppure è tale, non minaccerà di far crollare il
nostro amore, puoi esserne certa. Se dovessi rimanere eternamente in questa
situazione misteriosa, con una forte spinta interiore ad agire e tuttavia senza
meta, allora, è certo, allora sarei eternamente infelice e persino il tuo amore
potrebbe soltanto distrarmi, senza riuscire a rendermi coscientemente felice. Ma
saprò trovare, sta’
sicura, la parola che risolve l’enigma, ma ora non so essere tranquillo, e in
questa mia stanza non posso pensarci senza provar terrore delle conseguenze.
All’aperto potrò pensare più liberamente.
Qui, a Berlino, non trovo nulla che possa darmi gioia, sia pure per un istante.
In mezzo alla natura tutto andrà meglio. Tra stranieri mi sentirò anche
maggiormente a mio agio che tra la nostra gente che mi ritiene pazzo se oso
mostrare ciò che ho dentro. Addio… Questo biglietto non ha valore di lettera.
Presto, appena avrò risposta da Ulrica, ti scriverò di nuovo. Restami fedele,
come io ti resterò fedele.
H. K.
Berlino, 9 aprile 1801.
Cara Guglielmina! Mia diletta, mia unica amica! Prendo commiato da te…
Ahimè, mi pare che debba essere per sempre! Come un bambino che giuoca mi
sono avventurato nel mare, forti venti si levano, il naviglio oscilla paurosamente
sulle onde, il fragore, i sensi, non conosco neppure il punto cardinale verso il
quale dovrei navigare e un presentimento mi sussurra che la mia fine è
imminente.
Ahimè, so che queste righe non sono tali da facilitarti il commiato.
Ma non vorrai condividere i miei sentimenti quando soffro? Certamente!
la mia “amica”?
Ti dirò come in questi giorni la sorte abbia giocato con me.
Tu conosci la causa prima del mio viaggio imminente. In fondo non fu altro
che un intimo disgusto per qualsiasi lavoro scientifico.
Soltanto non volevo starmene ozioso a tormentarmi, ma preferivo ricercare,
attraverso un viaggio a piedi, una meta nuova dopo aver perduto la vecchia e
ritornare non appena l’avessi trovata. Il viaggio progettato non era dunque, a
rigore, altro che una lunga passeggiata.
Avevo però promesso ad Ulrica di non andare oltre le frontiere della patria
senza portarla con me. Così le annunciai la mia decisione. E
però, nel farlo, da una parte speravo che non avrebbe accettato per la grande
rapidità della decisione e le spese straordinarie; d’altro canto non temevo che,
qualora avesse accettato, questa circostanza potesse mutare la vera intenzione
del mio viaggio. Ascolta però come il cieco destino ha giocato con me. Da varie
persone m’informai se fosse necessario il passaporto. Mi dissero che se avessi
fatto il viaggio “da solo” con la diligenza postale, avrei probabilmente potuto
passare con la mia tessera di studente, se invece fossi stato in compagnia di mia
sorella e di un domestico, era assolutamente necessario il passaporto perché
altrimenti questo viaggio di uno studente con la sorella nubile avrebbe
certamente dato nell’occhio, come io stesso temevo. Ma i passaporti non si
potevano ottenere se non dal signor von Alvensleben, ministro degli Affari
esteri, e solo essendo in grado di indicare uno scopo plausibile del viaggio.
Quale scopo potevo indicare? Quello vero? Era possibile farlo? Uno falso?
Era lecito farlo?… Così non sapevo che pesci pigliare. Ero in procinto di
scrivere ad Ulrica per disdire il viaggio, allorché mi giunse una sua lettera, in cui
annunciava che sarebbe giunta dopo tre giorni. Può darsi, pensai, che si
accontenti di un viaggio più breve e fui quasi sul punto di proporglielo; ma Carlo
aveva già parlato diffusamente e con numerose persone del mio viaggio a Parigi
e io stesso non sempre avevo taciuto, e così in molti cominciarono ad affidarmi
incarichi per laggiù… dovevo ora comportarmi come una banderuola? Oh,
Guglielmina, noi crediamo di esser liberi, e il caso onnipotente ci guida con
mille fili sottilissimi. Che lo volessi o meno dovevo dunque intraprendere il
viaggio, e andare precisamente, lo volessi o meno, a Parigi. Comunicai a Carlo
lo strano mutamento della mia situazione ed egli mi confortò dicendo che
dovevo ormai adeguarmi alle circostanze; sperava che tutto sarebbe andato per il
meglio, ancor più di quanto pensassi. Questa, infatti, è la sua convinzione:
quando il destino ci mette i bastoni fra le ruote, proprio allora tutto si conclude a
nostro vantaggio. Posso nutrire questa speranza?… Dovetti dunque chiedere i
passaporti. Ma quale scopo potevo addurre? Oh, mia “cara” amica, non ci si
trova forse talvolta in situazioni dove, con la migliore buona volontà, si è
comunque costretti a fare ciò che non è proprio ben fatto? Se non partivo, non
avrei forse ingannato Ulrica? E se invece partivo non ero forse costretto a
indicare un falso scopo al fine di ottenere il passaporto?
Indicai dunque quello scopo che non è poi del tutto falso, cioè l’intenzione di
imparare, con questo viaggio (il che, a rigore, corrisponde perfettamente al
“mio” intendimento) o, come mi espressi, di studiare a Parigi, e precisamente
matematica e scienze naturali…
Oh Guglielmina, studiare “io”? In “questo” stato d’animo?… Eppure, era
necessario fare così. Il ministro e tutti i professori e i conoscenti mi augurarono
buona fortuna - a Corte lo si saprà senza dubbio - e potrò varcare il Reno così
come l’avrò attraversato all’andata? Non ho io stesso stimolato l’attesa altrui?
Non “dovrò”
davvero imparare qualcosa a Parigi? Oh, Guglielmina, i pensieri si agitano
nella mia anima come nubi tempestose. Non so cosa fare o non fare. Ciò che gli
uomini si attendono dalla mia intelligenza, io non posso darlo. I matematici
credono che laggiù studierò matematica, i chimici che ritornerò da Parigi con
vaste nozioni chimiche… mentre
“io”, in fondo, non volevo altro che fuggire qualsiasi sapere. Ho dovuto
persino accettare commendatizie per scienziati francesi, sicché ricadrò in quella
cerchia di uomini freddi, aridi, unilaterali nella cui compagnia non mi sono mai
sentito a mio agio… Oh, cara amica, una volta pensavo a questo viaggio con
grande entusiasmo… ora non più. Non prevedo niente di buono… Avevo un
indescrivibile desiderio di vederti ancora una volta e stavo già per recarti il
ritratto, magari a piedi. Ma sempre nuove e nuove circostanze me l’hanno reso
impossibile. Se Carlo mi avesse dato il suo cavallo, ti avrei abbracciata ancora
una volta, ma egli non volle darmelo, né poteva.
Addio, dunque! Oh, Guglielmina, se il cielo mi donasse un casa immersa nel
verde, abbandonerei per sempre tutti i viaggi e ogni scienza e ogni ambizione!
Nient’altro che dolori, infatti, mi procura questo cuore agitato incessantemente
che come un pianeta oscilla continuamente nella sua orbita verso destra e verso
sinistra, e con tutta l’anima aspiro a ciò cui aspira la totalità del creato e dei corpi
celesti, che ruotano sempre più lenti: la “quiete”!
Cara Guglielmina, i tuoi genitori scuoteranno il capo, Ahlemann starà in
pensiero, le fanciulle sussurreranno… e tu presterai fede talvolta a qualcuno più
che a “me”? Allora, oh allora non saresti degna di me! Il desiderio, infatti, di
riposare un giorno fra le tue braccia ha di continuo placato questa lotta interiore
che, a dire il vero, non riguarda affatto il nostro amore; ed io ho chiara e viva la
coscienza che preferirei scegliere subito la morte anziché trascinare con me per
tutta la vita il sentimento di averti ingannata.
Ti scriverò spesso. Ma se anche ti mancassero le mie lettere, sii sempre certa
che penserò a te ogni sera e ogni mattina, se non ancora più spesso. La stessa
cosa penserò che tu faccia. “Mai”, dunque, diffidenza o ansietà. “Fiducia in noi,
concordia tra noi” (39).
E adesso ancora qualche incombenza. Il ritratto (40) incluso non ho potuto
farlo incorniciare per mancanza di denaro, del quale ho molto bisogno. Fallo tu a
mie spese. “Un giorno” ti rifonderò. Spero che ti parrà più somigliante di quanto
non sembri a me. Vi è un qualcosa di beffardo che a me non piace. Vorrei che il
pittore mi avesse dipinto
“più onestamente”: per piacerti ho cercato di sorridere durante le sedute, e
sebbene non ne avessi voglia mi è stato possibile pensando a te. Tante volte mi
hai spianato le rughe dalla fronte con le dita e perciò nel ritratto, non essendo
possibile, ho fatto in modo che non fosse neppure necessario. Così, intendo così
“sereno”, sarò sempre se, se… Dio mio, quando? Bacia il ritratto sulla fronte
dove anch’io lo bacio.
Ed ecco la seconda richiesta: dimmi se ti devo 73 talleri o meno.
Carlo sostiene che ti ho già restituito qualche cosa, ma io non ricordo.
Scrivimi anche se devo dare il denaro alla Randow o a Carlo o se devo mandarlo
a te.
Ora, addio… Se mi rispondi “subito”, la tua lettera mi raggiungerà ancora a
Berlino. In tal caso ti risponderò non più da qui, ma già forse da Potsdam.
Addio… Saluta tutti, almeno Luisa (41), alla quale puoi mostrare tutte le mie
lettere. Se vuoi, non fare alcun mistero del nostro amore, porta il ritratto in
pubblico, io stesso l’ho mostrato qui in casa di Clausius, alla Glogern, ad Ulrica,
eccetera eccetera e tutti sanno a chi era destinato. Chiamami pure il tuo
innamorato poiché lo sono… e addio, addio… addio… Abbimi caro nel
profondo del cuore, restami fedele, abbi ferma fiducia in me…
addio… addio…
HEINRICH.
(Rimandami subito l’astuccio del ritratto poiché appartiene al “tuo”
ritratto).
Berlino, 14 aprile 1801.
Cara amica, dalle poche righe che mi hai scritto spirano ad un tempo tanta
malinconia e tanta dignità che neppure la tua presenza avrebbe potuto
commuovermi maggiormente. Quando ti penso seduta nella tua stanza, il mio
ritratto davanti a te, la testa posata sulle braccia, gli occhi gonfi di lagrime… oh,
Guglielmina, questo pensiero si assomma alla mia pena e la raddoppia. A te
l’amore ha concesso poche delle sue gioie, ma molte delle sue pene, e ti ha
imposto già due separazioni, ognuna delle quali era ugualmente pericolosa.
Avresti meritato un destino sereno: perché il Cielo ha voluto legare la tua sorte a
un giovane la cui anima stranamente tesa e irrequieta è in agitazione incessante?
Oh, Guglielmina, tu meriti tanta felicità, io te la devo, tu mi hai imposto questo
debito con tanta nobiltà d’animo… perché non te lo posso pagare? Perché non
riesco a darti in cambio altro che lacrime? Oh, Dio mi conceda la “possibilità” di
ripagare un giorno queste tue lacrime con altrettante gioie! “Mia cara, diletta”
amica, non ti chiedo di nascondermi la tua pena quando la senti, nello stesso
modo in cui io stesso esercito il più dolce diritto dell’amicizia, quello di
confidarti le pene del mio cuore; ma cerchiamo entrambi di rimanere il più
possibile calmi e sereni sotto la nube tempestosa. Perdonami questo viaggio…
sì, “perdonare”, non ho sbagliato la parola, poiché io stesso ora mi rendo conto
che il primo movente di esso non fu che una decisione precipitosa. Rileggi le
mie lettere da quel momento e interroga Carlo sul mio conto… Questo periodo
della mia vita e questa violenta spinta delle circostanze ad un atto col cui
pensiero mi ero solo permesso di giocare, mi appare estremamente strano. Ormai
però è irrevocabile e io “devo” partire…
Oh, Guglielmina, non più tardi di tre anni fa come avrei pregustato con
entusiasmo “un simile” viaggio! E adesso!… Oh, Dio sa quanto il cuore mi
sanguina! Domandalo a Carlo, che tutti i momenti mi chiede: perché mai
sospiri? Ma voglio cercare di trarre anche da questo viaggio tutto l’utile possibile
e imparare qualcosa dalla stessa Parigi, se mi sarà possibile. Può darsi che da
questa tormentata avventura della mia vita derivi pure qualcosa di buono… cara
Guglielmina, devo dirti che quasi lo spero? Ho un indicibile desiderio di quiete!
Il mio avvenire è totalmente immerso nel buio, non so che cosa desiderare e
sperare e temere, sento che né gli onori né la ricchezza e nemmeno le scienze
possono da sole appagarmi totalmente, un unico desiderio mi appare
perfettamente chiaro, e questo sei “tu”, Guglielmina… Dio mio, se un giorno
dovesse toccarmi la sorte modesta a cui aspiro, una donna, una casa mia, e la
“libertà”… oh non sarebbe acquistata a troppo caro prezzo con le lacrime che io
verso e quelle che versi tu, poiché te le ripagherei con altrettanti momenti di
estasi. Ecco, vogliamo sperare… Ciò che io desidero è concesso a milioni di
uomini, il Cielo appaga volentieri i desideri conformi ai suoi fini, perché
dovrebbe escludere proprio noi dalla sua bontà?
Speranza, dunque, e fiducia nel Cielo e in noi! Voglio sforzarmi di
dimenticare la sciagurata sottigliezza che è causa di questa confusione interiore.
E allora troverò forse, durante questo viaggio, momenti di gioia. Possa averne
anche tu! Continua pure a coltivarti; sarei insensato se respingessi ciò che di
giorno in giorno si va nobilitando per la mia gioia. Cerca di voler bene il più
possibile al tuo Rousseau; con “questo” rivale non sarò mai in collera. Ti
scriverò spesso, la prossima volta da Dresda, tra circa otto giorni. Scrivimi là,
ma subito, e non temere di scrivere l’indirizzo di tuo pugno; il nostro amore non
deve essere più un segreto. Verso l‘8 aprile andrò a Lipsia, e allora potrai
indirizzare a Minna Clausius, che sarà là con suo padre per la Fiera, e includere
una lettera per me. Dovunque tu scriva, durante il mio viaggio, devi sempre
indicare che la lettera deve essere ritirata personalmente (in Francia devi
scriverlo in francese). E ora addio. Ho dato a Carlo i 73 talleri dei quali ti sei
dimenticata di scrivermi, con la speranza che tu sia d’accordo. Addio, addio, sii
la mia “forte” fanciulla.
HEINRICH.
Dresda, 4 maggio 1801.
Cara Guglielmina, oggi me ne stavo sulla Terrazza Br hl con un libro da
leggere tra le mani, ma ero distratto e lo deposi. Dall’alta sponda dominavo la
stupenda valle dell’Elba che si stendeva ai miei piedi come in un quadro di
Claude Lorrain. Mi pareva quasi un paesaggio ricamato su un tappeto, verdi
campagne, villaggi, un largo fiume che Si volge rapidamente per baciare Dresda
e, dopo averla baciata, rapidamente fugge, e la magnifica corona di monti che
racchiude il tappeto come un orlo arabescato, e il puro, azzurro cielo italico che
s’inarcava su tutta la regione… Mi pareva che l’aria avesse un sapore dolce, gli
alberi da frutto mi alitavano incontro soavi profumi, e dappertutto fiori e gemme
e tutta la natura era come una bimba quindicenne… oh, Guglielmina, provavo un
indicibile desiderio di ricevere soltanto una goccia di gioia, pareva che tutto un
mare ne fosse sparso sopra il creato, io solo rimanevo a mani vuote… Mi
auguravo un poco di serenità, e anche questa soltanto per il breve tempo
necessario a scriverti una breve lettera serena. Ma il Cielo lascia inappagati
anche i miei più modesti desideri. Decisi di tacere ancora per questa giornata…
Allora ti vidi in ispirito nella quotidiana attesa di notizie e nella quotidiana
delusione, pensai che ti crucci e ti torturi con errate supposizioni credendomi
forse malato o addirittura… perciò mi alzai di scatto, dissi a Ulrica, che stava
leggendo seduta dietro di me, di seguirmi, entrai nella mia stanza ed eccomi ora
a tavolino per scriverti almeno che sono ancora vivo e che ti amo sempre.
Cara, diletta amica, permettimi di non scriverti più a lungo, non potrei dirti
niente di gaio, e la pena è un peso ancor maggiore quando la si condivide con
altri. Dopo la partenza da Berlino non ho ancora avuto un’ora veramente lieta,
sono stato bensì distratto, ma mai felice. I miei momenti più sereni sono quelli in
cui dimentico me stesso eppure può forse esistere la gioia senza una tranquilla
coscienza di sé? Oh, Guglielmina, in confronto a me tu sei felice perché hai
un’amica - io ad Ulrica posso dir tutto tranne ciò che mi è più caro. Tu non
immagini come la sua natura allegra, disponibile a tutte le avventure, sia lontana
dalle mie esigenze… Oh, potessi dimenticare quattro mesi della mia vita! Addio,
addio. Voglio dimenticare ciò che ormai è immutabile. Addio, nel “primo”
momento di allegria ti scriverò una lunga lettera. Ma sino ad allora lasciami
tacere… se temi che il mio amore possa raffreddarsi, ti torturi senza motivo. Dio
mio, se “un mio solo desiderio” potesse realizzarsi per salvarmi da questo
labirinto… Cara Guglielmina, ti prego di scrivermi immediatamente a Lipsia.
Certe circostanze ci hanno impedito di essere già là. Ma tu avrai mandato
probabilmente a Minna Clausius una lettera per me che ella, non avendomi
incontrato a Lipsia, avrà riportato con sé a Berlino. Perciò se non scrivi subito,
non troverò nessuna tua lettera a Lipsia dove conto di giungere tra circa dieci
giorni. Scrivi dunque subito, se puoi, e se non ti riesce così difficile come a
me… Addio, saluta Luisa e pensa a me anche soltanto la metà delle volte che io
ti penso, a quell’ora fissata… la ricordi ancora? Forse riceverai una mia lettera
ancora da Dresda.
H. K.
Lipsia, 21 maggio 1801.
Cara Guglielmina, al mio arrivo in questa città una mia grandissima speranza
è stata delusa. Avevo detto a voce e per iscritto sia a te che a Leopoldo, a R hle, a
Gleissenberg, eccetera, di indirizzare la corrispondenza a Lipsia dove avrei
visitato la Fiera. Essendomi però trattenuto a Dresda fin dopo la chiusura della
Fiera, non avrei fatto il lungo giro per passare da Lipsia se non avessi sperato di
trovarvi un mucchio di lettere, tanto più che a Dresda non ne ricevetti alcuna,
tranne, quattro settimane or sono, la tua. Ora immagina il mio stupore quando
alla posta non ho trovato neppure una lettera, né per me né per Ulrica: si direbbe
quasi che siamo cancellati dalla memoria dei nostri amici e parenti. Cara
Guglielmina, sono cancellato anche dalla tua?
Sei in collera con me perché da Dresda ti scrissi solo una volta e solo poche
righe? Vuoi vendicarti ricambiando pan per focaccia? Non ricorrere a cotesta
vendetta… se temi che tu non mi sia più cara e preziosa, t’inganni, e se supponi
che la brevità della mia unica lettera ne sia un indizio, significa che conosci male
la mia anima.
Prima, sì, prima era una gioia per me aprire il mio cuore a me stesso o a te e
affidare alla carta pensieri e sentimenti; ora non è più così. Ho trascurato persino
il mio diario perché lo scrivere mi ripugna. Un tempo gli istanti in cui divenivo
cosciente di me stesso erano i più belli per me, ma ora li devo evitare perché non
posso pensare a me e alla mia situazione senza rabbrividire. Ma lasciamo
perdere simili tristezze. Per questo e per altri motivi ti ho scritto così raramente:
prevedendo che non avrei potuto dirti cose che ti facessero piacere. Negli ultimi
giorni che passai a Dresda avevo già scritto per te metà di una lettera, quando
m’accorsi che era meglio strapparla, giacché ti avrebbe procurato soltanto
dolore. Perché alla creatura che dovrei rendere felice non posso procurare altro
che pianto? Perché sono condannato come Tancredi (42) a offendere con ogni
atto la persona che amo? Ma non parliamone e sia per sempre. La convinzione di
turbarti con le mie lettere invece di rasserenarti, me le rende così odiose che ero
sul punto di stracciare anche questo scritto. Ma almeno uno devo portarlo a
termine… e ti narrerò quindi brevemente la storia del mio soggiorno a Dresda
che non ti rattristerà, se mi limiterò a dirti ciò che ho visto e udito, non ciò che
ho pensato e sentito.
Credo che in tutto il mio viaggio imminente non troverò una città, neppure
Parigi, in cui le distrazioni siano così agevoli e gradevoli come a Dresda. Nulla
poté allontanarmi, senza che ne restasse alcun ricordo, dal triste territorio della
scienza quanto le opere d’arte accumulate in questa città. La pinacoteca, i calchi
in gesso, la raccolta di antichità, la collezione di incisioni in rame, la musica
religiosa nella chiesa cattolica: sono, queste, tutte cose che è possibile godere
senza il ricorso all’intelligenza, poiché agiscono soltanto sul sentimento e sul
cuore. Non appena entrai in questo mondo colmo di bellezza, del tutto nuovo per
me, mi sentii benissimo. Ogni giorno tornai ad ammirare gli ideali greci e i
capolavori dell’arte italiana, e nella pinacoteca rimanevo per ore e ore davanti
all’unico Raffaello di questa collezione, davanti a quella Madonna (43) dalla
solenne serietà e dalla pacata grandezza che nei suoi lineamenti mi ricordava, oh,
Guglielmina, due creature amate… Quante volte, trovando durante le mie
passeggiate giovani artisti con la tavoletta sulle ginocchia e la matita in mano,
intenti a copiare la bella natura, oh, quante volte ho invidiato quegli esseri felici,
non tormentati da alcun dubbio su di una verità comunque introvabile: essi
vivono unicamente per quella bellezza che si mostra loro talvolta, sia pure
soltanto come ideale. Chiesi una volta a uno di loro se, non essendo privi di un
certo ingegno, sia possibile dedicarsi all’arte con successo a ventiquattro anni.
Egli mi rispose che Wouwermann (44), uno dei più grandi paesaggisti, è
diventato artista solo a quarant’anni. Ma in nessun luogo provai una così
profonda commozione come nella chiesa cattolica, in cui la musica più solenne e
più edificante si unisce alle altre arti per scuotere violentemente il cuore. Oh,
Guglielmina, il nostro non è un servizio divino. Esso si rivolge soltanto al freddo
raziocinio, mentre i riti cattolici parlano a tutti i sensi. Nel mezzo, davanti
all’altare, su uno dei gradini più bassi, stava inginocchiato, isolato dagli altri, un
uomo con il capo chinato sui gradini più alti, immerso nella più fervida
preghiera. Non era tormentato da alcun dubbio, lui “aveva fede”… provai un
indescrivibile desiderio di inginocchiarmi al suo fianco e di piangere. Oh, una
sola goccia di oblio e con voluttà mi farei cattolico… Ma proprio di questo non
volevo parlare. La posizione di Dresda è grande e solenne, nel mezzo di una
corona di alture sull’Elba che la circondano a una certa distanza come se, per
rispetto, non osassero avvicinarsi. La corrente abbandona d’un tratto la riva
destra e si volge rapidamente verso Dresda per baciare questa beniamina.
Dall’alto dello Zwinger si può seguire il suo corso fin quasi a Meissen. Si
volge ora verso la riva destra ora verso la sinistra, come se la scelta le riuscisse
difficile, e tentenna quasi in estasi, e serpeggia giocando in mille circonvoluzioni
lungo la valle amena, quasi non volesse recarsi al mare… Da Dresda visitammo
Morizburg, Pillnitz, Tharandt, che tu già conosci, e Freiberg. A Freiberg
scendemmo entrambi nella miniera. Dovevo pur farlo per poter rispondere
affermativamente a chi mi avesse chiesto se l’avevo visitata. Non mi spingeva un
interesse particolare sebbene, in altri tempi, avrei provato curiosità per le nozioni
che in essa è possibile acquisire. Ma se il cuore avverte un bisogno rimane
freddo verso tutto ciò che non lo soddisfa, e solo vagamente ascoltai le
indicazioni della profondità del pozzo, della direzione della galleria, del
rendimento, eccetera. Avevo alcuni indirizzi per Dresda, ma ne utilizzai solo uno
e bruciai gli altri: per un cuore che si abbandona volentieri a tutte le impressioni,
nulla è pericoloso quanto le conoscenze, perché i nuovi rapporti rendono la vita
ancor più difficile di quanto già non lo sia. Ma non fu questa norma razionale a
tenermene lontano. A Dresda trovai alcune persone così care che per loro
dimenticai tutte le altre. Sebbene infatti io mi affezioni facilmente alle persone
che mi accade di conoscere, e mi trattenga poi volentieri con loro, non ho alcun
bisogno di frequentarne molte. Una di queste care persone era il capitano von
Zanthier, educatore del giovane conte von Stolberg e del principe von Pless,
uomo di cuore e di sani principii. Egli ci fece conoscere Dresda e contribuì non
poco al nostro divertimento. Oltre a lui trovammo a Dresda anche un paio di
parenti, il sottotenente von Einsiedel e sua moglie, i quali ci presentarono alla
rappresentanza femminile della città. Di questa facevano parte le due signorine
von Schlieben (45), povere, gentili e buone: tre qualità che, se riunite, sono
quanto di più commovente io conosca. Stavamo volentieri in loro compagnia e
alla fine le ragazze cercavano anch’esse la nostra così volentieri che la sera del
commiato una di loro pianse sinceramente. Da Dresda facemmo anche una lunga
passeggiata a Toeplitz, distante otto miglia, in una regione stupenda, soprattutto
se la si ammira dal vicino colle del castello, da cui il paese sembra un mare di
terra agitato e i monti piramidi colossali dalle linee deliziose, come se gli angeli
avessero giocato con la sabbia… Da Toeplitz ci addentrammo in Boemia fino a
Lowositz che giace alle falde meridionali dei Monti Metalliferi, nel punto in cui
entra l’Elba. Come una fanciulla che si presenti tra uomini, così l’Elba appare
snella e limpida tra le rocce: si avvicina silenziosa, con passo timido, e la rude
compagnia le si affolla intorno, tagliandole la strada per guardare il suo volto di
creatura luminosamente pura, ma essa, senza indugiare, si divincola e fugge via
arrossendo… Ad Aussig mandammo avanti la carrozza per via terra e
viaggiammo per dieci miglia sull’Elba fino a Dresda. Oh, Guglielmina, era una
di quelle giornate tiepide, dolci, semicrepuscolari che suscitano tutte le nostalgie
e tutti i desideri del cuore… Sulla superficie dell’acqua aleggiava il silenzio e
severe apparivano le rive, alte, buie e rocciose, che il fiume incide. Qua e là
apparivano case appoggiate alla roccia, abitate da pescatori o da vignaioli. La
loro sorte mi appariva commovente e allettante in modo indescrivibile… la
piccola capanna solitaria sotto lo strapiombo protettore, il fiume che porta
frescura e alimenti ad un tempo, gioie che nessun idillio può dipingere, desideri
che non valicano la vetta dei monti circostanti… oh, cara Guglielmina, queste
cose non sono anche per te commoventi e desiderabili come lo sono per me? Per
ottenere “questa” felicità non saresti anche tu disposta ad abbandonare tutto ciò
che si trova oltre i monti? Io ne sarei capace… ahimè, ho un indicibile desiderio
di quiete (46). Pretendere di vivere per il futuro… oh, è un sogno da ragazzi, e
solo chi vive per il presente vive per l’avvenire. Anzi, chi più fedelmente del
padre di famiglia, dell’agricoltore adempie la sua missione secondo la volontà
della natura? Ho prefigurato il mio destino futuro… oh, Guglielmina, per questa
felicità avrei rinunciato con gioia alla gloria e a tutte le ambizioni. Due pescatori
vogavano contro corrente ed erano madidi di sudore. Mi feci dare il remo da uno
dei nostri barcaioli e mi misi all’opera a tutta forza. Già, pensai, è uno scherzo,
ma se fosse sul serio? Allora sia, mi risposi, e decisi di remare senza interruzione
per tutto un miglio. Non potei farlo senza sforzo e fatica… Tuttavia ci riuscii. Mi
asciugai il sudore, mi sedetti accanto a Ulrica, le presi una mano - era fredda -
pensai alla ricompensa, a te…
Addio, Addio. Scrivimi a Gottinga, ma subito, e parlami di ciò che hai
vissuto durante questo tempo, della tua situazione, e un po’ anche della mia
famiglia. Quando mi sentirò sereno come oggi, ti scriverò nuovamente. Il tuo
fedele amico
HEINRICH.
Gottinga, 3 giugno 1801.
Mia cara Minetta, ho ricevuto ieri la tua lettera che per più di una ragione mi
ha fatto molto bene, e mi affretto a risponderti. Non ti basta che ti descriva la
mia situazione esteriore; devo anche parlarti del mio intimo? Oh, cara
Guglielmina, è facile quando nell’anima tutto è chiaro e limpido, quando basta
guardare in se stessi per leggervi con chiarezza. Quando invece pensieri lottano
con pensieri, sentimenti con sentimenti, è difficile dire che cosa regni
nell’animo, perché la vittoria è ancora incerta. Dentro di me tutto è ancora
confuso come le fibre di stoppa nella conocchia e invano mi sforzo di riordinare
con la mano dell’intelletto il filo della verità, che la ruota dell’esperienza
dovrebbe produrre, intorno alla spola della memoria.
Persino i miei desideri si alternano e ora l’uno ora l’altro arretrano nel buio
come gli oggetti d’un paesaggio quando le nuvole passano nel cielo. Ciò che tu
dici per consolarmi è davvero quanto di più confortante io abbia mai udito. Io
stesso incomincio a credere che l’uomo esista non soltanto per pensare, ma per
qualcosa di più alto…
il lavoro, lo sento, può essere l’unica cosa in grado di rendermi più sereno.
Ciò che m’inquieta è l’impossibilità di fissare una meta alle mie aspirazioni e il
timore di fallire nella mia missione se mai ne afferrassi troppo rapidamente una
sbagliata, rovinando così la mia intera esistenza. Ma sta’ tranquilla, troverò la via
“giusta”. Errata è ogni meta che non sia stabilita all’uomo dalla pura natura. Mi
par quasi d’intuire la meta autentica… e tu, Guglielmina, mi seguiresti qualora ti
convincessi che è quella giusta? Ma permettimi di non parlare di ciò che è
ancora poco chiaro persino a me stesso. La storia della tua vita durante l’assenza
dei tuoi genitori, e specialmente la qualità di gioia che hai goduto, mi ha
commosso in modo indescrivibile. “Questa” gioia, Guglielmina, è certa per te;
ma potrai accontentarti di questo soltanto? Se una fanciulla delle tue condizioni
può farlo, quella fanciulla sei tu, e questo pensiero mi dona una forza
indescrivibile. Accontentati di questi scarni accenni alla mia vita interiore. Vi
sono così poche cose determinate che temo di scriverne perché diventerebbero in
certo qual modo definitive.
Ricavane ciò che vuoi… ma è certo che non mi auguro alcuna felicità terrena
se non “grazie a te”. Continua, cara fanciulla, a perfezionarti così da saper
donare una felicità sempre più grande.
Rousseau è lo scrittore che maggiormente amo tra quanti possono istruirti,
ora che io non sono più in grado di farlo direttamente come una volta. Oh
Guglielmina, mi hai riportato alla memoria tempi giocondi e in questa occasione
mi è venuto in mente anche ciò che tu
“non” mi hai rammentato. Credi forse che trascorra un solo giorno senza che
io pensi a te? Non posso contemplare il tuo ritratto così di frequente come vorrei,
perché ogni testimone indiscreto mi dà fastidio. Più d’una volta ho rimpianto di
non essere stato fedele alla mia prima decisione di viaggiare “da solo”. Ho un
grande rispetto per Ulrica, nel cui animo vive tutto quanto è degno di stima e di
ammirazione, ma se anche molto può possedere e molto può donare, sul suo
seno, come dice Goethe (47), non si può trovare riposo. Questo però, come tutto,
rimanga tra noi. Del nostro viaggio potrei riferirti molti altri particolari. Come
forse non sai ancora, viaggiamo con cavalli nostri acquistati a Dresda. Giovanni
ci rende in questo ottimi servigi, siamo molto contenti di lui e pensiamo spesso
con gratitudine a Carlo che ce lo ha ceduto spontaneamente. Immagino che
Carlo sia ora a Francoforte. O a Magdeburgo? Se lo vedi o gli scrivi, digli una
parolina anche da parte mia. Avevo promesso di scrivergli ogni tanto, ma lo
scrivere mi riesce ora così difficile che spesso trascuro anche le lettere più
necessarie. Ieri, finalmente, ho scritto per la prima volta alla mia famiglia in
Pomerania: chi crederebbe che un uomo a cui la famiglia ha donato “tutto” ciò
che può legare un cuore: amore, fiducia, riguardo, soccorso in parole e fatti,
possa lasciare la patria senza neppure prendere commiato per iscritto dai suoi
parenti?
Eppure sono le persone a me più care e dilette in questo mondo. A tal punto
si contraddicono in me l’azione e il sentimento… Oh, è disgustoso vivere…
Scrivi dunque a Carlo che non sia in collera se non ha ricevuto mie lettere, che
sia generoso e mi faccia avere qualche sua notizia, riferisca le novità e altre cose
simili. Pregalo anche che si informi da R hle se costui non abbia ricevuto lettere
mie e nemmeno quel lungo scritto che gli mandai da Berlino. Digli che lo
convinca a scrivermi, giacché vorrei avere la conferma che lo scritto non è
andato perduto. Ora desidero condurti da Lipsia a Gottinga, ma un po’ più
rapidamente di quanto non abbiamo viaggiato noi. Noi, infatti, vaghiamo come
gli antichi cavalieri di castello in castello, ci soffermiamo e scambiamo
volentieri una buona parola con gli uomini.
In ogni città cerchiamo i più degni, a Lipsia Platner, Hindenburg, a Halle Kl
gel, a Gottinga Blumenbach, Wrisberg, e molti altri. Ma tu questi nomi neppure
li conosci, forse. Sono i maestri dell’umanità (48). A Lipsia Ulrica trovò
finalmente la possibilità di un’avventura e assistette, travestita, a una pubblica
lettura di Platner. Ma ciò avvenne non senza che lo sapesse il consigliere aulico,
il quale desiderava anzi che per evitare noie, ella intervenisse in abito maschile
anziché in vesti femminili. Tutto andò liscio, nella sala il consigliere e io
eravamo i soli a conoscenza del segreto. A Halberstadt andammo a visitare
Gleim (49), il celebre poeta, uno dei vegliardi più commoventi e interessanti che
abbia mai conosciuto. Per lui non avevamo altra raccomandazione che il nostro
nome; ma non poteva esistere presentazione migliore di questa. Egli infatti, a suo
tempo, fu amico intimo di Ewald Kleist (50) che cadde presso Francoforte. Poco
prima di morire, costui gli aveva raccomandato un nipote, un Kleist, per il quale
però Gleim non aveva mai potuto far nulla perché neppure lo conobbe. E così,
quando mi feci annunciare, pensò che fossi quel nipote e la gioia con cui ci
venne incontro è indescrivibile. Ma quando si rese conto di aver sbagliato, non
ce lo fece pesare perché chiunque si chiami Kleist gli è benvenuto. Ci introdusse
nel salotto ornato con i ritratti dei suoi amici. Non vi è nessuno tra costoro, ci
spiegò, che non abbia scritto una bella opera o compiuto una grande azione.
Kleist fece l’una e l’altra, e perciò è in prima fila. Con malinconia ci elencò i
nomi degli amici che l’avevano preceduto, dolendosi di essere rimasto indietro.
Ma poiché ha 83 anni, verrà presto anche il suo turno. Possiede qualche
centinaio di lettere di Kleist, e anche la sua prima poesia. Infatti fu Gleim a
mostrargli, per primo, la speranza di salire il Parnaso e il modo in cui accadde è
assai strano e curioso. Kleist, infatti, era stato ferito in un duello e giaceva a letto
a Potsdam. Gleim era allora quartiermastro del reggimento e andò a trovare il
malato, che conosceva superficialmente. Ahi, disse Kleist, mi annoio
mortalmente perché non posso leggere. Senta, rispose Gleim, verrò da lei ogni
tanto, e le leggerò qualcosa. In quel tempo aveva scritto poesie scherzose sul
modello di Anacreonte e gli lesse tra l’altro un’ode alla Morte che dice
all’incirca così: Morte, perché rapisci la mia fanciulla? Anche tu sei capace di
innamorarti?… E via di seguito. E
così conclude: Che cosa vuoi farne? Potrai certo mordere le fanciulle con
denti senza labbra, ma non le potrai baciare… All’idea della morte che con denti
nudi e aguzzi premuti nelle morbide labbra di rosa tenta di dare un bacio, Kleist
scoppia in una tale risata che, per la scossa, gli salta via la fasciatura della ferita
alla mano. Si manda a chiamare un cerusico. Fortuna, dice costui, che mi avete
fatto venire, perché si stava formando inavvertitamente la cancrena e domani
sarebbe stato troppo tardi. Per gratitudine Ewald Kleist dedicò la sua vita alla
poesia che lo aveva salvato. A Wernigerode avemmo occasione di conoscere una
gentilissima famiglia, gli Stolberg. A Gosslar entrammo nella miniera di
Rammelsberg ove, in immense caverne, si fondono i metalli con grandi roghi
accesi, e per il calore tutti lavorano nudi.
Sembra di essere all’inferno o almeno nella fucina dei Ciclopi. Da Ilsenburg
salimmo il pomeriggio del 31 sul Brocken che tu già conosci dalla descrizione
del mio viaggio precedente. Ho contemplato a lungo anche Quedlinburg, ma solo
da lontano. A Ilsenburg ho visto il lago su cui la Knobelsdorf navigava da
bambina. Ti prego di scrivere a Carlo che il vecchio Otto manda a salutare la
Knobelsdorf. E ora addio. Oggi andremo a un ballo, e i piedi danzeranno mentre
il cuore piange. Poi il corpo si allontanerà sempre più da te, mentre l’anima
sempre più cercherà di tornare a te. La sorte malvagia mi spinge a vagabondare,
mentre la mia necessità più impellente sarebbe la quiete. Possono agitarsi nel
mio cuore angusto tante contraddizioni? Addio. Eccoti il mio itinerario. Domani
sarò a Francoforte, Magonza, “Mannheim”; scrivimi là e comunica questo
indirizzo a Carlo. Poi passeremo dalla Svizzera e andremo nella Francia
meridionale. La Francia meridionale!
Lo ricordi ancora questo paese? E il vecchio progetto?… A Parigi dovrò ben
continuare lo studio delle scienze naturali e finirò col ritrovarmi sul vecchio
binario, o forse non sarà cosi, chi può dirlo?… Ho lettere di raccomandazione
per scienziati parigini, e costoro non ti lasciano andare prima che tu abbia
imparato qualcosa da loro. Addio. Saluta la sorella d’oro, Carlo e tutti coloro che
possono provare piacere se li ricordo.
HEINRICH KLEIST.
Strasburgo, 28 giugno 1801.
Cara Guglielmina, anche a Mannheim e a Strasburgo ho chiesto invano se ci
fossero tue lettere e ormai da cinque settimane non so come stai, come vivi, cosa
fai, null’altro “se non che mi ami”. Questa notizia non manca mai a chi ama
fedelmente e io spero che anche tu l’avrai ricevuta da parte mia. Ogni giorno ho
pensato a te con l’antico fervore e ho utilizzato ogni ora solitaria per attuare in
sogno i miei desideri… In sogno… poiché nella realtà… Ah, Guglielmina, non
verrà il giorno in cui potremo stringerci fra le braccia ed esclamare:
finalmente… finalmente siamo felici?
… Dovevo parlare di altre cose. Oggi volevo scriverti da Strasburgo una
lettera molto lunga alla quale mi sentivo pronto. Ma ascolta ora in che modo hai
perduto questa lunga lettera. Qui ci hanno parlato dei festeggiamenti per la pace
(51), che dovranno aver luogo il 14 luglio a Parigi, con tanta insistenza che ci
siamo decisi ad abbandonare la Svizzera per raggiungere direttamente Parigi.
Però non dobbiamo perdere nemmeno un giorno per potervi arrivare in tempo.
Così partiamo fra un’ora e io approfitto di questo tempo per darti brevemente
qualche notizia di me. Non appena a Parigi si sarà conclusa la festa per la pace, ti
scriverò subito, e precisamente una lunga lettera…
Oh, Guglielmina, da una parte sono lieto di aver ritrovato finalmente un po’
di quiete, dall’altra ho l’impressione che al mio cuore ripugni la città nella quale
dovrò mettere piede. Fino ad ora dei francesi non ho visto altro che i loro orrori e
i loro vizi. E gli stolti penseranno che io vada a Parigi per conoscere e imitare i
costumi francesi! Quand’ero con Gleim a Halberstadt, egli era triste al pensiero
che mi recavo in Francia. Gli domandai perché, ed egli mi rispose: perché sarei
diventato francese. Io invece gli promisi di ritornare ancora tedesco. Il tempo
incalza, la valigia è pronta.
Scrivimi subito a Parigi: “A Mon. de Kleist. ci-devant lieut. au reg.
des gardes prussiennes, poste-restante”, molto di te, ma anche qualcosa degli
amici. Tu sei l’unica dalla quale riceverò lettere dalla mia patria. Addio. Il tuo
fedele
HEINRICH.
Parigi, 21 luglio 1801.
Mia cara Minetta, con amore realmente profondo ti ricordo in questo
momento… dimmi, mi sei ancora devota con la stessa grande fiducia, con lo
stesso grande fervore di un tempo? La mia improvvisa partenza da Berlino senza
prendere commiato da te, lo strano motivo, per te quasi incomprensibile, le mie
lettere brevi, tristi, confuse, e nello stesso tempo… oh dimmi, non c’è mai stata
una punta di diffidenza che ti abbia sfiorato il cuore? Oh, te lo perdono, e in
fondo all’anima sono lieto per la consapevolezza di essere migliore di quanto
appaio. Sì, mia cara amica, se la mia condotta ti ha lievemente angustiato, la
colpa non fu del mio cuore, ma soltanto della situazione. Turbato dalle tesi di
una triste filosofia, incapace di dedicarmi a un’occupazione, incapace di
intraprendere qualsiasi cosa, incapace di concorrere a un impiego, avevo lasciato
Berlino solo perché paventavo quella quiete, in cui trovavo meno che mai la mia
quiete; ed eccomi ora in questo viaggio all’estero senza scopo e senza meta,
senza capire dove approderò. Talvolta, durante questo peregrinare, ebbi
l’impressione di andare incontro al mio abisso (52).
E soltanto il sentimento di trascinare giù anche te, mia buona, fedele e
innocente fanciulla, te che mi sei totalmente devota perché attendi da me la
felicità… Oh, Guglielmina, molte volte ho combattuto con me stesso… e perché
non dovrei osare dirti ciò che non mi vergogno di confessare a me stesso? Molte
volte ho lottato con il dubbio se non sia mio “dovere” lasciarti; se non sia mio
dovere “strapparti” da colui che va visibilmente incontro al proprio abisso. Ma
ascolta ciò che mi sono risposto. Se la abbandoni, mi dissi, sarà forse più felice?
Non perde, anche in questo caso, lo scopo della sua vita?
Potrà un altro uomo chiedere la mano di una fanciulla la cui promessa è nota
al mondo? e potrà lei amare un altro come ama te? Ma non pensavo solo alla tua
felicità, e consideravo anche la mia… oh, cara amica, chi può evitare di essere
un poco egoista? Posso io, mi domandavo, distruggere l’unica speranza per il
futuro che ancora mi scalda un poco con energia vitale? Devo abbandonare
anche l’unico desiderio della mia anima, il desiderio di chiamarla mia sposa?
Devo aggirarmi su questo astro senza meta, senza desideri, senza energia, senza
gioia vitale, con la coscienza di non poter mai trovare un luogo in cui la felicità
fiorisca per me? Oh, Guglielmina, non mi è possibile rinunciare ad ogni speranza
di gioia, anche se dovessi trovarla nel più lontano avvenire. E poi… è proprio
“certo” che io vada incontro al mio abisso? Chi può intuire i disegni del destino?
Esiste una notte che duri eterna? E se una sorte incomprensibile mi ha reso
fulmineamente infelice, non potrebbe una sorte parimenti incomprensibile
rendermi altrettanto rapidamente felice? E se anche non fosse così, se il Cielo
non operasse miracoli, come infatti è vano sperare ai nostri giorni, non possiedo
forse risorse in me stesso? Non ho forse ingegno e cuore e spirito, o la mia
energia è forse crollata per sempre? Questa debolezza è forse più di una malattia
passeggera a cui seguiranno forza e salute? Non posso forse lavorare? Mi
vergogno del lavoro? Sono superbo, vanitoso, pieno di pregiudizi? Non mi è
forse benvenuto qualunque lavoro “onesto”, e desidero forse un premio
maggiore della libertà e di una cosa che sia nostra?
Bacia il mio ritratto, Guglielmina, come io ho appena baciato il tuo.
Ma ascoltami. Devo dirti ancora una cosa, te ne sono debitore. E’
sicuro che prima o poi spunterà per me un giorno sereno. Non merito di
essere infelice e non lo sarò sempre. Può tuttavia trascorrere del tempo, e devi
quindi essermi fedele. Dovrò anche cogliere il fiore della felicità dovunque io lo
trovi, ovunque, in un paese o nell’altro, e per questo ci vuole amore… Tu che ne
dici? Interroga il tuo cuore. Non ingannarmi, come io ho fermamente deciso di
non ingannarti mai.
Ora però desidero riferirti anche delle notizie riguardo al viaggio.
Lo sai che il tuo amico ha sfiorato la morte? Non spaventarti, l’ha soltanto
sfiorata e sta ancora ritto nella vita. Il giorno dopo aver recato alla posta la lettera
per te a Gottinga, partimmo da questa città per Francoforte sul Meno. A cinque
miglia da questa città, a Butzbach, una piccola cittadina, ci fermammo una
mattina davanti a una locanda per dare il fieno ai cavalli; Giovanni tolse loro le
redini e noi due rimanemmo tranquillamente seduti. Mentre Giovanni era in
casa, arriva dietro a noi una fila di asini, uno dei quali emette un raglio così
orribile che anche noi, se non fossimo stati in grado di ragionare, ci saremmo
spaventati. I nostri cavalli, invece, che hanno la disgrazia di non possedere la
ragione, si impennarono e si lanciarono di gran carriera lungo la strada lastricata.
Io cercai di afferrare le briglie, però le redini erano sciolte e pendevano loro sul
petto, e prima che avessimo il tempo di percepire la gravità del pericolo, la
nostra leggera carrozza si rovesciò, facendoci precipitare… E’ dunque da un
raglio d’asino che dipende la vita umana? E se questa si fosse conchiusa, sarei
vissuto “per questo”?
“Questa” sarebbe stata la volontà del Creatore, in questa vita terrena così
oscura ed enigmatica? “Questo” avrei dovuto vivere e impararvi, e nient’altro?
Ma non era conchiusa ancora. Per che cosa il Cielo me l’abbia prolungata, chi
potrebbe saperlo? Fatto sta che entrambi ci alzammo dal lastrico sani e salvi e ci
abbracciammo. La carrozza era rovesciata con le ruote all’insù, una delle quali
era fracassata, e anche il timone era spezzato e i finimenti strappati. Tutto questo
ci costò 3 luigi d’oro e 24 ore; poi si proseguì… per dove? Lo sa Dio.
Da Magonza continuammo il viaggio sul Reno fino a Bonn. Oh,
Guglielmina, è una regione simile al sogno di un poeta e la più gentile fantasia
non potrebbe immaginare niente di più bello di questa valle, che ora si apre, ora
si chiude, ora fiorisce, ora è deserta, ora sorride, ora incute paura. Il primo
giorno, fino a Coblenza, trovammo tempo buono. Nel secondo, in cui ci eravamo
proposti di giungere fino a Colonia, si levò, fin dalla partenza, una bufera così
violenta in senso contrario che i barcaioli non vollero proseguire col grande
postale tutto coperto e approdarono a un villaggio treverano.
Là giungemmo alle 10 del mattino e ci fermammo per tutto il resto della
giornata, sperando sempre che l’uragano cessasse. Infine, alle 11 di notte, parve
che si calmasse un poco e tornammo a imbarcarci con tutta la compagnia. Ma
eravamo appena giunti in mezzo al fiume allorché si scatenò un’altra bufera così
inaudita che i barcaioli non riuscivano più a governare il naviglio. Le onde, che
in questo fiume largo e maestoso non sono così insignificanti come quelle
dell’Oder, si avventarono contro il fianco del naviglio, squassandolo con tanta
violenza che i suoi pericolosissimi rollii spaventarono tutti. Ognuno,
dimenticando tutti gli altri, si aggrappava a una trave, e così feci anch’io per
reggermi… Oh, non c’è nulla di così disgustoso come la paura della morte. La
vita è l’unica proprietà che vale qualcosa solo quando non la apprezziamo. E’
spregevole non saperla abbandonare serenamente, e può utilizzarla per nobili
scopi soltanto colui che è in grado di gettarla via facilmente e con serenità. Chi
l’ama a fondo è già moralmente morto, giacché la sua suprema energia vitale,
quella cioè di poter sacrificare la vita, marcisce mentre egli la coltiva.
Eppure… come è imperscrutabile la volontà che ci domina! Questa realtà
misteriosa che ci è data, non sappiamo da chi, che ci trascina non sappiamo
dove, che è proprietà nostra e non sappiamo se sia possibile disporne, una
proprietà che non vale nulla se le attribuiamo un valore, una realtà così
contraddittoria, superficiale e profonda, deserta e ricca, degna e spregevole,
multiforme e imperscrutabile, questa realtà che ognuno vorrebbe buttar via come
un libro incomprensibile, non siamo forse costretti ad amarla per legge di
natura? Noi dobbiamo tremare di fronte all’annientamento che pur non può
essere penoso come a volte è penosa la stessa esistenza, e anche chi compiange il
triste dono della vita, deve mantenerla con cibo e bevanda e fare in modo che
non si spenga la fiamma che non lo illumina né lo riscalda.
Ho detto parole molto cupe, non è vero? Pazienza… non sarà sempre così, e
io non vedo l’ora che spunti un giorno diverso, come il cervo, nella calura
meridiana, cerca il fiume in cui lanciarsi… ma pazienza! Pazienza? Può il Cielo
pretenderla dalle sue creature dopo aver donato loro un cuore così colmo di
nostalgie? Distrazione!
Distrazione!… Oh, potesse la verità dello studio sembrarmi ancora cosa
degna come un tempo, l’occupazione non mi mancherebbe in questo luogo.
Purché Dio mi conceda la forza. Voglio tentare. Per il tramite di Humboldt (53) e
Lucchesini sono già venuto in contatto con alcuni scienziati francesi e ho già
frequentato alcune lezioni… Ahimè, Guglielmina, costoro mi parlano di alcali e
acidi, mentre un onnipossente bisogno mi inaridisce le labbra… Addio, addio,
scrivimi presto, consolami.
IL TUO H. K.
(In seguito ti parlerò di Parigi).
Parigi, 15 agosto 1801.
Mia cara Minetta, la tua lettera e le poche righe di Carlo e Luisa mi hanno
procurato un piacere immenso. Erano, dopo dieci settimane, le prime righe di tuo
pugno; le lettere infatti che, come dici, mi hai scritto durante questo tempo,
devono essere andate smarrite perché non le ho ricevute. Tanto maggiore è stata
la mia gioia quando oggi alla posta riconobbi il mio indirizzo e la tua scrittura.
Figurati però il mio spavento allorché il maestro di posta pretese di vedere il mio
passaporto e io m’accorsi di averlo disgraziatamente dimenticato. Che fare? La
posta dista un buon mezzo miglio dalla mia abitazione…
Dovevo tornare indietro e aspettare ancora due ore ad aprire una lettera che
tenevo già in mano? Pregai il maestro di posta di voler fare per una volta
un’eccezione, gli feci notare quanto fosse scomodo tornare indietro, gli confidai
la gioia che mi avrebbe dato se avessi potuto tenere la lettera, gli giurai che ero
Kleist e che non lo ingannavo. Invano! L’uomo fu inesorabile. Voleva vedere
nero sul bianco, non sapeva leggere le facce. Ingannato mille volte, non credeva
più che a Parigi ci potesse essere una persona onesta. Con un senso di disprezzo,
o meglio di compassione per lui, andai a prendere il passaporto e lo perdonai
solo quando mi consegnò la lettera.
Stanchissimo entrai in un caffè e la lessi - e la serietà che vi regna, i tuoi
sforzi silenziosi per accrescere sempre più la tua istruzione, la descrizione del
tuo stato d’animo che, per quanto io ti rattristi, appare ancora abbastanza felice,
tutto ciò mi commosse così profondamente che non potei resistere nel teatro in
cui mi ero recato per assistere a un grande dramma, e dovetti uscire prima che si
iniziasse la rappresentazione e ora, con tutto il calore della prima impressione,
sono seduto al tavolo per risponderti.
Tu vuoi che ti comunichi qualcosa della mia anima. Mia cara fanciulla,
quanto volentieri lo faccio se posso sperare che ti sia gradito. Sì, da qualche
settimana mi pare che la tempesta sia un po’ placata. Puoi immaginare come
debbano essere lievi, malinconicamente allegri i sentimenti del barcaiolo, il cui
naviglio sia stato sballottato in una lunga tenebrosa notte d’uragano, tra
pericolosi sbandamenti, quando dal moto più dolce delle onde arguisce che
sorgerà una giornata tranquilla e serena? Qualcosa di simile sento nella mia
anima… Oh, possa anche tu godere un poco di quella quiete che mi è data da
qualche tempo, possa essere anche tu, quando leggerai questa lettera, un poco
più lieta, come ora lo sono io che la scrivo. Chissà, forse finirò col benedire
questo viaggio a Parigi, del quale non so render conto ad alcuno, forse nemmeno
a me stesso. E non già per le gioie che vi ho goduto, poiché sono state scarse; ma
tutti i sensi ora mi confermano quello che il mio sentimento mi ripete da tempo,
cioè che le scienze non rendono né migliori né più felici, e io spero che tutto
questo mi porterà a una risoluzione. Non posso descriverti quale impressione mi
abbia fatto la prima scoperta di questa massima immoralità che si accompagna
alla massima scienza. Dove condurrà il destino questa nazione? Lo sa Dio. Essa
è matura per la rovina più di qualunque altra nazione europea. Talvolta,
guardando le biblioteche, nelle cui sale magnifiche e nei cui volumi magnifici
stanno le opere di Rousseau, di Helvetius, di Voltaire, penso: a che sono servite?
Ha una sola di esse raggiunto lo scopo? Hanno saputo fermare la ruota che
precipita ineluttabilmente verso l’abisso? Se tutti coloro che hanno
“scritto” buone opere, avessero “fatto” la metà di questo bene, il mondo
sarebbe migliore. Persino questo studio delle scienze naturali, cui tutto lo spirito
della nazione francese si dedica quasi con forze unite, dove condurrà? Perché lo
stato spreca milioni in questi istituti per la diffusione dell’erudizione? Gli
importa forse la
“verità”? “Allo stato”? Lo stato non conosce altro vantaggio se non quello
che può calcolare a percentuali. Esso vuole “applicare” la verità. A che cosa?
Alle arti e ai mestieri. Esso vuol rendere più comodo ciò che è già comodo,
concretare maggiormente il concreto, raffinare il lusso già raffinato. E quando
alla fine il bisogno più esuberante e più viziato non riesce più ad escogitare un
nuovo desiderio, che avviene allora? Com’è incomprensibile la volontà che
domina il genere umano! Senza la scienza tremiamo per ogni fenomeno
dell’aria, la nostra vita è in balia di tutti gli animali feroci, una pianta velenosa
può ucciderci… E non appena entriamo nel regno del sapere, non appena
applichiamo le nostre nozioni per proteggerci e per vivere al sicuro, abbiamo già
compiuto il primo passo verso il superfluo e quindi verso tutti i vizi della
sensualità. Quando infatti ci serviamo, ad esempio, delle scienze per evitare di
ingerire piante velenose, perché non dovremmo servircene anche per raccogliere
quelle saporite, e dove sarà il limite dietro il quale stanno i “poulets à la
suprˆme” e tutte le altre frivolezze dell’arte culinaria francese?
Eppure… se Rousseau avesse ragione di rispondere negativamente alla
domanda se le scienze abbiano reso più felici gli uomini (54), quali strane
contraddizioni deriverebbero da questa verità! Furono infatti necessari molti
millenni prima che si potessero raccogliere le nozioni necessarie per capire che
non si dovrebbe averne affatto. Ora, dunque, bisognerebbe negare tutte le
nozioni per riparare l’errore; e così la miseria ricomincerebbe da capo. L’uomo
ha l’inconfutabile bisogno di erudirsi. Senza erudizione egli non è molto più che
una bestia. Il suo bisogno morale lo spingerebbe verso le scienze, anche se non
lo facesse il bisogno fisico. Come Issione, egli sarebbe dunque condannato a
spingere su per un monte una ruota che, giunta lassù, riprecipita eternamente
verso il fondo (55). E poi c’è sempre luce dove si trova ombra, e viceversa. Se
l’ignoranza garantisce la nostra ingenuità, la nostra innocenza e tutti i godimenti
della natura pacifica, apre per contro le porte a tutti gli orrori della superstizione.
E se le scienze ci introducono nel labirinto del lusso, ci proteggono anche da tutti
gli orrori della superstizione.
Istruzione e ignoranza ci porgono entrambe vizi e virtù, e in definitiva le
perdite pareggiano i guadagni. E così possiamo agire come desideriamo, e in
ogni caso agiremo bene. In verità, quando si consideri che ci è necessaria l’intera
esistenza per imparare come dovremmo vivere, che persino in punto di morte
non riusciamo a sapere cosa il Cielo ci riservi, che nessuno conosce lo scopo
della sua esistenza e il proprio destino, che la ragione umana è incapace di
comprendere se stessa e l’anima e la vita e la realtà circostante, che dopo
millenni ancora si dubita se esiste un diritto… può Dio pretendere da esseri
siffatti una “responsabilità”? Non si dica che una voce interiore ci rivela, in
segreto o con chiarezza, che cosa sia il bene. Quella medesima voce che
suggerisce al cristiano di perdonare il nemico, induce lo zelandese ad arrostirlo e
a divorarlo con devozione… Se la superstizione può giustificare atti di questo
genere le si può prestar fiducia? Che cosa significa, con riferimento all’effetto,
fare il male? Che cosa è “male”? “Male assoluto”? In mille modi sono unite e
intrecciate le cose del mondo, ogni azione è madre di milioni di altre azioni e
spesso la peggiore produce la migliore… Dimmi, chi su questa terra ha mai fatto
qualcosa di
“male”? Qualcosa che sia male “per tutta l’eternità”? E nonostante quello che
la storia ci racconta di Nerone e di Attila e di Cartouche (56), degli Unni e delle
crociate e dell’Inquisizione di Spagna, questo pianeta continua a rotolare
serenamente attraverso lo spazio celeste e le primavere si rinnovano e gli uomini
vivono, godono e muoiono come sempre. Ecco, fare ciò che il Cielo ci chiede
visibilmente e indubitabilmente, può bastare. Vivere fintanto che il petto si
solleva, godere ciò che fiorisce intorno a noi, fare quando è possibile del bene
essendo anche questo fonte di godimento lavorare affinché si possa godere e
agire, donare ad altri la vita affinché essi facciano altrettanto e la specie si
conservi, - e poi morire - a chi fa questo e nient’altro, il Cielo ha rivelato un
mistero. La libertà, una casa propria e una donna, ecco i miei tre desideri che
rinnovo a ogni levar del sole e al tramonto, come il monaco ripete i suoi tre voti!
A questo prezzo voglio rinunciare a ogni ambizione, a tutta la magnificenza dei
ricchi e a tutta la gloria dei dotti… La gloria! Che strana cosa è questa gloria che
si può godere solo quando non si esiste più? Oh quale errore, che fa perdere agli
uomini due vite e li beffa anche dopo morti! Chi conosce infatti i nomi dei Magi
e la loro sapienza? Chi parlerà di noi e della nostra gloria dopo millenni? Che
cosa ne sanno l’Asia e l’Africa e l’America dei nostri geni? E i pianeti? E il
sole? E la Via Lattea? E le nebulose? Ecco, è insensato vivere, se non viviamo
proprio per il metro quadrato sul quale e nel quale, almeno per il momento, ci
troviamo. Godere! Ecco il premio della vita! In verità, se non riusciamo mai a
rallegrarci di essa, come possiamo chiedere legittimamente al Creatore: perché
me l’hai data? Concedere il godimento della vita alle sue creature, ecco l’obbligo
del Cielo; obbligo dell’uomo è meritarselo. L’uomo ha il dovere di fare il bene, o
meglio, comprendimi giustamente, senza metafora, di “fare” semplicemente…
Lo intuirò sempre più chiaramente, imparerò a sentirlo sempre più vivamente,
finché la ragione e il cuore giungeranno a una decisione con tutta l’energia
dell’anima mia. Fino allora, sta’ tranquilla. Ho bisogno di tempo perché ho
bisogno di certezza e di saldezza dentro all’anima per compiere quel passo che
determinerà tutta la mia strada futura. Non voglio più precipitare: se lo facessi
ancora una volta sarebbe l’ultima, poiché allora disprezzerei o la mia anima o la
terra, e le separerei. Tu però sta’ tranquilla, non agirò a precipizio. Se non mi
fosse più lecito sprecare energie per la mia cultura, opererei forse già da ora la
mia scelta. Ma ancora sento le mie lacune. Ho interrotto all’improvviso i miei
studi e riprenderò qui ciò che ho perduto, ma non più soltanto per amore della
verità, bensì per uno scopo più filantropico… Permettimi di non parlarti più
chiaramente. Non sono ancora deciso e una parola scritta è eterna. Puoi nutrire
però le migliori speranze… Finalmente potrò darti gioia, Guglielmina, e tu bada
a conservarmi il fervore del tuo amore, senza il quale non sarei mai felice fra le
tue braccia. Non deve passar giorno senza che tu mi veda… ti sarà facile
trovarmi se vai sotto la pergola o nella camera di Carlo o sulla riva del ruscello
che fra i tigli si getta nell’Oder… Possano così il passato e l’avvenire addolcirti
il presente, possa tu essere felice “sognando” finché… finché… Chi è in grado di
dirlo?
Addio. Imprimo un “lungo” bacio sulle tue labbra… Addio, addio…
P.S. Consegna il foglio allegato a Luisa, manda il biglietto a Carlo.
Saluta i tuoi genitori… Dimmi perché sono così inquieto quando penso a
loro e per nulla inquieto quando penso a te? E’ così perché “noi ci
comprendiamo”… Potesse tutto il mondo vedermi nel cuore! Salutali, dunque, e
di’ loro che li rispetto, qualunque cosa pensino di me.
Scrivi presto (da Parigi ti ho già scritto una volta) ma non più
“poste restante”, bensì “dans la rue Noyer, N. 21”.
Parigi, 10 ottobre 1801.
Cara Guglielmina. La mia ultima lettera ti ha fatto dunque tanto piacere? Oh,
possa anche questa, fra tanti giorni torbidi, donarti qualche ora lieta! Rendere
felici gli altri è la felicità più pura di questo mondo. Ma far questo è difficile
quando noi stessi non siamo felici e gli altri pongono la loro felicità proprio nella
nostra…
Tuttavia mi sento realmente sempre più sereno di giorno in giorno e confido
che finalmente la natura voglia riservare anche a me quel tanto di felicità che
deve a tutte le sue creature. Per quale via io la debba cercare non so ancora, a
dire il vero, sebbene il mio cuore tenda sempre quasi prevalentemente verso
“una” di queste vie… Ma vi tenderà anche il tuo?… Oh, Guglielmina, provo
quasi timore a dartene comunicazione. Ma quando penso che sei la mia “amica”,
ogni ritegno si dilegua, e perciò ti comunicherò i vari pensieri che la mia mente
va ora elaborando per l’avvenire.
In me si è destato un grande bisogno e non sarò felice mai se resterà
insoddisfatto; è il bisogno “di fare qualcosa di buono”. Anzi, ritengo che questo
bisogno sia stato sempre, oscuramente, al fondo della mia tristezza e che solo ora
me ne rendo conto chiaramente. Grava sugli uomini un debito che ammonisce
senza posa, come un debito d’onore, chiunque abbia il senso dell’onore. Forse tu
non riesci a immaginare sensibilmente quanto sia urgente questo bisogno. Ma
ciò deriva dal fatto che il tuo sesso è passivo; soprattutto da quando le scienze
non mi danno più soddisfazione, questo bisogno si agita dentro di me.
Insomma, ho deciso fermamente nella mia anima: voglio pagare questo
debito.
Ora, se osservo il mondo intorno a me e mi domando: “dove” esiste mai
qualcosa di buono che si possa compiere?… oh, Guglielmina, non so dare se non
una sola risposta. Certo, per un cuore bramoso di agire, appare anzitutto
consigliabile un grande raggio d’azione; ma… cara fanciulla, qualunque cosa ti
dica non devi più giudicarmi con la misura del mondo. Un lungo periodo durante
il quale ho potuto riflettere liberamente sul mondo nella sua vastità, mi ha reso
molto estraneo a ciò che gli uomini chiamano mondo. Molte di quelle cose che
gli uomini dicono onorevoli, non lo sono per me, molte di quelle che a loro
sembrano spregevoli, per me non lo sono. Io porto in cuore un precetto interiore,
rispetto al quale tutti quelli esteriori, recassero anche la firma di un re, non
valgono nulla. E’ per questo che mi sento assolutamente incapace di adattarmi a
una qualunque convenzione del mondo. Molte delle sue istituzioni sono così
poco conformi al mio intendimento che mi sarebbe impossibile contribuire a
conservarle o a svilupparle. Oltre a ciò non saprei in molti casi con cosa di
meglio sostituirle… Ah, è tanto difficile determinare dai risultati ciò che sia
buono. Persino molte di quelle gesta che la storia ammira furono forse “buone”
in questo senso puro? Un uomo, che è utile a un popolo, non è molto spesso
dannoso a dieci altri?… Ah, non posso scriverti tutto su questo argomento, che è
senza fine. Del resto, in una siffatta situazione non sarei felice, niente affatto
felice. Ma ciò non potrebbe impedirmi di accettarla, purché sapessi di fare
qualcosa di veramente buono, qualcosa che concordasse con le mie intime
esigenze… A ciò si aggiunge che, forse per mia colpa, non mi è concesso di
iniziare una nuova carriera nel mio paese. Per lo meno credo che non potrei
concorrere di nuovo, senza umiliazione, a una carica onorifica, dopo averne
rifiutate due. Eppure non rifuggirei neppure da questo amaro rimedio, purché
almeno mi conducesse alla meta. Le scienze, le ho abbandonate del tutto. Non
saprei descriverti quanto mi sia odioso l’uomo che sa, se lo confronto con
l’uomo che agisce. Le nozioni, se pur hanno un valore, lo hanno solo in quanto
preparano all’azione. I nostri scienziati, invece, dopo così intense preparazioni,
giungono forse mai a questo approdo? Affilano continuamente la lama senza
usarla mai e imparano, imparano, e non trovano mai il tempo di realizzare ciò
che conta… Ritornare al mio paese in queste circostanze non è assolutamente
consigliabile. Anzi, se potessi mettermi al di sopra di ogni giudizio, se mi fosse
concessa una “casetta verde” per accogliere me e te… Per questa mia
sottomissione al giudizio altrui mi chiamerai forse debole, e in questo devo darti
ragione, sebbene l’ammetterlo sia per me intollerabile. Io stesso, è vero, ho
suscitato con qualche passo strano l’attesa degli uomini; e che cosa dovrei
rispondere se ora ne esigono l’adempimento? E perché “dovrei” appagare
proprio la “loro”
attesa? E’ un gran peso per me… Può esser vero che io sia una specie di
genio naufragato, sia pure non naufragato come loro intendono, ma come io
intendo. Che cosa sono le cognizioni? E se mille persone mi superassero in
questo punto, supererebbero forse il mio cuore? Ma ciò non è molto apprezzato..
Mi sarebbe quasi impossibile vivere nel mio paese senza un impiego, anche a
causa della mia situazione finanziaria. Ahi, Guglielmina, quante idee tristi mi
angustiano di continuo, e tu mi chiedi di scriverti serenamente? Eppure… abbi
ancora un po’ di pazienza. Può darsi che se l’inizio di questa lettera non è
gradevole, lo sia la sua fine. In verità non sono preoccupazioni per il
sostentamento, per me solo, quelle che mi angustiano giacché potrei guadagnare,
se solo mi decidessi a scriver libri, più di quanto mi abbisogna. Ma scriver libri
per denaro… no, no. Poiché tra gli abitanti di questa città scopro così poco di
quanto corrisponda ai miei bisogni, mi sono elaborato un ideale (57) nelle mie
ore solitarie (infatti esco poco); ma non comprendo come un poeta possa
consegnare il figlio del suo amore a una congenie così rozza come sono gli
uomini. Bastardo, lo chiamano. Vorrei condurti nel tempio in cui conservo
segretamente, al chiarore della lampada, la mia creatura, come una sacerdotessa
di Vesta custodisce la sua. Di questa fonte di guadagni non se ne parla neppure.
La rifiuto per molte ragioni e tanto basta. Mai, infatti, nella mia vita, per quanto
la sorte dovesse urgere, farò qualcosa che sia in contrasto con le mie intime
esigenze.
E ora, cara Guglielmina, vengo al punto gradevole. Fatti coraggio, guarda il
mio ritratto e bacialo. Sempre mi si affaccia alla mente un pensiero… ma, come
potrò esprimerlo, affinché tu possa considerarlo serio e sacrosanto, e non un
sogno infantile? Mi rimane una via d’uscita alla quale mi portano ad un tempo
inclinazione e necessità.
Sai che cosa fanno i vecchi dopo aver corteggiato per decenni le ricchezze e
le cariche onorifiche? Si ritirano a un focolare e coltivano un campo. Allora, e
soltanto allora, si dicono savi. Dimmi, non si potrebbe essere più intelligenti di
loro e fare per tempo ciò che pure conviene fare alla fine? Tra i magi persiani
vigeva una legge religiosa: l’uomo non può compiere nulla di più gradito alla
divinità se non coltivare un campo, piantare un albero e generare un figlio.
Questo io chiamo sapienza, e non esiste verità che abbia afferrato il mio
spirito così profondamente come questa. Questo “devo” fare, lo so
“con certezza”… Oh, Guglielmina, quale felicità indicibile deve donare la
coscienza di adempiere la propria missione “interamente”
secondo il volere della natura! Essere lasciati in pace dalle passioni! Oh,
l’ambizione sciagurata è il veleno di tutte le gioie.
Perciò, voglio strapparmi a tutti i rapporti che mi costringono
incessantemente a superare gli altri, a invidiare, a gareggiare.
Soltanto 2nel” mondo, non fuori di esso, è doloroso essere poca cosa.
Dimmi cosa ne pensi, Guglielmina: possiedo ancora una parte del mio
patrimonio, è poco, ma basterà per acquistare, diciamo in Svizzera, un podere
che possa sostentarmi, se io stesso lo lavoro. Te lo scrivo così seccamente,
perché non voglio sedurre la tua fantasia. Non esiste, infatti, una situazione che
per un cuore puro sia così infinitamente ricca di godimenti come questa. I
romanzi hanno corrotto la nostra mente. Per causa loro, infatti, il sacro ha
cessato d’esser sacro e la più pura, la più umana, la più ingenua felicità è stata
degradata a mera fantasticheria. Ma, ripeto, non voglio sedurre la tua fantasia.
Non voglio neppure esporre il lato bello di questa condizione, anzi lo riserverò a
una lettera successiva, se potrai trovare di tuo gradimento un simile progetto. Per
ora esaminalo soltanto con la ragione. Voglio diventare “contadino” nel senso
più autentico della parola o, per dirla in un modo che suoni un po’
meglio, agricoltore. Per quante obiezioni possano fare la mia famiglia e il
mondo, non mi lascerò dissuadere. Ognuno ha un proprio concetto di felicità e
nessuno deve pretendere che un altro segua il suo. Quel che faccio non è male, in
nulla, e per quanto gli uomini possano sorridere di me, in fondo al cuore e in
segreto dovranno rispettarmi.
Ma se anche ciò non fosse, io rispetto me stesso. La mia ragione vuole così e
tanto basta.
Ora, però, Guglielmina, se assecondo questa esigenza della mia ragione, se
acquisto un podere, non mi rimarrà più alcun desiderio?
Non mi mancherà più nulla? Non mi mancherà ancora una donna? Ed esiste
per me altra donna all’infuori di te? Oh, Guglielmina, se fosse possibile, se i tuoi
concetti di felicità si accordassero con i miei!
Pensa quali sacri momenti potremmo vivere insieme! Ma non parliamone per
ora. Pensa invece soltanto a quello che, nell’attuale situazione, potrebbe forse
apparirti meno attraente. Pensa al compito che ti assumeresti ma pensa anche
all’amore che lo premierà. Guglielmina!
Ahimè, numerosi ostacoli mi fanno quasi arretrare. Ma se fosse possibile
superarli!… Guglielmina! Sento che sarebbe troppo chiederti un “siffatto”
sacrificio. Ma se tu potessi compierlo per me!
La tua educazione, la tua anima, tutta la tua vita trascorsa sono tali da non
rendere “impossibile” un simile passo… Tuttavia forse non è così. Non
angustiarti per questo. Non ho alcun diritto di richiederti
“simili” sacrifici e se tu mi neghi “questo”, non “per questo”
dubiterò del tuo amore… Eppure, cara fanciulla, non riesco a vedere un’altra
via d’uscita. Ho discusso molte volte con Ulrica la mia situazione e il mio futuro,
e la fanciulla fa tutto il possibile per riportarmi, come dice lei, sulla retta via. Ma
proprio in questo consiste precisamente il guaio, che ognuno crede retta la
propria via.
Se tu potessi acconsentire al mio più intimo desiderio, allora, Guglielmina,
allora ti mostrerei quale felicità ci attenda, una felicità che non ha l’uguale.
Allora potresti sperare una mia lettera più gaia… Se un passo simile potesse
“realmente” creare la tua felicità, neppure tuo padre solleverebbe obiezioni.
Rispondimi presto Ho in progetto di trascorrere anche l’inverno in questa
malinconica città, di trasferirmi poi in Svizzera per la primavera e di cercare un
luogo che possa piacere un giorno a te e a me e ai nostri figli…
Devo spedire subito questa lettera, perché aspetto con ansia la tua risposta.
H. K.
Parigi, 27 ottobre 1801.
Cara Guglielmina, senza dubbio avrai già ricevuto la mia ultima lettera in cui
ti comunicavo il mio progetto per il futuro: di acquistare, cioè, un terreno in
Svizzera. Che ne dici? La libertà, il genere più nobile di lavoro, una proprietà,
una donna… oh, cara fanciulla, non esiste per me sorte più desiderabile di
questa. Ma anche per te? Non immaginare che la tua vita sarebbe priva di
attrattive. Certo lo sarebbe se tu fossi priva del “giusto”
intendimento. Devo temere che questo sia il caso tuo? Sei forse avvezza al
lusso e allo spreco? Non sono i divertimenti della vita cittadina gioie superficiali
anche per te? Può goderli “l’anima tua”?
E non rimane sempre inappagato “un” desiderio che soltanto il futuro che io
ti ho preparato può attuare? Cara Guglielmina, per non sedurre la tua fantasia, ti
ho pregato nella mia ultima di esaminare preliminarmente il mio disegno solo
dal lato meno attraente. Ora, invece, immagina anche il lato bello, e se ne pesi i
pregi e gli svantaggi col “giusto” intendimento, oh in fondo, in fondo è il piatto
della felicità quello che scende. Ascoltami, dunque, o rispondi piuttosto a questa
domanda: sai dirmi quale sia il bisogno “supremo”
della donna? Dovrei ingannarmi di molto, se tu dessi una risposta diversa da
questa: l’amore del suo uomo. E ora dimmi se vi è qualcosa che possa sublimare
tutti i godimenti dell’amore, che possa conferire a due cuori la facoltà di dare
amore e di ricevere amore quanto un’esistenza serena in campagna. Credi forse
che la gente in città “si ami”? Io sì, lo credo, ma solo nei momenti in cui non
hanno niente di meglio da fare. L’uomo ha un impiego, aspira a onori e ricchezze
e questo gli ruba del tempo. E tuttavia gliene resterebbe ancora un poco per
l’amore. Ma egli ha amici, ama divertirsi, e anche questo sottrae tempo. Tuttavia
gliene rimarrebbe ancora un poco per l’amore. Ma quando è in casa il suo
spirito, distratto, vaga all’esterno, e così gli rimangono soltanto un paio d’ore
durante le quali compie stentati sacrifici per la sua donna… Qualcosa di simile
accade anche alla donna, e questa è la ragione per cui io temo la vita cittadina.
Ma ecco invece la vita in campagna! L’uomo lavora; per chi? per la sua donna.
Egli riposa; dove? presso la sua donna. Si isola nella solitudine; dove? dalla sua
donna. Va in società; dove? dalla sua donna. E’ triste; dove? presso la sua donna.
Si diverte; dove? presso la sua donna. La donna per lui è “tutto”… e se una
fanciulla ha la possibilità di vincere una simile lotteria, vorrà indugiare? Aspetto
con ansia una tua lettera. La tua risposta alla mia ultima probabilmente non mi
troverà più a Parigi. Ho pensato che è necessario affrettare, sia per il patrimonio
che per il tempo, l’esecuzione del mio disegno. E oltre a questo Parigi non mi
attrae per nulla e andrò quindi in Svizzera prima che giunga l’inverno e usufruirò
di questo periodo per assumere informazioni e fare preparativi. Non essere
inquieta. Il tuo consenso è un requisito essenziale. Non intraprenderò niente di
decisivo finché non avrò tue notizie. Anche se questo progetto non trovasse
esecuzione, sono comunque lieto di allontanarmi da questa città che, direi quasi,
mi è ripugnante. Scrivimi dunque subito a Berna, anche se tu dovessi avermi già
scritto a Parigi. Mi farò rimandare questa lettera. Con Ulrica ho avuto grandi
battaglie.
Essa non crede possibile l’attuazione del mio progetto e non crede neppure
che potrà rendermi felice. Ma io spero di convincerla, con l’esperienza, dell’una
cosa e dell’altra. Per quanto ella abbia desiderio di vedere la Svizzera, non è
consigliabile che ci venga d’inverno. E così ritorna a Francoforte e io
l’accompagno fino a Francoforte sul Meno. Ma di tutto questo, cara
Guglielmina, devi tacere in modo assoluto; non dire neppure a tuo padre del mio
piano, lo verrà a conoscere quando sarà eseguito. Non dir niente del contenuto di
questa lettera neppure in casa nostra. Immaginerebbero stranissime cose, ed è
sufficiente che tu sia al corrente di tutto.
Ulrica farà loro la sorpresa e glielo comunicherà. Sta’ bene e augurami buona
fortuna. Non posso scrivere più a lungo, perché devo recapitare la lettera alla
posta. Scrivi a Carlo che si prepari a riprendere il suo Giovanni. Alla fine di
novembre sarà a Francoforte sull’Oder.
H. K.
Francoforte sul Meno, 2 dicembre 1801.
Cara Guglielmina, non ho timore che l’arrivo di Ulrica senza di me ti sia una
dolorosa sorpresa poiché ti ho preparata a questo fin da Parigi, comunicandoti
l’intenzione di andare in Svizzera già quest’inverno. La tua lettera mi è giunta a
Parigi la mattina della mia partenza, una sola ora prima che montassi in carrozza.
Vuoi sapere se mi ha fatto piacere?
Cara amica, non vorrei dover dubitare del tuo amore, e infatti la mia fede non
vacilla ancora… Se anche non è un affetto profondo, è pur sempre fervido, e
ancora, nonostante la tua lettera, mi può rendere felice.
Non saprei un mezzo migliore e più cordiale per ritornare sull’antico
cammino se non questo: cerchiamo entrambi di dimenticare la tua ultima lettera.
Sono cordialmente lieto di non averti risposto sotto la prima impressione e di
aver avuto in quindici giorni di viaggio sufficiente tempo per perdonarti. Sento
che posso ancora confidare nel tuo amore e che il tuo rifiuto di seguirmi in
Svizzera può dipendere da molte ragioni che non pregiudicano affatto la nostra
unione.
Il tuo attaccamento alla casa paterna ha tutto il mio rispetto e, purché tu mi
ami veramente, mi arrecherà così poco danno da rendere superflua la benché
minima obiezione. Non si trovano quasi tutte le figlie in una situazione simile e
non seguono forse, per quanto sembri loro difficile, la saggia sentenza della
Bibbia: Tu abbandonerai padre e madre e seguirai tuo marito?
Purché tu mi ami veramente, purché tu abbia la speranza di essere veramente
felice con me… e allora può darsi che, per timore di persuaderti, il mio primo
invito fosse troppo poco convincente, troppo poco invitante.
Il tuo rifiuto sembra dunque piuttosto un malinteso che il frutto di una serena
ponderazione. Tu scrivi che il tuo fisico è troppo debole per i compiti d’una
“contadina”… e probabilmente hai pensato solo ai compiti più umili e più
sgradevoli. Pensa però anche a quelli più dolci e più piacevoli. Considera che in
un’economia domestica come quella che io fonderò, ci saranno almeno due o tre
fantesche al tuo fianco… sarai ancora troppo debole?
Cara Guglielmina, se ora non ti senti in buona salute forse questo dipende
dalla tua vita in città e sono certo che il lavoro che ti propongo, invece di essere
superiore alle tue forze, le vedrà consolidate. Forse rifiorirai… Ma taccio tutto
ciò che possa assomigliare a un’opera di persuasione. Devi seguirmi lietamente e
liberamente affinché ogni tua occhiata triste non sia per me un rimprovero.
Tuttavia aggiungerei dell’altro, qualora sapessi con profonda convinzione che tu
mi ami con un minor fervore di quello che mi abbisogna in modo assoluto.
Alcune delle motivazioni del tuo rifiuto sono tanto strane… Tu scrivi che il sole
ti procura il mal di testa… Ma non ne parliamo. Tutto è dimenticato, purché tu ti
risolva con animo lieto e sereno. Poco prima della mia partenza da Parigi ti ho
indicato tutto quello che di magnifico e di eccellente ti attende lungo la via sulla
quale voglio condurti. La risposta a questa lettera sarà decisiva. Probabilmente
l’avrai già mandata a Berna dove la riceverò al mio passaggio. Sarà in quel
momento che si deciderà la nostra felicità futura.
HEINRICH KLEIST.
P.S. La proposta di Luisa, per la benevolenza che l’ha dettata, mi commuove
profondamente. Ma se anche al ricevimento della tua lettera non avessi già
spedito a Berna le mie valigie mediante la posta, non avrei potuto ritornare
comunque a Francoforte, almeno non subito.
Benché, infatti, possa tollerare da lontano tutti i falsi giudizi che dotti e non
dotti daranno sul mio conto, mi sarebbe riuscito insopportabile doverli ascoltare
o leggerli dalle loro facce. Non posso pensare senza mortificazione a tutte le
speranze che prima suscitai e poi delusi… e dovrei ritornare a Francoforte? Sì, se
Francoforte non fosse più grande dell‘“Angolo delle monache”… Bacia Luisa e
pregala di dirti una buona parola in mio favore. Dille che, se non avrò per moglie
“un’amica di gioventù”, non ne avrò affatto.
Questo la commuoverà…
A Carlo avrei dovuto scrivere per via di Giovanni. Ma non mi è possibile, e
allora ti prego di dirgli che mi ha piantato a Parigi in modo indegno due giorni
prima della partenza, quando i cavalli erano già acquistati. Se mi avesse voluto
la metà del bene che gli volevo io, sarebbe rimasto con me… Non esiste dunque
più fedeltà… Ahimè, Guglielmina!
Dall’isola nell’Aare presso Thun, 20 maggio 1802.
Cara Guglielmina, intorno ai primi dell’anno ricevetti la tua ultima lettera
nella quale insistevi ancora una volta con molta cordialità affinché io tornassi in
patria, mi rammentavi con molta delicatezza la tua casa paterna e la tua
debolezza fisica, motivi che ti rendono impossibile seguirmi in Svizzera,
conchiudendo con queste parole: quando avrai letto tutto ciò, fa’ come ritieni
meglio. Ora, io avevo realmente intenzione di acquistare un podere in questo
paese e in una serie di lettere non avevo mancato di esprimere preghiere e
spiegazioni, per cui da una nuova lettera non c’era da aspettarsi risultati migliori;
e poiché da quelle tue parole mi parve chiaro che tu stessa non aspettassi nuove
insistenze, volli risparmiare ad entrambi il disagio di una dichiarazione scritta
che ora, però, la tua lettera rende necessaria.
Probabilmente non ritornerò mai in patria. Come norma voi donne non
comprendete una parola della lingua tedesca: la parola ambizione. In un unico
caso potrei tornare, quando cioè potessi soddisfare l’attesa che ho stoltamente
suscitato negli uomini con una quantità di vanterie. Il caso è possibile, ma non
probabile. Insomma, se non posso ripresentarmi in patria gloriosamente, non lo
farò mai. Questo è deciso, com’è decisa la natura della mia anima.
Ero sul punto di comperare un piccolo podere in Svizzera e Pannwitz mi
aveva già mandato a tal uopo il residuo del mio patrimonio, allorché un’odiosa
sommossa popolare mi distolse improvvisamente da questo proposito otto giorni
prima che mi pervenisse il denaro. Incominciai allora a considerare una vera
fortuna che tu non avessi voluto seguirmi in Svizzera, mi ritirai in una casetta
solitaria, sopra un’isola nell’Aare in cui, che lo voglia o no, devo dedicarmi al
mio lavoro di scrittore.
E così, nel tempo necessario alla riuscita di questo lavoro, se pure mi
riuscirà, il mio piccolo patrimonio verrà tutto consumato e tra un anno sarò
probabilmente poverissimo… E in questa situazione, quando al dolore che
condivido con te (58) si assommano altre preoccupazioni che tu non sai, mi
giunge questa lettera e mi ridesta quel ricordo di te che, per fortuna, sì, per
fortuna, si era ritirato un poco nell’ombra.
Cara fanciulla, non scrivermi più. Non ho altro desiderio che di morire
presto.
H. K.
EPILOGO.
Siamo all’ultimo atto della tragedia. Ci è sembrato necessario illustrarlo con
lettere o frammenti di lettere scritte da Kleist nell’ultimo periodo della sua vita,
dal maggio al novembre 1811, tra un susseguirsi di amarezze e di delusioni che
logorarono la sua volontà di vivere e di creare.
Di Guglielmina non si fa più cenno dopo l’ultima lettera del 20 maggio 1802.
Sono passati nove anni e il poeta ha trovato un’altra donna, Henriette Vogel,
maritata da dodici anni, la quale non vuol vivere, ma morire con lui.
E il pensiero di questa morte incombe sull’ultima parte dell’Epistolario.
A MARIE VON KLEIST (59).
[Berlino, maggio 1811].
Sento che il mio animo è ormai preda di turbamenti i quali, sotto la spinta
delle avverse condizioni in cui vivo, vanno sempre più peggiorando, e che un
godimento veramente sereno della vita, se un giorno mi fosse concesso, potrebbe
forse risolvere con facilità e armoniosamente. In questo caso lascerei forse
riposare l’arte per un anno o più e, salvo alcune scienze nelle quali ho ancora
qualcosa da apprendere, non mi occuperei d’altro che di musica…
A MARIE VON KLEIST.
[Berlino, agosto 1811].
La vita che faccio dopo la partenza Sua e di A. M ller (60) è ben triste e
desolata. In questi ultimi tempi ho anche parzialmente perduto i contatti con le
due o tre famiglie che frequentavo, e per quasi tutto il giorno resto in casa senza
mai vedere nessuno che mi informi di come vada il mondo. Lei si aiuta con la
fantasia e chiama nella Sua stanza, dai quattro punti cardinali, coloro che Le
sono cari e preziosi. Ma, capisce, di questo conforto io, uomo
incomprensibilmente sciagurato, devo fare a meno. Certo nessun poeta si è forse
mai trovato in una situazione così singolare… E se la mia fantasia è attiva di
fronte al foglio bianco e se le figure che evoca sono determinate nel colore e nei
contorni, mi è invece difficile, anzi veramente doloroso, figurarmi ciò che esiste
realmente. Si direbbe che questa determinatezza coordinata a tutte le altre
condizioni imbrigli la mia fantasia nel momento della sua attività.
Confuso da troppe forme, non so giungere a una chiarezza della mia visione
interiore; il soggetto, lo sento incessantemente, non è soggetto della fantasia: lo
vorrei compenetrare e afferrare coi sensi nella sua autentica e viva presenza. Che
qualcuno possa pensare diversamente da così mi sembra del tutto
incomprensibile; egli deve avere acquisito esperienze totalmente diverse dalle
mie in questo campo. La vita, con le sue invadenti e ossessive esigenze, separa
in tanti modi due anime nel momento stesso del rapporto, tanto più se sono
divise l’una dall’altra. Avvicinarsi non è neppure pensabile; e tutto quello che si
può ottenere è di rimanere nel punto in cui ci si trova. Poi manca totalmente il
conforto nei momenti di tristezza e di delusione che oggi sono così frequenti.
Insomma, da quando non è più qui, M ller mi sembra morto, e per lui provo
esattamente del cordoglio; e se non sapessi che Lei ritornerà, mi accadrebbe lo
stesso anche con Lei.
A MARIE VON KLEIST.
Berlino, primi di ottobre 1811.
Potessi gettarmi ai Suoi piedi, mia dilettissima amica, stringere le Sue mani e
coprirle di mille baci così da esprimerLe il mio ringraziamento per la Sua cara
lettera. Il lungo ritardo mi aveva fatto temere che Lei avesse fatto il
proponimento di non scrivermi più; l’avevo pensato e mi ero rassegnato a questa
idea come ci si può rassegnare alla cosa più desolante che possa accadere nella
vita di un uomo. Più volte, quando pensavo che Lei forse aspettasse una mia
lettera, avevo preso la penna per scriverLe; ma l’assoluta incapacità di
esprimermi diversamente che in termini di futuro, me la faceva sempre ricadere
dalle mani. Difatti lo sviluppo del tempo e la parte che in esso io avrò, sono
l’unica cosa che mi può riconciliare con Lei in quanto al passato; posso
immaginare che Lei ritornerà da me col pieno sentimento dell’amicizia solo
quando sarò morto. E poi ieri, al mio ritorno a casa, trovo una lettera così piena
di perdono - ah, che dico perdono? - così piena di bontà e di clemenza, come se
io non avessi alcuna colpa verso di Lei, come se nel Suo petto non esistesse il
minimo motivo di essere corrucciata contro di me. Mi dica, come ho potuto
suscitare tanto amore? Oppure non l’ho suscitato e Lei me lo dona soltanto
perché non è capace di odiare, perché è costretta a circondare d’amore chiunque
si avvicini alla Sua cerchia? Ebbene, il cielo Le dia merito per questa lettera che,
dopo la Sua partenza, mi ha donato il primo istante di pace della mia vita. Le
augurerei la morte se Lei avesse bisogno di morire per essere felice; mi sembra
che, con siffatti sentimenti, Lei debba custodire il paradiso nel petto…
A ULRIKE VON KLEIST.
[Francoforte sull’Oder, ottobre 1811].
Mia carissima Ulrica,
con uno scritto il Re mi ha accolto nell’esercito e quindi, o diventerò
immediatamente il suo aiutante oppure mi verrà affidata una compagnia. La mia
intenzione nel venir qui era di procurarmi, o direttamente da te o per il tramite
tuo, ipotecando la mia casa, il denaro per il piccolo equipaggiamento che si
rende necessario. Siccome però, mia cara, strana fanciulla, ti sei enormemente
spaventata rivedendomi, la qual cosa, com’è vero che son vivo, mi ha scosso
profondissimamente, va da sé che abbandono del tutto questo pensiero, ti chiedo
perdono dal profondo del cuore e, risoluto a ripartire per Berlino oggi stesso nel
pomeriggio, mi limito all’altro desiderio che avevo in cuore, di vederti, cioè,
ancora una volta per qualche ora.
Posso venire a colazione? Non è necessario che tu mi dica di sì, perché va da
sé, e fra mezz’ora sarò da te.
TUO HEINRICH.
A MARIE VON KLEIST.
[Berlino,] 9 novembre 1811.
Mia carissima Maria, in mezzo al canto trionfale che la mia anima intona in
questo momento alla morte, devo ricordarti ancora una volta e rivelarmi a te il
più profondamente possibile: a te, l’unica di cui m’importino il sentimento e
l’opinione; tutte le altre cose al mondo, nell’insieme e nei particolari, le ho
pienamente superate nel mio cuore. Sì, è vero, ti ho ingannata, o meglio, ho
ingannato me stesso; ma come ti dissi infinite volte, che a questo non sarei
sopravvissuto, così, prendendo commiato da te, te ne offro ora la prova. Durante
la tua presenza a Berlino ti ho sostituita con un’altra amica (61); ma, se ciò può
esserti di conforto, non con una che vuol vivere, bensì morire con me, poiché ha
la sensazione che non le sarei più fedele che a te. I miei rapporti con questa
donna non mi consentono di dirti altro. Sappi soltanto che la mia anima, al
contatto con la sua, è divenuta pienamente matura alla morte, che ho misurato
tutta la magnificenza dell’animo umano rapportandolo al suo, e che muoio non
esistendo su questa terra più nulla che io possa imparare o acquisire.
Addio! Tu sei l’unica sulla terra che io desideri rivedere nell’altra vita. O
forse Ulrica?… Sì, no, no, sì: dipenderà dal suo sentimento.
Essa non ha appreso, mi sembra, l’arte di sacrificarsi, di annullarsi
totalmente per ciò che si ama: la massima beatitudine che si possa concepire su
questa terra, in cui anzi deve consistere il Paradiso, se è vero che in esso si è
sereni e felici. Addio!
A MARIE VON KLEIST.
[Berlino,] 10 novembre 1811.
Le tue lettere mi hanno straziato il cuore, mia carissima Maria, e se ne avessi
avuto il potere, ti assicuro che avrei rinunciato alla risoluzione che ho preso di
morire. Ma, ti giuro, mi è assolutamente impossibile continuare a vivere la mia
anima è a tal punto ferita che, direi quasi, quando mi affaccio alla finestra, anche
la luce del giorno mi ferisce. Qualcuno vorrà considerarla malattia ed esaltazione
non tu, però, che sei in grado di considerare il mondo anche da prospettive
diverse dalla tua. Io che sin dalla prima giovinezza ho tenuto, nel pensiero e
negli scritti, un continuo rapporto con la bellezza e con la morale, sono diventato
così sensibile che le sia pur minime aggressioni alle quali, secondo l’andamento
del mondo, è esposto il sentimento di ogni uomo, mi procurano doppio e triplice
dolore. Così, ti assicuro, preferirei patire dieci volte la morte piuttosto che vivere
ancora una volta ciò che ho provato recentemente a Francoforte durante la
colazione con le mie due sorelle, specialmente quando sopraggiunse la vecchia
Wackern; fattelo raccontare, se ne avrai l’occasione, da Ulrica. Ho sempre voluto
bene alle mie sorelle, sia per il loro buon carattere, sia per l’amicizia che mi
testimoniavano: sebbene non ne abbia mai parlato, è certo che uno dei miei più
intensi e intimi desideri fu sempre quello di procurar loro un giorno molto onore
e molta gioia con i miei lavori e con le mie opere. Negli ultimi tempi, lo
riconosco, fu per molti aspetti pericoloso trattare con me, e quindi tanto meno le
accuso di essersi allontanate da me quanto più considero la complessità delle
miserie che in parte gravavano anche sulle loro spalle; il pensiero, però, di non
veder sia pur minimamente riconosciuto il merito che in fin dei conti ho, grande
o piccolo che esso sia, e di essere considerato da loro un membro assolutamente
inutile dell’umana società, non più degno di simpatia alcuna, mi addolora
estremamente, in verità, e non solo mi priva delle gioie che speravo per
l’avvenire, ma mi avvelena anche il passato… Ed anche l’alleanza che il Re sta
concludendo coi francesi, non m’incoraggia certo a rimanere in vita.
Già mi era odiosa la faccia degli uomini, quando li incontravo, ma se ora mi
capitasse di vederli per strada, proverei una sensazione fisica che qui preferisco
non nominare. E’ vero che a tutti, sia a me che a loro, è mancata la forza di
rimettere il tempo in carreggiata; ma sento sin troppo bene che la volontà viva
nel mio petto è ben diversa dalla volontà di coloro che fanno questa spiritosa
osservazione: e così non voglio aver più nulla a che fare con loro. Se il Re
conchiude questa alleanza, che cosa rimane ancora da fare al suo servizio? E’
imminente l’epoca in cui, per essergli stati fedeli, per i sacrifici e la fermezza
e tutte le altre virtù civiche, si potrà essere giudicati da lui stesso e finire sulla
forca… Aggiungi che ho trovato un’amica la cui anima vola come una giovane
aquila, tale che nella mia vita non ho mai incontrato nulla di simile; e lei
comprende che la mia è una tristezza superiore, saldamente radicata e
inguaribile, e così, pur possedendo mezzi sufficienti per rendermi felice su
questa terra, desidera morire con me; e lei mi offre il piacere inaudito di lasciarsi
strappare, per questo, da una situazione del tutto priva di desideri, così
facilmente come una viola da un prato; e lei, per amor mio, abbandona un padre
che la adora, un marito che era abbastanza magnanimo da volermela cedere, una
bimba (62) bella, anzi più bella del sole mattutino: e allora potrai comprendere
come il mio esultante desiderio sia soltanto quello di trovare un baratro
sufficientemente profondo per sprofondare con lei… Addio ancora una volta!…
A MARIE VON KLEIST.
[Berlino,] 12 novembre 1811.
Mia carissima Maria, se tu sapessi come la morte e l’amore si alternano per
incoronare di fiori, terreni e celesti, questi estremi istanti della mia vita,
certamente mi lasceresti morire gioiosamente.
Oh, ti assicuro, sono perfettamente beato. La mattina e la sera
m’inginocchio, come non seppi mai fare prima, e prego Iddio; ora lo posso
finalmente ringraziare della mia vita, la più tormentata che un uomo abbia mai
vissuto, perché me la compensa con la più splendida e la più voluttuosa di tutte
le morti. Oh, potessi fare qualcosa per te, che valesse a lenire l’acerbo dolore che
ti procurerò! Per un momento desiderai di farmi fare il ritratto; ma subito pensai
di averti arrecato troppi torti perché mi fosse lecito supporre che la mia
immagine potesse arrecarti piacere. Può confortarti se ti dico che non avrei mai
scambiato te con questa amica, qualora non avesse voluto altro che vivere con
me? Sì, così è, mia carissima Maria; ci sono stati momenti in cui ho detto
sinceramente queste parole alla mia cara amica. Oh, ti assicuro, ti voglio tanto
bene, mi sei così immensamente diletta e preziosa che oso appena dire di amare
più di te questa amica cara e adorata. La risoluzione, sbocciata nella sua anima,
di morire con me, mi attrasse al suo seno, non ti so dire con quale indicibile e
irresistibile potenza; ricordi che più volte ti ho domandato se volevi morire con
me? Ma tu sempre ti rifiutasti… Un vortice di mai sperimentata beatitudine mi
ha travolto, e non ti posso negare che la sua tomba mi è più cara del letto di tutte
le imperatrici del mondo…
Ah mia diletta amica, voglia Dio chiamarti presto in quel mondo migliore
dove noi tutti, con l’amore degli angeli, potremo stringerci al cuore l’un l’altro…
Addio.
A SOPHIE MšLLER.
Sa il Cielo, mia cara e ottima amica, quali strani sentimenti, tra malinconici e
allegri, ci inducono a scriverLe ancora una volta nel momento in cui le nostre
anime, come due lieti aeronauti, s’innalzano sopra il mondo. Eppure avevamo
ben deciso, Lei deve saperlo, di non mandare ai nostri amici e conoscenti il
biglietto “p.p.c.” Il motivo è probabilmente questo: in mille istanti felici abbiamo
pensato a Lei, mille volte ci siamo immaginati come, nella sua bonarietà, Lei si
sarebbe messa a ridere (a gridare di gioia) se avesse potuto vederci insieme nella
camera verde o in quella rossa. Oh, il mondo è una curiosa istituzione! Noi due,
Enrichetta e io, due creature tristi, malinconiche, che si sono sempre rinfacciate
la loro freddezza, abbiamo preso a volerci bene con tutto il cuore, e la
testimonianza migliore è che ora moriamo insieme. Addio, nostra cara, cara
amica, e sia molto felice in terra, come forse è possibile! Noi, per parte nostra,
non ci curiamo delle gioie di questo mondo e sogniamo soltanto campi celesti e
astri nella cui luce vagheremo con lunghe ali alle spalle. Addio! Un bacio, da me
che scrivo, a M ller; lo prego di pensare talvolta a me e di continuare a essere un
valoroso campione di Dio contro il demonio Delirio che tiene incatenato il
mondo.
[“P.S. di Enrichetta Vogel”].
Ma in che modo sia avvenuto
ve lo dirò un’altra volta,
avendo ora troppa fretta.
Addio, dunque, miei cari amici, e ricordatevi nelle gioie e nei dolori di quelle
due strane creature che tra breve intraprenderanno il grande viaggio di scoperta.
ENRICHETTA.
[“ancora di pugno di Kleist”].
Scritto nella camera verde.
H. VON KLEIST.
[Berlino,] il 20 novembre 1811.
A ERNST FRIEDRICH PEGUILHEN.
[Da Stimming presso Potsdam, 21 novembre 1811].
[Enrichetta Vogel].
Mio carissimo amico! All’amicizia che Lei finora mi ha sempre testimoniato
così fedelmente viene ora richiesta una ben strana prova, poiché noi due, cioè il
famoso Kleist e io, ci troviamo qui, da Stimming, sulla strada di Potsdam, in una
condizione molto imbarazzante, in quanto giaciamo “uccisi da arma da fuoco” e
confidiamo nella bontà di un benevolo amico per affidare le nostre fragili spoglie
alla sicura tutela della terra. Cerchi, carissimo Peguilhen, di giungere questa sera
stessa e di fare in modo che il mio buon Vogel ne rimanga atterrito il meno
possibile; questa sera o questa notte Luigi voleva mandare la carrozza a
prendermi a Potsdam, dove gli avevo detto che mi sarei recata; Glielo comunico,
affinché Lei possa regolarsi nel modo migliore. Mi saluti cordialmente Sua
moglie e Sua figlia, da me tanto cordialmente amate, e stia certo, diletto amico,
che l’amore e l’amicizia di Lei e dei Suoi mi hanno dato la gioia più alta fino
all’ultimo istante della mia vita. La Sua H. VOGEL.
Presso Stimming Lei troverà una valigetta di cuoio, nera, suggellata e una
cassettina, anch’essa suggellata, contenente scritti per Vogel, lettere, denaro, capi
di vestiario e anche libri. Con i 10 talleri in contanti che in essa si trovano
desidero sia fatta fare una bellissima
“tazza grigiopallido”, internamente dorata, di stile moderno, con un arabesco
dorato su fondo bianco fino all’orlo, e con mio nome di battesimo all’esterno in
campo bianco. Per questa commissione La prego di rivolgersi al contabile Meves
della fabbrica di porcellane, pregandolo di inviare “la sera di Natale” questa
tazza a Luigi, ma Lei, mio caro amico, dovrebbe affrettare l’ordinazione perché
altrimenti la tazza potrebbe non esser pronta. Stia bene e sia felice.
Nella cassetta troverà anche una piccola chiave suggellata: è la chiave del
lucchetto di un baule in casa Vogel, nel quale ci sono numerose lettere e altre
cosa da recapitare.
[Kleist].
Forse posso ricorrere anch’io, mio carissimo Peguilhen, alla Sua amicizia per
chiederLe qualche piccolo favore. Ho dimenticato di pagare il barbiere per il
corrente mese e La prego di dargli il tallero che troverà in un involto nella
cassetta di madame Vogel. Ella mi dice che Lei dovrebbe aprire la cassetta e
provvedere a tutte le commissioni che vi sono contenute, affinché Vogel non
debba subire queste noie. La prego infine di regalare al mio padrone di casa M
ller, Mauerstrasse n. 53, in segno di modesto riconoscimento per la sua buona
accoglienza e ospitalità, la valigetta di cuoio nero, di mia proprietà, ad eccezione
delle cose che potrebbero eventualmente essere utili per il mio funerale. Stia
bene, mio carissimo Peguilhen; il mio saluto e i miei ossequi alla Sua ottima
consorte e alla figlia.
H. VON KLEIST.
il 21 novembre, dicono qui; ma noi non sappiamo se sia vero.
P.S. Nel baule di madame Vogel che si trova a Berlino, nella stanza della
servitù, a casa sua, chiuso da un lucchetto d’ottone che si può aprire con la
chiavetta suggellata contenuta qui nella cassetta - in questo baule ci sono tre mie
lettere che La prego vivamente di recapitare. Sono:
1 ) una lettera per la consorte del Consigliere aulico M ller, a Vienna;
2) una lettera per mio fratello Leopoldo a Stolp, entrambe da spedire per
posta (la prima può essere forse affidata al buon Voss, l’occhialaio); e
3) una lettera per la signora von Kleist, nata von Gualtieri, che prego di
consegnare al maggiore von Below, governatore del principe Federico d’Assia,
al castello.
Troverà infine,
4) ancora una lettera per la signora von Kleist, qui nella cassetta di madame
Vogel, che prego di consegnare ugualmente e
“contemporaneamente” all’altra a von Below… Addio! Addio!
P.S. Venga il più presto possibile da Stimming, mio carissimo Peguilhen,
affinché possa seppellirci. Le spese, per quanto mi riguarda, Le saranno rifuse da
mia sorella Ulrica a Francoforte. La signora Vogel fa nuovamente notare che qui
nella cassetta di legno è suggellata la chiave che apre il lucchetto d’ottone del
baule che si trova nella stanza della servitù a Berlino e che contiene molte
commissioni. Credo di averlo già scritto, ma la signora Vogel insiste affinché io
lo scriva ancora una volta.
H. VON KLEIST.
A ULRIKE VON KLEIST.
Non posso morire senza essermi riconciliato, gioioso e sereno come sono,
con l’intero mondo e quindi anche, prima di ogni altro, mia dilettissima Ulrica,
con te. Lascia che la ritiri, quella frase severa contenuta nella lettera alla Kleist;
in realtà tu hai fatto per me, al fine di salvarmi, non dico quanto stava nelle forze
di una sorella, ma nelle forze di una creatura umana: ma, in verità, per me non
esisteva possibilità di soccorso su questa terra. E ora addio; possa il Cielo donarti
una morte soltanto a metà così gioiosa e indicibilmente serena come la mia:
questo è l’augurio più affettuoso e più profondo che io possa concepire per te.
Da Stimming, presso Potsdam
il … la mattina della mia morte.
TUO HEINRICH.
NOTE.
Nota 1: Karl von Zenge (1777-1802) era il fratello di Guglielmina.
Nota 2: Johann Ch. F. Benecke era commissario alla giustizia.
Nota 3: Wilhelmine von Kleist (1772-1817), la maggiore delle due
sorellastre del poeta, nata dalle prime nozze del padre con Caroline von Wulffen,
maritata con Ernst von Loeschbrand e divorziata.
Nota 4: Sono il primo e il terzo verso di una poesia di Kleist per
Guglielmina: “Nicht aus des Herzens blossem Wunsche keimt…” e: “Der
Mensch soll mit der M he Pflugschaar…”
Nota 5: Minna Clausius era figlia di un mercante di stoffe e seterie.
Nota 6: La sorellastra di Kleist (vedi nota n. 3).
Nota 7: Quando era soldato a Potsdam, Kleist si era innamorato di Luisa von
Linckersdorf, figlia di un colonnello.
Nota 8: Leopoldo von Kleist.
Nota 9: “Abellino, il grande bandito”: dramma di Heinrich Zschokke (nato a
Magdeburgo, 1771, morto ad Aarau, città svizzera nel Cantone di Argovia,
1848). Visse dal 1795 in Svizzera, educatore e funzionario della repubblica
elvetica, autore di opere storiche e politiche, di racconti popolari e di
un’autobiografia.
Nota 10: Vi fu combattuta una battaglia nella Seconda guerra slesiana
(1745).
Nota 11: Di queste ” istruzioni” che Kleist aveva lasciato alla fidanzata,
affinché sapesse come regolarsi durante l’assenza di lui, si fa cenno nella lettera
del 16 agosto 1800.
Nota 12: La tazza che Kleist donò a Guglielmina esiste ancora (a Lipsia). E’
ornata di papaveri e fiordalisi e contiene una sciarada intraducibile. L’interno
della tazza reca la parola “Vertrauen”
(fiducia), l’interno del piattino la parola “uns” (noi), l’esterno del piattino la
parola “Einigkeit” (concordia): “Vertrauen auf uns, Einigkeit unter uns”:
“Fiducia sopra (noi diciamo ‘in’) noi concordia sotto (noi diciamo ‘tra’) noi”.
Nota 13: Kleist era appassionato di musica. Egli stesso suonava. Con amici
(von Schlotheim, von Gleissenberg e Otto August R hle von Lilienstern intimo
amico di Kleist e autore di opere storiche e militari) aveva formato un quartetto
che diede anche concerti in pubblico.
Nota 14: E’ una chiesa in tardo stile gotico, ma nel ‘700 l’interno fu
rimaneggiato in stile classico.
Nota 15: Lo stesso Kleist mutò, pochi mesi dopo, questi suoi giudizi sulle
chiese e cerimonie cattoliche. Si veda la lettera del 21 maggio 1801. In genere, i
giudizi dati da Kleist sono sempre soggettivi e spesso velati dai suoi malumori e
dalle sue condizioni di salute. A proposito di cerimonie cattoliche viste da un
protestante sarà utile confrontare un passo di Schiller nella “Maria Stuarda”, atto
primo, scena 6.
Nota 16: Joseph Bonavita Blank (1740-1827), dei frati minori, fu professore
di filosofia all’università di W rzburg e lasciò un cospicuo gabinetto di storia
naturale all’università stessa.
Nota 17: Il maggiore generale Dall’Aglio, all’avanzarsi dell’esercito francese
sotto Dumonceau, consegnò soltanto la città (novembre 1800) e difese
eroicamente l’altura del Marienberg (fino al gennaio 1801).
Nota 18: Cioè feritoie finte, dipinte (simboli invece della cosa rappresentata).
Nota 19: Sembra ormai accertato che il misterioso viaggio di Kleist aveva lo
scopo di trovare un luogo adatto a curare un suo vecchio male. Non sappiamo
che male fosse, ma dev’esser stato probabilmente tale da costituire un
impedimento al matrimonio.
Nota 20: Grandioso ospedale, ancora esistente, fondato nel 1576, ampliato
nel 1791 dal vescovo Ludwig von Erthal.
Nota 21: Vedi nota numero 12.
Nota 22: Si noti che in tedesco il sole (“die” Sonne) è di genere femminile.
Nota 23: La stessa immagine si legge nella lettera del 4 settembre 1800 (a
proposito del fiume Weissritz) e un passo parallelo a questo è ripetuto nelle
lettere del 18 e 28 luglio 1801 a proposito del Reno.
In genere immagini, similitudini, frasi sono spesso ripetuti nelle lettere a
distanza di tempo (per esempio nelle lettere del 4 settembre 1800, 21 maggio
1801 e 18 luglio 1801: un mare di terra agitato).
Nota 24: La filosofia kantiana. Di essa Kleist conosceva allora soltanto la
parte pratica. Quando conobbe la “Critica della ragion pura”, rimase
profondamente turbato; si veda la lettera del 23 marzo 1801.
Nota 25: Jean Fran‡ois Pilƒtre de Rozier (1756-1785), chimico e fisico
francese, ripeté gli esperimenti di Montgolfier e, nel primo tentativo di
navigazione aerostatica, trovò la morte a Boulogne-sur-Mer.
Nota 26: W rzburg.
Nota 27: Un ufficiale nel reggimento di fanteria di stanza a Francoforte s. O.
Nota 28: Nell‘“Inno alla gioia”.
Nota 29: Henriette von Zenge (1787-1813), la sorella minore di Guglielmina.
Nota 30: August H. J. Lafontaine (1758-1831), romanziere tedesco, autore di
ben 150 romanzi sentimentali.
Nota 31: Ludwig H. Chr. H”lty (1748-1776), poeta tedesco, membro del
gruppo di poeti di Gottinga, autore di liriche e ballate piene di grazia e
sentimento.
Nota 32: Il marchese di Posa nel dramma “Don Carlos” e Max Piccolomini
nel dramma “La morte di Wallenstein” di Schiller.
Nota 33: Era un vigneto, luogo di escursioni, appartenente all’università.
Nota 34: Minna Clausius. Vedi nota numero 5.
Nota 35: Johann H. Voss (1751-1825), autore di famosi idilli (tra i quali la
“Luisa”) e traduttore dei poemi di Omero e Virgilio.
Nota 36: “La Critica della ragion pura”.
Nota 37: Karl von Gleissenberg (1771-1813), sottotenente nel reggimento
della Guardia, poi governatore dell’Accademia militare, sposò la cugina di
Kleist, Carolina von Pannwitz.
Nota 38: Pubblicato, anonimo, ad Amsterdam nel 1796.
Nota 39: La sciarada della tazza. Vedi nota numero 12.
Nota 40: Questo ritratto si trova presso la famiglia Kleist. Misura centimetri
7 per 5,5 e i colori sono ancora vivi: giacca d’un nero bluastro, viso roseo, occhi
d’un azzurro scuro, capelli castano chiaro, senza nome d’autore.
Nota 41: Luise von Zenge (1782-1855), la sorella minore di Guglielmina che
Kleist chiama la “sorella d’oro”. Pare che fosse più vivace di Guglielmina e più
attraente nella conversazione.
Nota 42: Riferimento alla “Gerusalemme liberata”, laddove Tancredi uccide
l’amata Clorinda (canto dodicesimo) e ferisce di spada l’albero in cui lei si è
tramutata (canto tredicesimo).
Nota 43: La Madonna Sistina, alla quale Kleist applica in parte le parole
(nobile semplicità e pacata grandezza) con le quali Winckelmann caratterizzò
l’ideale dell’arte antica.
Nota 44: Philips Wouwerman (1619-1668), pittore olandese, dipinse
specialmente cavalli, scene bibliche e paesaggi.
Nota 45: Karoline e Henriette von Schlieben. La prima era fidanzata di
Heinrich Lohse, un pittore che allora dimorava a Parigi e divenne amico di
Kleist. Sposato Lohse, Karoline si trasferì con lui a Milano.
Nota 46: Kleist insiste più volte su questo suo desiderio di pace. Si vedano le
lettere del 9 e 14 aprile 1801.
Nota 47: Nel “Torquato Tasso”, atto secondo.
Nota 48: Ernst Platner, filosofo e fisiologo; Karl F. Hindenburg, matematico;
Georg S. Kl gel, matematico e fisico, Johann F.
Blumenbach, medico e naturalista, Heinrich A. Wrisberg anatomista.
Nota 49: J. W. Ludwig Gleim (1719-1803), fondatore della poesia
anacreontica in Germania, fu un fervido protettore di giovani ingegni.
Nota 50: Ewald Christian von Kleist (1715-1759), antenato di Heinrich,
poeta (è noto il poemetto didascalico “La primavera”), fu ferito nella battaglia di
K nersdorf e morì poco dopo a Francoforte s. O.
Nota 51: La pace di Lunéville, conchiusa il 9 febbraio 1801 tra la Francia e
l’Austria. La Francia estese i suoi confini sino alla riva sinistra del Reno.
Nota 52: Di questo presentimento Kleist aveva già fatto cenno due volte
nella lettera a Guglielmina, 9 aprile 1801.
Nota 53: Wilhelm von Humboldt. Girolamo Lucchesini (1751-1825) era
ministro di Prussia a Parigi.
Nota 54:’ L’Accademia di Digione aveva bandito un concorso (1749) sul
tema: “Le progrès des sciences et des arts a-t-il contribué à corrompre ou à
épurer les moeurs?”
Nota 55: Qui Kleist confonde Issione (che era bensì legato a una ruota) con
Sisifo.
Nota 56: Louis Dominique Cartouche, un famigerato delinquente, giustiziato
nel 1721.
Nota 57: Il dramma “La famiglia Thierrez” (che diventò poi “La famiglia
Ghonorez” e im’ine “La famiglia Schroffenstein”). E’ la prima volta che Kleist
parla di sé definendosi poeta.
Nota 58: Nel gennaio 1802 era morto Karl von Zenge, il fratello di
Guglielmina.
Nota 59: Marie Margarete Philippine von Kleist (1761-1831), nata von
Gualtieri, sposò il sottotenente Friedrich Christian von Kleist (1764-1820),
cugino del poeta.
Nota 60: Adam Heinrich M ller (1779-1829), scrittore, per parecchi anni
console austriaco, avversario della Prussia, scrisse opere di economia politica.
Nota 61: Adolphine Henriette Vogel (1777-1811), maritata fin dal 1799
con Louis Vogel, contabile della Banca agricola a Berlino.
Nota 62: Una bambina di dieci anni.
POSTFAZIONE DI ERVINO POCAR.
Wilhelmine von Zenge era nata a Francoforte sull’Oder nel 1780 e aveva
vent’anni quando Kleist, ventitreenne, si innamorò di lei.
Nell’epistolario di Heinrich von Kleist il nome di Guglielmina appare la
prima volta in una lettera alla prediletta sorellastra Ulrica (1), datata Francoforte
12 novembre 1799:
“… Gli unici conoscenti che vedo assiduamente sono gli Zenge… Mi accade
talvolta di essere molto allegro in questa compagnia, tutta composta di brave
persone, in cui regna concordia e l’etichetta è ridotta al minimo. La maggiore
degli Zenge, Minetta (2), ha persino un animo raffinato, capace a volte di
accogliere impressioni di bellezza; almeno sono contento quando mi ascolta con
attenzione, sebbene da parte sua non parli molto. Ma tutto ciò va in fumo quando
l’intera brigata è riunita. Le loro chiacchiere che si incrociano non possono certo
definirsi una conversazione. Quando si vuol conversare, bisogna indugiare
sull’argomento, bisogna esaminarlo da ogni parte, perché solo cosa diventa vario
e attraente…”.
Nella stessa lettera a Ulrike è contenuto un’altra notizia interessante per
l’inizio dei rapporti fra Kleist e Guglielmina:
“Ancora una grande notizia che forse ti indurrà a venire subito a Francoforte.
Gli Zenge e la nostra famiglia insieme a molte altre dame di Francoforte
prendono un corso di fisica sperimentale da W nsch (3).
“Prendono”, ho detto? Sembra quasi che si parli di medicine. Ma il sapore
non è così cattivo. E’ una cura d’acqua utile e divertente”.
Quest’ultima notizia rivela già la passione di Kleist per lo studio delle
scienze. Ma nel suo furore pedagogico egli non si chiede se potranno essere
altrettanto interessanti per colei che sarà la sua fidanzata.
Sappiamo che Heinrich von Kleist scrisse un’opera autobiografica intitolata
“Storia della mia anima” (Geschichte meiner Seele) il cui valore, secondo un
giudizio contemporaneo, era inestimabile. Purtroppo
“probabilmente andò perduta nel trambusto degli ultimi tempi”. Senza di
essa, dice, “tutte le opere di Kleist non sarebbero che un frammento, almeno per
coloro che lo vogliono conoscere e valutare nella sua totalità, e particolarmente
vorrebbero giustificare il suo ultimo passo…”.
Perduta quest’opera, per giudicare e apprezzare l’uomo e il poeta non ci
restano che le lettere e le opere, alle quali vanno aggiunte le notizie lasciateci dai
contemporanei.
L’epistolario abbraccia il periodo che va dal marzo 1793 (Kleist, nato a
Francoforte sull’Oder il 18 ottobre 1777 - lui stesso credeva di essere nato il 10 -
non aveva ancora 16 anni) al 21 novembre 1811, il giorno della sua morte: dalla
lettera cioè del giovinetto alla zia Massow, che gli faceva da mamma, all’ultimo
addio inviato alla dilettissima sorellastra Ulrica qualche ora prima di morire.
Sono poco più di 200 lettere, tutte straordinarie come documentazione
biografica, ma di particolare fascino, quasi a sostituire la smarrita storia
dell’anima di Kleist, quelle degli anni cruciali 1799-1802, indirizzate a Ulrica e
alla fidanzata Guglielmina von Zenger. Kleist, infatti, stava attraversando il
periodo della sua tumultuosa formazione spirituale, in perpetua lotta con se
stesso, ribelle al razionalismo illuministico imperante, non classico, non
romantico, in un mare di incertezze, di incongruenze, di contraddizioni, tra
impeti di gioia, di speranza, di fede e abbattimenti sconsolati, fallimenti
ideologici, nere tristezze, illusioni e delusioni.
Non si possono leggere queste lettere senza sentirsi trascinati dalla febbre di
ricerca che agitava il giovane irrequieto, dall’intelligenza folgorante, senza
essere travolti dall’ambascia delle sue continue insoddisfazioni, senza trepidare
con lui e ammirarlo compiangendolo: talvolta, vedendolo camminare come un
sonnambulo sullo scrimolo del tetto, si vorrebbe gridargli di evitare l’abisso nel
quale sta per cadere. Alle sue insistenze pedagogiche con la fidanzata verrebbe
fatto di sorridere, se non si sentisse quanto sia tragicamente serio anche questo
delirio. Alle sue ansie per rintracciare una felicità impossibile, alla patetica
illusione di poter vivere su un’isola deserta, alle cavillose argomentazioni contro
la vita dell’impiegato, di fronte all’oscillante convinzione della necessità di agire
e della necessità di non agire nel consorzio civile, il lettore ha sempre
l’impressione di trovarsi su uno scafo travolto dalla tempesta, sebbene sia
possibile intravedere un orizzonte lontano, non certo sereno come un porto di
pace, ma luminoso: la terra promessa della poesia. Se dalle lettere alla fidanzata
sentiamo, più che l’amore di lui, il suo desiderio d’amore, la sua invocazione
d’aiuto l’aspirazione a una pace che gli è negata; se lo vediamo tessere discepolo
entusiasta di Rousseau, l’elogio della natura idilliaca e perseguire accanito lo
studio scientifico dei fenomeni naturali; se assistiamo alle sue elucubrazioni per
formulare, sotto la severa guida della ragione, un “piano di vita” che dovrà
attuare la sua missione umana, e poi lo vediamo invece agitato e travolto dalle
passioni e dal sentimento, non possiamo non accorgerci che questo mondo di
contrasti, di dubbi, di diuturni conflitti è precisamente il terreno dal quale
fioriranno, come per un miracolo apparentemente improvviso, le sue opere
drammatiche e i suoi non meno drammatici racconti.
Tutto questo ci fa vivere, in flagrante immediatezza, l’epistolario.
Preziosissimo, anche se incompleto: è noto, infatti che molte lettere furono
distrutte o dalla sorella, desiderosa di eliminare per pietà fraterna ciò che a suo
parere poteva recare pregiudizio alla memoria del grande fratello, o dalla
fidanzata, che dodici anni dopo la morte di Kleist scriveva a un’amica: “Mia
sorella [Luisa, quella che il poeta chiamava “la sorella d’oro”] mi ha pregato da
un pezzo di mandare alcune lettere di Kleist al dottor Tieck [che fu il primo
curatore delle opere del poeta], ma non sapevo decidermi a farlo, perché vi si
parla tanto di me. Queste lettere sono però il fedele specchio della sua anima, e
poiché desidero che i terribili giudizi dati su di lui dopo la sua morte siano
moderati da uno sguardo nel suo cuore, voglio dimenticare me stessa e mandare
alcune lettere, quelle che mi sembrano le più interessanti”. E in un’altra missiva:
“Volentieri verrei incontro al desiderio di Tieck e gli manderei qualche altro
scritto lasciato da Kleist, ma devo confessare che sono stata così sciocca da
bruciare molte delle sue lettere. Quando mi maritai [col professore di filosofia
Krug, il successore di Kant all’università di K”nigsberg], mi proposi di non
rileggere quelle lettere, perché scritte tutte nella più accesa passione, e poiché
non confidavo di possedere la forza sufficiente per restare fedele al mio
proponimento, le bruciai; per fortuna sopraggiunse mia sorella Luisa e salvò
quelle che ancora possiedo”. E anche la famiglia di Kleist, ignara della sua
grandezza e a lui ostile soprattutto per il suo rifiuto della carriera militare,
distrusse le lettere che egli certamente scrisse ai parenti. Così certi periodi della
vita di Kleist rimangono nel buio, soprattutto perché privi di una
documentazione epistolare.
Salvo queste lacune, la vita di Kleist si può comunque ricostruire sulla base
delle sue lettere e di altre testimonianze.
Di famiglia nobile prussiana, nella quale la carriera militare era tradizionale,
sebbene tra gli antenati figuri il poeta lirico Ewald von Kleist, Heinrich nacque,
come si è detto, a Francoforte sull’Oder nel 1777. Della sua fanciullezza non si
sa nulla, ma si può immaginare che non fu lieta: egli perdette infatti il padre a
undici anni e ne aveva poco più di quindici quando morì la madre e, insieme ai
fratelli, fu affidato alla zia materna e a un tutore. Non ancora quindicenne entrò
nel reggimento della Guardia a Potsdam e dopo pochi mesi partecipò alle
campagne dell’esercito prussiano sul Reno, all’assedio di Magonza, che capitolò
nel 1793, e a qualche combattimento. Firmata la pace di Basilea nel 1795,
ritornò a Potsdam e due anni dopo ricevette i galloni di sottotenente. Ma egli non
si sentiva nato per la vita militare, a suo avviso inconciliabile con i doveri
dell’uomo. Kleist concepì un ben diverso programma: spinto da un irresistibile
bisogno di cultura, animato dallo spirito filantropico che era nell’aria del suo
tempo, aspirando a un’utopica perfezione umana e a un’irraggiungibile felicità,
si diede a studiare filosofia, matematica pura, fisica, lingue classiche. Chiesto e
ottenuto il congedo, si iscrisse all’università della sua Francoforte e si accinse ad
attuare il “Ledensplan”, il “piano o disegno di vita”
che ogni uomo deve seguire.
Tra le fanciulle del vicinato, alle quali dava lezioni ripetendo ciò che
apprendeva dai suoi studi, c’era Guglielmina. La storia del loro fidanzamento è
documentata dalle lettere che qui pubblichiamo.
All’improvviso, nell’agosto 1800, Kleist si trasferisce a Berlino, trova lavoro
al dipartimento del dazio consumo e progetta di prepararsi a un impiego statale.
Ma dopo breve tempo abbandona ogni cosa e con l’amico Brockes parte per un
misterioso viaggio: Lipsia, Dresda, W rzburg.
Pare accertato che abbia cercato la guarigione da un male che lo rendeva
inabile al matrimonio, sebbene ufficialmente fosse un viaggio di affari. Dovendo
essere di nuovo a Berlino entro l‘1 novembre, Kleist vi ritornò velocemente in
cinque giorni di viaggio passando da Gotha e Halle.
Ma al momento di affrontare il nuovo impiego, si ritrasse e decise di
rifiutarlo pur non sapendo che risoluzione prendere. Prepararsi a fare il
professore a Francoforte? Andare in Francia a importarvi la recente filosofia
tedesca? Si chiuse alfierianamente in camera col proposito di non uscirne prima
di aver delineato con precisione il “suo piano di vita”. Ecco ciò che decise:
rinunciare alle miserie di un impiego, alla nobiltà, vivere una vita umile e
modesta a contatto della natura.
Proprio lui, con la sua smodata ambizione! Intanto studia Kant, e ha un
crollo spirituale. Come aveva rifiutato la divisa con la speranza di impadronirsi
di tutto lo scibile del mondo, ora, alle prese con il criticismo kantiano, apprende
che l’uomo conosce soltanto il modo in cui percepisce gli oggetti, ma non gli
oggetti stessi, sicché non si saprà mai se l’occhio fallace veda il vero o le
apparenze. E’ una rovina spirituale; il fine supremo di tutti i suoi sforzi crolla
miseramente e Kleist non vede più alcuno scopo nella vita.
Non gli rimarrà che progettare un altro viaggio, e convince la sorella Ulrica
ad accompagnarlo e - siamo nella primavera del 1801 - parte con lei per Parigi,
passando da Dresda, Lipsia, Halberstadt, Strasburgo.
Parigi lo disgusta, e qui abbandona definitivamente lo studio delle scienze,
che aveva addotto come pretesto di quel viaggio.
In segreto aveva cominciato a scrivere la sua prima tragedia, “La famiglia
Thierrez”, che diventò poi “Ghonorez” e infine
“Schroffenstein”. Kleist aveva ventiquattro anni e soltanto allora gli si aprì
l’orizzonte di quell’arte che, dopo i penosi anni di inconsapevole preparazione,
doveva concretarsi in opere erompenti dal suo cervello con vulcanica violenza.
Preso nelle spire del nuovo demone, dichiarò che non sarebbe ritornato in
patria se non quando fosse stato in grado di rispondere degnamente all’attesa che
vi aveva suscitata: mai più, se non aureolato di gloria! Per realizzare il suo ideale
e vivere concretamente la predicazione dell’amato Rousseau, pensò di stabilirsi
in Svizzera e divenire agricoltore. Lasciò Parigi, si separò dalla fedele Ulrica a
Francoforte sul Meno e passando per Darmstadt, Karlsruhe, Basilea e Berna
andò ad abitare in una casetta su un’isola del lago di Thun, nonostante il pericolo
che Napoleone invadesse la Svizzera. Di laggiù, essendosi Guglielmina rifiutata
di seguirlo in quell’avventura agreste, troncò i rapporti con lei.
Maturava intanto, insieme ad altri progetti drammatici, quello grande,
ambiziosissimo del “Roberto il Guiscardo”. L’eccessiva tensione intellettuale lo
prostrò fisicamente; Ulrica, sempre amorevole, lo raggiunse in Svizzera, lo fece
curare e lo riportò in Germania, a Jena e Weimar, dove incontrò Schiller e
Goethe, e a Ossmannstedt dove fu accolto come un figlio dal vecchio Wieland.
Questi riuscì a strappargli la confessione che, sì, stava scrivendo un dramma, e a
farsi recitare alcune scene del “Guiscardo”. Preso d’ammirazione, dichiarò che
quel dramma, se condotto a fine, si sarebbe presentato come un frutto geniale
dello spirito dei tragici greci e di Shakespeare combinati insieme.
Orgoglioso di questo giudizio, Kleist inseguì disperatamente il miraggio del
“Guiscardo” che, secondo i suoi progetti, doveva diventare non una tragedia, ma
la tragedia perfetta. Lasciò senza motivazione la casa di Wieland, la cui figlia
giovinetta si era innamorata di lui, fu di nuovo a Lipsia, di nuovo a Dresda,
finché nel settembre 1803, con l’amico Pfuel, riprese la via della Svizzera, arrivò
a Milano, salì al Sacro Monte di Varese, giunse a Ginevra, pensando sempre alla
sua tragedia e maledicendo i suoi “mezzi talenti, dono dell’inferno” e, per Lione,
giunse per la seconda volta a Parigi.
In un eccesso di disperazione diede alle fiamme il manoscritto del
“Guiscardo” e, inseguito dalle Furie, corse a Boulogne sur Mer per unirsi a
Napoleone, se avesse tentato lo sbarco in Inghilterra, e morire in battaglia. Lui
che non odiavi nessuno al mondo quanto Napoleone, il grande nemico della
libertà, voleva mettersi al suo servizio! Intanto Pfuel, al quale aveva proposto di
morire con lui, lo cercava tra i cadaveri della Morgue. Ma Kleist ritornò a Parigi
e arrivò poi fino a Magonza dove si ammalò e visse infermo per cinque mesi.
Nel giugno del 1804 il naufrago era di nuovo a Berlino. Chiese, come un
figliol prodigo, di rientrare al servizio dello stato e, per intercessione di sua
cugina Maria, amica della regina, ottenne un posto al demanio e nel maggio
1805 fu trasferito a K”nigsberg.
Rassegnato, a quanto pare, al “fragile assetto del mondo”, ormai certo di
essere poeta (“io faccio poesia soltanto perché non posso farne a meno”) si diede
alacremente a elaborare “La brocca infranta” che aveva concepita già a Berna, a
riscrivere l‘“Anfitrione” di Molière, a scrivere le prime novelle, “La marchesa di
O…” e “Il terremoto nel Cile”, e ideò le altre (“Michele Kohlhaas”, “Il
fidanzamento a San Domingo”, forse anche “Il trovatello”). E cominciò la
“Pentesilea”. Di giorno in ufficio, di notte a tavolino. Qualche visita agli amici,
tra cui c’è anche il professor Krug, il marito della sua ex-fidanzata, la quale avrà
il tatto di non rievocare il passato e ancora dopo molti anni scriverà: “Strani
decreti del Cielo mi hanno separato da Kleist, ma egli rimarrà sempre caro al
mio cuore. Il mio più grande desiderio era che potesse trovare la felicità a fianco
di un’altra donna, ma nemmeno questo desiderio poté realizzarsi”.
Dopo la battaglia di Jena e l’umiliazione della Prussia, Kleist, malato di
nervi, chiese un periodo di licenza e tornò a Berlino, ma alle porte della città fu
arrestato come spia con due amici ufficiali e deportato in Francia, prima nel forte
di Joux, poi a Chƒlons-sur-Marne. Riavuta la libertà per intercessione di Ulrica,
si stabilì a Dresda, dove frequentò assiduamente i circoli letterari e artistici e a
trent’anni diede alle stampe l‘“Anfitrione”, la prima opera con cui si presentava
al pubblico.
Nd fecondissimo 1808 Kleist fondò, con Adam M ller, la rivista mensile
“Ph”bus”, pubblicò larghi frammenti della “Pentesilea”, del
“Guiscardo”, della “Brocca infranta”, della “Caterina di Heilbronn”, del
“Michele Kohlaas”, della “Marchesa di O…” e scrisse “La battaglia di
Arminio”.
Ma grandi avvenimenti si delineavano all’orizzonte politico: l’Austria stava
per sollevarsi contro Napoleone. Kleist, dominato dal pensiero della liberazione
dallo straniero, riponendo le sue speranze nell’Austria, decise di recarsi a Vienna
per essere più vicino agli avvenimenti e scrisse poesie patriottiche, gonfie di un
odio feroce contro il Bonaparte. Ad Aspern (maggio 1809) assistette da vicino
alla vittoria dell’arciduca Carlo e, con grandi progetti, tra i quali quello di
pubblicare un settimanale politico, “Germania”, andò a Praga. Sul soggiorno
nella capitale della Boemia si hanno notizie contraddittorie, e si giunse a
crederlo morto.
Ma la rivincita di Napoleone con la sua vittoria di Wagram (luglio 1809) fece
crollare le speranze di Kleist. Nel febbraio 1810 lo ritroviamo a Berlino, dove
scrive “Il principe di Homburg”, il suo dramma più equilibrato, trova vecchi e
nuovi conoscenti, tenta la fortuna con un altro periodico, “Berliner
Abendbl”tter”, un quotidiano che dopo tristi e meschine vicende cessa la
pubblicazione nel marzo 1811. Inizia a scrivere un romanzo in due volumi, del
quale non sappiamo nulla. Ridotto in miseria, compare un giorno a Francoforte,
dove è accolto freddamente: meglio dieci volte la morte, dirà, che rivivere
l’umiliazione provata quel giorno, a tavola, seduto tra le due sorelle.
Si convinse che non gli rimaneva altra vita che la morte: così si confidava
con sua cugina Maria, alla quale, come ad altri, aveva proposto di morire
insieme. Incontrò finalmente una donna disposta a farlo, Henriette Vogel, una
donna maritata, sofferente di un male inguaribile, e fu lei stessa a pregarlo di
ucciderla. Egli accettò con gioia. E il 21 novembre 1811, a 34 anni dopo aver
scritto quelle lettere sconvolgenti che non si possono leggere senza commozione,
soprattutto l’ultima a Ulrica, uccideva a colpi di pistola, sulle rive del Wannsee
presso Potsdam, prima Henriette e poi se stesso Così si chiudeva la vita
tormentata del grande drammaturgo tedesco,
“la più tormentata che uomo abbia mai vissuto”, senza che egli vedesse mai
rappresentato uno dei suoi drammi: “La famiglia Schroffenstein”
era andata in scena a Graz nel 1804, “La brocca infranta”, rappresentata da
Goethe a Weimar nel 1808 aveva fatto fiasco, la
“Caterina di Heilbronn” era andata in scena a Vienna e a Bamberg nel 1810 e
nel 1811: tutto in sua assenza. E perché il pubblico avesse notizia dei due ultimi
drammi dovettero passare dieci anni, nel 1821, quando Ludwig Tieck curò la
pubblicazione delle opere inedite.
Col passare dei decenni la fama di Heinrich von Kleist si andò consolidando
sempre più, le edizioni si fecero sempre più accurate e precise, le
rappresentazioni delle opere teatrali sempre più frequenti, le traduzioni in lingue
straniere sempre più numerose, gli studi sempre più profondi e illuminanti. (Per
l’Italia basterà accennare agli scritti kleistiani di Arturo Farinelli, Lorenzo
Bianchi, Benedetto Croce, Italo Maione, Rodolfo Bottacchiari, Nicola Accolti -
particolarmente interessanti per lo studio dell’epistolario
- e Leone Traverso).
Tutti gli studi su quest’uomo che, come dice Thomas Mann, “sa metterci alla
tortura… e fare in modo che gliene siamo grati”, devono necessariamente
prendere le mosse dalle lettere che possono chiarire molte cose, molte situazioni,
molti reconditi meandri dell’anima di colui che si definì “uomo inesprimibile”,
ma, anche prescindendo dalle palesi lacune dell’epistolario, gli studiosi si
troveranno sempre di fronte a squilibri, dubbi, deliri, sogni, perplessità che
nessuno scandaglio potrà mai svelare, interpretare, risolvere, poiché ogni
“cuore sensibile è un enigma”.
NOTE.
Nota 1: Ulrike Philippine von Kleist, seconda sorellastra del poeta, nata nel
1774 dalle prime nozze del padre con Caroline von Wulffen, morta nubile nel
1849.
Nota 2: Wilhelmine (Minetta) von Zenge (1780-1852), la futura fidanzata di
Kleist (negli anni 1800-02) era figlia di un maggior generale e, due anni dopo la
rottura del fidanzamento, sposò Wilhelm T. Krug, professore di filosofia
all’università di Francoforte e poi (1805) successore di Kant a K”nigsberg.
Nota 3: Christian E. W nsch (1744-1828) era professore di scienze naturali
all’università di Francoforte. Dalle sue “Conversazioni cosmologiche” Kleist
prese parecchi degli esempi indicati a Guglielmina.

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