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andare ad abitare in città già esistenti, come fecero gli ebrei sotto la
guida di Mosè, o costruirne di nuove, come fecero i troiani guidati
da Enea, ma solo nel secondo caso “si conosce la virtù dello edifica-
tore e la fortuna dello edificato: la quale è più o meno meravigliosa,
secondo che più o meno è virtuoso colui che ne è stato principio”.
Virtù che si riconosce “in due modi: prima nella elezione del sito,
l’altra nella ordinazione delle leggi” (D I.1, 12).
Secondo questi parametri, nessuna virtù è stata trasferita a Firen-
ze all’atto della sua fondazione, perché i suoi fondatori, non essendo
liberi, non avrebbero potuto improntare con la loro virtù (libertà) la
forma della città.
Serva nel principio (cfr. D I.49, 238), Firenze sembra destinata a
restare tale, come dimostra l’atteggiamento accondiscendente verso
le calunnie. Nelle città libere, infatti, le calunnie sono detestate e i
calunniatori severamente puniti. Per neutralizzarle, bisogna “aprire
assai luoghi alle accuse”, poiché, mentre le calunnie non hanno a che
fare con la verità, le accuse hanno “bisogno di riscontri veri e di cir-
costanze che [ne] mostrino la verità”. Nelle città che non si ordinano
in questo modo, come Firenze, “questo disordine fece molto male”,
e chi ne leggesse le storie si renderebbe conto di quale abuso fu fatto
delle calunnie: “di che ne nasceva che da ogni parte ne sorgeva odio,
donde si veniva alla divisione, dalla divisione alle sette, dalle sette
alla rovina”. Mentre la formulazione di un’accusa implica un rap-
porto con la verità, quella di una calunnia mira a eluderlo e, dunque,
a degenerare in conflitti senza regole tra fazioni. La presenza della
libertà in una città si evince anche dalla possibilità data ai cittadini
di accusarsi l’un l’altro “senza alcuna paura o senza alcuno rispet-
to” e da quella di ottenere un giudizio solo dopo che la natura delle
accuse sia stata “bene osservata” (cfr. D I.8, 58-62 e anche I.7). La
libertà di una città garantisce la possibilità dello scontro tra i cittadini
inquadrandolo all’interno di leggi, che non sono deputate a stabilir-
ne l’esito, ma a impedirne la degenerazione. La non libertà invece
lascia spazio alle calunnie, conflitti senza regole e dunque forieri di
nuovi scontri e divisioni, come accadde a Firenze, per esempio, dopo
il 1494 (cfr. D I.47, 230-231). Firenze appare allora un paradigma
negativo, dato che
non è meraviglia che quelle città che hanno avuto il principio loro imme-
diate servo abbiano, non che difficoltà, ma impossibilità a ordinarsi mai
in modo che possano vivere civilmente e quietamente. Come si vede che è
intervenuto alla città di Firenze, la quale, per avere avuto il principio suo
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razione di “cominciare la [...] istoria dal principio della [...] città” (IF,
proemio, 93) consente a Machiavelli di evidenziare il rapporto tra la
virtù insita nel principio e la presenza dell’augumento: i fiesolani fon-
darono Firenze; i soldati di Silla le fornirono il principio espansivo.
Le condizioni per la nascita di Firenze sono, dunque, tre: l’esisten-
za di Fiesole, l’attitudine romana a fondare colonie e il loro incontro
che, però, non è necessariamente foriero d’unione e l’unione potrebbe
non durare: cosa, allora, lo rese reale e duraturo? Machiavelli elenca
una serie di condizioni contingenti che si sono favorevolmente con-
giunte: la necessità dei fiesolani di rendere più comodi, efficienti e
“frequentati” i loro “mercati”, li portò a collocarli “non sopra il pog-
gio”, dove si trovava la città, ma “nel piano, intra le radice del monte e
del fiume d’Arno” (cfr. IF II.2, 191); l’occasione, che qui coincide con
una necessità, è una costrizione in una situazione non satura, dove un
agire può determinare il tempo della sua ridefinizione1. Anche l’occa-
sione però, per quanto indispensabile, non è tutto; essa, infatti, fu la
“cagione delle prime edificazioni” che, “con il tempo”, diventarono
“ferme” (stabili), ma solo “di poi, quando i Romani, avendo vinti i
Cartaginesi, renderono dalle guerre forestiere la Italia sicura, in gran
numero multiplicorono”, poiché mentre “la paura delle guerre co-
stringe [gli uomini] ad abitare volentieri nei luoghi forti e aspri, cessa-
ta quella, chiamati dalla comodità, più volentieri nei luoghi domestici
e facili abitano”. Solo la “securtà” portata in Italia dai Romani “potet-
te fare crescere le abitazioni [...] in tanto numero che in forma d’una
terra si ridussero” (ivi 192).
Come un clinamen, la sicurezza innescò un processo nuovo che,
per quanto intessuto di cause o forze, che potrebbero essere indagate
e descritte una a una, non è il risultato di una sequenza deterministica
né la istituisce, perché biforcazioni aleatorie continue tengono il pro-
cesso sempre aperto, instabile e reversibile.
La presenza di un’occasione e quella di un principio espansivo in
grado di attecchire virtuosamente non spiegano, infatti, ancora nulla
di quanto accaduto. È necessario un altro passaggio, che Machiavelli
esplicita riprendendo il filo di un’altra storia che si collega con quel-
la narrata. Furono le guerre civili romane che convinsero prima Silla
e poi il Triumvirato a inviare “a Fiesole colonie”, che s’installarono
1 L’idea che il tempo sia il frutto di una relazione è atomistica: “[...] il tempo non esiste di
per sé [...] / né si deve ammettere che alcuno avverta il tempo / separato dal movimento
delle cose e dalla placida quiete” (Lucrezio, I, 459, 462-463; in merito: cfr. Zanardi 77-78).
LA NASCITA DI FIRENZE E I TUMULTI 41
nella “già cominciata terra; tale che per questo augumento si ridusse
quello luogo tanto pieno di edifici e di uomini e di ogni altro ordine
civile che si poteva numerare intra le città di Italia” (ivi, 192-193).
L’espansione, dovuta all’aumento quantitativo degli uomini sul ter-
ritorio (cfr. D I.2, 20-21 e Lucrezio, V, 1011-1027) col fine preciso,
tipico delle colonie, di garantire la sicurezza del luogo e la sua espan-
sività, portò alla crescita dei mercati fiesolani fino a farli diventare
una città vera e propria: la “terra” fu solo l’“addentellato” (cfr. P II,
68), l’appiglio “uncinato” (hamatus, cfr. Lucrezio, II, 394 e 405,) che,
“come un amo” (agkistrode, cfr. Democrito, fr. 227 o DK 68 A 37),
consentì l’aggancio. Il caso (l’insieme mai del tutto conoscibile, indefi-
nito e aleatorio delle cause) occasionò l’incontro, che se fosse avvenu-
to tra forze non disposte a congiungersi, non avrebbe però fatto presa.
La congiuntura ebbe luogo per l’incontro tra una città e un principio
d’espansione, tra un luogo fecondo (materia con una sua forma) e un
principio di fecondazione capace di modificarla interagendo con essa.
Da ciò seguì, come dopo una nascita, la questione del nome.
Machiavelli sminuisce l’importanza di Firenze fino al 1215, perché
“visse sotto quella fortuna che vivevano quelli che comandavano ad
Italia” (IF II.2, 194), nutrendosi di un rapporto passivo che testimo-
nia l’assenza di virtù, il prevalere del lato servo del suo principio. Pur
tenendo conto della differenza oggettiva di potenza rispetto all’Impe-
ro romano, troppo forte per essere affrontato, l’assenza di virtù, cioè
di lotta contro la fortuna e la dipendenza dalla fortuna altrui, impedì
ai fiorentini, “in questi tempi, [di] crescere [e] operare alcuna cosa
degna di memoria, per la potenza di quelli allo imperio dei quali ubbi-
divano”, almeno fino al “1010” quando “presero e disfeciono Fiesole”
(ivi, 195): rottura del cordone ombelicale, slegamento. Ecco l’occa-
sione di cui sopra: la virtù fiorentina si manifesta grazie a una guerra
di conquista che, attraverso la distruzione, produsse il vuoto neces-
sario all’augumento della città. Questo, però, non è ancora il segnale
di una piena autonomia. L’azione dei fiorentini, infatti, fu possibile
o col consenso degli imperatori o durante un interregno, tanto che,
nonostante la “divisione”, dal “1080” in poi, tra i sostenitori dell’im-
peratore e quelli del papa, i fiorentini “si mantennero fino al 1215
uniti, ubbidendo ai vincitori, né cercando altro imperio che salvarsi”.
Firenze resistette fino al 1215, “la fu più tarda a seguitare le sette di
Italia” (ibidem), e solo poi, con le divisioni interne, cominciò la sua
“infermità” (malattia). La partigianeria è canone, per Machiavelli, fin
da subito, perché “parte” significa “fazione” o “setta” se agisce per
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il proprio bene e non per la “comune utilità” (cfr. D I.2, 23; I.37,
183-184; I.49, 237-238; I.54, 258-260). Firenze, dunque, è degna di
entrare nella memoria sia per la sua infermità, dovuta alle divisioni
interne, sia per la sua capacità di resistervi e lottare per liberarsene.
Così comincia la sua virtù.
La virtù connessa all’ampliare consentì ai fiorentini di conquistare
Fiesole e cominciare a istituire autonomamente degli ordini, anche
se questo non li rese esenti da corruzione. La natura serva di Firen-
ze, infatti, emerge di quando in quando provocando l’oscillazione dei
governi, nonostante la sua origine abbia perso l’aura incerta, oscura
e mitica, sostituita da “vera memoria”. Firenze è città mercantile per
vocazione, luogo d’incontro e di scambio nato per esigenze legate ai
traffici di merci: questa la forma del suo augumento. La sua origine
forestiera e parzialmente serva non è eliminata, ma, grazie ai coloni
(migranti) Romani e al caso, è corroborata dalla virtù, che implica la
libertà, per quanto subordinata alle leggi e alle esigenze dell’impero,
di chi sa rispondere alla fortuna2. Firenze è così il simbolo della rot-
tura con i miti fondatori basati sull’autoctonia (cfr. IF, II.2, 191-195),
frequenti nella storiografia classica e umanistica, in base ai quali “af-
finché il seguito sia bello, è necessario un bel principio; dal momento
che l’importante è sempre continuare bene – questa si chiama storia
– conviene che tutto sia bene iniziato” (cfr. Loraux 1996, 41). Firenze,
invece, è bastarda fin dall’origine, mista nel senso della fusione (cfr.
Raimondi 2005b), perché nata dall’incontro tra fiesolani (autoctoni) e
coloni romani (immigrati) portatori di virtù.
3 In Machiavelli, origine indica l’evento della nascita (cfr. Lucrezio, almeno III, 686-687, IV
157-160), all’interno di un quadro dinamico di aggregazione e disaggregazione incessante.
L’origine-nascita non è separazione netta e irreversibile da un prima, dal quale invece
dipende e di cui è anche continuazione e conservazione pur nel mutamento e nell’innova-
zione delle forme, né continuità senza interruzioni. Conformemente al modo di pensare
atomistico, l’origine è incontro tra processi diversi (origini) che confluiscono in un punto
fondendosi e generando processi nuovi (cfr. almeno il VI libro del De rerum natura). La
nascita non è ripetizione di un tempo mitico, perché è unica e irripetibile, e ciò lo por-
ta a rifiutare l’anakyklosis polibiana (cfr. almeno Sasso 1967, 161-280; Colonna d’Istria-
Frapet, 155-193; Reale, 48-50): “nei Discorsi il ‘ciclo’ polibiano [è] in sostanza superato”
(Inglese 2006, 111-114), perché “questo cerchio può [...] essere spezzato” (Negri, 77).
4 È improprio, a mio avviso, parlare di corpo, anche se il termine ricorre nei testi machiavel-
liani, a causa della sua dottrina degli umori che, essendo incomponibili in uno, rendono
insensato l’organicismo della metafora, anche latu sensu come corpo mostruoso: basti ri-
cordare l’immagine del “busto [...] intero” che, pur “perdendo il capo”, poté “facilmente
ridursi a vivere libero e ordinato” (cfr. D I.17, 108). L’aggregato non è un vero corpo, an-
che se vive e sembra uno per la continua, aleatoria e mai placata riarticolazione delle parti
che lo compongono. Preferisco, dunque, parlare, atomisticamente, di aggregato politico.
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5 Come invece ritiene Esposito (cfr. 1984, 179-220, in particolare 192-201), che non di-
stingue le diverse tipologie delle lotte, la loro sempre diversa collocazione temporale e la
loro altrettanto singolare temporalità interna, ipostatizzandole tutte nella logica schmittiana
“amico-nemico”, la quale implica che il rapporto si dia solo come volontà di neutralizza-
zione reciproca. La demonizzazione delle lotte da parte di Schmitt, conseguente alla con-
siderazione esclusiva del loro aspetto disgregativo, porta a non riconoscerne l’eventuale
capacità aggregativa e, dunque, ad abbracciare posizioni politiche apertamente reazionarie.
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debbesi pigliare questo per una regola generale: che mai o rado occorre
che alcuna repubblica o regno sia da principio ordinato bene, o al tutto di
nuovo fuori degli ordini vecchi riformato, se non è ordinato da uno; anzi,
è necessario che uno solo sia quello che dia il modo e dalla cui mente di-
penda qualunque simile ordinazione. Però uno prudente ordinatore d’una
repubblica, e che abbia questo animo di volere giovare non a sé ma al bene
comune, non alla sua propria successione ma alla comune patria, deve in-
gegnarsi di avere l’autorità solo [...]. Debbi bene in tanto essere prudente
e virtuoso, che quella autorità che si ha presa non la lasci ereditaria a uno
altro: perché, essendo gli uomini più proni al male che al bene, potrebbe il
suo successore usare ambiziosamente quello che virtuosamente da lui fosse
stato usato. Oltre a questo, se uno è atto a ordinare, non è la cosa ordinata
per durare molto quando la rimanga sopra le spalle d’uno, ma sì bene quan-
do la rimane alla cura di molti, e che a molti stia il mantenerla. Perché, così
come molti non sono atti a ordinare una cosa, per non conoscere il bene di
quella, causato dalle diverse opinioni che sono fra loro, così, conosciuto che
lo hanno, non si accordano a lasciarlo (D I.9, 64-65).
6 Nella Minuta (cfr. M 648-649 e, per un’analisi, il capitolo 4, § 5), infatti, Machiavelli
prende come esempio la repubblica post-soderiniana, quando gonfaloniere (non a vita)
fu Giovan Battista Ridolfi. Per le critiche di Machiavelli a Piero Soderini, cfr. almeno: D
III.3, 540-541; III.9, 610; III.30, 710-712.
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zione regolatrice’ dei tumulti, “prima causa del tenere libera Roma”
(cfr. almeno D I.4, 33)7.
7 L’elogio dei tumulti porta alla celebre conclusione che “i buoni esempi nascono dalla
buona educazione, la buona educazione dalle buone leggi, e le buone leggi da quei tumulti
che molti inconsideratamente dannano” (D I.4, 35). Le leggi sono l’esito dei tumulti: come
possono, dunque, essere regolati da quelle (cfr. Bruni, 466 e 473)? Il verbo “regolare” è
usato spesso da Machiavelli, nei Discorsi, con riferimento alle leggi: mai a proposito dei
tumulti, i quali, dunque non normano alcunché, anzi, semmai destrutturano. Se, come
spesso è stato detto, le leggi dovessero costituire una sorta di argine istituzionale ai tu-
multi, stabilendo i parametri entro i quali sono leciti, questi non potrebbero avere l’im-
patto distruttivo/costruttivo che Machiavelli assegna loro. Il problema, dunque, è che
la ‘regolazione’ dei tumulti, il loro essere regola, è questione politica e non giuridica: è
l’ordinamento che deve ‘pre-vedere’ al suo interno un punto di possibile non tenuta re-
ale, un vuoto d’ordine o caos, che può dissolverlo o farlo rinascere in forme nuove. Il
“teorema di Machiavelli”, suona così: “quanto più le lotte di classe [...] conducono la
‘comunità’ a un punto di rottura (o al margine della dissoluzione), tanto più costringono
il potere dello Stato (e delle classi dominanti) all’invenzione istituzionale” (Balibar, 113).
È la capacità di affrontare il rischio supremo dell’annientamento (cfr. Berns, 192-193) che
può rivitalizzare l’aggregato politico (come conferma la lettura di Livio: cfr. Pedullà, 106-
108), non la normazione giuridica o istituzionale dei tumulti che ne neutralizza la forza
dirompente. Le leggi non possono regolamentare i tumulti, perché questi sono ciò che le
scardina e consente loro, eventualmente, di esistere, dato che l’esito potrebbe anche essere
la fine dell’aggregato politico. È questo che segna, a mio avviso, “la discontinuità assoluta
[di Machiavelli] rispetto alla tradizione greco-romana e all’umanesimo quattrocentesco”
(Pedullà, 43) e lo rende inclassificabile e solo (cfr. Althusser 1977); non tanto l’idea di
voler disciplinare i tumulti, che, peraltro, non sono l’unica forma di conflitto. I tumulti
accadono senza chiedere il permesso e senza bisogno di alcuna autorizzazione: sono “or-
ganizzazione senza modello” (Illuminati-Rispoli, 44) o “disordine continuato” (cfr. Lefort,
1972, 724). È dunque impossibile regolare i tumulti in modo che non nuocano allo Stato
(cfr. Ménissier in Aa.Vv. 2006a, 176-177, 180, e Pedullà, almeno 123-133, il quale, da un
lato, riconosce la naturalità dei tumulti, ma poi ritiene debbano essere controllati; non
si capisce, dunque, come possano avere un “tratto extralegale” e, al contempo, essere
“istituzionalizzati”: cfr. 133 n. 76, 141). Un’idea che rivela più la paura di dover fare i
conti con i desideri della plebe o dei “salariati” (cfr. Marietti 2005, 111), spesso identici
a quelli dei grandi (cfr. Pedullà, 326-327, 332-333), anche nella loro distruttività, senza
che questo ne sancisca la bontà o la giustezza, come pretende certo plebeismo. Regolare i
tumulti significa volerne rimuovere la ‘tumultuosità’ ossia la violenza e così neutralizzare
Machiavelli, come correttamente sostiene Vatter (cfr. 2000). Al contrario, i tumulti sono
il motore dell’innovazione e la manifestazione della libertà (cfr. Dejardin, 113; Geuna,
25): una repubblica deve innovare sulla spinta dei tumulti, altrimenti rischia di rovinare
se si protraggono oltre un certo limite: come sempre è questione di tempestività. Le leggi
delimitano un campo di lotte di cui i tumulti non fanno parte, perché ne sono il principio:
essi non sono l’eccezione che conferma la regola, ma la potenza della nascita e della di-
struzione della regola. Anche qui il paradigma atomistico è rilevante, perché all’origine di
qualcosa c’è sempre un incontro o uno scontro tra parti. E l’aeterno certamine, vedi sopra,
non è normabile né necessariamente normante, ma può essere la fonte delle leggi, di cui è
“impossibile definire una origine” (Berns, 212). La durata di un aggregato politico non è
garantita né garantibile da nulla, se non in forma paradossale dalla sfida virtuosa, collettiva
e non individuale, alla sempre possibile dissoluzione tumultuaria dell’ordinamento. Se, in
conclusione, “i tumulti modificano, plasmano [e] reinventano daccapo le forme istituite”
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(Illuminati e Rispoli, 34) significa che sono il punto di possibile non tenuta dell’ordina-
mento e non ciò che gli si sottrae o lo eccede, a meno di non dire che ciò che si sottrae
o eccede è un vuoto o uno scostamento impercettibile: un clinamen. Il punto di possibile
non tenuta non è lo stato di natura hobbesiano né lo stato di eccezione né la guerra civile
– che, semmai, sono i limiti verso cui il tumulto tende – ma la riduzione ai princìpi (cfr.
D III.1); forzando un po’, si può dire che “una Città forte è quella che si trova in insurre-
zione permanente” (cfr. Dejardin, 116-117); in modo più equilibrato, che il “‘ritorno alle
origini’ è un processo permanente” che non consiste nel “ripristinare le istituzioni che
la società aveva avuto ai suoi inizi”, ma nell’innovarle per renderle all’altezza dei tempi
secondo lo “spirito” del vivere libero e civile e della virtù necessaria a ordinarlo (cfr. Gil-
bert 1965, 158-159). Ecco perché “i tumulti non possono essere risolti una volta per tutte
nemmeno dalla forma perfetta della costituzione mista” (Geuna, 22).
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rimanevano liberi da tanti mali potevano più con la virtù loro esaltarla, che
non aveva potuto la malignità di quegli accidenti che gli avieno diminuiti
opprimerla. E senza dubbio, se Firenze avesse avuto tanta felicità che, poi
che la si liberò dallo Imperio, ella avesse preso forma di governo che l’aves-
se mantenuta unita, io non so quale repubblica, o moderna o antica, le fosse
stata superiore, di tanta virtù d’arme e di industria sarebbe stata ripiena (IF,
proemio, 90-92).
Le gravi e naturali inimicizie che sono tra gli uomini popolari e i nobili,
causate da il volere questi comandare e quelli non ubbidire, sono cagione di
tutti i mali che nascano nelle città, perché da questa diversità di umori tutte
le altre cose che perturbano le repubbliche prendono il nutrimento loro.
Questo tenne disunita Roma; questo, se è lecito le cose piccole alle grandi
agguagliare, ha tenuto divisa Firenze, avvenga che nell’una e nell’altra città
diversi effetti partorissero: perché le inimicizie che furono nel principio in
Roma tra il popolo e i nobili disputando, quelle di Firenze combattendo si
definivano; quelle di Roma con una legge, quelle di Firenze con lo esilio e
con la morte di molti cittadini terminavano; quelle di Roma sempre la virtù
militare accrebbero, quelle di Firenze al tutto la spensero; quelle di Roma
da una ugualità di cittadini in una disuguaglianza grandissima quella città
condussero, quelle di Firenze da una disuguaglianza a una mirabile ugualità
l’hanno ridotta (IF III.1, 292-293)8.
8 Secondo Sasso, il passo è in aperto contrasto con quanto sostenuto nel proemio delle
Istorie, perché la “moltiplicazione e frammentazione delle forze contrapposte” (cfr. 19932,
II, 180-181) distanziano Firenze dal paradigma romano della contrapposizione binaria tra
plebe e senato. In realtà, qui, Machiavelli dice che “le inimicizie si definivano combatten-
do”, senza pregiudicarne il numero: è proprio la moltiplicazione degli attori in lotta la
caratteristica di Firenze che deve essere spiegata dal suo paradigma, che non può essere
quello di Roma (cfr. Marietti 2005, 106-109).
LA NASCITA DI FIRENZE E I TUMULTI 51
ogni repubblica, quello del popolo, e quello dei grandi” (D I.4, 34, ma
cfr. anche D I.16, 104; I.40, 206; IF II.12, 215). Mentre, infatti, “il po-
polo desidera non essere comandato né oppresso dai grandi, e i grandi
desiderano comandare e opprimere il popolo” è dal loro scontro che
nascono “tre effetti, o principato, o libertà, o licenzia” (P IX, 163-164).
La libertà nasce come effetto dei tumulti, perché nei “nobili [grandi]
si vedrà [...] desiderio grande di dominare, e in questi [popolo] solo
desiderio di non essere dominati, e per conseguente maggiore volontà
di vivere liberi” (D I.5, 38). Precisato che “dominare” è la sintesi di
“comandare e opprimere”, con riferimento al rapporto tipicamente
feudale tra dominus e servus, e che, inoltre, il popolo è formato da
coloro che non vogliono essere dominati, agendo politicamente come
“guardia della libertà” (cfr. D I.5), mentre i grandi sono coloro che
vogliono dominare, al di là di ogni mero riferimento sociologico al
gruppo natale di appartenenza, dato che vi sono uomini di estrazione
nobiliare che si schierano col popolo e viceversa, come mostrano le
Istorie9, l’aspetto da sottolineare è la dinamica grazie alla quale solo il
popolo, pur essendo una parte della città, può “tenerla libera” (cfr. D
I.4, 33). Il bene comune, allora, è di parte e non armonioso, in diver-
genza rispetto al repubblicanesimo classico e all’umanesimo civile (cfr.
Adorno in Aa.Vv. 1998 e, in particolare, Del Lucchese 2004, 123-132).
Il popolo non è intrinsecamente più buono e giusto, come se possedes-
se un imperativo morale innato che lo incita a battersi per la libertà. Al
contrario, il popolo è mosso dal bisogno di ricevere il riconoscimento,
da parte dei grandi, del ruolo fondamentale alla vita della città che esso
svolge e, nello specifico, alla costitutiva necessità di ogni repubblica di
tipo romano, anziché veneziano o spartano, di ampliare (cfr. D I.6, 41-
44), obiettivo che per essere raggiunto richiede un esercito popolare. Il
popolo, infatti, tumultuava quando non vedeva soddisfatta la propria
“ambizione”, battendosi per “ottenere una legge [o] non [...] andare
alla guerra” (cfr. D I.4, 35); tanto che “volendo Roma levare le cagio-
ni dei tumulti, levava ancora le cagioni dello ampliare” (D I.6, 45). I
tumulti impediscono il dominio dei grandi sul popolo, costringendoli
a fare leggi buone, perché in favore della libertà, da cui nascono la
“buona educazione” e i “buoni esempi” (cfr. D I.4, 35), distinguendosi
9 In Machiavelli troviamo esempi, come quello di Buondelmonti (cfr. capitolo 3, § 1), in cui
anche gli individui cambiano umore e non solo i gruppi (come i Ciompi, per esempio),
secondo i tempi e gli spazi in cui si trovano ad agire. Questa Spaltung dimostra che l’in-
dividuo, come l’essere, è fratto, svelando la mistificazione dell’equiparazione concettuale
liberale tra individuo e atomo, nonostante la corrispondenza etimologica.
52 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ
così dalle “discordie” o dalle “divisioni”, per esempio, che sono tipi-
che della volontà nobiliare di asservire il popolo.
Il popolo, formato da quanti sono mossi dal desiderio di non es-
sere dominati dai grandi, e i grandi, mossi dal desiderio di domina-
re il popolo, sono parti e non umori. Gli umori sono le forze che,
combinandosi, generano le parti. Non essendo individuali ma propri
dell’aggregato politico, vanno intesi, per analogia con una tradizione
che va dalla cosmologia pitagorica alla dottrina medica di Galeno, e
anche per l’uso da parte di Machiavelli dei quantificatori universali
(ogni, tutte), come forze politicamente naturali e storiche al contempo,
perché sono sempre presenti nella città, anche se le loro caratteristiche
variano secondo i tempi e alcune possono addirittura scomparire. Una
considerazione che obbliga a evidenziare come l’analogia con la me-
dicina sia piuttosto superficiale (tutt’al più c’è col suo lessico), visto
che gli umori machiavelliani, due e non quattro, nascono e muoiono
con la politica e si trasformano: cosa inconcepibile nella tradizione
succitata.
Il criterio che contraddistingue gli umori è meramente politico e
non si fonda sullo status sociale e sulla condizione economica come
nell’antichità (cfr. Fioravanti, 11-25); è legato alla contingenza della
situazione e non è un’essenza o un dato antropologico: non c’è chi
possiede un desiderio e chi quello opposto come dono naturale o
principio innato. Il desiderio dipende dalla posizione politica in cui
un individuo si trova e questa, per quanto i beni siano scarsi, non è
mai una necessità naturale, altrimenti, il desiderio diventerebbe un’es-
senza e il pensiero machiavelliano risulterebbe incardinato a un an-
tropocentrismo che non ha, se è “vero che la Fortuna [è] arbitra della
metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra
metà, o presso, a noi” (P XXV, 302). Chiunque voglia comandare e
opprimere il popolo, dunque, fa parte dei grandi, ma non per questo
chi appartiene socialmente ai grandi vuol necessariamente comandare
e opprimere il popolo; allo stesso modo, chiunque voglia non essere
comandato né oppresso dai grandi appartiene al popolo, ma non per
questo chi non è comandato né oppresso dai grandi fa parte necessa-
riamente del popolo, perché chi fa parte socialmente del popolo può
voler essere comandato e oppresso dai grandi o voler comandare e
opprimere.
La politicità della distinzione machiavelliana tra gli umori e, di
conseguenza, tra le parti, unitamente al naturalismo di cui Machia-
velli sembra avvolgerla, emerge dalla considerazione che tra esse c’è
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10 L’arcidiavolo Belfagor, infatti, sceglie Firenze per la sua avventura terrena, perché “innan-
zi a tutte l’altre [...] gli pareva più atta a sopportare chi con arti usurarie exercitassi i suoi
danari” (O 920a; per la relazione tra usura e decollo capitalistico cfr. almeno Nelson; la
relazione tra capitale e usura compare in IF IV.30, 438).
11 Sembra davvero di trovarsi di fronte a “un propugnatore della società borghese in ascesa”
(cfr. Horkheimer, 26). Per quanto ragionevole, però, l’ipotesi, non esaurisce lo spettro
della posizione machiavelliana che se, da un lato, racconta e studia la storia di quest’ascesa
in un contesto storico ben definito, dall’altro non si limita a farne l’apologia.
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12 I tumulti buoni, dunque, non sono riducibili a quelli incruenti come afferma Pedullà (cfr.
almeno 42, 132, 176, 211) né i “modi” dei tumulti presi in esame da Machiavelli si ridu-
cono alla secessio e alla detractio militiae (cfr. ivi, 136-137), poiché, talvolta, sono “stra-
ordinari e quasi efferati” (D I.4, 35). La violenza, per Machiavelli, non è un problema in
56 L’ORDINAMENTO DELLA LIBERTÀ
sé, ma solo se privata anziché pubblica e legata al desiderio di non essere dominati (cfr.
Lefort 1972, 484-485): “le crudeltà della moltitudine sono contro a chi essi temano che
occupi il bene comune, quelle d’un principe sono contro a chi egli tema che occupi il bene
proprio” (D I.58, 286). La bontà dei tumulti non dipende dal loro essere violenti o meno,
ma dall’effetto che producono, come riconosce anche Pedullà (168). I tumulti sono buoni
se consentono di ordinare la libertà, altrimenti sono cattivi o inutili, violenti o non vio-
lenti che siano: il discrimine è politico, non morale, tanto che possono essere utili anche i
tumulti causati da “fini ‘cattivi’” (ivi 170). Per Machiavelli, dunque, il fine non giustifica
i mezzi: la libertà non è indipendente dal modo in cui è ordinata, come dimostra l’aporia
del principato civile.
13 Commentando in stile atomistico il frammento DK B 125 di Eraclito, “anche il ciceone
[bevanda rituale] si scompone se non è agitato”, Loraux scrive: “la città è un mescolamento
a condizione che siano mescolati tra loro cittadini d’ogni sorta [...]. Se non c’è agitazione
c’è divisione. O ancora: senza conflitto c’è divisione” (cfr. 1997, 108).
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La natura di parte del bene comune non deve sfuggire; non perché
esso coincida con l’ideologia di una parte o con i suoi valori morali,
interessi economici o richieste politiche, ma nel senso che esso è ‘in-
carnato’ da una parte: l’umore “non voler essere dominati” è esposto
e presentato sulla scena politica sempre e solo da una parte. La scis-
sione tra gli umori struttura il campo politico (cfr. Geuna in Aa.Vv.
2012, 112), non è una costante antropologica o morale, semmai una
costante politica, perché “in tutte le città e in tutti i popoli sono [i]
medesimi desideri e [i] medesimi umori, e [...] vi furono sempre” (D
I.39, 194): le invarianti, dunque, sono i desideri e gli umori, non gli
uomini. Se non ci fosse chi non vuol essere dominato, non esisterebbe
lo spazio politico del vivere libero e civile, ma solo la lotta per i beni o
interessi privati e, dunque, uno spazio chiuso pre- o post-politico: per
Machiavelli, sicuramente a-politico.
[1] felice si può chiamare quella repubblica a cui viene in sorte uno uomo
sì prudente che gli dia leggi ordinate in modo che, senza avere bisogno di
ricorreggere quelle, possa vivere sicuramente sotto quelle e [2] per il con-
trario tiene qualche grado di infelicità quella città che, non si essendo ab-
battuta a uno ordinatore prudente, è necessitata da se medesima riordinarsi,
[...] di queste ancora [3] è più infelice quella che è più discosto dall’ordine;
e quella ne è più discosto [4] che coi suoi ordini è al tutto fuori del diritto
cammino che la possa condurre al perfetto fine. Perché quelle che sono in
questo grado [4] è quasi impossibile che per qualunque accidente si rasset-
tino; quelle altre [2 e 3] che, se non hanno l’ordine perfetto, hanno preso il
principio buono e atto a diventare migliore, possono per la occorrenza degli
accidenti diventare perfette. Ma fia bene vero questo, che mai si ordine-
ranno senza pericolo, perché gli assai uomini non si accordano mai ad una
legge nuova che riguardi uno nuovo ordine nella città, se non è mostro loro
da una necessità che bisogni farlo; e non potendo venire questa necessità
senza pericolo, è facil cosa che quella repubblica rovini avanti che la si sia
condotta a una perfezione d’ordine. Di che ne fa fede appieno la repubblica
di Firenze, la quale fu dallo accidente d’Arezzo, nel due, riordinata; e da
quel di Prato, nel dodici, disordinata (D I.2, 17-18; numerazione mia).
Già in D I.2 Firenze non è una città del tutto corrotta (caso 4).
Se Sparta fu baciata dalla fortuna ricevendo Licurgo (caso 1), Roma
(caso 2) e Firenze (caso 3) furono più sfortunate, ma non del tutto,
perché ebbero il principio buono, cioè libero, solo in grado diverso
(cfr. D I.18, 112). Ciò consentì a Roma di giungere, con un percorso
aleatorio in cui rispose con virtù al caso, all’ordine perfetto, mentre
portò Firenze all’instabilità.
Va infine evidenziato che, per Machiavelli, fondatore e legislatore
non necessariamente coincidono come in Licurgo; a Sparta come a
Roma e a Firenze il caso fu tra i fondatori, pur non essendo legislato-
re (idea che si trova anche in P VI, 115). Se poi Sparta ebbe un solo
legislatore, Roma ne ebbe molti, ma non per questo non raggiunse
una sua perfezione. In sintesi, in casi fortunati ci può essere un solo
legislatore, ma non c’è mai un solo fondatore, perché la fortuna gioca
sempre un ruolo determinante, anche se non esclusivo: la virtù, infatti,
è il principio che, affrontandola, può contribuire a dirigere il corso
degli eventi nella direzione desiderata.
Si tratta, dunque, ora, di esaminare come Machiavelli descriva la
combinazione di virtù e fortuna all’interno della storia politico-istitu-
zionale di Firenze.