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CAPITOLO SECONDO

La nascita di Firenze e i tumulti

1. L’analisi della storia di Firenze comincia in Discorsi I.1, dove


si dice che la città è di quelle edificate “da genti forestieri, [...] che
dipendono da altri”: la sua “origine” non fu “libera”, ma serva, “per-
ché (o edificata dai soldati di Silla, o a caso dagli abitatori dei monti
di Fiesole, i quali, confidatisi in quella lunga pace che sotto Ottavia-
no nacque nel mondo, si ridussero ad abitare nel piano sopra Arno)
si edificò sotto lo imperio romano, né poté nei principii suoi fare
altri augumenti che quegli che per cortesia del principe gli erano
concessi” (ivi, 10-11). Contrariamente ad Atene e Venezia, fondate
dai natii del luogo, e a Roma, che si può ritenere edificata dai natii,
se si prende come capostipite Romolo, oppure da forestieri, se si
guarda a Enea, ma comunque con “principio libero” (cfr. ivi, 16 e
I.49, 234), Firenze ebbe un’origine incerta (i soldati di Silla o i fieso-
lani), ma sicuramente forestiera e non libera; incapace per questo di
quegli augumenti che a Roma resero possibile l’accordo tra il senato
e la plebe e quindi la forma mista del governo, l’utilità dei tumulti
e lo sviluppo della virtù. La definizione di “libero” è sorprendente:
“sono liberi gli edificatori delle città, quando alcuni popoli o sotto
uno principe o da per sé sono costretti, o per morbo o per fame o per
guerra, ad abbandonare il paese patrio e cercarsi nuova sede” (D I.1,
12; cors. miei).
La libertà non è l’esercizio autonomo della propria volontà, ma la
capacità di affrontare la “costrizione” e risolverla a proprio favore.
In altri termini, la libertà è la capacità di generare comportamenti
virtuosi di fronte alla necessità (cfr. Kluxen, Raimondi 2009): essa,
dunque, è sempre una forma dell’agire in situazione, mai priva di
limiti. I migranti possono diventare virtuosi e quindi liberi, perché
sono costretti a fuggire e non perché possono non farlo: possono o
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andare ad abitare in città già esistenti, come fecero gli ebrei sotto la
guida di Mosè, o costruirne di nuove, come fecero i troiani guidati
da Enea, ma solo nel secondo caso “si conosce la virtù dello edifica-
tore e la fortuna dello edificato: la quale è più o meno meravigliosa,
secondo che più o meno è virtuoso colui che ne è stato principio”.
Virtù che si riconosce “in due modi: prima nella elezione del sito,
l’altra nella ordinazione delle leggi” (D I.1, 12).
Secondo questi parametri, nessuna virtù è stata trasferita a Firen-
ze all’atto della sua fondazione, perché i suoi fondatori, non essendo
liberi, non avrebbero potuto improntare con la loro virtù (libertà) la
forma della città.
Serva nel principio (cfr. D I.49, 238), Firenze sembra destinata a
restare tale, come dimostra l’atteggiamento accondiscendente verso
le calunnie. Nelle città libere, infatti, le calunnie sono detestate e i
calunniatori severamente puniti. Per neutralizzarle, bisogna “aprire
assai luoghi alle accuse”, poiché, mentre le calunnie non hanno a che
fare con la verità, le accuse hanno “bisogno di riscontri veri e di cir-
costanze che [ne] mostrino la verità”. Nelle città che non si ordinano
in questo modo, come Firenze, “questo disordine fece molto male”,
e chi ne leggesse le storie si renderebbe conto di quale abuso fu fatto
delle calunnie: “di che ne nasceva che da ogni parte ne sorgeva odio,
donde si veniva alla divisione, dalla divisione alle sette, dalle sette
alla rovina”. Mentre la formulazione di un’accusa implica un rap-
porto con la verità, quella di una calunnia mira a eluderlo e, dunque,
a degenerare in conflitti senza regole tra fazioni. La presenza della
libertà in una città si evince anche dalla possibilità data ai cittadini
di accusarsi l’un l’altro “senza alcuna paura o senza alcuno rispet-
to” e da quella di ottenere un giudizio solo dopo che la natura delle
accuse sia stata “bene osservata” (cfr. D I.8, 58-62 e anche I.7). La
libertà di una città garantisce la possibilità dello scontro tra i cittadini
inquadrandolo all’interno di leggi, che non sono deputate a stabilir-
ne l’esito, ma a impedirne la degenerazione. La non libertà invece
lascia spazio alle calunnie, conflitti senza regole e dunque forieri di
nuovi scontri e divisioni, come accadde a Firenze, per esempio, dopo
il 1494 (cfr. D I.47, 230-231). Firenze appare allora un paradigma
negativo, dato che
non è meraviglia che quelle città che hanno avuto il principio loro imme-
diate servo abbiano, non che difficoltà, ma impossibilità a ordinarsi mai
in modo che possano vivere civilmente e quietamente. Come si vede che è
intervenuto alla città di Firenze, la quale, per avere avuto il principio suo
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sottoposto allo imperio romano, e essendo vissuta sempre sotto il governo


d’altrui, stette un tempo abietta e senza pensare a se medesima; dipoi, venu-
ta la occasione di respirare, cominciò a fare suoi ordini, i quali, essendo me-
scolati con gli antichi, che erano cattivi, non poterono essere buoni: e così è
ita maneggiandosi per duecento anni, che si ha di vera memoria, senza avere
mai avuto stato per il quale la possa veramente essere chiamata repubblica.
[...] E benché molte volte per suffragi pubblici e liberi si sia data ampia au-
torità a pochi cittadini di potere riformarla, non pertanto non mai l’hanno
ordinata a comune utilità, ma sempre a proposito della parte loro; il che ha
fatto non ordine, ma maggiore disordine in quella città (I.49, 236-238).

Poco oltre, Machiavelli, parlando della “provincia della Magna”,


evidenzia due caratteristiche che ne spiegano il vivere libero e civile:

quelle repubbliche, dove si è mantenuto il vivere politico e incorrotto, non


sopportano che alcuno loro cittadino né sia né viva a uso di gentiluomo,
anzi mantengono tra loro una pari equalità, e a quelli signori e gentiluomini
che sono in quella provincia, sono inimicissimi; e se per caso alcuni perven-
gono loro nelle mani, come principii di corruttele e cagione d’ogni scanda-
lo, li ammazzano. E per chiarire questo nome di gentiluomini quale sia, dico
che gentiluomini sono chiamati quelli che oziosi vivono dei proventi delle
loro possessioni abbondantemente, senza avere cura alcuna o di coltivazio-
ne o di altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono perniciosi in ogni
repubblica e in ogni provincia; ma più perniciosi sono quelli che, oltre alle
predette fortune, comandano a castella, e hanno sudditi che ubbidiscono a
loro (D I.55, 265-266).

Una situazione tipica, al tempo, del “regno di Napoli, terra di


Roma, la Romagna e la Lombardia”, dove “non è mai sorta alcu-
na repubblica né alcuno vivere politico”, tanto che “tali generazio-
ni di uomini sono al tutto nemici d’ogni civilità”. Anche volendo
riordinarle, infatti, “non sarebbe possibile [...] introdurre una re-
pubblica”, ma solo un “regno”, una “mano regia che con la potenza
assoluta e eccessiva [ponesse] freno alla eccessiva ambizione e cor-
ruttela dei potenti” (cfr. ivi, 266). Esempio dell’incompatibilità tra
gentiluomini e ordinamento repubblicano (cfr. Rinaldi, I, 694 n. 100)
è la “Toscana”, dove da tempo esistono “tre repubbliche, Firenze,
Siena e Lucca”, nelle quali non vi sono “alcuno signore di castella e
nessuno o pochissimi gentiluomini”, mentre vi è “tanta equalità che
facilmente da uno uomo prudente, e che delle antiche civilità avesse
cognizione, vi s’introdurrebbe uno vivere civile”. Purtroppo, la sfor-
tuna di queste città, e di Firenze in particolare, è che “fino a questi
tempi non si è abbattuta a [imbattuta in] alcuno uomo che lo abbia
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potuto o saputo fare” (cfr. D. I.55, 267): anche un incontro mancato


produce effetti rilevanti.
La diagnosi, dunque, è cambiata: Firenze non è del tutto corrotta,
nonostante la sua origine serva, perché possiede una sua virtù che,
pur non essendo quella romana dell’augumento, lascia aperto uno
spiraglio alla possibilità di un suo riordinamento repubblicano. L’ori-
gine serva avrebbe condannato Firenze a non potersi mai ordinare in
modo repubblicano, ma tutt’al più in modo principesco, se “dipoi,
venuta la occasione di respirare, cominciò a fare suoi ordini, i qua-
li, essendo mescolati con gli antichi, che erano cattivi, non poterono
essere buoni” (cfr. I.49, 237), consentendole di affrancarsi, almeno
parzialmente, dalla sua origine. Quest’ambivalenza, dovuta al caso,
è lo spiraglio attraverso cui Machiavelli sostanzia il suo discorso sul-
la possibilità di Firenze di riordinarsi in forma repubblicana, nono-
stante non ci sia ancora riuscita. L’occasione però, sebbene qui non
dica quale fu, portò la conditio sine qua non per la costituzione di una
repubblica: l’equalità (cfr. I.55). D’altra parte: cosa avrebbe potuto
consentire ai fiorentini di sfruttare l’occasione per darsi ordini propri
se non una forma, per quanto larvata, di virtù?

2. L’analisi “della origine di Firenze” (IF I.39, 188) trapassa poi


nelle Istorie e comincia, effettivamente, nel II libro, “vero capolavoro
nella nostra letteratura storica” (Villari, III, 240). Dicendo che “in-
tra gli altri grandi e meravigliosi ordini delle repubbliche e principati
antichi, che in questi nostri tempi sono spenti, era quello mediante
il quale di nuovo e d’ogni tempo assai terre e città si edificavano”
(IF II.1, 189), Machiavelli lascia trasparire un riferimento all’“Italia,
innanzi allo imperio romano”, dove c’erano i “Toscani per mare e per
terra potentissimi”, in conseguenza della loro capacità di “ampliare”,
cioè di fondare colonie (cfr. D II.4, 328 e II.5, 344), dimostrando di
possedere lo stesso principio espansivo dei Romani. La nascita di Fi-
renze s’inserisce all’interno della “cosa [...] tanto degna d’uno ottimo
principe e di una bene ordinata repubblica, né più utile ad una pro-
vincia” consistente nell’“edificare di nuovo terre dove gli uomini si
possano, per comodità della difesa o della cultura, ridurre” (IF II.1,
189). La virtù insita nella grandezza dei Toscani e nella potenza espan-
siva di Roma beneficò Firenze, perché “negli antichi tempi [...] per
virtù di queste colonie, o nascevano spesso città di nuovo, o le già co-
minciate crescevano; delle quali fu la città di Firenze, la quale ebbe da
Fiesole il principio e da le colonie lo augumento” (ivi 191). La delibe-
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razione di “cominciare la [...] istoria dal principio della [...] città” (IF,
proemio, 93) consente a Machiavelli di evidenziare il rapporto tra la
virtù insita nel principio e la presenza dell’augumento: i fiesolani fon-
darono Firenze; i soldati di Silla le fornirono il principio espansivo.
Le condizioni per la nascita di Firenze sono, dunque, tre: l’esisten-
za di Fiesole, l’attitudine romana a fondare colonie e il loro incontro
che, però, non è necessariamente foriero d’unione e l’unione potrebbe
non durare: cosa, allora, lo rese reale e duraturo? Machiavelli elenca
una serie di condizioni contingenti che si sono favorevolmente con-
giunte: la necessità dei fiesolani di rendere più comodi, efficienti e
“frequentati” i loro “mercati”, li portò a collocarli “non sopra il pog-
gio”, dove si trovava la città, ma “nel piano, intra le radice del monte e
del fiume d’Arno” (cfr. IF II.2, 191); l’occasione, che qui coincide con
una necessità, è una costrizione in una situazione non satura, dove un
agire può determinare il tempo della sua ridefinizione1. Anche l’occa-
sione però, per quanto indispensabile, non è tutto; essa, infatti, fu la
“cagione delle prime edificazioni” che, “con il tempo”, diventarono
“ferme” (stabili), ma solo “di poi, quando i Romani, avendo vinti i
Cartaginesi, renderono dalle guerre forestiere la Italia sicura, in gran
numero multiplicorono”, poiché mentre “la paura delle guerre co-
stringe [gli uomini] ad abitare volentieri nei luoghi forti e aspri, cessa-
ta quella, chiamati dalla comodità, più volentieri nei luoghi domestici
e facili abitano”. Solo la “securtà” portata in Italia dai Romani “potet-
te fare crescere le abitazioni [...] in tanto numero che in forma d’una
terra si ridussero” (ivi 192).
Come un clinamen, la sicurezza innescò un processo nuovo che,
per quanto intessuto di cause o forze, che potrebbero essere indagate
e descritte una a una, non è il risultato di una sequenza deterministica
né la istituisce, perché biforcazioni aleatorie continue tengono il pro-
cesso sempre aperto, instabile e reversibile.
La presenza di un’occasione e quella di un principio espansivo in
grado di attecchire virtuosamente non spiegano, infatti, ancora nulla
di quanto accaduto. È necessario un altro passaggio, che Machiavelli
esplicita riprendendo il filo di un’altra storia che si collega con quel-
la narrata. Furono le guerre civili romane che convinsero prima Silla
e poi il Triumvirato a inviare “a Fiesole colonie”, che s’installarono

1 L’idea che il tempo sia il frutto di una relazione è atomistica: “[...] il tempo non esiste di
per sé [...] / né si deve ammettere che alcuno avverta il tempo / separato dal movimento
delle cose e dalla placida quiete” (Lucrezio, I, 459, 462-463; in merito: cfr. Zanardi 77-78).
LA NASCITA DI FIRENZE E I TUMULTI 41

nella “già cominciata terra; tale che per questo augumento si ridusse
quello luogo tanto pieno di edifici e di uomini e di ogni altro ordine
civile che si poteva numerare intra le città di Italia” (ivi, 192-193).
L’espansione, dovuta all’aumento quantitativo degli uomini sul ter-
ritorio (cfr. D I.2, 20-21 e Lucrezio, V, 1011-1027) col fine preciso,
tipico delle colonie, di garantire la sicurezza del luogo e la sua espan-
sività, portò alla crescita dei mercati fiesolani fino a farli diventare
una città vera e propria: la “terra” fu solo l’“addentellato” (cfr. P II,
68), l’appiglio “uncinato” (hamatus, cfr. Lucrezio, II, 394 e 405,) che,
“come un amo” (agkistrode, cfr. Democrito, fr. 227 o DK 68 A 37),
consentì l’aggancio. Il caso (l’insieme mai del tutto conoscibile, indefi-
nito e aleatorio delle cause) occasionò l’incontro, che se fosse avvenu-
to tra forze non disposte a congiungersi, non avrebbe però fatto presa.
La congiuntura ebbe luogo per l’incontro tra una città e un principio
d’espansione, tra un luogo fecondo (materia con una sua forma) e un
principio di fecondazione capace di modificarla interagendo con essa.
Da ciò seguì, come dopo una nascita, la questione del nome.
Machiavelli sminuisce l’importanza di Firenze fino al 1215, perché
“visse sotto quella fortuna che vivevano quelli che comandavano ad
Italia” (IF II.2, 194), nutrendosi di un rapporto passivo che testimo-
nia l’assenza di virtù, il prevalere del lato servo del suo principio. Pur
tenendo conto della differenza oggettiva di potenza rispetto all’Impe-
ro romano, troppo forte per essere affrontato, l’assenza di virtù, cioè
di lotta contro la fortuna e la dipendenza dalla fortuna altrui, impedì
ai fiorentini, “in questi tempi, [di] crescere [e] operare alcuna cosa
degna di memoria, per la potenza di quelli allo imperio dei quali ubbi-
divano”, almeno fino al “1010” quando “presero e disfeciono Fiesole”
(ivi, 195): rottura del cordone ombelicale, slegamento. Ecco l’occa-
sione di cui sopra: la virtù fiorentina si manifesta grazie a una guerra
di conquista che, attraverso la distruzione, produsse il vuoto neces-
sario all’augumento della città. Questo, però, non è ancora il segnale
di una piena autonomia. L’azione dei fiorentini, infatti, fu possibile
o col consenso degli imperatori o durante un interregno, tanto che,
nonostante la “divisione”, dal “1080” in poi, tra i sostenitori dell’im-
peratore e quelli del papa, i fiorentini “si mantennero fino al 1215
uniti, ubbidendo ai vincitori, né cercando altro imperio che salvarsi”.
Firenze resistette fino al 1215, “la fu più tarda a seguitare le sette di
Italia” (ibidem), e solo poi, con le divisioni interne, cominciò la sua
“infermità” (malattia). La partigianeria è canone, per Machiavelli, fin
da subito, perché “parte” significa “fazione” o “setta” se agisce per
42 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

il proprio bene e non per la “comune utilità” (cfr. D I.2, 23; I.37,
183-184; I.49, 237-238; I.54, 258-260). Firenze, dunque, è degna di
entrare nella memoria sia per la sua infermità, dovuta alle divisioni
interne, sia per la sua capacità di resistervi e lottare per liberarsene.
Così comincia la sua virtù.
La virtù connessa all’ampliare consentì ai fiorentini di conquistare
Fiesole e cominciare a istituire autonomamente degli ordini, anche
se questo non li rese esenti da corruzione. La natura serva di Firen-
ze, infatti, emerge di quando in quando provocando l’oscillazione dei
governi, nonostante la sua origine abbia perso l’aura incerta, oscura
e mitica, sostituita da “vera memoria”. Firenze è città mercantile per
vocazione, luogo d’incontro e di scambio nato per esigenze legate ai
traffici di merci: questa la forma del suo augumento. La sua origine
forestiera e parzialmente serva non è eliminata, ma, grazie ai coloni
(migranti) Romani e al caso, è corroborata dalla virtù, che implica la
libertà, per quanto subordinata alle leggi e alle esigenze dell’impero,
di chi sa rispondere alla fortuna2. Firenze è così il simbolo della rot-
tura con i miti fondatori basati sull’autoctonia (cfr. IF, II.2, 191-195),
frequenti nella storiografia classica e umanistica, in base ai quali “af-
finché il seguito sia bello, è necessario un bel principio; dal momento
che l’importante è sempre continuare bene – questa si chiama storia
– conviene che tutto sia bene iniziato” (cfr. Loraux 1996, 41). Firenze,
invece, è bastarda fin dall’origine, mista nel senso della fusione (cfr.
Raimondi 2005b), perché nata dall’incontro tra fiesolani (autoctoni) e
coloni romani (immigrati) portatori di virtù.

3. La spallata definitiva al mito delle origini di Firenze passa per


l’indagine sul “nome”, su cui ci sono “varie opinioni”: alcuni ritengo-
no derivi “da Florino, uno dei capi della colonia”, altri da “Fluenzia”,
perché situata sulle rive dell’Arno. Sono opinioni che ripercorrono i
sentieri classici dell’iscrizione del nome tracciando una genealogia
aristocratica (Florino è l’eponimo mitico, perché è un ‘nobile’ tra i
servi) o evidenziando l’idea dell’ente secondo l’attitudine del reali-
smo linguistico. Per Machiavelli, invece, nulla si può sapere davvero

2 Per questo Machiavelli critica il comportamento di Sparta e Venezia (cfr. Münkler, in


Aa.Vv. 2004a, 103-120; Pedullà 345-347) che non avevano osato “aprire la via ai forestie-
ri” (D I.6, 44), indispensabili per ampliare, non solo in senso militare (cfr. Vatter 2000,
110-112; Dejardin, 117-120), contrariamente a quanto fece Roma (cfr. almeno D II.3-4).
Per lo stesso motivo, soprattutto nelle Istorie, condanna i continui esili che ebbero luogo
a Firenze.
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sull’origine del nome, perché è “sempre [stata] chiamata Florenzia,


per qualunque cagione che così si nominasse; e così, da qualunque
cagione si avesse la origine, la nacque sotto lo Imperio romano” (IF
II.2, 193-194). Il nominalismo rifiuta ogni idealità o sostanzialità del-
le cose “perché sono le forze che facilmente si acquistano i nomi,
non i nomi le forze” (D I.34, 168). Affermazione che fa eco a quanto
scritto nei Discorsi sull’eternità del mondo e sull’impossibilità umana
di comprenderne l’Origine se non in termini mitici, poiché “la va-
riazione delle sette e delle lingue, insieme con l’accidente dei diluvi
o della peste, spegne le memorie delle cose” (II.5, 339, che rinvia a
Lucrezio, V, 324-350). Cercare l’essenza dell’ente nel nome è inutile,
perché implica risalire a un’Origine inesistente: pratica che rifugge
la ragione e scatena le opinioni, che pretendono di nominare l’Origi-
ne come fosse un taglio netto rispetto a un immaginario continuum.
Tutt’al più, si possono conoscere le origini, necessarie e contingenti,
dei fenomeni3.
Secondo Machiavelli, all’inizio della formazione di un aggregato
politico4 sta sempre una necessità contingente, l’urgenza dettata da un
evento imprevisto che costringe gli uomini a farsene carico. Le “va-
riazioni dei governi [...] nacquero a caso intra gli uomini”, perché,
mentre all’inizio del mondo vivevano sparsi, la loro moltiplicazione
li costrinse a radunarsi per potersi meglio difendere e per farlo, guar-
dandosi l’un l’altro, sceglievano quello che essendo “più robusto e di
maggiore cuore”, garantiva loro maggiori possibilità di difesa e dun-
que di sopravvivenza (cfr. D I.2, 20): qui la necessità è rappresentata

3 In Machiavelli, origine indica l’evento della nascita (cfr. Lucrezio, almeno III, 686-687, IV
157-160), all’interno di un quadro dinamico di aggregazione e disaggregazione incessante.
L’origine-nascita non è separazione netta e irreversibile da un prima, dal quale invece
dipende e di cui è anche continuazione e conservazione pur nel mutamento e nell’innova-
zione delle forme, né continuità senza interruzioni. Conformemente al modo di pensare
atomistico, l’origine è incontro tra processi diversi (origini) che confluiscono in un punto
fondendosi e generando processi nuovi (cfr. almeno il VI libro del De rerum natura). La
nascita non è ripetizione di un tempo mitico, perché è unica e irripetibile, e ciò lo por-
ta a rifiutare l’anakyklosis polibiana (cfr. almeno Sasso 1967, 161-280; Colonna d’Istria-
Frapet, 155-193; Reale, 48-50): “nei Discorsi il ‘ciclo’ polibiano [è] in sostanza superato”
(Inglese 2006, 111-114), perché “questo cerchio può [...] essere spezzato” (Negri, 77).
4 È improprio, a mio avviso, parlare di corpo, anche se il termine ricorre nei testi machiavel-
liani, a causa della sua dottrina degli umori che, essendo incomponibili in uno, rendono
insensato l’organicismo della metafora, anche latu sensu come corpo mostruoso: basti ri-
cordare l’immagine del “busto [...] intero” che, pur “perdendo il capo”, poté “facilmente
ridursi a vivere libero e ordinato” (cfr. D I.17, 108). L’aggregato non è un vero corpo, an-
che se vive e sembra uno per la continua, aleatoria e mai placata riarticolazione delle parti
che lo compongono. Preferisco, dunque, parlare, atomisticamente, di aggregato politico.
44 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

dall’aumento del numero degli uomini, un meccanismo meramente


quantitativo con conseguenze qualitative. Similmente Firenze, nata
per rispondere alle necessità di un migliore commercio dei fiesolani,
è il prodotto del caso (fortuna) e della libertà (virtù) nel loro fronteg-
giarsi. Nell’inizio di ogni realtà si trovano sempre almeno un incontro
o uno scontro determinati, la cui contingenza implica l’infondabilità
metafisica della realtà e la sua indeducibilità logica da un unico prin-
cipio. La struttura necessaria delle lotte, politiche e non, è in Machia-
velli intrinsecamente plurale e, dunque, irriducibile a un’unica forma5.
Esse, infatti, non hanno necessariamente come fine la sopraffazione
o l’eliminazione reciproca; basti considerare, per esempio, gli umori,
oppure l’“ardore” che spinge “i semi di Venere, / eccitati nelle mem-
bra, a incontrarsi e fondersi tra loro, / e né l’uno né l’altro di essi ha
vinto o è stato sopraffatto” (Lucrezio, IV, 1215-1217; sull’aspetto ag-
gregativo delle lotte si veda Merleau-Ponty 1949).
Lungo un percorso che va dai Discorsi alle Istorie, Machiavelli ha
emesso la sua diagnosi: Firenze è nata serva da gente in parte serva
e in parte libera. La dicotomia netta tra principio libero e servo è
dissolta, anche se le conseguenze dello scontro tra i due principi sono
leggibili nell’oscillazione continua dei suoi governi, nella sua perenne
instabilità: nella sua “anomalia” (cfr. Sasso 19932, II, 363).

4. Diagnosi pronunciata anche nel Discursus, coevo all’inizio della


stesura delle Istorie. Firenze “ha sempre variato spesso nei suoi gover-
ni [...] perché in quella non è stato mai né repubblica né principato
che abbia avuto le debite qualità sue” (DFR 624). Firenze è sempre
stata una forma ibrida e instabile, un’oscillazione continua tra repub-
blica e principato in quanto paradigmi (cfr. D I.55, 270), intesi come
modalità conoscitive delle scienze mediche e storiche (cfr. Zanzi 1981
e 2009, 13-85) e, dunque, come mostrato dal caso del principio libe-
ro/servo, inesistenti allo stato puro.
L’esemplarità delle forme politiche tracciata nel Principe e nei Di-
scorsi è messa in crisi da una realtà che non si presta a essere descritta

5 Come invece ritiene Esposito (cfr. 1984, 179-220, in particolare 192-201), che non di-
stingue le diverse tipologie delle lotte, la loro sempre diversa collocazione temporale e la
loro altrettanto singolare temporalità interna, ipostatizzandole tutte nella logica schmittiana
“amico-nemico”, la quale implica che il rapporto si dia solo come volontà di neutralizza-
zione reciproca. La demonizzazione delle lotte da parte di Schmitt, conseguente alla con-
siderazione esclusiva del loro aspetto disgregativo, porta a non riconoscerne l’eventuale
capacità aggregativa e, dunque, ad abbracciare posizioni politiche apertamente reazionarie.
LA NASCITA DI FIRENZE E I TUMULTI 45

né dall’uno né dall’altro modello. Firenze è stata, nella sua lunga sto-


ria, sia un principato sia una repubblica, anche se con caratteristiche
tali da renderla sempre inferma, perché “non si può chiamare quel
principato stabile, dove le cose si fanno secondo che vuole uno e si
deliberano con il consenso di molti. Né si può credere quella repub-
blica essere per durare, dove non si satisfa a quegli umori, ai quali non
si satisfacendo le repubbliche rovinano” (DFR 624-625). Il principale
difetto di Firenze, rispetto ai paradigmi machiavelliani, sta nell’assen-
za di coinvolgimento dell’“universale” nelle decisioni politiche del
governo della città.
Nello “stato di Cosimo”, che fu “fatto con il favor del popolo”
e “governato dalla prudenza di due uomini, quali furono Cosimo e
Lorenzo suo nipote” (1434-1494), la debolezza consistette nell’“aversi
a deliberare per assai quello che Cosimo voleva condurre” (ivi, 626-
627) senza realizzare il radicamento del principe nel suo popolo come
consigliato nel Principe. Nella “repubblica governata da ottimati”, in-
staurata da Maso degli Albizzi (1393-1434), e in quella savonaroliana
e soderiniana (1494-1512), invece, i difetti furono altri.
La prima indulgeva in elezioni troppo frequenti, che favorivano le
frodi, e non incuteva “timore agli uomini grandi che non potessero
fare sette, le quali sono la rovina d’uno stato”; aveva poi “poca repu-
tazione e troppa autorità, potendo disporre senza appello della vita
e della roba dei cittadini, e potendo chiamare il popolo a parlamen-
to, in modo che la veniva ad essere non defensitrice dello stato, ma
strumento di farlo perdere, qualunque volta un cittadino reputato la
potessi o comandare o aggirare”. Vi era, inoltre,
in quello stato un disordine non di poca importanza, quale era che gli uomi-
ni privati si trovavano nei consigli delle cose pubbliche: il che manteneva la
reputazione agli uomini privati, e la levava ai pubblici, e veniva a levare au-
torità e reputazione ai magistrati: la qual cosa è contro ad ogni ordine civile.

A questi “disordini, [infine], se ne aggiungeva un altro, che im-


portava il tutto, il quale era che il popolo non vi aveva dentro la parte
sua”: e tutti assieme ne “facevano infiniti”. In tale repubblica, se “le
guerre esterne non l’avessero tenuta ferma, la rovinava più presto che
la non rovinò” (cfr. ivi, 625-626). La guerra contro i Visconti ebbe,
dunque, funzione unificatrice all’interno della repubblica ottimatizia
fiorentina, consentendole di durare ben oltre le proprie capacità di
darsi un ordinamento stabile. Mentre i privati che inseguono il pro-
prio bene provocano disordini all’interno della città, la guerra riesce
46 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

a rinsaldarla, poiché la costringe ad affrontare il rischio della propria


estinzione e della perdita della libertà, obbligando gli uomini a unire
le forze in vista di un bene comune (in questo caso la sopravvivenza),
che travalica i beni privati e ridà centralità politico-militare al popolo.
La seconda, invece, non fu “durabile, perché quegli ordini non
satisfacevano a tutti gli umori dei cittadini e, dall’altra parte, non li
poteva castigare”, anche se il difetto più grave, che la teneva assai
lontana “da una vera repubblica” fu l’istituzione di “un Gonfaloniere
a vita, [perché] se era savio e tristo, facilmente si poteva fare principe;
se era buono e debole, facilmente ne poteva essere cacciato, con la
rovina di tutto quello stato”, non avendo “intorno chi lo potessi di-
fendere, essendo buono; né chi, essendo tristo, lo potesse o frenare o
correggere” (ivi, 627)6.
Firenze, dunque, fu un principato che non seppe trasformarsi in
repubblica e una repubblica che non riuscì a darsi un ordinamento
tale da soddisfare gli umori; diagnosi che conferma l’esito delle pre-
cedenti analisi machiavelliane, in base alle quali una città per esser
stabile deve essere ordinata da uno solo e virtuoso (principato), ma
per durare deve trasformarsi in una repubblica:

debbesi pigliare questo per una regola generale: che mai o rado occorre
che alcuna repubblica o regno sia da principio ordinato bene, o al tutto di
nuovo fuori degli ordini vecchi riformato, se non è ordinato da uno; anzi,
è necessario che uno solo sia quello che dia il modo e dalla cui mente di-
penda qualunque simile ordinazione. Però uno prudente ordinatore d’una
repubblica, e che abbia questo animo di volere giovare non a sé ma al bene
comune, non alla sua propria successione ma alla comune patria, deve in-
gegnarsi di avere l’autorità solo [...]. Debbi bene in tanto essere prudente
e virtuoso, che quella autorità che si ha presa non la lasci ereditaria a uno
altro: perché, essendo gli uomini più proni al male che al bene, potrebbe il
suo successore usare ambiziosamente quello che virtuosamente da lui fosse
stato usato. Oltre a questo, se uno è atto a ordinare, non è la cosa ordinata
per durare molto quando la rimanga sopra le spalle d’uno, ma sì bene quan-
do la rimane alla cura di molti, e che a molti stia il mantenerla. Perché, così
come molti non sono atti a ordinare una cosa, per non conoscere il bene di
quella, causato dalle diverse opinioni che sono fra loro, così, conosciuto che
lo hanno, non si accordano a lasciarlo (D I.9, 64-65).

6 Nella Minuta (cfr. M 648-649 e, per un’analisi, il capitolo 4, § 5), infatti, Machiavelli
prende come esempio la repubblica post-soderiniana, quando gonfaloniere (non a vita)
fu Giovan Battista Ridolfi. Per le critiche di Machiavelli a Piero Soderini, cfr. almeno: D
III.3, 540-541; III.9, 610; III.30, 710-712.
LA NASCITA DI FIRENZE E I TUMULTI 47

La grave mancanza di Firenze fu non aver saputo intrecciare vir-


tuosamente il momento della fondazione (principato) e quello della
durata (repubblica). Così facendo, “questi governi sono stati tutti
difettivi, [perché] le riforme [...] sono state fatte non a satisfazio-
ne del bene comune, ma a corroborazione e securtà della parte, la
quale securtà non si è anche trovata, per esservi sempre stata una
parte malcontenta, la quale è stata un gagliardissimo strumento a chi
ha desiderato variare” (DFR 627). Il perseguimento dei fini privati
di una parte genera “mala contentezza”, perché “gli appetiti umani
[sono] insaziabili, [...] avendo dalla natura di potere e volere de-
siderare ogni cosa, e dalla fortuna di potere conseguitarne poche,
ne risulta continuamente una mala contentezza nelle menti umane e
uno fastidio delle cose che si posseggono; il che fa biasimare i pre-
senti tempi, lodare i passati e desiderare i futuri, ancora che a fare
questo non fossero mossi da alcuna ragione” (D II, proemio, 300-
301), rendendo inevitabile combattere “per ambizione” fino “alle
inimicizie e alla guerra” (cfr. D I.37, 177-178; Borrelli 2000, 15-38
e 2009, 27-64). Ci può essere stabilità, dunque, solo sulla base del
perseguimento del bene comune e solo all’interno di una repubblica
nella quale siano i molti a governare, perché solo così ogni umore
può cercare e ricevere soddisfazione alle proprie esigenze e richie-
ste: il bene privato, invece, produce solo infiniti disordini (cfr. alme-
no D I.46, 224-225 e III.28); ma qui siamo ancora in un’ottica da
“repubblicanesimo classico” (cfr. Del Lucchese 2004, 123), dissolta
dall’aspetto che caratterizza l’esposizione della storia di Firenze (e
non solo): le lotte, la cui varietà, irriducibile a una tipologia unica, ne
genera l’instabilità.

5. L’analisi di Firenze è suggellata nelle Istorie, dove Machiavelli


ribadisce quanto detto in precedenza e precisa in che cosa consistesse
la virtù dei fiorentini.
Esaminando gli scritti storici di Leonardo Bruni e Poggio Brac-
ciolini, Machiavelli notò “come nella descrizione delle guerre fatte
dai Fiorentini con i principi e popoli forestieri sono stati diligentis-
simi, ma delle civili discordie e delle intrinseche inimicizie, e degli
effetti che da quelle sono nati, averne una parte al tutto taciuta e
quell’altra in modo brevemente descritta, che ai leggenti non può
arrecare utile o piacere alcuno” (IF, proemio, 90). L’osservazione è
rilevante, perché cercando di comprendere le ragioni della grandezza
di Roma, Machiavelli aveva dato grande rilievo alla cosiddetta ‘fun-
48 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

zione regolatrice’ dei tumulti, “prima causa del tenere libera Roma”
(cfr. almeno D I.4, 33)7.

7 L’elogio dei tumulti porta alla celebre conclusione che “i buoni esempi nascono dalla
buona educazione, la buona educazione dalle buone leggi, e le buone leggi da quei tumulti
che molti inconsideratamente dannano” (D I.4, 35). Le leggi sono l’esito dei tumulti: come
possono, dunque, essere regolati da quelle (cfr. Bruni, 466 e 473)? Il verbo “regolare” è
usato spesso da Machiavelli, nei Discorsi, con riferimento alle leggi: mai a proposito dei
tumulti, i quali, dunque non normano alcunché, anzi, semmai destrutturano. Se, come
spesso è stato detto, le leggi dovessero costituire una sorta di argine istituzionale ai tu-
multi, stabilendo i parametri entro i quali sono leciti, questi non potrebbero avere l’im-
patto distruttivo/costruttivo che Machiavelli assegna loro. Il problema, dunque, è che
la ‘regolazione’ dei tumulti, il loro essere regola, è questione politica e non giuridica: è
l’ordinamento che deve ‘pre-vedere’ al suo interno un punto di possibile non tenuta re-
ale, un vuoto d’ordine o caos, che può dissolverlo o farlo rinascere in forme nuove. Il
“teorema di Machiavelli”, suona così: “quanto più le lotte di classe [...] conducono la
‘comunità’ a un punto di rottura (o al margine della dissoluzione), tanto più costringono
il potere dello Stato (e delle classi dominanti) all’invenzione istituzionale” (Balibar, 113).
È la capacità di affrontare il rischio supremo dell’annientamento (cfr. Berns, 192-193) che
può rivitalizzare l’aggregato politico (come conferma la lettura di Livio: cfr. Pedullà, 106-
108), non la normazione giuridica o istituzionale dei tumulti che ne neutralizza la forza
dirompente. Le leggi non possono regolamentare i tumulti, perché questi sono ciò che le
scardina e consente loro, eventualmente, di esistere, dato che l’esito potrebbe anche essere
la fine dell’aggregato politico. È questo che segna, a mio avviso, “la discontinuità assoluta
[di Machiavelli] rispetto alla tradizione greco-romana e all’umanesimo quattrocentesco”
(Pedullà, 43) e lo rende inclassificabile e solo (cfr. Althusser 1977); non tanto l’idea di
voler disciplinare i tumulti, che, peraltro, non sono l’unica forma di conflitto. I tumulti
accadono senza chiedere il permesso e senza bisogno di alcuna autorizzazione: sono “or-
ganizzazione senza modello” (Illuminati-Rispoli, 44) o “disordine continuato” (cfr. Lefort,
1972, 724). È dunque impossibile regolare i tumulti in modo che non nuocano allo Stato
(cfr. Ménissier in Aa.Vv. 2006a, 176-177, 180, e Pedullà, almeno 123-133, il quale, da un
lato, riconosce la naturalità dei tumulti, ma poi ritiene debbano essere controllati; non
si capisce, dunque, come possano avere un “tratto extralegale” e, al contempo, essere
“istituzionalizzati”: cfr. 133 n. 76, 141). Un’idea che rivela più la paura di dover fare i
conti con i desideri della plebe o dei “salariati” (cfr. Marietti 2005, 111), spesso identici
a quelli dei grandi (cfr. Pedullà, 326-327, 332-333), anche nella loro distruttività, senza
che questo ne sancisca la bontà o la giustezza, come pretende certo plebeismo. Regolare i
tumulti significa volerne rimuovere la ‘tumultuosità’ ossia la violenza e così neutralizzare
Machiavelli, come correttamente sostiene Vatter (cfr. 2000). Al contrario, i tumulti sono
il motore dell’innovazione e la manifestazione della libertà (cfr. Dejardin, 113; Geuna,
25): una repubblica deve innovare sulla spinta dei tumulti, altrimenti rischia di rovinare
se si protraggono oltre un certo limite: come sempre è questione di tempestività. Le leggi
delimitano un campo di lotte di cui i tumulti non fanno parte, perché ne sono il principio:
essi non sono l’eccezione che conferma la regola, ma la potenza della nascita e della di-
struzione della regola. Anche qui il paradigma atomistico è rilevante, perché all’origine di
qualcosa c’è sempre un incontro o uno scontro tra parti. E l’aeterno certamine, vedi sopra,
non è normabile né necessariamente normante, ma può essere la fonte delle leggi, di cui è
“impossibile definire una origine” (Berns, 212). La durata di un aggregato politico non è
garantita né garantibile da nulla, se non in forma paradossale dalla sfida virtuosa, collettiva
e non individuale, alla sempre possibile dissoluzione tumultuaria dell’ordinamento. Se, in
conclusione, “i tumulti modificano, plasmano [e] reinventano daccapo le forme istituite”
LA NASCITA DI FIRENZE E I TUMULTI 49

Se l’anomalia di Firenze è dovuta al suo principio, libero e servo


al contempo, che la porta a dividersi continuamente in fazioni in lot-
ta per beni privati, in un crescendo che periodicamente la conduce
alla rovina, allora Roma è un’importante pietra di paragone, benché
inimitabile data la diversa origine e non solo (cfr. Gaille-Nikodimov,
127-158). Una delle cause della sua grandezza, infatti, fu aver regola-
to i dissidi interni convogliandoli verso un bene comune mediante le
guerre di espansione territoriale, distogliendoli così dal decorso verso
la rovina. I tumulti, non a caso, nascevano quando la plebe roma-
na non era soddisfatta delle condizioni di tale irreggimentazione (cfr.
Raimondi in Aa.Vv. 2012, 185-197 e 2013, 166). Scrivere una storia di
Firenze che abbia al suo centro “le ragioni degli odi e delle divisioni
della città” è, dunque, indispensabile, “acciò che [i suoi cittadini] pos-
sano, con il pericolo d’altri diventati savi, mantenersi uniti”; infatti,

se di niuna repubblica furono mai le divisioni notabili, di quella di Firenze


sono notabilissime: perché la maggior parte delle altre repubbliche delle
quali si ha qualche notizia sono state contente d’una divisione, con la quale,
secondo gli accidenti, hanno ora accresciuta ora rovinata la città loro; ma
Firenze, non contenta d’una, ne ha fatte molte. In Roma, come ciascuno sa,
poi che i re ne furono cacciati, nacque la disunione tra i nobili e la plebe, e
con quella fino alla rovina sua si mantenne. [...] Ma di Firenze in prima si
divisero fra loro i nobili, di poi i nobili e il popolo, e in ultimo il popolo e
la plebe; e molte volte occorse che una di queste parti rimasa superiore, si
divise in due: dalle quali divisioni ne nacquero tante morti, tanti esili, tante
distruzioni di famiglie, quante mai ne nascessero in alcuna città della quale
si abbia memoria. E veramente, secondo il giudizio mio, mi pare che niuno
altro esempio tanto la potenza della nostra città dimostri, quanto quello che
da queste divisioni dipende, le quali arieno avuto forza di annullare ogni
grande e potentissima città. Nondimeno la nostra pareva che sempre ne
diventasse maggiore: tanta era la virtù di quei cittadini e la potenza dello
ingegno e animo loro a fare sé e la loro patria grande, che quelli tanti che

(Illuminati e Rispoli, 34) significa che sono il punto di possibile non tenuta dell’ordina-
mento e non ciò che gli si sottrae o lo eccede, a meno di non dire che ciò che si sottrae
o eccede è un vuoto o uno scostamento impercettibile: un clinamen. Il punto di possibile
non tenuta non è lo stato di natura hobbesiano né lo stato di eccezione né la guerra civile
– che, semmai, sono i limiti verso cui il tumulto tende – ma la riduzione ai princìpi (cfr.
D III.1); forzando un po’, si può dire che “una Città forte è quella che si trova in insurre-
zione permanente” (cfr. Dejardin, 116-117); in modo più equilibrato, che il “‘ritorno alle
origini’ è un processo permanente” che non consiste nel “ripristinare le istituzioni che
la società aveva avuto ai suoi inizi”, ma nell’innovarle per renderle all’altezza dei tempi
secondo lo “spirito” del vivere libero e civile e della virtù necessaria a ordinarlo (cfr. Gil-
bert 1965, 158-159). Ecco perché “i tumulti non possono essere risolti una volta per tutte
nemmeno dalla forma perfetta della costituzione mista” (Geuna, 22).
50 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

rimanevano liberi da tanti mali potevano più con la virtù loro esaltarla, che
non aveva potuto la malignità di quegli accidenti che gli avieno diminuiti
opprimerla. E senza dubbio, se Firenze avesse avuto tanta felicità che, poi
che la si liberò dallo Imperio, ella avesse preso forma di governo che l’aves-
se mantenuta unita, io non so quale repubblica, o moderna o antica, le fosse
stata superiore, di tanta virtù d’arme e di industria sarebbe stata ripiena (IF,
proemio, 90-92).

La grandezza di Firenze consiste nell’essere riuscita a conservarsi,


seppur con infiniti travagli, in mezzo a lotte e divisioni, che avrebbe-
ro distrutto qualunque altra città (cfr. Rubinstein, 958; Garosci, 213;
Cabrini in Aa.Vv. 1996, 351). L’oscillazione e la variazione dei governi
fiorentini non furono solo il prodotto dell’illibertà contenuta nel suo
principio, ma anche l’esito della resistenza all’origine che la fortuna
assegnò a Firenze. La virtù del fondatore libero ha il suo corrispettivo,
in Firenze, nella resistenza che i suoi cittadini opposero nei secoli alla
sorte. È possibile che questa virtù possa generare un governo capace
di istituire la libertà?

Le gravi e naturali inimicizie che sono tra gli uomini popolari e i nobili,
causate da il volere questi comandare e quelli non ubbidire, sono cagione di
tutti i mali che nascano nelle città, perché da questa diversità di umori tutte
le altre cose che perturbano le repubbliche prendono il nutrimento loro.
Questo tenne disunita Roma; questo, se è lecito le cose piccole alle grandi
agguagliare, ha tenuto divisa Firenze, avvenga che nell’una e nell’altra città
diversi effetti partorissero: perché le inimicizie che furono nel principio in
Roma tra il popolo e i nobili disputando, quelle di Firenze combattendo si
definivano; quelle di Roma con una legge, quelle di Firenze con lo esilio e
con la morte di molti cittadini terminavano; quelle di Roma sempre la virtù
militare accrebbero, quelle di Firenze al tutto la spensero; quelle di Roma
da una ugualità di cittadini in una disuguaglianza grandissima quella città
condussero, quelle di Firenze da una disuguaglianza a una mirabile ugualità
l’hanno ridotta (IF III.1, 292-293)8.

In prima battuta, si può notare che tutte le forme di lotta dentro le


città si possono riportare a quelle tra i “due umori diversi [che] sono in

8 Secondo Sasso, il passo è in aperto contrasto con quanto sostenuto nel proemio delle
Istorie, perché la “moltiplicazione e frammentazione delle forze contrapposte” (cfr. 19932,
II, 180-181) distanziano Firenze dal paradigma romano della contrapposizione binaria tra
plebe e senato. In realtà, qui, Machiavelli dice che “le inimicizie si definivano combatten-
do”, senza pregiudicarne il numero: è proprio la moltiplicazione degli attori in lotta la
caratteristica di Firenze che deve essere spiegata dal suo paradigma, che non può essere
quello di Roma (cfr. Marietti 2005, 106-109).
LA NASCITA DI FIRENZE E I TUMULTI 51

ogni repubblica, quello del popolo, e quello dei grandi” (D I.4, 34, ma
cfr. anche D I.16, 104; I.40, 206; IF II.12, 215). Mentre, infatti, “il po-
polo desidera non essere comandato né oppresso dai grandi, e i grandi
desiderano comandare e opprimere il popolo” è dal loro scontro che
nascono “tre effetti, o principato, o libertà, o licenzia” (P IX, 163-164).
La libertà nasce come effetto dei tumulti, perché nei “nobili [grandi]
si vedrà [...] desiderio grande di dominare, e in questi [popolo] solo
desiderio di non essere dominati, e per conseguente maggiore volontà
di vivere liberi” (D I.5, 38). Precisato che “dominare” è la sintesi di
“comandare e opprimere”, con riferimento al rapporto tipicamente
feudale tra dominus e servus, e che, inoltre, il popolo è formato da
coloro che non vogliono essere dominati, agendo politicamente come
“guardia della libertà” (cfr. D I.5), mentre i grandi sono coloro che
vogliono dominare, al di là di ogni mero riferimento sociologico al
gruppo natale di appartenenza, dato che vi sono uomini di estrazione
nobiliare che si schierano col popolo e viceversa, come mostrano le
Istorie9, l’aspetto da sottolineare è la dinamica grazie alla quale solo il
popolo, pur essendo una parte della città, può “tenerla libera” (cfr. D
I.4, 33). Il bene comune, allora, è di parte e non armonioso, in diver-
genza rispetto al repubblicanesimo classico e all’umanesimo civile (cfr.
Adorno in Aa.Vv. 1998 e, in particolare, Del Lucchese 2004, 123-132).
Il popolo non è intrinsecamente più buono e giusto, come se possedes-
se un imperativo morale innato che lo incita a battersi per la libertà. Al
contrario, il popolo è mosso dal bisogno di ricevere il riconoscimento,
da parte dei grandi, del ruolo fondamentale alla vita della città che esso
svolge e, nello specifico, alla costitutiva necessità di ogni repubblica di
tipo romano, anziché veneziano o spartano, di ampliare (cfr. D I.6, 41-
44), obiettivo che per essere raggiunto richiede un esercito popolare. Il
popolo, infatti, tumultuava quando non vedeva soddisfatta la propria
“ambizione”, battendosi per “ottenere una legge [o] non [...] andare
alla guerra” (cfr. D I.4, 35); tanto che “volendo Roma levare le cagio-
ni dei tumulti, levava ancora le cagioni dello ampliare” (D I.6, 45). I
tumulti impediscono il dominio dei grandi sul popolo, costringendoli
a fare leggi buone, perché in favore della libertà, da cui nascono la
“buona educazione” e i “buoni esempi” (cfr. D I.4, 35), distinguendosi

9 In Machiavelli troviamo esempi, come quello di Buondelmonti (cfr. capitolo 3, § 1), in cui
anche gli individui cambiano umore e non solo i gruppi (come i Ciompi, per esempio),
secondo i tempi e gli spazi in cui si trovano ad agire. Questa Spaltung dimostra che l’in-
dividuo, come l’essere, è fratto, svelando la mistificazione dell’equiparazione concettuale
liberale tra individuo e atomo, nonostante la corrispondenza etimologica.
52 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

così dalle “discordie” o dalle “divisioni”, per esempio, che sono tipi-
che della volontà nobiliare di asservire il popolo.
Il popolo, formato da quanti sono mossi dal desiderio di non es-
sere dominati dai grandi, e i grandi, mossi dal desiderio di domina-
re il popolo, sono parti e non umori. Gli umori sono le forze che,
combinandosi, generano le parti. Non essendo individuali ma propri
dell’aggregato politico, vanno intesi, per analogia con una tradizione
che va dalla cosmologia pitagorica alla dottrina medica di Galeno, e
anche per l’uso da parte di Machiavelli dei quantificatori universali
(ogni, tutte), come forze politicamente naturali e storiche al contempo,
perché sono sempre presenti nella città, anche se le loro caratteristiche
variano secondo i tempi e alcune possono addirittura scomparire. Una
considerazione che obbliga a evidenziare come l’analogia con la me-
dicina sia piuttosto superficiale (tutt’al più c’è col suo lessico), visto
che gli umori machiavelliani, due e non quattro, nascono e muoiono
con la politica e si trasformano: cosa inconcepibile nella tradizione
succitata.
Il criterio che contraddistingue gli umori è meramente politico e
non si fonda sullo status sociale e sulla condizione economica come
nell’antichità (cfr. Fioravanti, 11-25); è legato alla contingenza della
situazione e non è un’essenza o un dato antropologico: non c’è chi
possiede un desiderio e chi quello opposto come dono naturale o
principio innato. Il desiderio dipende dalla posizione politica in cui
un individuo si trova e questa, per quanto i beni siano scarsi, non è
mai una necessità naturale, altrimenti, il desiderio diventerebbe un’es-
senza e il pensiero machiavelliano risulterebbe incardinato a un an-
tropocentrismo che non ha, se è “vero che la Fortuna [è] arbitra della
metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra
metà, o presso, a noi” (P XXV, 302). Chiunque voglia comandare e
opprimere il popolo, dunque, fa parte dei grandi, ma non per questo
chi appartiene socialmente ai grandi vuol necessariamente comandare
e opprimere il popolo; allo stesso modo, chiunque voglia non essere
comandato né oppresso dai grandi appartiene al popolo, ma non per
questo chi non è comandato né oppresso dai grandi fa parte necessa-
riamente del popolo, perché chi fa parte socialmente del popolo può
voler essere comandato e oppresso dai grandi o voler comandare e
opprimere.
La politicità della distinzione machiavelliana tra gli umori e, di
conseguenza, tra le parti, unitamente al naturalismo di cui Machia-
velli sembra avvolgerla, emerge dalla considerazione che tra esse c’è
LA NASCITA DI FIRENZE E I TUMULTI 53

una gerarchia che non è naturale ma storica e politica; gerarchia as-


sente negli umori della tradizione cosmologico-medica, i quali, tutti
indispensabili alla salute del cosmo-corpo, generano malattia quando
uno di essi vuol sopravanzare e scalzare gli altri oppure quando vuole
isolarsi. La malattia si genera o per eccesso o per difetto, cioè per
mancanza di un equilibrio fondato sulle giuste proporzioni dei diversi
umori non sulla loro presenza in identiche quantità. Essi, inoltre, fan-
no riferimento a una filosofia e a una politica (Platone e Aristotele in
testa, ma si pensi anche al monologo di Menenio Agrippa), nelle quali
ogni parte è inchiodata al proprio posto e ruolo nella scala dell’essere
e lì deve restare pena il sovvertimento dell’Ordine.
Gli umori, per Machiavelli, sono politicamente naturali, esistono in
ogni ambito politico, opposti e uguali non per natura, ma per funzio-
ne: nessuno di essi è più importante degli altri e anche l’assenza di uno
solo provoca la dissoluzione dell’aggregato politico. Di conseguenza,
in ogni città c’è chi governa e chi è governato: differenza non omologa
al comandare-opprimere e all’essere comandati-oppressi, perché chi è
governato governa e continua a governare. Instaurando un rapporto
di tensione e di lotta tra i propri desideri e il modo in cui i governanti
li traducono in realtà, il governato può, se cittadino, avvicendare il go-
vernante, partecipare al governo obbedendo e controllando l’operato
dei governanti; se non cittadino, può comunque avallare un governo
o ribellarsi a esso. Infine, per quanto la fisionomia di questi gruppi
sia mutevole (a Firenze, per esempio, non è la stessa che a Roma, ma
anche all’interno della stessa città muta con i tempi, come mostrano
le Istorie) e la loro opposizione sia ridotta, seppur non sempre, a uno
schema binario, queste forze stanno su un piano di uguaglianza e di
gerarchia al contempo, che però, essendo eminentemente politica,
può anche essere sovvertita, senza incappare nella condanna del para
physin, come vorrebbe Strauss (cfr. 1958; Raimondi 2001). Ogni città,
quindi, composta da (almeno) due umori, è necessariamente mista:
formata da parti, che coesistono senza per forza fondersi tra loro e che
convivono solo confliggendo (cfr. Raimondi 2005b).

6. La libertà si identifica, per Machiavelli, con lo “stato popolare”


(D I.2, 26-27), cioè con la forma repubblicana, e non perché in essa
governi solo il popolo, ma perché solo in una repubblica è possibile
per il popolo regolare da sé il rapporto coi grandi, espressione del
mondo feudale che si sta trasformando a causa dello sviluppo del ca-
pitalismo mercantile portato avanti dal popolo, provando a impedire
54 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

la trasformazione del rapporto gerarchico in rapporto padrone/servo


e preservando la pari importanza degli umori. Se la storia di Firenze
comincia nel 1215 (cfr. IF II.2, 194-195), la lotta tra le famiglie nobi-
li che ne segna l’inizio (cfr. IF II.3) va inserita nell’espansione delle
attività economiche cittadine che contraddistinguono i primordi del
capitalismo (cfr. almeno Münkler, 131-149; Bec, 41-45)10. Firenze e
Roma simboleggiano quindi la differenza tra mondo moderno e anti-
co, aggiungendo un altro motivo alla difficoltà di applicare alla com-
prensione della prima il paradigma della seconda.
La corruzione, materia che si disfa e non solo venir meno a un
ufficio in cambio di denaro, nasce dall’inequalità ed è il contrario di
ogni vita libera, “perché un popolo dove in tutto è entrata la corruzio-
ne non può, non che piccol tempo, ma punto vivere libero” (D I.16,
101). Di qui il problema dei gentiluomini, i membri della nobiltà feu-
dale asserragliati nelle loro fortezze a difendere privilegi (ozio e ren-
dite) che dominano sui sudditi con un’attitudine non espansiva, con-
traria al vivere libero e alla produzione della ricchezza (cfr. D II.2)11.
L’espansionismo capitalistico-mercantile contro l’immobilismo
feudale, dunque, o almeno così sembra. L’inequalità nasce dall’inca-
pacità di ampliare: espandersi territorialmente ed economicamente,
ma anche estendere rapporti di cittadinanza a coloro che fino a quel
momento ne erano esclusi o non beneficiati (cittadini, popolo) con la
conseguente abolizione dei rapporti di sudditanza. Ampliare i pro-
pri domini, infatti, richiede l’ausilio del popolo (cfr. D I.6, 44-45) e,
dunque, la necessità dei tumulti, che hanno come scopo di produrre
la maggiore equalità possibile: “i desideri dei popoli liberi, [infatti],
rade volte sono perniciosi alla libertà, perché nascono o da essere op-
pressi, o da sospizione di avere ad essere oppressi” (D I.4, 35-36),
come testimoniato dalla storia di Roma, dove, dopo la cacciata dei re
corrotti e prima “che la loro corruzione fosse passata nelle viscere di
quella città, [...] l’incorruzione fu cagione che gl’infiniti tumulti [...],
avendo gli uomini il fine buono, non nocerono, anzi giovarono alla
repubblica” (cfr. D I.17, 110).

10 L’arcidiavolo Belfagor, infatti, sceglie Firenze per la sua avventura terrena, perché “innan-
zi a tutte l’altre [...] gli pareva più atta a sopportare chi con arti usurarie exercitassi i suoi
danari” (O 920a; per la relazione tra usura e decollo capitalistico cfr. almeno Nelson; la
relazione tra capitale e usura compare in IF IV.30, 438).
11 Sembra davvero di trovarsi di fronte a “un propugnatore della società borghese in ascesa”
(cfr. Horkheimer, 26). Per quanto ragionevole, però, l’ipotesi, non esaurisce lo spettro
della posizione machiavelliana che se, da un lato, racconta e studia la storia di quest’ascesa
in un contesto storico ben definito, dall’altro non si limita a farne l’apologia.
LA NASCITA DI FIRENZE E I TUMULTI 55

I tumulti sono necessari per promulgare le leggi indispensabi-


li al fine di rendere “stabile e ferma una repubblica”, ma anche per
“ordinar[la] in modo che l’alterazione di quegli umori che l’agitano
abbia una via da sfogarsi ordinata dalle leggi”, come dimostra in ne-
gativo il caso di Francesco Valori nella Firenze pre-soderiniana (cfr.
D I.7, 50, 52-53). Le leggi, infatti, sono “il nervo e la vita del vivere
libero” (D I.33, 162). I tumulti, dunque, non sono l’unico modo solo
per istituire la maggiore equalità possibile in una repubblica, ossia il
riconoscimento politico reciproco delle parti e della loro importanza
per la vita della città, ma anche per beneficiare dell’“utilità [...] del vi-
vere libero”, cui si è accennato più sopra (cfr. D I.16). Questa è “una
concezione pre-liberale della libertà, per la quale le leggi difendono il
cittadino non dallo Stato, ma da qualunque soggetto [...] possa sot-
trargli la vita, i beni e l’onore” e, dunque, di là dell’etichettamento che
da Berlin a Skinner, da Pocock a Pettit, è stato dato di essa, “la conce-
zione della libertà di Machiavelli sfugge a qualsiasi schema, [perché]
resta una concezione eminentemente politica della libertà, [...] nel
senso di non-giuridica” (cfr. Barberis, 69).
Esser liberi, per Machiavelli, non coincide col dominare (cfr. D
I.40, 206), ed è possibile solo perché “i popolari [...] non [...] potendo
occupare loro [la libertà], non permettono che altri la occupi” (D I.5, 38;
cors. mio). È dunque evidente che il vivere libero e civile non è una
forma stabile di governo e di vita, rispettosa della gerarchia cetuale
(cfr. Guicciardini 1512, 23; 1521-1526, 41, 65-73), ma un paradossale
“equilibrio conflittuale” (Terray, 159) o equilibrio squilibrato, asimme-
trico, instabile e sempre sull’orlo del caos – come quello di un acrobata
che cammina ondeggiando sul filo – in cui la libertà e la sicurezza non
sono garantite se non dalla rischiosa esposizione di sé nei tumulti, nello
spazio vuoto, perché non predeterminato, aperto dalle lotte che si dan-
no quando i popolari “irrompono da ogni parte nelle vie [...] con alte
grida”, ma anche “con pubbliche chiassate [clamoribus modo apertis]”
e, “cosa ben più pericolosa, con riunioni appartate e segrete confabula-
zioni” (Livio, II.23, 253; II.27, 263; descrizione ripresa da Machiavelli
in D I.4, 35), che possono portare all’uso delle armi (cfr. almeno D
I.54, 259; III.22, 682 e III.26, 693; IF I.27, 161; II.36, 278; II.39, 286;
III.17, 341)12. La politica, è stato scritto, “conserva la vita solo se rige-

12 I tumulti buoni, dunque, non sono riducibili a quelli incruenti come afferma Pedullà (cfr.
almeno 42, 132, 176, 211) né i “modi” dei tumulti presi in esame da Machiavelli si ridu-
cono alla secessio e alla detractio militiae (cfr. ivi, 136-137), poiché, talvolta, sono “stra-
ordinari e quasi efferati” (D I.4, 35). La violenza, per Machiavelli, non è un problema in
56 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

nera, se turba l’equilibrio, se produce ‘scarti’. L’equilibrio, invece, è


principio di disordine, fa scivolare verso la morte” (Zanardi, 74).
Esser liberi significa quindi e innanzitutto, per quanto paradossale
possa sembrare, lottare per la libertà. L’incapacità di farlo coincide
con l’assenza di virtù e questa con la presenza della corruzione. In una
“città corrotta”, infatti, comandano “non quelli che avevano più virtù,
ma quelli che avevano più potenza” (D I.18, 114), ragion per cui, in
essa, non si “vive politicamente” (cfr. D III.8, 604). E se comandano i
grandi, che hanno più potenza, c’è lotta ma non virtù: non tutte le lot-
te sono uguali. C’è un’asimmetria profonda tra i tumulti (del popolo)
e le discordie (dei grandi): i tumulti esprimono la volontà di non essere
dominati e, dunque, di mantenere vuoto lo spazio della libertà, in cui
si dà la lotta politica per il bene comune, che coincide con l’agibilità
di questo stesso spazio, agibilità che solo la parte popolare può garan-
tire, perché non vuol esser dominata; le discordie, invece, esprimono
la volontà di dominio, l’intenzione di chiudere lo spazio della libertà,
cioè della politica, e dividere la città, anziché unirla attraverso il me-
scolamento (cfr. IF III.5, 301-307)13. Vi sono dunque lotte virtuose
(tumulti) e lotte viziose (discordie), e i loro tempi non sono per nulla
equivalenti (cfr. Lefort 1972, 728-729; Visentin in Aa.Vv. 2012, 280).
Solo “il bene comune, [inoltre], fa grandi le città [e] non è osservato
se non nelle repubbliche” (cfr. D II.2, 313); infatti, “chi esaminerà
bene il fine [dei tumulti], non troverà che abbiano partorito alcuno
esilio o violenza in disfavore del comune bene, ma leggi e ordini in
beneficio della pubblica libertà” (D I.4, 35). La rovina è “inevitabile
quando le disunioni sociali sono inquinate dalla brama di ricchezze”,
quando “il ‘bene particolare’ si assolutizza, imponendosi quale esclu-
sivo valore politico” (Barbuto, 17).

sé, ma solo se privata anziché pubblica e legata al desiderio di non essere dominati (cfr.
Lefort 1972, 484-485): “le crudeltà della moltitudine sono contro a chi essi temano che
occupi il bene comune, quelle d’un principe sono contro a chi egli tema che occupi il bene
proprio” (D I.58, 286). La bontà dei tumulti non dipende dal loro essere violenti o meno,
ma dall’effetto che producono, come riconosce anche Pedullà (168). I tumulti sono buoni
se consentono di ordinare la libertà, altrimenti sono cattivi o inutili, violenti o non vio-
lenti che siano: il discrimine è politico, non morale, tanto che possono essere utili anche i
tumulti causati da “fini ‘cattivi’” (ivi 170). Per Machiavelli, dunque, il fine non giustifica
i mezzi: la libertà non è indipendente dal modo in cui è ordinata, come dimostra l’aporia
del principato civile.
13 Commentando in stile atomistico il frammento DK B 125 di Eraclito, “anche il ciceone
[bevanda rituale] si scompone se non è agitato”, Loraux scrive: “la città è un mescolamento
a condizione che siano mescolati tra loro cittadini d’ogni sorta [...]. Se non c’è agitazione
c’è divisione. O ancora: senza conflitto c’è divisione” (cfr. 1997, 108).
LA NASCITA DI FIRENZE E I TUMULTI 57

La natura di parte del bene comune non deve sfuggire; non perché
esso coincida con l’ideologia di una parte o con i suoi valori morali,
interessi economici o richieste politiche, ma nel senso che esso è ‘in-
carnato’ da una parte: l’umore “non voler essere dominati” è esposto
e presentato sulla scena politica sempre e solo da una parte. La scis-
sione tra gli umori struttura il campo politico (cfr. Geuna in Aa.Vv.
2012, 112), non è una costante antropologica o morale, semmai una
costante politica, perché “in tutte le città e in tutti i popoli sono [i]
medesimi desideri e [i] medesimi umori, e [...] vi furono sempre” (D
I.39, 194): le invarianti, dunque, sono i desideri e gli umori, non gli
uomini. Se non ci fosse chi non vuol essere dominato, non esisterebbe
lo spazio politico del vivere libero e civile, ma solo la lotta per i beni o
interessi privati e, dunque, uno spazio chiuso pre- o post-politico: per
Machiavelli, sicuramente a-politico.

7. Firenze è un paradigma negativo rispetto a quello romano, ma


solo in parte, perché, in realtà, è un altro paradigma, istituito dalla
sua vitalità, nonostante lo scostamento da Roma, nell’origine e nel-
lo sviluppo. Il prezzo pagato da Firenze per la propria sopravviven-
za è altissimo, ma la sua capacità di resistere le ha anche consentito
di sviluppare una virtù radicata ovunque tra i suoi cittadini. Firenze
non è un esempio di buon ordinamento, perché le sue caratteristiche
fondamentali sono lo squilibrio e la moltiplicazione delle occasioni
di scontro tra gli umori, anche se le lotte le consentono di non chiu-
dersi in un’unità sovradeterminata dai rapporti di forza tra le parti.
In un contesto capitalistico (o almeno protocapitalistico: cfr. Lefort
1978, 233) i tumulti rappresentano la lotta tra il desiderio del popolo
e quello dei grandi ed “è la forza del desiderio [popolare] che tiene
aperta la questione dell’unità dello Stato, [perché] impedisce di chiu-
dere l’Universale nel registro della dominazione di classe” (ivi, 229). Il
bene comune, dunque, non è in Machiavelli una forma di convivenza
armoniosa o qualcosa di comune a tutti, ma coincide con “i desideri
dei popoli liberi, [che] rade volte sono perniciosi alla libertà, perché
nascono o da essere oppressi, o da sospizione di avere ad essere op-
pressi” (D I.4, 35-36).
A Roma i tumulti portarono all’espansione territoriale della re-
pubblica, col risultato di trasformare l’uguaglianza in disuguaglian-
za aprendo le porte all’impero; a Firenze, invece, le lotte favorirono
l’espansione mercantile, trasformando la disuguaglianza in uguaglian-
za. I paradigmi di Roma e Firenze, pur indicando due modelli diversi
58 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ

di sviluppo economico e politico, hanno in comune il fatto che l’am-


pliare, territoriale o mercantile, è sempre connesso alla cittadinanza
ed è possibile solo se non si sopprime l’incontro-scontro tra gli umori.
L’unità aperta di Firenze, che fa sì che “da uno savio datore di
leggi potrebbe essere in qualunque forma di governo riordinata” (IF
III.1, 294), è dovuta alle lotte del popolo per un’equalità tra gli umori
né giuridica né economica ma politica e materiale, il cui fine non è
produrre solo l’equivalersi delle forze in campo, ma un ordinamento
adeguato al vivere politico e civile. I tumulti, per questo, non basta-
no, anche se sono uno dei principi della virtù, perché sono forieri di
libertà solo se accadono in una città non del tutto corrotta, capace di
coniugare le leggi e la diversità degli umori, dando a ognuno il proprio
sfogo (cfr. D I.4, 35; I.7; III.6, 555). Se ciò non succede, l’ordinamen-
to declina e la corruzione dilaga causando scandali e conflitti tra pri-
vati per ragioni e beni altrettanto privati. I tumulti, hanno il compito
di render manifesto il bene comune come bene di parte: non domi-
nare e non essere dominati. Firenze, invece, ha prodotto equalità, ma
al prezzo di un ordinamento instabile, causa della proliferazione delle
sette e della variazione dei governi che resero difficile il vivere libero
e civile, pur favorendo lo sviluppo della virtù che ha impedito alla
materia fiorentina di corrompersi del tutto. L’equalità raggiunta da Fi-
renze, condizione decisiva per edificare una repubblica non corrotta,
va allora inquadrata in un ordinamento che impedisca la nascita delle
fazioni, con annessa instabilità e variazione continua dei governi, e
conservi l’equalità senza neutralizzare le lotte politiche che la produ-
cono, risultando duraturo e dinamico al contempo.
Prima di esaminare la proposta di Machiavelli (cfr. capitolo 4) è
necessaria una lunga ricognizione delle forme storiche assunte dagli
ordinamenti fiorentini (cfr. capitolo 3), ma va subito chiarito che essa
non si basa esclusivamente sul valore straordinario di un individuo,
ma richiede un lavoro collettivo e la produzione di un dispositivo po-
litico impersonale (l’ordinamento) che, per quanto ben congegnato,
non è esente da pecche e, quindi, potrebbe dover essere distrutto (cfr.
Albiac, 90).
Per introdurre il problema, bisogna tener presente che ci sono cit-
tà a cui, “o nel principio d’esse o dopo non molto tempo, sono state
date da uno solo le leggi e ad un tratto”, come “Licurgo con gli Spar-
tani”, altre invece “le hanno avute a caso e in più volte e secondo gli
accidenti, come [...] Roma” (D I.2, 17), “ordinata da se medesima e
da tanti uomini prudenti” (D I.49, 240):
LA NASCITA DI FIRENZE E I TUMULTI 59

[1] felice si può chiamare quella repubblica a cui viene in sorte uno uomo
sì prudente che gli dia leggi ordinate in modo che, senza avere bisogno di
ricorreggere quelle, possa vivere sicuramente sotto quelle e [2] per il con-
trario tiene qualche grado di infelicità quella città che, non si essendo ab-
battuta a uno ordinatore prudente, è necessitata da se medesima riordinarsi,
[...] di queste ancora [3] è più infelice quella che è più discosto dall’ordine;
e quella ne è più discosto [4] che coi suoi ordini è al tutto fuori del diritto
cammino che la possa condurre al perfetto fine. Perché quelle che sono in
questo grado [4] è quasi impossibile che per qualunque accidente si rasset-
tino; quelle altre [2 e 3] che, se non hanno l’ordine perfetto, hanno preso il
principio buono e atto a diventare migliore, possono per la occorrenza degli
accidenti diventare perfette. Ma fia bene vero questo, che mai si ordine-
ranno senza pericolo, perché gli assai uomini non si accordano mai ad una
legge nuova che riguardi uno nuovo ordine nella città, se non è mostro loro
da una necessità che bisogni farlo; e non potendo venire questa necessità
senza pericolo, è facil cosa che quella repubblica rovini avanti che la si sia
condotta a una perfezione d’ordine. Di che ne fa fede appieno la repubblica
di Firenze, la quale fu dallo accidente d’Arezzo, nel due, riordinata; e da
quel di Prato, nel dodici, disordinata (D I.2, 17-18; numerazione mia).

Già in D I.2 Firenze non è una città del tutto corrotta (caso 4).
Se Sparta fu baciata dalla fortuna ricevendo Licurgo (caso 1), Roma
(caso 2) e Firenze (caso 3) furono più sfortunate, ma non del tutto,
perché ebbero il principio buono, cioè libero, solo in grado diverso
(cfr. D I.18, 112). Ciò consentì a Roma di giungere, con un percorso
aleatorio in cui rispose con virtù al caso, all’ordine perfetto, mentre
portò Firenze all’instabilità.
Va infine evidenziato che, per Machiavelli, fondatore e legislatore
non necessariamente coincidono come in Licurgo; a Sparta come a
Roma e a Firenze il caso fu tra i fondatori, pur non essendo legislato-
re (idea che si trova anche in P VI, 115). Se poi Sparta ebbe un solo
legislatore, Roma ne ebbe molti, ma non per questo non raggiunse
una sua perfezione. In sintesi, in casi fortunati ci può essere un solo
legislatore, ma non c’è mai un solo fondatore, perché la fortuna gioca
sempre un ruolo determinante, anche se non esclusivo: la virtù, infatti,
è il principio che, affrontandola, può contribuire a dirigere il corso
degli eventi nella direzione desiderata.
Si tratta, dunque, ora, di esaminare come Machiavelli descriva la
combinazione di virtù e fortuna all’interno della storia politico-istitu-
zionale di Firenze.

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