Alessandro Mazzone
1. Perfino un liberale1 come Norberto Bobbio ha riconosciuto che l’attacco neoliberale ad ogni forma di
socialismo è ormai, e sostanzialmente, un attacco alla democrazia tout court2. Ma per chi ritiene che gli
ideologemi neoliberali siano piuttosto figure di superficie di un processo, in cui il capitalismo transnazionale
tende fra l’altro ad abbattere quel poco o tanto di democrazia che si è depositata anche in istituzioni negli
Stati del cosiddetto Occidente (e che in un Paese come il nostro è risultato delle lotte dei lavoratori durante
quattro generazioni) - conviene riprendere la questione alla radice.
Si tratta di domandarsi a quali condizioni sia pensabile, nel mondo attuale, democrazia, cioè autogoverno
di una comunità umana, in cui gli individui siano i luoghi dell’azione, e che promuova, anche attraverso
regole e istituzioni, il miglior sviluppo dei suoi membri. E si vede allora che la questione della democrazia è
più ampia di quella delle istituzioni, o anche della configurazione, modalità di esercizio, limiti e scopi
istituzionali di un potere di comando. Si tratta, al di là di ogni dottrina dei fini dello Stato, innanzitutto dei
“fini” tout court (“ciò che si persegue per sé stesso”, come dice Aristotele in apertura dell’Etica
Nicomachea), e di come questi fini possano essere comuni a molti, o a tutti. Si tratta insomma
dell’autogoverno di una comunità umana in quanto tale. Questo, naturalmente, è il problema della politica
da Platone in poi, in tutta la tradizione filosofica europea: di cui anche quella liberale è, certo, un elemento -
ma è solo per strabismo o fanatismo che se ne vuol recidere il legame col resto, decretando che prima di
Locke e Hobbes c’è il buio3, che la nozione di comunità umana e del suo rapporto con la natura (cioè con la
non-libertà, non-società, non-storia) va relegata tra le anticaglie, e che “siamo” tutti, moderni o postmoderni,
“individui” nel senso borghese, e lo saremo in sæcula sæculorum.
Chiamo Corpus collectivum hominum et rerum [d’ora in poi: cchr] la nozione (astratta!) di una qualsiasi
comunità umana, capace di riprodursi bioticamente (riproduzione sessuata), e mediante lavoro, cioè dotata di
un suo rapporto biotopico tipico con l’ambiente naturale. L’autogoverno di ogni pensabile cchr ha,
innanzitutto, un oggetto e una materia. Oggetto sono le modalità o forme di moto della produzione e
riproduzione della comunità stessa, che variano nel tempo, e che - oggi - tendono a inglobare non solo la
produzione e riproduzione di individui umani (cioè sociali, prodotti e acculturati e dotati di modalità
d’azione storicamente definite) - ma le determinanti biotiche ed ambientali di questa riproduzione. L’oggetto
dell’autogoverno è idealmente coestensivo di tutte le forme di vita della comunità, ma solo nella misura in
cui la comunità è effettualmente libera, può determinare sé stessa, ossia - al limite - non ha niente fuori di
sé.4 Ma - si dirà giustamente - quante cose una comunità umana ha “fuori di sé”! La natura, per cominciare,
inclusa la sua propria naturalità, etc.! Precisamente. Chiamiamo tutto questo “materia” dell’autogoverno, e
abbiamo che materia dell’autogoverno è ciò che entra via via nel contenuto dei fini, che gli uomini si
pongono, come materia, ossia non-volontà, non-ragione, non-posizione e realizzazione di fini, ma appunto
materia e condizione di quelle. La “materia” non può essere “scelta”, se non a valle della posizione di fini 5,
1
Il termine "liberale" viene qui usato in senso filosofico, non come designazione di collocazione politica immediata. Bobbio
conosce "individui" e "interessi", ossia "persone" nel senso di Locke. Al di fuori di questi, conosce solo dottrine "organiciste" dello
Stato. Ciò si può vedere chiaramente nella raccolta di Materialien zu Hegels Rechtsphilosophie, a cura di M. Riedel, 2 voll.,
Frankfurt/M. 1975. B., indifferente alla nuova letteratura seguita agli studi di E. Weil, J. Ritter, D. Henrich, ai testi pubblicati da K.-
H. Ilting, ripropone i temi "classici" del contrasto tra "totalità etica" e "diritto naturale", del rapporto con il Volksgeist romantico, di
un Hegel che si propone di esporre "lo Stato come è" (vol. 2, p. 85, 87, 95). Che nella Repubblica platonica, come nella Politica
aristotelica, come nel Contratto sociale, come - mutatis mutandis - nella Filosofia del diritto hegeliana si abbia innanzitutto una
fondazione filosofica generale della posizione di fini e della loro forma di movimento possibile e comune, cioè appunto della libertà
come superamento del meccanismo naturalistico, sfugge a questa prospettiva altrettanto quanto la continuità tra Rousseau, Kant e
Hegel, e poi, Marx. Si veda, per contrasto, il breve, illuminante saggio di Livio Sichirollo, Marx oggi, in Belfagor, 1.1999, p.1 a 9.
2
N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1995, p. 139; cfr. p. 25, 51.
3
Anche N. Bobbio, op. cit., p.9: "concezione organica dominante nell'età antica e medievale" ecc.
4
Qui va tenuto fermo (con Marx ed Engels, Ideologia tedesca, in Opere complete , vol. V, p. 37, che "la storia" non fa nulla, ma
"gli uomini" fanno, etc. - ossia, filosoficamente: che l'individuo è il luogo dell'azione, anche se l'azione ha forme transindividuali (p.
es. linguaggio, pensiero ...). Questo principio è secondo me sufficiente a fondare filosoficamente le "garanzie" e le cosiddette "libertà
positive" e "negative" di cui discorrono i teorici liberali, spesso postulandole come "valori" trascendenti e/o arbitrariamente
convenuti. Cfr. anche la Bibliografia in calce al saggio cit. di L. Sichirollo.
5
Ciò si vede, in Hegel, già nella teoria dell'"intenzione", che specifica il "proposito" sia rispetto all'autodeterminazione del volere
razionale, sia rispetto alle sue condizioni, mezzi e conseguenze, che il "soggetto morale" (individuale), deve conoscere e dominare -
ma può sempre farlo solo parzialmente, mai nella totalità della loro connessione obiettiva. V. Filosofia del diritto, §§ 115-128;
2. Hegel sa che “volontà” è essenzialmente “pensiero”, e, nello svolgimento sistematico, “ragione”. Nella
Filosofia del diritto e, in genere, nello Spirito obiettivo, questa volontà-pensiero-ragione è la sfera
dell’autogoverno del Corpus collectivum secondo fini comuni. Questi sono universali per la forma (come già
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in Kant): ma la loro “materia” (determinazione dell’individuo che è volizione, e per cui esso si fa “singolo”,
universale riflesso in sé), è ora assunzione-negazione (infinita) di contenuti storici. Questi contenuti non
hanno esistenza “fuori” dell’agire: così, p. es. una legge positiva non conosciuta e riconosciuta nelle
coscienze non è una legge. L’individuo è il luogo dell’agire, ma nella forma universale. É ormai riconosciuto
il debito di Hegel verso Rousseau; ma va detto anche che la teoria hegeliana dello Stato, e della possibilità e
realtà soltanto processuale di fini comuni non si riduce alla mera critica del dover-essere kantiano, ma
attraverso questa (e proprio nelle affermazioni più “scandalose”: lo Stato “realtà effettuale dell’Idea etica”
[FD, § 257], etc.) - la teoria hegeliana offre una soluzione del problema rousseauiano: come è possibile la
volonté générale, che non può essere sommatoria di diversi, mera volonté de tous? Lo “Stato” è assunzione-
negazione, superamento della determinazione naturalistica, che è di per sé pre-razionale e solo può esser
fatta immagine e somiglianza della ragione [FD, § 18 et al.]. E noi, va detto subito, ritroviamo questa
dialettica nella nozione di naturwüchsig [naturalmente cresciuto], e del suo superamento, nel Capitale.
Hegel rifiuta anche ogni identificazione dello Stato con la società civile, mero “Stato dell’intelletto e della
necessità” - non della libertà. Non solo: come meglio intendiamo oggi (dopo il lavoro di Ilting, Henrich,
Losurdo etc.): la società civile è incapace di autoregolazione, produce gli estremi della ricchezza e del
pauperismo, la “plebe”, che non è solo privata della sussistenza, ma anche di dignità e cittadinanza (mentre
“essere cittadino” è il “supremo dovere” - FD § 258). C’è di più: questa incapacità di autoregolazione,
proprio perché (come notò Marx) “Hegel è all’altezza dell’economia politica moderna”, cioè di Smith se non
di Ricardo, importa che la autoattuazione del Corpus collectivum (della “seconda natura” che si instaura sulla
prima e la plasma secondo la sua forma, quella della libertà-pensiero-ragione) non possa aversi nella logica
del “sistema dei bisogni” e della società civile in genere. Con i suoi mezzi e nel suo linguaggio, il filosofo
aveva visto lontano: i “limiti della competitività” [cfr. Gruppo di Lisbona, 1995 12] stanno nel suo esser
“natura”, “spiriti animali del capitalismo”. Il carattere feticistico delle “leggi dell’economia politica
borghese” consiste (per Marx) nella loro pretesa “eternità” - cioè nel presentarsi appunto come “natura” -
obliterando la dimensione di produzione umana (sociale, scilicet) di una “seconda natura”, che ha un suo
decorso e un suo limite, oltre il quale essa diventa irrazionalità.
3. Anche la pluralità “naturalistica” degli Stati (in lotta tra loro come individui naturali, cioè in guerra),
realisticamente vista da Hegel, è strettamente collegata al “punto di vista dell’economia politica moderna”,
della Ricchezza di Nazioni individue. Il “sistema dei bisogni” è infatti affinamento/moltiplicazione dei lavori
e dei bisogni, divisione del lavoro, mediazione del lavoro diviso nello scambio [FD, § 60 s.: “valore”]. Ma la
società civile è perciò stesso concettualmente intermedia tra famiglia e Stato vero e proprio: è un “infinito”
bensì, in quanto attraverso il suo momento negativo si attuano le capacità potenziali degli individui umani, il
principio moderno dell’infinito valore dell’individuo. Non è, e non può essere, fine ultimo, cioè
autosufficiente e autofondante.
Per intendere questa posizione della società civile hegeliana nell’architettura dello “spirito obiettivo” non
è adeguato, il richiamo (che pur si è fatto), alla fase manifatturiera della Rivoluzione industriale, presente in
Smith e, certo, anche in Hegel. Il problema è ben altro: il rapporto della “seconda natura” cioè della libertà-
pensiero-ragione alla determinazione naturalistica e violenta è pensato da Hegel come superamento parziale
e non-concluso della “natura” nello “spirito”. (Perciò poi anche il passaggio necessario, riguardo all’unità
dello svolgimento filosofico, e dunque coerente, alla dimensione quasi-intemporale dello Spirito Assoluto.)
Il rinvio alla fase manifatturiera è, anzi, fuorviante. Si tratterà piuttosto degli elementi fisiocratici,
presenti pure nella Ricchezza delle Nazioni13: in Hegel, il lavoro del “ceto sostanziale” [FD, § 203], è bensì
nel “terreno naturale” e pone scopi: ma senza infinità positiva del produrre - quindi non è pensabile qui
scienza come forza produttiva, né le scienze della natura compaiono come momento specifico dello Spirito
oggettivo. Analogamente, e non per caso, è fuorviante la lettura del capitolo XII del Capitale come
descrizione cronologica, dimenticando che la negazione della piccola produzione contadina e artigiana è
fenomenica rispetto all’infinitazione del produrre che si ha con il “modo di produzione capitalistico vero e
proprio”. (Mi limito a questo cenno: la polemica contro lo “storicismo invertebrato” nella lettura di Marx è
stata fatta adeguatamente, anche in Italia14).
4. Se rileggiamo la teoria hegeliana dell’autogoverno razionale e libero della “seconda natura” in rapporto
alla “prima”, ma ora a partire dal Capitale, ci rendiamo conto di come il concetto di una forma di movimento
forze pro-duttive-classi sconvolga da cima a fondo l’architettura della Filosofia del diritto - senza che l’idea
dell’autogoverno venga per questo abbandonata. É modificato infatti tutto lo sviluppo da “individuo”
(vivente naturale, solo in sé, o potenzialmente, “uomo”) a “singolo” (“persona”, “soggetto morale”, “cittadi-
12
Il volume di questo titolo, a cura di R. Petrella, è pubblicato in Italia da Manifestolibri, Roma 1995.
13
Marx ne tocca rapidamente nelle Teorie sul plusvalore, cap. 2,5, e cap. 4,3.
14
Cfr. tra l'altro: C. Luporini, Marx secondo Marx, ora in Dialettica e materialismo, E. Riuniti, Roma 1974, p. 213 ss.; G.M.
Cazzaniga, Funzione e conflitto. Forme e classi nella teoria marxiana dello sviluppo, Liguori, Napoli 1981; A. Mazzone, La
temporalità specifica del Modo di produzione capitalistico, In Marx e i suoi critici, Quattroventi, Urbino 1987.
5. L’eticità, scrive Hegel [Enciclopedia, § 513]), è il concreto, la “verità dello spirito soggettivo e
oggettivo” - e dunque di tutte le figure pregresse; compresa la “persona” e il “soggetto” o coscienza morale.
Ma se ricordiamo che la nozione (marxiana) di “classi” non è un descrittore sociologico, e non ha nulla a che
fare con “gruppo” etc., vediamo subito anche che la “divisione in classi” è ben altro che un limite
all’eguaglianza e alla libertà rousseauiane (o anche delle Rivoluzioni borghesi); ben altro che un’antitesi
esterna a quelle libertà ed eguaglianza, che ne sbugiardi la parzialità o anche ne sanzioni la limitatezza cosid-
detta “storica” (?!).
La divisione in classi (e nelle due classi fondamentali del mp moderno) è inerente alla determinazione
lavorale (e qui: valorale) tanto del modo di produzione immediato, che della Riproduzione sociale
complessiva, di cui il primo è “momento dileguante” sì [Grundrisse, p. 600], ma ineliminabile realmente e
concettualmente. Allora: senza “classi” non può essere pensata (in senso stretto: non può essere concepita,
modellizzata, conosciuta razionalmente) la riproduzione complessiva del Corpus hominum et rerum, in tutte
le sue dimensioni. (Se il medium concettuale di “natura” e “storia” è lavoro, il luogo concettuale del
“processo storico-naturale” è la “rsc”).
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“Verità dello spirito soggettivo e oggettivo” voleva dire in Hegel: l’eticità è la sfera in cui tutte le
determinazioni pregresse hanno il loro svolgimento effettivo: dunque tanto la “natura” che lo “spirito
soggettivo” - cioè lo esser-diventato-umano - che deve esser pensato come lo in sé di quello in sé e per sé,
cioè dell’azione sociale-umana libera, e dei suoi gradi e avanzamenti sulla non-libertà “naturale”.
Proviamo a riformulare. Tutto il processo attraverso cui costantemente, nel cchr, si producono “individui
umani con i loro rapporti” [Grundrisse, l. cit.]; ossia, ancora, il processo della rsc nei suoi momenti,
compreso il processo di produzione immediato etc. - questo processo tutt’intero è in ogni istante luogo
dell’egemonia di classe nella rsc in forma di moto determinata (quella del mpc in primo luogo). Egemonia
come rapporto di classi vuol dire innanzitutto: sono le classi che “si dànno” Stati, istituzioni, forme di
organizzazione della produzione di “individui e rapporti tra loro” - poi anche, per es., scuole, o partiti, o
movimenti etc. etc.
Ancora: se l’egemonia è rapporto di classi, essa è modalità dello svolgimento totale delle forze
produttive, e dunque anche della produzione e riproduzione della forza produttiva principale - gli uomini
stessi. Ma allora: questa riproduzione va intesa e riconosciuta in configurazioni e secondo stadi definiti
(come anche la riproduzione economica, del resto). Ed è a questo livello che si pone - a mio giudizio - il
problema.
Tanto il problema analitico delle forme e trasformazioni e gerarchizzazione degli Stati, del loro relativo
assoggettamento e trasformazione in “agenzie regionali” nel capitalismo internazionalizzato e
mondializzantesi; quanto anche il problema dell’esplorazione delle contraddizioni attuali (cioè poi effettive,
non disegnate a tavolino) del processo di riproduzione complessiva, in forma, non solo di mpc in generale,
ma poi di corpi particolari, Stati e subStati capitalistici. Per questa via, se sapremo farlo, si arriverà anche a
determinare luoghi possibili di opposizione alla tirannide.
7. Se la tirannide moderna è praticabile, si può dire, avrà avuto paradossalmente “ragione” il vate della
“Radura dell’Essere” nelle dolci colline, vicine ai tesori barocchi della Svevia e del Baden, là nella Foresta
Nera. Almeno nel senso che, sì, la tecnica si rivela ingovernabile, la ragione è sconfitta, e “solo un dio potrà
salvarci”. Martin Heidegger, come si sa, non manca di imitatori, seguaci, nipoti e nipotini. I quali sembrano
ignorare in genere la posta in gioco - come il loro maestro, peraltro, quando credette di formulare la sua
protesta contro il “malo invio dell’Essere”, “metafisica” e “tecnica” conseguente, radicalizzando in senso
irrazionale la Kulturphilosophie dell’altra svolta di secolo: e privandosi così della possibilità di scorgere, in
termini filosofici, la dimensione processuale di cui il nichilismo era la concettualizzazione fenomenica al
livello astratto dell’autocoscienza e del suo fondamento.
Ma la concettualizzazione astratta tende per sua natura a estrapolare il fenomeno dal moto processuale.
“Tecnica” e “uso capitalistico della tecnica” son due cose diverse. E inoltre, anche la tecnica del dominio
tirannico può essere studiata e intesa.
La tirannide del capitale “globale” non può riprodurre borghesie “organiche” né nelle metropoli, dove
esse anzi s’assottigliano, né tanto meno nei Paesi della periferia, o in quelli in cui è stato abbattuto il
protosocialismo “reale”. Le forme del dominio - dalla manipolazione alla violenza bellica - possono perpe-
tuare il dominio, bloccare la vita associata, forzarla alla decadenza anche prolungata. In ciò, nihil novi sub
sole. Sarebbe strano, e veramente “nuovo”, che il dominio di per sé si facesse piena e progressiva egemonia,
forma almeno relativamente progressiva di svolgimento del corpus collectivum nelle sue configurazioni e
istituzioni, sviluppo degli individui e delle società sulla base di ciò che è diventato possibilità reale, e perciò
attuazione e ampliamento di potenzialità sociali-umane.
Il compito, per noi, mi pare esser piuttosto quello di riprodurre, all’altezza del tempo attuale, l’analisi del-
l’intero spettro della riproduzione sociale complessiva, e delle forme di egemonia. Dobbiamo indagare come
è fatta la catena - e molto qui è il lavoro da fare - prima di poter forse individuare un’altra volta, se c’è, un
qualche anello su cui far presa davvero - al di là di ogni pur giustificata denuncia e deprecazione.
La tirannia moderna può dominare, manipolare, bombardare, sterminare. Ma non può “risolvere
praticamente” il problema posto da Rousseau, diversamente risolto da Hegel e poi da Marx, e divenuto
frattanto tanto più maturo nelle cose: l’autogoverno razionale della comunità umana. Per questo, mi sembra,
tutto quel che è “ragione”, “dignità umana”, “cultura”, e (ovviamente) “democrazia”, è oggi sotto attacco, e
si trova obiettivamente dalla stessa parte. Anche il mostrare questo sarà un lungo lavoro. Ma non inutile, e
non vano.
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