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VISIONI ERETICHE / 8

Collana diretta da Carlo Formenti

Guglielmo Carchedi (Università di Amsterdam), Nancy Fraser (The New School, New
York), Marco Clementi (Università della Calabria), Vladimiro Giacché (presidente del
Centro Europa Ricerche), Collettivo Ippolita, Manolo Monereo (deputato di Podemos),
Pier Paolo Poggio (direttore della Fondazione Luigi Micheletti), Onofrio Romano
(Università di Bari), Alessandro Somma (Università di Ferrara), Wolfgang Streeck
(Università di Colonia)
Andrea Zhok

Critica della ragione liberale


Una loso a della storia corrente
Meltemi editore
www.meltemieditore.it
redazione@meltemieditore.it

Collana: Visioni eretiche, n. 8


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In copertina: immagine di Giorgio Perich


Sezione prima
Genealogia del capitalismo
e della ragione liberale

1. Introduzione: apogeo o capolinea?


Cercar di comprendere le tendenze di fondo di un processo storico
entro cui si è collocati è un’operazione complessa, rischiosa, ma
nondimeno eticamente necessaria. Il periodo storico in cui si trovano
collocati lo scrivente e il suo cortese lettore è generalmente riconosciuto
come un periodo informato da una prospettiva ideologica liberale e da un
indirizzo economico capitalista. Gli ultimi dieci anni dello scorso
millennio sono apparsi ai più come gli anni del trionfo del liberalismo e
del capitalismo, in Occidente prima e poi sulla strada dell’espansione
planetaria. Oggi, a quasi tre decenni di distanza, quell’apogeo potrebbe
sembrare un capolinea, un punto terminale, che mostra punti di frattura e
crisi diffuse, e dove la stessa (recente) supremazia del modello
liberalcapitalistico occidentale viene messa in discussione. Se questi venti
di crisi annuncino un capovolgimento storico, e se sì, di quale natura, è
per noi impossibile da determinare, e l’esibizione di facoltà profetiche non
è tra le ambizioni di chi scrive. Ciò che però si può, e anzi si deve tentare,
è una comprensione delle faglie apparenti nel contemporaneo modello
liberal-capitalista, a partire da un’identi cazione della sua essenza storica.
La maggiore dif coltà nell’uso di termini come “liberale” e “capitalista”
sta nella loro sostanziale ubiquità. Almeno in Occidente è arduo trovare
istanze etico-politiche che non si dicano in qualche modo “liberali”, e
ordinamenti socio-economici che non si dicano in qualche modo
“capitalisti”. Questi termini sono perciò dif cili da maneggiare proprio
per la loro diffusione tanto sulle bocche dei sostenitori che dei detrattori:
come l’aria che respiriamo sono dif cilmente identi cabili proprio per la
loro onnipresenza. Pochi potrebbero contestare che l’attuale storia
occidentale (e in seconda battuta la storia globale) sia tributaria a processi
che hanno preso le mosse dall’imporsi di una visione liberale, e pochi
potrebbero contestare che gli ultimi decenni siano inquadrabili in una
storia segnata da processi “neoliberisti” (o “neoliberali”). La principale
dif coltà qui non è convincere della plausibilità di queste idee, quanto di
sostanziarle con un chiaro contenuto che non suoni logoro, stantio o
retorico.
Come cercheremo di mostrare, la vaghezza semantica di queste
espressioni, e in particolare del termine “liberale”, rappresenta uno dei
maggiori ostacoli a sviluppare una discussione che non sia super ua o
stancamente elogiativa (“siamo tutti liberali, complimentiamoci l’un
l’altro”). L’intento del presente lavoro è innanzitutto quello di spostare la
discussione sul liberalismo dal piano tradizionale della storia delle
dottrine politiche a quello della loso a della storia. Ciò che ci preme
esaminare è il senso del movimento storico associato alla nascita e
diffusione delle prospettive liberali, mentre ci interessa poco
l’enumerazione esaustiva di tutte le elaborazioni che a vario titolo possono
esser dette “liberali”. L’ampiezza, vaghezza e multiformità delle tesi
ascrivibili a qualche titolo a un’ispirazione liberale tende a occultare quel
nucleo storico del “liberalismo reale” che ha rappresentato la cellula
generativa e il propellente delle maggiori trasformazioni degli ultimi tre
secoli, nel bene e nel male. Il nostro interesse va tutto all’identi cazione di
questo nocciolo di ef cacia storica, che non include tutto ciò che a vario
titolo è stato messo sotto il cappello “liberale”. Esiste una linea di
sviluppo centrale che si è tradotta gradualmente in istituzioni,
comportamenti, pratiche sociali, costumi, sistemi economici,
manifestando sempre più nettamente il proprio carattere di fondo:
identi cheremo questa linea fondamentale con l’espressione “ragione
liberale”.
Nelle pagine che seguiranno, dopo una premessa metodologica,
procederemo con un tentativo di individuare una genealogia delle
motivazioni di lungo periodo sfocianti nella nascita della visione liberale
(capp. 3-8). Nella seconda sezione (capp. 9-10) identi cheremo il nucleo
teorico di ciò che chiameremo “ragione liberale” e che si sovrappone
originariamente con ciò che va sotto il nome di “liberalismo classico”.
Nella terza sezione (capp. 11-15) esamineremo il passaggio storico in cui il
liberalismo classico si innesta nel nuovo modello economico
“neoclassico”, fornendo alle forme argomentative della ragione liberale
una nuova ef cacia, con pretese di “scienti cità”. Nella quarta sezione
(capp. 16-19), cercheremo di chiarire il rapporto storico complesso tra la
formazione dello Stato moderno, la sovranità democratica, e la
maturazione della ragione liberale. Questo rapporto richiede un’analisi a
parte in quanto la confusione circa i rapporti tra Stato e mercato da un
lato, e democrazia e “società civile” (la bürgerliche Gesellschaft di Hegel)
dall’altro è stata all’origine di molti fraintendimenti contemporanei.
Le ultime due sezioni coprono più di metà del testo e si dedicano a
un’analisi delle espressioni della ragione liberale nella contemporaneità. La
quinta sezione (capp. 20-25) prende in esame alcuni meccanismi
strutturali portati alla luce dalla ragione liberale; si tratta di
implementazioni socio-economiche che producono sistematicamente
processi degenerativi sul piano etico, assiologico, psicologico, sociale,
politico e ambientale. In questa sezione si faranno emergere le ragioni di
fondo all’origine di un’ampia parte delle tendenze disgregative del mondo
contemporaneo, dalla crisi dell’identità personale a quella delle identità
collettive, dal degrado della politica come funzione pubblica a quello degli
equilibri ecologici. La sesta sezione (capp. 26-30) si dedica in maniera
analitica a esaminare le modalità ideologiche, spesso inconsapevoli, in cui
l’egemonia della ragione liberale trova espressione nel mondo
contemporaneo. Questa è la sezione destinata probabilmente a sollevare
più controversie, in quanto il carattere egemonico della ragione liberale da
un lato ha “santi cato” alcune istanze, ponendole virtualmente al di là
della “contendibilità” e dall’altro ha creato potenti meccanismi a loro
difesa. Verranno qui sottoposti a critica gli stilemi del naturalismo
scienti co e quelli del postmodernismo loso co, l’impianto giusti cativo
del “discorso sui diritti umani” e quello del second-wave feminism, il
moralismo “politicamente corretto” e l’immoralismo postumanistico.
Per intendere le argomentazioni di questo lavoro bisogna tenerne fermo
l’intento sistematico, unitario – che peraltro si radica in un retroterra di
analisi particolari dispiegatesi in lavori precedenti1. Intendere questa o
quella critica particolare come estemporanea ed estrapolabile dal contesto
argomentativo, crea le condizioni per un fraintendimento. Al ne di
rendere la lettura utile anche per chi poi ritenga di contestarla, è
opportuno accostarsi a queste pagine avendo chiaro il senso complessivo
dell’analisi. Come verrà ribadito in più punti, non si tratta mai di
esprimere una critica liquidatoria forfettaria di tendenze culturali che
hanno avuto, e continuano ad avere, ampio seguito. Si tratta invece di
mostrare come tali tendenze (in forme e misure molto variabili) siano
abitate inconsapevolmente da istanze della ragione liberale, istanze che si
sono appropriate nel tempo di propositi spesso condivisibili, conferendovi
però una forma peculiare e altamente problematica. Come sempre accade
quando si cerca di affrontare in modo critico un’egemonia culturale
consolidata, che ciò possa suscitare un congruo grado di irritazione è da
mettere in conto. Ma questo è un rischio naturalmente connesso a ogni
prestazione di tipo ri essivo che non si limiti a essere innocua o
ridondante.

2. Nota metodologica di loso a della storia


La storia non è mai, né può mai essere, un resoconto di tutto ciò che è
accaduto. Essa è sempre una selezione, non arbitraria ma altamente
restrittiva, di ciò che riteniamo sia obiettivamente accaduto, letto
attraverso la chiave di lettura di ciò che per noi oggi è rilevante. Questa
fondamentale “impurità” della storia rispetto a valori e interessi è anche
ciò che la rende fonte di ispirazione e guida nell’azione a venire.
La storia che ci interessa ora raccontare è una storia speciale, una storia
che ci metta in grado di trovare orientamento nella selva dei dilemmi
politici ed etici del nostro tempo. Non abbiamo ambizione né di
esaustività, né di piena acribia, né di compiuta fondatezza. Ciò che
desideriamo proporre è soltanto un quadro narrativo di massima,
empiricamente fondato, e capace di identi care una linea di sviluppo
profonda nella storia occidentale, una linea capace di illuminare la nostra
posizione nella storia contemporanea.
Per capire il senso di una “storia loso ca”, come quella che andiamo a
esporre è utile svolgere un parallelismo con il modo in cui si strutturano
azioni ed eventi nelle storie personali. Nella Storia, come storia universale
(Weltgeschichte), proprio come nelle nostre storie personali, come
narrazioni esistenziali, due componenti di fondo sono essenziali: la
motivazione e la determinazione.
La sfera della motivazione è quella dei bisogni, delle volontà, delle
esigenze che muovono gli uomini. La sfera motivazionale non è
“teleologica”, nel senso di mirare a una speci ca condizione nale (in ogni
caso non lo sappiamo). Essa è però una dimensione telica, cioè rivolta
verso nalità future che incarnano valori presenti, nalità dei cui
particolari prendiamo coscienza strada facendo.
La sfera della determinazione è invece quella de nita dalle condizioni
pregresse sulla cui base ogni azione motivata ha luogo. Tali determinazioni
sono precondizioni limitanti di natura ambientale e materiale (clima,
risorse disponibili, infrastrutture ecc.) e di natura sociale (usi, costumi,
abiti collettivi, ideologie, religioni ecc.).
Ogni azione storica, dunque, esprime nalità, indirizzandosi a
condizioni ritenute di valore per l’agente, e lo fa presupponendo
determinazioni passate; e realizzandosi pone a sua volta determinazioni da
cui si dispiegheranno le azioni successive. Nella storia le determinazioni
non sono mai cause necessitanti (determinazione non è determinismo), ma
circoscrivono spazi di maggiore o minore possibilità ( no al caso limite
dell’impossibilità). Questo signi ca che nel dispiegarsi degli eventi, in una
storia personale così come nella Storia universale, libertà e necessità
convivono in una forma speci ca. Ogni agente ha davanti a sé una
pluralità di opzioni, ma mai un’in nità arbitraria di opzioni, giacché le
determinazioni pregresse pongono limiti al proprio spazio di possibilità
reali. Al tempo stesso, ogni realizzazione (l’esito di un’azione) produce
una variazione, rilevante o trascurabile, negli spazi di possibilità
disponibili per le azioni successive. Questo signi ca che certe azioni, certi
obiettivi e modi di vita, in certi momenti storici sono senz’altro impossibili
perché le determinazioni passate non ne hanno aperto lo spazio (e questo
è il senso della necessità). Ma signi ca anche che la concatenazione delle
azioni nel tempo può aprire spazi di possibilità oggi inattingibili, e questa
è l’essenza della libertà storica.
Nella storia umana oltre alle condizioni ambientali, la componente
cruciale nel de nire gli spazi di possibilità dell’azione è data dagli abiti
collettivi, in cui rientra tutto ciò che chiamiamo “cultura”. In questo
variegato ambito si danno sia le pratiche sociali che funzionano
“automaticamente”, senza consapevolezza teorica (le “competenze
lavorative”, la “buona educazione” ecc.), sia quelle che si nutrono di tale
consapevolezza (teorie, ideologie, visioni del mondo).
Tutta l’analisi a seguire sarà un tentativo di ricostruzione storica di
quell’intreccio di motivazioni e determinazioni che ci ha condotto
all’inquietante spazio di possibilità che il mondo contemporaneo ci
riserva. In questo processo non si tratterà mai di rintracciare un “destino
segnato”, perché la storia non è il luogo del destino, e non si tratterà
neppure di rintracciare “colpevoli”, come se esiti storici problematici
potessero essere semplicemente ascritti a scelte personali arbitrarie (e
magari “malvagie”). Libertà e determinazione convivono costantemente
nei processi storici.

3. Genealogie della ragione liberale


Il quasi mezzo secolo che ci separa dai primi anni ’70 del Novecento è
stato variamente rappresentato come trionfo, realizzazione, culmine o
apogeo della cultura liberale (o almeno di un suo nucleo quali cante). In
questa prima sezione del testo cercheremo di fornire una ricostruzione
dello sviluppo storico che porta a tale successo. Per orientarci in questo
compito giustapporremo brevemente due prospettive, molto note e molto
diverse, che si sforzano di identi care origini e tendenze di fondo del
modello liberale e della sua implementazione capitalistica.
3.1 La genealogia del trionfo liberale in Fukuyama
Nel 1992, quasi a suggello loso co del crollo del muro di Berlino
(1989), usciva un libro di Francis Fukuyama, dal titolo The End of History
and the Last Man2. In questo fortunato volume il politologo americano
cercava di tracciare un quadro di loso a della storia di sapore hegeliano
in cui la liberaldemocrazia occidentale e il sistema capitalistico apparivano
come culmine, punto terminale e compimento della storia occidentale,
vista a sua volta come punta avanzata e rappresentante della storia umana
tutta. Il progresso scienti co, il progresso delle libertà umane nella forma
liberaldemocratica, e il progresso economico si sarebbero dunque uniti in
una forma ottimale, di cui non era propriamente concepibile un
superamento, ma solo eventuali af namenti o regressi.
Ora, il testo di Fukuyama è stato variamente criticato sia per una certa
approssimazione nelle analisi storiche, sia per la sbrigatività di diversi
giudizi storico- loso ci. Tuttavia, al netto di tali difetti, l’audacia un po’
temeraria della sintesi di Fukuyama ha anche pregi che non vanno
sottovalutati. Ciò che colpisce il lettore di quel testo è la sicurezza (o forse
sicumera) con cui la ricostruzione storica si dipana, così da leggere lo
sviluppo storico come un tutto convergente in un presente ottimale. A ciò
contribuisce la percezione diffusa, nel momento in cui l’autore scrive, del
trionfo nale del “modello capitalista” con il venir meno dell’impero
sovietico. Su queste basi Fukuyama promuove la sua visione dello
sviluppo della società occidentale e della storia universale, in quanto
culminanti nel moderno progetto liberaldemocratico. Egli rintraccia due
sorgenti distinte di questo sviluppo. Da un lato lo sviluppo tecnologico e
scienti co, che matura con l’imporsi dei canoni della scienza moderna nel
XVII secolo, e che egli identi ca come radice del modo di produzione
capitalistico. Il capitalismo sarebbe in sostanza semplicemente la forma di
organizzazione produttiva scienti camente più ef ciente, che attraverso la
razionalizzazione dei processi produttivi, l’organizzazione scienti ca della
divisione del lavoro, e l’applicazione della tecnologia, perviene a un
sistema capace di soddisfare al meglio i bisogni e desideri dei più3.
Tuttavia, tale sviluppo, eminentemente tecnocratico, del capitalismo non
veicola di per sé le caratteristiche delle moderne liberaldemocrazie. Ciò
che manca è una speci ca matrice democratica, giacché sul piano
dell’ef cienza economica una base democratica non è indispensabile al
sistema di produzione. Perciò Fukuyama, riprendendo ri essioni
hegeliane, identi ca un secondo aspetto di lungo periodo nell’evoluzione
occidentale moderna, ovvero la “lotta per il riconoscimento”4. Il moderno
successo del modello liberaldemocratico sarebbe perciò dovuto al
con uire di due istanze con origini differenti: da un lato la ricerca di
ef cienza nel soddisfacimento dei bisogni, garantita dalla scienza e dalla
tecnologia moderne, e dall’altro la ricerca di riconoscimento reciproco tra
individui, soddisfatto da istituzioni democratiche.
In questo quadro sarebbero numerosi gli interrogativi che potrebbero
sorgere a cui Fukuyama non dà risposte. Ci si potrebbe chiedere se la
“lotta per il riconoscimento” debba avere necessariamente esiti di tipo
egalitario, visto che l’esigenza di riconoscimento è antropologicamente
ubiqua, mentre la democrazia è stata per la stragrande parte della vicenda
umana una forma istituzionale ignota. O si potrebbe chiedere se la
“ef cienza” ascritta al sistema capitalistico sia tale in confronto a chi, e in
rapporto a quali ni, viste le ricorrenti crisi nanziarie, le diseguaglianze
perduranti, la disoccupazione o malaoccupazione strutturale ecc. Qui
però non vogliamo dare seguito a simili interrogativi. Ci interessa soltanto
prendere la sintesi, ambiziosa quanto problematica, di Fukuyama come
una prima base di confronto per mettere ordine nella questione
dell’origine e del dominio storico della forma socioeconomica liberale.
Gli argomenti che Fukuyama solleva nel testo non sono argomenti
originali, ma fanno parte di una vulgata sull’essenza storica del
liberalismo, politico ed economico, che in modo asistematico compare in
numerosi autori e in moltissimi resoconti del Novecento. L’idea di un
progresso che uni chi scienza, politica ed economia in un’armonia
vincente è tutto meno che una proposta teorica inedita, ma il maggior
pregio di Fukuyama sta in ciò che è anche il suo maggior difetto, ovvero la
schematicità un po’ ingenua con cui dispone tutti i tasselli in maniera che
sfocino nell’Occidente liberale contemporaneo, come “migliore dei mondi
possibili”5, da estendere globalmente. L’identi cazione di due linee
motivazionali così nette (ricerca di ef cienza e ricerca di riconoscimento
interpersonale), e di due ordinamenti istituzionali capaci di soddisfarle
(tecnocrazia capitalistica e istituzioni democratiche), presenta un quadro
interpretativo schematico, ma suggestivo.
Nello stesso torno d’anni in cui Fukuyama andava presentando il
liberalismo americano come culmine insuperato della storia, muovevano i
primi passi le contestazioni antiglobaliste. Da allora sono passati
trent’anni e, allo sfumare delle velleitarie proteste no-global, sono
subentrate in molti paesi occidentali ben più strutturate rivendicazioni di
matrice “populista”. Il venir meno dell’avversario storico, cioè del
comunismo come prospettiva politicamente realizzata, ha accelerato
processi di critica interna alle liberaldemocrazie, che erano in corso da
tempo, e oggi ci troviamo di fronte a una crisi apparentemente profonda
del modello liberale.
Ma nonostante la crisi, il modello liberale sembra aver acquisito una
dimensione talmente egemonica da non consentire neppure di
immaginarne un superamento, e in ciò l’ingenua apologetica di Fukuyama
continua a rappresentare una pietra di paragone importante.
3.2 La genealogia del trionfo liberale in Foucault
Una prospettiva genealogica alternativa a quella americanocentrica
fornita da Fukuyama è fornita dal celebre corso al Collège de France di
Michel Foucault su La naissance de la biopolitique6. Questo corso,
uf cialmente inteso a tratteggiare il senso del concetto di “biopolitica”, ha
per suo oggetto principale la nascita e lo sviluppo storico del “pensiero
liberale”, cioè di quel pensiero che allora, a ne anni ’70, si stava
imponendo di nuovo come istanza teorica e politica dominante.
Foucault rintraccia due principali linee ascendenti che de niscono
l’origine del liberalismo: da un lato l’evoluzione del diritto pubblico e dei
diritti dell’individuo, e dall’altro l’emergere di una nuova razionalità di
matrice utilitarista e scienti ca, che con uisce nella moderna scienza
economica. Queste due linee, tuttavia, non hanno per Foucault la
medesima dignità, e per quanto esse si intreccino costantemente, è la
seconda, legata all’evoluzione del pensiero economico, ad avere la chiara
priorità7.
Il liberalismo si presenta ai suoi occhi essenzialmente come principio di
limitazione del governo, come arte del governo che limita la sovranità
statale8. Ma ciò che caratterizza il carattere propriamente liberale di
questa limitazione è il fatto di non rifarsi a concetti di giustizia o verità
trascendenti, non a idee di legittimità o giustizia divina, bensì a un
principio di ef cienza immanente alla pratica di governo stessa, il
principio del mercato9.
Nella prospettiva di Foucault il liberalismo emerge come un “regime di
verità”, cioè come una rottura storica che porta alla luce un intero sistema
di nuove possibilità di argomentare, un sistema di pratiche che portano
all’esistenza e rendono veri cabile qualcosa che prima non esisteva
affatto10. È un elemento caratterizzante del pensiero di Foucault il fatto di
concepire l’emergere di tali “regimi di verità” come “iati irrazionali”,
fratture di cui è inutile cercar di rintracciare una logica generale (e
dunque analizzarli sulla base di generali “motivazioni umane” e di
“determinazioni storiche”).
L’origine del liberalismo secondo Foucault è da collocarsi
sostanzialmente tra la pubblicazione del Tableau économique di Quesnay
(1758) e quella della Ricchezza delle nazioni di Adam Smith (1776). Al
centro del liberalismo classico stanno in effetti categorie che conducono
innanzitutto alla tutela dei diritti indispensabili per il funzionamento del
libero scambio commerciale, a partire dal diritto di proprietà. Le “libertà
personali”, spesso invocate come matrice del liberalismo, comparirebbero
secondo Foucault come una sorta di sottoprodotto del processo
produttivo: il sistema economico per essere ef ciente “consuma” alcune
libertà, come quelle di commercio, di iniziativa, e anche di parola, e perciò
anche si fa carico di produrle11.
Il cosiddetto “liberalismo classico” (Locke, Adam Smith) è ciò che
Foucault identi ca come nucleo centrale del pensiero liberale nel suo
insieme. Dopo la Seconda guerra mondiale i principi del liberalismo
classico si svilupperanno nelle forme dell’ordoliberismo e del
neoliberismo, modi candosi12. Nel neoliberismo il privilegio delle virtù
del libero scambio, tipico del liberalismo classico, viene a essere
soppiantato dal privilegio conferito all’ideale della concorrenza perfetta13.
L’analisi del neoliberismo e del suo formarsi attraverso il con uire di due
tradizioni economico-politiche (quella dell’ordoliberismo tedesco e quella
della scuola di Chicago) occupa una parte consistente della discussione
foucaultiana, che sfocia in ne nel tema vero e proprio della “biopolitica”.
In prima battuta, per biopolitica Foucault intende una tendenza alla
razionalizzazione delle pratiche di governo attraverso l’applicazione
sistematica delle categorie dell’ef cienza economica14. Tale
razionalizzazione, tuttavia, si applica a ogni ordinamento sociale e umano,
non limitandosi a una “sorveglianza esterna”. È perciò che Foucault si
sofferma a lungo sull’idea di capitale umano: l’uomo non appare più come
un agente nel sistema economico, ma viene letto come un fattore di
produzione da ottimizzare, un capitale da coltivare e far fruttare15.
L’Homo Oeconomicus è un massimizzatore razionale che, nell’ottica
ordoliberale, viene letto come “imprenditore di se stesso”16. Biopolitica è
dunque la politica economica che si appropria della vita umana e delle sue
espressioni, concependole come aspetti subordinati del proprio
funzionamento.
Secondo Foucault, in conclusione, il liberalismo non ha mai potuto
essere una teoria coerente e unitaria, essendo nato empiricamente come
pratica governamentale, e speci camente come una pratica critica della
tradizionale sovranità statale, volta dapprima a limitarne il potere, e in ne
a porre in dubbio la stessa necessità dello Stato17.
4. Il “liberalismo reale” e le origini del capitalismo
I due autori che abbiamo brevemente richiamato tratteggiano due forme
possibili di identi cazione dell’“essenza” del liberalismo. In entrambi i
casi si parte non da de nizioni o principi, ma dal dispiegarsi di forze
storiche, con particolare attenzione agli eventi che preludono all’egemonia
neoliberale degli ultimi decenni. Entrambi riconoscono nel liberalismo il
con uire di almeno due linee di sviluppo, una legata alla sfera dei diritti
individuali e delle libertà personali, e l’altra all’evoluzione dei meccanismi
economici capitalistici. Il nesso tra queste due istanze è presentato come
piuttosto accidentale, anche se in Foucault tale accidentalità è mitigata
dalla subordinazione sostanziale della prima sfera alla seconda. Mentre
Fukuyama tenta una lettura di lungo periodo, richiamandosi a motivazioni
antropologiche fondamentali, l’approccio di Foucault privilegia l’idea
dell’emergere non ulteriormente razionalizzabile di un nuovo “regime di
verità”, di pratiche sociali nuove e irriducibili alle pratiche precedenti.
Sulla scorta di questa problematizzazione introduttiva possiamo tentare
di ssare qualche prima idea come base per ulteriori approfondimenti.
Il termine “liberalismo” è notoriamente un designatore ambiguo, incerto
e vago. Il liberalismo, diversamente da altre in uenti visioni del mondo,
come il cristianesimo, il buddismo o il marxismo, non ha avuto un
capostipite riconosciuto che ne de nisse il perimetro ortodosso. Si tratta
di un termine che compare all’inizio del XIX secolo per raccogliere a
posteriori in una comune “tradizione” autori e posizioni che
precedentemente non si sapevano “liberali”. Questa vaghezza semantica
sta all’origine del fatto che possano essere considerati rappresentanti
legittimi del pensiero liberale tanto Friedrich von Hayek che John
Maynard Keynes, John Rawls e Robert Nozick, Spinoza e Hume, Herbert
Spencer e John Stuart Mill, Jeremy Bentham e Bernard Bosanquet,
Ludwig von Mises e Benedetto Croce ecc. Chi percepisca la vastità di
terreno coperta da questi autori capisce immediatamente come sia
davvero arduo escludere qualcosa da una qualche accezione del “pensiero
liberale”. Il liberalismo come “unità di pensiero” è un vastissimo insieme
con “somiglianze di famiglia” interne spesso a malapena rilevabili. In
buona sostanza qualunque tesi che non supporti una versione stereotipata
dell’Ancien Régime (trasmissione ereditaria o consuetudinaria di potere
assoluto) può essere ospitata sotto l’ombrello liberale, sotto questo o
quell’aspetto, da questo o quell’autore. In questo senso una de nizione
lologicamente precisa del “liberalismo” appare come un’impresa
disperata e sostanzialmente inutile, diventando quasi sinonimo di
“pensiero moderno” (esclusi tutt’al più gli autori che si dichiarino
espressamente antiliberali).
Per identi care il senso della “ragione liberale” nel modo più coerente
con la storia del concetto si deve procedere a ritroso dagli esiti,
ricostruendone la genealogia. Questo è in effetti il procedimento usato sia
da Fukuyama che da Foucault: prendendo atto che l’epoca
contemporanea in Occidente è stata vista come progressivo imporsi di una
visione di impronta liberale, possiamo provare a isolarne alcuni tratti di
fondo, e poi risalire alla loro genesi. Se ciò cui siamo di fronte è il
“liberalismo reale” (di contro a vari “liberalismi” vagheggiati), allora
possiamo cominciar a dire, sulla scorta degli autori citati, che di esso
fanno parte almeno due tratti di fondo: 1) un manifesto individualismo
normativo e assiologico; 2) una visione delle relazioni sociali strutturata
intorno all’idea dello scambio economico. Questi sono elementi di base su
cui i nostri due autori concordano, pur divergendo su molto altro.
Quanto al punto 1), l’individualismo in questione si esprime nel
supporre l’esistenza di diritti soggettivi, diritti inerenti a ciascun individuo
per il fatto stesso di esistere, a prescindere dal contesto storico e sociale in
cui vive (diritti umani, diritti naturali). In parallelo, emerge la centralità
dell’idea di libertà personale come esenzione, come non interferenza
rispetto a coazioni gerarchiche o condizionamenti sociali. Queste idee,
come vedremo, si radicano nell’assunto che non esistano valori obiettivi
cui doversi sottomettere, e che in ultima istanza il luogo dei giudizi di
valore sia la sfera insindacabile del foro interiore.
Quanto al punto 2), la principale relazione sociale che viene teorizzata
come contributo originale è quella dello scambio autointeressato,
implementato nell’istituzione cruciale del “mercato”. L’innovazione
prospettica della ragione liberale consiste nel presentare i rapporti sociali
sotto la forma preferenziale di interazioni tra individui separati, con le
proprie agende private, agende che nella relazione di scambio economico
cercano appagamento.
Non vi è dubbio che, storicamente, tutto ciò che chiamiamo “pensiero
liberale” si sia sviluppato in stretta connessione con lo sviluppo dei
“sistemi di mercato” e di ciò che abbiamo imparato a chiamare
“capitalismo”. Il capitalismo, come sistema di produzione rivolto alla
riproduzione e all’incremento del capitale, prende piede in parallelo con
l’ascesa della “ragione liberale”, e questi due elementi tendono a
svilupparsi parallelamente anche in realtà dove entrano come
importazioni dall’Occidente (ad esempio nel Giappone dopo la Seconda
guerra mondiale).
L’imporsi odierno della ragione liberale non può essere letto dunque in
modo disgiunto dall’imporsi del capitalismo come sistema di produzione,
cui dobbiamo guardare per de nire una genealogia della ragione liberale.
Il tema della nascita del capitalismo e del suo sviluppo si intreccia con la
narrazione del predominio acquisito negli ultimi secoli dal mondo
occidentale rispetto ad altre civiltà, non meno antiche e feconde. Anche se
oggi questa posizione dominante è messa fortemente in discussione, un
esame del percorso che ha condotto alla vittoria iniziale in Europa del
modello capitalistico rimane fondamentale per chiarirne la natura.
Quando si discute di “origini del capitalismo” la tendenza più frequente
è quella di ricercare analogie e af nità tra dinamiche che oggi
riconosciamo come capitalistiche, e dinamiche remote e talvolta esotiche.
Così, possiamo rintracciare gli albori delle “capitalizzazioni monetarie”
nell’uso della moneta scritturale mesopotamica, o la prima forma di
“mercato internazionale” nell’Egeo dominato dalla dracma ateniese del V
secolo a.C., o ancora le fondamenta del capitalismo nanziario nelle
banche italiane del Rinascimento, o le basi del capitalismo commerciale
nel successo mercantile olandese del XVII secolo. Questi e altri processi
possono tutti essere considerati prodromi del capitalismo moderno, ma
dif cilmente valgono come suoi esempi. Quella speci ca divergenza di
sviluppo, con accelerazione della crescita economica e demogra ca, che
riconosciamo come capitalismo occidentale prende forma in
concomitanza con la Rivoluzione industriale inglese. Aumenti di
produttività signi cativi non sono registrati prima della seconda metà del
XVIII secolo e una divergenza economica rispetto a paesi come la Cina
diviene percepibile solo all’inizio del XIX secolo18. Dunque quando
parliamo di “origini del capitalismo” ciò che dobbiamo valutare è
quell’insieme di condizioni peculiari che si presenta innanzitutto
nell’Inghilterra del XVIII secolo. Se prendiamo sul serio questo approccio
vediamo subito come resoconti “monocausali” della nascita del
capitalismo siano del tutto implausibili.
L’idea che all’origine ci sia semplicemente un’accumulazione originaria di
capitale, ad esempio, è del tutto insuf ciente. Accumuli rilevanti di
capitale, anche in forma monetaria, sono stati disponibili più volte nella
storia precedente, ad esempio nelle città del Rinascimento italiano.
Similmente, l’idea che all’origine vi sia il semplice venire meno delle
pastoie feudali, con l’imporsi di un sistema di liberi scambi tra agenti
economici è inadeguata. Tanto l’Italia rinascimentale che l’Olanda del
Seicento presentavano sistemi di libero scambio che non erano più
subordinati al vecchio controllo feudale, e tuttavia in entrambi i casi
mancarono aspetti cruciali del capitalismo.
Non possiamo qui svolgere una disamina analitica delle discussioni
intorno alla “nascita del capitalismo”. Focalizzando su quegli aspetti
caratterizzanti della Rivoluzione industriale, che troveranno conferma
nella successiva diffusione europea e americana, vogliamo invece
enucleare senz’altro quattro fattori essenziali che, per consenso comune,
convergono nella nascita di tale sistema economico-sociale:
1) Empiricamente, alle origini europee del “capitalismo” troviamo
innanzitutto una peculiare legittimazione dell’agire individuale, sottratto
alla cornice dei vincoli feudali. Questo tratto esprime in effetti una
tendenza di lungo periodo, speci ca della cultura europea, e visibile sin
dall’antichità greco-romana. L’uscita dal Medioevo implica una ripresa di
vigore di questa dimensione umanistica e individuale, regredita dopo la
caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Sul piano teorico tale tendenza
troverà una cornice giusti cativa in autori considerati oggi capostipiti del
pensiero liberale, in particolare in giusnaturalisti come Hobbes e Locke, e
nel fondatore dell’economia moderna, Adam Smith. La nuova
legittimazione dell’iniziativa individuale si innesterà in modo cruciale nel
nuovo sistema di mercato, con la libertà individuale di intraprendere,
scambiare, accumulare e investire. Questa nuova dimensione di scambi
volontari tra individui interessati al proprio pro tto innesca un processo
di dinamizzazione produttiva, illustrata nella sua forma classica dalle
pagine di Adam Smith.
2) Strettamente connesso al primo tratto, ma da esso storicamente
indipendente, è il funzionamento di un’ef ciente pratica monetaria, in
grado di sostenere gli scambi individuali in forma sistematica. In assenza
di denaro, o anche semplicemente in mancanza di forme monetarie
ef cienti, nessun capitalismo è possibile. Per ragioni che vedremo,
l’evoluzione dell’individualità occidentale e quella della pratica monetaria
sono corse spesso in parallelo, tuttavia si tratta di due sviluppi di fatto e di
diritto indipendenti. L’unione di questi due aspetti è stato considerato,
anche alla luce della Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith, come una
fondamentale chiave di lettura delle origini del capitalismo. Quest’unione
con gura una sostanziale sovrapposizione tra libertà personale e libertà
economica che ha avuto grandissima rilevanza per come il capitalismo ha
interpretato se stesso.
3) Un terzo tratto che è necessario menzionare è la rivoluzione
tecnoscienti ca, maturata indipendentemente dallo sviluppo economico, e
che precede di circa un secolo l’avvio della Rivoluzione industriale. Di
fatto il capitalismo moderno, quel sistema che si imporrà, anche in forma
coloniale e imperialista, in gran parte del mondo conosciuto, è legato in
modo fondamentale all’aumento di produttività procapite derivante
dall’introduzione di macchinari, oltre che alla nuova razionalizzazione
scienti ca del processo di lavoro, culminata nel taylorismo. Questo
aspetto è anche il punto di divergenza decisivo tra il “protocapitalismo”
commerciale dei Paesi Bassi del XVII secolo e il capitalismo vincente
dell’Inghilterra del secolo successivo.
4) In ne alle radici del moderno capitalismo liberale sta anche
l’esistenza di un capitale sociale e istituzionale consolidato, ovvero di uno
Stato capace di far rispettare leggi e contratti all’interno, e di difendere i
propri commerci all’esterno. Né la ricchezza delle città italiane del
Rinascimento, né quella delle città anseatiche sfociarono in un sistema
pienamente capitalistico, rimanendo in entrambi i casi legate a una
dimensione di mero arricchimento commerciale. L’incapacità delle città
italiane di costituire uno Stato mise la ricchezza commerciale dei banchieri
italiani alla mercé di potenze istituzionalmente più mature. Tanto l’Italia
che la Germania dovettero attendere i processi ottocenteschi di
riuni cazione nazionale per avviare la piena industrializzazione della loro
economia. Oltre che al consolidamento di un vasto mercato interno, lo
Stato fu indispensabile nella difesa degli interessi nazionali all’esterno. La
potenza navale inglese era una realtà prima della Rivoluzione industriale, e
successivamente giocò un ruolo cruciale nell’estensione della potenza
economica britannica conquistando risorse e mercati in punta di
baionetta, secondo un modello di intensa collaborazione tra Corona e
impresa privata (si pensi alla Compagnia delle Indie Orientali).
È la convergenza di questi quattro momenti, ciascuno a suo modo
capace di incrementare le forze sociali e produttive disponibili, a
caratterizzare quello sviluppo socioeconomico che ha caratterizzato il
mondo occidentale negli ultimi due secoli, estendendosi nella seconda
metà del XX secolo a gran parte del mondo. Questa dinamica non può
essere presentata come un semplice accidente, un caso fortunato, ma al
contempo non bisogna frettolosamente dichiararne la necessità. Nei
paragra che seguiranno proveremo innanzitutto a risalire alle origini di
ciascuna di queste linee di sviluppo: l’emergere della dimensione della
libertà individuale, l’evoluzione del medio monetario, lo sviluppo della
tecnoscienza, e il consolidarsi della forma Stato. Quest’analisi di tipo
genealogico ci deve aiutare a portare alla luce quanto di “necessario” vi sia
nella realtà del capitalismo liberale odierno, e quanto invece possa essere
considerato come una soluzione accidentale, tra altre possibili.

5. Genealogia dell’individualità
Che lo sviluppo delle società occidentali abbia fatto posto precocemente
per un peculiare riconoscimento della dignità individuale è stato rilevato
innumerevoli volte. Ne erano consapevoli i Greci dell’Atene periclea,
quando contrapponevano la democrazia greca alle autocrazie orientali, e
ne era consapevole Hegel due millenni più tardi, quando caratterizzava il
mondo moderno, “cristiano-germanico”, come mondo in cui, idealmente,
“tutti sono liberi”, in opposizione alle oligarchie prevalenti nell’antichità
classica e ai dispotismi del mondo orientale.
Quali siano le ragioni di questa peculiarità è oggetto di molteplici analisi
e speculazioni, di cui non daremo qui conto19. Ci limitiamo a proporre
senz’altro la chiave di lettura che ci sembra più convincente, e che
abbiamo preso in considerazione in lavori precedenti. Si tratta di una
chiave di lettura che, diversamente da altre interpretazioni disponibili,
non ricerca come origine una qualche accidentale “decisione culturale”
(ad esempio l’idea del valore dell’anima individuale nel cristianesimo), ma
si concentra sulla costituzione cognitiva dell’individuo.
Ora, l’emergere di una visione che riconosce autonomia e piena dignità a
individui concepibili in modo indipendente dalla loro comunità di
riferimento è un processo storicamente cruciale, associato con la storia
culturale europea. Troviamo una fase ascendente di questa legittimazione
dell’individualità nella Grecia classica e nel mondo romano, una sua
ritrazione con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente e l’imporsi
dell’ordinamento feudale, un suo riemergere con l’Umanesimo e il
Rinascimento, e un’ulteriore accelerazione dal XVIII secolo a oggi.
Per comprendere come si sia potuto con gurare questo consolidamento
della dimensione individuale, che a noi oggi appare come un’ovvietà
pressoché indegna di spiegazione, bisogna innanzitutto chiedersi come si
costituisce un individuo in senso antropologico primario. Ciascun soggetto
diviene un individuo nel momento in cui diviene un soggetto ri ettente,
cioè un soggetto consapevole di sé e della propria distinzione dal mondo
circostante e dagli altri. La soggettività capace di ri essione consiste, dal
punto di vista dei suoi “contenuti di pensiero”, di forme dialogiche comuni
introiettate. Il soggetto individuale viene cioè alla luce come dialogo
interiore (il “dialogo muto dell’anima con se stessa”) e può sviluppare tale
facoltà interiore solo in stretta contiguità con altri parlanti del proprio
intorno. In assenza di un apprendimento del linguaggio non si ha accesso
alle facoltà ri essive. Con l’apprendimento del linguaggio un soggetto si
appropria di una concettualità e anche dello spettro di ragioni che sono
legittimate all’uso nel proprio ambiente20.
Fatta questa premessa proviamo a immaginare come poteva esprimersi
un’esistenza individuale in un qualunque contesto “arcaico”, ad esempio
nelle città greche del periodo omerico. In queste realtà urbane, e a
maggior ragione in realtà minori come i villaggi rurali, ogni individuo
poteva esistere come tale nella sola dimensione del riconoscimento
personale di prossimità, ovvero in quanto le sue parole e azioni erano
rispecchiate e giudicate dal proprio intorno sociale. In questa situazione,
af ne a quella che noi tutti esperiamo nell’infanzia, lo spazio
dell’individualità è in primo luogo quello delle esigenze e dei bisogni
corporei, e in seconda istanza quello dell’approvazione o disapprovazione
di chi ci sta attorno.
Questo non signi ca che il soggetto ri ettente sia un mero “specchio”
del proprio intorno sociale. Non lo è per due ragioni di fondo: in primo
luogo perché il linguaggio, appreso dal contesto prossimale, non è un
“meccanismo” che detta il pensiero. Il fatto che la “materia prima”
intorno a cui si costituisce la soggettività autoreferenziale (l’individuo) sia
il linguaggio non signi ca che un individuo pensi “quello che gli detta il
linguaggio”: il linguaggio è un ordinamento produttivo, “poietico”,
capace di generare il nuovo incardinandosi nell’esperienza prelinguistica.
In secondo luogo, la speci cità organica di ciascun individuo biologico
fornisce proprie peculiari spinte teliche, spinte a interessi e passioni
proprie. Dunque anche in un contesto intersoggettivo arcaico, in una
cultura orale e prossimale, una forma di individualità già sempre esiste:
esiste una soggettività che ha proprie esigenze e che può elaborare idee
ulteriori rispetto a quelle ricevute in formazione.
Tuttavia sotto quelle condizioni storiche lo spazio che de nisce i limiti
dell’individualità personale è e resta quello del riconoscimento altrui, e in
una dimensione di esperienza orale questo spazio di riconoscimento è
quello della vicinanza spaziale e temporale. Esigenze personali ed
eventuali idee nuove hanno una possibilità reale di concretizzarsi soltanto
nel momento in cui vengono riconosciute e approvate dal gruppo sociale
di riferimento. Esigenze percepite come attualmente “irragionevoli”, o
idee incomprensibili o riprovevoli per i propri riconoscitori personali non
possono consolidarsi in comportamenti, non possono essere sostenute,
condivise, trasmesse. Questo signi ca che, per quanto l’individuo abbia
sempre un’autonomia dal gruppo, in un contesto arcaico esso non può
mai discostarsene in modo netto, giacché da esso dipende la sua esistenza
morale e materiale come individuo. Questa condizione di “comunitarismo
strutturale” ha caratterizzato la stragrande parte della storia dell’Homo
sapiens.
5.1 La mente alfabetizzata
Tra il VI e il V secolo nella penisola ellenica, in Asia Minore e nelle isole
greche comincia a maturare quella straordinaria ef orescenza culturale da
cui trae ancor oggi linfa la cultura europea, e mondiale. Questa svolta
accade in concomitanza con il diffondersi della prima forma di scrittura
alfabetica pura. Sarebbe sciocco attribuire senz’altro a questa nuova
tecnica di scrittura l’esplosione del genio greco, tuttavia non è neppure
possibile sottovalutare l’impatto avuto da questa invenzione. L’alfabeto
greco, infatti, ha alcune caratteristiche inedite nella storia. Come osservato
dagli studiosi “oralisti” (Eric Havelock21, Walter Ong22, Jack Goody23)
l’ingresso dell’alfabeto nel novero delle pratiche comunicative rappresenta
una rivoluzione nella costituzione stessa delle “menti” di coloro i quali ne
fanno uso. La scrittura alfabetica, infatti, diversamente dalle scritture
logogra che (ideogrammi, gerogli ci) o sillabiche (hiragana e katakana
giapponesi, lineare B micenea) combina economicità e essibilità.
L’alfabeto è molto più facile da apprendere rispetto alle scritture
logogra che, dove una buona competenza richiede l’apprendimento di
migliaia di segni, e anche rispetto ai sillabari, che richiedono più di cento
segni, peraltro di solito integrati con logogrammi. Inoltre l’alfabeto è
particolarmente essibile, in quanto consente di registrare espressioni
verbali nuove (neologismi) e con ciò concetti nuovi. Nel caso dei
logogrammi l’introduzione di espressioni nuove richiede invece qualcosa
di simile a una riforma della lingua e non può avvenire dunque per
iniziativa “dal basso”, ma richiede un accordo uf ciale, l’istituzione di una
nuova convenzione. Un caso prossimo a quello alfabetico, anche se non
pienamente sovrapponibile, è quello degli “alfasillabari”, come la
devanagari indiana e, in altra forma, il cosiddetto “alfabeto aramaico”
(discendente da quello fenicio). In questi casi ci si ritrova ad aver a che
fare con un numero contenuto di segni, non diversamente dall’alfabeto
greco, ma di fatto questi sistemi di scrittura non rappresentano singoli
“atomi sonori” come l’alfabeto, ma sillabe sui generis24. Ciò rende, di
fatto, queste scritture interpretabili solo con l’uso di una pluralità di
espedienti disambiguanti, come segni diacritici e/o con una precedente
conoscenza del contesto in cui il testo compare. Si tratta dunque di forme
di scrittura piuttosto essibili (capaci di registrare novità), ma di
apprendimento assai più complesso rispetto all’alfabeto greco.
Le peculiari caratteristiche di essibilità ed economicità dell’alfabeto
greco da un lato ne resero l’uso comparativamente molto più accessibile
(il suo apprendimento non richiedeva una “specializzazione
intellettuale”), e dall’altro esso era capace di registrare e trasmettere a un
lettore distante (nel tempo o nello spazio) eventuali innovazioni
semantiche, espressive, speculative. Questa combinazione di “accessibilità
democratica” e “ essibilità semantica” consente un fondamentale
spostamento nella sfera di riconoscimento interpersonale, e dunque nella
percezione dell’individualità propria e altrui. Il pensiero in qualunque sua
forma, da quella quotidiana a quella poetica, da quella loso ca a quella
tecnica, ora non ha più bisogno per “avere realtà” di ricevere l’immediato
riconoscimento del proprio intorno sociale. Ora diviene concretamente
possibile registrare il nuovo e anche l’eccentrico, il controintuitivo, il
complesso, con dando nella possibilità che, anche se esso non verrà
immediatamente assimilato, potrà comunque essere assimilato in seguito.
Non solo, diviene possibile anche per il soggetto solitario confrontarsi nel
tempo con se stesso, con le proprie idee passate, senza dover passare
subito attraverso l’apprensione e interpretazione altrui.
Sul piano dello sviluppo e del riconoscimento dell’individualità, ciò
signi ca che ora la componente di innovazione e iniziativa individuale
acquisisce margini di autonomia straordinari. Anche l’individuo
relativamente isolato, relativamente minoritario, relativamente eterodosso
può diventare portatore di valore sociale. In un certo modo la vicenda
della condanna di Socrate appare come l’emblema di questa
trasformazione. Socrate, portatore di forme di pensiero innovativo ed
eterodosso, entra in collisione con il senso comune del periodo e con le
autorità che lo custodiscono tradizionalmente. Ciò gli costa la condanna
come “corruttore dei giovani”, condanna che in epoche passate gli
sarebbe valsa l’oblio, ma che ora, grazie alla scrittura del suo allievo
Platone, diviene la mossa inaugurale di una nuova epoca. Socrate, il
pensatore che conosce la scrittura, ma che non lascia nulla di scritto,
diviene il “santo protettore” del pensiero critico nei millenni a venire.
Qui è importante notare come l’esistenza di una “tecnica esteriore”
come la scrittura alfabetica permetta alla mente individuale di rimodulare
le proprie potenzialità non solo cognitive, ma anche etiche e politiche.
Diviene possibile costruire nel tempo, e per progressi registrabili, un
pensiero complesso o una visione non ovvia, e quest’operazione può
essere svolta da un singolo individuo che ritorna sui propri pensieri. Il
dissenso momentaneo ora non implica né censura, né discredito, perché si
moltiplicano esempi di giudizi che si consolidano e mutano nel tempo:
possibilità data esclusivamente dalla capacità della scrittura di registrare e
rielaborare il medesimo contenuto in tempi diversi. Ciò nisce per
incidere sul modo in cui pesano i giudizi su soggetti estranei: il fatto che al
momento presente io, o il mio gruppo, non comprenda le ragioni altrui
non signi ca immediatamente che le ragioni altrui siano squali cate. Si
impara (gradualmente) a sospendere il giudizio su ciò che in prima istanza
non si comprende. Questa mediazione nel giudizio esprime le condizioni
di possibilità di ciò che poi sarà la “tolleranza” liberale.
5.2 L’accelerazione moderna
Il ruolo giocato dalla scrittura alfabetica greca nel favorire l’esplosione
culturale della Grecia classica è facilmente comprensibile. Che le
speci cità di tale esplosione non siano semplicemente dettate dalla
disponibilità dell’alfabeto è parimenti chiaro: basti pensare a quali effetti
culturali differenti ebbe l’ingresso dell’alfabeto in altri contesti storici.
Anche guardando al solo mondo latino, si osserva come la creatività
culturale di Roma, dopo l’accesso alla scrittura alfabetica, si concentrò sul
diritto e, in parte, sulla letteratura, limitandosi a importare i modelli greci
in altri campi.
Tuttavia le forme di produzione e riproduzione della conoscenza scritta
rimasero legate alla pratica artigianale della scrittura su pergamena, papiro
o cera. Per questo motivo, con la crisi dell’organizzazione statale romana e
il conseguente rarefarsi dei mezzi sici per l’esercizio della scrittura, la
pratica della scrittura alfabetica regredì a una dimensione marginale,
coltivata prevalentemente dai chierici, nel contesto protetto di monasteri e
abbazie. Con essa regredì anche la legittimazione sociale dell’autonomia
individuale, che nel millennio medievale ripresenta stilemi arcaici.
Con il progressivo consolidarsi della realtà urbana, in particolare in
Italia, nel basso Medioevo, anche i margini di espressione della libertà
individuale riprendono a crescere. Per quanto alcune celebrazioni
dell’“individualismo” rinascimentale, come La civiltà del Rinascimento in
Italia di Jacob Burckhardt, siano oggi riconosciute più come narrazioni
suggestive che come disamine pienamente af dabili, tuttavia è vero che
l’uscita della cultura scritta dall’ambito ecclesiastico si riverberò in una
nuova legittimazione dell’iniziativa individuale.
L’accelerazione decisiva di questo processo avvenne tuttavia con
l’invenzione della stampa a caratteri mobili da parte di Johannes
Gutenberg, nel 1455. L’unione della essibilità della scrittura alfabetica
con il nuovo processo di stampa seriale produsse un balzo decisivo nel
potere diffusivo della cultura scritta. È appena il caso di menzionare
l’impatto straordinario che avrà la stampa sulla capacità di trasmettere
fedelmente e cumulare la conoscenza: non soltanto rapidità e precisione
delle riproduzioni aumentano in modo esponenziale, ma l’abbinamento
nella stampa della scrittura alfabetica e di mappe, piante, disegni tecnici
produce un salto di qualità di cui la nascente scienza moderna si gioverà
in modo rimarchevole25.
Tuttavia la svolta più profonda e ricca di implicazioni per gli sviluppi
della ragione liberale non avverrà in Italia, bensì nel Nord Europa. La
Riforma protestante, la cui data convenzionale di nascita è il 1517, con
l’af ssione delle 95 tesi di Lutero, creerà il terreno per una visione
complessiva del mondo e dell’umanità in cui l’irriducibilità della coscienza
individuale si troverà in un’inedita posizione centrale. Il nesso tra nascita
del Protestantesimo e disponibilità della scrittura è noto e cruciale. Nel
Protestantesimo due fattori giocarono un ruolo formativo fondamentale
per le popolazioni che vi aderirono: la lettura ed esegesi diretta dei testi
sacri, e il ri uto dell’intermediazione ecclesiastica rispetto a questioni
soteriologiche (salvezza dell’anima individuale). Porre al centro di una
dottrina rivolta al popolo nella sua interezza la lettura diretta della Bibbia
è qualcosa che non sarebbe stato neppure concepibile senza una scrittura
facilmente accessibile, e senza la diffusione testuale di cui era capace la
stampa. Ora il singolo individuo, nel suo foro interiore, e in un confronto
diretto con la “voce di Dio” che gli parla attraverso una pagina scritta, è
chiamato a de nire i giudizi terreni di bene e male, giusto e ingiusto.
Questo spostamento ha due implicazioni di lungo periodo.
Da un lato esso contribuirà alla creazione di quell’etica protestante che
Weber rintraccerà alle origini dello “spirito del capitalismo”26. La lettura
weberiana di questo nesso notoriamente si focalizza sul fatto che una
speci ca componente protestante, quella calvinista, vedeva nel successo
economico il segno tangibile della benevolenza divina (della “grazia”).
Senza sottovalutare questo nesso, è però forse più utile sottolineare un
secondo aspetto. La visione protestante operava come “correttivo” etico
rispetto a un individualismo economico che non aveva bisogno di
particolari spinte religiose per mettersi in moto. La prospettiva
protestante toglieva di mezzo il giudizio ecclesiastico come fattore di
condizionamento morale dell’iniziativa individuale e al tempo stesso
creava le condizioni per un “individualismo timorato di Dio”, cioè per un
individualismo che “si fa degli scrupoli” e che fa resistenza
all’immoralismo spesso connesso alla liberazione di istanze puramente
individualistiche. In sostanza la visione protestante crea un terreno dove
l’iniziativa individuale non può essere censurata da terzi (e in questo senso
è autonoma), ma dove essa al contempo ha un solido senso religioso del
bene e del male (è morale). La combinazione di questi due fattori sarà
decisiva nel costruire il retroterra sociale della Rivoluzione industriale
inglese.
La seconda implicazione dell’innovazione teologica protestante consiste
nella creazione di un nuovo spazio per la dignità dell’individuo. Se è vero
che già nel cristianesimo preluterano (e nell’ebraismo) le sorti dell’anima
individuale erano al centro dell’interesse religioso, nella prospettiva
protestante l’anima individuale viene letteralmente innalzata senza
mediazioni al cospetto di Dio. La mossa di Lutero di neutralizzare
l’autorità delle gerarchie ecclesiastiche, mettendo l’individuo e Dio in un
ideale contatto diretto, ha come implicazione collaterale quella di rendere
concepibile l’isolamento etico dell’individuo dalla sua comunità. Questo
passaggio giocherà un ruolo fondamentale nella nascita del pensiero
liberale proprio nell’Inghilterra e nella Scozia protestanti.
5.3 La mente individuale e i suoi limiti
Il quadro sommariamente delineato da queste considerazioni
genealogiche mira a mostrare due cose. Da un lato bisogna tener fermo
che l’individualità è e non può che rimanere strutturalmente una funzione
intersoggettiva. L’individuo non è il singolo corpo individuale in un certo
spazio-tempo. Questo può essere un concetto di individualità valido per
una de nizione degli oggetti sici, ma l’individualità personale è una
funzione relazionale che dipende dal riconoscimento altrui. Ne dipende
quanto alla genesi, giacché l’autocoscienza ri essiva emerge solo a partire
dall’ingresso nella sfera del linguaggio comune. E ne dipende quanto alla
persistenza nel tempo, giacché il soggetto ri ettente viene orientato nelle
sue scelte dal gioco, immediato o mediato, dei riconoscimenti
intersoggettivi. Concepire il soggetto individuale come un atomo isolato è
una nzione falsa persino nei casi più gravi di disturbo della personalità27.
Che la soggettività individuale abbia un’esistenza ineludibilmente
relazionale non signi ca, naturalmente, che la sfera intersoggettiva sia una
sfera di “buoni sentimenti”. Ciascun individuo è condizionato e mosso
tanto dall’amore e dall’empatia che dall’ambizione, dall’emulazione, dalla
vanità, dalla gelosia, dalla vergogna ecc. Non si tratta qui di de nire una
natura umana buona o malvagia, ma semplicemente di comprendere come
ciascuna persona individuale esista come nodo relazionale mobile, non
come atomo. In ciascun individuo esiste una sfera desiderativa radicata
nella speci ca realtà biologica di quel corpo individuale, che la rende
irriducibile a ogni altra persona individuale; tuttavia questo radicamento
corporeo viene tradotto sin dai primi mesi di vita in un sistema di ragioni
e motivazioni intersoggettivamente valide. Dunque, la dimensione
individuale, pur non essendo mai riassorbibile integralmente in una
dimensione collettiva, non può nemmeno mai distaccarsene del tutto.
A partire da queste premesse si comprende come operi l’adozione di
una pratica di scrittura capace di registrare e rispecchiare il pensiero
verbale. Si tratta di un passaggio che amplia enormemente i nessi di
riconoscimento, allontanando nel tempo e nello spazio i “riconoscitori”
che de niscono ciascuna persona come l’individuo che è. Al posto
dell’interazione dialogica immediata possiamo trovare operazioni come la
lettura di un romanzo, dove ciascun soggetto viene in contatto con
frammenti signi cativi di una personalità altrui, e interagendo con essi
modula le proprie credenze e aspettative. Al contempo il lettore si
concepisce come “scrittore ideale”, come qualcuno che può lasciare dei
segni, con dando nella loro permanenza e disponibilità per altre
coscienze a venire.
Per molti secoli la scrittura alfabetica ha rappresentato l’unica forma di
rappresentazione materiale del pensiero personale, anche se in tempi
recenti abbiamo moltiplicato le forme di mediazione attraverso media
digitali che consentono combinazioni espressive multimediali. Tuttavia è
abbastanza chiaro come la comunicazione scritta rimanga centrale e
inaggirabile, per quanto integrabile con immagini, lmati ecc.
Sintetizzando, si può dire che la disponibilità della scrittura alfabetica (e
poi di altre scritture fonetiche) abbia portato alla luce una forma di
individualità che diviene capace di conservare un’identità stabile con una
riduzione drastica dei contatti personali immediati. Gli spazi di
indipendenza e autonomia delle istanze dell’individuo si sono perciò
ampliati in modo peculiare. L’individualità che viene così al mondo non è
stata “creata” dal nulla dalla disponibilità della scrittura. Tuttavia non è
neppure corretto dire che essa “esisteva da sempre” e che era, per così
dire, semplicemente in attesa di un’occasione per venire alla luce. La
scrittura consente l’espressione di istanze individuali preesistenti, e crea
poi una retroazione che aumenta la mutua irriducibilità degli individui.
Così, il divario tra retroterra culturali, anche tra parlanti di una stessa
lingua in una medesima area geogra ca, è immensamente più ampio tra
lettori piuttosto che tra menti abituate alla sola oralità: le esperienze
accessibili a due lettori separati, per quanto geogra camente e
linguisticamente prossimi, sono molto più varie e numerose di quelle
accessibili a due soggettività orali geogra camente e linguisticamente
prossime.
La mente alfabetizzata si diffonde in quanto consente al soggetto un
accesso potenziato all’esperienza, accesso che si converte in una potenziale
superiorità cognitiva. Collateralmente a questo aumento comparativo di
potere dell’individuo si veri ca una crescita della sua autonomia mentale,
che dunque cerca riconoscimento come mente autonoma, cioè cerca
maggiore libertà. Questa tendenza, si consoliderà sul piano teorico nel
dispiegarsi storico del pensiero liberale.

6. Genealogia della tecnoscienza


Il secondo fattore che abbiamo visto convergere nel moderno dominio
della ragione liberale è dato dallo sviluppo della tecnoscienza. Abbiamo
usato, e continueremo a usare, l’espressione “tecnoscienza” come
equivalente di “scienza naturale” per ribadirne il tratto più fondamentale
e caratterizzante. Ciò che caratterizza speci camente la scienza naturale
moderna non concerne il mero rivolgersi alla “natura”, bensì il suo mirare
a una forma di dominio causale (tecnico) sui processi naturali. A tale
dominio ha contribuito in modo fondamentale la “svolta quantitativa”
avvenuta nella scienza naturale a partire dal XVI secolo. La ripresa
rinascimentale del pensiero classico, greco-romano, e poi l’accelerazione
nella trasmissione dei saperi, consentita dalla stampa a caratteri mobili
della scrittura alfabetica, avevano avviato un intenso processo di
“razionalizzazione” loso co-scienti ca in tutta Europa. È sulla scorta di
questo retroterra che si colloca, a cavallo tra XVI e XVII secolo, la
cosiddetta “rivoluzione scienti ca”.
6.1 Concetti portanti della rivoluzione scienti ca
Per quanto la rivoluzione scienti ca non si riduca certo all’innovatività
galileiana, nella vicenda di Galileo sono compendiati tutti gli snodi
concettuali fondamentali per comprendere tale passaggio. Tali snodi
concettuali sono riassumibili nei seguenti quattro momenti28:
1) Analiticità.
La scienza moderna sposta l’asse del proprio oggetto di interesse
rispetto alle ambizioni della scienza aristotelica. Non si tratta più di dare
priorità alla conoscenza del mondo come totalità, ma di dominare
analiticamente speci ci fenomeni. Questo è il punto che porrà Galileo in
rotta di collisione con la Chiesa di Roma e la sua cosmologia. Galileo
infatti rivendicherà il diritto di stabilire la veridicità di certi fenomeni e
certi nessi causali senza doversi occupare di come, o se, essi si concilino
con l’immagine complessiva, politico-teologico-cosmologica, che la Chiesa
supportava.
2) Manipolazione causale.
Nel passaggio dalla priorità della sintesi (tipicamente teologica e
loso ca) a quella dell’analisi gioca un ruolo fondamentale l’idea di
controllo causale e dunque della ripetibilità dei fenomeni. Qui si scorge
l’af nità della nuova scienza con le nalità tecnologiche che in precedenza
venivano spesso coltivate senza la dignità di “sapere scienti co”. Galileo è
un “tecnico”, capace di produrre artigianalmente un cannocchiale e di
fondare la balistica a ni militari. Ma è un “tecnico” che ha una
concezione ontologica della natura, tale da collocare la manipolazione
tecnica in continuità con la scientia classica. Lo strumento concettuale che
associa queste due istanze è il metodo sperimentale, in cui singoli processi
vengono isolati dalla realtà complessiva, sottoponendoli a reiterazione, in
modo da consolidare il nesso tra premesse causali e conseguenze.
3) Matematizzazione.
In questo esercizio di analisi rivolto al controllo di processi naturali è
indispensabile concepire i processi naturali stessi come qualcosa di
intrinsecamente prevedibile. Questo comporta dal punto di vista
operativo l’introduzione di misure replicabili dei fenomeni, e dal punto di
vista teorico l’imporsi di una visione del mondo come entità
matematizzabile (il “gran libro della natura scritto in caratteri
matematici”). La matematizzazione della natura riguardava inizialmente la
sola astronomia, che insieme ad aritmetica, geometria e musica
componevano nel Medioevo il quadrivium. La rivoluzione scienti ca
comporta un’estensione progressiva dei modelli matematici a tutta
quell’area di fenomeni “sublunari” che tradizionalmente risultavano
troppo “irregolari” e “approssimativi” per essere ricondotti a
formulazione geometrica o a computazione aritmetica.
4) Obiettivismo.
Tutto ciò sfocia in una radicale trasformazione della “natura”, che
diviene qualcosa di storicamente inedito: essa viene concepita come un
“oggetto totale”, come una “cosa” governata da leggi matematiche
necessarie. Questo passaggio in Galileo si incarna nell’idea, condivisa con
Cartesio e con uno dei padri nobili del liberalismo, John Locke, che il
mondo consista di una realtà autentica, nascosta ai sensi, e di una realtà
apparente, accessibile ai sensi soggettivi. Questa è la nota distinzione tra
“qualità primarie” e “qualità secondarie”. Questa inversione paradossale
del senso comune è di straordinaria importanza per comprendere la
natura della scienza moderna e il tipo di visione che, quando essa si
autointerpreta come tesi ontologica, tende a promuovere. Il mondo dotato
di colori, sapori, direzioni, memorie e aspettative è derubricato a illusione,
o ad apparenza interiore per una mente individuale. Di contro a ciò
esisterebbe un mondo reale, autentico, che però può essere catturato
soltanto accedendo a un linguaggio peculiare, quello delle matematiche. Il
punto cruciale qui consiste in un’operazione concettuale ambiziosa e
paradossale. Da un lato il soggetto come portatore di idee, norme, criteri e
valori viene espulso dall’ontologia, lasciando in sua vece una soggettività
individuale concepita come mero organismo accidentale. Si potrebbe
pensare che una volta tolta dal mondo autentico, dall’essere, la
soggettività normativa il mondo stesso dovrebbe in qualche modo perdere
di senso e unità. Ciò che però viene promosso è un passaggio diverso: con
l’intermediazione del concetto di Dio, si assume che la natura abbia delle
leggi, che l’uomo non può condizionare, ma solo scoprire. L’idea di legge
di natura include l’idea di una necessità con cui i processi sono
letteralmente obbligati a svolgersi, per seguire la volontà di Dio. Il mondo
diviene dunque un “grande oggetto” posto così da un soggetto divino, che
però viene immediatamente tolto anch’esso dal quadro, giacché le “leggi
di natura” vanno ora colte analizzando l’oggetto, la natura, e non
interpretando la parola di Dio.
Come abbiamo argomentato altrove29, in effetti, niente di simile a una
“legge di natura”, in senso propriamente normativo, può essere afferrato
attraverso il metodo scienti co. La vera funzione dell’idea di legge di
natura è quella di creare un ideale normativo da perseguire, un ideale
normativo che sottrae alla soggettività umana (o divina) ogni possibilità di
leggere la dimensione valoriale dell’umano nella natura. Come è chiaro, il
lato positivo di questa mossa consiste nel contenere la tendenza a
spiegazioni di tipo teleologico o antropomor co. Ciò comporterà un
aumento straordinario del potenziale predittivo della scienza moderna
rispetto ai suoi antecedenti. Al tempo stesso in questi passaggi si nasconde
un’insidia possibile, che vedremo emergere dall’incontro del moderno
modello scienti co con peculiari istanze politiche.
6.2 Il ruolo della scrittura numerica alle origini della tecnoscienza
Per dare ragione della svolta nella matematizzazione delle scienze
naturali è necessario fare un piccolo passo indietro. La scienza antica non
ha mai avuto la tentazione di “matematizzarsi” per molti motivi, ma
principalmente perché era indisponibile una matematica che potesse
assumersi tale onere30. Il mondo greco sviluppa la geometria a un livello
rimarchevole, ma non esiste un’algebra degna di questo nome. Questo
perché la scrittura numerica greca non ne consentiva l’elaborazione. Nel
mondo greco, infatti, come poi nel mondo romano, i numeri erano
rappresentati da lettere e funzionavano secondo un principio “additivo”:
le lettere stanno per numeri e il numero totale viene ottenuto per
addizione (o sottrazione) di tali numeri. Così, ad esempio,
centocinquantasei in numeri romani diviene la composizione additiva di C
+ L + V + I (CLVI). Questo sistema di numerazione è sostanzialmente una
notazione abbreviata della forma più elementare di numerazione, cioè
l’elencazione per successione. Il limite fondamentale di questa scrittura
numerica, rispetto all’uso odierno, sta nell’impossibilità di procedere a
forme di calcolo scritto “automatizzato”, come il calcolo “in colonna”.
Solo con l’introduzione della scrittura numerica posizionale divenne
possibile svolgere calcoli “per parti”, senza sovraccaricare la memoria.
I primi sistemi di numerazione sono sistemi di corrispondenza additiva,
dove ogni segno (ad esempio una tacca) è semplicemente un indice
dell’attività di contare. Questo sistema ebbe una prima evoluzione con
l’introduzione della base, ossia con il passaggio dopo un certo numero di
ripetizioni dello stesso segno a un segno differente, che sussume sotto di
sé la somma dei precedenti. Ad esempio, nella numerazione egizia, a base
decimale, no a nove si procedeva con trattini verticali, mentre il dieci era
rappresentato da un segno a ferro di cavallo, il cento con un segno a
forma di laccio ecc. Sono esistiti naturalmente sistemi con una base
differente da quella decimale: il sistema azteco era a base venti, quello
babilonese a base sessanta (sessagesimale). Nella matematica egizia, come
in quella babilonese, non abbiamo a che fare con un “sistema logico”;
l’esigenza di concepire la matematica come un sistema logico complessivo
apparirà solo nel mondo greco, realizzandosi solo per la geometria
(Euclide). In queste forme di matematica antica troviamo una prevalenza
di problemi singoli con relativa soluzione, e una trattazione del calcolo, ad
esempio delle frazioni, con metodi di soluzione particolari e asistematici:
ciò testimonia del senso operativo eminentemente pratico di questa
matematica31.
La matematica babilonese inaugura per prima un sistema di
numerazione posizionale, ovviando a quello che no ad allora era rimasto
un problema irrisolto, ovvero come segnare nelle “colonne” della
numerazione posizionale un’assenza (quello che poi sarà lo zero). Nel
sistema babilonese tuttavia questo segno non costituiva ancora una cifra a
sé stante, quanto piuttosto un espediente disambiguante. L’introduzione
dello zero fu faticosa e tutt’altro che ovvia, trattandosi di un segno che
contravveniva al signi cato originario del numero, come segno di rimando
a un ente esistente. L’introduzione dello zero come segno che non rinvia
più ad alcun esistente, consentirà tuttavia ai sistemi di calcolo posizionale
di fare un decisivo salto di qualità. Questo è il passaggio che ritroviamo
nella scrittura numerica indiana a partire dal V secolo d.C. La
numerazione indiana supera del tutto il valore additivo dei segni numerici.
Esso adotta un “alfabeto” numerico di dieci segni, dove ogni cifra indica
un valore differente: invece di III abbiamo 3, invece di IIIIII abbiamo 6
ecc. Questo solleva il lettore dei numeri dalla necessità di conteggiare le
unità durante il calcolo. Così facendo si raggiunge il sistema che, con
alcune varianti formali, adottiamo ancora oggi, dove è possibile una
rappresentazione compatta di cifre molto elevate e un calcolo spedito, con
limitato onere mnemonico (calcolo “in colonna”).
Il sistema di numerazione posizionale indiano, giunge in Europa intorno
al XII secolo attraverso il mondo arabo, e inizia a diffondersi all’inizio del
XIII secolo con il Liber Abaci di Leonardo Fibonacci. Fino al XVI secolo,
tuttavia, la cultura algebrica europea consiste sostanzialmente di una
ripresa e traduzione di quanto elaborato nei secoli precedenti dagli arabi.
La svolta nello sviluppo della matematica si ha in coincidenza con la
rivoluzione scienti ca e con l’idea, galileiana e cartesiana, di un’ontologia
a base matematica.
È in questo senso che, come scrive Eric Havelock, la nascita della
scienza moderna dipende essenzialmente “dagli effetti congiunti della
tecnica del sistema di numerazione indo-arabo e della tecnica dell’alfabeto
greco, moltiplicati dall’introduzione della stampa”32. La disponibilità di
alcune tecniche di mediazione del pensiero in forma scritta porta alla luce
una forma di ri essione analitica, causale, e obiettivante che in precedenza
non era accessibile.
7. Genealogia del denaro e del mercato
Il terzo fattore che con uisce in modo decisivo nel prender forma della
ragione liberale è naturalmente il capitale, ma non il capitale in una forma
qualsiasi, bensì il capitale che si costituisce come frutto dell’attività di
mercato. Quest’ultimo è capitale rappresentato in forma monetaria, cioè è
denaro, o un bene che ha un prezzo di mercato ed è trasformabile in
denaro. Denaro e mercato hanno una storia che corre in parallelo, e
tuttavia sono concettualmente separabili.
Il capitalismo non può esistere senza quella forma particolare di
ricchezza che è la ricchezza liquida, cioè il denaro. In un mondo senza
denaro, o dove il denaro ha un ruolo limitato, come ad esempio la Grecia
omerica, possono esistere differenze di ricchezza, ma esse rispecchiano
differenze di potere, e sono queste ultime a essere decisive. In assenza di
denaro, le differenze di potere sono differenze fondate sul riconoscimento
personale, che a sua volta deriva da forme di eminenza riconosciute in una
società: sul piano del valore bellico, della saggezza personale,
dell’in uenza spirituale, dell’onore famigliare ecc. I re greci di cui parla
l’Iliade sono socialmente superiori ai sudditi, ma la differenza di ricchezza
in senso stretto tra i vertici e la base della società è, per parametri odierni,
esigua. E tale ricchezza non gioca alcun ruolo come valore di scambio: si
tratta o di ricchezza terriera, o di “tesori” con valore onori co33. Monili e
bracieri bronzei appartenevano al “lusso” dei re, ma non avevano valore
di scambio, giacché non esisteva nessun mercato dove poterli scambiare.
Prima dell’introduzione di una qualche forma di moneta il potere
economico era un attributo collaterale del potere politico.
7.1 I prodromi funzionali del denaro: la riserva di valore
Il denaro nasce per ragioni di funzionalità, tuttavia nel denaro
con uiscono una pluralità di funzioni che nel tempo si sono presentate
separatamente. Esistono diverse classi cazioni delle funzioni del denaro,
ma sul piano dello sviluppo storico tre sole funzioni sono cruciali: la
riserva di valore, il medio di scambio, e l’unità di conto (o misura del
valore). Esaminiamole brevemente.
La funzione di “tesaurizzazione” e accumulo, che abbiamo detto essere
già presente nelle relazioni antiche tra potenti (re e nobili), è
probabilmente la più antica. Alcune derrate alimentari (come i cereali
secchi), il bestiame, la terra stessa, così come i gioielli, i metalli preziosi
possono rappresentare valore accumulato, tesaurizzato. Si tratta sempre di
valore d’uso, cioè di beni dotati di un’utilità autonoma, che sotto certe
condizioni possono anche rappresentare un antenato del “capitale”,
essendo beni cumulabili nel tempo. Molti beni utili sono deperibili, ma se
un bene perdura per un accettabile lasso di tempo senza deperire, esso
può fungere da riserva di valore. I beni che tradizionalmente incarnavano
la riserva di valore senza essere ancora denaro di solito non circolavano, e
conservavano un carattere qualitativo che li rendeva dif cilmente
commensurabili gli uni con gli altri.
7.2 Il medio di scambio
I mercati locali, nelle società antiche come nel Medioevo, avevano la
funzione primaria di luoghi di incontro dove le eccedenze della
produzione di sussistenza venivano scambiate. In assenza di sistemi di
distribuzione centralizzati, o di sistemi di mercato, non si produceva per
la vendita, ma per il consumo locale. Le eccedenze produttive che si
presentavano occasionalmente potevano essere portate in mercati locali o
ere per essere scambiate con eccedenze altrui. In questo contesto
l’esigenza di un medio di scambio risultava impellente: che un contadino
con un’eccedenza di patate e il desiderio di una coperta incontrasse un
tessitore con una coperta d’avanzo e il bisogno di patate poteva essere
solo una fortuita coincidenza. Venivano così a istituirsi provvisori medi di
scambio, nella forma di beni frequentemente richiesti. Nei mercati
babilonesi, ad esempio, le granaglie secche, in particolare l’orzo,
fungevano spesso da medio di scambio: qualunque bene poteva essere
venduto in cambio d’orzo e quell’orzo poteva poi acquistare altri beni.
Questa funzione di medio, di facilitatore dello scambio, e dunque
dell’incontro di “domanda” e “offerta”, è una seconda cruciale funzione
che ritroveremo nel denaro. Di per sé la mera funzione di medio di
scambio, per quanto importante, ha però limitazioni fondamentali che la
rendono insuf ciente a ricoprire la piena funzione monetaria. Il limite più
importante era dato dall’eterogenea pluralità dei beni che si erano imposti
spontaneamente come medi di scambio: essi restavano una molteplicità
non uni cabile sotto un medesimo valore. Ciò era dovuto sia al loro
imporsi spontaneo, non coordinato, sia alle rimarchevoli differenze di
valore tra tali beni: l’orzo poteva essere utilizzato per piccoli pagamenti,
ma per pagamenti di entità signi cativa risultava inutilizzabile in quanto
aveva un valore troppo scarso in rapporto al peso. In tali casi nei mercati
babilonesi si utilizzava polvere d’argento (alto valore in poco peso), o
anche capi di bestiame, che possedevano elevato valore in molto peso, ma
un peso mobile, in quanto capace di spostarsi da sé34.
7.3 L’unità di conto (o misura del valore)
La pluralità di medi di scambio di cui sopra manteneva gli antenati del
denaro in una dimensione qualitativa, che rendeva i valori economici
propriamente incommensurabili. A questo problema si pose rimedio con
l’introduzione convenzionale di un’unità di valore come standard di
misura. Storicamente il primo caso registrato è quello delle “banche-
templi” sorte in area mesopotamica. I sacerdoti che avevano anche il ruolo
originario di erogatori di prestiti (prevalentemente sementi) agli
agricoltori introdussero a un certo punto come unità di misura
standardizzata una certa quantità d’argento (il siclo), che divenne così
un’unità di conto in grado di rendere commensurabili le molteplici
ricchezze e i valori degli scambi. Va notato che i sicli d’argento rimasero a
tutti gli effetti unità di conto e di misura del valore, senza divenire mai
oggetti circolanti (medio di scambio), anche se l’argento veniva utilizzato
come medio in scambi di rilievo. Nel mondo mesopotamico troviamo per
la prima volta, in una forma ancora instabile, ma già ef cace,
l’uni cazione delle funzioni del denaro. Incidentalmente, il mondo
mesopotamico è anche il primo in cui emergono alcune delle dinamiche
che vedremo appartenere alle tendenze intrinseche del capitalismo. Da un
lato, questa è l’area del mondo dove iniziano a manifestarsi i primi
grandiosi accumuli di ricchezza (la ricchezza e il lusso proverbialmente
“orientali” che Greci e Romani non mancavano di stigmatizzare).
Dall’altro è anche il momento storico in cui compaiono le prime forme di
esclusione sociale radicale su base speci camente economica: la perdita
della libertà a causa di indebitamento fu un fenomeno di massa, acuto e
ricorrente, che minò periodicamente la solidità degli stati mesopotamici.
La gravità di questo fenomeno fu tale che venne istituzionalizzato l’uso
della “rottura delle tavolette”, ovvero dell’abolizione dei debiti pregressi
in occasione dell’ascesa al trono di un nuovo re35.
7.4 La nascita del denaro
La forma in cui le funzioni economiche di cui sopra con uiscono in
un’unica entità portando alla luce il denaro in senso proprio è il conio. La
prima moneta coniata inizia a circolare nell’Asia Minore greca e poi nelle
isole greche limitrofe: tra il 680 a.C. e il 665 a.C. troviamo moneta coniata
in Lydia (Mileto, Efeso) e poi a Chios, Samos, e in ne Egina (in prossimità
di Atene). È altamente probabile l’in uenza mesopotamica, ma qui si
raggiunge una sintesi speci ca, giacché la moneta è ora un singolo oggetto
che è al tempo stesso un’eccellente riserva di valore (fatto di metalli
preziosi poco deperibili), un medio di scambio (comodamente
trasportabile e generalmente accettabile), e un’unità di conto che permette
di comparare e calcolare i valori di beni qualitativamente differenti, e
anche di modulare la quantità di valore in unità frazionali.
È importante sottolineare come, mentre le funzioni da cui la moneta
emerge sono funzioni spontanee, che nella dinamica naturale degli scambi
tendono a materializzarsi, il conio sia un’operazione dall’alto, una
decisione politica. Nonostante l’idea di un emergere spontaneo del denaro
dalla “naturalità dello scambio” sia stata spesso perseguita, in chiave
antistatalista, sia di fatto che di diritto la moneta nasce come
un’operazione in cui la decisione politica rimane cruciale. La ragione del
conio, con simboli o con il volto del regnante, sta nella garanzia data dal
re che la quantità di metallo prezioso presente nella moneta sia quella
promessa. Infatti, in precedenza l’utilizzo concreto dei metalli preziosi
come medi di scambio era fortemente limitata dal rischio di
contraffazione dei materiali o di false misurazioni: era dif cile garantirsi
che la quantità di polvere d’oro, o il lingotto d’argento, oggetto di
transazione, fossero tutto oro o tutto argento. L’ef gie del conio era al
tempo stesso il segno di un controllo a monte da parte del responsabile
del conio, che spesso, letteralmente, “ci metteva la faccia”, ed era una
garanzia rispetto a riduzioni del metallo prezioso in corso d’opera
attraverso manomissioni della moneta. Logoramenti macroscopici della
moneta si sarebbero evidenziati con lo scomparire di parti riconoscibili
del disegno. Ciononostante i fenomeni di “limatura” delle monete furono
tutt’altro che rari, soprattutto in epoca tardoromana, ma in generale
l’ef ge rappresentava una buona garanzia dell’af dabilità della moneta.
Il conio, pur essendo la forma più facilmente riconoscibile della moneta,
non ne rappresenta in maniera ottimale le funzioni. Il conio riesce a
uni care ef cientemente le funzioni di riserva di valore, medio di scambio
e unità di conto, tuttavia presenta anche limitazioni in ciascuna di queste
dimensioni. In quanto ente materiale (pezzo di metallo prezioso) è
soggetto a logoramento e dunque è una riserva di valore buona, ma
imperfetta. In quanto oggetto sico dotato di massa presenta, per
transazioni cospicue, elementi di lentezza e ingombro (pensiamo ai
“forzieri pieni di monete” nel caso di transazioni di grande entità). In ne,
di nuovo le limitazioni siche dei materiali pongono anche limiti alla
funzione di unità di conto, in diversi modi: i limiti sia verso il basso che
verso l’alto al taglio delle monete ne limitano la precisione, e l’af darsi per
le transazioni allo scambio sico di oggetti materiali rende impossibile
segnare quantità negative (debiti)36. Tutte e tre queste limitazioni possono
essere idealmente superate quanto più il denaro perde la sua caratteristica
sica e si smaterializza. Di fatto il processo di smaterializzazione del
denaro è antico quanto il denaro stesso. Una forma di denaro che persino
precede il conio fu la forma di “denaro scritturale” delle banche-templi
mesopotamiche, dove i “sicli d’argento” rappresentavano unità di
computo del valore, consentendo la registrazione di alcune transazioni e
dell’accumulo di “capitale”37. Il denaro scritturale mesopotamico non
divenne mai denaro nel pieno delle sue funzioni perché la sua funzione di
medio di scambio era estremamente limitata, quasi nulla. Per giungere a
un fondamentale progresso nella “virtualizzazione” del denaro dobbiamo
arrivare alla nascita delle banche italiane nel Basso Medioevo, e alla loro
invenzione di nuovi strumenti nanziari tra cui la lettera di cambio, che
consentiva di ritirare denaro contante da una sede bancaria grazie a un
documento di credito rilasciato da una sede bancaria differente38. Il
passaggio successivo nel processo di virtualizzazione fu l’emissione di
banconote da parte di una banca centrale (Banca d’Inghilterra nel 1695),
anche se quelle banconote avevano più il carattere di assegni, che quello
delle odierne banconote utilizzate come medio di scambio. Per cominciare
ad avere moneta cartacea circolante dobbiamo attendere la prima parte
del XIX secolo, dagli assignat imposti dalla Rivoluzione francese alle
prime banconote stampate e standardizzate dalla Banca d’Inghilterra nel
1855. L’ultima fase di evoluzione del denaro è quella avvenuta con la
creazione della “moneta legale” ( at money), che consta di denaro che
non soltanto non ha più valore materiale in sé (diversamente dalle monete
di metallo prezioso), ma non è neppure convertibile in metallo prezioso
(moneta duciaria). La pura moneta legale è moneta convenzionale,
garantita legalmente dallo Stato emittente e dalla sua banca centrale. Il
passaggio massiccio e sostanzialmente planetario alla moneta at è
avvenuta in tempi molto recenti, con l’uscita degli USA dagli accordi di
Bretton Woods nel 1971. Da quel momento in poi il denaro diviene
essenzialmente ed esclusivamente una scrittura contabile garantita da stati.
Questa trasformazione terminale del denaro realizza una tendenza che era
implicita sin dalla sua origine: esso scompare come entità materiale e
diviene un simbolo disincarnato che rappresenta potenziali atti di
compravendita. Questo processo di virtualizzazione ha trovato la sua
incarnazione ideale nella trasformazione della “scrittura monetaria” in
“moneta elettronica”, che sopprime anche il problema della
trasportabilità di supporti cartacei.
7.5 Le origini del denaro e del mercato
Le teorie liberali sulla natura del denaro, da Menger a Hayek,
propugnano l’idea di un denaro che nasce spontaneamente dal basso sulla
scorta delle esigenze dello scambio, poste come antropologicamente
originarie. Qui c’è un fondo di verità, con alcune inesattezze decisive.
Secondo il più noto modello di nascita spontanea del denaro, quello
proposto da Carl Menger, il denaro verrebbe alla luce attraverso un
processo di progressiva selezione dei medi di scambio. L’idea, in parte
presentata più sopra, è che in un’economia di baratto alcuni soggetti si
recherebbero in occasionali mercati locali per scambiare le proprie
eccedenze di produzione con qualcosa di utile. Ma l’incontro tra domanda
e offerta, tra ciò che veniva offerto da un soggetto e ciò di cui egli aveva
bisogno, sarebbe qui un evento raro: bisogna incontrare qualcuno che
abbia bisogno proprio di ciò di cui sia ha eccedenza, e che abbia in
eccedenza proprio ciò di cui si ha bisogno. Secondo Menger in una
situazione del genere è normale che un soggetto acconsenta a scambiare
quello che ha con qualunque merce “generalmente desiderabile”,
aumentando così le proprie possibilità di giungere a uno scambio
soddisfacente. Secondo Menger, questo processo porterebbe alla luce
progressivamente un singolo medio di scambio prevalente, che si
imporrebbe come moneta39.
Questo modello di nascita spontanea del denaro, per quanto molto
celebre, venne alla ne respinto dallo stesso Menger40. In effetti, non solo
non vi sono esempli cazioni storiche convincenti di esso, che dove sembra
aver avuto luogo perviene a una pluralità eterogenea di medi di scambio,
ma ha anche un problema di fondo legato alla garanzia della validità nel
tempo (non contraffazione) del denaro, che è precisamente la ragione che
condusse al conio statale.
Nel modello di Menger traspare quella che è una caratteristica tipica che
accomunerà le concezioni liberali del mercato, cioè l’idea che si possa
idealmente parlare di “mercati”, come di entità naturali, extra-istituzionali
ed esenti da una dimensione normativa. Per comprendere bene quest’idea
di mercato è utile svolgere una breve digressione, accompagnati dalle
analisi di Karl Polanyi.
Nonostante nei moderni resoconti economici, come vedremo, si assuma
l’esistenza di “mercati ideali” o “sistemi di mercato”, quasi si trattasse di
fenomeni naturali, in effetti l’istituzione del mercato ha una sua storia che
non coincide con quella degli scambi umani. Come abbiamo esaminato in
dettaglio altrove, la forma antropologicamente primaria di transazione
interpersonale non è quella del baratto, ma quella del dono. Nella
dinamica del dono il ne dello scambio di oggetti è la costituzione di un
nesso di alleanza o lealtà interpersonale, da cui dipenderanno poi lo spazio
delle decisioni “politiche” disponibili41.
Il baratto, così come antropologicamente e storicamente riscontrabile,
avviene come una transazione di mutuo interesse che presuppone una
cornice sociale unitaria: il villaggio, il paese, la città. Baratti avvengono in
ambienti dove è possibile ottenere informazioni e garanzie indirette sui
transattori e sugli oggetti transati42. In questo senso il baratto non ha
molto a che vedere con la transazione tra due individui isolati, come i
mitici cacciatori di cui parla Adam Smith. Dato un contorno di stabilità e
continuità di relazioni sociali, un baratto può aver luogo su base
individuale e può anche dare vita a una nuova relazione sociale tra i
transattori. Questa è l’immagine dei mercati locali come descritti nel
Maghreb o in Cina, o anche nell’agorà greca o nei mercati medievali: il
mercato come luogo d’incontro, d’affari e litigi, dove possono essere
combinati matrimoni, inscenate contestazioni politiche, tenute prediche
religiose ecc.43.
Come osserva Polanyi, parlando di un’istituzione come l’agorà greca,
il commercio di mercato e l’agorà erano puramente interni alla polis, vincolati dai suoi limiti
sici e politici. L’agorà non era più che un espediente, che facilitava le operazioni del sistema
redistributivo, il quale rimaneva dominante.44

L’agorà greca, dunque, come tutti i mercati locali, non ha alcuna


autonomia rispetto alla polis, cui competono le importazioni necessarie
per il sostentamento della comunità. Una situazione simile la ritroviamo
nei borghi medievali che esercitavano rispetto ai mercati locali a essi
interni un ruolo di contenimento simile a quello esercitato dalle città
greche. La città, nell’acuta osservazione di Polanyi, conteneva il mercato
nel duplice senso della parola: lo includeva e lo moderava45. In questo
senso il mercato locale aveva sempre una natura fortemente socializzata e
le transazioni in esso dovevano restare in qualche misura “morali”.
Questo spiega ad esempio il sussistere nel Medioevo della “dottrina del
giusto prezzo”. Questa dottrina, fatta spesso oggetto di critiche feroci nel
quadro dell’economia moderna, aveva un senso ben preciso: un prezzo
non poteva generare per nessuno un “pro tto fuori dalla norma”. L’idea
moderna che tutto ciò che conti sia il punto di incontro tra domanda e
offerta, a prescindere dai relativi rapporti di potere contrattuale, era
estranea ai mercati locali. Qui l’occasione per ottenere un pro tto
eccezionale poteva essere rappresentato da crisi, carestie, invasioni, ma
l’idea che in tali circostanze il venditore avesse il diritto di alzare
arbitrariamente il prezzo era inconcepibile. Ciò avviene anche oggi dove
mercati locali estranei al “sistema di mercato” ancora esistono46.
Questi comportamenti, lontani dal modello moderno dell’homo
oeconomicus, di cui diremo più tardi, sono invece coerenti con l’analisi
dello scambio che forniva Aristotele: lo scambio giusto aiutava nel
mantenimento di una società ordinata, ed era una questione di giustizia
più che di economia in senso moderno. La reciprocità negli scambi e la
carità (metadosis) tenevano insieme la polis, mentre nello scambio
strettamente economico (antidosis) lo status e l’onore di tutte le parti
dovevano conservarsi.
Ciò che noi oggi chiamiamo “il mercato” non ha se non una parentela
ef mera con i mercati locali storici, come l’agorà. Di fatto la sfera odierna
del “mercato” rappresenta un’entità istituzionale speci ca, creatasi dalla
fusione di due sfere che no al XVIII secolo erano sostanzialmente
indipendenti: il mercato locale e il commercio internazionale. L’attività
commerciale era “qualcosa di esterno al gruppo, simile ad attività che
tendiamo ad associare con sfere di vita del tutto differenti: ovvero la
caccia, le spedizioni e la pirateria”47. Presso molti popoli, come gli Arabi, i
Mongoli, o i Vichinghi, attività predatoria e commercio si combinavano
senza soluzione di continuità. Il commercio, lungi dall’apparire come
un’attività favorevole alla pace, come verrà propagandata nel XIX secolo,
continuò a essere nei secoli un’attività af ne alla guerra, condotta da
“mercanti portatori di spada”48. Per la natura stessa dell’impresa il
commercio a distanza non era affare di individui, ma di comunità sovrane:
[n]elle società arcaiche il capo o il re e il loro immediato entourage sono i soli ad avere il diritto
di commerciare, cioè di iniziare le imprese più o meno belliche e diplomatiche che portano
all’“acquisizione di beni da lontano”.49

Mentre nei mercati locali la funzione prettamente economica era


mediata dal controllo della città e da vincoli di controllo sociale, con
aspettative di giustizia, nel commercio internazionale aveva la meglio la
componente di potere, acquisitiva, in quanto l’Altro con cui si trattava era
per essenza un estraneo, uno straniero. Ma proprio per queste
caratteristiche, il commercio internazionale non funzionava sulla base di
una contrattazione individuale, bensì sulla base di trattati commerciali,
che ssavano le condizioni a cui poi le transazioni avrebbero avuto
luogo50.
Prima della Rivoluzione industriale la netta separazione tra mercati
locali e commercio internazionale venne meno solo episodicamente e
parzialmente, come nell’Atene del V secolo. Con la Rivoluzione
industriale inglese si avvia invece la creazione di quella peculiare unione di
mercato interno e commercio internazionale che è il sistema di mercato,
dove i rapporti di scambio immediati avvengono con l’intermediazione, di
principio, dell’intero sistema internazionale dei prezzi. Nel mercato
capitalistico come sistema di mercato tutti i transattori sono nella
medesima condizione di estraneità, e potenziale ostilità, dei “mercanti
portatori di spada” dell’antico commercio internazionale.

8. La grande convergenza
Alle origini del capitalismo troviamo una sinergia storica peculiare tra
uno Stato solido e capace di imporre le proprie leggi, una nuova
legittimazione dell’iniziativa individuale, un ef ciente funzionamento della
pratica monetaria e un incremento tecnoscienti co delle capacità
produttive. Sull’origine dello Stato ci soffermeremo più avanti, trattandosi
di un’istituzione che non è peculiare dello speci co sviluppo capitalistico.
Nei capitoli precedenti abbiamo invece tentato un resoconto genealogico
degli altri tre fattori.
Queste tre genealogie mirano a portare alla luce le linee motivazionali
profonde, storiche e antropologiche, che tra il XVII e il XVIII secolo
convergono nell’emergere del capitalismo e nel costituirsi della “ragione
liberale”. Come abbiamo notato, in tutte e tre queste genealogie il
momento che fa da catalizzatore dell’intero processo è dato dalla
possibilità di rappresentare alcune relazioni in forma scritta, cioè
ssandole in modo da poter sussistere anche in assenza di un soggetto che
attualmente le “tenga in mente”. Poter trascrivere il pensiero e l’originalità
individuale (alfabeto), poter riprodurre e sviluppare relazioni quantitative
a prescindere dalle realtà quanti cate (scrittura numerica), e poter
registrare giudizi di valore economico soggettivo (denaro) sono tre
pratiche che consentono di incrementare l’ordine di grandezza di alcuni
effetti, creando pratiche sociali nuove. È importante vedere come queste
tre forme di “scrittura” (alfabetica, numerica, monetaria) non creino dal
nulla pulsioni o interessi, ma consentano ad alcuni di essi di svilupparsi in
modo incommensurabilmente superiore a prima. L’implementazione di
nuove pratiche sociali produce a sua volta radicali trasformazioni nelle
aspettative, nei discorsi, e anche nei “valori”, se con ciò intendiamo le
istanziazioni concrete di ciò che ha valore.
Ciascun soggetto umano ha intrinsecamente una dimensione di relativa
indipendenza dal proprio intorno sociale, ma tale indipendenza diviene il
moderno “valore della libertà” solo sullo sfondo di quella trasformazione
delle aspettative sociali radicata nella pratica alfabetica. Parimenti la
pulsione alla conoscenza operativa e causale è sempre esistita, ma solo la
possibilità di registrare ri essioni e metodi, di calcolare esiti possibili e
misurare esiti reali trasforma quella pulsione nella “tecnoscienza”
moderna.
Ciò che accomuna tutti questi spostamenti è l’incremento di una
capacità di controllo, governo e dominio di sé e dell’ambiente, naturale e
sociale, circostante: quelle “scritture” ampli cano immensamente le
antecedenti facoltà di memoria, sintesi, analisi, comparazione, ri essione.
Quelle pratiche si impongono perché conferiscono a chi le adotta dei
poteri che li avvantaggiano rispetto a chi non le adotta.
Va subito rimarcato come l’ingresso di queste pratiche nella storia
umana non sia, sin dall’inizio, indolore, giacché esse creano alterazioni e
deformazioni nei precedenti equilibri. Il primo ingresso della “scrittura
monetaria” nel mondo mesopotamico, ad esempio, è associato a violente
crisi sociali, crisi epocali di indebitamento e schiavitù per debiti che
minacciano a più riprese l’esistenza di quella civiltà51. Similmente,
l’ingresso della scrittura alfabetica nel mondo greco crea il fenomeno dei
“falsi sapienti” (so sti) e incrina l’unità tradizionale della comunità greca,
richiamando perciò su di sé la celebre condanna da parte di Platone, nel
Fedro e nella VII lettera. Non c’è alcuna “armonia prestabilita” che
garantisca il carattere “progressivo” di tali innovazioni.
Tuttavia, insieme a nuovi problemi, la scrittura forniva anche nuovi
mezzi per risolverli. All’introduzione della scrittura alfabetica è certo
connessa la nascita della so stica; ma anche quella della loso a. Se da un
lato, come notava Platone, la scrittura rendeva i pensieri “privi di
padre”52, decontestualizzati, e dunque più facilmente soggetti a
fraintendimenti e strumentalizzazioni, dall’altro la scrittura stessa
permette di ritornare più volte sui medesimi testi, commentandoli e
chiarendoli logicamente.
Similmente, la scrittura provocava la disgregazione dell’in usso della
tradizione orale, che ora veniva sottoposta a critica e ri essione personale;
al contempo però la scrittura stessa creava le condizioni per una nuova
forma di tradizione, quella che oggi conosciamo come la Storia.
E parimenti la scrittura creava i mezzi per un maggiore
“individualismo”, ma anche quelli per un rafforzamento
dell’organizzazione centrale del potere (lo Stato) . Per quanto non ci fosse
53

bisogno di scrittura per gestire il potere nella dimensione delle città-stato,


essa consente di ampliare il governo dei territori alla dimensione degli
stati burocratici o imperi54. La scrittura (anche quella prealfabetica)
permette la raccolta di imposte, l’emanazione di editti, la redazione di
leggi, tutte funzioni che consentono una diffusione del potere centrale
attraverso numerosi intermediari55. La scrittura alfabetica consentì
raf namenti di queste pratiche, come l’elaborazione di un diritto come
sistema internamente coerente di norme pubbliche (diritto romano).
Anche loso a, storia e letteratura sono dimensioni che si sono giovate
in maniera decisiva dell’apporto della scrittura alfabetica, e poi della sua
ampli cazione attraverso la stampa. Tuttavia questi sviluppi non vennero a
far parte della “grande convergenza” che sta all’origine della “ragione
liberale”. Libertà individuale, denaro, tecnoscienza (più la capacità di
organizzazione legale degli stati) ne vennero a costituire il nucleo centrale,
con una peculiare sinergia tra Seicento e Settecento, rispetto a cui altre
componenti dell’evoluzione culturale avviata dalla scrittura rimasero
sostanzialmente escluse. Questo sviluppo divergente creerà una frequente
tensione tra lo sviluppo della ragione liberale e quelle altre istanze: tra la
coscienza storica, critica, umanistica e lo sviluppo del mondo liberale
esisterà sempre una potenziale con ittualità.
Sarà comunque nella cornice statale inglese, tra Seicento e Settecento,
che l’individualismo etico della riforma protestante, una matura
circolazione monetaria, e i successi della razionalità tecnoscienti ca
convergeranno sinergicamente, portando alla luce per la prima volta la
ragione liberale e il suo correlato operativo, l’economia capitalistica.
1
Chiedo venia in anticipo per i frequenti rinvii a miei testi precedenti, dove sono stati elaborati i
presupposti di natura ontologica, epistemologica e assiologica qui operanti. Il presente scritto è
intelligibile senza quei riferimenti, ma acquisisce piena fondatezza solo alla loro luce.
2
F. Fukuyama, The end of history and the last man, The Free Press, New York 1992.
3
Ivi, pp. 74-78.
4
Ivi, pp. 134-135. Qui, e nel resto del volume, ogni qualvolta comparirà una citazione in italiano
con riferimento in nota a un testo non in italiano, la responsabilità della traduzione è da ascriversi
all’autore.
5
Ivi, p. 46.
6
M. Foucault, The Birth of Biopolitics. Lectures at the College de France, 1978-79, Palgrave-
MacMillan, New York 2008.
7
Ivi, p. 43.
8
Ivi, p. 20.
9
Ivi, pp. 10-11.
10
Ivi, pp. 18-19.
11
Ivi, p. 63.
12
Ivi, p. 120.
13
Ivi, p. 118.
14
Ivi, p. 317.
15
Ivi, pp. 228-230.
16
Ivi, p. 225.
17
Ivi, p. 319.
18
H. Heller, The Birth of Capitalism. A Twenty-First-Century Perspective, Pluto Press, London
2011, p. 10.
19
Tra i numerosi testi che discutono delle origini dell’individualismo in Occidente meritano di
essere menzionati almeno S. Lukes, Individualism, Harper & Row, New York 1973; L. Dumont,
Essays on Individualism: Modern Ideology in Anthropological Perspective, University of Chicago
Press, Chicago 1986; D. Riesman, Selected Essays from Individualism Reconsidered, Anchor, New
York 1954; e L. Siedentop, Inventing the Individual. The Origins of Western Liberalism, The
Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts 2014.
20
Quest’argomentazione, qui telegra camente riassunta, è stata più volte oggetto di analisi da
parte dello scrivente; vedi A. Zhok, Rappresentazione e realtà, Mimesis, Milano-Udine 2014, pp.
113-197 e Identità della persona e senso dell’esistenza (d’ora in poi citato con “Identità”), Meltemi,
Milano 2018, Parte I.
21
E. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura, Laterza, Roma-Bari 1973.
22
W. Ong, Oralità e scrittura, il Mulino, Bologna 1986.
23
J. Goody, Il suono e i segni, il Saggiatore, Milano 1987.
24
E. Havelock, Dalla A alla Z. Le origini della civiltà della scrittura in Occidente, Melangolo,
Genova 1987.
25
E. Eisenstein, La rivoluzione inavvertita, il Mulino, Bologna 1986.
26
M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, BUR, Milano 1991.
27
Cfr. A. Zhok, Identità, cit., parte II.
28
Cfr. A. Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Einaudi, Torino 2000;
G. Gorham, B. Hill, E. Slowik, C.K. Waters (a cura di), The Language of Nature. Reassessing the
Mathematization of Natural Philosophy in the Seventeenth Century, University of Minnesota Press,
Minneapolis- London 2016.
29
A. Zhok, Libertà e natura, Mimesis, Milano-Udine 2017, cap. 4.4.
30
Salvo diversamente speci cato, le informazioni storiche che seguono sono tratte da C.B. Boyer,
Storia della matematica, Mondadori, Milano 1980, e da G. Ifrah, Storia universale dei numeri,
Mondadori, Milano 1989.
31
O. Neugebauer, Le scienze esatte nell’antichità, Feltrinelli, Milano 1974, p. 96.
32
E. Havelock, Dalla A alla Z. Le origini della civiltà della scrittura in Occidente, Melangolo,
Genova 1987, p. 81.
33
M. Austin, P. Vidal-Naquet, Economia e società nella Grecia antica, Boringhieri, Torino 1982,
p. 53.
34
M. Liverani, Antico Oriente. Storia, società, economia, Laterza, Roma-Bari 1991.
35
Ivi, pp. 336-339.
36
Th. Crump, The Phenomenon of Money, Routledge & Kegan Paul, London 1981, p. 69.
37
G. Davies, A History of Money. From Ancient Times to the Present Day, University of Wales
Press, Cardiff 1994, pp. 49 e ss.
38
D.C. North, R.P. Thomas, L’evoluzione economica del mondo occidentale, Mondadori, Milano
1976, p. 72.
39
C. Menger, Principi di economia politica, UTET, Torino 1976, pp. 350-351.
40
C. Menger, Geld (1909), ristampato in The Collected Works of Carl Menger, vol. IV, Schriften
über Geldtheorie und Währungspolitik, London School of Economics, London 1936.
41
A. Zhok, Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo, Jaca Book, Milano 2006, pp. 109-
170.
42
C. Humphrey, C. Hugh-Jones, Introduction: Barter, Exchange and Value, in C. Humphrey., C.
Hugh-Jones, Barter, Exchange and Value, Cambridge University Press, Cambridge 1992, pp. 8 e ss.
43
F. Braudel, Civilization and Capitalism, Collins, London 1982, pp. 30-31.
44
K. Polanyi, The Livelihood of Man, Academic Press, New York 1977, p. 166.
45
K. Polanyi, The Great Transformation, Beacon, Boston 2001, p. 65.
46
Ad esempio nel commercio locale in Nepal fare un affare che portasse alla rovina l’altro
transattore, per quanto consenziente, appariva ingiusti cabile: “il baratto doveva riprodurre una
dipendenza reciproca, non unilaterale” (C. Humphrey, The Ethics of Barter in North-East Nepal, in
C. Humphrey, C. Hugh-Jones, Barter, Exchange and Value, cit., p. 124).
47
K. Polanyi, The Livelihood of Man, Academic Press, New York 1977, p. 83.
48
K. Polanyi, The Great Transformation, cit., p. 16.
49
K. Polanyi, The Livelihood of Man, cit., p. 85.
50
K. Polanyi, C.M. Arensberg, H.W. Pearson, Trade and Market in the Early Empires. Economies
in History and Theory, The Free Press, Glencoe, Illinois 1957, p. 87.
51
A. Zhok, Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo, cit., pp. 182 e ss.
52
Platone, Fedro, Laterza, Roma-Bari 2005, 275c-d.
53
Sul tema della nascita dello Stato e dello sviluppo dello Stato liberale vedi infra, Sezione 4.
54
J. Goody, La logica della scrittura e l’organizzazione della società, Einaudi, Torino 1988, p. 105 e
p. 120.
55
Ivi, p. 157.
Sezione seconda
Nascita della ragione liberale

9. Nascita della ragione liberale


Il pensiero liberale, come dicevamo, non nasce dalla dottrina sistematica
di un losofo o dalla lezione etica di un profeta, ma emerge
progressivamente, maturando per più di un secolo. Mentre è usuale che
ogni “scuola di pensiero” tenda nel tempo a rami carsi in opzioni diverse
e talora inconciliabili, la caratteristica peculiare dalla ragione liberale sta
nel suo essere in qualche modo polimorfa sin dall’origine. Questa
discrasia interna della ragione liberale si spiega con il rapporto che
intercorre tra la teorizzazione liberale e lo sviluppo delle pratiche sociali,
scienti che ed economiche concomitanti.
La “grande convergenza” che abbiamo illustrato nella prima sezione
viene percepita e teorizzata da alcuni pensatori in un formato volto a
renderla intellegibile e legittima. In questo senso il liberalismo si con gura
sin dall’inizio come un’ideologia giusti cativa. Ma questo non signi ca
affatto che l’ideologia, e la sua qualità, siano irrilevanti per i modi in cui il
processo storico si svilupperà. Come vedremo, con il passare del tempo
l’ideologia liberale acquisirà un’importanza operativa crescente.
Si può delineare come luogo di nascita della ragione liberale quello
sviluppo di pensiero che prende le mosse da un autore “di con ne”, come
Thomas Hobbes, per consolidarsi nelle pagine di John Locke e trovare un
inquadramento operativo in Adam Smith, con l’assimilazione di
liberalismo politico e liberalismo economico.
9.1 Hobbes e la nascita dei “diritti naturali”
Mossa inaugurale di ciò che verrà poi identi cato come pensiero liberale
può essere considerata la concezione dell’individuo, e del diritto
individuale, inventata dal giusnaturalismo di Thomas Hobbes (1588-
1679). Il pensiero di Hobbes si sviluppa in un retroterra già nutrito
dall’emergente scienza matematica della natura, che da Hobbes viene
elevata per la prima volta a rango ontologico. Prima di Hobbes,
naturalmente, Galileo (1564-1642) aveva formulato una simile visione, ma
senza la pretesa di scardinare l’ordine ontologico ereditato dalla tradizione
aristotelico-tomistica: Galileo, il padre del naturalismo scienti co, non
pretendeva di svuotare il mondo dalle sue componenti teleologiche e
teistiche; egli era e rimaneva un credente cattolico. Un passo verso una
radicalizzazione ontologica della nuova visione scienti ca si era avuta in
quegli anni con Cartesio (1596-1650), le cui Meditationes de Prima
Philosophia precedono di dieci anni la pubblicazione del Leviatano di
Hobbes. Ma il dualismo cartesiano è molto lontano dal monismo
naturalistico che emerge dalle pagine hobbesiane, e lascia parte essenziale
dell’ontologia in una dimensione extrascienti ca.
Per Hobbes, invece, la natura è il luogo delle relazioni meccaniche tra
corpi in moto. Il pensiero è nient’altro che calcolo. I viventi sono corpi
peculiari, le cui leggi di comportamento sono solo meno note rispetto a
quelle dei corpi sici, ma in linea di principio egualmente prevedibili e
calcolabili. Non vi è alcuno spazio per libero arbitrio, ma libertà in
Hobbes è la semplice assenza di coazioni esterne.
Su questo sfondo si pro la la loso a politica hobbesiana, dove la natura
come luogo delle pulsioni meccaniche elementari si traduce per quei corpi
particolari che sono gli uomini in stato di natura, come luogo ancestrale
dove ciascun individuo avrebbe il “diritto a ogni cosa e anche alla persona
sica dell’altro”56. La condizione originaria, quella condizione che viene
posta come la più antica, originaria, e perciò la più legittima, è lo stato di
natura come bellum omnium contra omnes, come con itto di ogni
individuo con tutti gli altri, necessitato dalla condizione di innata pulsione
“acquisitiva” di ciascun individuo.
Questo “stato di natura” congetturale serve a Hobbes per enucleare
quelli che secondo lui sono i diritti di natura (jus naturale), ovvero i diritti
che devono valere in una condizione antecedente a ogni società e a ogni
storia. Secondo Hobbes il primo e fondamentale diritto è
la libertà che ciascuno possiede di usare il proprio potere nel senso che vuole, allo scopo di
preservare la propria natura, cioè la sua vita, conseguentemente di fare qualunque cosa che,
secondo il giudizio e la ragione, gli sembra essere il mezzo più idoneo a realizzare quel ne.57
In questa formulazione troviamo subito un aspetto curioso e
paradossale. Secondo Hobbes un “diritto” è una libertà. Il termine libertà
è suf cientemente ambiguo da non risultare immediatamente evidente il
gioco di prestigio che qui ha luogo. Ciò che è paradossale nella sua
formulazione è che per lui una “libertà” è semplicemente la facoltà di
seguire le proprie pulsioni endogene senza ostacoli esterni. In questo
senso si potrebbe parlare egualmente bene della libertà del predatore di
divorare la preda o della libertà di una muffa di crescere sul formaggio. Si
tratta di qualcosa che trae origine delle forze interne dell’ente in questione
quando esse si esplicano senza ostacoli. Questo chiarisce come sia
possibile parlarne in una condizione presociale, ferina. Ma se traduciamo
quella “libertà” naturale in “diritto di natura”, qualcosa di strano accade:
in che senso una muffa avrebbe il “diritto” di crescere sul formaggio?
Cosa mai potrebbe signi care tale espressione?
Un diritto, così come una legge, nel suo senso originario, ha un
signi cato possibile soltanto come un’istanza normativa, e speci camente
come qualcosa di concesso o garantito da qualcun altro. Per un soggetto
aver “diritto” a qualcosa signi ca poter esigere che una propria libertà
venga riconosciuta o concessa da altri, i quali sarebbero in qualche modo
obbligati (almeno moralmente) a riconoscere tale diritto. Nel caso del
primo “diritto di natura” hobbesiano la sua de nizione è però
radicalmente paradossale, giacché il diritto consiste nel seguire la propria
natura (acquisitiva) per il proprio interesse, ed è un “diritto” che, per il
suo stesso contenuto, non può essere concesso da altri, giacché rispettare
integralmente questo “diritto” in altri signi cherebbe automaticamente
violarlo in se stessi.
Per come è concepito il sistema di Hobbes, tuttavia, il “diritto”
all’acquisizione e autoconservazione con ogni mezzo è menzionato
soltanto per toglierlo immediatamente di mezzo, sacri candolo a un
potere assoluto. Per Hobbes il fatto che questo “diritto naturale” conduca
a una condizione di con ittualità senza limiti è ragion suf ciente per
cedere immediatamente tale “diritto”, delegandolo a un sovrano assoluto,
che grazie a questa condizione di unilaterale privilegio può imporre
l’ordine sociale, disciplinando e sorvegliando le inclinazioni distruttive
degli individui.
Questa conclusione sottrae Hobbes alla tradizione liberale
comunemente intesa, anche se l’impianto fondamentale dell’uso pensiero,
che pone alla radice della dimensione politica il diritto naturale
dell’individuo, rappresenta proprio la mossa teorica fondativa del
liberalismo politico58.
I passaggi inaugurali della ragione politica liberale, così come essa si
con gura nel pensiero di Hobbes, sono dunque i seguenti. In prima
istanza viene alla luce una concezione di “natura” svuotata di ogni senso
immanente, di coscienza, ragione, teleologia, valore: la “natura” ora è
ridotta a un deserto di atomi in moto meccanico (e questo è il retaggio del
naturalismo scienti co). In questo deserto gli esseri umani, atomi tra gli
atomi, si muovono spinti da una cieca propulsione interiore. Tali atomi
umani precedono ogni società e ogni storia, possiedono individualmente
pulsioni acquisitive innate, e sono in naturale condizione di competizione
generalizzata. In ne, con un gioco di prestigio, quella cieca pulsione
individuale si trasforma in diritto, con un’interpretazione quantomeno
peculiare del termine “diritto”. Ci ritroviamo così con una nuova
concezione dell’uomo di natura: una concezione antropologicamente
svuotata, desocializzata, priva di libertà positiva (progetto), tutta
schiacciata sul perseguimento dei propri istinti. Al contempo, con
un’operazione logicamente ardita, si introduce l’idea che ciò che
appartiene alla dimensione naturale possa essere intrinsecamente
normativo (per Hobbes esistono diritti in natura senza doveri simmetrici).
9.2 La trasformazione delle idee di “libertà” e “diritto”
Prima di proseguire è importante soffermarci sulla metamorfosi che le
nozioni di “diritto” e “libertà” subiscono nei padri del liberalismo. Poiché
le mosse fondamentali sono già presenti in Hobbes, possiamo trattare
questo punto sin d’ora.
9.2.1 Sul diritto di natura
La nozione moderna di “diritto” non è sovrapponibile a quella di
“giustizia”. Spesso si nomina come antecedente del giusnaturalismo
moderno la distinzione antica tra “giusto per natura” (phýsei díkaion) e
“giusto per legge” (nómoi díkaion), ma questo è un errore. È facile
concepire un’idea di giustizia che si appelli a contenuti, valori, ideali non
meramente convenzionali e perciò non meramente legata a leggi positive.
Noi tutti possiamo concepire che un’azione sia giusta o sbagliata anche
dove nessuna legge è in vigore; ma non è questo il nucleo dell’idea di un
diritto di natura. Cercare di comprendere l’idea di diritto naturale sulla
scorta delle opposizioni classiche tra “natura” e “convenzione” (o
“cultura”, o “storia”)59 è fuorviante. La nozione classica di una legge
naturale mira a identi care il miglior regime politico, nel senso di quello
che incarna nel modo migliore alcuni valori (l’esempio più eminente è la
Repubblica di Platone)60. Qui, non è la legge a essere per così dire
“inscritta in natura”, ma lo sono idee e valori, che poi devono trovare una
versione come precetto positivo in comunità storiche speci che. Uno
spazio per l’idea di un diritto individuale si presentò nel contesto del
cosmopolitismo imperiale romano, sotto l’in usso del cristianesimo, ma
sempre in una cornice altamente speci ca. Ulpiano introdusse nel diritto
romano l’idea che gli esseri umani nascono liberi e dotati di dignità per
natura, e su questa base valoriale si potevano stabilire norme che
sceglievano come tutelare tale libertà e dignità61. Tali norme, tuttavia, non
erano per così dire “copiate” dalla natura. Ulpiano, ad esempio, concede a
tutti gli esseri umani di essere nati liberi e dotati di dignità, ma questo non
esclude per lui né la legittimità della schiavitù, né il riconoscimento di
livelli di dignità differenziati (l’uomo avrebbe maggiore dignità della
donna, che avrebbe a sua volta maggiore dignità dello schiavo)62. Di fatto
l’appello a una “legge di natura” consiste in effetti nell’appello a valori
universali, che poi possono essere tradotti in obblighi speci ci in uno
speci co contesto normativo. L’idea di diritti individuali inscritti in natura
rimane estranea anche al cristianesimo, dove la dignità di ogni singola
anima individuale è conferita da Dio e vale solo in relazione alla volontà
divina.
In Hobbes e nel successivo pensiero liberale emerge invece la pretesa di
precetti e regole che sono in qualche modo già dati in natura e che da essa
devono essere solo estratti, dedotti. È questo punto, come vedremo, che
conferisce particolare autorevolezza alle pretese politiche che, su questa
base, si opporranno al legittimismo monarchico. Qui però si presenta un
problema logico insormontabile.
Di fatto un diritto può esistere soltanto come complemento concettuale
di un dovere. Se io ho diritto ad adottare un certo comportamento o a
svolgere una certa azione, questo implica che qualcun altro ha il dovere di
consentirmi quel comportamento o quell’azione. Ma il diritto come libertà
di cui parla Hobbes è semplicemente un impulso individuale dominante,
che di per sé ha ben poco a che fare con la sfera del “dover essere”. Un
diritto, come controparte di un dovere, ha invece essenzialmente carattere
relazionale, sociale, e non può essere attribuito a un soggetto di principio
isolato. Un diritto soggettivo può esistere solo in concomitanza con un
simmetrico dovere e in rapporto ad altri individui.
Un’idea logicamente percorribile di “legge di natura” sarebbe quella che
prende forma nel Medioevo, sulla scorta del presupposto che la natura sia
creata da Dio e ne segua i dettami. In quel contesto è legittimo ipotizzare
che, anche indipendentemente da qualsiasi società reale, possano esistere
dei “doveri”, delle norme, degli obblighi, in quanto si tratterebbe di
doveri, norme e obblighi richiesti da Dio. Questa è un’idea assente in
Hobbes, ma che vedremo riapparire nel più citato tra i padri nobili del
liberalismo, ovvero John Locke. Dev’esser tuttavia chiaro che in una
società dove le leggi siano dette derivare da Dio, i legislatori sarebbero gli
interpreti della parola di Dio: un viatico più promettente per una teocrazia
che per una società liberale.
In sintesi, i diritti soggettivi naturali di cui parla Hobbes, e che
con uiranno nella ragione liberale, hanno la necessità di pensarsi come
precetti dedotti direttamente dalla natura. Solo così essi possono
pretendere una fondazione che scavalchi la propria società storica e
tradizione. Purtroppo un tale diritto non può di principio esistere, e
l’appello alla “legge di natura” è in quest’ottica un semplice so sma.
9.2.2 Sull’idea di libertà
Se guardiamo ora per un momento alla nozione di libertà vediamo come
anch’essa abbia subito una radicale metamorfosi sulla soglia della
modernità. Le etimologie greca e latina di “libero” (eleútheros e liber)
derivano da una radice che indicava la crescita, e designava il membro
legittimo di una stirpe o comunità63: libero era chi poteva essere
protagonista della vita della comunità. Nel mondo greco il valore
attribuito alla libertà si sovrapponeva al valore attribuito
all’autodeterminazione della pólis, in contrapposizione con la vita sotto
tirannia64. La libertà era così quella del cittadino capace di partecipare su
una base di eguale dignità (isonomía) all’autogoverno della città. Un
signi cato simile, nonostante la differenza di organizzazione istituzionale,
è quello che si ritrova nella nozione di libertas repubblicana. L’idea di
fondo di questo modo di intendere la libertà è che essa va intesa come
autonomia e autogoverno, dunque come capacità di progetto e
realizzazione, concepibile solo nel contesto di una partecipazione alla vita
pubblica: la libertà individuale è concepibile solo come partecipazione in
una comunità autonoma, giacché l’individuo isolato non è in grado di
portare alla luce niente di durevole e signi cativo. Questo concetto di
libertà repubblicana è il medesimo cui si rifarà Machiavelli nei Discorsi
sopra la prima deca di Tito Livio e che ispireranno il suo concetto di
cittadinanza e di nazione65.
A partire da Hobbes, e poi in tutto il nucleo principale del pensiero
liberale, si affaccia un concetto del tutto diverso di libertà. Hobbes rigetta
esplicitamente la concezione di libertà repubblicana sostenendo che essa
concerne solo le comunità e non gli uomini particolari. Al suo posto
subentra quella nozione di libertà negativa66 che da allora in poi verrà
considerata sempre più spesso come nozione fondamentale, ovvero
un’idea di libertà come semplice non interferenza, come assenza di
ostacoli o coazioni.
È importante sottolineare come la nozione di libertà come autogoverno
e autonomia, come “libertà positiva”, includa in sé l’idea di “assenza di
coazione”, ma la percepisca come insuf ciente o insigni cante. In effetti
qualcosa si presenta come ostacolo o costrizione solo nel momento in cui
è de nita una sfera di valori positivi, di progetti: come notava Sartre, non
esiste un ostacolo in sé, ma solo un ostacolo in relazione a un mio
progetto67. La libertà positiva aggiunge qualcosa alla libertà negativa, non
vi si oppone. Ma proprio questa aggiunta è ritenuta inappropriata nella
concezione di libertà liberale. L’aggiunta di una dimensione valoriale
positiva, dove ci si preoccupa delle condizioni di realizzazione dell’azione
umana e dei progetti che la muovono è considerata una clausola eccessiva.
La libertà che si affaccia per la prima volta con Hobbes è una libertà dove
la non interferenza è proprio tutto ciò che c’è da chiedere all’essere liberi:
si tratta di una nozione di libertà orgogliosamente vuota, esente da
compromissioni con qualunque idea di valore positivo, e per questa
ragione esente da ogni riferimento a rapporti positivi, reali, con altri
individui, con una comunità, con un corpo politico.

9.3 Locke e il diritto di proprietà


John Locke è probabilmente il pensatore cui più frequentemente viene
associata l’idea di “padre del liberalismo”. Nonostante i concetti
fondamentali di ciò che sarà il pensiero liberale siano già sviluppati in
Hobbes, l’esito assolutistico del pensiero hobbesiano lo pone ai margini
del pensiero liberale. Hobbes dà fondamento al liberalismo politico
assumendo che i diritti individuali precedano la società e che lo Stato
nasca con il solo senso di tutelare quei diritti naturali. Ma, come abbiamo
visto, in Hobbes la linea argomentativa che pone il diritto come una
libertà, e la libertà come un fattore endogeno individuale, consente di
stabilire l’esistenza di diritti individuali innati, ma al prezzo di gravi
aporie, a partire dall’impossibilità di concepire un diritto in assenza di
altri soggetti a riconoscerlo. Di primo acchito in Locke l’idea di un diritto
individuale innato sembra invece sostenibile senza dif coltà logiche, in
quanto poggia classicamente sull’autorità divina. La legge di natura è una
dichiarazione della legge di Dio68. Dopo aver concesso questo, tuttavia,
Locke desidera evitare controversie teologiche e scritturali, e perciò ri uta
di poggiare il riconoscimento delle leggi di natura sulla Rivelazione o sulla
promessa di eventuali sanzioni divine. Resta con ciò poco chiaro quale
debba ritenersi il modo corretto di fondare il diritto naturale in Locke: in
termini generali se ne assume un radicamento nella volontà di Dio e una
sua conoscibilità da parte dalla ragione umana, ma come queste tesi si
giusti chino, o riconcilino in concreto, rimane indeterminato e lasciato
all’ingegno degli esegeti69.
Anche quale sia il contenuto della legge di natura è meno chiaro di
quanto si potrebbe desiderare, tuttavia la più comprensiva de nizione di
una legge di natura in Locke è quella per cui tutti gli uomini sono “eguali
e indipendenti”, e “nessuno deve danneggiare nessun altro quanto alla
vita, salute, libertà o proprietà”70. La ragione che viene data per ciò è
interessante: gli esseri umani sono inviolabili in quanto, essendo creati da
Dio sono proprietà divina. Anche qui il riferimento a Dio fa capolino, ma
solo come appello esteriore a un’autorità, senza reale ruolo fondativo.
Questa posizione, che non viene argomentata oltre, lascia però trasparire
ciò che nel pensiero di Locke appare come la pietra angolare di ogni
diritto di natura, ovvero il diritto di proprietà.
La teoria della proprietà è in effetti al centro della loso a politica di
Locke, ed esibisce il passaggio cruciale che mette in connessione la teoria
dei diritti naturali soggettivi con l’approdo economico della ragione
liberale. Secondo Locke la prima e fondamentale “proprietà” di ciascuno
è il proprio corpo, con le facoltà che vi ineriscono. Questa “proprietà
originaria” si trasferisce alle cose in cui il soggetto agente ha “mescolato”
il proprio lavoro, raccogliendole, coltivandole, forgiandole. È attraverso
questo processo che esse divengono sua legittima proprietà71.
In prima battuta, questa “genealogia” della proprietà sembrerebbe
implicare che per Locke nessuno possa avere legittime pretese di
proprietà su beni in eccesso rispetto a quelli che egli è in grado di
adoperare personalmente72. Tuttavia questa posizione scivola rapidamente
verso una posizione radicalmente diversa. Secondo Locke con il venire in
esistenza del denaro questa situazione cambierebbe in modo decisivo
perché, mentre in precedenza l’uomo non poteva materialmente godere di
ciò che non era alla portata del suo braccio, il denaro estende la possibilità
di godere anche di cose lontane nel tempo e nello spazio. Siccome il
denaro trae il suo essenziale valore dall’essere considerato di valore da
altre persone, questo porta Locke a concludere che il fatto stesso che il
denaro funzioni come tale indica che gli uomini hanno “per tacito e
volontario assenso”73 concordato su di uno sproporzionato e diseguale
possesso della terra e dei suoi beni.
L’argomentazione lockiana, non meno di quella hobbesiana, lascia assai
perplessi tanto nella sua coerenza interna che nella sua tenuta
complessiva. Già il primo assunto, che il proprio corpo in quanto tale
rappresenti una “proprietà” costituisce uno schietto abuso concettuale.
Una proprietà intesa come diritto è qualcosa che, di nuovo, esige di essere
riconosciuto da altri. Invece il mio corpo e le mie facoltà sono “miei” in
un senso che non ha niente a che vedere con la proprietà come diritto. Al
mio corpo e alle mie facoltà ci tengo e le governo, ma questo interesse non
de nisce alcun diritto di proprietà. I miei arti sono detti “miei” proprio
come sono “suoi” quelli di un vitello o di una zanzara, ma nessuno
direbbe che il vitello o la zanzara hanno un “diritto di proprietà” sui
propri arti (e se così fosse, sarebbe curioso vedere le libere cessioni di
proprietà da parte di tutti i vitelli mangiati nel corso della storia). Se avere
a disposizione un corpo alla nascita rappresentasse un diritto di proprietà
non si capirebbe perché tale diritto non debba essere riconosciuto a ogni
animale e pianta, e a tutto ciò con cui essi “mescolano” la propria attività.
Qui Locke confonde la proprietà come sanzione legale, reclamabile di
fronte a terzi, con proprietà biologiche che sono meri predicati di un
soggetto. “Io” non sono “mio”, ma sono il presupposto perché qualcosa
possa essere detto mio o non mio74.
Questa confusione però è cruciale per far decollare l’intero argomento,
in quanto permette a Locke, secondo una mossa già compiuta da Hobbes
rispetto al diritto di natura in generale, di concepire un “diritto” che
sussiste in natura senza bisogno di passare attraverso alcun giudizio
sociale. Ma a questo passaggio claudicante succede immediatamente un
ulteriore passaggio scorretto. Subito dopo aver sancito il nesso “naturale”
tra proprietà e attività del corpo, Locke ricorre a un “accordo sociale” che
viene posto come prioritario rispetto al (presunto) diritto di natura. Infatti
l’accordo che istituisce la moneta, e con ciò la possibilità di
capitalizzazione, secondo Locke scavalca il principio della proprietà
basata sul lavoro e sull’uso. Nonostante prima la proprietà fosse stata
legittimata dall’avervi mescolato il proprio lavoro, ora viene giusti cata
sulla scorta di un accordo sul funzionamento del denaro. In sostanza,
dopo aver fondato in prima istanza il diritto di proprietà su una
dimensione naturale presociale, poi lo si basa su una dimensione di accordo
sociale, accordo che peraltro, sul piano logico, non potrebbe che
coinvolgere chi usa una medesima moneta, e dunque in nessun modo
l’umanità in generale. Lascio agli esegeti lockiani l’impresa, che temo
disperata, di trovare una coerenza interna in questo ragionamento.
In ultima istanza, tuttavia, l’argomento lockiano sulla proprietà nisce
per af darsi soprattutto a ciò che diverrà in seguito un tópos, ovvero al
fatto che la proprietà in forma monetaria garantirebbe maggiore ricchezza
e minore spreco per tutti75. Così, nel Nuovo Mondo, dove vige
un’economia priva di proprietà monetaria, “un re di un ampio e fertile
territorio mangia, alloggia e si veste peggio di un lavoratore a giornata in
Inghilterra”76. Questo argomento, che ritroveremo pari pari tre secoli
dopo in autori come Ludwig von Mises77, diverrà poi argomento centrale
nella difesa dell’impianto liberale. Naturalmente questo argomento
cambia in modo decisivo il terreno della giusti cazione, da quello di una
presunta legge naturale, indipendente dalla società, a quello utilitaristico
di un bene cio economico che si presume generalizzato e che perciò
verrebbe accettato dalla società tutta.
Questa mescolanza incoerente di principi di origine e matrice differente,
presente in Locke, se è letale sul piano teorico, non lo è stato affatto su
quello pratico. Tale ambiguità, lungi dall’indebolire la ragione liberale, vi
ha fornito nei secoli la peculiare capacità di slittare, a seconda della
necessità, dal piano della giusti cazione utilitaristica a quella dei diritti
naturali dell’individuo, e ritorno, per quanto i due moduli argomentativi
siano logicamente incompatibili. Finché la proprietà, e l’uso che se ne fa,
può essere difesa in termini di comune utilità, se ne conserva la
giusti cazione utilitarista; quando la prima giusti cazione dovesse entrare
in crisi, si può sempre evocare la proprietà come diritto naturale,
sacralizzato e dunque inviolabile.
Ci sono altri elementi che poi con uiranno in una tradizione liberale e
che sono identi cabili in Locke, in particolare un primo abbozzo di
separazione dei poteri (che verrà esposta nella sua forma classica da
Montesquieu) e le celebri considerazioni sulla tolleranza religiosa da parte
dello Stato. Rispetto a Hobbes è chiaro che la conclusione che viene tratta
circa il ruolo dello Stato in rapporto alle leggi di natura è pressoché
opposta. Non viene richiamata l’opportunità di una cessione integrale e
unilaterale del diritto di natura al sovrano, ma si propone l’idea di uno
Stato che agisce con la giusti cazione del consenso dei propri cittadini, in
forme regolamentate dalla legge. Il tema della divisione dei poteri e quello
della tolleranza sono temi che non dipendono dalla fondazione
giusnaturalista dell’argomento lockiano. Essi emergono piuttosto come
teorizzazioni collaterali al periodo delle guerre civili inglesi (1640-1660) e
della Gloriosa Rivoluzione (1688), e in questo senso rappresentano una
linea di pensiero che può essere discussa e difesa in maniera indipendente.
La linea genealogica che stiamo seguendo, invece, si concentra su quella
che appare come l’idea fondativa del pensiero liberale, ovvero l’idea che
esista una dimensione di diritti individuali che precede idealmente ogni
socialità e ogni istituzione, e ne prescinde. Che tipo di Stato sia
compatibile con queste premesse non è chiaro se non in alcuni aspetti
negativi. Da questa matrice individualista e naturalista possono emergere
con pari legittimità tanto una soluzione assolutista, come quella
hobbesiana, che una soluzione anti-assolutista come quella lockiana. Ma
in un caso come nell’altro ciò per cui non c’è spazio è l’idea di
un’identi cazione dell’individuo con la comunità statale (o viceversa). Lo
Stato si pro la come l’Altro, rispetto al cittadino, come un Altro che può
avere un carattere più o meno brutale, più o meno strutturato, ma che in
ogni caso ha come unico compito quello di tutelare dall’esterno lo spazio
delle “libertà naturali” dell’individuo. Lo Stato, e in generale ogni
dimensione istituzionale e sociale di una comunità storica, non hanno
altro ruolo possibile se non quello di fornire un sistema di regole e
sanzioni che consentano all’azione individuale di esprimersi, riempiendo
di contenuti quella griglia formale.
Resta qui aperta una rilevante questione teorica. Visto che istituzioni
collettive come lo Stato, o il denaro, sono comunque considerate
necessarie, e visto che parimenti l’interazione con altri soggetti resta
indispensabile, come va concepita la transizione tra una dimensione di
diritti individuali naturali e un’ineludibile dimensione sociale? Per
completare nell’ottica liberale questo quadro bisogna trovare un modo
per concepire un’interazione tra individui che sia socializzante, ma che
non richieda un accordo su valori comuni, progetti comuni ecc. Questo è
il compito che si assumerà il fondatore della scienza economica moderna,
Adam Smith.
9.4 Adam Smith e la socialità involontaria
Passare da due loso come Hobbes e Locke ad Adam Smith, padre
dell’economia moderna, può sembrare un passaggio strano, ma bisogna
intenderlo alla luce del modo in cui si è costituito quel nocciolo di
pensiero liberale che stiamo identi cando, e che sfocerà nel dominio
incontrastato dell’ultimo mezzo secolo. La prospettiva genealogica a
posteriori che abbiamo adottato si attaglia bene al caso di Adam Smith
giacché la collocazione del suo capolavoro, An Inquiry into the Nature and
Causes of the Wealth of Nations (1776), come capostipite della scienza
economica è, appunto, un’operazione a posteriori, un’operazione che ha
deciso di riconoscere, entro un testo molto variegato, alcuni punti
quali canti, ritenuti cruciali per gli sviluppi dell’economia liberale. In
questo senso, quando si parla di Adam Smith è sempre dif cile separare
nettamente l’Adam Smith lologicamente reale dall’Adam Smith
“simbolico”. La realtà testuale della Ricchezza delle Nazioni è quella di un
testo enormemente ricco, in cui tra le parti più brillanti vi sono ampie
sezioni di storia economica, e che si dedica non meno ampiamente al
piano esplicitamente normativo, suggerendo indirizzi di politica
economica. Delle parti speci camente economiche ve ne sono alcune
ritenute oggi superate, come la teoria del valore o la distinzione tra lavoro
produttivo e improduttivo78. Vi sono tuttavia alcune concezioni che
verranno sviluppate ed estese no a diventare il cuore dell’economia
neoclassica; nello speci co: una peculiare concezione dello scambio
individuale autointeressato, capace di condurre al benessere comune; una
concezione minimale dello Stato, che deve tendenzialmente limitare il
proprio intervento alla difesa e alla giustizia; una visione storica
progressiva, in cui il processo di incremento delle libertà, speci camente
economiche, appare come un orizzonte necessario79.
Ne Ricchezza delle Nazioni Locke viene citato soltanto con riferimento
alla teoria della moneta, e Hobbes soltanto con riferimento all’equivalenza
tra ricchezza e potere, tuttavia la coerenza con l’impostazione
individualista dei due predecessori è evidente.
Il primo e più celebre tema del testo smithiano è quello associato al
celebre passo in cui si ricorda come “non sia dalla benevolenza del
macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo la nostra cena, ma
dalla loro cura per il proprio interesse”80. Questo tema informa l’intera
prospettiva smithiana, conducendo alla concezione cosiddetta della
“mano invisibile”, in cui si teorizza che la ricchezza delle nazioni
(equiparabile all’odierno Prodotto Interno Lordo), emergerebbe
spontaneamente dal perseguimento individuale del proprio interesse81. Il
benessere comune emerge come effetto collaterale, non inteso da nessuno,
dell’interazione tra individui autointeressati. L’immagine mitica che
muove tale prospettiva, che gioca un ruolo simile allo “stato di natura” dei
giusnaturalisti, è quella dello scambio tra due attori economici isolati in un
“primitivo e rozzo stato della società”82. Tale scambio originario è
concepito come esito della propensione umana a “traf care, barattare,
scambiare una cosa per l’altra”83. Il processo spontaneo dello scambio poi
genera da sé la tendenza alla divisione del lavoro. L’idea di fondo qui è
semplice quanto potente: in uno scambio volontario tra individui sembra
chiaro che ciascuno dei due contraenti deve uscire dallo scambio più
soddisfatto di come vi era entrato, altrimenti non avrebbe accettato di
addivenire allo scambio. Questo mutuo bene cio spinge gli scambi
volontari a espandersi: tanti più scambi, quanto maggiore il
soddisfacimento. Ciò apre alla divisione del lavoro, dove ogni agente si
specializza nel produrre qualcosa, sapendo che poi potrà ottenere ciò che
gli manca dallo scambio con altri.
È interessante notare come proprio nelle prime pagine del capitolo sui
principi da cui nasce la divisione del lavoro (libro I, Cap. II) Smith
introduca la “naturalità” dello scambio dapprima come cooperazione e
comunicazione empatica, – non dimentichiamo che il primo lavoro di
Smith è un testo sulla comprensione empatica tra i soggetti (Theory of
Moral Sentiments, 1759). Poi, nell’arco di poche righe, l’interazione
cooperativa si trasforma in appello all’interesse personale, introducendo
così la naturalità dello scambio. Questo passaggio è indicativo di un nesso
ambiguo che rimane sotto traccia in una parte consistente del pensiero
liberale, ovvero l’idea che lo scambio economico sia la prosecuzione
naturale delle interazioni cooperative e degli scambi umani, culturali,
affettivi ecc. Quest’idea, che concepisce lo scambio economico come
latore di pace e conciliazione, la si ritroverà ancora due secoli dopo in
Hayek84. La cooperazione si trasforma senza apparente soluzione di
continuità in competizione, senza che di questa metamorfosi sia necessario
discutere. In realtà, sul piano antropologico e storico si potrebbe
agevolmente mostrare come questo passaggio sia uno stravolgimento che
coincide con la trasformazione di “economie del dono”, come quelle
arcaiche, in “economie dello scambio”85.
L’idea dello scambio individuale originario come “frutto naturale di
socievolezza” e come latore di mutuo bene cio, rappresenta l’immagine
fondante della libertà economica e della lettura della prosperità sociale
come prosperità di mercato. Quest’idea consente di trasportare
l’immagine hobbesiana e lockiana di un individuo naturale, isolato e
“autofondato”, nella dimensione dell’interazione sociale e storica. Se la
prima mossa fondativa della ragione liberale è porre l’individuo come
portatore di diritti naturali prepolitici e presociali, la seconda mossa è
quella di costruire una peculiare forma di socialità a partire da
quell’individuo idealmente isolato: tale socialità sarà quella dello scambio
autointeressato, che, contro ogni intenzione esplicita, genererà
spontaneamente benessere comune. Non c’è più bisogno di pensare che
un accordo sui valori o sui progetti sia alla radice della comune
collettività, ma basta af darsi al perseguimento del pro tto privato e il
benessere collettivo ne scaturirà spontaneamente.
Quest’idea opera storicamente come spiegazione e legittimazione di un
processo che Adam Smith poteva già incontrare in numerose istanze “di
mercato”. Il contributo di Adam Smith non sta nell’aver inventato un
modello di pratica sociale fondata su interazioni autointeressate, ma di
averne dato un’interpretazione che la giusti ca e generalizza. Senza
ridiscutere istanze “giusnaturaliste”, Adam Smith usa oramai in modo
disinvolto, ancorché discontinuo, la nozione di “libertà naturale”. Una
volta espressa la possibilità di de nire la socialità come sottoprodotto
dell’interazione autointeressata il ruolo delle istituzioni sociali, e
segnatamente dello Stato, è de nito. Lo Stato sovrano ha solo tre doveri,
necessari per difendere il “sistema delle libertà naturali”86: la difesa
militare esterna, la difesa interna rispetto a reati e violazioni di legge, e
in ne il dovere di erigere e mantenere opere pubbliche per la cui
costruzione non ci sia suf ciente interesse privato. Le prime due
quali che sono quelle corrispondenti allo “stato minimo” o “stato
sentinella”, mentre la terza eccede le competenze dello stato minimo,
includendo nella visione smithiana strade e canali di navigazione, ma in
linea di principio anche altre opere pubbliche. Anche in questo caso
l’Adam Smith reale si dimostra più concreto e meno ideologico dell’Adam
Smith “simbolico”. È vero che Smith ribadisce costantemente che lo Stato
dovrebbe ritrarsi da ogni forma di intervento sull’economia, ma è anche
vero che nel momento storico in cui egli scrive la presenza dello Stato (del
sovrano) nell’economia era vasta, secondo le linee tradizionali della cura
paternalistica dei ricchi verso i poveri. Erano ancora in vigore lo Statuto
degli Apprendisti del 1563 – che vincolava i soggetti alle professioni dei
propri avi, – e il Poor Relief Act del 1662, – che ssava la residenza dei
poveri presso la parrocchia di appartenenza, che doveva anche occuparsi
del loro sostentamento. In questo contesto storico si può comprendere il
potenziale liberatorio di energie latenti rappresentato dall’idea di una
ritrazione dello Stato a favore dell’iniziativa privata. Ciò che però era
comprensibile e sensato nel contesto in cui Adam Smith operava diverrà
problematico nel momento in cui verrà concepito come un modello
astorico perenne.
In ultima istanza, a fornire una giusti cazione alla visione “simbolica” e
astratta di un Adam Smith archetipo del liberismo sta la sua stessa
prospettiva storica. Conformemente allo spirito progressivo dei tempi,
Adam Smith fornisce una prospettiva dove il “progresso della ragione”
coincide con il progresso della società umana culminante in un sistema di
libera impresa e libero commercio. Secondo la prospettiva smithiana
stessa, perciò, leggere il personaggio Adam Smith come “precursore” e
“santo protettore” del liberismo appare giusti cato.

10. Il nucleo della ragione liberale e i liberalismi


Come ricordato in precedenza, il termine “liberale” ha una tale vastità di
accezioni da essere pressoché inservibile in assenza di precisazioni. L’unica
cosa che accomuna tutti i “liberalismi” è un qualche appello alla libertà (a
una forma di libertà) per differenza rispetto a regimi fondati sulla
tradizione e l’ereditarietà del potere. In questi termini tutto ciò che si è
sviluppato in Occidente dalla crisi delle monarchie assolute in poi sarebbe
“liberale”. Ma la breve ri essione sui tre autori di cui sopra, e l’analisi di
lungo periodo delle dinamiche storiche, ci segnalano un nucleo
concettuale più preciso, che abbiamo motivo di identi care come il cuore
della “ragione liberale”.
Tale nucleo può essere sintetizzato in quattro tratti fondamentali.
1) Si tratta innanzitutto di una visione antropologica e meta sica che
pone a proprio fondamento una speci ca forma di libertà individuale. La
libertà in questione è una libertà di tipo negativo, cioè una mancata
coazione esterna. Essa viene presentata come un diritto primitivo e
antecedente a ogni socialità e a ogni storia. La priorità assiologica di
questa libertà negativa toglie di mezzo e delegittima ogni altro appello a
valori condivisi, dottrine o credenze, che vengono lasciate nella sfera delle
opinioni private. Sul piano storico questo passaggio fu motivato, e si
accreditò, come tentativo di mettere fuori gioco tutte le controversie che
avevano caratterizzato le guerre di religione87. Eliminando la concepibilità
stessa di valori positivi obiettivamente perseguibili si eliminava lo spazio
stesso per i con itti che avevano insanguinato l’Europa, a partire dalla
Guerra dei Trent’anni (1618-1648).
2) Tale libertà si esprime in forma acquisitiva e di appropriazione, e
perciò la tutela della proprietà è concepita come correlato essenziale della
difesa della libertà88.
3) La società appare ora come una composizione di meri individui mossi
da agende di soddisfacimento privato. Essa emerge dalla libera
espressione delle libertà individuali, ed è de nita nel modo più diretto
dalle interazioni di scambio economico: la società è dunque il luogo dei
liberi scambi, e il mercato ne è la rappresentanza primaria.
4) Quanto in ne allo Stato, esso è giusti cato esclusivamente come
tutela di quelle libertà individuali e del regime dei liberi scambi
individuali. Perciò il ruolo assegnato allo Stato è quello di regolatore
minimo, che non interferisce attivamente nell’economia e nel mercato.
Questi tratti di fondo sono alla radice di ciò che viene riconosciuto come
“liberalismo classico”89, e che nel Novecento può essere ritrovato nelle
posizioni di pensatori come Robert Nozick e Friedrich von Hayek e, con
minori variazioni sul ruolo dello Stato, in ciò che conosciamo come
“neoliberismo” (o “neoliberalismo”).
Naturalmente in ciò che di volta in volta si è voluto riconoscere come
“pensiero liberale” occorrono istanze molto diverse, e talvolta è stato fatto
posto anche per una concezione storica e positiva, e non meramente
negativa, di “libertà”. Ciò accade ad esempio nel liberalismo idealista di
Bosanquet o di Benedetto Croce, che si rifanno al pensiero di Hegel. Non
è un caso che sia proprio Croce a introdurre in italiano la distinzione tra
liberalismo, come teoria morale della libertà, e liberismo, come teoria
dell’autoregolazione dei mercati. Tuttavia una concezione sostantiva della
libertà è caratterizzante di posizioni riconosciute come antiliberali (come
Marx) o dif cilmente conciliabili col liberalismo (come Hegel). Se la si
ammette nel novero della “grande famiglia liberale”, la famiglia stessa
perde ogni sensato limite de nitorio.
Esiste poi anche una linea di pensiero che si richiama al liberalismo e
che pone al suo centro la giustizia sociale e il ruolo redistributivo dello
Stato. Questa è l’accezione che ritroviamo nell’uso del termine “liberal”
nella politica americana, dove il termine nomina qualcosa che in un
contesto europeo potrebbe essere chiamato forse “socialdemocratico”.
Questa linea interpretativa può essere fatta risalire alla lezione di Keynes
(che però lasciava indecisa la questione se il proprio pensiero fosse
“liberale”)90, e si traduce nell’assegnare centralità alle idee di eguaglianza e
giustizia sociale. In questa prospettiva, va detto, della visione del
liberalismo classico resta ben poco; resta in piedi l’idea che vi debba
essere uno spazio per libertà e diritti individuali, cosa che oggi non nega
nessuno. Si può anche ammettere, come fa un “liberal” quale John Rawls,
che uno stato socialista democratico sia più giusto di uno Stato capitalista,
anche dotato di welfare91. La stessa posizione di Rawls in A Theory of
Justice non è una “variante” dei principi del liberalismo classico, ma è in
sostanziale con itto con quei principi92.
Ora, intestardirsi sull’appropriatezza dell’accezione di un termine a
scapito di altre è di solito un’operazione sterile. E a maggior ragione è così
per il termine “liberale”. Essendo la de nizione di “liberale” e
“liberalismo” qualcosa che ha avuto luogo a posteriori, sappiamo già che
sarà impossibile risalire a una ortodossia originaria. E tuttavia l’utilizzo di
uno stesso termine per idee radicalmente divergenti fa un pessimo servizio
alla chiarezza della ri essione. Nella fattispecie di “liberale” tale ambiguità
confonde ogni discussione, rendendo la più in uente visione politica della
storia corrente sgusciante, e perciò irrefutabile. Tale ambiguità va perciò
vigorosamente rigettata.
Dunque, è legittimo usare il termine “liberale” come si vuole, tuttavia, se
lo si adotta per abbracciare la concezione propria del “liberalismo
classico”, allora non tutte le sue diramazioni storiche possono essere
sensatamente dette “liberali”, pena l’inconsistenza. Nel quadro de nitorio
che qui sosteniamo la “ragione liberale” si costituisce in una convergenza
storica che coincide con il liberalismo classico, che si esprime
coerentemente nel corso dell’Ottocento, e che riemerge in forma
imperiosa nel neoliberismo dell’ultimo mezzo secolo. In questa visione
convergono una concezione individualista dell’uomo, una sospensione
delle pretese di validità intersoggettiva dei valori, una concezione
disanimata (meccanizzata) della natura, e un’idea della socialità umana
ricondotta a scambio economico.
Sul piano storico la spinta liberale giusti cò e sorresse le pretese di una
forma di umanità che rivendicava una nuova autonomia individuale:
l’umanità della scrittura e della stampa. Connessa a questo aspetto della
storia liberale è stata la ricerca di modelli istituzionali non oppressivi (vedi
la separazione dei poteri di Montesquieu), e la tolleranza verso una sfera
interiore di pensieri e opinioni, in particolare di natura religiosa (Spinoza,
Locke). Queste istanze, tuttavia, non necessitano delle premesse del
liberalismo classico per essere sostenute.
Del successo storico della ragione liberale è stata poi parte essenziale la
sua istituzionalizzazione in forma capitalistica, con la creazione della
scienza economica e con l’asservimento della natura (e degli uomini) alle
nalità del “sistema economico”. Come osservò a suo tempo Polanyi, la
speci cità dell’economico come sfera separata di diritto dall’etico e dal
sociale è una peculiarità della modernità occidentale93. Propellente storico
del liberalismo è stata la sua strutturale alleanza con le nascenti dinamiche
di mercato e, come vedremo, la sua contiguità con la nascita della teoria
economica neoclassica. In questa prospettiva istanze come quelle della
libertà sostanziale di Croce o dell’egalitarismo di Rawls appaiono come
corpi estranei, e la loro capacità di in uire sui meccanismi del “liberalismo
reale” sono proporzionalmente esigui. Giunti a questo punto, non
possiamo esimerci dall’esaminare il modo in cui la ragione liberale ha
trovato incarnazione nella moderna scienza economica.
56
Th. Hobbes, Leviatano, UTET, Torino 1955, p. 163.
57
Ivi, p. 162.
58
“If we may call liberalism that political doctrine which regards as the fundamental political fact
the rights, as distinguished from the duties, of man and which identi es the function of the state
with the protection or the safeguarding of those rights, we must say that the founder of liberalism
was Hobbes” (L. Strauss, Natural Right and History, University of Chicago Press, Chicago 1953, p.
182).
59
Questa è la lettura proposta da Leo Strauss in Natural Right and History, pp. 9-80.
60
“The classic natural right doctrine in its original form, if fully developed, is identical with the
doctrine of the best regime” (L. Strauss, op. cit., p. 144).
61
T. Honoré, Ulpian, Pioneer of Human Rights, Oxford University Press, Oxford 2002, pp. 80 e
ss.
62
Ivi, p. 85.
63
S. Hornblower, A. Spawforth, The Oxford Companion to Classical Civilization, Oxford
University Press, Oxford 2014, p. 315.
64
Cfr. Q. Skinner, Liberty before Liberalism, Cambridge University Press, Cambridge 1998, p.
46.
65
Q. Skinner, op. cit., p. 10.
66
I. Berlin, Two Concepts of Liberty, in Liberty, Oxford University Press, Oxford 2002, pp. 166-
219.
67
J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, il Saggiatore, Milano 2008, pp. 324-325.
68
L. Strauss, op. cit., p. 202.
69
A. Tuckness, Locke’s Political Philosophy, in The Stanford Encyclopedia of Philosophy, 2018,
Edward N. Zalta (ed.), [https://plato.stanford.edu/archives/sum2018/entries/locke-political/].
70
“The state of nature has a law of nature to govern it, which obliges every one: and reason,
which is that law, teaches all mankind, who will but consult it, that being all equal and
independent, no one ought to harm another in his life, health, liberty, or possessions: for men
being all the workmanship of one omnipotent and in nitely wise Maker; all the servants of one
sovereign Master, sent into the world by his order, and about his business; they are his property,
whose workmanship they are, made to last during his, not another’s pleasure: and being furnished
with like faculties, sharing all in one community of nature, there cannot be supposed any such
subordination among us that may authorize us to destroy another, as if we were made for one
another’s uses, as the inferior ranks of creatures are for ours” (J. Locke, Second Treatise of
Government: An Essay Concerning the True Original, Extent, and End of Civil Government, in Two
Treatises of Government and a Letter Concerning Toleration, Yale University Press, New Haven-
London 2003, p. 102).
71
Ivi, pp. 111-112.
72
“As much land as a man tills, plants, improves, cultivates, and can use the product of, so much
is his property. He by his labour does, as it were, enclose it from the common. Nor will it invalidate
his right, to say every body else has an equal title to it, and therefore he cannot appropriate, he
cannot enclose, without the consent of all his fellow commoners, all mankind. God, when he gave
the world in common to all mankind, commanded man also to labour, and the penury of his
condition required it of him. God and his reason commanded him to subdue the earth, i.e.
improve it for the bene t of life, and therein lay out something upon it that was his own, his
labour” (J. Locke, Second Treatise of Government, cit., p. 113).
73
“But since gold and silver, being little useful to the life of man in proportion to food, raiment,
and carriage, has its value only from the consent of men, whereof labour yet makes, in great part,
the measure; it is plain, that men have agreed to a disproportionate and unequal possession of the
earth; they having, by a tacit and voluntary consent, found out a way how a man may fairly possess
more land than he himself can use the product of, by receiving, in exchange for the overplus, gold
and silver, which may be hoarded up without injury to any one; these metals not spoiling or
decaying in the hands of the possessor” (J. Locke, Second Treatise of Government, cit., p. 121).
74
Incidentalmente, il diritto naturale di ogni uomo a “life, health, liberty, or possessions” non
rappresentò per Locke alcun impedimento a creare uno spazio giusti cativo per la schiavitù, allora
economicamente cruciale nelle colonie americane (vedi J. Locke, Political Writings, (a cura di) D.
Wooton, Penguin, London-New York 1993, p. 230; e J. Locke, Second Treatise of Government, cit.,
p. 136.
75
L. Strauss, op. cit., p. 242.
76
“[A] king of a large and fruitful territory there feeds, lodges, and is clad worse than a day-
labourer in England” (J. Locke, Second Treatise of Government, cit., p. 118).
77
“The average American worker enjoys amenities for which Croesus, Crassus, the Medici, and
Louis XIV would have envied him” (L. von Mises, Human Action. A Treatise on Economics, Fox &
Wilkes, San Francisco 1996, I ed. 1949, p. 265).
78
M. Blaug, Economic Theory in Retrospect, Cambridge University Press, Cambridge 1985, pp.
54 e ss.
79
J. Gray, Liberalism, University of Minnesota Press, Minneapolis 1995, p. 25.
80
“It is not from the benevolence of the butcher, the brewer, or the baker that we expect our
dinner, but from their regard to their own interest. We address ourselves, not to their humanity but
to their self-love, and never talk to them of our own necessities but of their advantages” (A. Smith,
An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, a cura di E. Canaan, University of
Chicago Press, Chicago 1977, pp. 30-31).
81
“But the annual revenue of every society is always precisely equal to the exchangeable value of
the whole annual produce of its industry, or rather is precisely the same thing with that
exchangeable value. As every individual, therefore, endeavours as much as he can both to employ
his capital in the support of domestic industry, and so to direct that industry that its produce may
be of the greatest value; every individual necessarily labours to render the annual revenue of the
society as great as he can. He generally, indeed, neither intends to promote the public interest, nor
knows how much he is promoting it. By preferring the support of domestic to that of foreign
industry, he intends only his own security; and by directing that industry in such a manner as its
produce may be of the greatest value, he intends only his own gain, and he is in this, as in many
other cases, led by an invisible hand to promote an end which was no part of his intention” (A.
Smith, op. cit., p. 593).
82
A. Smith, op. cit., p. 73.
83
“This division of labour, from which so many advantages are derived, is not originally the
effect of any human wisdom, which foresees and intends that general opulence to which it gives
occasion. It is the necessary, though very slow and gradual consequence of a certain propensity in
human nature which has in view no such extensive utility; the propensity to truck, barter, and
exchange one thing for another” (A. Smith, op. cit., p. 29).
84
Quando de nisce il suo termine “catallassi”, come ordine spontaneo del libero mercato,
Hayek sottolinea che: “The term ‘catallactics’ was derived from the Greek verb katallattein (or
katallassein) which meant, signi cantly, not only ‘to exchange’ but also ‘to admit into the
community’ and ‘to change from enemy into friend’” (F. von Hayek, Law, Legislation and Liberty,
Routledge, London 1982, p. 108).
85
Vedi a questo proposito A. Zhok, Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo, cit., pp.
109-170.
86
A. Smith, op. cit., pp. 914-915.
87
P. Manent, Storia intellettuale del liberalismo, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2010, pp. 8-
9.
88
Cfr. J. Gray, op. cit., p. 61; G. Gaus, Property, Rights, and Freedom, in “Social Philosophy and
Policy”, 11, 1994, pp. 209-240.
89
G. Gaus, S.D. Courtland, D. Schmidtz, Liberalism, in The Stanford Encyclopedia of Philosophy
(Spring 2018 Edition), Edward N. Zalta (ed.).
90
J.M. Keynes, Am I a Liberal?, in Collected Writings of John Maynard Keynes, (a cura di) D.
Moggridge, vol. IX, Cambridge University Press, Cambridge 1972, pp. 295-306.
91
J. Rawls, Justice as Fairness. A restatement, Belknap Press of Harvard University Press,
Cambridge, Mass. 2001, p. 138.
92
Il neocontrattualismo di Rawls parte, come noto, dalla “posizione originale” con il relativo
“velo di ignoranza”. Tale posizione presuppone principi incompatibili con il “liberalismo classico”,
giacché presuppone innanzitutto una comune cittadinanza (gli altri-come-me, con cui mi
concepisco come idealmente intercambiabile, sono altri cittadini, e senza questa limitazione l’intero
ragionamento risulta inde nito e incomprensibile). Se però assumiamo in partenza l’idea di eguale
cittadinanza, come fa Rawls (J. Rawls, A Theory of Justice, Harvard University Press, Cambridge,
Mass. 1999, I ed. 1971, p. 15), siamo già usciti dalle premesse fondamentali del liberalismo classico,
con la priorità ontologica e assiologica assegnata all’individuo naturale, presociale.
93
K. Polanyi, The Great Transformation, cit., p. 71.
Sezione terza
La consacrazione della ragione liberale nell’economia
neoclassica

11. La nascita dell’economia di mercato


Karl Polanyi ha dedicato celebri analisi all’identi cazione della “grande
trasformazione” che ha portato alla luce le moderne “società di mercato”.
Ciò che Polanyi dimostra con grande ef cacia è come un’economia
separata dal resto dell’azione sociale non sia mai stata concepita come una
possibilità no ai primi decenni del XIX secolo.
Quando Adam Smith pubblica La ricchezza delle Nazioni la Rivoluzione
industriale sta muovendo i primi passi in Inghilterra, dove si veri ca per la
prima volta quella peculiare alleanza tra cultura politica “liberale” (che
pone i diritti degli individui come dimensione originaria), visione del
mondo scienti ca ed economia monetaria matura. Questa convergenza
porta alla luce una forma produttiva nuova, dove la divisione razionale del
lavoro, l’utilizzo produttivo della tecnologia, la rottura degli antichi legami
sociali a favore di un nuovo dinamico individualismo iniziano a indurre
signi cativi aumenti della produttività pro capite (a partire circa dal
1790). Come mostra lo stesso Polanyi, la Rivoluzione industriale tutto fu
meno che un “processo spontaneo”. Si trattò di un processo di
“razionalizzazione” fortemente voluto dalle classi dirigenti inglesi, e
costruito per prove ed errori, ma conservando a lungo una salda guida al
vertice. Per comprendere questo carattere della Rivoluzione industriale
inglese è suf ciente ricordare due elementi, di grande impatto storico,
come le enclosures e l’espansione coloniale.
Il processo delle “recinzioni” (enclosures) è uno dei passaggi più noti e
cruciali nella Rivoluzione industriale. Esso constava uf cialmente di una
“razionalizzazione” dell’utilizzo della terra. Secondo uno statuto risalente
al Medioevo i commons (terre comuni) includevano i campi arabili, i prati
comuni e i terreni incolti. I prati comuni consentivano di far pascolare gli
animali, i terreni incolti fornivano legna da ardere e acqua, quanto ai
campi arabili essi erano “proprietà privata” in un senso peculiare e
limitativo. Nell’ordinamento feudale tutta la terra apparteneva al re, che la
dava in concessione ai feudatari, che la potevano a loro volta concedere ai
propri subordinati. Ma l’evoluzione istituzionale inglese, dalla Magna
Charta alla Gloriosa Rivoluzione del 1688, aveva indebolito le prerogative
del re, accrescendo quelle dell’aristocrazia terriera. Rimanevano tuttavia
ampie estensioni di terreno sotto diritto consuetudinario (i commons
appunto), che permettevano di praticare un’economia di sussistenza a una
parte estesa di popolazione priva di terre. In ciascuna contea le terre
comuni coltivabili erano assegnate a detentori che ne avevano il possesso,
trasmissibile ereditariamente, ma non ne avevano la proprietà in senso
moderno. Queste terre, a causa delle divisioni ereditarie, si erano
consolidate in una pluralità di strisce coltivabili, sparse sul territorio e
raramente contigue. Per questa ragione la coltivazione non avveniva su
base individuale, ma collettivamente, ed era seguita da una redistribuzione
del raccolto in proporzione ai relativi possessi.
Il processo delle enclosures nel Settecento aveva due obiettivi:
l’accorpamento dei campi comuni, in modo da superare la pratica di
coltivazione collettiva, e la privatizzazione di pascoli comuni e degli altri
terreni incolti, per “renderli ef cienti”. Tale processo ebbe luogo in forma
sostanzialmente coattiva, modi cando in maniera radicale l’organizzazione
sociale inglese. I maggiori proprietari terrieri potevano chiedere al
Parlamento (dove erano rappresentati essenzialmente proprietari terrieri)
di far passare un atto di recinzione, che riorganizzava i poderi di grandi e
piccoli possidenti, creando proprietà omogenee, ed eliminando i diritti
consuetudinari. I costi di costruzione delle nuove recinzioni e
canalizzazioni venivano assegnati in proporzione all’estensione dei terreni
posseduti. Questo processo, nonostante il simulacro di correttezza
formale, di fatto comportava la cacciata dal territorio sia di chi non
possedeva terra che dei piccoli possidenti. Chi non aveva campi propri
non poteva più sopravvivere grazie all’accesso alle aree comuni
(pascolando qualche animale, rifornendosi di legna, costruendo una
baracca), chi possedeva solo piccoli appezzamenti per un’economia di
sussistenza non deteneva denaro e non era in grado di affrontare le spese
di recinzione. Il risultato complessivo di questo processo, come osservò
per primo Marx, fu da un lato il passaggio al moderno concetto di proprietà
privata della terra e dall’altro la creazione di un esercito di spossessati che,
inurbandosi, fornì la manodopera a basso costo per il decollo del nuovo
sviluppo industriale.
Il secondo elemento che merita rilievo è come l’Inghilterra del
Settecento, lungi dal seguire una politica di riduzione del ruolo dello
Stato, di fatto adottò, con grande successo, una politica di imperialismo
militare e di protezionismo economico94. Adam Smith poteva facilmente
criticare l’invasività del ruolo dello Stato inglese perché si muoveva in un
contesto in cui, all’opposto di ogni “spontaneismo dal basso”, l’economia
inglese era trainata da iniziative promosse direttamente, o guidate
indirettamente dallo Stato (come quelle della British East India Company).
È proprio la forza dello Stato inglese a fare la differenza rispetto ad altri
paesi in cui i prodromi dello sviluppo capitalista si erano già presentati:
l’Italia e la Germania, che uno Stato unitario lo avranno solo nel tardo
XIX secolo, o anche l’Olanda, il cui Stato rimase troppo dipendente dalla
sfera del commercio privato, senza riuscire a de nirsi come potere
autonomo (sia pure simpatetico con il nascente capitalismo)95. La otta
inglese era già la più potente del mondo prima che gli incrementi di
produttività del nascente capitalismo dessero i loro frutti, e fu quella
protezione marittima a consentire anche lo sviluppo di commerci privati,
come il redditizio traf co degli schiavi con le colonie americane. Il
Parlamento, dove si ritrovavano gli stessi membri dell’alta società inglese
che erano protagonisti della Rivoluzione industriale, sostenne gli sviluppi
economici desiderati in ogni modo, dalle strade a pedaggio, allo scavo di
canali, alla costruzione di porti, alle leggi che limitavano le proteste dei
lavoratori (come quelle contro i “luddisti”)96. La dottrina del “libero
commercio”, del “laissez faire” divenne di moda in Inghilterra soltanto
dopo che la sua posizione di predominio mondiale era stata consolidata97.
È solo dunque a partire dal 1820 circa che in Inghilterra comincia a
maturare quella visione di liberalismo economico che trasformerà Locke e
Adam Smith nei “profeti della ragione liberale”. È a questo punto che
inizierà a maturare l’idea di un’esistenza indipendente della sfera
economica, separata dall’etica e dalla politica, idealmente capace di
autoregolarsi senza bisogno di interventi esterni o della guida dello
Stato98. Peraltro, già nella seconda metà del XIX secolo, il pensiero
loso co liberale nella sua forma classica diviene sempre meno
prominente. Se da un lato la sua implementazione socio-economica
appare vincente, dall’altro emergono gravi problemi associati allo sviluppo
capitalistico (i problemi descritti e diagnosticati in forma classica da Karl
Marx). Sul piano loso co la ragione liberale appare sempre di più come
una sorta di “pensiero nazionale inglese”, e non sembra aver molto di
nuovo da contribuire (sono degne di menzione solo le ri essioni di John
Stuart Mill e di Herbert Spencer).
Sarebbe però un errore guardare all’elaborazione loso ca come al
luogo primario di sviluppo della ragione liberale. Essa non fu mai
principalmente una teoria loso ca, e con il maturare della visione
scienti ca del mondo nel positivismo essa si tradusse in una teoria di
tutt’altro genere, come palingenesi di quella “scienza economica” nata un
secolo prima. Negli ultimi decenni del XIX secolo viene alla luce quello
che risulterà essere il vero capolavoro teorico della ragione liberale,
ovvero la nuova scienza economica che prenderà il nome di “economia
neoclassica”.

12. La nascita della “scienza economica”


Un secolo dopo la pubblicazione dell’opera di Smith si avvia una
trasformazione nella teoria economica che sfocerà nella sistematizzazione
neoclassica, marginalista, legata ai nomi di Carl Menger, Léon Walras,
William Stanley Jevons e Alfred Marshall. Questa sistematizzazione, che
rappresenta oggi il cuore della teoria economica studiata nelle facoltà di
tutto il mondo, produsse una cruciale metamorfosi nella natura e nelle
ambizioni della scienza economica.
La teoria economica negli autori che oggi chiamiamo “classici”, come
Adam Smith, Karl Marx o lo stesso John Stuart Mill, era essenzialmente
economia politica che ricorreva ad analisi storiche e sociali99. Tra il 1870 e i
primi del Novecento si produsse una metamorfosi che portò alla luce
qualcosa di radicalmente nuovo. Questa trasformazione della ri essione
economica avvenne con l’intento (tipicamente positivista) di produrre
scienza secondo i crismi delle “scienze dure”, delle “scienze della natura”.
I padri della teoria economica neoclassica cercarono di riprodurre gli
stilemi e le forme della scienza sica, che si proponeva come la “regina”
delle scienze della natura100. Questo processo avvenne in fasi progressive.
La prima fase può essere letta in connessione con la teorizzazione di
Carl Menger e speci camente con la polemica da lui avviata nei confronti
della “scuola storica”, polemica nota sotto il nome di Methodenstreit.
Secondo Menger lo storicismo in economia era una tendenza perniciosa in
quanto avrebbe confuso la teoria economica con la storia dell’economia101.
L’intento di Menger era quello di fondare l’economia su basi deduttive,
enucleando principi e teorie generali, valide in qualunque contesto
storico.
Per dare plausibilità a questa visione Menger suggerisce di cercarne
fondamenta radicate in natura, in senso biologico e astorico102, dunque
non nello “stato di natura” dei miti giusnaturalisti, ma con pretese di
plausibilità scienti ca (pur senza davvero approfondire il punto). Secondo
Menger l’errore delle scienze sociali del periodo, permeate di storicismo,
consisteva nel tentativo di pervenire a leggi esatte per mezzo della ricerca
empirica103. E non c’è dubbio che cercare di de nire “leggi esatte”
attraverso analisi dell’empiria storica è metodologicamente implausibile. Il
punto di fondo, tuttavia, è se l’analisi economica sia giusti cata di
principio a ricercare “leggi esatte”. Potremmo notare, in effetti, che
neppure in sica la ricerca di “leggi esatte” è propriamente possibile, se
non come ideale normativo. Gli effetti di questo tentativo nel campo
economico sono però stati rimarchevoli.
Quando Menger sostiene che i fenomeni della proprietà privata, del
baratto, della moneta e del credito sono fenomeni “tipici” dello sviluppo
umano egli intende che sono fenomeni che hanno una sorta di struttura
costante, storicamente variabile solo nei dettagli. Ma, come mostrato da
Polanyi una cinquantina di anni più tardi, in effetti tutti i fenomeni citati
hanno cambiato radicalmente natura nel tempo: la proprietà privata è
esistita solo in certi contesti storici e comunque in forme molto
differenziate; il baratto è stato per lo più un fattore collaterale dei “sistemi
di dono”; la moneta è una combinazione di funzioni che per gran parte
della storia umana, e nella maggior parte delle comunità umane, si sono
presentate separatamente; e il credito, prima della moneta in senso
moderno, era essenzialmente una dimensione etica, e solo di conseguenza,
eventualmente, economica104. La “tipicità” di questi fenomeni è tipicità
relativa a caratteristiche storiche speci che, non certo caratteristiche
antropologiche generali.
Questo processo di “naturalizzazione” (e destoricizzazione)
dell’economia si concretizza nell’introduzione di due assunti che sono a
metà strada tra la dimensione metodologica e quella ontologica: l’idea
della priorità dell’individuo e delle sue scelte, e l’idea dell’originarietà della
dimensione dello scambio (del mercato)105. L’immagine per cui “in
principio c’erano mercati”, dove interagivano individui autointeressati,
aleggia in forme più o meno esplicite in tutto il pensiero economico
neoclassico, da Menger106 a Williamson107. Come vedremo, che si tratti di
pretese di verità storica o di meri assunti metodologici risulterà del tutto
irrilevante nella costruzione della scienza economica neoclassica come
forma di analisi del mondo.
In questo processo di costruzione concettuale gioca un ruolo
determinante la creazione di una “sostanza unitaria” ttizia, che svolge
funzioni concettuali analoghe a quelle svolte dall’energia per la scienza
sica: l’economia marginalista introduce come sostanza da quanti care e
di cui valutare l’allocazione un presunto “valore economico”, chiamato
“utilità” e derivato dall’utilitarismo benthamiano108. Questa “utilità”
dovrebbe essere l’autentica entità che cresce o decresce nell’economia, e
nella vita di ciascun individuo: un’entità omogenea, quanti cabile e
dunque idealmente sottoponibile a calcolo. Con questo escamotage si
riesce a proporre una teoria economica che opera al tempo stesso come
una teoria generale del valore umano, come una teoria antropologica
(homo oeconomicus) e come una scienza matematizzata, sviluppabile per
parti, per microanalisi, che con uirebbero automaticamente in
con gurazioni d’insieme. È da qui che trae origine quella tendenza, oggi
conclamata ed estremizzata, verso la matematizzazione dell’economia,
concepita come una sorta di “ loso a matematica” o di “matematica
sociale”, dove la connessione con la realtà empirica, umana, storica e
sociale è ridotta ai minimi termini109.
Nel corso del Novecento l’impianto dell’economia neoclassica ha fatto
spazio alla macroeconomia keynesiana110, ma lo ha fatto subordinandola,
cioè ponendo a fondamento della scienza economica la sfera
microeconomica, cioè la sfera delle scelte ottimizzanti dell’individuo.
Questo approccio consolida l’immagina “costruttiva” e “atomistica” del
modello, in cui, come nell’ideale sicalista, gli interi complessi vanno
costruiti come sommatoria delle parti semplici. Il crescente predominio
della letteratura matematizzante in economia, conforme all’idea di
“scienza autentica” che si vuole proiettare, ha poi ostacolato ogni rimessa
in discussione di tale impianto, ponendo le questioni storiche e fondative
come scienti camente meno quali canti.
Così, a cavallo tra Ottocento e Novecento, in piena atmosfera positivista,
e in controtendenza con le politiche economiche concretamente attuate (il
laissez faire era già in ritirata, per lasciare spazio alle strategie imperialiste),
la scienza economica rinacque nella forma neoclassica, che de nisce
l’ortodossia economica contemporanea. I passaggi che caratterizzano
questa trasformazione del pensiero economico possono essere riassunti in
tre elementi di fondo:
1) Costruzione dell’economia come una nuova scienza sociale, che emula
gli stilemi delle scienze della natura, spostando il proprio fondamento
dalla storia alla natura.
2) Costruzione di un modello assiomatico, fondato su casi sempli cati e
idealizzati, in cui vengono introdotte come base della teoria concezioni
particolarmente restrittive di soggetto economico (homo oeconomicus),
di valore (utilità), e di relazione (scambio, mercato).
3) Spostamento della metodologia economica dall’analisi storico-induttiva
(o abduttiva) a quella ipotetico-deduttiva, con adozione crescente di
stilemi matematizzanti.
Questa trasformazione è fondamentale per lo sviluppo della ragione
liberale. Il liberalismo classico, una volta consolidato un modello politico
di laissez faire, non si sviluppa in direzione di una teoria loso ca,
antropologica, o meta sica, non approfondisce le proprie fondamenta,
ma, in conformità col suo carattere pragmatico, si incarna in una teoria
destinata all’applicazione, cioè nella scienza economica neoclassica. Ciò
che vogliamo sostenere, e che cercheremo di chiarire, è che la scienza
economica nel suo formato marginalista, neoclassico,
microeconomicamente fondato, non nasce propriamente come una
scienza, come uno schietto tentativo di ricerca della verità, ma piuttosto
come una teoria politica alla ricerca di egemonia. La scienza economica
neoclassica è la vera incarnazione della ragione liberale classica, che,
presentandosi in veste scienti ca, potrà esimersi nel XX secolo, in sempre
maggior misura, dal proporsi come una posizione politica (ed etica)
particolare: non ne avrà più bisogno perché si presenterà senz’altro come
verità scienti ca nella sfera dell’economico. La convergenza iniziata nel
XVI secolo tra pratica monetaria, tecnoscienza e teoria giusnaturalista
della libertà negativa viene a compiuta realizzazione nel progetto della
scienza economica neoclassica.

13. Lo scambio originario e gli assiomi del comportamento del


consumatore
Come avevamo iniziato a vedere in Adam Smith, alla base dell’edi cio
della scienza economica odierna sta uno schema suggestivo quanto
fuorviante. Esso consiste in una visione idealizzata, e antropologicamente
ttizia, dello scambio volontario tra individui. Il concetto più elementare e
basilare della scienza economica è lo scambio tra agenti economici
individuali, perfettamente indipendenti, che si trovano a interagire
liberamente in una transazione per mutuo bene cio. Se i due soggetti
pervengono a uno scambio volontario, esso per de nizione dovrebbe
essere vantaggioso per ciascuno dei due contraenti, altrimenti essi non vi
acconsentirebbero. Ora, questo “vantaggio” si presenta come semplice
approvazione soggettiva, ma viene concepito sul piano economico come
un’ideale quantità di valore, chiamata “utilità”. Si immagina dunque che
dopo ogni scambio volontario la quantità totale di valore (l’utilità dei
soggetti coinvolti) venga accresciuta. In linea di principio, sembrerebbe
dunque che ogni accrescimento o intensi cazione degli scambi volontari
all’interno di una società promuova un aumento generalizzato del
benessere (la “ricchezza delle nazioni”).
Questo schema iniziale, posto come intuitivo, verrà poi sviluppato,
complicato, raf nato, tuttavia sin d’ora una strada altamente problematica
è stata presa. Per quanto questo passaggio possa sembrare del tutto
innocente, l’invenzione di una sostanza omogenea di valore, che non
corrisponde a nulla di realmente vissuto, produce una serie di gravi
conseguenze a cascata. Lo scambio diviene tendenzialmente la chiave di
lettura universale della scelta razionale, della relazione con altri e anche
dell’azione individuale.
Così, in Ludwig von Mises111, troveremo l’azione individuale del singolo
letta come un’istanza di scambio, e precisamente come una sorta di
scambio tra sé e sé, dove un soggetto “baratta” prospettive di azione con
esiti per lui alternativi, ad esempio il piacere del riposo e quello di un
appagamento futuro.
Ogni rapporto interumano viene letto secondo una chiave di lettura
autoreferenziale, in cui ciò che è in gioco è uno scambio in cui ciascuno
cerca solo di ottimizzare il proprio vantaggio. In quest’ottica i teorici dello
“scambio sociale” (Social Exchange Theory)112 come Homans113 hanno
concepito ogni momento relazionale (approvazioni, ringraziamenti,
rimproveri, affettuosità ecc.) alla stregua di incentivi e disincentivi
economici, soggetti a leggi simili a quelle del comportamento del
consumatore.
Il cuore della teoria (micro-)economica è costituito da quei principi che
de niscono le forme ideali della scelta razionale nei processi di scambio (e
in quel caso limite dello scambio che sarebbe la scelta individuale
dell’azione). Tali principi elementari sono nominati come assiomi delle
preferenze (o del comportamento) del consumatore.
Gli assiomi delle preferenze del consumatore di solito ricordati sono
quattro114: completezza, transitività, non-sazietà e utilità marginale
decrescente. Questi principi dovrebbero de nire la struttura minima
af nché una scelta razionale possa aver luogo. La razionalità incarnata da
questi principi è ciò che consente di compiere il primo passo nel processo
di matematizzazione proprio dell’economia neoclassica (marginalista).
Essa consente cioè di tracciare le curve di utilità che rappresentano la base
analitica della microeconomia.
Mentre i primi due assiomi enucleano principi che si vogliono
meramente logici, i secondi descrivono tratti psicologici ritenuti
fondamentali; partiamo dai secondi due.
Il principio di non-sazietà dice che per ogni bene economico un soggetto
preferirà sempre averne di più piuttosto che di meno. Questo principio,
che può sembrare di primo acchito ovvio, è in effetti chiaramente falso se
applicato in un contesto dove non esistano mercati (o dove essi siano
imperfetti), giacché per qualunque bene il suo accumulo a un certo punto
diverrà inutile, e anzi oneroso. Posso amare i pomodori, posso usarli in
molti modi ingegnosi, ma se non posso venderli tutti sempre su un
mercato capace di assorbirli, a un certo punto raggiungerò una soglia
dove ricevere altri pomodori sarà per me un onere e non un incremento di
utilità. Il principio di non-sazietà dunque presuppone tacitamente, come
dato incluso nell’essenza stessa dell’economico, l’esistenza di un mercato
ideale, potenzialmente illimitato (un mercato locale, come il suk islamico o
l’agorà greca, non sarebbe in grado di liberarci ef cacemente di serie
eccedenze di pomodori). Ciò implica che, diversamente da ciò che
pretende, il principio di non-sazietà è valido solo in condizioni storiche
particolari (l’esistenza di un sistema di mercato) e non può avere validità
antropologica generale.
Il principio di utilità marginale decrescente coglie un tratto autentico
delle forme del desiderio umano, e opera in certo modo come correttivo
del precedente. Esso cattura una tendenza propria dell’appagamento di
ogni desiderio fondato in bisogni concreti: quanto più un bisogno viene
appagato avendo la disponibilità di un bene, tanto meno acquisirne
un’ulteriore unità sarà desiderabile. Questo principio vale in maniera
estensiva sul piano antropologico, ma va notato che proprio in un sistema
di mercato (il sistema presupposto dal principio precedente) esso presenta
importanti eccezioni. In un sistema di mercato la crescita di disponibilità
monetaria apre orizzonti di acquisizione precedentemente ignorati e con
ciò può condurre a un desiderio di denaro ulteriormente accresciuto:
mentre il desiderio di qualunque bene concreto tende a ridursi con
l’aumento della sua disponibilità, il desiderio di denaro può aumentare
con l’aumento della sua disponibilità, in quanto non si tratta di un bene
che appaghi un desiderio speci co, ma piuttosto di una forma di potere
generico.
Presi come presunte “evidenze naturali prime”, questi due principi
“psicologici” mostrano una strana disomogeneità nelle condizioni di
applicazione: le condizioni sotto cui il primo vale sono quelle sotto cui il
secondo non vale, e viceversa. Già qui emerge come l’atmosfera
disincarnata, astorica in cui vengono collocati i principi dell’economia
neoclassica sia concettualmente problematica.
Gli altri due principi del comportamento del consumatore sono invece
spesso considerati alla stregua di principi logici, violare i quali
costituirebbe senz’altro un’assurdità. Proprio essi però nascondono le
astrazioni più problematiche. L’ortodossia neoclassica vede infatti in
eventuali violazioni di quei principi forme di schietta irrazionalità, da
censurare o correggere. Perciò questi due principi dispiegano i propri
effetti in senso pienamente normativo.
Il principio di completezza afferma che per ogni coppia di scelte è sempre
possibile ordinarle in termini di utilità, come eguali, maggiori o minori
l’una all’altra. Questo assunto, apparentemente innocente e scontato,
contiene invece un presupposto cruciale. Esso infatti de nisce la
commensurabilità di ogni contenuto di valore con ogni altro e con ciò
anche la misurabilità di ciascun contenuto di valore. Affermare che ogni
contenuto di valore può essere ordinato secondo il più o il meno signi ca
asserire che ogni contenuto di valore è quanti cabile. Questo è in effetti il
contenuto implicito nel concetto di utilità, mutuato dall’utilitarismo
classico, e fondamentale per comprendere la concettualizzazione del
valore in economia115.
Ciò che avviene tacitamente in questo passaggio è qualcosa che ha ampie
ripercussioni: un conto infatti è dire che in qualunque circostanza noi
possiamo comunque operare una scelta senza rimanere in stallo (tra
indecidibili potremmo, ad esempio, tirare a sorte). Tutt’altra cosa è
affermare che la nostra scelta è stata prodotta sulla scorta di una
comparazione quantitativa di una stessa “entità” (l’utilità).
Va peraltro osservato, di passaggio, come anche una condizione di stallo
e oggettiva indecidibilità non sarebbe, in senso stretto, irrazionale (nel
senso di inintelligibile). Possiamo essere posti di fronte a una scelta dove
con iggono imperativi incommensurabili, e ciò ci può portare a una
posizione di stallo. Ad esempio, potremmo immaginare una simile
condizione di stallo in Abramo di fronte alla richiesta divina di sacri care
il glio Isacco: l’obbedienza a Dio e l’amore paterno potrebbero
con gurare una situazione in cui imporre un ordine di valore risulti
impossibile. Ma tralasciando questi casi limite, il punto più ricco di
implicazioni consiste nell’idea che i contenuti di valore su cui esercitiamo
le nostre scelte debbano avere natura quanti cabile, dunque riconducibile
di principio a valutazione numerica116. Questo punto si chiarisce meglio se
completiamo il quadro esaminando l’ultimo assioma del comportamento
del consumatore, ovvero l’assioma di transitività.
Anche l’assioma di transitività sembra asserire qualcosa di banale, quasi
tautologico. Esso afferma infatti che se preferisco il bene A al bene B e il
bene B al bene C, devo preferire il bene A al bene C. Se così non fosse, se
io fossi così irrazionale da violare il principio di transitività, qualcuno
potrebbe ridurmi in miseria vendendomi in sequenza ciclica sempre gli
stessi beni. Questo principio rinforza ed esplicita il carattere quantitativo
attribuito ai contenuti di valore che rappresentano una scelta economica.
Il valore (l’utilità) è concepito come una sorta di sostanza omogenea,
incorruttibile, divisibile e quanti cabile, che può perciò essere
accumulata, o dispersa, nel tempo. Non è dif cile vedere come il tacito
modello di questa sostanza non sia un’entità psicologica, come il piacere e
il dolore degli utilitaristi, ma più semplicemente il denaro. Solo il denaro
infatti si presenta come una sostanza omogenea, divisibile, quanti cabile,
cumulabile e dotata di valore. Ma il suo valore è un valore strumentale,
estrinseco, dovuto alla sua capacità, in un contesto, di produrre l’accesso a
certi beni o servizi. Per conferire dignità psicologica, e spessore
antropologico, al “valore del denaro” viene inventata la nozione di utilità,
come presunto correlato interiore di ciò che si presenta pubblicamente
come medio di scambio e riserva di valore nelle transazioni di mercato.
Di fatto è abbastanza semplice mostrare come violazioni della
transitività possano essere tutt’altro che irrazionali. Posso preferire una
Ferrari a una Mercedes come simbolo di status, posso preferire una
Mercedes a una Ferrari per portare in vacanza la famiglia, e posso
preferire una Smart sia alla Ferrari che alla Mercedes per andare a fare la
spesa in città. Qui si possono creare in nite forme di intransitività che non
presentano traccia di irrazionalità117. Infatti una contraddizione in senso
proprio, come recita la de nizione classica del principio di non-
contraddizione, è un’incompatibilità che si veri ca per scelte poste come
simultanee e sotto le medesime condizioni118. Ma nessuna scelta reale si può
di principio svolgere in questa ideale simultaneità decontestualizzata
(stesso tempo, stesso rispetto). Quelle condizioni ideali appartengono solo
all’atemporalità astratta delle relazioni logico-matematiche. Le nostre
scelte reali avvengono in contesti d’azione che cambiano, e dove peraltro
anche le nostre stesse preferenze possono essere soggette a mutamento. In
diverse fasi della vita, ma anche su periodi molto più brevi, persino in una
stessa giornata, possiamo avere soggettivamente esigenze differenti e
dunque possiamo ordinare in modo differente il valore degli stessi beni.
In verità, un’attenta descrizione fenomenologica della natura delle scelte
reali potrebbe mostrare come esse non avvengano mai nella forma di una
qualche comparazione tra “piaceri” e “dolori”, o genericamente di
“sentimenti”. Le nostre scelte valutano comparativamente scenari dinamici
dotati di senso, sviluppi di storie possibili, dove anche le eventuali
componenti di “agio” o “disagio” sono de nite alla luce di potenziali
orizzonti di conseguenze, di “storie alternative”. Il “calcolo” che si
presenta nelle nostre scelte non ha niente a che fare né col “comparare
pesi diversi”, né con una computazione, ma è in effetti una valutazione
comparativa immaginaria di situazioni alternative e delle opzioni che esse
aprono. Posso scegliere se recarmi in un luogo in automobile o in treno e
in questa scelta possono entrare “calcoli” differenti relativi ai costi, alla
comodità, ai tempi di percorrenza, alla possibilità di decidere l’orario di
partenza, all’opportunità di lavorare (o meno) durante il viaggio ecc. E
ciascuna di queste valutazioni dipende a sua volta da cosa mi aspetto di
dover fare successivamente: all’arrivo, nei giorni successivi, nella mia vita
seguente. Qui la ri essione porta davanti agli occhi della mente in modo
analitico singole opzioni che devono il valore al loro signi cato
nell’ordinamento delle mie azioni e prospettive. E il signi cato ha ben
poco a che vedere con sommatorie di piacere e dolore (per quanto il
dolore, in quanto tende a far appassire l’azione, venga generalmente
evitato). Concepire le proprie azioni e prospettive come unità
indipendenti di valore, come “quanti” di una sostanza omogenea
isolatamente confrontabili, è essenzialmente sbagliato.
Una considerazione d’insieme di questa breve analisi inizia a mostrare
come già nei più elementari assiomi che de niscono la razionalità della
scelta economica alberghino astrazioni che non sono innocue
“approssimazioni”, ma problematiche distorsioni. L’esistenza di un
mercato e di un modello monetario del valore vengono presupposti,
giacché senza quei presupposti quegli assiomi non avrebbero nessun
senso. Ma assumere tacitamente l’esistenza di istituzioni storiche
fondamentali (mercato e denaro) come presupposto generale della scelta
razionale è un’operazione gravida di conseguenze problematiche.

14. I principi della concorrenza perfetta


Immediato corollario della priorità dello scambio autointeressato è la
centralità assunta dalla divisione del lavoro. Posta la possibilità diffusa di
accedere a scambi volontari, gli individui hanno motivo per specializzarsi,
suddividendosi i compiti produttivi, e ottenendo così un incremento
complessivo della produzione e, per ipotesi, del benessere collettivo. Lo
stesso schema si presenta poi sul piano degli scambi tra nazioni, dove la
divisione del lavoro porterebbe di principio a un aumento generalizzato
della produzione, come argomentato per primo da David Ricardo, con la
“teoria dei costi comparati”.
Tanto l’azione individuale che la divisione sociale del lavoro vengono
lette alla luce di uno scambio volontario idealizzato che de nisce le forme
della scelta razionale. Una volta stabilita questa piattaforma concettuale,
vengono introdotte le condizioni teoriche generali, che dovrebbero
consentire di realizzare i bene ci promessi da un sistema universale degli
scambi volontari. Queste condizioni si presentano nell’economia
neoclassica come assiomi o principi, secondo un paradigma proprio più
delle scienze naturali o della matematica, che non delle scienze sociali.
Nello speci co essi vengono ricordati sotto il nome di principi della
concorrenza perfetta, e sono le condizioni ideali sotto cui un sistema di
liberi scambi (un mercato) troverebbe un equilibrio capace di ottimizzare
sia l’allocazione delle risorse che l’utilizzo dei fattori produttivi.
L’idea di mercato perfetto rappresenta non solo un ideale portante della
teoria economica neoclassica, ma un modello relazionale generale per
quell’ampio settore del liberalismo politico che concepisce la società
essenzialmente come luogo di scambi tra individui. Il mutuo vantaggio,
assunto come esito di ogni singolo scambio volontario, si vorrebbe ora
generalizzato alla totalità delle relazioni sociali, nella misura in cui gli
scambi possano essere esercitati sotto condizioni di “mercato perfetto”.
Esaminiamo ora brevemente le condizioni presupposte al
funzionamento di un mercato perfetto. Il loro elenco non è perfettamente
stabile, ma il loro nucleo fondamentale è riconducibile a otto richieste
principali.
1) Massimizzazione.
Gli agenti economici, produttori o consumatori che siano, devono
cercar di massimizzare i propri “guadagni”, la propria “utilità”.
2) Mutua indipendenza delle decisioni.
Ciascuna decisione relativa all’effettuazione di una transazione va presa
da ciascun transattore indipendentemente da ciò che decidono gli altri
agenti economici.
3) Debolezza degli agenti economici.
Nessun singolo agente sul mercato dev’essere in grado da solo di
esercitare un’in uenza signi cativa sui prezzi, né come acquirente, né
come venditore. Questo implica che ci debbano essere sempre una
pluralità di agenti economici, compratori e venditori, “non troppo
grandi”.
4) Informazione perfetta.
Ogni agente sul mercato deve avere informazioni esaurienti circa la
natura dei prodotti e i costi per ottenerli.
5) Libero accesso.
Non devono esistere barriere di alcun tipo a un’entrata nel mercato di
nuovi produttori e nuovi consumatori, così come a un’uscita dal mercato
stesso.
6) Mobilità dei fattori di produzione.
I fattori di produzione classici sono la terra, la forza lavoro e il capitale, e
in un mercato perfetto essi devono poter essere liberamente riallocati a
seconda di come forniscono i pro tti maggiori. Non essendo la terra
spostabile ciò implica che forza lavoro e capitale (includente merci e
denaro) si devono poter spostare senza impedimenti sulla terra.
7) Nessuna esternalità.
Un’esternalità è ogni costo (o bene cio) generato in un’attività
economica che venga imposto su soggetti che non hanno scelto di entrare
in quell’attività economica: un esempio classico di esternalità è
l’inquinamento collaterale a un’attività produttiva. Nel sistema delle libere
transazioni sul mercato non ci dovrebbero essere situazioni in cui
esternalità vengano fatte ricadere su soggetti diversi da produttori o
transattori volontari.
8) Nessun costo di transazione.
I costi di transazione sono ogni costo necessario per pervenire a uno
scambio volontario, come i costi che si incorrono in una trattativa, o quelli
per de nire i diritti di proprietà o per difenderli, o quelli per ottenere
informazioni sulla natura dei prodotti ecc. In un mercato perfetto non
dovrebbero sussistere costi di transazione.
Ora, queste otto condizioni sono riconosciute come idealizzazioni, che
dunque non pretendono di fotografare la realtà dei mercati, e tuttavia
sono idealizzazioni che, come vedremo, giocano un ruolo determinante
nella de nizione della realtà economica.
14.1 Sulla massimizzazione
La prima condizione traspone e applica al livello di mercato quanto
abbiamo visto essere implicitamente stabilito negli assiomi del
comportamento del consumatore: il valore che si istituisce nella sfera degli
scambi ha la natura di una quantità accumulabile e ciascun agente
economico cerca di averne sempre di più. Nella sfera del mercato quella
condizione, astratta sul piano assiologico, sembra trasformarsi in qualcosa
di intuitivo: l’acquisizione di sempre maggiore pro tto monetario.
Tuttavia, come è stato osservato varie volte, a partire dalla concezione di
“razionalità limitata” (bounded rationality) di Herbert Simon119, questo
presupposto massimizzatore è de facto generalmente falso; gli agenti
economici più che massimizzare tendono a raggiungere generiche
condizioni di soddisfacimento.
Secondo Simon ciò dipenderebbe essenzialmente dalla dif coltà, e
talvolta impossibilità, di raggiungere una conoscenza adeguata delle
condizioni della scelta. Questa critica, che focalizza sui limiti nella raccolta
ed elaborazione possibile delle informazioni, è però limitativa. Il soggetto
agente nella propria esistenza normale non è un massimizzatore
innanzitutto perché, salvo nei casi circoscritti a valutazioni monetarie, esso
non si rapporta a nessuna quantità di valore massimizzabile, cumulabile. Il
modo più appropriato per intendere la forma che prendono le ordinarie
scelte umane è nei termini di percorsi in una storia, dove un punto d’arrivo
della storia non è mai pienamente de nito né de nibile: le nostre scelte
sono scelte tra percorsi alternativi, in vista di prospettive più o meno
promettenti. L’introduzione della condizione di massimizzazione induce
invece a concepire come propriamente razionali solo le decisioni
riconducibili a una parametrazione quantitativa. Ciò induce a pensare
come modello della decisione razionale la decisione in base a valutazioni
di principio monetizzabili (ad esempio in termini di “valutazioni costi-
bene ci”).
14.2 Sulla mutua indipendenza delle decisioni
Il secondo assunto introduce l’esigenza di una mutua indipendenza dei
criteri che governano le decisioni. Solo sotto tali premesse ha senso
immaginare che l’effetto complessivo delle scelte in un’economia possa
essere logicamente ricondotto a una sommatoria di scelte individuali.
L’idea di fondo della mutua indipendenza delle decisioni è semplice: se io
preferisco il prosciutto al salame, e vengo a sapere che tu preferisci il
salame al prosciutto, sembra assurdo pensare che ciò produca un
mutamento nelle mie preferenze; continuerò a ordinare panini di
prosciutto. Questo è molto ragionevole, ma non appena si va al di là di
esempi volutamente elementari si scopre facilmente che nella costituzione
delle proprie preferenze le scelte determinate dalla comparazione con
scelte altrui rappresentano una parte poderosa delle scelte nel mondo
reale. Ci sono autori, come René Girard120, che ritengono addirittura che
ogni desiderio sia essenzialmente “mimetico”, cioè dipenda dalla
comparazione con l’altro. Ma senza abbracciare questa posizione estrema,
è comunque indiscutibile che una signi cativa fonte di desideri propri, o
di mutamento di desideri pregressi, sia fornita da componenti relazionali
come imitazione, emulazione, invidia, competizione. Una parte molto
signi cativa delle nostre scelte reali sono fatte prendendo in
considerazione come esse si con gurano in comparazione con scelte
altrui. Esistono numerosi beni (non solo beni di lusso) che traggono parte
preponderante del loro valore dall’essere “esclusivi”, cioè dall’imporre
una competizione per accedervi (scuole prestigiose, titoli, onori cenze,
riconoscimenti). Inoltre in tutti i percorsi di carriera a partire
dall’antichità (il cursus honorum romano) la competizione per il prestigio
alimenta l’ambizione almeno quanto quella per la ricchezza. A parte tutti
questi dati antropologicamente consolidati, anche nella forma di mercato
che più si avvicina al modello del “mercato perfetto”, cioè il mercato
nanziario, le scelte vengono spesso operate su prevalente base emulativa
(si vende se vendono gli altri, si compra se comprano gli altri), come
stanno a ricordarci molteplici bolle nanziarie. Dunque anche questo
secondo assunto, nonostante l’apparenza di innocuo buonsenso, è in
effetti una descrizione inadeguata dei comportamenti reali nei mercati
reali.
14.3 Le normatività del mercato perfetto
Il gruppo di condizioni elencate sopra come 3), 4), 5) e 6) sono quelle su
cui si esercita in maniera più costante e coerente l’intervento politico
esplicitamente rivolto ad avvicinare i mercati reali al “mercato perfetto”.
L’intervento regolatore degli stati si è impegnato diffusamente, dalla ne
del XIX secolo, nel modellare giuridicamente condizioni di mercato che
approssimassero le idealità del “mercato perfetto”. Le leggi antitrust sono
state probabilmente il primo intervento in questa direzione. A partire
dallo Sherman Antitrust Act del 1890, esse servirono a impedire, o
limitare, la capacità di singoli agenti economici di condizionare i prezzi
(debolezza degli agenti economici). Altre norme cercano di aumentare
l’informazione che i produttori sono tenuti a dare sul prodotto ai
consumatori (informazione perfetta). Si è intervenuto spesso per ridurre le
incombenze burocratiche ed economiche che limitano l’accesso di nuovi
competitori al mercato (libero accesso). E quanto alla mobilità dei fattori di
produzione, il processo noto come “globalizzazione” nell’ultimo mezzo
secolo illustra bene il modo in cui gli stati liberali si siano adoperati per
indurre gradi crescenti di “apertura”: alle merci, ai capitali e anche alle
persone. La riduzione o annullamento dei dazi, la creazione di un mercato
dei capitali planetario, l’incremento continuo dei processi di trasferimento
di forza lavoro, entro gli stati e tra gli stati, sono tutti tratti distintivi
dell’ultimo mezzo secolo.
Ma qui come altrove è importante tenere ben ferma la distanza tra
idealizzazione e realtà.
L’informazione perfetta rimane un concetto utopico, neppure
lontanamente approssimabile: di fatto l’asimmetria di conoscenza del
prodotto tra produttore e consumatore rimane incolmabile.
Solo in pochi settori, come la piccola ristorazione, l’ingresso sul mercato
è relativamente facile; nella maggior parte dei casi l’ingresso sul mercato è
condizionato alla disponibilità di ingenti capitali.
La mobilità dei fattori di produzione è sempre fortemente asimmetrica:
mentre i capitali possono giovarsi di una mobilità pressoché assoluta
grazie alla tecnologia corrente (e alle legislazioni che lo permettono), le
merci hanno necessariamente tempi e costi di trasferimento molto
maggiori, e la forza lavoro, essendo incidentalmente costituita da esseri
umani, non può mai né sicamente né legalmente spostarsi con una
velocità comparabile con quella dei capitali o anche delle merci. Siccome
nel sistema di mercato la rapidità di spostamento comporta la capacità di
sfruttare le migliori opportunità di guadagno, queste differenze di velocità
strutturali già da sole spiegano perché la rendita dei capitali tenda a essere
superiore ai margini di pro tto delle merci, e a maggior ragione dei
margini di guadagno della forza lavoro121.
È a partire da questa modellizzazione del mercato perfetto che vengono
tratte alcune delle più controverse idealizzazioni nella concezione
economica liberale. Una di queste idealizzazioni è quella per cui si
suppone che il proprio salario sia o debba essere tendenzialmente
proporzionale al proprio contributo produttivo. L’idea è che se il
contributo produttivo del lavoratore A è superiore a quello di B (cioè se la
fetta di produzione riconducibile ad A ha un valore di mercato superiore
a quello di B), sarebbe sensato per il datore di lavoro offrire ad A un
salario superiore per cercare di ottenerne i servigi. Questo rilancio verso
l’alto dovrebbe procedere no a quando il salario di A non sia
proporzionato al suo contributo produttivo. Il ragionamento qui
informalmente riportato si rifà al cosiddetto “teorema dell’esaurimento
del prodotto” proposto dagli economisti ottocenteschi J.B. Clark e Ph.
Wicksteed. Nell’ottica della questione della giustizia distributiva esso dice
in sostanza che nel lungo periodo al lavoro ritornerebbe in forma di
salario ciò che il lavoro crea. Perciò la giustizia distributiva del mercato
coinciderebbe senz’altro con la sua ef cienza: il successo economico
sarebbe giusto in quanto risponderebbe a una meritocrazia oggettiva,
corrispondente al funzionamento ef ciente del mercato.
Naturalmente questo ragionamento ha presupposti massivamente
irrealistici, tra cui la trascurabilità dei costi di transazione e la realtà
dell’informazione perfetta. Solo con costi di transazione insigni canti
sarebbe immaginabile quella sorta di “ricontrattazione continua” che
viene qui evocata. E solo con informazione perfetta sarebbe concepibile
estrapolare il contributo produttivo individuale da un processo produttivo
cui contribuiscono una vasta pluralità di fattori e, di norma, la
collaborazione di più individui. Nella realtà niente di tutto ciò si veri ca. I
salari tendono a seguire convenzioni “tradizionali” di settore o, dove
possono essere aggiustati con facilità, dipendono dal relativo potere
contrattuale tra lavoratore e datore di lavoro, comunque fondato. Questo
potere contrattuale peraltro dipende molto più da questioni esterne al
contributo individuale (tassi di occupazione, legislazione contrattuale
ecc.) che dalla produttività personale.
Simili considerazioni possono essere fatte per la cosiddetta trickle-down
economics, cioè per l’ipotesi che automaticamente una crescita dei pro tti
nella parte più benestante della popolazione porterà bene ci alla società
nel suo complesso. Anche qui, se si assume l’impossibilità del crearsi di
posizioni di dominio sul mercato, e si assume che ogni risparmio si
trasformi in investimento ottimale (grazie a informazione perfetta, natura
massimizzante dei soggetti, assenza di costi di transazione ecc.), allora è
concepibile che gli incrementi di ricchezza dei più ricchi niscano per
“colare” al di sotto, bene cando l’intera società. L’unica cosa che ostacola
fastidiosamente questo quadro panglossiano è la realtà, dove niente del
genere accade perché le condizioni idealizzate del mercato perfetto
restano appunto idealizzazioni.
Così, l’aumento unilaterale della ricchezza nei ceti privilegiati tende a
ridurre il livello complessivo dei consumi, giacché i ceti più abbienti
risparmiano una fetta proporzionalmente maggiore del proprio reddito, e
non hanno l’urgenza di impiegare tale risparmio in modo produttivo. Al
contempo certe forme di spesa dei ceti abbienti si ripercuotono sui prezzi
medi, peggiorando le condizioni dei meno abbienti. Questo è il caso tipico
della cosiddetta “gentri cazione”, dove gli acquisti immobiliari nei centri
storici rientrano in orizzonti di investimento interessanti per i ceti
benestanti, creando un incremento dei prezzi che esilia i ceti meno
abbienti in aree periferiche, mal collegate, insalubri ecc. Questo è un
processo in cui – all’opposto della trickle-down economics – la crescita di
potere d’acquisto di un gruppo si ripercuote in danno per un altro
gruppo, anche se il reddito nominale di quest’ultimo è rimasto stabile.
In tutti questi casi le idealizzazioni proposte operano come indicazioni
di una situazione da perseguire – magari per approssimazioni. Il “mercato
perfetto”, pur nascendo come idealizzazione nel mero senso di “modello
teorico”, poi tende a trasformarsi sul piano delle politiche economiche in
idea guida, in ideale normativo.
14.4 La costituzione economica degli enti non-economici
Gli ultimi due principi che dobbiamo considerare sono quelli
concernenti l’assenza di esternalità e costi di transazione. Per garantire che
i vantaggi dello scambio siano proprio ciò che appare ai contraenti, e
niente più di questo, è necessario assumere che le transazioni non abbiano
né “eccedenze”, né “attriti”: né effetti preterintenzionali esterni, né
elementi ostativi interni, dunque né esternalità, né costi di transazione.
Tuttavia il mondo reale ha ben poco a che fare con queste condizioni
descrittive. Che l’insieme delle libere transazioni economiche producano
ricorrentemente esternalità, modi che involontarie dei rapporti sociali o
degli equilibri ambientali è troppo noto per dover essere rimarcato: ogni
effetto collaterale di un’attività produttiva, che sia sull’ambiente naturale,
sull’organizzazione urbana, sulle relazioni sociali ecc. rappresenta
un’esternalità. Paradossalmente, la stessa “mano invisibile” smithiana
(bene ci collettivi che uscirebbero preterintenzionalmente dallo scambio
egoistico) è un bell’esempio di esternalità, ancorché di un’esternalità
positiva.
Quanto ai costi di transazione, qui nasce un tema di grande rilievo,
ovvero l’idea della necessità di un “mediatore terzo”, di un’entità che
intervenga mediando, quando le relazioni di libero scambio lasciate a se
stesse non sono in grado di eseguire gli scambi per reciproca utilità che
potenzialmente potrebbero svolgere. Questo passaggio prende le mosse
dal celebre articolo di Ronald Coase (Nobel per l’Economia 1991) sulla
natura della “ditta”122. Nell’articolo in questione Coase intendeva spiegare
l’esistenza di quell’entità intermedia sovrapersonale che è la ditta o
azienda. Una spiegazione è richiesta, perché, se davvero vigessero le
condizioni del mercato perfetto, qualcosa come una “ditta” sarebbe del
tutto super uo: in assenza di costi di transazione ogni rapporto lavorativo,
ogni fornitura di servizio, potrebbe essere oggetto di contrattazione e
ricontrattazione individuale immediata. In un mondo dove vigessero le
ideali relazioni di scambio e contrattazione tra individui del mercato
perfetto non ci sarebbe ruolo per entità intermedie nei rapporti di
scambio individuali. La ditta si ritaglia un ruolo necessario, invece,
proprio in quanto l’assenza di costi di transazione è una condizione
fallace; e in presenza di tali costi i potenziali contraenti spesso non
entrerebbero in alcuna relazione di scambio. Per Coase la ditta emerge
dunque come coordinatore di scambi in presenza di costi di transazione
che renderebbero liberi scambi individuali impercorribili123. Ma ciò che
Coase sostiene per le ditte vale di fatto per ogni intermediario
istituzionale. E così attraverso il ragionamento di Coase viene fatto spazio,
nella cornice idealizzata dell’economia neoclassica, per entità come lo
Stato e per poteri speci ci dello Stato come quello giudiziario.
In un mondo ideale, privo di costi di transazione, in ogni momento un
lavoratore potrebbe ricontrattare la propria posizione, i propri compiti, le
proprie condizioni di lavoro. In un mondo privo di costi di transazione
qualunque problema di esternalità potrebbe essere “internalizzato”
attraverso una trattativa: ad esempio, se l’azienda A produce pulviscolo di
carbone che ostacola l’attività dell’azienda B (es.: una lavanderia), B
potrebbe offrire denaro ad A af nché elimini le emissioni con dei ltri.
Secondo Coase, se l’attività di B è abbastanza remunerativa da pagare
l’onere di A, allora a B converrà pagare: così facendo il pro tto
complessivo verrà ottimizzato. Se invece il vantaggio di A nel non avere
ltri fosse superiore al vantaggio per B di averli, allora non avverrà alcuna
transazione economica e a B converrà trovare alternative meno costose, o
traslocare l’attività. Secondo questo modello la riorganizzazione delle
relazioni produttive può avvenire senza bisogno di alcun intervento terzo,
come quello di un tribunale, semplicemente seguendo la linea razionale
del maggior vantaggio privato. Dal punto di vista della “produttività”
complessiva, in assenza di costi di transazione, un accordo tra le parti
dovrebbe risolversi sempre in modo ottimizzante. Naturalmente in questo
modello si prescinde da questioni di giustizia o di potere, trattate come
variabili extraeconomiche.
Il limite di questo modello sta nel fatto che nel mondo reale, dove ogni
trattativa costa tempo e risorse, è impensabile che tali condizioni di
capillare contrattabilità siano normali. Non può esserci una continua
contrattazione né tra lavoratore e datore di lavoro, né tra lavoratori in
collaborazione, né tra datori di lavoro in competizione. Così, secondo
Coase la ragione (economica) per l’esistenza di “corpi intermedi” tra
individui interagenti, corpi come ditte o stati, sarebbe l’esistenza di costi
di transazione: i corpi sociali intermedi emergerebbero come soluzioni
utilitaristiche ai problemi dello scambio individuale.
Un ragionamento complementare a quello svolto da Coase è stato
proposto da Douglass C. North (Nobel per l’economia 1993) con
riferimento all’esistenza di usi e costumi sociali, abiti collettivi, norme
religiose. Per North, diversamente da Coase, il problema non è l’emergere
di un corpo intermedio sovraindividuale (come la ditta), ma di una sfera
di regole, lealtà e solidarietà interumane che vincolino i soggetti a
comportamenti diversi dal mero opportunismo egoistico. Secondo North
questa sfera di credenze e comportamenti di valore sovraindividuale
sarebbe giusti cata dall’impossibilità di gestire relazioni di corretta
competizione economica tra individui che siano puri massimizzatori
razionali egoisti (homines oeconomici). Infatti, sotto le premesse di una
società di massimizzatori razionali bisognerebbe aspettarsi un’esplosione
dei comportamenti da free rider, dove ciascun agente cerca di sottrarsi ai
propri obblighi in tutte le circostanze dove non possa essere punito.
Letteralmente il free rider è chi usufruisce del servizio di trasporto
pubblico senza pagare il biglietto. La fattispecie però è estendibile a
un’in nità di comportamenti sociali, sia sul posto di lavoro che nella
quotidianità extra-lavorativa. Un mondo di opportunisti alla continua
ricerca del proprio vantaggio personale sarebbe un mondo dove i costi di
transazione esplodono, giacché ogni atto dovrebbe essere sorvegliato da
un controllore pronto alla sanzione, che peraltro dovrebbe essere
sorvegliato a sua volta, per evitare che il suo controllo sia venduto al
miglior offerente, e così via. In quest’ottica, secondo North, i vincoli
morali, le lealtà interpersonali, il senso del dovere ecc. sarebbero da
intendere come espedienti necessari per consentire alle relazioni di
mercato di funzionare124. Tutto ciò che in varia misura concepiamo come
appartenente alla “decenza morale” umana viene dunque interpretato
come una forma di capitale, quella forma chiamata capitale sociale.
Più speci camente nell’ambito della loso a politica è a partire da
questo stesso paradigma interpretativo che si muove la proposta teorica di
Robert Nozick in Anarchy, State and Utopia. In quel celebre lavoro
Nozick cerca di tratteggiare un modello ideale di creazione/giusti cazione
dello Stato a partire da un meccanismo di “mano invisibile”. L’idea di
fondo è quella per cui la prima forma di Stato nascerebbe da una
competizione tra agenzie di protezione private125, che si presumono
funzionanti in una sorta di “mercato originario” (di cui, incidentalmente,
né la storia né l’antropologia hanno mai avuto contezza). La competizione
nirebbe per selezionare un’agenzia dominante, sfociando in un
monopolio della difesa, che rappresenterebbe la prima matrice dello Stato.
Che questa concettualizzazione sia palesemente priva di fondamento
empirico non ha mai scosso Nozick, né i suoi sostenitori, giacché l’idea di
fondo non era quella di descrivere la realtà come è, bensì la realtà come
sarebbe dovuta essere, o magari come dovrà essere in futuro.
Va notato, peraltro, che anche sul piano concettuale il modello di
Nozick è claudicante, giacché non fornisce affatto ragioni suf cienti per
motivare come esito preferenziale quello in cui debba emergere una
singola agenzia di difesa monopolistica: di fatto, nell’esperienza storica
che abbiamo di “agenzie di protezione private in competizione” (ad
esempio gruppi ma osi), esse non sfociano in alcun monopolio, ma
de niscono piuttosto una pluralità di gruppi con dominanze periodiche e
momentanee126.
15. L’imperialismo economico e la distopia liberista
Il rapido esame dei principi della concorrenza perfetta ci ha mostrato il
loro carattere di idealizzazioni normative. Ma che si sia in presenza di
idealizzazioni astratte non rappresenta di per sé una questione
controversa. Il punto controverso è se tale idealizzazione sia innocua
quanto alle sue conseguenze operative.
Come abbiamo ricordato in precedenza, l’organizzazione dell’edi cio
concettuale dell’economia moderna dipende dalla scelta mirata di
quali care l’economia come scienza in senso forte, sul modello delle
scienze della natura. Il Methodenstreit sancì il progressivo abbandono del
modello storico-descrittivo come base della scienza economica a favore di
un modello assiomatico-matematizzante127. L’essenza della cosiddetta
“rivoluzione marginalista” consiste precisamente nel de nire assiomi e
principi di partenza in vista della possibilità di creare, a partire da essi,
equazioni in grado di calcolare i margini di pro tto o perdita, i rischi o le
opportunità. Come detto, l’esito di questo processo teorico fu: 1) la
costruzione di una nuova scienza sociale, che emulava gli stilemi delle
scienze della natura; 2) la sua fondazione su un modello assiomatico,
fondato su casi sempli cati e idealizzati; 3) lo spostamento della
metodologia economica dall’analisi storico-induttiva a quella ipotetico-
deduttiva, matematizzante.
Ma questo approccio, applicato a una scienza come l’economia, che in
precedenza veniva annoverata tra le moral sciences, presenta implicazioni
altamente problematiche. Diversamente dalla sica, l’economia non può
istituire esperimenti in sistemi controllati senza introdurre sempli cazioni
che, per il suo oggetto di studio, risultano fuorvianti. Mentre si può
ritenere che i comportamenti delle parti di un sistema sico isolato
rimangano gli stessi che sarebbero se il sistema sico non fosse isolato
(entro certi limiti), un tale assunto rispetto ad agenti economici (persone)
è sostanzialmente insensato. Il giudizio umano, come motore dell’azione, è
sempre olistico, cioè tende a considerare tutte le variabili di cui è
cosciente, anche quelle assenti, passate o future. Non c’è alcun
parallelismo possibile con il comportamento, per dire, di una molecola in
un uido, che dipende esclusivamente dalle forze presenti e contigue.
Ragionare in termini economici come se le parti nell’intero avessero le
stesse caratteristiche delle parti isolate è privo di senso, e in quest’ottica
l’estensione di inferenze microeconomiche a sistemi storici complessi è
una pura scommessa (o un’inferenza ttizia). Le variabili con cui
l’economia ha a che fare sono materiali storici e antropologici che per
essenza non sono mai strettamente replicabili, e che non possono essere
trattati “per parti isolate” senza modi care la sostanza di ciò che è
valutato.
A questi problemi strutturali, si aggiunge un secondo, decisivo,
problema. La scienza economica differisce dalle scienze della natura in
quanto è una scienza normativa, come l’etica, cioè un sapere che non si
limita a effettuare previsioni, ma che raccomanda comportamenti conformi
alle aspettative in essa maturate. Così, le idealizzazioni astratte, che in
sica hanno il solo senso di sempli cazioni capaci di rendere
analiticamente gestibili sistemi complessi, in economia tendono a
diventare ideali normativi, situazioni desiderabili cui approssimare la
realtà per quanto possibile. In questo senso, l’assiomatica che descrive il
“mercato perfetto” ha un signi cato molto diverso dall’assiomatica sica:
non si tratta solo di astrazioni per approssimare descrittivamente le
transazioni volontarie, ma diventano condizioni prescrittive, da perseguire
con interventi politici e legislativi. Talvolta alcune condizioni ideali
vengono imposte legislativamente come mete da perseguire, ad esempio
con le leggi antitrust, altre volte a imposizioni normative dirette si
preferiscono forme di pressione indiretta.
Così, ad esempio, l’esistenza di interazioni tra soggetti che possano
concordare le proprie scelte è di per sé una violazione del principio della
mutua indipendenza delle decisioni. L’ideale normativo del mercato
perfetto indurrebbe (e ha indotto in passato) a opporsi all’interferenza di
forze politiche e organizzazioni sindacali sui posti di lavoro. Infatti tali
forze e interazioni turbano la mutua indipendenza delle decisioni,
coordinando le azioni dei lavoratori e non facendoli operare come agenti
individuali in rapporti di mutuo scambio competitivo. In generale è
l’esistenza stessa di una sfera politica indipendente dal libero scambio
economico a risultare problematica, in quanto turbativa della spontaneità
degli scambi individuali.
Come abbiamo visto sopra, sulla scorta di Douglass North, i vincoli e
legami morali vengono concepiti sub specie oeconomica come una modalità
del capitale, il “capitale sociale”. Parimenti, gli organismi istituzionali
collettivi vengono letti come effetti collaterali della ricerca di vantaggio
individuale all’interno di un sistema di scambi (Nozick, Coase).
Similmente, tutto ciò che appartiene alla formazione umana, allo studio,
all’educazione e sviluppo del soggetto viene a sua volta letto come un’altra
forma di capitale: il “capitale umano”. Nella concettualizzazione
economica la formazione umana, l’educazione, la Bildung romantica, la
παιδεία greca, vengono tutti tradotti come modalità per mettersi
all’altezza delle funzioni produttive future.
L’economia neoclassica, con la sua pretesa scienti ca, ha nito per
creare una nuova visione del mondo, che riduce alla propria concettualità
intere aree precedentemente analizzate con strumenti concettuali
autonomi. Questo processo di estensione delle categorie dell’economico a
ogni campo dell’agire umano è stato chiamato sia da critici128 che da
sostenitori129, imperialismo economico.
Così, entità tipicamente extraeconomiche come la morale, i costumi o lo
Stato sono rilette in modo da concepirle come “soluzioni” a problemi
de niti da “imperfezioni” del mercato, immaginato a sua volta come
originario. La conclamata falsità storica e antropologica di questa
evoluzione è ritenuta irrilevante. Per quanto un mercato (che non è
baratto occasionale) possa esistere solo in presenza di una preesistente
cornice di tutela legale (diritti di proprietà, contratti ecc.) e dunque di uno
Stato e di soggetti rispettosi della legge, si è voluta immaginare una
condizione di mercato come ideale datità originaria.
Con questi slittamenti interpretativi, le idealizzazioni che de niscono la
cornice dello scambio e del mercato si trasformano tacitamente in forme
“utopiche” da perseguire, o forse meglio, in forme di un’autentica
distopia, in corso di secolare esplicitazione. Tale processo ha numerose
implicazioni che esamineremo in dettaglio, ma in prima battuta cerchiamo
di isolarne due tratti di fondo.
In primo luogo l’imperialismo economico produce una metamorfosi
dell’esperienza primaria, di ciò che ci si presenta come dotato di senso in
una cornice concreta e intersoggettiva. Cose, situazioni, beni, relazioni,
vissuti personali, vengono letti come mere “occasioni” del darsi di
“utilità”. La pluralità del mondo viene tradotta nell’omogeneità
quantitativa di un “valore” anonimo, cumulabile. Questa traduzione trova
naturale incarnazione in due entità: nel denaro come valore quanti cabile
esterno, e nel “piacere” come presunto “apprezzamento interno”,
concepito come una sorta di “sostanza sensibile omogenea”. Concepire
atti ed eventi, nel mondo e nella storia, come incarnazioni di una di queste
entità (o di entrambe) porta fatalmente ad alimentare una prospettiva
nichilistica, di svuotamento di tutto ciò che ha valore. Tanto il denaro che
il piacere sono infatti entità strutturalmente indifferenti al modo in cui
sono ottenuti, sono indipendenti da buone o cattive ragioni, funzionano in
modo indifferente alla sfera dei signi cati o delle prospettive di senso.
Che il denaro sia in mio possesso per caso, fortuna, dolo o quant’altro è
irrilevante per la determinazione del suo valore: tutto ciò che conta è la
sua quantità per me qui e ora disponibile. Similmente, se a interessarmi è
il piacere. Che il piacere che ottengo sia ottenuto come soddisfacimento
per azioni lodevoli o vergognose, feconde o sterili, sensate o insensate, che
sia l’esito di un successo personale o dell’assunzione di mor na o
quant’altro è parimenti indifferente.
Concependo ciò che ha valore in una di queste due dimensioni astratte,
il denaro o il piacere, il senso di eventi e azioni viene svuotato, lasciando
in piedi soltanto un succedaneo di valore tragicamente impoverito.
Questo impoverimento etico lascia peraltro tracce abbastanza visibili già
nello stesso modo di pensare cui viene implicitamente addestrato chi si
accosta agli studi economici. Si tratta di quella forma mentis che
consentiva a Gary Becker di parlare, senza ironia, dei gli come di “beni
durevoli del consumatore” (durable consumer goods)130. Nel momento in
cui ogni evento, ogni persona, ogni situazione sono concepiti come un
contributo maggiore o minore al benessere privato, inteso in termini
monetizzabili, il vincolo di mutualità che fonda la ri essione morale è
eroso. La de nizione di Carlyle dell’economia come dismal science (la
“scienza triste”) appare in quest’ottica piuttosto comprensibile. Non è
peraltro un caso che in ripetuti esperimenti psicologici si sia riscontrata la
tendenza, in chi ha compiuto studi economici, ad adottare comportamenti
relativamente più egoisti131. La principale ragione di tale tendenza sembra
dipendere dalla propensione, derivata dalla concezione di individuo e di
valore implicita nella teoria economica, a supporre che le motivazioni
autentiche non possano che essere egoistiche.
L’utopismo astratto implicito nella teoria neoclassica (e poi, come
vedremo, nel suo uso politico neoliberale) produce un sistematico
rovesciamento ontologico, già eloquentemente sottolineato da Marx132.
Come abbiamo detto, ogni entità dotata di senso tende a essere tradotta in
una funzione (o forma) del “capitale”. Le persone divengono perciò
“forza lavoro”, le loro virtù e abilità diventano “capitale umano”, i loro
usi, costumi e norme comuni diventano “capitale sociale”, le nazioni
diventano “ditte” o “aziende”, e naturalmente il valore per eccellenza si
riduce al capitale per eccellenza, il denaro.
Questa traduzione sistematica capovolge il senso vissuto delle esperienze
umane, invertendo sistematicamente mezzi e ni. Il capitale è infatti per
essenza il mezzo universale che può essere dedicato a impieghi successivi,
senza di per sé predeterminarne alcuno. Il capitale è dunque per essenza
mero “rinvio”, “strumento disponibile”, vuota condizione di possibilità,
medio neutrale, che dovrebbe trarre il proprio senso dall’impiego cui
viene adibito. Ma poiché tutto ciò che potrebbe appartenere alla sfera
degli impieghi, degli scopi (persone, virtù, costumi, nazioni, valori in
generale) è già concettualizzato come forma del capitale, ne segue che
l’intera esistenza si presenta come un perenne rinvio a vuoto, un rimando a
in niti ulteriori rimandi, un potere da accrescersi in vista di altro potere
da accumulare. La prospettiva esistenziale aperta dall’imperialismo
concettuale della teoria economica neoclassica è dunque quella distopica
di un rigoroso nichilismo: una visione del mondo dove il calcolo
ottimizzante ha riempito ogni interstizio, mentre la ri essione sulle buone,
o meno buone, ragioni del perché calcolare e perché ottimizzare sono
lasciate a una landa desolata di idiosincrasie private e arbitrarietà.
Questa “distorsione originaria” incastonata nelle fondamenta della
scienza economica moderna non ne in cia necessariamente i risultati.
L’esistenza di un metodo scienti co per la raccolta e comparazione di
analisi e risultati ha prodotto ciò che ci si aspetta da una scienza, ovvero la
capacità di correggere e precisare assunti iniziali erronei o astratti. In
questo senso la scienza economica non è semplicemente un “grande
errore”, ma è spesso autentica conoscenza scienti ca, fruttuosamente
applicabile nel contesto dato. E tuttavia il peccato originale insito nelle
proprie idealizzazioni di partenza non riesce a essere semplicemente
cancellato. Così, mentre nel complesso della letteratura economica è
possibile trovare un’ampiezza di studi dedicati a mostrare i limiti
applicativi di certi assunti, le eccezioni di molte idealizzazioni,
l’imperfezione dei mercati reali e i loro fallimenti, tuttavia l’impronta
ideologica della ragione liberale rimane indelebile e la si scorge
distintamente nelle posizioni “per default”, nel consenso medio ortodosso
degli studiosi. Non esiste nessuna scienza i cui adepti abbiano una
disposizione politica preferenziale di fondo tranne l’economia. Come
ricorda con dovizia di particolari Dani Rodrik, gli economisti assumono la
bontà del libero scambio come una verità naturale, una certezza di fondo,
rispetto a cui il mondo reale può poi presentare locali sgradevoli
eccezioni133. Ma questo è solo un aspetto. Gli assunti di fondo, le
“credenze naturali” non si limitano al libero commercio, ma concernono
la natura degli individui e della società, che rispecchiano
inconsapevolmente il dettato della ragione liberale. Va da sé che a questa
tendenza generale possono sfuggire quelli che hanno preso coscienza di
tale pregiudizio originario, distanziandosene. Si tratta però di norma di
minoranze critiche, mentre si può contare sulla saldezza dell’impianto
liberale di fondo.
L’economia neoclassica, dunque, non è solo una scienza. Essa è anche un
tacito meccanismo di propaganda liberale, un meccanismo potente
proprio in quanto non reputa di esserlo, e in quanto gode presso il
pubblico del pregiudizio positivo che si ascrive all’obiettività neutrale
delle scienze.
Ritorneremo in seguito su questo punto, ma ora dobbiamo
approssimarci gradualmente all’interpretazione della svolta neoliberale
degli ultimi cinquant’anni. Per farlo è necessario chiarire il ruolo dello
Stato in rapporto all’evoluzione della ragione liberale.
94
H. Heller, The Birth of Capitalism. A Twenty-First-Century Perspective, Pluto Press, London
2011, pp. 152-153.
95
“Quel popolo [olandesi] nel diciottesimo secolo dava ancora in appalto l’esazione delle
imposte per l’uso dei porti e i suoi interessi commerciali rischiavano regolarmente di mettere in
forse la sicurezza delle Province Unite: durante la guerra d’indipendenza dalla Spagna i mercanti di
Amsterdam nanziarono le navi corsare di Dunkerque che depredavano le navi olandesi; durante
la prima guerra franco-olandese combattuta tra il 1672 e il 1678 gli olandesi rifornirono le truppe
di Luigi XIV di tutta la loro polvere da sparo e di tutto il loro piombo; e durante le guerre anglo-
olandesi i mercanti di Amsterdam rifornirono le navi inglesi di tele per vela e di cordame”. (J.H.
Shennan, Le origini dello stato moderno in Europa. 1450-1725, il Mulino, Bologna 1991, pp. 125-
126).
96
J. Rule, The Vital Century. England’s Developing Economy 1714-1815, Longman, London 1992,
p. 313.
97
“Reform in the direction of free trade had to wait until the second quarter of the nineteenth
century, for it was a policy best suited to the maintenance of industrial leadership rather than to the
assisting of economic development. Once Britain had become the ‘workshop of the world’, free
trade could become a self-serving ideology. That is why it had such a short history as an
internationally preferred policy” (J. Rule, op. cit., p. 316).
98
K. Polanyi, Per un nuovo Occidente. Scritti 1919-1958, a cura di G. Resta e M. Catanzariti, il
Saggiatore, Milano 2013, parte I.
99
B. Fine, D. Milonakis, From Economics Imperialism to Freakonomics. The Shifting Boundaries
Between Economics and Other Social Sciences, Routledge, London-New York 2009, p. 2.
100
Ph. Mirowski, More Heat than Light. Economics as Social Physics, Physics as Nature’s
Economics, Cambridge University Press, Cambridge 1999, p. 3.
101
G.M. Hodgson, How Economics Forgot History. The Problem of Historical Speci city in Social
Science, Routledge, London & New York 2001, p. 79.
102
“Those changes in the empirical forms of the organic world which as a result of well-
established hypotheses are said to have been completed in the course of thousands of years, usually
in prehistoric times, actually are completed in the realm of social phenomena in general and in
particular in that of economy in a most intense manner, and, indeed, in historical times, right
before our eyes, as it were. The phenomena of private property, of barter, of money, of credit are
phenomena of human economy, which have been manifesting themselves repeatedly in the course
of human development, to some extent for millennia. They are typical phenomena” (C. Menger,
Investigations into the Method of the Social Sciences with Special Reference to Economics, New York
University Press, New York 1986, p. 103).
103
“The error of the social philosophers consists in the fact that they try to arrive at exact social
laws by means of empirical research, and thus in a way in which exact laws of phenomena cannot
be established at all, neither exact social laws nor exact natural laws” (C. Menger, Investigations,
cit., p. 224).
104
In un lavoro passato abbiamo cercato di mostrare, alla luce di Polanyi e di ulteriori fonti
storiche e antropologiche, come nasca l’idea di “credito” in un’accezione monetaria (in
Mesopotamia) e come il baratto non sia mai una dimensione originaria, risultando o come caso
marginale di sistemi di mercato già funzionanti, oppure come caso secondario nell’istituzione di
una cosiddetta “economia di dono”. Cfr. A. Zhok, Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo,
cit., sezioni II.1.2, II.1.3, e III.
105
B. Fine, D. Milonakis, op. cit., p. 3.
106
È caratteristico il modo in cui Menger introduce la presunta “invenzione della moneta”
partendo da un “individuo economizzante” (wirtschaftendes Individuum) e dall’impulso naturale,
di smithiana memoria, al baratto: “As each economizing individual becomes increasingly more
aware of his economic interest, he is led by this interest, without any agreement, without legislative
compulsion, and even without regard to the public interest, to give his commodities in exchange for
other, more saleable, commodities, even if he does not need them for any immediate consumption
purpose” (C. Menger, Principles of Economics, Ludwig von Mises Institute, Auburn, USA 2007, p.
260).
107
O. Williamson, Markets and Hierarchies, Free Press, New York 1975, p. 21.
108
La nozione di utilità come somma dei piaceri e sottrazione dei dolori è al cuore della
concezione morale di Bentham: “It is in vain to talk of the interest of the community, without
understanding what is the interest of the individual. A thing is said to promote the interest, or to
be for the interest, of an individual, when it tends to add to the sum total of his pleasures: or, what
comes to the same thing, to diminish the sum total of his pains” (J. Bentham, An Introduction to
the Principles of Morals and Legislation, Batoche Books, Kitchener, Ontario 2000, p. 15).
109
“[A] large number of economists treat the subject as it if were ‘a kind of mathematical
philosophy.’ Perhaps a better expression would be ‘social mathematics’, that is, a brand of
mathematics that appears to deal with social problems but does so only in a formal sense. […] The
fact that graduate education in economics emphasizes technical puzzlesolving abilities at the
expense of imparting substantial knowledge of the economic system is simply a re ection of the
empty formalism that has come increasingly to characterize the whole of modern economics. […]
Much as we enjoy abstract, mathematically formulated economics, we cannot help wondering just
how the economy actually works, and most of the lemmas of rigorous pure theory do not really
satisfy the desire to understand how things hang together in the economic world” (M. Blaug, The
Methodology of Economics, Cambridge University Press, Cambrdige 1992, Preface, p. XII).
110
Questa è la cosiddetta “sintesi neoclassica”, come è stata de nita da Paul Samuelson in
Economics, an Introductory Analysis, McGraw-Hill, New York 1948.
111
L. von Mises, op. cit., pp. 40 e ss.
112
P. Ekeh, Social Exchange Theory, Heinemann, London 1974.
113
G.C. Homans, Social Behavior. Its Elementary Forms, Routledge & Kegan Paul, London 1961.
114
Questa è solo una delle classi cazioni correnti. Talvolta i principi vengono estesi a cinque o
sei, e anche i nomi con cui vengono espressi cambiano. Gli assiomi che discutiamo sono però
sempre presenti, e ne rappresentano il nucleo principale e concettualmente più interessante.
115
La mutuazione uf ciale del concetto di utilità, come somma dei piaceri e sottrazione dei
dolori, dall’utilitarismo benthamiano viene introdotta da uno dei padri del marginalismo, W.S.
Jevons, Teoria dell’economia politica, trad. di R. Fubini e C. Argnani, UTET, Torino 1947, p. 138.
116
Secondo la de nizione classica di Stevens: “Measurement is the assignment of numbers to
objects or events according to a rule” (S.S. Stevens, On the theory of scales of measurement, in
“Science”, 103, pp. 677-680, 1946) – Per un’analisi più articolata degli assiomi di completezza e
transitività si veda A. Zhok, On value judgement and the ethical nature of economic optimality, in
New Essays in Logic and Philosophy of Science, College Publications, London 2010, pp. 433-446.
117
Cfr. P. Slovic, The Construction of Preference, in “American Psychologist”, vol. 50, 5, 1995, pp.
364-371.
118
“È impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima
cosa, secondo lo stesso rispetto” (sottolineature mie). (Aristotele, Meta sica, Rusconi, Milano 1992,
p. 184, 1005 b).
119
H. Simon, A Behavioral Model of Rational Choice, in “The Quarterly Journal of Economics”,
vol. 69, n. 1, feb. 1955, pp. 99-118.
120
R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 2002.
121
Cfr. L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014,
p. 420.
122
R. Coase, The Nature of the Firm, in “Economica”, Blackwell Publishing, 4 (16), 1937, pp.
386-405.
123
B. Fine, D. Milonakis, op. cit., p. 81.
124
Douglass C. North, Structure and Change in Economic History, Norton e C., New York-
London 1981, p. 10 e p. 45.
125
R. Nozick, Anarchy, State and Utopia, Basic Books, New York 1974.
126
Cfr. A. Zhok, L’eredità storica tra capitale sociale e capitale economico, in “Critica marxista”, n.
3, 2002, pp. 67-76.
127
G.M. Hodgson, op. cit., pp. 207-208.
128
B. Fine, D. Milonakis, op. cit., p. 3.
129
E.P. Lazear, Economic Imperialism, in “The Quarterly Journal of Economics”, vol. 115, n. 1,
feb. 2000, pp. 99-146.
130
G. Becker, Gary S. Becker, in Swedberg, R. (a cura di), Economics and Sociology, Rede ning
Their Boundaries: Conversations with Economists and Sociologists, Princeton University Press,
Princeton 1990, p. 33.
131
G. Marwell, R. Ames, Economists Free Ride, Does Anyone Else?, in “Journal of Public
Economics”, 15, 1981, pp. 295-310; Ph. Gerlach, The games economists play: Why economics
students behave more sel shly than other students, in “PLoS ONE” 12(9), 5 September 2017.
132
“La perversione e la confusione di ogni qualità umana e naturale, la congiunzione delle
impossibilità, la possanza divina, del denaro, consistono nella sua essenza di estraniata, spogliantesi
e alienantesi esistenza generica degli uomini. Esso è il potere espropriato dell’umanità. Ciò ch’io
non posso come uomo, ciò che non possono dunque tutte le mie sostanziali forze individuali, lo
posso mediante il denaro. Il denaro fa così di ognuna di queste forze essenziali qualcosa ch’essa
non è, il suo contrario. […] Poiché il denaro, in quanto concetto esistente e attuale del valore,
confonde e scambia tutte le cose, esso è così la generale confusione e inversione di ogni cosa,
dunque il mondo sovvertito, la confusione e inversione di tutte le qualità naturali e umane. Chi può
comprar la bravura è valoroso, anche se è vile. Poiché il denaro si scambia non contro una qualità
determinata, contro una cosa determinata, contro [qualcuna] delle forze sostanziali umane, ma
contro l’intero mondo oggettivo umano e naturale, così esso cambia – considerato dal punto di
vista del suo possessore – ogni qualità contro ogni qualità e ogni oggetto anche contraddittorio; è la
congiunzione delle impossibilità, costringe i contraddittori a baciarsi” (K. Marx, Manoscritti
economico- loso ci del 1844, in Opere loso che giovanili, Editori Riuniti, Roma 1950, pp. 253-
255).
133
Vedi D. Rodrik, The Globalization Paradox, Oxford University Press, Oxford 2011, pp. 61-66.
“In my own research career, I have never – well, almost never – felt censored or pressured to stand
for the party line. Academic economists are rewarded for divergent thinking and being innovative.
That includes identifying different ways in which markets fail and crafting new arguments for how
government intervention in the economy can make things better. Yet unless you are a PhD
economist yourself, you are unlikely to have experienced anything of this richness and diversity. In
public, economists can always be counted upon to utter the same tired words of praise on behalf of
free trade” (Rodrik, op. cit., pp. 63-64).
Sezione quarta
Per una storia dello Stato liberale

16. Dalle città-stato allo Stato nazione


A partire dai primi anni ’70 del XX secolo il liberalismo politico si è
sviluppato in direzione di ciò che va sotto il nome di neoliberismo o
neoliberalismo. Ciò che viene spesso messo in rilievo del neoliberalismo,
come sua peculiarità rispetto al liberalismo classico, è il ruolo centrale
dello Stato, visto come attore primario operante a favore
dell’instaurazione di meccanismi di mercato134. Se tale ruolo rappresenti
davvero una rottura con la tradizione liberale è qualcosa che richiede
qualche precisazione e innanzitutto una digressione intorno alla storia e
all’essenza dello Stato.
Gli stati, come aggregazioni politiche sovrane governate secondo leggi,
risalgono all’Età del Bronzo. Le forme di ordinamento politico più diffuse
ricalcavano le forme di autorità proprie dei nuclei famigliari, con un
centro di comando inteso come “padre” della comunità, cui ci si poteva
rivolgere per ottenere giustizia. Questo modello, familistico e tribale,
grazie alle funzioni della scrittura si amplia ed estende nel tempo dalle
dimensioni di piccole città-stato no a quelle di regni e imperi.
Nonostante l’incremento degli intermediari tra potere centrale e sudditi, il
modello fondamentale rimane per millenni quello di un ordinamento
centralizzato, autoritario e paternalistico, dove i sudditi sono vincolati al
potere del sovrano in quanto quest’ultimo è ritenuto legittimo. Al tempo
stesso vige una forma di “reciprocità asimmetrica”, tra ineguali, tale per
cui l’inferiore è moralmente tenuto all’obbedienza, mentre il superiore è
moralmente tenuto a “prendersi cura dell’inferiore”, specialmente nelle
forme della difesa armata e del sostentamento in situazioni emergenziali.
La legittimità del sovrano premoderno è poi speci camente conferita
dalla discendenza corretta (sangue reale) o dalla nomina secondo forme
tradizionalmente legittimate, come nel caso dell’adozione degli imperatori
romani. In ogni caso al sovrano si deve assoluta lealtà in quanto è il
garante di ogni ordine e in ultima istanza della vita civile e morale. Dal
vertice di comando discende una piramide di parziali, e revocabili,
deleghe di potere ad altri soggetti, che emulano il ruolo del sovrano con
funzioni e territori più circoscritti (si pensi al feudalesimo).
Ordinamenti statali democratici sono storicamente pressoché inesistenti
no a tempi recenti. La precondizione dei rari tentativi premoderni di
governo su basi egualitarie era una forte unità popolare, culturalmente
consapevole di sé e operante nei limiti circoscritti di una città-stato. Tutti i
pochi casi registrati prima del mondo moderno hanno queste
caratteristiche di località e omogeneità culturale, dalle città greche
(Megara, Argo, Chio, e, paradigmaticamente Atene) agli isolati esperimenti
medievali in Svizzera e Islanda. In ogni caso anche tali esperimenti
democratici sono lontanissimi dalle forme moderne di “democrazia con
suffragio universale”.
Per vedere all’opera stati democratici di estensione superiore a quella di
una città dobbiamo arrivare agli stati nazione successivi alla Rivoluzione
francese. Si parla spesso di stati nazione con riferimento a processi
prodromici allo Stato Nazione moderno. Ad esempio Francia, Inghilterra
e Spagna iniziano a formarsi come abbozzi di stati nazione già con il venir
meno, a partire del XII secolo, del modello di unità imperiale come sintesi
di potere temporale e spirituale. L’involuzione del Sacro Romano Impero
promuove questo processo embrionale di formazione degli stati nazione,
che ha una tappa signi cativa nella Pace di Vestfalia (1648), in cui si
infrangono le pretese di far coincidere l’idea di Stato con quella di
“proprietà del sovrano”. Viene così meno la pretesa che la religione (e
dunque la cultura fondante) di un territorio coincida con quella del
regnante (“cuius regio, eius religio”). Ma per giungere a una piena
de nizione delle pretese degli stati nazione bisognerà aspettare un altro
secolo e mezzo, con la Rivoluzione del 1789, che pone drammaticamente
ne alle pretese del legittimismo dinastico. Ciò che la Rivoluzione francese
con la sua spinta porta alla luce è una diffusa delegittimazione delle
pretese delle dinastie tradizionali, con i loro vincoli di sangue. Nonostante
la successiva Restaurazione, il principio legittimista ne esce fatalmente
intaccato.
Con il venir meno del collante rappresentato dalla lealtà al sovrano e alla
sua linea dinastica le compagini statali si trovarono ad aver bisogno di un
collante sociale alternativo. Tale collante non poteva essere inventato
arbitrariamente, pena l’inef cacia; esso venne perciò trovato nella nazione.
La continuità storica aveva promosso il sovrapporsi di popolazione,
cultura, religione, lingua e territorio, che de nivano in modo impreciso,
ma non arbitrario, unità concepibili come “nazioni”, cioè come popoli
accomunati da una medesima “nascita”. Si trattava di unità naturali e/o
culturali che ponevano due principali ordini di problemi: quello della
de nizione dei con ni e quello dell’effettiva comunanza culturale di tutte le
parti della popolazione entro quei con ni. I con ni reali erano slabbrati: a
volte netti, magari in presenza di con ni naturali come catene montuose o
mari, più spesso sfumati e a macchia di leopardo. La storia europea del
XIX secolo è in parte signi cativa la storia del costituirsi, o consolidarsi
degli stati nazione, che dovettero perciò affrontare quei problemi, e lo
fecero con variegate soluzioni amministrative, atti d’imperio e, soprattutto
per la de nizione dei con ni, con scontri armati.
Come ricordava Federico Chabod nella sua celebre analisi dell’Idea di
Nazione135 (1961) il modello su cui si costruì tale idea afferiva a due fonti
principali, una di ordine naturalistico, legata all’identità territoriale ed
etnica, e una di ordine culturalistico, legata all’identità culturale e
linguistica. Come ricorda Chabod, esempio eminente di nazione a matrice
naturalistica nell’Ottocento è stata la Germania, mentre esempio eminente
della matrice culturalistica è stata l’Italia.
Esiste perciò un nesso particolare, e per certi versi paradossale, tra la
nascita degli stati nazione e l’ideologia liberale. Il liberalismo classico non
è di per sé più propenso a sostenere uno Stato nazione di quanto sia
propenso a sostenere un sovrano regale o un imperatore. Tuttavia fu
proprio l’imporsi delle istanze alla radice delle “rivoluzioni borghesi”
(americana e francese) a creare le condizioni che portarono alla luce lo
Stato nazione, compagine in cui la sovranità appartiene al “popolo”, per
quanto cosa precisamente conti come popolo, e come debba esprimersi
istituzionalmente, non è sempre chiaro. Ciò che è chiaro è che solo con la
nascita dello Stato nazione si crea il terreno adatto all’imporsi dei moderni
governi democratici a suffragio universale.
Troviamo così due istanze, che si impongono simultaneamente in un
processo storico comune, ma che non si sovrappongono affatto sul piano
ideale. Da un lato abbiamo l’idea di popolo-nazione e di sovranità
popolare, con la sua “entelechia” democratica, e dall’altro abbiamo l’idea
liberale di una società coordinata dai principi della libertà personale e del
libero scambio. Queste prospettive sono storicamente alleate nell’opporsi
ai poteri tradizionali basati sulle legittimità dinastiche, ma divergono nelle
tendenze di sviluppo fondamentali: la prima prospettiva ha un’anima
egalitaria (l’eguaglianza di tutti i cittadini come eguaglianza di dignità e
possibilità), mentre la seconda ha un’anima individualista e gerarchizzante
(l’ordinamento generato dalle relazioni di scambio tra individui
nominalmente liberi è posto come per de nizione giusto). Non è dif cile
identi care in questa dualità l’emergere dell’opposizione otto-
novecentesca tra istanze socialiste e istanze capitaliste.

17. Dallo Stato nazione allo Stato imperialista


Come abbiamo visto, la ragione liberale inizia a muovere i primi passi in
un contesto dove sia lo Stato nazione che lo Stato democratico erano
ancora di là da venire. Lo sfondo da cui si staglia la ragione liberale è
quello dello Stato premoderno, fondato sull’ereditarietà come fonte di
potere, legittimazione e proprietà. Rispetto a quell’ordinamento la ragione
liberale si ritaglia il ruolo di forza emancipatrice, dove le libertà
dell’individuo, a partire dalle libertà economiche e commerciali, hanno lo
Stato come contraltare di cui ridurre le competenze. Questa è la posizione
di Adam Smith, che peraltro sembra sottovalutare il ruolo cruciale giocato
dallo Stato inglese nel sostenere il dominio commerciale britannico e con
ciò l’incipiente Rivoluzione industriale.
Il secolo che succede all’opera di Smith vede il progressivo costituirsi di
qualcosa di simile a un “sistema di mercato autoregolantesi”. Non che gli
stati si fossero davvero dissolti lasciando spazio a un mercato senza regole,
leggi, tribunali, ma la transizione del potere dalla vecchia oligarchia di
sangue a una nuova oligarchia proprietaria si era sostanzialmente
compiuto. In questo senso c’era molto di vero nel perentorio giudizio
marxiano secondo cui “il potere statale moderno non è che un comitato,
che gestisce gli affari comuni della classe borghese nel suo insieme”136.
Nell’ultima parte del XIX secolo, proprio mentre la scienza economica
si costruiva in una forma dove le pretese di autonomia dell’economico
aumentavano sempre di più, la politica europea iniziava a muoversi in
senso opposto. Con la stagnazione economica degli anni 1870 l’iniziativa
degli stati, le cui classi dirigenti erano sovrapponibili o contigue all’alta
borghesia industriale, riprese un ruolo più attivo. La contrazione dei
margini di pro tto e le inquietudini delle classi lavoratrici, coordinate dai
nuovi partiti socialisti e socialdemocratici, spinsero ad alcune concessioni
sul piano normativo (le prime forme di welfare nella Germania di
Bismarck risalgono al 1883) e poi alla ricerca di risorse e mercati
all’estero, in forma di imperialismo coloniale. I quarant’anni che
precedono la Prima guerra mondiale sono dunque gli anni in cui lo Stato
liberale europeo abbandona le pretese del laissez faire e indirizza la
politica estera in un modo funzionale alle esigenze della grande industria e
dell’economia nel suo complesso. Questo è il senso della ricerca di un
“posto al sole” per i paesi che erano rimasti indietro come potenze
coloniali (Germania e Italia in primis), e delle reiterate s de tra le potenze
coloniali consolidate (si pensi all’incidente di Fashoda del 1898 tra Francia
e Inghilterra).
La prima parte del XIX secolo aveva già creato il terreno per la prima
vera e propria “globalizzazione”, con grandi facilitazioni nello
spostamento dei capitali e una rinnovata facilità a muovere le merci,
soprattutto via mare. La grande industria tuttavia rimaneva ancora
sostanzialmente nazionale e non multinazionale, e perciò a ne Ottocento
lo Stato, essenzialmente nella forma militare, venne cooptato direttamente
a supporto dell’industria nazionale. La storia delle tensioni internazionali
crescenti nell’era dell’Imperialismo è troppo nota per doverla qui
ripercorrere. Vale soltanto la pena sottolineare come la lettura, assai
diffusa, che pone come origine causale dello scoppio della Prima guerra
mondiale i “nazionalismi” vada rigettata come essenzialmente fuorviante.
Se infatti è vero che gli anni che precedono la detonazione del 1914 sono
anni di crescente nazionalismo e sciovinismo, è essenziale vedere come la
tensione tra nazioni sia il sottoprodotto della tensione tra economie
nazionali in competizione. La lotta coloniale e imperialista aveva luogo in
un mondo in cui i margini di pro tto si andavano riducendo e in cui le
rappresentanze della popolazione lavoratrice aumentavano di in uenza.
Ciò esercitava una pressione a spostare il baricentro dell’attività
economica fuori dei con ni nazionali. Tuttavia lo status quo in cui tale
espansione prendeva piede era profondamente asimmetrico. L’Impero
britannico si estendeva su un quarto del globo terrestre, dal Canada
all’India all’Australia a un terzo dell’Africa, con possedimenti molto
superiori a quelli del tradizionale avversario, la Francia, e immensamente
superiori a quelli della Germania, paese che invece dominava sul piano
scienti co e tecnologico. L’atteggiamento aggressivo degli Imperi Centrali
prima del 1914 era indotto dal tentativo di mettere a frutto il proprio
relativo vantaggio tecnologico (e dunque militare) per correggere
l’enorme svantaggio nell’accesso a risorse territoriali rispetto ai
competitori (Inghilterra in primis). Le tensioni crescenti produssero poi
quel sistema di alleanze segrete che portarono in ne l’iniziale con itto tra
Impero Austroungarico e Serbia a estendersi su scala mondiale.

18. Dal collasso dello Stato liberale allo Stato neoliberale


L’Europa uscì dai trent’anni delle guerre mondiali e dei totalitarismi
come una potenza di secondo piano, ridotta nelle ambizioni e nella
rilevanza geopolitica, contesa tra i due fronti avversi del capitalismo
americano e del comunismo sovietico. La posizione mediana dell’Europa
occidentale ne fece un terreno di contesa e conquista ideologica, che
consentì nel dopoguerra l’emergere di un sistema economico misto.
Questo sistema accrebbe simultaneamente le tutele dei lavoratori e riuscì a
promuovere una crescita equilibrata e sostenuta. I tassi di crescita elevati
erano peraltro resi possibili anche da una peculiare condizione europea,
che rimaneva un’avanguardia tecnologica e culturale, mentre al contempo
si trovava a dover ricostruire infrastrutture ampiamente smantellate137.
Quali che siano le ragioni, l’economia mista del secondo dopoguerra
europeo riuscì a produrre un miglioramento generale delle condizioni di
vita, abbinando una presenza massiccia dello Stato nell’economia (sia
come Stato imprenditore che come Stato regolatore) con una dimensione
di mercato vitale. È signi cativo, quanto paradossale, che questo periodo
venisse presentato per molto tempo come la dimostrazione della capacità
di garantire crescita e benessere generalizzato da parte del capitalismo. Di
fatto le istanze capitaliste dovettero contenersi e venire a patti con una
pluralità di istanze sociali, per timore di incrementare l’attrattività del
modello sovietico (e delle forze politiche che con esso simpatizzavano).
Non appena la prospettiva del “socialismo” sovietico smise di apparire
un’alternativa percorribile, il “capitalismo dal volto umano” del
dopoguerra lasciò rapidamente il posto a nuovi rapporti di potere tra
capitale e lavoro.
Il periodo dell’economia mista, oggi spesso ricordato con l’espressione
“i trenta gloriosi” (1945-1975) cominciò a regredire nei primi anni ’70. Sul
piano politico e ideologico un contributo paradossale all’abbattimento del
modello di welfare europeo venne dal movimento del ’68. Le istanze di
quel movimento possono essere intese guardando al retroterra di chi ne
costituiva il nerbo, ovvero la generazione dei nati dopo la ne della
guerra. Questa generazione aveva visto crescere le condizioni materiali di
vita delle proprie famiglie, e aveva avviato su quella base un secondo
livello di critica culturale, che non si contentava più di un semplice
accrescimento dei consumi, ma cercava un miglioramento sostanziale della
forma di vita. Quest’alta ambizione si dispiegò in forma di critica a tutte le
strutture normative della “vecchia società”, che fossero la fabbrica
taylorista, i partiti, i sindacati, i tribunali, la famiglia, lo Stato. Circolavano
idee, tributarie al freudismo e al marxismo, per cui una nuova società
doveva emergere dalla “liberazione del desiderio”, dall’emancipazione da
forme oppressive e irreggimentanti. Si trattava di una visione con una
forte carica utopica e innovativa, ma con una scarsa consapevolezza della
natura delle norme sociali e delle istituzioni, anche in ragione del suo
collegamento preferenziale con il movimento studentesco. Tale visione si
dimostrò in grado di distruggere ma non di costruire.
Il movimento del ’68 riuscì comunque inizialmente a sostenere processi
di tutela del lavoro e di protezione sociale, nella misura in cui quelle
istanze fossero veicolate da forze politiche strutturate (partiti e sindacati).
Al tempo stesso, tuttavia, esso promosse una dimensione politica di tipo
anarchico, individualista, libertario, refrattario alle grandi organizzazioni,
percepite costitutivamente come oppressive. Questa seconda istanza,
come si vide in seguito, era di fatto facilmente riassorbibile in una classica
cornice liberale.
Sul piano internazionale il ’68 in Occidente coincise con la “Primavera
di Praga” nell’area del Patto di Varsavia, e la repressione russa rese
manifesta l’avvenuta perdita di attrattività del modello sovietico per le
nuove generazioni occidentali. Questo cambiamento di fase nella
percezione politica signi cò che quella minaccia latente, nora
rappresentata dalla potenziale alternativa del “socialismo reale”, poteva
passare in secondo piano. La combinazione del discredito ideologico del
modello sovietico con la critica sessantottina alle strutture normative e
istituzionali tradizionali contribuì in modo determinante a preparare una
rivincita in grande stile della ragione liberale.
Si può discutere a lungo circa quanto ragionata, o quanto contingente,
fosse la reazione successiva, che porterà nell’arco di un decennio
dall’aspirazione utopica di una palingenesi della società alla negazione che
esista qualcosa come una società138. La capacità del sistema capitalistico di
cambiare pelle e forma, purché ne siano garantiti i modi di estrazione del
pro tto, spiega molti dettagli nella trasformazione del capitalismo
gerarchico tradizionale in quel capitalismo “reticolare”, più mobile e
leggero, che descrivono Boltanski e Chiapello139. Tuttavia, è indubbio che
nella svolta dei primi anni ’70 giocarono un ruolo strategico anche alcune
decisioni politiche, speci camente dell’amministrazione americana, dove
l’in uenza ideologica della “Scuola di Chicago” risultò decisiva.
Nella storia canonica del neoliberismo troviamo come riferimento
obbligato la nascita della Mont Pèlerin Society nel 1947, con membri
fondatori Friedrich von Hayek, Frank Knight, Karl Popper, Ludwig von
Mises, George Stigler e Milton Friedman. In essa convergevano le istanze
della “Scuola Austriaca” in economia e, in generale, l’impianto
dell’economia neoclassica così come esso era venuto maturando nei primi
anni del Novecento. Spesso si pone in continuità con la nascita del
neoliberismo teorico l’ordoliberismo tedesco, promosso da Alexander
Rüstow e Wilhelm Röpke140, tuttavia le differenze teoriche sono
rimarchevoli. Se in comune c’è l’idea di un abbandono del modello
classico del laissez faire e il riconoscimento della necessità di un ruolo
dello Stato, l’ispirazione ordoliberista faceva spazio per l’idea di giustizia
sociale e per la necessità di tener conto della protezione dell’ambiente e
della tutela delle comunità locali: tutte questioni negate o assenti nella
cornice neoliberale141. Considerazioni simili si potrebbero fare per
valutare la continuità o discontinuità tra la Scuola Austriaca e la Scuola di
Chicago (su ciò ritorneremo).
Quali che siano tuttavia le ascendenze culturali, il neoliberismo dovette
attendere il mutamento degli umori pubblici nei primi anni ’70 per
ottenere credito. La perdita di attrattività del modello sovietico presso i
lavoratori occidentali aprì la strada all’uscita unilaterale degli USA dagli
accordi di Bretton Woods, nel 1971. Il sistema di Bretton Woods era un
accordo politico-economico complessivo, che implicava un sistema di
cambi ssi con margini di essibilità, la possibilità di controlli sui
movimenti di capitale, e un ancoramento del dollaro (moneta
internazionale per eccellenza) al valore dell’oro. Il sistema era inoltre
concepito in modo da limitare eccessivi de cit commerciali,
disinnescando la tentazione di usare il commercio internazionale come
atto ostile, e perciò anche riducendo il rischio di indurre reazioni
protezionistiche. Questo sistema rendeva di fatto impossibili speculazioni
nanziarie sulle valute nazionali. Con l’uscita degli USA dagli accordi, il
dollaro divenne a tutti gli effetti una “moneta at”, il cui valore dipendeva
dalla politica della Federal Reserve americana. Più in generale, la rottura
di Bretton Woods riportò al centro della scena quella competizione
economica internazionale che dopo la Seconda guerra mondiale era stata
regolamentata e calmierata, memori del nesso tra competizione nanziaria
e con itto bellico. La svolta deliberata da Nixon nel 1971 rispondeva
anche a reali squilibri macroeconomici: gli USA si trovavano fortemente
esposti con dollari detenuti all’estero che potevano in teoria chiedere di
essere riconvertiti in oro, questo proprio mentre la crescita della spesa
militare per nanziare la guerra del Vietnam aveva aggravato la situazione
debitoria. L’eliminazione della convertibilità permetteva sostanzialmente
al governo americano di estinguere il proprio debito stampando moneta e
al contempo di sottrarsi a possibili richieste di conversione di capitali
esteri in dollari. L’intervento di Nixon, noto come il “Nixon shock” operò
eliminando la convertibilità del dollaro in oro e simultaneamente
bloccando potenziali sbilanciamenti commerciali e in azionistici (con una
tariffa del 10% sulle importazioni, e il congelamento di prezzi e salari per
tre mesi).
La mossa di Nixon produsse una svalutazione del dollaro rispetto alle
altre valute, mettendo in dif coltà le esportazioni europee verso il loro
principale mercato. Circa due anni dopo, questa situazione di dif coltà
venne esacerbata dalla crisi petrolifera dovuta alle ripercussioni della
guerra del Kippur (1973). L’aumento esponenziale e rapidissimo del
prezzo del petrolio fu all’origine di una ammata in attiva cui non faceva
riscontro alcun aumento della circolazione monetaria (e dunque nessuna
crescita delle transazioni). La combinazione tra la rottura di Bretton
Woods e la crisi petrolifera condusse alla cosiddetta “stag azione” degli
anni ’70, cioè a una combinazione inedita di stagnazione e in azione.
Il rallentamento dell’economia europea nel suo complesso era
comunque anche il segno del raggiungimento di un nuovo ordine
competitivo mondiale, in cui quei paesi che erano usciti devastati dalla
Seconda guerra mondiale (Germania, Italia, Giappone, Francia, Regno
Unito) avevano oramai raggiunto uno standard di produzione e consumo
competitivo con quello statunitense. L’emergere di una nuova
competizione “tra pari” generava una pressione sui prezzi e sui pro tti, e
perciò la crescita galoppante del dopoguerra era destinata comunque a
contrarsi. Le decisioni di Nixon e dell’OPEC si innestavano in un
panorama in cui gli spazi per uno sviluppo economico generalizzato, dove
miglioramenti nelle condizioni del lavoro convivessero con i pro tti del
capitale, stavano rapidamente contraendosi. È in questo contesto che
l’elaborazione neoliberale, dopo oltre vent’anni di latenza, poté trovare le
sponde necessarie per imporsi.
Bisogna notare che politicamente il neoliberismo (soprattutto nel caso
della Thatcher) si accreditò inizialmente con la promessa di ripristinare le
oride condizioni di crescita dei decenni precedenti; la recessione del
1973-1975 venne imputata al fallimento delle politiche di ispirazione
keynesiana. In realtà, dal 1980 in poi, con l’eccezione del boom
reaganiano del 1983-1985, il progressivo imporsi delle politiche
neoliberiste non portò affatto a ripristinare i tassi di crescita precedenti.
L’andamento generale presenterà tassi di crescita che continueranno
mediamente a scemare, soprattutto in Europa, e particolarmente dopo il
2000.
La cultura neoliberale ha avuto successo e seguito perché si è presentata
come una riedizione aggiornata del liberalismo classico. Il contesto degli
anni ’70 era molto diverso rispetto a quello in cui aveva operato il
liberalismo ottocentesco. Il panorama occidentale degli anni ’70 era quello
di stati che si erano assunti nel tempo una pluralità di compiti, educativi,
sanitari, di supporto; si trattava di stati governati da regimi democratici,
che ponevano problemi di consenso pubblico differenti rispetto a quelli del
secolo precedente. D’altro canto sul piano assiologico, e dunque
partecipativo, il liberalismo aveva poco da offrire: esso aveva ipostatizzato
una nozione molto circoscritta di libertà negativa (non-interferenza) come
“valore” di fondo, e aveva conferito priorità alla libertà economica (libertà
di impresa e di contratto). Ora, come abbiamo osservato, le istanze liberali
e quelle democratiche non hanno nessuna ragione intrinseca per
sovrapporsi: eguaglianza e partecipazione, in qualunque forma, sono
tutt’al più compatibili con una visione liberale, ma non ne sono affatto
tratti de nitori. Questo aspetto, tuttavia, era rimasto a lungo in ombra
poiché il liberalismo si era mosso per circa due secoli in uno spazio
politico dove dominavano regni e imperi con legittimazione di sangue, e
rispetto a quel mondo le circoscritte istanze di libertà del liberalismo
erano suf cienti a porlo come alleato delle istanze egalitarie e popolari
(antimonarchiche e antioligarchiche). Ma l’attacco liberale all’Ancien
Regime non mirava a rivendicazioni egalitarie, bensì semplicemente a
modi care i criteri di diseguaglianza a fondamento del potere, dalle
disparità di sangue a quelle economiche. Il liberalismo nell’epoca del suo
trionfo classico, nella seconda metà dell’Ottocento, era serenamente
oligarchico, e la stessa dinamica iniziò a ripresentarsi a partire dagli anni
’70.
Che le istanze democratiche fossero esperite come una minaccia da parte
dei ceti detentori di capitale emerge dalla faticosa storia per la conquista
del suffragio universale, e si mostra chiaramente in analisi come quella
prodotta dalla Trilateral Commission, nel 1975142. Quel testo lamentava
l’eccesso di democrazia143 emerso negli anni ’60, eccesso che, secondo gli
estensori, minacciava la governabilità degli stati, esposti alle richieste
populiste delle maggioranze politiche. Un eccesso di partecipazione
minacciava l’ordine economico costituito e questo richiamava
l’opportunità di indurre una “certa misura di apatia e non-
coinvolgimento”, per preservare l’ef cienza di un sistema politico
democratico144. Questo spirito, volto a distaccare le economie nazionali
dalle sorti delle democrazie nazionali, avrà come suo esito istituzionale più
caratteristico l’autonomizzazione della governance delle banche centrali
dai governi. Rendere autonoma dalla politica la principale istituzione
statale che si occupa di nanza è infatti il modo più diretto per rescindere
i legami tra democrazia ed economia. Nei paesi industrializzati le banche
centrali vennero perciò rese progressivamente indipendenti rispetto ai
governi democraticamente eletti: ne furono protagonisti negli anni
seguenti l’Italia (1982), la Francia (1993), il Regno Unito (1997) e altri.
Con l’avvento dell’euro tale processo sarà portato a compimento per quasi
tutti i paesi europei145.
Gli anni ’80, con l’imporsi dei modelli rappresentati dalle politiche di
Margaret Thatcher nel Regno Unito e di Ronald Reagan negli Stati Uniti,
segnarono l’imporsi progressivo e rapido di un nuovo modello sociale. Il
venir meno dell’Unione Sovietica (1989-1991) e il trattato di Maastricht
del 1992 furono i segnavia del de nitivo consolidamento del regime
neoliberale in Occidente.
19. Il neoliberismo come destino o come incidente
È giunto il momento di chiedersi se il neoliberismo, o neoliberalismo,
vada meglio inteso come un’eccezione nello sviluppo della ragione
liberale, o se non sia piuttosto espressione di un’essenziale continuità.
Secondo la de nizione di David Harvey, il neoliberalismo è in prima
istanza
una teoria delle pratiche economico-politiche che propone che il benessere umano sia promosso
al meglio liberando iniziative e capacità imprenditoriali individuali, entro una cornice
istituzionale caratterizzata da forti diritti di proprietà privata, liberi mercati, e libero commercio.
Il ruolo dello Stato è di creare e preservare una cornice istituzionale appropriata a tali pratiche.
Lo Stato deve garantire, ad esempio, la qualità e integrità della moneta. Deve anche disporre
quelle strutture e funzioni di natura militare, difensiva, poliziesca e legale richieste per assicurare
i diritti di proprietà privata e per garantire, con la forza se necessario, il funzionamento adeguato
dei mercati. Inoltre, se mercati non esistono (in aree come la terra, l’acqua, l’educazione, la
sanità, la sicurezza sociale o l’inquinamento ambientale) allora essi devono essere creati, con
l’azione dello Stato se necessario.146

In che misura tale modello può dirsi discontinuo rispetto al liberalismo


classico? Dardot e Laval, pur rifacendosi alla lezione di Foucault che
accentua la distinzione tra liberalismo classico e neoliberalismo,
sostengono che quest’ultimo sia a tutti gli effetti la semplice razionalità
capitalistica realizzata. In questo senso la sua novità rispetto al liberalismo
politico precedente consisterebbe soprattutto nell’essersi liberato di
residui che non gli appartenevano, realizzando la propria essenza147. Una
posizione signi cativamente diversa, anch’essa ispirata dalla lezione
foucaultiana, è quella di Becchio e Leghissa, secondo cui il neoliberalismo
sarebbe caratterizzato da uno speci co modello di razionalità, derivato
dall’imporsi della cornice descrittiva dell’economia neoclassica148, ma
discontinuo rispetto al liberalismo classico.
Secondo Becchio e Leghissa liberalismo classico e neoliberismo
sarebbero da considerare distinti sulla base di alcune differenze
quali canti. Nel liberalismo classico economia e politica sarebbero
indipendenti e fondate nel valore dell’emancipazione individuale, mentre
nel neoliberalismo la mutua indipendenza tra economia e politica sarebbe
venuta meno, nel nome di un generalizzato imporsi della razionalità
economica149. Il liberalismo classico avrebbe portato libertà formali e reali
tanto agli individui che alle società, mentre il neoliberalismo sarebbe
caratterizzato paradossalmente da una riduzione di entrambe150. Il
neoliberalismo avrebbe inoltre esteso i meccanismi di sfruttamento al di là
dell’orario di lavoro, includendovi l’intera sfera dell’esistenza umana, vista
sotto una luce perennemente ottimizzante151. Sul piano individuale la
differenza di fondo tra l’impianto del liberalismo classico e quello
neoliberale sarebbe che il primo pone al centro la libertà del cittadino,
mentre il secondo ruota intorno alla razionalità degli agenti economici. Sul
piano istituzionale il liberalismo classico avrebbe un approccio sensibile ai
cambiamenti storici e culturali, mentre il neoliberalismo promuoverebbe
una visione statica, atemporale dei modi di integrare in sistemi le scelte
individuali152. Nella prospettiva di Becchio e Leghissa, queste due linee
(liberale e neoliberale) si troverebbero rappresentate rispettivamente da
Friedrich von Hayek e da Milton Friedman, il che, va detto, presenta un
aspetto un po’ paradossale, trattandosi dei due nomi che più
univocamente vengono associati alla nascita del neoliberalismo153.
Ora, che l’evoluzione del neoliberalismo sia tributaria agli sviluppi della
teoria economica marginalista e neoclassica è indubbio, e lo abbiamo
argomentato più sopra. La controversia interpretativa concerne allora la
misura in cui la svolta dell’economia neoclassica possa essere considerata
in discontinuità con il liberalismo classico.
Nel liberalismo classico non compare un’antropologia strutturata, salvo
la scarna visione dell’individuo come autonomo, acquisitivo e desideroso
di imporre la propria volontà. Rispetto a questo quadro, la
sistematizzazione economica neoclassica si limitò ad accentuare nel
soggetto agente i tratti razionalisti, volti a ottimizzare l’appagamento dei
propri desideri, su base individuale e con preferenze sse. Questa non
sembra una rottura con il liberalismo classico, ma piuttosto una sua
radicalizzazione, a sostegno della possibilità di estendere il paradigma
economico a ogni comportamento umano.
Che il liberalismo classico considerasse separate le sfere della politica e
dell’economia è una tesi molto discutibile, come è discutibile che questo
sia un elemento di discontinuità col neoliberalismo. Il pensiero liberale si
sviluppò in una situazione storica in cui il potere politico era ancora
saldamente nelle mani di monarchie od oligarchie a base ereditaria, e
perciò la classe produttrice emergente, la borghesia, non si trovava
investita in prima istanza di responsabilità politiche, come accadrà dopo la
Rivoluzione francese. Adam Smith caldeggiava perciò una ritrazione dello
Stato, ma lo faceva in un contesto in cui il ruolo centrale dell’autorità
statale era indiscusso. Similmente Locke supportava elementi di non
interferenza statale in questioni religiose, ma in una situazione in cui gli
stati erano ancora confessionali. Se andiamo alla seconda metà
dell’Ottocento, con la presa del potere politico da parte della borghesia,
qui vediamo come allo Stato venissero immediatamente attribuiti compiti
di tutela degli interessi economici capitalistici. E tale ruolo non si limitava
alla dimensione difensiva, di tutela dei diritti di proprietà e del rispetto dei
contratti, ma si esprimeva anche come repressione delle protesta politica
all’interno e spinta coloniale all’esterno. Non bisogna perciò affatto
aspettare la “svolta neoliberale” della ne del XX secolo per vedere lo
Stato liberale assumere un ruolo di attiva limitazione di molte libertà,
interne ed esterne: dalle cannonate di Bava Beccaris alle atrocità del
Congo belga.
Quanto all’associazione della prospettiva liberale con la libertà in un
senso esteso, essa è stata occasionale, coerente nel caso delle libertà
economiche, ma incerta e ondivaga rispetto a libertà più ambiziose o
positive, sistematicamente condizionate alla compatibilità con le libertà
economiche.
Un’autentica divergenza teorica è effettivamente rintracciabile
giustapponendo le posizioni della Scuola Austriaca e di quella di Chicago,
speci camente nelle persone di Hayek e Friedman. L’analisi di Hayek,
loso camente molto più approfondita di quella di Friedman, fa spazio a
una concezione “storicista” dell’evoluzione capitalista, una concezione
dove le deliberazioni dei singoli agenti economicamente razionali non
sono in primo piano. In quest’ottica è corretto dire che è stato più il
contributo teorico di Milton Friedman a de nire lo spirito neoliberale che
quello, più elaborato, di Hayek. Se accettiamo la premessa che Hayek
possa essere considerato in certo modo erede autentico del liberalismo
classico, per differenza rispetto al razionalismo neoclassico di Friedman,
possiamo provare a costruire, e mettere alla prova, una discontinuità tra
“liberalismo autentico” (hayekiano) e neoliberalismo (friedmaniano).
Questa tesi, per quanto eccentrica, merita un approfondimento.
Nel suo testo maggiore, Law, Legislation and Liberty, Friedrich von
Hayek sviluppa un’interessante analisi del funzionamento delle regole
sociali. Tale ragionamento è sviluppato in polemica con il modello del
razionalismo illuminista e socialista, cercando di mostrare come le regole
sociali possano avere una “razionalità” inaccessibile a ciascun singolo
membro di una società (e perciò anche alle volontà dirigiste di un
governo). Hayek mostra come si possano intendere le regole sociali in
modo non dissimile da come si intendono gli ordinamenti genetici
nell’evoluzione biologica: le regole sociali, come gli ordinamenti genetici,
possono comparire per ragioni “accidentali”, ma poi traggono la loro
legittimazione dal fatto di consentire a un gruppo sociale (o una specie) di
riprodursi e prosperare154. In questo senso, nell’ottica di Hayek sarebbe
sbagliata tanto la prospettiva del razionalismo dirigista sovietico che
quella del razionalismo individualista neoclassico. Tuttavia l’attacco di
Hayek avviene solo nei confronti del primo. Esistono punti di contrasto
tra la visione di Hayek e quella friedmaniana, ma non vengono posti come
operativamente decisivi. Hayek, ad esempio, è propenso a una visione in
cui persino istituti come la moneta vadano sottratti al controllo statale155,
mentre l’idea di uno Stato chiamato a sorvegliare e incentivare in modo
non “spontaneo” l’ef cienza dei processi di mercato è un’idea più af ne
alla posizione di Friedman, e in generale alla realtà storica del
neoliberalismo. In questo senso Hayek supporta una visione più
coerentemente autonoma della sfera dell’economico rispetto a quanto
faccia Friedman (e a quanto realizzi il neoliberalismo).
Potremmo sostenere allora che la visione di Hayek può essere usata per
smarcare una tradizione liberale di matrice classica dallo sbocco
neoliberale? Possiamo dire che la visione di Hayek presenta un’alternativa
liberale in qualche modo “più autentica”? Questo discorso, se affrontato
con la dovuta acribia, rischierebbe di portarci in angusti vicoli di esegesi
testuale, probabilmente senza essere risolutiva. Possiamo però tentare una
risposta diretta (senza pretese di esaustività) mostrando un’essenziale
incoerenza interna allo stesso pensatore austriaco. Il cuore del contributo
hayekiano, dal punto di vista dell’originalità, sta nella sua teoria degli
ordinamenti sociali visti come ordinamenti spontanei (cosmos) irriducibili
a piani cazioni razionali (taxis). Nonostante Hayek cerchi variamente di
rendere credibile un modello di interazione economica come pura
autoorganizzazione, di fatto essa nella realtà storica non è mai stata
neppure approssimata, ed è tanto lontana dalla realtà del liberalismo
ottocentesco che da quella del neoliberalismo.
Ora, il punto di forza della teorizzazione hayekiana è consistito nel
mostrare il carattere astratto, astorico, ideologico del razionalismo
sovietico, criticando per estensione tutti i tentativi di economia piani cata.
Il liberalismo è stato difeso come sistema “spontaneo”, naturale,
consistente con il costituirsi storico dei costumi e delle istituzioni. E in
effetti questo argomento sarebbe davvero potente, se potesse realmente
applicarsi al liberalismo: esso permetterebbe di separare il “liberale
autentico”, legato agli ordini storici spontanei, da un liberalismo
razionalistico deteriore (neoliberalismo)156.
Questa prospettiva, tuttavia, presenta un problema insolubile. Come
Hayek riconosce, il processo storico dell’imporsi della ragione liberale
avviene in costante collisione con inclinazioni umane profonde – e invero è
proprio evidenziando quella collisione che si mossero le critiche del
giovane Marx. Gli impulsi umani verso relazioni gregarie, comunitarie,
solidaristiche e di giustizia sociale, lungi dall’essere costrutti astratti della
piani cazione sovietica, sono datità naturali cui si può applicare a fortiori
il ragionamento hayekiano relativo all’evoluzione di ordini spontanei.
L’istinto gregario è infatti immensamente più evoluzionisticamente
consolidato di qualsiasi libertà di scambio. E tuttavia Hayek giudica tutti
quei fattori antropologici primari come “atavismi”, come “pregiudizi”
ereditati da forme sociali più antiche, moralità tribali che dovrebbero
essere abbattute per far spazio al funzionamento della Grande Società157.
In buona sostanza, Hayek commette proprio lo stesso errore di astrazione
che imputa a illuministi e socialisti: egli impone forzatamente la propria
idea di razionalità economica alla realtà storica e antropologica. Da quale
punto di vista, infatti, un recente progetto di ordinamento sociale come
quello capitalistico potrebbe decretare il carattere obsoleto di impulsi
gregari, comunitari e di giustizia sociale consolidatisi nell’intera storia
naturale umana? Questa inconsistenza non è secondaria, ma mina in
profondità la plausibilità di leggere Hayek come continuatore di un
liberalismo classico ideale, da opporsi alla visione neoliberale.
Hayek legge davvero la propria concezione “spontaneista” come una
prosecuzione del liberalismo classico (laissez faire), tuttavia così facendo
egli in effetti rincorre un mito. Il laissez faire è sempre stato solo una
massima empirica contingente: di fatto nessuna economia di mercato si è
sviluppata senza una solida cornice statale. Il “libero commercio”
internazionale è stato per gran parte della storia una leggenda dietro alla
quale si potevano scorgere interventi continuativi e massicci degli stati.
L’Inghilterra, nel processo che la condusse a divenire l’“of cina del
mondo”, con il più esteso commercio estero della storia, adottò una
politica uf ciale di radicale liberoscambismo solo una volta ottenuta una
posizione di privilegio e dominio sul piano internazionale158. La ragione
liberale non ha proprio nulla a che fare con quella visione “naturale” e
“storico-evolutiva” che Hayek promuove. La ragione liberale non ha tali
radici né sul piano teorico, dove è il regno delle astrazioni di cui Hobbes e
Locke, né sul piano storico, dove è dottrina pragmatica in cui lo Stato
gioca sempre un ruolo decisivo.
Da quanto detto nora dovrebbe emergere abbastanza chiaramente
come ogni tentativo di tracciare una discontinuità tra liberalismo classico
e neoliberalismo sia dif cile da sostenere. Il neoliberalismo ipostatizza la
lezione maturata all’interno della svolta neoclassica in economia, e tale
svolta sistematizza in forma “scienti ca” istanze liberali precedenti.
Nel neoliberalismo il modello dell’individualismo liberale classico si
traduce nell’individuo libero e responsabile della propria sorte, con un
orizzonte acquisitivo crescente e idealmente in nito davanti. Nel
neoliberalismo lo slancio verso il successo competitivo si arma di una
razionalità calcolante più raf nata di quella hobbesiana, ma af ne a essa
(il calcolo costi-bene ci come mezzo per prevalere in ogni sfera).
Sul piano delle politiche economiche il neoliberalismo è caratterizzato
dal processo di nanziarizzazione dell’economia, dove il peso della nanza
e della mobilità dei capitali sull’organizzazione economica complessiva
viene incrementato come mai prima nella storia. La percentuale di pro tti
ottenuti dai detentori di capitale si sposta in maniera massiccia dal
capitale produttivo ordinario (infrastrutture, mezzi di produzione) al
capitale nanziario159. La riorganizzazione socio-economica promossa dal
neoliberalismo è rivolta a un’introduzione generalizzata della “logica di
mercato”, considerata latrice di un bene cio universale, secondo il
modello ideale del mercato perfetto. Tale universalizzazione della logica di
mercato viene poi di fatto perseguita attraverso la privatizzazione dei
servizi pubblici, o in alternativa attraverso l’introduzione di meccanismi
privatistici (contratti di diritto privato, concorrenza, misurazione delle
prestazioni ecc.) nei servizi che rimangano nominalmente pubblici.
Ora, mentre le linee generali di sviluppo dell’epoca neoliberale sono
piuttosto note, non foss’altro perché ci siamo immersi, una comprensione
del loro senso storico è molto meno ovvia, e molto più potenzialmente
utile. Il neoliberalismo non si presenta affatto come un “incidente di
percorso”, come una “deviazione” rispetto allo sviluppo della ragione
liberale. Per quanto nel processo storico non ci sia spazio per “fatalità”
ineludibili, tuttavia la svolta neoliberale presenta preponderanti tratti di
continuità storica con l’emergere della ragione liberale nel periodo
classico. È certo possibile riconoscere il ruolo giocato da scelte particolari
e contingenze speci che nel convertire un modello di sviluppo quasi
socialdemocratico, prevalente nei primi decenni dopo il 1945, in un
modello di sviluppo neoliberale. E tuttavia, è assai più fecondo
comprendere la forza e la natura di quelle continuità di lungo periodo
che, sviluppatesi nelle forme classiche del pensiero liberale, celebrano oggi
il loro trionfo.
***
Dal percorso svolto, incluse le critiche hayekiane, è possibile trarre
tuttavia un’osservazione nale circa il rapporto tra Stato e concezione
liberale. Lo Stato è un’istituzione che precede la ragione liberale e che non
vi può essere né ridotta, né contrapposta. Lo Stato nasce e cresce come la
forma ideale in cui la partecipazione intersoggettiva e l’adesione affettiva a
una dimensione sovrapersonale cercano di conciliarsi con forme di vita
più astratte del rapporto faccia a faccia. Col crescere dell’estensione
temporale e spaziale degli organismi statali la dimensione affettivo-
partecipativa e quella astratta-totalizzante entrano in tensione. Lo Stato
esiste perciò oggi in una continua tensione tra una dimensione di
astrazione, che erode la partecipazione affettiva, e una dimensione
partecipativa che può minare il funzionamento delle regole astratte. In
quest’ottica lo Stato liberale tende costitutivamente alla prevalenza della
dimensione di estraneità e astrattezza, in quanto rigetta ogni “eticità”
comune e si pensa come regolamentazione di supporto a un sistema di
scambi individuali. Ma questo non deve far pensare che lo Stato del
“socialismo reale” o quello socialdemocratico rappresentino delle
soluzioni a quel problema. Al contrario, da un lato, come abbiamo già
notato, lo Stato sovietico ha perduto la propria più fondamentale battaglia
proprio sul piano della disaffezione, distaccando partecipazione popolare
e dimensione politica. Dall’altro, e forse meno ovviamente, anche le forme
di Stato socialdemocratico, come esistito nel Nord-Europa, ha presentato
forti limiti in questo senso, alimentando spesso forme relazionali astratte e
un rapporto dell’individuo verso lo Stato di tipo esteriore e passivo. In
questo senso lo Stato “assistenziale” non rappresenta un progresso
rispetto allo Stato liberale proprio sul punto cruciale della dimensione
partecipativa160. Dove lo Stato liberale pensa di avere a che fare solo con
“clienti”, lo Stato assistenziale fa spazio anche a “utenti”, ma in entrambi i
casi il “cittadino”, il “compagno”, il “prossimo” tendono a estinguersi.
134
G. Becchio, G. Leghissa, The Origins of Neoliberalism. Insights from economics and
philosophy, Routledge, London-New York 2017, p. 50.
135
F. Chabod, L’idea di nazione, Laterza, Roma-Bari 2019 [I ed. 1961].
136
K. Marx, F. Engels, Il manifesto del partito comunista, in Manifesto e principi del comunismo,
Bompiani, Milano 2009, pp. 236-237 (traduzione modi cata): “Die moderne Staatsgewalt ist nur
ein Ausschuss, der die gemeinschaftlichen Geschäfte der ganzen Bourgeoisklasse verwaltet”.
137
Secondo Piketty la crescita europea del dopoguerra sarebbe essenzialmente dovuta al
processo di convergenza del potenziale produttivo europeo con lo standard statunitense. Una volta
raggiunto quel potenziale, la crescita iniziò a ridursi, passando mediamente dal 4-5% all’1,5-2%.
Cfr. Th. Piketty, Capital in the Twenty-First Century, The Belknap Press of Harvard University Press,
Cambridge, Massachusetts-London, England 2014, pp. 96-97.
138
Il riferimento è alla celebre frase di Margaret Thatcher: “There is no such thing as society.
There are individual men and women, and there are families”.
139
L. Boltanski, E. Chiapello, op. cit., p. 137.
140
Così in P. Dardot, Ch. Laval, The New Way of the World : On Neoliberal Society, Verso,
London 2013, p. 58 [I ed. La nouvelle raison du monde: Essai sur la société néolibérale, 2009], dove
la Mont Pèlerin Society viene considerata sostanzialmente come la prosecuzione del Lippmann
Colloquium, tenutosi a Parigi nel 1938, e come coordinamento fondativo delle istanze
ordoliberiste.
141
Queste posizioni sono ben illustrate in Civitas Humana. Grundfragen der Gesellschafts- und
Wirtschaftsreform, di W. Röpke (Rentsch Erlenbach-Zürich 1944).
142
M. Crozier, S.P. Huntington, J. Watanuki, The Crisis of Democracy: On the Governability of
Democracies, New York University Press, New York 1975.
143
Ivi, p. 113.
144
Ivi, p. 114.
145
La Germania invece aveva anticipato questa tendenza, seguendo il modello ordoliberista, e
aveva deciso l’indipendenza della Bundesbank dal governo sin dal 1957.
146
D. Harvey, A Brief History of Neoliberalism, Oxford University Press, Oxford 2005, p. 2.
147
P. Dardot, Ch. Laval, op. cit. p. 9.
148
G. Becchio, G. Leghissa, op. cit., p. 1.
149
Ivi, pp. 5-6.
150
Ivi, p. 12.
151
Ivi, p. 44.
152
Ivi, p. 125.
153
Ivi, p. 96.
154
F. von Hayek, Law, Legislation and Liberty, Routledge, London 1998 [I ed. 1982], p. 17, e pp.
48 e ss.
155
F. von Hayek, Denationalisation of Money, Createspace Independent Publisher, Scotts Valley,
California 2014.
156
Questa sembra essere la posizione di fondo di Becchio e Leghissa.
157
“It should be realized, however, that the ideals of socialism (or of ‘social justice’) which in
such a position prove so attractive, do not really offer a new moral but merely appeal to instincts
inherited from an earlier type of society. They are an atavism, a vain attempt to impose upon the
Open Society the morals of the tribal society which, if it prevails, must not only destroy the Great
Society but would also greatly threaten the survival of the large numbers to which some three
hundred years of a market order have enabled mankind to grow. – Similarly the people who are
described as alienated or estranged from a society based on the market order are not the bearers of
a new moral but the non-domesticated or un-civilized who have never learnt the rules of conduct
on which the Open Society is based, but want to impose upon it their instinctive, ‘natural’
conceptions derived from the tribal society” – F. von Hayek, Law, Legislation and Liberty, cit., p.
147.
158
H.-J. Chang, Bad Samaritans. The Myth of Free Trade and the Secret History of Capitalism,
Bloomsbury Press, New York 2007, cap. 2.
159
C. Durand, Fictitious Capital. How Finance is Appropriating Our Future, Verso, London-New
York 2017 [I ed. 2014].
160
Per alcune acute osservazioni a questo proposito si veda la discussione su comunitarismo e
populismo di Ch. Lasch ne La rivolta delle élite. Il tradimento della democrazia, Feltrinelli, Milano
2009, pp. 80 e ss.
Sezione quinta
I “luoghi naturali” della ragione liberale

Prima di procedere con un’analisi delle dinamiche correnti in cui la


ragione liberale si esprime è utile fare il punto del percorso svolto. Il
quadro che abbiamo cercato di presentare individua nel liberalismo
qualcosa di più, e qualcosa di meno, di una “teoria di successo”. C’è del
vero nell’idea apologetica del pensiero liberale che lo ha spesso dipinto
come una sorta di destino naturale, di progresso necessario che coinvolge
la storia umana in quanto tale. Di vero c’è che la storia dell’orientamento
liberale affonda le proprie radici in tendenze storiche di lungo periodo.
L’introduzione della scrittura, e nello speci co di forme di scrittura
fonetiche, capaci di riprodurre il parlato, ha creato una base di
consolidamento dei tratti individuali nei soggetti umani. In un certo
modo, gli spazi e i tempi tra uomo e uomo si sono dilatati, consentendo
un potente incremento delle interazioni tra individui distanti nel tempo e
nello spazio. Ciò da un lato ha potenziato le capacità cognitive e operative
delle collettività umane, e dall’altro ha reso le soggettività individuali
meno dipendenti dal riconoscimento immediato, e dunque più autonome.
Questa tendenza sta alla radice della “nascita dell’individualismo” come
speci cità inizialmente europea.
Sulla scorta dell’alfabetizzazione è emersa la “linearizzazione” e
“logicizzazione” del discorso in forma scritta, con la nascita della loso a,
e poi della letteratura, della storia, del diritto.
A partire dal XVI secolo la “logicizzazione del discorso” e
l’indipendente maturazione di una scrittura numerica posizionale sono
con uite nella nascita della scienza moderna, consolidata dalla stampa a
caratteri mobili. L’individualismo occidentale, riemerso nel Rinascimento,
ha trovato una cruciale incarnazione nel protestantesimo, con il suo
richiamo alla responsabilità personale di fronte a Dio e all’interpretazione
personale delle Scritture.
Questi sviluppi trovano in ne una convergenza operativa con il parallelo
consolidamento della pratica monetaria, anch’essa fondata su un tipo di
“scrittura”, che media le relazioni tra individui e ne dilata le interazioni
nel tempo e nello spazio, spersonalizzandole. La pratica monetaria genera
le condizioni per incrementare patrimonializzazioni dipendenti non dalla
forza o dalla conquista, ma da ragioni di scambio.
La convergenza storica nel XVII secolo tra la peculiare forma di
“individualismo timorato di Dio” del Protestantesimo, la pratica
monetaria maturata nel sistema bancario del Basso Medioevo, e la nuova
“scienza della natura”, porta alla luce quella piattaforma operativa da cui
in Inghilterra sorge la prospettiva liberale. Non si tratta di una teoria
unitaria, ascrivibile a un padre speci co, mossa da un progetto etico,
dotata di una fondazione razionale indipendente, ma piuttosto di un
movimento di ricerca di soluzioni per conciliare dinamiche distinte e solo
parzialmente sovrapponibili. Molte cose emerse dalle stesse dinamiche
storiche rimarranno estranee a quella convergenza: loso a, storia e
letteratura, nutrite inizialmente da meccanismi simili, rimarranno estranee
alla grande convergenza liberale. Il diritto verrà in parte cooptato, ma
senza risolversi compiutamente negli stilemi della ragione liberale. Lo
Stato, istituzione che precede la convergenza liberale, subirà una
metamorfosi che abbatterà l’Ancien Régime creando una nuova tensione
tra istanze di partecipazione popolare e istanze di controllo oligarchico su
base censitaria.
Il pensiero liberale promuove inizialmente un’agenda estremamente
semplice, forte proprio della sua semplicità: viene promossa la libertà di
soggetti individuali, raziocinanti e “commercianti”, della “borghesia
nascente” che incarna esigenze di autonomia individuale in con itto con
istituzioni e credenze tradizionali. Sono soggetti che non sono accomunati
da alcuna eredità culturale sostanziale, da alcun progetto di società
de nito o da alcuna prospettiva etico-religiosa comune, non sono ispirati
né da un condottiero, né da un’utopia, né da una fede. E tuttavia essi
diventano nei successivi tre secoli la forza “rivoluzionaria” per eccellenza,
alleandosi di volta in volta con istanze popolari differenti, nella
Rivoluzione inglese, nella Rivoluzione francese e poi ancora nei moti
rivoluzionari tra il Congresso di Vienna e il 1848. Si tratta di un
orientamento politico magmatico, privo di una forma precisa, de nito di
volta in volta da ciò contro cui combatte, il cui minimo comune
denominatore ideologico è in ultima istanza solo una concezione della
libertà come libertà negativa, individuale ed economica. La particolarità di
questa concezione di libertà è la sua neutralità assiologica: non è libertà
per fare alcunché, ma libertà da interferenze altrui. Dalla sua neutralità
assiologica deriva il suo incarnarsi nell’unica libertà positiva compatibile
con questa vuotezza valoriale, ovvero la libertà di iniziativa economica e di
commercio, che è libertà di acquisizione di mezzi per qualunque ne. È
perciò che la ragione liberale con uisce nella ragione economica, che
Locke sfocia in Adam Smith: il denaro come mezzo potenziale che non
predetermina alcun ne incarna perfettamente il perseguimento della
libertà come libertà negativa, vuota.
Il sistema dello scambio competitivo161 generalizzato, ovvero l’idea di un
sistema di mercato idealmente capace di risolvere in sé tutte le interazioni
volontarie tra soggetti, è l’incarnazione teorica esemplare del primo
motore della ragione liberale: l’idea di libertà negativa. La società,
concepita come luogo degli scambi tra individui con agende mutuamente
estranee, ottiene una sistematizzazione ideale nella ri essione neoclassica:
il “mercato perfetto” esempli ca il bene cio collettivo prodotto da
relazioni tra libertà individuali prive di indirizzi assiologici de niti e
comuni.
La “scienza economica” così come noi la conosciamo ha al suo centro
una sorta di “sistema loso co minimale”: un’antropologia loso ca e una
teoria del valore. In questo “sistema” il protagonista assoluto sono le
decisioni individuali, idealmente informate, consapevoli delle proprie
stabili preferenze, impermeabili a preferenze altrui, che piani cano atti
rivolti alla massimizzazione dell’appagamento. In questo modello tutto ciò
che poteva rappresentare un contenuto positivo è stato eliminato
sistematicamente dalla descrizione dell’azione umana. L’assunto di fondo
è che non vi sia alcun bisogno di sapere nulla intorno a valori positivi
af nché le interazioni tra individui producano effetti universalmente
bene ci. Qui sta la forza dell’assioma della “mano invisibile”, ovvero
l’idea di un esito complessivo bene co a prescindere da ogni agenda
assiologica. “Valore” qui diventa qualunque cosa sia ritenuta
soggettivamente appagante. E l’uomo qui è concepito come individuo
originario, che nulla deve al passato, alla cultura, alla storia, al
riconoscimento intersoggettivo, e che può orire e prosperare anche in
ideale assenza di tutti quei fattori.
La forza di questo sistema loso co sui generis è che non si presenta
affatto come tale: non argomenta esplicitamente alcuna teoria del valore
etico, né alcuna antropologia. L’economia neoclassica come “sistema
loso co” si propone come scienza, ponendosi con ciò al di là di ogni
discussione politica, sociologica, assiologica. Essa mima la struttura
assiomatica e ipotetico-deduttiva delle scienze siche, nonostante ai suoi
principi manchi del tutto l’intuitività ed evidenza generalmente richiesta a
un assioma. La pretesa “imperialistica” di estendersi, di diritto, a tutti i
comportamenti umani e sociali non è un accidente, o una degenerazione
casuale, ma esprime esattamente la sua tacita ispirazione di fondo.
Va da sé che nella scienza economica c’è molto di più, e di molto
pregevole, rispetto a quell’impianto, che le idealizzazioni utilizzate non
vanno prese alla lettera, che esiste una varietà di posizioni critiche, un
dibattito con criteri scienti ci ecc. Tutto ciò è indubbio. Ma rimane una
questione di fondo, tanto più in uente quanto più è rimossa: le
idealizzazioni che abbiamo menzionato nei capitoli 13-14 non funzionano
come assunti provvisori, successivamente falsi cabili. Le concezioni
dell’individuo umano, come originario e irriducibile, e del valore, come
appagamento interiore (utilità percepita), sono incardinate nella spina
dorsale dell’odierna concettualità economica. La realtà umana, la
concretezza storica e antropologica, vengono perciò sempre lette come
una sorta di eccezioni, di deviazioni, più o meno marcate e possibilmente
da correggere; invece l’astrazione di partenza appare per la moderna
ri essione economica come un “luogo naturale” aristotelico, un punto di
attrazione cui si tende a ritornare sempre, salvo esplicito impedimento.
Una volta compresa l’essenziale continuità tra la ragione liberale classica
e la razionalità economica neoclassica, si comprende la naturalezza dello
sbocco neoliberale. Il neoliberalismo, infatti, rappresenta la presa di
coscienza storica del carattere normativo dell’economia neoclassica. Non
si tratta più di immaginare un mondo (uno “stato di natura”) dove gli
esseri umani siano massimizzatori razionali autoreferenziali, dove la storia
e la cultura siano inconferenti, dove il mercato sia un’entità originaria e lo
Stato un accessorio a esso funzionale. Questo mondo non c’è mai stato.
Ma in una prospettiva economica è ritenuto auspicabile che esso ci sia, o
che ci si approssimi quanto possibile a quel modello, e questa è l’essenza
della proposta neoliberale. È perciò che alla ne del XX secolo lo Stato
liberale dismette le proprie remore e si fa carico di creare, o approssimare,
le condizioni perché le idealizzazioni del mercato perfetto si realizzino.
***
Procediamo ora a descrivere le tendenze strutturali (in questa sezione) e
ideologiche (nella sezione successiva), che caratterizzano l’ordinamento
neoliberale, come compiuto dispiegamento della ragione liberale.

20. Il mezzo come ne: mobilità e sradicamento


L’idea che lo scambio volontario sia di per sé fonte di bene ci e che
perciò l’estensione e intensi cazione degli scambi sia un ideale normativo
da perseguire è un tratto fondante dell’odierna scienza economica. Sul
piano delle pratiche sociali questa tesi pone il mezzo (l’atto dello
scambiare) come ne. L’incremento e il miglioramento della sfera di libera
scambiabilità vengono concepiti come un valore sociale a fortiori,
qualcosa che non si può sbagliare a favorire. Due tendenze di fondo del
progetto neoliberale, cioè il processo di creazione di “mercati” dove
prima non ve n’erano, e l’“ef cientamento” di mercati già esistenti, vanno
intese alla luce di questo orientamento strutturale.
Nel momento in cui si pone lo scambio come cardine, come punto
fermo, tutto il resto inizia a girarvi attorno, divenendo in linea di principio
mobile, negoziabile, fungibile. Ciò vale, in linea di principio, per
qualunque cosa: per i prodotti, ma anche per i fattori di produzione, come
terra, capitale e “forza lavoro”. Come osservato in precedenza, nella
condizione ideale di assenza di costi di transazione, il modello promuove
una sorta di regime di “negoziabilità perenne”, giacché proprio questa
continua negoziabilità consentirebbe di estrarre da ogni entità scambiata
tutto il pro tto possibile per i contraenti. Il fatto che poi si debba
riconoscere l’esistenza di costi di transazione non toglie che il sistema sia
concepito con l’aspirazione di minimizzarli, e di ampliare perciò lo spazio
della negoziabilità e delle transazioni realizzate.
Da questo ideale normativo discendono a cascata innumerevoli
conseguenze. Innanzitutto, questo modello incoraggia sistematicamente la
“ essibilità”, cioè una trasformazione dei contratti di impiego a tempo
indeterminato in rapporti di lavoro contingenti e provvisori. Per il datore
di lavoro è idealmente ottimale pagare un lavoratore solo nel momento
dell’utilizzo, interrompendo ogni rapporto in eventuali “tempi morti”.
Idealmente la essibilità può essere descritta come qualcosa che ne fa un
vantaggio per tutti: entrambi, sia il datore di lavoro che il lavoratore,
potrebbero avere interesse a un rapporto più “libero”. Il primo può tarare
precisamente la spesa per il personale sui propri bisogni, il secondo
potrebbe ridiscutere in ogni momento orari, modalità e retribuzione del
proprio impegno di lavoro, cercando di estrarne il massimo bene cio.
Quest’idea della essibilità lavorativa come fattore di emancipazione
individuale è parte integrante dell’ideologia del “nuovo spirito del
capitalismo”, descritto da Boltanski e Chiapello162, dove essa viene
presentata come una forma nuova, più dinamica e moderna, di concepire
il lavoro, una forma appunto che celebra la libertà individuale di tutti gli
attori economici, e che è stata proposta a partire dagli anni ’70 in esplicita
contrapposizione al vecchio modello gerarchico, padronale, taylorista.
Al netto della veste ideologica, tuttavia, il punto di fondo è che i
contraenti hanno di norma livelli altamente asimmetrici di potere
contrattuale, e ciò cambia di molto la presunzione di “guadagno
reciproco” di tutte le parti in causa. Ciò che sul piano dell’ideologia
neoliberale può essere presentata come “ essibilità volta a un
ef cientamento delle relazioni di scambio”, sul piano delle condizioni di
lavoro si traduce in precarietà. Mentre per esigue minoranze di “prestatori
d’opera”, molto richiesti e quali cati (sportivi professionisti, star del
cinema, celebrità della lirica, e simili), la conservazione di un’ampia
autonomia contrattuale rispetto al datore di lavoro può presentare
vantaggi, nella stragrande maggioranza delle situazioni tale sistema
relazionale sfocia nel perenne mantenimento sotto ricatto della forza
lavoro. L’incremento delle forme di lavoro essibile e/o precario è una
delle caratteristiche salienti dell’evoluzione economica degli ultimi
quarant’anni163.
Tale essibilizzazione dei rapporti di lavoro comporta per molti
lavoratori non solo discontinuità nelle risorse economiche, ma anche una
crescente discontinuità territoriale (mobilità), che ostacola il radicamento
in un territorio e la formazione di una famiglia. Come eloquentemente
evidenziato da Richard Sennett, il processo di “ essibilizzazione” (e
dunque precarizzazione) del mercato del lavoro produce una profonda
erosione nel carattere degli agenti coinvolti, cui è precluso percepire
forme stabili di appartenenza, consolidare abilità o competenze, stabilire
lealtà di lungo periodo164.
I soggetti umani tendono perciò a percepirsi sempre più come mezzi
intercambiabili, a disposizione di un meccanismo funzionale alla
riproduzione del capitale. Il denaro, il mezzo anonimo universale, il
mezzo per ogni ne, prende il centro della scena come nalità sostanziale
e impone alle soggettività umane e ai loro ni il ruolo di mezzi
contingenti.
Flessibilizzazione e nanziarizzazione sono processi paralleli e
complementari. La essibilizzazione disimpegna ditte, titolari, aziende,
che riducono la durata e continuità dei rapporti di lavoro, ricorrendo alla
mediazione di agenzie interinali, a contratti a progetto, a part-time
essibilizzati con gli straordinari, a ogni forma accessibile di allentamento
dei rapporti di impiego. Questa tendenza, quando si realizza in
organizzazioni medio-grandi comporta un ampio ricorso
all’esternalizzazione dei servizi (outsourcing), che diluisce le responsabilità
del datore di lavoro e consente all’azienda di avere massima elasticità e,
all’occorrenza, massima mobilità: se c’è un’opportunità di
delocalizzazione, le proprietà materiali da dismettere sono minimizzate,
essendo stati presi in af tto la maggior parte dei fattori di produzione
(inclusi i lavoratori).
Questa tendenza comporta un aumento di peso del capitale liquido
( nanziario) rispetto a ogni forma di proprietà reale: la disponibilità di
capitale nanziario consente di entrare e uscire agilmente dalle situazioni
produttive, estraendone il massimo pro tto ed evitando ogni impegno a
lungo termine. Questo spiega lo spostamento massivo dei pro tti dalla
produzione di beni alla nanza, avvenuto a partire dagli anni ’80165.
Il denaro, che è oggi prevalentemente moneta virtuale, elettronica,
trasferibile ovunque in pochi istanti, è il fattore produttivo che ha la
maggiore capacità di cogliere le opportunità di pro tto che si presentano,
e per ciò stesso è ciò la cui maggiore disponibilità de nisce anche il
maggior potere contrattuale. Perciò la disponibilità di denaro pregresso è il
fattore che predice nel modo migliore l’accesso a pro tti crescenti in
futuro166.
Ogni altra componente che interviene nel processo produttivo, a partire
dalla “forza lavoro”, è spinta a mobilizzarsi a sua volta, per stare al passo
con la mobilità del capitale nanziario. La mobilità del lavoro si esprime
sia come labilità delle condizioni di lavoro ( essibilità), che come
spostamento sico alla ricerca di “posti di lavoro”, cioè di quei luoghi in
cui il capitale è, per così dire, “sceso in terra”, investendosi
(provvisoriamente) in un’attività reale. I processi migratori, intranazionali e
internazionali, sono un correlato strutturale spontaneo del dominio del
capitale nanziario e della sua capacità di spostarsi liberamente167. Ciò
produce come effetto collaterale necessario l’allentamento strutturale di
tutti i vincoli di fedeltà, lealtà, solidarietà personale168, oltre a una
dif coltà per ciascun soggetto di aderire alla propria occupazione.
In questo processo tutte le relazioni che contribuiscono a identi care un
soggetto di fronte a se stesso vengono destabilizzate: il radicamento
territoriale, le relazioni con altre persone, il rapporto verso il proprio
lavoro (cioè l’attività che di fatto occupa la maggior parte della vita adulta
di una persona). Naturalmente, ciascuno di questi elementi può essere
fatto passare (ed è stato spesso fatto passare) per “progresso
emancipativo”. E non c’è alcun dubbio che nel mondo in cui la ragione
liberale inizialmente prese forma ciascuna di queste tendenze presentava
una preponderanza di aspetti realmente liberatori. In un mondo come
quello del XVII secolo, composto di lavoratori prevalentemente legati a
vita a un pezzo di terra, dove l’insieme delle relazioni intersoggettive si
limitava per lo più ai volti del villaggio natio, e dove l’occupazione spesso
non era scelta ma ereditata, è chiaro come la dinamica liberale apparisse (e
fosse) autenticamente emancipativa. Questa situazione ha continuato a
presentare aspetti liberatori per lungo tempo, anche se, con l’avanzare
dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione, tali aspetti ne lasciavano
progressivamente intravedere i limiti. Nelle condizioni di vita preliberali la
funzione formativa della continuità territoriale, intersoggettiva e lavorativa
non era percepibile perché onnipresente, come l’aria respirata.
È importante guardare questo processo storico nella sua dimensione di
lungo periodo. Quando parliamo di denaro parliamo di un sistema di
comunicazione interumana, in certo senso di un “linguaggio”. Il denaro è
quel segno che ci si scambia per tracciare le relazioni di dare e avere tra
soggetti. Si tratta di un linguaggio peculiare, puramente quantitativo
(numerico), che perciò non è in grado di trasportare alcun contenuto
qualitativo. Di tutto ciò che accade nel mondo, di colori, sapori, odori,
speranze e sofferenze il denaro veicola solo, tutt’al più, i rapporti tra
quantità d’appagamento soggettivo corrente dei transattori (“utilità”).
Questo limite è anche il suo essenziale punto di forza: proprio perché non
ha l’onere di dover trasferire signi cati, esso può essere tradotto e diffuso
con estrema facilità. Il denaro ha perciò una natura strutturalmente
disposta al superamento di barriere nazionali e culturali. L’unica barriera a
tale in nita trasferibilità è rappresentata da eventuali limitazioni
normative nazionali o da commissioni sui cambi, ma si tratta comunque di
limitazioni incomparabilmente meno onerose di quelle che incontrano
tutti gli altri fattori che incidono sul benessere o sullo sviluppo. In un
sistema economico dominato dalla mobilità del capitale nanziario – e
dove tale mobilità è politicamente giusti cata – il destino tendenziale della
“forza lavoro” è duplice: da un lato veder ridotta la parte di pro tti a essa
destinata (salari) rispetto a quella riservata al capitale, e dall’altro subire
una sollecitazione costante alla mobilità (come essibilità, precarietà,
trasferimenti, migrazioni). I lavoratori non possono competere in agilità di
spostamento e adattamento con il denaro, che perciò si appropria delle
migliori opportunità di pro tto e gioca sempre d’anticipo nel trasferirsi
dove può ottimizzarle. D’altro canto i lavoratori sono indotti a limitare
quanto più possibile tutte le caratteristiche che li rendono incompatibili
con lo standard di rapida e neutrale trasferibilità imposto dal denaro: ogni
lavoratore è indotto, per così dire, a “moneti carsi”, cioè a perdere tutte
quelle caratteristiche che lo pongono come portatore di signi cati stabili,
relazioni, radici, legami, progetti, che lo pongono cioè come differente
rispetto allo standard della “liquidità” rappresentato dalla moneta.

21. Il prezzo come valore e l’orizzonte del nichilismo


Come abbiamo visto, all’origine del pensiero liberale troviamo un gesto
di rigetto verso ogni pretesa di validità obiettiva del valore. La dimensione
del valore è riportata alla sfera idiosincratica del singolo individuo, mentre
pretese di obiettività, verità, universalità concernenti la sfera assiologica
sono rigettate, in nome della libertà individuale. Storicamente
l’identi cazione del “valore obiettivo” con le pretese di ortodossia
confessionale durante le guerre di religione rende quel rigetto iniziale
comprensibile169: di fronte ad apparati normativi duramente con ittuali e
razionalmente inconciliabili la “mozione” liberale poteva apparire saggia
e, per certi versi, risolutiva. I problemi cominciano a emergere quando
quella mossa si traduce in una teoria, un’etica e una politica, dove
uf cialmente il solo spazio per una dimensione di valore diviene quello
dell’inclinazione individuale. Questa sorta di “assiologia negativa” è il
correlato dell’idea di libertà negativa, come mera non-interferenza. Il
con uire della proposta liberale nella sfera economica trae origine da qui:
il modello economico della “mano invisibile” rappresenta infatti
l’ordinamento ideale per neutralizzare i problemi posti dalla
“soggettivizzazione” del valore. L’idea che il perseguimento individuale di
un’agenda di desiderata privati generi spontaneamente benessere
collettivo rappresenta una trovata geniale, una sorta di “Provvidenza
laica” che rende la sfera delle transazioni economiche la vera incarnazione
dell’etica liberale, un’etica dove non ci sarebbe più il problema di
accordarsi eticamente su nulla.
Purtroppo questa soluzione è ampiamente illusoria, per quanto il fascino
di una soluzione così mirabilmente semplice abbia tenuto a distanza per
lungo tempo le critiche. Che il modello “a mano invisibile” sia nel
migliore dei casi una rozza approssimazione è intuibile sia sul piano logico
che su quello pratico. Sul piano logico è evidente che sia la libertà come
non interferenza, che la concezione del valore come espressione
individuale di desiderio sono prese di posizione sostanziali sulla natura del
valore. Non c’è sistema sociale possibile che sia valorialmente neutro, e il
carattere tacitamente normativo del liberalismo comporta problemi
speci ci. Il liberalismo non può davvero fare a meno di una dimensione
normativa e assiologica, può però dissimularla sotto pretese minimaliste. E
realmente tale dimensione normativa è apparsa marginale per lungo
tempo, no a quando ha potuto giocare di rimessa, criticando tradizioni
etiche consolidate. Questo quadro, tuttavia, è cambiato nettamente
nell’ultimo mezzo secolo, in cui le istanze normative del liberalismo si
sono fatte sempre più invadenti nella forma dell’ideologia dei “diritti
umani”, di richieste “difensive” che si trasformano in normazioni
aggressive (il “politicamente corretto”), di rivendicazioni competitive da
parte di identità parziali (identity politics) ecc. Su tutto ciò ci
soffermeremo nell’ultima sezione del testo.
Sul piano operativo, l’alleanza strutturale tra ragione liberale ed
economia monetaria ha messo in piedi il più straordinario sistema
istituzionale mai esistito di disgregazione assiologica. Esso presenta diversi
aspetti, la cui matrice comune è l’indifferenza delle transazioni
economiche a ogni dimensione etica.
Che la pratica monetaria sia intrinsecamente latrice di dubbie istanze
morali è un’osservazione antica quanto l’invenzione del denaro.
L’associazione di denaro e immoralità, denaro e peccato, denaro e vizio la
troviamo da Babilonia a Catone, a Shakespeare, a Marx, no al giorno
d’oggi. La natura eticamente problematica della pratica monetaria ha
come punto di innesto il fatto che il denaro assume un valore
supplementare rispetto a quello previsto di valore di scambio. Il denaro
viene infatti investito anche di una dimensione di valore in senso etico, in
quanto potere. Ogni agente conferisce – in qualche misura – valore al
potere, e il denaro si innesta sul piano etico a questo livello, come facoltà
di in uire su azioni e opinioni altrui attraverso il potere del denaro.
È utile rammentare qui qualcosa che abbiamo descritto più estesamente
altrove170, ovvero che il potere del denaro ha una natura complessa,
articolabile su tre dimensioni. Chiamiamo queste dimensioni: profondità,
capillarità ed estensione della pratica monetaria.
La profondità è de nita da quali categorie di “cose” sono acquistabili
con il denaro. In nessuna civiltà tutto è comprabile, ma quanto più
socialmente importanti sono le cose comprabili, tanto maggiore è la
profondità della pratica monetaria. Che io possa – o non possa –
comprare liberamente armi, terreni, cariche politiche, schiavi, bambini,
organi per trapianti ecc. de nisce la profondità del potere del denaro.
La capillarità della pratica monetaria è de nita dalla frequenza con cui
vengono svolti atti di compravendita. Se anche la profondità di cui sopra
fosse elevata, ma la capillarità bassissima (ci fossero cioè pochissime
transazioni) dif cilmente potremmo dire che detenere denaro conferisce
grande potere.
L’estensione in ne è de nita dall’ampiezza e varietà dei mercati su cui il
denaro può essere utilizzato. Una moneta accettata solo all’interno di una
città-stato, o invece accettata estensivamente, anche al di fuori dei con ni
di una nazione, rappresentano due potenziali di in uenza
rimarchevolmente differenti.
Di fatto l’uso contemporaneo del denaro ha capillarità ed estensione
indiscutibilmente maggiori di ogni altra epoca della storia. Quanto alla
profondità, in linea di principio sono spesso in vigore regole più restrittive
rispetto ad altre epoche della storia: ad esempio l’acquisto di schiavi è
illegale quasi ovunque, così come l’acquisto diretto di cariche politiche.
Tuttavia sono cresciute le possibilità di aggirare i divieti formali e di
operare negli interstizi tra legislazioni, rendendo la maggior parte di
quelle limitazioni legali mere parvenze. Se non posso comprare schiavi,
ma posso disporre di manodopera disposta a tutto per mancanza di
alternative, la differenza con la condizione di schiavitù diviene in gran
parte nominalistica o estetica. Se non posso uf cialmente comprare
cariche pubbliche, ma posso comprare campagne pubblicitarie che
risultano decisive per l’elezione171, anche qui la differenza rispetto al caso
vietato viene ridotta ai minimi termini. Sempre con riferimento alla
profondità della pratica monetaria, bisogna poi aggiungere che
l’importanza di ciò che è disponibile alla compravendita non è
determinata solo dai vincoli legali all’acquisto, ma anche dal potenziale
tecnologico e operativo esistente: poter acquistare oggi terapie salvavita,
sistemi di telecomunicazioni, aziende energetiche o di trasporto ecc.
conferisce a detentori privati di capitale forme di potere inimmaginabili in
passato.
Nell’insieme si può perciò dire che nessuna società storica ha mai
presentato una situazione in cui il potere del denaro sia stato maggiore
che nel presente.
Una volta illustrato il nesso intrinseco tra il denaro e il suo valore come
potere, possiamo comprendere in che modo la pratica monetaria, e il
sistema degli scambi su essa basato, minino la sfera etica. Il punto cruciale
qui è de nito dallo iato tra il valore-potere attribuito al denaro e le ragioni
a giusti cazione di tale potere.
Il denaro infatti ha come caratteristica dominante quella di essere un
ente esterno, che ha esistenza obiettiva indipendente dai soggetti che lo
manipolano, dalle loro opinioni e inclinazioni morali. È proprio questa
caratteristica che lo rende così utile, in quanto (differentemente dalle
relazioni “di dono” premonetarie) non esige che il soggetto tenga a mente
meriti e demeriti, obblighi e gratitudini, debiti e crediti (morali o
materiali) per preservare rapporti “giusti” con gli altri. La monetizzazione
delle relazioni consente di quanti care in una sorta di “partita doppia”
impersonale il dare e l’avere, permettendo l’estensione numerica delle
interazioni e degli “indebitamenti”. Ma questo passaggio alla
quanti cazione e obiettivazione dei rapporti di debito-credito, proprio
perché consente la misurazione di tali rapporti, ne sopprime il carattere
morale, dove “approssimazioni benevole”, “valutazioni personalizzate”,
“sbilanciamenti compensativi”, erano necessari e comuni172.
Nel momento in cui il denaro, con le sue caratteristiche, viene alla luce,
un potere sugli altri uomini può venire appropriato in forme sottratte a
ogni giudizio di natura morale o valoriale. Ciò con igge alla radice con
l’idea di un potere “legittimo”, che si tratti di legittimazione legata alla
tradizione, al consenso popolare, alla dimostrazione di valore, o altro.
Qui, qualcuno, per il mero fatto di detenere denaro può essere nelle
condizioni di esercitare potere su perfetti estranei, su persone in ogni
senso migliori di lui, su persone che non acconsentirebbero mai a
riconoscergli potere. Persino a chi ci sottomette con la forza riconosciamo
un valore, e un aspetto sotto il quale si è conquistato rispetto (compatibile
con l’odio). Niente del genere avviene per il potere conferito dal denaro.
Naturalmente tale esercizio di potere è tanto più evidente, e invadente,
quanto maggiore il potere del denaro in una società, e quanto maggiore la
distanza economica tra i protagonisti. Se i soggetti coinvolti non
presentano disparità eccessive, e se il modello sociale impedisce
l’esclusione radicale dei meno abbienti, quel potere può essere ingiusto,
ma rimane tollerabile. Al contrario, nel caso di grandi disparità, e in
società dove l’indigenza ha implicazioni gravi, il potere esercitato dai
benestanti non può che essere percepito come costitutivamente ingiusto.
Il denaro conferisce “status”173, come è sempre accaduto per chi deteneva
potere; tuttavia il fatto stesso che ciò sia conferito dal denaro, cioè da
qualcosa di indipendente da virtù personali, scredita tale status, che
diviene insieme intimorente e invidiato, ma non realmente rispettato.
Il possesso di denaro, a maggior ragione se in quantità ingenti, non
garantisce nulla dei “meriti” di chi lo detiene. In ogni società storica, e
oggi in misura particolarmente netta, le vie attraverso cui si può venire in
possesso di elevate somme di denaro possono essere affatto indipendenti
da qualità umane, etiche o caratteriali, dal contributo al benessere comune
o alla vita civile ecc. Il denaro può essere ottenuto ereditandolo,
rubandolo, vincendolo alla lotteria, frodando il sco, speculando in borsa,
vendendo droga, sfruttando prostitute, o in mille altre forme che
semplicemente non garantiscono alcun “merito” in chi lo detiene. Ma
anche per il reddito dipendente da lavoro in un sistema di mercato il
successo economico appare solo labilmente connesso con meriti e sforzi
personali: tutto ruota intorno alla possibilità di poter fornire
tempestivamente qualcosa che incontri contingentemente i favori del
mercato, e qui lo spazio per l’accidentalità è sempre ampio.
Secondo Hayek tale accidentalità sarebbe il prezzo da pagare nell’ordine
di mercato per lasciar spazio alla “scoperta” della domanda, capace di
innovare la produzione174. È perciò che per Hayek ogni appello alla
“giustizia sociale” sarebbe un mero fraintendimento, qualcosa da superare
nel nome dei bene ci complessivi dell’adottare un sistema di mercato.
Tuttavia, nel quadro che lui presenta lo scollamento tra “industriosità” e
“retribuzione” appare occasionale; e se di una situazione occasionale si
trattasse, il problema potrebbe rientrare in una “ siologia di mercato”
senza produrre eccessive perturbazioni. Il problema, tuttavia, è che nella
realtà questo disallineamento non è affatto occasionale. Il nesso tra
“merito”/“sforzo” e retribuzione presenta un’accettabile correlazione per
redditi medio-bassi, con una comune occupazione, e in un medesimo
paese. Tra due idraulici o due tassisti operanti nel medesimo contesto è
plausibile che ci sia una certa correlazione tra i rispettivi meriti e i
rispettivi redditi. Ma a questo quadro sfuggono tutte le differenze
reddituali più massive, cioè proprio quelle che fanno percepire nel modo
più violento il potere del denaro e il suo esercizio. Quando si parla di
redditi elevatissimi, decine o centinaia di volte maggiori di un reddito da
lavoro medio, qui ogni appello a proporzionalità, per quanto
approssimative, è fuori luogo. Qui, che si tratti di fortuna, criminalità,
eredità, speculazione, corruzione, spregiudicatezza, sfruttamento o “giuste
conoscenze”, in tutto ciò non vi è traccia possibile di giustizia; e tale
constatazione lascia segni etici profondi.
Il messaggio implicito nell’esistenza di diseguaglianze economiche
abissali, prive di legittimazione valoriale, è univoco. Una forma di potere
sul prossimo, probabilmente la più estesa nel mondo contemporaneo, è in
vigore indipendentemente da ogni riconoscimento intersoggettivo di
valore. Ciò signi ca che, nel mondo contemporaneo, con signi cativa
frequenza, l’azione di valore e il potere sugli altri sono disaccoppiati. Questa
reiterata constatazione avvelena le coscienze, producendo un diffuso
senso di abuso e ingiustizia, e indebolendo di rimando l’attrattività di ogni
“azione di valore”.
È importante sottolineare che qui non ha importanza stabilire di quali
valori si tratta, appellandosi magari, come tipicamente fa la ragione
liberale, alla dif coltà di raggiungere un consenso universale su questo o
quel valore. Il punto è che, quale che sia il criterio di “bontà etica” che
vogliamo assumere, applicandolo alle azioni umane, esso sarà comunque
sempre minato dall’ordinario funzionamento del denaro in un sistema di
mercato. Che si assuma un’etica cristiana, eroica, kantiana, buddista,
comunista, o qualunque altro sistema normativo atto a valutare e
discernere azioni cattive da azioni buone, in tutti i casi il funzionamento
ordinario dei meccanismi di arricchimento in un sistema di mercato lo
violerà, conferendo potere interpersonale a persone prive della
legittimazione ad averlo.
La chiave per comprendere questa dinamica etica, profonda e
consolidata da tempo, è vedere come il sussistere di un rilevante “potere
del denaro” spezza una delle dimensioni etiche fondanti, ovvero la
continuità temporale delle azioni. Il denaro, in quanto potere-su-altri,
distacca il passato dal futuro, cioè distacca i “meriti”, gli “sforzi”, le
“intenzioni”, le “regole”, le “promesse” dalla disponibilità di potere (e
status) futuro. L’origine del denaro posseduto è irrilevante quanto alla sua
capacità di esercitare potere. Il denaro è potere indipendente dalla sua
legittimazione. Nella misura in cui il denaro conferisce un potere
signi cativo sugli altri – e lo fa tanto più, quanto maggiore è il potere del
denaro – ogni azione che veicoli successo economico viene sdoganata. Che
si tratti di prostituzione o corruzione, furto o inganno, o più
semplicemente di un qualunque opportunismo del momento, tutto
diviene giusti cabile in vista del riconoscimento socialmente conferito al
potere del denaro. Chi sia in possesso di molto denaro ottiene status
sociale e, se opportuno, può anche spostarsi con facilità dove il proprio
passato sia sconosciuto agli altri. Il passato cade nell’irrilevanza, reciso dal
potere disancorato del denaro.
Un aspetto correlato a questa dinamica è la rilevanza che acquista
l’apparenza, l’immagine, in quanto veicolo di un apprezzamento
immediato che conduce a una transazione irreversibile (vendita e introito).
La crescita esponenziale, negli ultimi decenni, del peso di marketing e
pubblicità nelle attività produttive è emblematica di questo andamento175.
Lo svuotamento del passato rispetto al presente, implicito nel
funzionamento del denaro, favorisce anche una riduzione del processo
valutativo all’apparenza, giacché l’apparenza, la manifestazione immediata
corrente, è ciò che conta nell’istante decisivo della vendita. La vendita,
come transazione irreversibile, è una cesura nel decorso temporale. Per
quanto vi siano tentativi legali per limitare questo problema (come le
garanzie obbligatorie per certi prodotti), la vendita di per sé tende a
recidere i collegamenti tra ciò che è stato e ciò che sarà. Dopo tutto, una
volta che i soldi sono passati di mano, essi conferiranno il loro speci co
potere al venditore anche se l’acquirente sarà in de nitiva insoddisfatto.
L’idea che sia comunque nell’interesse del venditore soddisfare il cliente è
talvolta vera (per grandi produttori, presenti sul mercato per lungo
tempo), ma queste condizioni sono spesso inapplicabili. Per essenza la
transazione tende a essere irreversibile, o almeno dif cilmente reversibile,
sia perché ogni resa ha costi di transazione propri, sia perché i problemi
possono non emergere immediatamente. Naturalmente ci sono ordini di
compravendita rodati e capaci di funzionare bene, soprattutto per beni di
acquisto frequente e dove l’informazione del cliente tende a essere buona
(es.: prodotti alimentari). Ma le istanze in cui l’atto di acquisto ha
caratteristiche di essenziale irreversibilità sono numerose, e ciò alimenta il
concentrarsi sugli aspetti esteriori del “prodotto”. Siccome la
“valorizzazione” del prodotto si esprime tutta sulla soglia della vendita, la
“buona apparenza presente” ne è fattore cruciale. Un prodotto che abbia
solide premesse e grande qualità, ma non le faccia percepire nel momento
della vendita, è per ciò stesso fallimentare.
Questa tendenza all’esteriorità istantanea non rimane circoscritta alle
merci ordinarie, ma coinvolge mille modi in cui i soggetti si presentano sul
“mercato” (la “società”), esponendo le proprie virtù e caratteristiche ai
propri pari. Quel che vale per i prodotti si rovescia facilmente sul piano
dei comportamenti personali, dove i tempi di apprezzamento e
approfondimento sono “pesi morti” nel processo di valorizzazione,
mentre l’autopromozione d’immagine appare come nuovo orizzonte del
“riconoscimento”. Una buona immagine rappresenta realmente un viatico
al “successo”, laddove il “successo” consiste in misura sempre più
rilevante proprio solo nell’avere una buona immagine (le dinamiche
giovanili su social media come Instagram sono esempli cazioni chiare di
questa tendenza).
L’intero processo pubblicitario rappresenta un’area di sistematica
distorsione propagandistica, ovvero, sospendendo gli eufemismi, di
schietta menzogna. Noi siamo circondati, pervasi, in ltrati da un sistema
di apparenze intente a persuadere all’acquisto, dunque rivolte ad aggirare
le difese altrui, a sfruttarne istinti e sentimenti e ingenuità per ni di lucro.
Queste dinamiche sfociano in uno strutturale “presentismo”, nel
disseccamento di ogni prospettiva di lungo periodo, sul piano economico,
sociale, antropologico. Infatti, nel momento in cui il potere presente (la
disponibilità economica) può esercitarsi ef cacemente senza tener conto
della provenienza (del passato), anche l’investimento odierno sul futuro
risulta scarsamente motivato. Dopo tutto, nel futuro il tuo presente
promette di essere solo altro inutile passato. L’improbabilità che il tuo
impegno presente conti davvero qualcosa in futuro – proprio come il tuo
passato non conta più nel presente – produce un tendenziale
disgregamento del senso temporale delle azioni. La riduzione del peso del
passato, effetto tipico della razionalità economica, ha come effetto
collaterale la riduzione di peso del futuro.
La razionalità economica tende a concepire il proprio abbandono del
passato come un elemento di dinamicità e pragmatismo: “Non possiamo
preoccuparci di rendere giustizia a quel che è stato, perché ciò che conta è
il risultato, e se il risultato è positivo (cioè se il capitale è incrementato),
ogni altra preoccupazione è solo un peso morto, una remora che ostacola
l’ef cienza del processo”. Ma ciò che è sensato dal punto di vista del
capitale non lo è dal punto di vista dell’agente umano, che ha bisogno di
connettere passato, presente e futuro per conferire senso alle proprie
azioni. Una volta che il nesso tra presente e passato venga reciso, quello
tra presente e futuro appassisce; e questo processo porta alla luce una
forma primaria di nichilismo.
Così, una società dove il potere del denaro è grande è una società dove
la buona apparenza ha la meglio sulla buona azione, dove il presente
oblitera il passato e dissecca il futuro, dove potere e virtù tendono
inesorabilmente ad allontanarsi. In questo senso, una società dove il
potere del denaro ha assunto un ruolo centrale è anche una società
strutturalmente affetta dall’illanguidimento di ogni valore strutturato. Ciò
che rimane, per così dire, sul fondo valoriale del barile, è un edonismo
minimalista, che dissimula il nichilismo più pervasivo.
È importante notare come anche qui ci sia perfetta coerenza tra lo
sviluppo etico-politico del pensiero liberale e lo sviluppo della ri essione
economica. La ri essione economica, quando dovette fornire una base
“antropologica” per ssare le caratteristiche dell’agente economico,
approdò in prima istanza all’utilitarismo e alla concezione del valore come
apprezzamento privatamente percepito (piacere/dolore). Successivamente
si cercò di rimuovere l’apparentamento con l’utilitarismo, per non dare
bersaglio a critiche loso che, e così l’utilità venne desostanzializzata da
Samuelson, riducendola a mere “preferenze rivelate”. Ma niente cambia
nella prospettiva di fondo: se vogliamo nominare un’entità capace di fare
funzioni assiologiche in una prospettiva economicista, l’unica cosa cui ci si
può appellare è una concezione aspeci ca di “piacere” come
apprezzamento soggettivo immediato. Qui le differenziazioni che troviamo
nell’utilitarismo di John Stuart Mill176, tra piaceri “superiori” e piaceri
“inferiori”, risultano inutili: il concetto di “piacere” qui applicabile non
ha alcuna caratteristica obiettiva, alcun tratto qualitativo, ma coincide
senza resti con ciò che si assume essere l’apprezzamento nel foro interiore.
Così, l’edonismo minimalista operativamente promosso
dall’economicismo è, per così dire, l’ultima frontiera dell’etica liberale, il
velo impalpabile che ne ricopre il nichilismo.
Va osservato come l’etica liberale, nella linea che passa da J.S. Mill a
Bosanquet, a T.H. Green, a Rawls, ha elevato talvolta pretese positive che
andavano al di là dei dominanti tratti negativi (libertà negativa, negazione
dell’obiettività del valore, dell’autonomia del sociale, dell’eticità dello
Stato ecc.). Tale dimensione positiva coincide con l’idea di libero sviluppo
individuale, e spesso sfocia in un’etica “perfezionista”177.
Un’interpretazione perfezionista della ragione liberale non è troppo rara,
ma si scontra sistematicamente con la realtà sociale che la ragione liberale
promuove. Per quanto questi liberali auspichino (non diversamente da
Marx, peraltro) una forma di vita all’altezza delle proprie potenzialità,
capace di libero sviluppo e perfezionamento, tutto ciò rimane mero
vagheggiamento una volta inserito in un sistema af dato al dominio delle
transazioni autointeressate, e sfociante nell’imperialismo economico.
L’incardinamento originario della ragione liberale nella ragione economica
soffoca nella culla i sogni del perfezionismo liberale.

22. La disgregazione dell’individuo


Come abbiamo visto, l’individualismo, l’attenzione peculiare a istanze
individuali, è fattore caratterizzante della proposta etico-politica del
liberalismo. Ci si potrebbe perciò aspettare che in una cornice liberale le
individualità personali ne escano consolidate, strutturate, rafforzate. E
invero il percorso storico che precede e accompagna l’emergere della
ragione liberale è un percorso in cui l’autonomia, l’autocontrollo, la
responsabilità e la capacità di prendere iniziative degli individui si sono
davvero accresciute. Il processo di autonomizzazione individuale, legato
in varia forma al ruolo sociale di alcune pratiche di scrittura, è un
processo di lungo periodo che trova una sua forma particolare nel XVII
secolo. In quel processo il consolidamento della sfera individuale è stato
un fenomeno riconoscibile, manifestatosi come accrescimento della
consapevolezza di sé e della propensione all’autodeterminazione.
Questo processo si è stabilizzato nel corso dell’Ottocento, iniziando a
mostrare alcune criticità nelle realtà urbane dell’Europa n de siècle,
criticità su cui qui non possiamo soffermarci, ma che anticipano il quadro
che osserveremo nell’epoca neoliberale. Quest’ultima porta alle estreme
conseguenze le dinamiche della ragione liberale, portando alla luce
dinamiche assai problematiche per l’unità e identità della persona.
La tendenza a creare discontinuità nella permanenza territoriale,
lavorativa e sociale, che abbiamo visto caratterizzare l’evoluzione
neoliberale, è una prima fonte di sradicamento e isolamento. È
un’illusione tipica dell’individualismo liberale quella di ritenere che
l’identità del soggetto sussista in perfetta indipendenza dalle relazioni in
cui è immerso, relazioni di riconoscimento personale, di adesione
culturale, di dedizione lavorativa. In verità, ciascuno di noi si identi ca
spontaneamente in varia misura con la propria collocazione
intersoggettiva, culturale e occupazionale: se non impediti a farlo, ci
sentiamo italiani o francesi, commercianti o professori, metropolitani o
provinciali ecc. Senza entrare nella discussione generale circa come
emerga un’identità personale178, è del tutto intuitivo che la dimensione
delle appartenenze, delle lealtà, dei riconoscimenti e delle occupazioni
predominanti giochi un ruolo fondamentale per de nirci ai nostri stessi
occhi e per orientarci nelle nostre scelte. Chiedersi cosa desidererei, o cosa
penserei, se fossi un gaucho argentino o un samurai giapponese può
rappresentare un esercizio mentale interessante, ma è in concreto una
domanda piuttosto oziosa: la realtà è che in totale assenza di quei
retroterra esperienziali, sociali, culturali e operativi non ho
sostanzialmente la più pallida idea di chi sarei o cosa mi passerebbe per la
testa. Potrei dare per scontata una comune dimensione organica, specie-
speci ca, con le relative preferenze per il piacere rispetto al dolore, per la
sazietà rispetto alla fame ecc., ma non molto di più.
Nel momento in cui le esigenze di mobilità e essibilità producono
crescente sradicamento, sull’individualità personale ciò si ripercuote come
crescente fragilità e insicurezza. Allo sradicamento spaziale e sociale le
dinamiche liberali aggiungono la frantumazione della continuità
temporale, come contrazione dei vincoli verso il passato e della spinta
motivazionale verso il futuro. Anche questo fattore contribuisce al
deperimento dell’identità individuale, che si riduce a un intorno
temporale sempre più ristretto, depauperando la propria storia personale
(e parimenti la Storia sovraindividuale).
La contrazione della spinta motivazionale verso il futuro entra in un
interessante con itto con le esigenze di piani cazione, calcolo e prudenza
richieste dalla gestione del denaro e dalle attività richieste per guadagnarlo
e conservarlo. Il contrasto tra la spinta alla responsabilizzazione personale
e alla competizione, da un lato, e la vuotezza della dimensione
motivazionale residua, dall’altro, è un tratto letteralmente patogeno. La
discrasia sistematica tra la pressione a un dover essere e dover fare (tipico
della responsabilizzazione individuale moderna), e di contro
l’impoverimento della portata motivazionale (come dissoluzione di
comunità di riconoscimento e progettualità intertemporali), è una
sorgente acclarata di sindromi di natura depressiva, in senso clinico179. La
depressione è stata chiamata la “malattia occidentale” (“Western
malady”)180, in quanto la costellazione sintomatica che la caratterizza è
peculiarmente prevalente nei paesi occidentali, industrializzati e con una
prevalente economia di mercato. È in queste aree che si è rilevato un
incremento nel tempo di sindromi depressive, con speci co riferimento ad
alcuni gruppi: persone in giovane età181, abitanti dei centri urbani e
(apparente paradosso) dei paesi più ricchi182. Per quanto sia sempre
opportuno esercitare cautela nel leggere correlazioni come cause, qui ci
troviamo di fronte all’apparenza di un processo degenerativo la cui logica
è piuttosto chiara e separatamente argomentabile. Il sistema di relazioni
alimentato dall’estendersi delle relazioni di mercato è un fattore
psicologicamente patogeno, che, lungi dal rafforzare, destabilizza le
individualità personali. L’individualismo liberale nei suoi esiti ultimi si
presenta come un individualismo senza individualità, o meglio con
individualità sempre più fragili e compromesse. Per la maggioranza delle
persone in sistemi di mercato dove il potere del denaro è elevato,
l’esistenza è caratterizzata in varia misura da precarietà, ricattabilità,
insicurezza e isolamento. Troviamo qui per la prima volta, ma lo
rivedremo a più riprese, un esito paradossale dello sviluppo della ragione
liberale: essa, nei suoi sviluppi terminali, nisce per avere effetti
esattamente opposti a quelli che si illudeva inizialmente di promuovere.
L’individuo, la cui tutela sembra essere al centro della prospettiva
assiologica liberale, emerge dal dispiegarsi storico del “liberalismo reale”
come un ordinamento di senso in crescente dif coltà. Queste dif coltà,
naturalmente, non sono equamente distribuite. Esse colpiscono in modo
tanto più grave quanto più il soggetto è socialmente esposto: sono colpite
in maggior misura persone economicamente deboli, e poi quelli che, pur
non essendo indigenti, sono comunque costretti ad adattarsi alla natura
“liquida” del denaro, per non cadere tra gli indigenti.
C’è in ne una sezione della comunità umana che sembra pro larsi come
vittima sacri cale predestinata nei processi innescati dal neoliberismo: si
tratta delle persone in crescita, nell’infanzia e nell’adolescenza. Se le
condizioni descritte sopra operano in modo destabilizzante su adulti
formati, esse operano in maniera storpiante su individui in formazione.
Mentre un individuo formato può anche, in qualche misura, giocare con
la propria identità, esplorarne i limiti, mettersi alla prova in contesti
dif cili ma stimolanti, tutte cose che, talvolta, possono rientrare tra gli
aspetti “interessanti” della destabilizzazione di mercato, quegli stessi
elementi di sradicamento, discontinuità temporale e allentamento
valoriale possono risultare letteralmente fatali per una soggettività in
formazione.
Pur con tutte le cautele del caso, viste le dif coltà metodologiche
implicite in analisi epidemiologiche di lungo periodo, nei principali paesi
occidentali si sono registrate evidenze di un incremento di disagio mentale
nei minori. Uno dei pochi studi sul lunghissimo periodo (1938-2007), su
dati statunitensi, segnala incrementi massivi in tutte le forme
psicopatologiche esaminate, in particolare paranoia, depressione,
ansietà183. Dati su periodi più brevi sono meno signi cativi per l’impatto,
ma più dettagliati e confermano la medesima tendenza, mostrando,
sempre negli USA, un chiaro incremento nella richiesta di intervento
terapeutico per bambini e adolescenti, comparando nestre temporali a
14 anni di distanza (1996-1998 e 2010-2012)184. Altri studi, focalizzati su
un variegato gruppo di patologie, tra cui alcune diagnosticate solo negli
ultimi decenni come il Disturbo da De cit di Attenzione o Iperattività
(ADHD), rilevano simili incrementi anche in una nestra così breve come
quella tra il 1997 e il 2008, e ne notano l’associazione tendenziale con
livelli di reddito bassi o altre dif coltà famigliari185. Crescite analoghe sono
registrate in Europa, ad esempio nei dati sul Regno Unito dell’NHS nei
minori tra i 5 e il 15 anni186, e nel Barmer Artztreport 2018 per quanto
riguarda giovani e adolescenti in Germania187.
Ci sono molte dif coltà nell’esaminare dati del genere: dif coltà nella
raccolta di dati comparativi di lungo periodo e dif coltà nell’identi care
cause speci che per disordini eterogenei. Tuttavia i processi di
involuzione sociale che abbiamo esaminato possono venire
ragionevolmente identi cati come origine comune di varie forme di
destrutturazione identitaria. Un dato comparativo interessante è quello
raccolto in una valutazione soggettiva, a circa quarant’anni di distanza
(1960-2002), da parte di studenti in due gruppi di età (9-14 e 18-19). Si
trattava di rispondere alla domanda circa quanto il proprio destino
apparisse loro essere “nelle proprie mani”, o quanto invece esso apparisse
dipendente da forze esterne imponderabili. Il campione del 2002 mostra
rispetto al precedente uno slittamento dell’80% verso una percezione di
minore controllo sul proprio destino188.
Se per una soggettività consolidata la destabilizzazione che caratterizza
le moderne dinamiche liberali può essere spesso tollerata, le ricadute su
personalità in formazione tendono a essere deformanti. Per un soggetto
adulto e sicuro di sé lo sradicamento territoriale, la dissoluzione dei
legami intersoggettivi e la discontinuità temporale dei propri progetti sono
vissuti come impoverimento motivazionale, disincanto e ansia, ma non
necessariamente ciò arreca danni permanenti a una personalità. Nel caso
di personalità in formazione, al contrario, quelle forme di
destabilizzazione, disancoramento, ristrettezza progettuale e assiologica
incidono in profondità, producendo talora danni manifesti (come quelli
che chiamano a interventi terapeutici), talaltra personalità semplicemente
fragili, volubili, incapaci di reazioni costruttive.
È importante integrare queste osservazioni con una seconda tendenza
generale connessa ai processi educativi. L’evoluzione della società
occidentale, uscita dai sistemi di potere oligarchici a base ereditaria
(Ancien Régime), aveva promosso inizialmente una diffusione della
formazione (alfabetizzazione innanzitutto) in strati più vasti della
popolazione, no all’istituzione dell’istruzione obbligatoria. Questo
processo è andato di pari passo con impulsi alla democratizzazione, che
accomunavano i movimenti di ispirazione socialista e parte della platea
liberale. Tra avanzamenti e arretramenti, no agli anni ’60 troviamo una
tendenza espansiva sul piano formativo, nutrita dall’idea che l’istruzione
pubblica fosse veicolo di maturazione e consapevolezza, necessarie alla
cittadinanza democratica. Inoltre l’istruzione veniva riconosciuta come
mezzo di mobilità sociale e di accesso a forme migliori e più quali cate di
impiego. Con la svolta neoliberale si avvia un progressivo mutamento,
ancora in pieno svolgimento, dove le idee di formazione e istruzione
subiscono una metamorfosi. Prende piede in questa fase un’idea
strettamente utilitarista dell’istruzione, non più rivolta alla preparazione di
cittadini, ma alla produzione di capitale umano ef cientemente
impiegabile. Nella formazione (speci camente nel suo nanziamento
pubblico) cresce l’idea che l’istruzione vada concepita come un
investimento che deve manifestarsi in risultati economicamente misurabili.
Ciò comporta una pressione ad ampli care comparativamente il ruolo
della formazione professionalizzante rispetto a quella generalista, da un
lato, e dall’altro il ruolo della formazione tecnologica rispetto a quella
umanistica. Nell’ambito delle scienze naturali ciò comporta una
propensione a supportare le scienze applicate rispetto alla ricerca di base.
Ciò avviene sia in forma di rimodulazione dei nanziamenti pubblici,
orientandoli convenientemente, sia in forma schiettamente ideologica,
alimentando l’idea che anche la formazione sia essenzialmente uno
strumento rivolto alla produzione e riproduzione del capitale.
Questa tendenza storica ha creato un ridimensionamento sia
dell’attrattiva che del prestigio sociale legato alla crescita culturale (“If
you’re so smart, why aren’t you rich?”). Tutto ciò ha effetti massivi non
soltanto sulle funzioni di riconoscimento sociale e dunque di
conferimento di potere, ma soprattutto sulla formazione delle personalità
in crescita.
Nello sviluppo delle società moderne − con il loro necessario
af damento a normative astratte, tecnologie complesse, relazioni indirette
− un’istruzione formale, lungi dall’essere un orpello, rappresenta una
precondizione essenziale per esistere all’altezza del proprio tempo. Se nella
società prevalentemente rurale e preindustriale di un paio di secoli fa
l’istruzione poteva essere concepita come una dimensione d’elezione,
quasi un bene voluttuario o di lusso, nelle moderne società industriali un
livello di istruzione che vada al di là di “leggere, scrivere e far di conto”
rappresenta una precondizione partecipativa minima. Il buon
funzionamento di sistemi di governo democratico non solo consente, ma
esige la partecipazione, che è partecipazione in forma di dibattito
mediato, non più dipendente dal contatto faccia a faccia. La natura
complessa e formalmente democratica dei sistemi politico-sociali moderni
rende la diffusione di una formazione anche “umanistica” (storica, sociale,
logica, economica, loso ca ecc.) cruciale per trovare una collocazione nel
mondo (non un semplice “impiego”).
Nel contesto contemporaneo la diffusione di una concezione
strumentale della conoscenza crea un fraintendimento fondamentale, che
induce all’apatia e alla rassegnazione impotente una parte maggioritaria
della popolazione. Il cittadino democratico si aspetta di poter giudicare
della cosa pubblica, ma la sua capacità di giudizio gli viene sottratta. Se la
mancanza di strumenti culturali presso i più, in società arcaiche,
gerarchiche e paternalistiche, era per così dire parte del “patto sociale”,
tale mancanza nelle società democratiche moderne crea una grave
dissonanza istituzionale tra ciò che il funzionamento del sistema richiede e
ciò che le parti del sistema (i cittadini) sono in grado di produrre.
Anche in quest’ottica il presunto “individualismo” liberale si dimostra
qualcosa di peculiarmente distorto: esso celebra l’individuazione, la non
interferenza e la responsabilizzazione per ciascun soggetto, ma al
contempo nega di fatto all’individualità ogni reale autonomia, ogni
autentico controllo sulla propria sorte, ogni consapevolezza della propria
collocazione e delle proprie possibilità. L’individuo (neo)liberale tende
perciò a essere insieme aggressivo ma fragile, suscettibile ma passivo,
timoroso di perdere “libertà” ma eteronomo. Incidentalmente, le élite
economico-culturali tendono a riservare la visione di una concezione
strumentale e minimalista della cultura al “popolo”, riservando ai propri
membri in formazione una lezione diversa, capace di costruire personalità
di suf ciente spessore da potersi far carico di compiti direttivi e
leadership189.
Così, nella vita dei più la forma di vita neoliberale tende a creare le
condizioni per un progressivo degrado dell’individualità personale,
segnatamente per i soggetti in formazione. Le istanze di mobilità,
precarietà e essibilità incidono profondamente sulle funzionalità
famigliari, dal tempo di prossimità con i gli alla tenuta stessa dell’unità
della famiglia. Le prospettive di lungo periodo, fondamentali per
consentire a una personalità in costruzione di orientarsi, vengono poste
come incerte, ef mere, o spesso semplicemente squallide. L’intorno
sociale extrafamigliare cui rivolgersi come orizzonte di riconoscimento è
ridotto ai minimi termini: le comunità strutturate tendono a dissolversi.
L’educazione, la formazione, con la fatica che necessariamente richiede,
tende a essere svalutata e concepita come strumento occasionale di
accesso al reddito, sostituibile da altri eventuali strumenti utilizzabili per
lo stesso ne. Tutto ciò converge nel produrre una caratteristica tipologia
dell’individualità neoliberale, al tempo stesso insicura, super ciale no
all’inconsistenza, organicamente frustrata, incapace di azioni collettive e di
iniziative di ampio respiro, ma anche rabbiosamente gelosa della propria
presunta indipendenza rispetto a ragioni esterne, vissute come invasive.
Questo quadro è naturalmente un quadro tendenziale, che si manifesta
solo a volte in forme drammatiche, ma che abbraccia in varia misura
l’intera società neoliberale. Di fatto la condizione di degrado e
disgregazione personale che si presenta soprattutto nelle fasce “perdenti”
del moderno “gioco di mercato” è un potente incentivo a competere, per
mantenersi al di sopra della marea degli scon tti. Nel sistema
motivazionale neoliberale la dimensione prospettica, positiva, edonistica, è
molto meno motivante della minaccia implicita nel trovarsi in una
posizione socialmente debole. Nel mondo neoliberale gli effetti
disgregatori della precarietà, della discontinuità territoriale,
dell’isolamento sociale, dell’assenza di prospettive, di un’educazione
affettivamente e cognitivamente inadeguata, sono molto più temibili della
mera “riduzione dei consumi”. Inversamente, il possesso di beni trae la
sua motivazione fondamentale non dal “piacere del consumo”, ma dal
potere che essi conferiscono nel moderare l’impatto di quei fattori,
fornendo maggiore stabilità, status, potenza progettuale.
È da questo lato che si comprende la peculiare natura di quel fenomeno
socioeconomico, spesso frainteso, chiamato “consumismo”. Il consumismo
è una tendenza al consumo compulsivo in cui l’acquisto di beni prescinde
in parte o del tutto dal loro valore d’uso per l’acquirente. Il consumismo è
stato a lungo, e in forme meno aggressive ancora è, una visione rivendicata
dalle ideologie liberali e neoliberali. Nel dopoguerra, all’indomani di un
periodo di grave penuria, l’appello agli acquisti materiali come sfera di
realizzazione rappresentava un’opzione ingenua ma comprensibile.
Successivamente, col venir meno delle principali urgenze e l’appagamento
dei bisogni primari, l’appello al consumo, all’appropriazione sul mercato
di beni, si colora con tratti più nettamente ideologici190. Per quanto forme
di consumismo per la borghesia fossero presenti già nell’Europa n de
siècle, è con gli anni ’60 che appare il consumismo in forma matura, come
“individualismo di massa”. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a
un esito non accidentale delle premesse ideologiche. La teoria economica
neoclassica è costruita intorno all’idea della “sovranità del consumatore”,
il cui “strumento di voto” è il denaro, allocando il quale si orienterebbero
le scelte della società. Tutto il sistema in effetti si incentra sull’idea di una
“razionalità del consumatore”, che proprio in grazia di tale razionalità
imporrà, in forma di domanda di mercato, la produzione di ciò di cui c’è
bisogno. Che tale razionalità sia in gran parte illusoria, e che esistano
strutturalmente “fallimenti di mercato” è oramai universalmente
riconosciuto, ma il consumismo ha carte supplementari da giocare per
presentarsi come tendenza motivante.
Chi usciva dalla fame della Seconda guerra mondiale poteva
entusiasmarsi per la presenza di carne e burro sugli scaffali, ma una volta
coperta la sfera dei bisogni primari lo spazio dei desideri regredisce
progressivamente in intensità, a meno che non cambi natura, venendo
convenientemente trasformato sul piano del signi cato sociale. Questo è
quanto avviene con lo spirito consumista, che subentra quando la
copertura dei bisogni primari poteva dirsi garantita.
La dinamica consumistica presenta due aspetti. Il primo è la funzione di
controllo ed esercizio di potere data dall’acquisto: in un mondo in cui i
margini di controllo/previsione sui destini propri e altrui vengono
progressivamente ridotti, l’acquisto di beni o servizi rappresenta
psicologicamente una forma di “rivalsa” del soggetto, che trae
dall’appropriazione un soddisfacimento in termini di esercizio di potere,
di controllo apparente.
A un secondo livello, più profondo, il consumo di beni di valore
simbolico rappresenta un tentativo di supplire all’impoverimento della
personalità, compensandolo con “protesi d’anima” nella forma di
possesso di cose. Con l’illanguidirsi di valori, speranze, progetti, capacità e
conoscenze i soggetti perdono struttura e vedono la propria identità
infragilirsi. Questa dinamica, che ha le caratteristiche di una “psicosi in
nuce”, è vissuta con angoscia. L’acquisizione di surrogati esteriori
permette allora se non proprio di “essere qualcuno”, almeno di sembrare
di esserlo. I beni divengono perciò una sorta di “esoscheletro” che
sorregge individui svuotati di ciò che in altre condizioni storiche ne
avrebbe rappresentato l’ossatura portante. Qui la funzione di
appagamento individuale si innesta senza soluzione di continuità nella
funzione di riconoscimento intersoggettivo. I beni oggetto delle
inclinazioni consumistiche non sono importanti per il potere materiale
effettivo che conferiscono, ma per il fatto di riuscire a imporre una forma
di riconoscimento a terzi. Queste sono le situazioni tipicamente
rappresentate dall’abbigliamento “brandizzato” o dalle novità
tecnologiche più pubblicizzate. In contesti umani desocializzati la
scorciatoia più percorribile per ottenere un po’ di riconoscimento prêt-à-
porter è l’acquisizione di beni di cui si può assumere la notorietà: tali beni
divengono così portatori di una sorta di messaggio codi cato, che non
richiede l’onere dell’articolazione verbale, e che passa per affermazione di
opinione e gusto personale.

23. La disgregazione delle comunità umane


Uno degli aspetti caratterizzanti nello sviluppo della ragione liberale è
strettamente collegato, sin dall’inizio, al modo di concepire l’individuo e
la sua responsabilità. L’individualismo liberale è connotato dal rigetto
dell’altrui interferenza “etica” sulle proprie intenzioni. Il lato luminoso di
tale rigetto è quello manifesto all’origine di questa scelta, quando
signi cava soprattutto neutralizzare l’intrusività confessionale, che aveva
alimentato le guerre di religione. Il lato oscuro di questa mossa
emancipativa sta nel legittimare in un modo precedentemente inedito
l’esclusione sociale. Nelle società “premoderne”, e in tutte le comunità
antropologicamente note salvo quelle industriali, la condizione umana di
base è l’inclusione individuale in un gruppo, inclusione che implica un
gioco variabile di lealtà, obbedienza, gerarchia, supporto e paternalismo.
Chi ha il potere è eticamente tenuto a mantenere entro il perimetro della
società gli individui del proprio gruppo, cercando di difenderli da
aggressioni, interne ed esterne, e da livelli di immiserimento che ne
mettano a repentaglio l’esistenza. Simmetricamente, i subordinati devono
obbedienza e lealtà ai relativi superiori, che hanno autorità non solo
legale, ma anche etica, sui primi. Dalle attività redistributive a Roma e
Atene, al paternalismo elisabettiano, questo canone è dominante. Sul
piano pratico ciò non comporta storicamente che tutti possano essere
difesi dagli aggressori, né che tutti possano essere sottratti alla fame.
Tuttavia l’inclusività è una dimensione morale implicita nella concezione
del gruppo sociale, e l’esclusione può veri carsi come accidente, ma non è
ammessa come forma legittima delle relazioni sociali. L’esclusione si
attivava in passato come forma punitiva, come sanzione: l’esilio signi cava
la privazione della protezione della propria comunità, il che non di rado
signi cava una condanna a morte, e comunque implicava l’esclusione del
soggetto dall’unica dimensione in cui esso poteva realizzare propositi e
speranze.
Il mondo liberale (e neoliberale) promuove invece un modello sociale
dove, partendo dall’assunto dell’originarietà irriducibile dell’individuo, e
della sua responsabilità per ciò che è, si legittima la possibilità della sua
esclusione dal corpo sociale. Così come i “vincenti” nel gioco di mercato
possono uscire dalla società “dall’alto” (in quanto cosmopoliti), così i
“perdenti” possono uscirne “dal basso” (come emarginati). I primi non
hanno vincoli di lealtà nei confronti del resto della società e, grazie alla
natura transnazionale della ricchezza nanziaria, possono trasferirsi
liberamente dove credono; i secondi, privi di potere economico, si vedono
sottrarre progressivamente tutte le forme partecipative e tutti i diritti
sostanziali, no alla marginalizzazione. Naturalmente, quanto più uno
Stato fa spazio per attività redistributive e forme di welfare, tanto più le
possibilità di esclusione vengono limitate.
I rapporti di mercato, con la loro istituzionalizzazione dello scambio
competitivo, tendono strutturalmente a creare diseguaglianze. Il
meccanismo è semplice quanto ferreo: in ogni scambio ci sarà di norma
un transattore con maggior potere contrattuale e uno con potere minore.
Il transattore con maggiore potere contrattuale è nelle condizioni per
accaparrarsi una proporzione maggiore del pro tto complessivo
emergente dalla transazione. Ciò signi ca che, mediamente, da ogni
scambio la parte con maggiore potere contrattuale ne uscirà
economicamente rafforzata rispetto alla controparte. Ma la disponibilità
economica pregressa è proprio uno dei fattori fondamentali che
determinano il potere contrattuale, perciò transazione dopo transazione il
potere contrattuale tra le parti coinvolte tenderà ad ampliarsi. Questa
divaricazione di potere economico in una società competitiva, salvo
correttivi, conduce progressivamente la sezione più debole della società
alla marginalizzazione, cioè a posizioni da cui non è più possibile tentare
una risalita, per mancanza di mezzi. In un ordine competitivo ogni
diseguaglianza relativa tende a consolidarsi in disparità assoluta,
incolmabile, con conseguente incapacità di partecipare al “gioco
competitivo” del mercato (working poor, disoccupati, mendicanti ecc.).
È importante notare come la condizione di privilegio della sezione
“vincente” nel gioco di mercato non la sottrae comunque a una
condizione di esclusione dall’azione collettiva, per quanto si tratti di una
“esclusione dorata”. Alla condizione apolide del migrante in miseria fa da
pendant quella cosmopolita dei ceti più abbienti: al netto delle dimensioni
abissalmente differenti sul piano dell’agio, entrambe le condizioni sono
accomunate dalla dif coltà a partecipare a un’azione collettiva che
trascenda la propria individualità. Questa è in effetti la condizione
strutturale degli ordinamenti liberali, dove di fatto la società – e a maggior
ragione, la nazione, la patria, la comunità o qualunque altra unità
sovraindividuale salvo il mercato – semplicemente non hanno legittimità
di esistere191. L’unico “progetto sovraindividuale” che abbia uno spazio
legittimo e non ef mero è quello incarnato dall’autoreplicazione del
capitale, cioè appunto l’istituzione del mercato. Tutte le altre forme di
azione collettiva, o si muovono, faticosamente, contro corrente rispetto
agli ordinamenti di mercato (istituzioni democratiche, partiti, sindacati
ecc.), oppure hanno la stessa natura labile ed ef mera dei prodotti di
mercato (ditte, aziende, corporations ecc.). Quanto più estesi i meccanismi
di mercato, tanto più ridotto lo spazio per una progettualità
sovraindividuale, cioè per la partecipazione a progetti che trascendano i
destini personali, ma che al contempo incarnino valori, speranze e
ambizioni degli individui che vi partecipano.
Termini come “sfruttamento” e “speculazione” continuano a circolare
nelle moderne società neoliberali, anche se essi appaiono più come residui
semantici di visioni passate che come concetti legittimi nel contesto dei
sistemi di mercato.
L’idea di “sfruttamento”, una volta escluse le oramai rare situazioni di
coercizione sica o ricatto violento, non sembra trovare più spazio
nell’ambito della concezione economica liberale. Per Marx si poteva
parlare di sfruttamento a fronte dell’appropriazione di plusvalore da parte
del capitalista, ma lì vi era l’idea di un esercizio di potere dello sfruttatore
nei confronti dello sfruttato, idea che viene obliterata nella concezione
“contrattualista” dei rapporti di lavoro propria del liberalismo. Qui l’idea
portante è quella di uno scambio volontario, che verrebbe liberamente
concluso da soggetti indipendenti. E trattandosi per de nizione di libero
accordo, parlare di sfruttamento sarebbe escluso in partenza.
Il problema di fondo è che la condizione inziale in cui lo scambio
dovrebbe avvenire è una condizione del tutto ttizia, “robinsoniana”, una
condizione dove i transattori avrebbero ab origine un’esistenza
indipendente e capace di sostentamento isolato, da cui potrebbero
scegliere di uscire. Ma tale condizione non esiste né è mai esistita per la
specie umana. Ciascun individuo umano deve le proprie risorse (ma
invero la propria stessa vita e identità) a un sistema di relazioni con altri, e
senza tali relazioni sarebbe condannato rapidamente alla scomparsa. Chi
fantastica di un’originaria indipendenza degli individui può immaginare
che ogni singola transazione si esaurisca in se stessa e non debba essere
intesa all’interno di un sistema di relazioni già sempre vigenti. Nel mondo
reale però entrare in relazioni di scambio non è una scelta da cui ci si
potrebbe astenere, ma una necessità strutturale.
Posto che si può scegliere solo in quale transazione entrare, ma non se
entrare o non entrare, il problema diventa quello di capire cosa accade nel
susseguirsi delle transazioni. Nello scambio competitivo ciascun
transattore cerca di ottenere il maggior vantaggio materiale che la
controparte gli concede, e in presenza di vaste differenze di potere
contrattuale il più forte si approprierà di una fetta sproporzionata di
“valore”, che ne aumenterà il potere contrattuale successivo. Può perciò
accadere che alla ne di una serie di “transazioni volontarie” un soggetto,
o un gruppo sociale, non sia più in grado di offrire nulla e venga dunque
emarginato. Anche se all’inizio della sequenza lo scenario era simile a uno
“scambio volontario tra pari”, alla ne può non esserci più nulla del
genere. Le transazioni passate hanno modi cato lo scenario stesso entro
cui gli scambi volontari presenti possono aver luogo.
A questo punto le condizioni di esclusione generano immediatamente
una situazione paradossale. Le transazioni volontarie del libero scambio
possono avvenire solo in una cornice di mutuo rispetto e legalità, che a
sua volta dipende da un accordo sociale tra soggetti con pari dignità. Ma
se il procedere delle transazioni genera un declassamento e un’esclusione
di una parte del corpo sociale, è la stessa cornice di mutuo rispetto e
legalità a venire con ciò messa in discussione. Infatti chiedere all’escluso di
rispettare volontariamente le regole sociali che lo escludono dalla società è
un controsenso. E se qui il rispetto di quelle regole viene imposto con la
forza, siamo di fronte a una situazione di sfruttamento coercitivo nel senso
più tradizionale.
In questo quadro ogni transazione “libera” cui i transattori partecipano
con poteri contrattuali signi cativamente differenti è, di principio, una
forma di sfruttamento.
Simili considerazioni si possono fare per l’idea di “speculazione” sul
piano nanziario. Anche qui la tendenza odierna è quella di negare
l’esistenza di una sfera speculativa in senso proprio, giacché per
de nizione ogni operazione sul mercato dei titoli, primario come
secondario, ha lo scopo di fare soldi, e distinguere un’operazione fatta
come investimento da una fatta come speculazione sembra un giudizio
sulla purezza delle intenzioni, dif cilmente giusti cabile. Ma anche qui la
quantità diviene qualità. È ovvio che attività di compravendita di titoli,
spesso automatizzate, e che avvengono nell’arco di pochi secondi, senza
alcuna possibile valutazione dei “fondamentali”, non possano contare
come “investimento”. La funzione di “pubblica utilità” che viene
richiamata per giusti care questo gioco speculativo è alla ne solo quella
di “garantire la liquidità dei titoli”. Che tale funzione sia una ragione
suf ciente a giusti care (o persino nobilitare) la speculazione nanziaria è
assai dubbio. E peraltro, che la massima libertà speculativa sia bene ca
per l’economia, in quanto garante della “liquidità dei titoli”, è un mero
atto di fede: la creazione ciclica di bolle speculative che rovinano
sull’economia reale, e i guadagni vertiginosi quanto ingiusti cati di pochi
attori economici, rendono quell’idea quantomeno audace.
Il processo avviato dalla ragione liberale è caratterizzato sin dall’inizio
da una pulsione destrutturante, che venne per ciò osteggiata dalle
componenti d’ordine, tradizionaliste, delle società del XVIII e XIX
secolo. Tuttavia per lungo tempo la spinta verso l’emancipazione
individuale poteva contare sul persistere inerziale di legami ad alta
densità, consuetudinari, sociali, morali, religiosi, legami la cui resistenza
permetteva a quella pulsione disgregante di presentare il solo volto
emancipativo.
Con la svolta neoliberale della ne degli anni ’70 i processi sociali
disgregativi della ragione liberale prendono vigore in un modo prima solo
presagito nell’Europa n de siècle. Le forme che essi assumono sono
molteplici, ma possono essere riassunte in tre processi principali: 1) una
perdita sempre più accentuata di unità sociale, percepita in forma di
riduzione delle facoltà di mutua comprensione e riconoscimento; 2) un
impoverimento del tessuto morale, dei vincoli di lealtà e condivisione sul
piano delle relazioni economiche (free riding, economie illegali, evasione
ed elusione, reati ambientali, white collar crimes); 3) un immiserimento
etico del ceto politico, il cui ruolo da un lato è screditato dal modello
economico della società e dall’altro è pesantemente condizionato dalle
ragioni del capitale. Procederemo ora a illustrare brevemente queste
tendenze.
23.1 La perdita dell’unità sociale
Il tema della perdita dell’unità sociale è un tema profondo quanto
sottovalutato. In esso con uiscono da un lato il processo di rottura dei
retroterra culturali comuni, e dall’altro la crescita di aspettative relazionali
strumentali od ostili. L’unità culturale di un gruppo non è qualcosa di
formalmente de nibile e chiaramente delimitabile. Sono sempre esistite
difformità culturali verticali all’interno di ciascuna società, che rendevano
limitata la comunicazione e dif cile il mutuo riconoscimento tra ceti
diversi. Lo Stato nazione democratico aveva inizialmente operato in modo
da ridurre queste divergenze interne, fornendo un livello formativo
comune (come istruzione obbligatoria) e poi un comune accesso alle
forme di informazione primarie (come la radio-televisione pubblica agli
esordi). Lo sviluppo sociale, economico e tecnoscienti co dell’ultimo
mezzo secolo ha tuttavia distorto e invertito questo processo, creando le
condizioni per una nuova radicale divaricazione. Da un lato, il ruolo della
sfera pubblica come fonte di formazione e informazione si è ridotto
drasticamente, riducendo il terreno comune su cui poter edi care uno
scambio comunicativo funzionante. Dall’altro lato, sono esplose
dinamiche che hanno incrementato la differenziazione tra i retroterra
esperienziali individuali: una maggiore discontinuità nei rapporti
personali, causa mobilità famigliare o tempi di lavoro estesi e/o divergenti;
una riduzione della densità semantica della comunicazione, per il ricorso
crescente a forme di comunicazione a distanza (impoverite rispetto alla
comunicazione diretta); un accesso disordinato a pluralità brade di
“informazioni” di origine difforme, senza un livello di elaborazione
comune.
I processi di globalizzazione, con l’interazione caotica di persone, beni,
costumi variegati e in rapida alternanza, hanno dato un ulteriore
contributo essenziale a questa tendenza: una volta passata l’iniziale
ebbrezza per l’accesso a una policroma varietà di stimoli “esotici”, tale
pluralità rappresenta una mera giustapposizione di apparenze esteriori,
fuori contesto e senza radici, apparenze che promettono una profondità
che non possono mantenere.
Tutti questi processi convergono nel ridurre drasticamente gli strati
esperienziali comuni, che sono quelli che consentono la comunicazione
interpersonale e il riconoscimento reciproco. È a partire da ciò che si
comprende uno dei più noti paradossi delle forme di vita moderne,
ovvero come, a fronte di un incremento sia della potenza dei mezzi di
comunicazione che della densità umana (si pensi alle concentrazioni
urbane), sia esplosa la percezione di solitudine in forme inedite, con
ripercussioni misurabili anche in termini di salute organica e mentale192.
La solitudine non è infatti principalmente una situazione in cui mancano
sicamente contatti, ma più speci camente una situazione in cui i contatti
sono privi di signi cato. La crescente difformità di retroterra culturale non
sarebbe suf ciente da sola a generare solitudine. Sotto condizioni
favorevoli tali diversità di retroterra possono essere colmate, dato tempo
suf ciente e ducia che l’interazione sarà pro cua. Ma queste difformità di
partenza sono abbinate nel contesto odierno a un modello relazionale con
aspettative di transitorietà e strumentalità, che invece di colmare le
distanze le esacerba. Anche se i contatti sono materialmente possibili
l’assunto implicito nella forma di vita liberale è che essi siano sempre
sacri cabili, e realisticamente destinati a essere sacri cati in futuro.
Ciascun rapporto umano, o è strumentalmente utile per nalità
economiche, oppure sarà sacri cabile per venire incontro alle richieste di
un sistema economico anonimo. Ciò naturalmente risulta tanto più vero
quanto più è precaria la condizione dei soggetti coinvolti, che non
governano i propri progetti di vita.
23.2 L’impoverimento del tessuto morale
La disgregazione delle identità collettive nominata qui sopra manifesta i
suoi effetti primari sul piano relazionale, affettivo. Essa però presenta
anche un lato tutto interno al funzionamento del sistema economico
stesso. Nonostante le premesse del modello liberale (la “mano invisibile”
di Smith) assumano la possibilità che legami sociali si producano
preterintenzionalmente dal semplice perseguimento coerente
dell’interesse privato, ciò è di fatto falso. Il problema posto dalle
dinamiche “desocializzanti” implicite nello scambio competitivo è noto
come problema del “free rider”193. Un free rider (letteralmente, chi viaggia
sui mezzi pubblici senza pagare il biglietto) è un “parassita delle regole”,
cioè un soggetto che viola un sistema di regole di cui bene cia, contando
sul fatto che gli altri, ottemperando a quelle stesse regole, conserveranno
quel sistema in esistenza. Se nessuno paga il biglietto il servizio viene
meno; ma se a non pagare sono solo io, la mia condizione risulta ottimale:
il servizio continua a esistere e io lo sfrutto gratuitamente.
L’idea smithiana della funzione socializzante dello scambio
autointeressato verteva intorno all’idea che il perseguimento del proprio
interesse razionale dovesse avere come effetto collaterale un bene cio
sociale. Come abbiamo osservato, quella visione dipendeva da una
concezione mitica del libero scambio e del mercato, che si supponeva
avvenire in una condizione “di natura”, senza bisogno di cornici
normative, legali. Ciò che differenzia lo stato di natura hobbesiano – come
stato ferino di con itto – dalla società di egoisti razionali smithiana è che
nella seconda si assume (arbitrariamente) che lo scambio debba limitarsi a
una dimensione spontaneamente consensuale. Ma, in assenza di regole
morali o legali, o di un senso di comunanza e solidarietà sovraindividuale,
gli scambi nel mondo reale sono un campo dove il baratto può alternarsi
senza soluzione di continuità con il ricatto, la rapina, la frode. (Dopo
tutto, anche “O la borsa o la vita!” nomina una forma di “scambio
volontario”). Il perseguimento del proprio interesse può produrre bene ci
collettivi solo se attentamente regolamentato, ma senza una cornice di
regole comunemente rispettate lo stato di natura hobbesiano è dietro
l’angolo.
Nella dinamica del free riding ciascun soggetto opera in maniera
perfettamente razionale dal punto di vista della propria posizione
economica: cerca di massimizzare il proprio vantaggio nella cornice data.
Se fare ciò comporta la violazione di regole, allora è razionale violarle.
L’unica precondizione è che il costo personale preventivato per la
violazione sia inferiore al guadagno atteso. Tale “razionalità economica”
ha implicazioni devastanti. Innanzitutto perché in ogni sistema sociale le
occasioni di violazione senza repressione sono innumerevoli, e dunque la
sicurezza ed ef cienza del sistema ne risulta minato. Poi perché anche
incrementando il tasso di repressione il problema non si riduce: se gli
stessi controllori sono “massimizzatori razionali”, allora essi saranno a
disposizione del miglior offerente, sanzionando solo chi non è in grado di
ripagarli adeguatamente. Una società che davvero funzionasse sulla base
delle decisioni di massimizzatori razionali sarebbe dunque un’esatta
riproduzione dell’hobbesiano bellum omnium contra omnes. Il problema
del free rider è un correlato necessario di ogni società che assuma la
validità del modello liberale e della sua antropologia individualista, e si
accentua tanto più quanto più quel modello risulti dominante.
Il fatto che le società sedicenti capitalistiche non siano davvero
incarnazioni del bellum hobbesiano è dovuto a un fatto degno di nota:
molte persone in tali società non condividono affatto l’idea di soggetto
economico (homo oeconomicus) che il capitalismo promuove.
Paradossalmente, a tenere in vita ed ef cienza i sistemi a base liberale
sono i soggetti che ne avversano l’ideologia e la razionalità. Il potenziale
distruttivo dei free rider è contrastato da chi, rigettando la ragione liberale
e la massimizzazione dell’interesse privato, agisce con senso del dovere e
dell’utile pubblico. Le violazioni a proprio bene cio delle regole comuni e
il perseguimento spregiudicato del proprio interesse sono disposizioni
intrinsecamente promosse dalla ragione liberale, la cui tossicità è mitigata
da chi tiene fede a forme di vita che la ragione liberale considera
irrazionali atavismi.
Pensiamo alla sfera delinquenziale. Sotto le premesse liberali, la scelta
della delinquenza è logicamente obbligata ovunque i guadagni del reato
superino il costo potenziale di incorrere in una sanzione (costo della
sanzione per probabilità di essere sanzionato). In presenza di attività con
guadagni cospicui (es.: droga, prostituzione, riciclaggio ecc.) e per soggetti
che non appartengano a ceti agiati, il calcolo costi-bene ci condurrebbe
sistematicamente a impegnarsi in attività criminali. Se davvero tutti i
soggetti in questione agissero coerentemente da massimizzatori razionali,
nessun sistema repressivo al mondo sarebbe suf ciente. Se poi agissero
come massimizzatori razionali anche i controllori, mettendo in vendita le
proprie prestazioni, qualunque società si trasformerebbe in una distopia
senza sbocco, che affonderebbe naturalmente anche ogni scambio
capitalistico (contratti, compravendite, mercati).
È stato però osservato più volte come il fattore criminogeno prevalente
non sia la povertà in senso assoluto, ma la condizione di deprivazione
relativa in contesti sociali “liberalizzati”: la criminalità esplode dove i
soggetti hanno assimilato la santi cazione liberale del perseguimento del
proprio interesse e del successo economico, e dove essi siano in
condizione di povertà relativa194. In uno studio relativo alla popolazione
britannica si osservava come il tasso di criminalità fosse comparativamente
basso nella prima generazione di immigrati (afrocaraibici e asiatici), per
impennarsi nella seconda generazione, proprio in quanto la seconda
generazione si trovava in condizioni di povertà relativa, ma dopo aver
assimilato lo spirito liberale della nuova patria195.
Quest’osservazione può essere facilmente estesa a fenomeni criminali di
natura apparentemente diversa, come gli atti di terrorismo islamista sul
territorio europeo. Anche qui si è notato ripetutamente come gli autori
degli atti terroristici, lungi dall’essere soggetti culturalmente estranei al
mondo occidentale, fossero per lo più soggetti assimilati, nati e cresciuti in
Occidente, che si ritrovavano in una condizione di buona integrazione
culturale e di relativa deprivazione economica. Molto spesso questi
soggetti hanno un passato di piccola criminalità, che segnala la loro ottima
assimilazione del free riding liberale, percepito senza veli. Per essi la
radicalizzazione islamica segna a un tempo l’uscita dalla sfera criminale e
il ri uto del mondo occidentale attraverso un presunto “ritorno alle
origini”. L’islamismo gli restituisce dunque quel radicamento che il
mondo occidentale aveva sostituito con (la promessa di) un
riconoscimento fondato nel successo economico; quando l’immigrato di
seconda generazione realizza di essere tagliato fuori da quel
riconoscimento, le sirene islamiste divengono attrattive.
Comportamenti coerenti da free rider sono non solo i reati contro il
patrimonio e la corruzione, ma le in nite forme che può prendere
l’evasione ed elusione scale, le molteplici forme di adulterazione dei
prodotti, e in ne anche i white collar crimes196, che meglio di tutti
rappresentano il tipo di degrado indotto. I white collar crimes (crimini dei
colletti bianchi) sono infatti quelle violazioni di legge (tipicamente frodi,
bancarotte fraudolente, schemi Ponzi ecc.) in cui i violatori appartengono
ai ceti abbienti. In questo caso è più evidente di prima come sia proprio
l’antropologia liberale a operare una sorta di “avvelenamento morale”,
ben più della semplice diseguaglianza economica. In termini di
“massimizzazione razionale” si potrebbe pensare che i “vincenti” del
sistema dovrebbero essere esenti dalla tentazione di violare le regole. Chi
è già in posizione di estrarre legalmente un buon vantaggio economico
dalla propria posizione non dovrebbe prendere in considerazione la
possibilità di perdere tutto violando la legge. Tuttavia questi soggetti,
proprio come i loro simili meno abbienti, sono mossi molto più dal
riconoscimento altrui del successo competitivo che dall’appropriazione di
beni in sé. I crimini dei colletti bianchi non sono motivati né dal bisogno,
né dal desiderio di beni in sé, ma dal desiderio di imporre ad altri il
riconoscimento del proprio successo economico, successo che ha sempre
natura relativa al gruppo con cui ci si confronta. Il crimine non viene
compiuto perché mossi dal desiderio di consumare di più, ma perché
mossi dal desiderio che il proprio status di consumatore cospicuo venga
riconosciuto197. Spesso questo livello motivazionale è camuffato da
“dif coltà obiettive”, come la dif coltà di “raggiungere i risultati attesi”,
ma le aspettative in questione sono precisamente aspettative di status,
vigenti nel proprio ambiente, non aspettative di consumo materiale
privato198. Per quanto sia dif cile produrre misurazioni precise
dell’impatto dei “crimini dei colletti bianchi” sull’economia, si è calcolato
nel contesto statunitense come il costo economico per la società di tali
reati sia quasi il doppio di quello della “criminalità comune”199.
23.3 Il degrado della funzione pubblica
In ne è necessario ricordare un terzo, drammatico, orizzonte
degenerativo prodotto dall’imporsi del modello liberale. Come risulta
chiaro da quanto detto, nella cornice motivazionale fornita dalla ragione
liberale non c’è alcuno spazio per moventi autenticamente radicati
nell’interesse pubblico. Esiste un’ampia letteratura economica, che va
sotto il nome di Public Choice Theory, dove si assume che il
comportamento di ciascun uomo politico e di ciascun rappresentante
delle istituzioni deve essere concepito precisamente sul modello del
perseguimento dell’interesse privato che si presume vigere per ogni
soggetto economico privato200. Ciascun elettore mirerebbe al proprio
interesse privato, anche se spesso su basi informative scarse e con elementi
di irrazionalità. Parimenti ciascun uomo politico sarebbe semplicemente
qualcuno che mira a portare a casa uno stipendio cercando di farsi
eleggere (o rieleggere) dagli elettori di cui sopra. Quelli, elettori o eletti,
che così non si comportano sarebbero stravaganti o irrazionali. Sotto
queste premesse ogni intervento pubblico su base democratica appare
sospetto e potenzialmente latore di effetti perversi. È perciò che secondo
alcuni autori ogni modi ca legislativa dello status quo dovrebbe aver
luogo solo con maggioranze quali cate, lasciando al funzionamento
ordinario dei meccanismi di mercato tutto il resto201. In quest’ottica la
burocrazia governativa avrà la fatale tendenza a incrementare la spesa
pubblica al ne di garantirsi la rielezione202. Naturalmente, una volta
stabilito che le modalità comportamentali dei “rappresentanti della cosa
pubblica” e degli operatori economici privati non sono
motivazionalmente distinguibili, diviene semplice buon senso l’idea di
sostituire quando possibile i primi con i secondi, cioè di esternalizzare le
funzioni governative e amministrative, af dandole a gestori privati. Nel
caso di operatori privati non vi sarebbe la misti cazione di cui si nutre la
politica, che vorrebbe far credere di operare nell’interesse pubblico.
La Public Choice Theory si sviluppa non a caso in territorio americano,
dove l’ideologia economicista liberale è radicata da tempo. Questa
prospettiva si limita a trarre le conseguenze della concezione
antropologica e relazionale coerentemente promossa dall’economia
neoclassica, che a sua volta implementa la ragione liberale classica. L’idea
di un soggetto che pretenda di farsi carico di interessi altrui e che operi
guardando a una dimensione sovraindividuale, come lo Stato o la
Nazione, appare nella cornice della ragione liberale come un’assurda
bizzarria, una soggettività incomprensibile e pericolosa, da smascherare e
obliterare. Quest’ideologia opera sistematicamente come una profezia
autorealizzantesi, che mentre erode ogni credibilità della sfera pubblica,
spinge alla carriera politica proprio quei soggetti che non soffrono a venir
percepiti come ambiziosi spregiudicati. La riduzione delle aspettative
antropologiche generali, con il diffondersi di una visione da homo
oeconomicus, creano le condizioni per una progressiva dequali cazione
dei “rappresentanti della cosa pubblica”.

24. Nota sul degrado ambientale


C’è un tema su cui non ci siamo nora soffermati e che tuttavia in una
disamina degli sviluppi della ragione liberale dovrebbe ricoprire una
posizione centrale. Si tratta del tema del “degrado ambientale”.
L’associazione tra rivoluzione industriale, sviluppo capitalistico e danni
ambientali è troppo nota per richiedere particolari introduzioni. Ciò che
tende spesso a sfuggire è però il nesso interno tra logica liberale e
destabilizzazione ambientale.
Partiamo dai meccanismi che caratterizzano l’ordinario sviluppo
capitalistico. Nel processo di sviluppo capitalistico l’investimento di
capitale privato è il motore della crescita. Tale investimento ha luogo sotto
un presupposto essenziale: ci devono essere ragioni per credere che alla
ne di ciascun ciclo produttivo il pro tto supererà (signi cativamente)
l’investimento iniziale. Ma af nché il pro tto cresca a livello complessivo
devono crescere anche la produzione e la vendita, dunque a crescere
dev’essere l’intero sistema di trasformazione e movimentazione dei
prodotti. Ciò implica necessariamente una concomitante crescita di due
processi collaterali, ovvero da un lato il consumo di risorse (materie prime
ed energia) e dall’altro un incremento degli scarti (effetti collaterali della
produzione e prodotti obsolescenti). Trasformazione materiale, mobilità
delle persone e mobilità delle merci sono tutti processi che subiscono un
incremento sistematico. Tale incremento tuttavia non è semplicemente
sistematico, ma anche inarrestabile all’interno della logica corrente, in
quanto l’intero sistema si fonda sulla concorrenza tra detentori di capitale
in competizione per margini di pro tto. Tale concorrenza plurale,
rivendicata orgogliosamente come elemento dinamizzante e liberatorio,
rende il sistema produttivo capitalistico un sistema intrinsecamente
decentrato, e privo di governo e di controllo. La combinazione
dell’esigenza di crescita di consumi e scarti, e della pressione competitiva
policentrica, rende l’ordine produttivo capitalistico un creatore sistematico
di destabilizzazione ambientale, un produttore strutturale e incontrollato
di entropia.
È importante avere una prospettiva corretta su questo processo storico.
A partire dal 1945 l’utilizzo di risorse naturali e la loro trasformazione ha
avuto un andamento di crescita esponenziale de agrante203. L’allerta
ambientale ci accompagna con toni emergenziali da almeno
cinquant’anni204. Tuttavia le modi che nella traiettoria di sviluppo sono
state nulle: apparentemente quasi tutti concordano, e non da oggi,
sull’insostenibilità del sistema, e tuttavia tale “coscienza ecologica” si
esprime in proclami di principio, accorati appelli, conferenze
internazionali con ricchi buffet, lmogra a catastro sta, e qualche toppa
occasionale senza alcun impatto. Mentre soprattutto l’allerta relativa
all’esaurimento delle risorse ha attratto inizialmente l’attenzione dei
governi, sono i processi di destabilizzazione ambientale a essere l’aspetto
più preoccupante nel lungo periodo. Accanto alle più note statistiche sul
riscaldamento globale abbiamo resoconti impietosi sull’inquinamento di
aria e acqua, sulla presenza di fertilizzanti e antiparassitari nelle falde
acquifere e da lì nell’intero ciclo alimentare, sulla diffusione di interferenti
endocrini e di sospetti mutageni in una miriade di prodotti. E tutto ciò si
accompagna alla crescita di numerose forme tumorali, di allergie e
intolleranze alimentari, al crollo della fertilità nelle aree industrializzate,
alla scomparsa accelerata di grandi blocchi di specie viventi,
all’espansione di affezioni un tempo rarissime ecc.
I processi di destabilizzazione ambientale hanno una caratteristica
essenziale, già rilevata come intrinseca ai processi capitalistici: con
l’espandersi del sistema la componente rappresentata dalle esternalità,
dalle conseguenze che nessuno ha voluto, si estende. Ogni tentativo di
utilizzare il sistema per produrre correttivi ai danni prodotti dal sistema
stesso è fallimentare, perché i tempi per trovare soluzioni non stanno al
passo con la produzione di danni ulteriori. È essenziale comprendere
come la velocità e la multifattorialità dei cambiamenti siano aspetti
cruciali. L’ecosistema complessivo, e quegli ecosistemi particolari che sono
gli organismi viventi in esso, non sono concepibili come effetti semplici di
cause semplici: sono equilibri multifattoriali, in cui i nessi causali possono
essere veri cati sperimentalmente (come nella ricerca medica), se si
tengono le altre variabili ferme. Ma in un sistema in cui le variabili
ambientali cambiano caoticamente in una pluralità di forme e direzioni è
quasi impossibile identi care chiare linee causali, e dunque è anche spesso
impossibile intervenire in maniera univoca sulle cause, correggendole in
modo mirato. Non solo: tale dif coltà epistemica di individuazione delle
cause di un problema comporta anche un’estrema dif coltà di
imputazione di esse a questo o quell’attore, a questa o quell’attività
produttiva. Il sistema perciò viene costantemente e crescentemente
destabilizzato da agenti economici che agiscono su base individuale, senza
piani cazione, e che assai raramente sono imputabili sul piano giuridico
per le conseguenze di ciò che fanno.
La ragione di fondo per cui il processo di degrado ambientale in corso
non può essere fermato è semplice: per quanto alte si levino le grida di
allarme, il tipo di soluzioni che sarebbe necessario considerare
con iggono frontalmente con l’intero impianto ideologico della ragione
liberale. Il sistema economico produce destabilizzazione in quanto è un
processo mosso da due capisaldi della ragione liberale: un incremento di
potenza ne a se stessa (in mancanza di valori obiettivi e nalità condivise)
e un perseguimento degli obiettivi su base individuale, decentrata,
anarchica. L’unico modo per porre un argine a questi processi dissolutivi
richiede di subordinare l’acquisizione di potere (tecnico ed economico) a
nalità condivise, e di conservare una forma di controllo collettivo
(politico) di ultima istanza sui processi economici, in modo da poterli
moderare e indirizzare ogni qualvolta necessario. Ma entrambe queste
istanze sono percepite, alla luce della ragione liberale, come autentici
tabù, posizioni inammissibili. Tuttavia, una volta respinto quest’orizzonte
di soluzioni, ciò che resta è semplicemente un incremento inde nito delle
condizioni di degrado ecosistemico, no a esiti ignoti ma infausti. Il
presupposto della vita e della salute è infatti l’equilibrio dei sistemi
viventi. Tale presupposto è però sistematicamente infranto dai processi
della “economia libera”, e tale “rivoluzione permanente” è
ideologicamente sostenuta dalla ragione liberale. Sotto queste condizioni
tutte le strade portano a un dirupo.
Questo tema meriterebbe un’analisi speci ca, circostanziata e
approfondita, che però ci farebbe perdere di vista il quadro complessivo
che stiamo cercando di tracciare. Per tale motivo non andiamo qui oltre
tale nota di richiamo, riservandoci di ritornare sulla questione con
maggiore esaustività in lavori successivi.

25. Revisione e sintesi


Prima di procedere con la sezione conclusiva del lavoro, che
dedicheremo alle forme di dominio “ideologico” della “ragione liberale”
nella sua incarnazione odierna, è opportuno fare il punto sul percorso
svolto sin qui, rivedendone i cardini concettuali.
25.1 La “grande convergenza”
Nella prima sezione abbiamo provato a tracciare una genealogia storica
della ragione liberale, identi cata con lo “spirito del capitalismo”, ovvero
con la struttura argomentativa che giusti ca e supporta le pratiche socio-
economiche del capitalismo realizzato. Partendo dai tratti caratterizzanti
della Rivoluzione industriale abbiamo identi cato retrospettivamente tre
linee genealogiche che in essa convergono. Queste linee sono
rispettivamente l’emergere di un’antropologia individualista, la
maturazione della pratica monetaria e l’emergere della moderna
tecnoscienza. Tutte e tre queste linee dipendono da sviluppi prodotti dal
fattore “storiopoietico” per eccellenza, ovvero la scrittura.
Se con scrittura intendiamo ogni forma di rappresentazione rei cata di
un signi cato, la scrittura è sempre un formidabile sistema di
conservazione e accumulazione dei signi cati, e perciò le aree di
signi cato assoggettabili a una scrittura sono quelle che la scrittura
potenzia, imponendole come tratti culturali dominanti. La ragione liberale
nasce nel luogo di convergenza storica tra quanto prodotto dalla scrittura
alfabetica a stampa, dalla moneta (come trascrizione dei valori di scambio)
e dalla potenza di calcolo della scrittura numerica posizionale. Il
convergere tra XVII e XVIII secolo di queste pratiche, nella forma di
un’antropologia individualista, di una moneta in via di
“smaterializzazione”, e della scienza matematica della natura avviene
come rinforzo reciproco degli aspetti compatibili, e simultaneamente come
marginalizzazione degli aspetti prima facie incompatibili. Altre
elaborazioni culturali storicamente legate alla scrittura quali la Filoso a
(come sapere del Tutto), la Storia (come racconto universale delle azioni
umane), la Legge (come ordinamento astratto del potere collettivo),
occupano una posizione periferica rispetto a quella alleanza, e
continueranno a operare in parte come potenziali fattori critici.
25.2 In principio fu Hobbes
Abbiamo poi esaminato come quella “grande convergenza” abbia preso
forma nell’elaborazione che oggi identi chiamo come “liberalismo
classico”. La gura più importante in questo quadro è quella di Thomas
Hobbes, che è un “liberale di con ne”: Hobbes non viene considerato
autore propriamente liberale in quanto, dopo aver predisposto proprio la
cornice concettuale in cui si muoverà il pensiero liberale, ne decreta
immediatamente l’insostenibilità. In Hobbes troviamo l’idea di una
derivazione dei diritti individuali direttamente da una condizione asociale
e astorica chiamata “stato di natura”: l’individuo sarebbe ciò che è – e
avrebbe i diritti che ha – a prescindere da ogni nesso storico e sociale. La
natura viene da lui concepita secondo un canone già in uenzato dalla
moderna tecnoscienza, come luogo di manifestazione di leggi meccaniche,
matematizzabili. La “libertà” dell’individuo è equiparata semplicemente
alla pulsione endogena non ostacolata (speci camente di tipo acquisitivo);
perciò la tutela della libertà si riduce all’idea della non interferenza altrui.
Nessuno spazio è lasciato alle pretese di universalità o validità
intersoggettiva del valore, il quale coincide invece con il soddisfacimento
della pulsione individuale.
Partendo da questo scenario presunto “naturale” Hobbes perviene
molto rapidamente a de nirne il carattere autodistruttivo, richiedendo
perciò come correttivo il Leviatano, il Sovrano Assoluto, necessario per
contenere le spinte centrifughe degli individui “naturali”. Mentre
l’impostazione hobbesiana chiude subito lo spazio liberale appena aperto,
lo sviluppo di premesse simili in autori successivi cercherà di mostrare
come una società di individui irriducibilmente autointeressati possa invece
strutturarsi normativamente (Locke), e prosperare economicamente
(Smith).
25.3 Da opinione politica a scienza del capitalismo
Il successivo passo decisivo nell’evoluzione della ragione liberale consta
del suo trasferimento dal piano della loso a politica a quello
“scienti co”. Fino alla ne del XIX secolo il rapporto tra ragione liberale
e tecnoscienza è essenzialmente un rapporto di pro cuo asservimento
della seconda alla prima, come strumento di razionalizzazione produttiva.
Con la trasformazione del paradigma dell’economia classica in quello
dell’economia neoclassica la visione politica liberale inizia a sottrarsi al
piano delle opinioni, dei giudizi di valore, delle interpretazioni politiche,
per trasferirsi su quello delle pretese di neutralità scienti ca. L’economia
neoclassica si presenta come una “scienza sociale naturale”, che si
pretende imperniata sulla natura umana e indipendente dalla storia.
Questo passaggio è decisivo per trasformare il pensiero liberale da
ideologia, a “regime di verità” o meglio “regime di ragione”, dove la teoria
non si limita a descrivere la realtà, ma vi dà forma. La scienza economica
moderna infatti, pur presentandosi (nella misura in cui lo fa) come un
sapere fondato nell’uomo e nella natura in generale, trae le sue premesse
dal funzionamento di un sistema di mercato, come emerso nel XIX secolo.
L’economia neoclassica non può ambire a essere scienza in modo simile a
come possono esserlo la sica, la biologia, ma anche l’antropologia, o la
psicologia, perché è la scienza del capitalismo. Essa è scienza del
capitalismo in un duplice senso: nel senso del genitivo oggettivo, di avere
come proprio oggetto le relazioni e pratiche create storicamente dallo
sviluppo socioeconomico capitalista, e nel senso del genitivo soggettivo, di
essere uno strumento di cui il modello socioeconomico capitalista si è
appropriato per giusti carsi e promuoversi.
L’assiomatizzazione dei principi che de niscono la razionalità degli
agenti economici e i principi della competizione ottimale introducono
qualcosa che nelle “scienze dure” (o nelle matematiche) gioca il ruolo di
evidenza prima o di principio elementare intuitivo. Gli assiomi economici,
tuttavia, lungi dall’essere “proposizioni autoevidenti”, sono piuttosto
proposizioni (più o meno) evidentemente false. La falsità qui però è letta
come “inadeguatezza empirica” del reale rispetto a un ideale normativo, a
un principio che se fosse reale produrrebbe un sistema di scelte, decisioni
e scambi massimamente pro cuo. Che gli esseri umani siano
massimizzatori razionali, che decidano indipendentemente dalle opinioni
altrui, che possano avere informazione perfetta, che deliberino
computando costi-bene ci in termini di utilità ecc. sono tutte falsità che
vengono inizialmente introdotte come astrazioni approssimative, volte a
farci percepire la funzionalità del sistema ideale in cui fossero verità. Ciò
che è descrittivamente falso viene ammesso in quanto prescrittivamente
valido, e si propone poi come ideale normativo cui conformare la società.
Una tale posizione in effetti con igge in modo plateale con la pretesa
liberale di porsi come “assiologicamente neutrale”. Un sistema di ideali
normativi cui conformare la società sarebbe sostenibile in un sistema
assiologicamente de nito, con esplicite pretese circa cosa sia bene e male.
Questa in fondo è la disposizione di tutte le “utopie”, nobili e volgari. Ma
il gioco di prestigio della ragione liberale consiste nel presentarsi come
una descrizione scienti ca, neutrale, estranea alla sfera opinabile del
politico, e nell’introdurre, così facendo, un severo apparato normativo in
incognito.
Il successo della trasmigrazione della concettualità liberale nel modello
economico neoclassico consiste nell’aver cancellato le proprie tracce, e nel
poter ora elevare le proprie pretese normative come se fossero semplici
inferenze logiche, deduzioni neutrali. La possibilità di utilizzare
pro ttevolmente i moduli dell’economia neoclassica nell’interpretare
alcune dinamiche del mercato capitalistico conferisce credito a
quell’apparato concettuale. Esso diviene perciò il tacito braccio operativo
della ragione liberale, accreditandosi come verità all’altezza di quella
realtà che contribuisce a produrre. L’idea che al modello capitalista “non
c’è alternativa” è implicito nella sistematica destoricizzazione della società,
dell’uomo e dell’economia che si impone con l’affermarsi del paradigma
neoclassico. Una volta costruita secondo un modello assiomatico,
l’economia moderna ha potuto cominciare a proporsi come un modello
interpretativo astorico, “eterno”, da estendere a ogni sfera sociale e
antropologica: dal formalismo in antropologia economica, alla teoria dello
scambio sociale (Social Exchange Theory), alla teoria della scelta pubblica
(Public Choice Theory), alla teoria della scelta razionale (Rational Choice
Theory) ecc.
25.4 Lo Stato liberale tra “classe” e “popolo”
L’imperialismo economico si traduce in ne in pratica politica con
l’avvento dell’epoca neoliberale, in cui allo Stato viene assegnato l’onere
di tradurre gli ideali normativi dell’economia neoclassica in realtà. La
trasformazione del ruolo dello Stato in conformità con l’imporsi della
ragione liberale è emblematica. Lo Stato e le sue leggi sono emersi
inizialmente come estensione delle capacità di controllo politico al di là
del perimetro delle comunicazioni faccia a faccia, grazie a forme di
scrittura. Per lungo tempo, tuttavia, lo Stato ripercorse il modello
tradizionale del potere comunitario, fondato su una gerarchia
centralizzata a base famigliare, di cui venivano semplicemente aumentate
le dimensioni. Le istanze liberali si manifestarono originariamente proprio
come una critica, una delegittimazione di quell’antico modello di potere, a
base ereditaria. Questo fattore critico della ragione liberale si espresse
nelle pretese universaliste della legge scritta e nel rinnovato senso di
autonomia degli individui. È importante sottolineare come tali istanze
“protoliberali” (si pensi alla Magna Charta) avevano chiara la pars
destruens, ma non avevano un ben de nito punto d’approdo, un modello
istituzionale alternativo come terminus ad quem. La sovranità oscillò più
volte dal potere centrale del regnante a oligarchie più o meno estese, per
poi ri uire in direzione centrale. Con la Rivoluzione francese la sovranità
si spostò invece per la prima volta con decisione in direzione del “popolo”
nel suo complesso (nonostante il successivo ri usso della Restaurazione).
Lo spostamento della sovranità in direzione del popolo poneva tuttavia
un problema storico in parte inedito: quello di trovare un nuovo fattore di
aggregazione/uni cazione che non fosse una gura personale, un
rappresentante dinastico. Si sono perciò pro lati due modelli principali di
uni cazione della sovranità popolare, spesso presenti in combinazione:
sulla base di una comune identità nazionale, o sulla base di un comune
interesse economico. In una prima fase storica la divergenza fondamentale
tra queste due istanze non si manifestò esplicitamente, così le spinte della
“società civile” verso la coltivazione di un comune interesse economico, e
quelle del “popolo” verso una comune identità nazionale poterono
apparire sovrapponibili. Questo processo è ben visibile nella costituzione
degli stati nazione più tardi, come la Germania e l’Italia.
La divaricazione si evidenziò con il procedere dello sviluppo
capitalistico, che mise in evidenza la frattura di interessi tra borghesia
detentrice di capitale e la massa della popolazione lavoratrice. Questa
frattura, che Marx auspicava conducesse al superamento del capitalismo e
all’abolizione delle classi sociali, in realtà sfociò in un incremento di
competizione tra apparati economici a base nazionale, no allo scoppio
della Prima guerra mondiale. Di fatto le classi dirigenti europee di ne
Ottocento cercarono di dissimulare la frattura tra gli interessi del capitale
e del lavoro presentando come coincidenti l’interesse della nazione e
quello dell’economia capitalista; questa è la radice dell’imperialismo
coloniale. L’esito della guerra non fu propriamente “voluto” da nessuno,
ma si rivelò come la linea di sviluppo storico che offriva minore resistenza.
25.5 Lo Stato neoliberale come funzione accessoria del mercato
Dai trent’anni successivi, dopo le guerre mondiali e i “fascismi”, la
ragione liberale emerse signi cativamente screditata, e si riprese grazie a
ciò che oggi ci appare come una sorta di compromesso operativo tra
liberalismo e socialismo. L’economia mista dei “trenta gloriosi” fu di fatto
una forma organizzativa di mediazione, eccentrica rispetto alle ordinarie
dinamiche capitaliste, che però dal punto di vista ideologico venne
interpretata e rivendicata come espressione liberale.
Con gli anni ’70 le istanze della ragione liberale ripresero quota, creando
le condizioni per un nuovo compito dello Stato, coerente con la visione
del liberalismo classico, ma più realistica. L’essenza liberale dello Stato
non lo pone infatti come “Stato minimo”, ma come “Stato suf ciente”,
sussidiario al mercato e operativo quel tanto che basta a far sì che il
sistema dei liberi scambi funzioni. Assumendo la validità degli ideali
normativi neoclassici, lo Stato neoliberale si fa carico di implementarli,
creando le condizioni normative che permettono di approssimare quegli
indirizzi. Lo Stato liberale si impone ora nella sua forma più compiuta e
consapevole, come funzione collaterale e compensativa del mercato.
Idealmente, in un mercato che funzionasse davvero spontaneamente
secondo i principi della concorrenza perfetta, lo Stato potrebbe essere
soppresso. In concreto esistenza e funzioni dello Stato, in una cornice
liberale, possono restringersi o ampliarsi, in dipendenza da quanto
“lavoro” ci sia da fare per correggere gli aspetti disfunzionali del libero
scambio, concepito come dimensione sociale originaria. Lo Stato liberale
ha dunque una funzione sussidiaria; non sussidiaria della “società” in
senso generale, ma della società in quanto luogo degli scambi di mercato.
Non ci sono limiti de niti a quanto spazio uno Stato deve occupare, a
quali compiti può fare propri o meno, perché tali compiti e tali limiti sono
de niti dalle esigenze di implementare e approssimare gli ideali normativi
dell’economia neoclassica.
Lo sviluppo socioeconomico dell’ultimo mezzo secolo, in Occidente ma
non solo, si presenta come un’implementazione sempre più radicale e
precisa delle premesse della ragione liberale. Lungi dall’essere una
deviazione o un errore, il neoliberalismo porta la “grande convergenza”
del XVII secolo ai suoi esiti ultimi. Il passo operativo fondamentale in
questa direzione avviene con il processo di nanziarizzazione
dell’economia, dove l’evoluzione tecnoscienti ca e la teoria economica
neoclassica cooperano nel creare un sistema di scambi idealmente
autonomo da ogni intervento guidato da ragioni o ni speci ci, estraneo a
ogni espressione di volontà umana o democratica. Il sistema nanziario
internazionale è l’incarnazione ideale della società come puro luogo degli
scambi: gli interessi degli stakeholders si sovrappongono e impongono a
quelli delle cittadinanze democratiche. Naturalmente, ogni sistema
nanziario necessita per funzionare del sostegno di apparati legislativi
statali, e dunque non può mai essere integralmente indipendente dalla
sfera politica. Perché il sistema dell’economia nanziarizzata acquisisca
l’auspicato carattere di “meccanismo autonomo” extrapolitico è
necessario che la sfera politica sia egemonizzata dalla “ragione liberale”.
Una volta implementato il sistema, l’inerzia che caratterizza tutti i sistemi
istituzionali ne rinforza le dinamiche: il funzionamento di un sistema
istituzionale delizza sempre una parte delle persone in esso coinvolte,
che sono strutturalmente interessate a che le sue operazioni proseguano
senza interferenze. Non si tratta di niente di diverso rispetto, per dire,
all’inerzia del sistema monarchico europeo nel XVII secolo, che
sopravviverà per quasi tre secoli alle s de della ragione liberale.
Nell’attuale globalizzazione capitalistica, tuttavia, la costruzione di
un’egemonia transnazionale di ispirazione liberale si presenta come molto
più capillare di quanto sia avvenuto in passato per altre “visioni del
mondo”. Tale capillarità è stata indotta dal fatto che l’odierna diffusione
di sistemi democratici ha reso necessario cooptare ideologicamente masse
molto più ampie di persone di quanto dovesse accadere per altre “visioni
del mondo”.
L’implementazione della ragione liberale ha anche creato alcuni ef caci
circuiti di autoalimentazione. Ad esempio, essa, generando
incomunicabilità, frammentazione sociale e discredito verso l’attività
politica, ostacola anche la possibilità che prendano forma azioni collettive
di opposizione al sistema stesso (depoliticizzazione). O ancora: dopo aver
prodotto innumerevoli esternalità negative in forma di problemi
psicologici, ambientali, di insicurezza sociale e lavorativa, il sistema di
produzione capitalistico si presenta poi anche come rimedio a quegli stessi
mali, fornendo un ricco mercato di toppe provvisorie (dallo Xanax, alle
porte blindate, alle assicurazioni private ecc.).
25.6 Tre contraddizioni materiali
Questi meccanismi di autoalimentazione, tuttavia, sono ben lungi
dall’essere risolutivi. Il sistema infatti genera almeno tre ordini di
“contraddizione materiale interna”205 cui non è in grado di porre rimedio.
Il primo ordine di problemi è quello che abbiamo deciso di lasciare ai
margini della presente trattazione, ovvero l’impatto sistematicamente
erosivo dei meccanismi capitalistici sull’ambiente e sugli equilibri
ecologici. Che tale forma di sviluppo sociale abbia carattere
autodistruttivo è certo. Ma l’esistenza di una contraddizione interna in un
modello di sviluppo non ne garantisce affatto il superamento. Questa è
stata l’illusione marxiana secondo cui, una volta identi cati alcuni processi
autodistruttivi all’interno del modello di sviluppo capitalista, ciò fosse
suf ciente a poterne decretare, presto o tardi, la scon tta e il
superamento. Questa visione ci appare oggi, dopo le guerre mondiali,
come una prospettiva troppo informata dall’ottimismo teleologico
hegeliano. Se non viene sradicata l’egemonia della ragione liberale,
egemonia costruitasi solidamente nel nesso tra scienza economica
neoclassica e ideologemi collaterali (di cui parleremo nell’ultima sezione),
le contraddizioni interne si possono limitare a produrre variazioni sul
medesimo spartito, con arretramenti e ripartenze, distruzioni provvisorie e
ricostruzioni, senza modi care i moduli di fondo. Questo possibile “vicolo
cieco della storia” può naturalmente contemplare anche lo scenario
“terminale” di un’eradicazione della specie umana dalle possibilità di vita
sul pianeta. Dif cile che questo possa contare come un soddisfacente
“superamento del capitalismo”.
Qualche considerazione in più la meritano invece gli altri due ordini di
“contraddizione materiale”.
Innanzitutto va messa in rilievo una dimensione classica in cui la
“contraddizione materiale” inerente al sistema della ragione liberale si
manifesta, ovvero la tendenza alla polarizzazione reddituale, sia
internamente agli stati che tra gli stati. Questo fattore, dipendente dal
funzionamento ordinario dei sistemi di mercato, può essere compensato
con interventi statali mirati, almeno con riferimento alle diseguaglianze
interne. Tali interventi si sono però dimostrati sempre inadeguati a
invertire la tendenza alla divaricazione della forbice sociale, salvo che in
occasione di modi che esogene degli equilibri nei livelli di potere
contrattuale (come dopo la Seconda guerra mondiale). Se è vero che la
morte per inedia o stenti viene oggi tendenzialmente evitata nei paesi
industrializzati, la marginalizzazione tende a estendersi senza limiti se non
occasionali.
In un mondo in cui il potere economico coincide in modo sempre più
evidente con il potere in sé, e in cui la preservazione e coltivazione del
potere economico esige una costante dinamicità competitiva, la tendenza
alla polarizzazione economica ha esiti tendenzialmente catastro ci. L’idea,
spesso coltivata dagli ideologi liberali, che il trionfo della ragione liberale
sia latore di pace (o quantomeno incentivi comportamenti paci ci)
presuppone l’idea, essenzialmente erronea, che l’interazione e il
commercio giovi automaticamente a tutti i partecipanti, che perciò
avrebbero interesse a preservare le “regole del gioco”. Tuttavia queste
premesse sono semplicemente false. Nella cornice dello scambio
competitivo illimitato che de nisce i sistemi di mercato le differenze
relative divengono progressivamente divaricazioni assolute; le persone,
come gli stati, che si avvicinano ai livelli inferiori nei rapporti di potere
contrattuale entrano in una condizione tendenziale di “esclusione
irreversibile”. Diversamente da quanto poteva avvenire nei sistemi
preliberali, paternalistici, nella cornice liberaldemocratica, una perdurante
collocazione tra le fasce “perdenti” rappresenta per un soggetto
letteralmente un’esclusione dalla vita dell’umanità. La povertà del
contadino medievale non è la povertà del proletario della Manchester
ottocentesca (o del working poor delle odierne periferie urbane
occidentali). In termini assoluti i beni disponibili possono essere superiori
nel secondo e terzo caso rispetto al primo; ma la tollerabilità della propria
condizione è invece assai inferiore, perché il “perdente” moderno non ha
altre forme per sentirsi partecipe del mondo: dati i valori e le modalità di
funzionamento dei sistemi di mercato i “perdenti” possono concepirsi
(loro e le loro famiglie, per ogni prevedibile futuro) soltanto come il
concime che permette ad altri individui (o altri popoli) di progettare le
proprie esistenze.
La tendenza alla divaricazione economica tra vincenti e perdenti
acquisisce nella cornice liberale un signi cato storico inedito. La
possibilità della mobilità sociale, sin dalle origini, sta al cuore della
legittimazione della ragione liberale e del capitalismo. Fino a quando vi
sono elementi per garantire un buon grado di mobilità tra classi, almeno
in forma intergenerazionale, l’apparato capitalista può trovare – sotto il
pro lo della diseguaglianza – una legittimazione. Tuttavia, in assenza di
pressioni esogene (come fu per le liberaldemocrazie occidentali l’esistenza
della minaccia sovietica dopo il 1945) la tendenza alla polarizzazione
economica si presenta costantemente e tende a irrigidirsi
intergenerazionalmente. Il moltiplicarsi di analisi che deplorano questo
fatto, come se fosse un “tradimento” della ragione liberale (cioè:
dall’immagine di sé che essa nutre), non impedisce ai processi di
polarizzazione di riprodursi, moltiplicarsi, consolidarsi.
In ne troviamo la dimensione di contraddizione materiale più profonda
e radicale. L’implementazione storica della ragione liberale opera in modo
da delegittimare sistematicamente ogni pretesa normativa. E tuttavia essa
non può esistere senza un ampio consenso al proprio funzionamento
normativo. La pulsione nichilista, la coltivazione dell’autoreferenzialità,
del presente senza passato, della competizione senza vincolo morale, la
fragilità aggressiva che viene costantemente coltivata nel mondo liberale
tendono a diffondere insofferenza alle regole di valore comune e
all’interesse per le sorti comuni. Su questo terreno crescono in nite
varianti del classico free rider, che erodono le precondizioni normative
della libertà. Secondo una dinamica che sembra ripercorrere lo schema
hobbesiano, la ragione liberale crea progressivamente proprio quella
soggettività isolata e aggressiva, ferina, che Hobbes collocava nel luogo
ideale dello “stato di natura”. L’homo oeconomicus non sta dunque agli
inizi del processo, nella “natura originaria”, ma tende realmente a
emergere alla sua ne, quando la ragione liberale è egemone e le sue
pratiche capillari.
Il crescente venire alla luce di un’umanità hobbesiana richiama
coerentemente una qualche variante del “correttivo nale” proposto da
Hobbes, ovvero la subordinazione delle libertà da parte del Leviatano. La
forma odierna di questo indirizzo di contenimento autoritario non è però
quella del Sovrano Assoluto, ma quella dello Stato neoliberale. Quanto
più la società presenta forze centrifughe in crescita, che minacciano anche
il funzionamento della cornice normativa indispensabile al mercato, tanto
più il mercato richiama lo Stato al suo dovere (l’unico, in ottica liberale),
ovvero al rigoroso mantenimento delle funzionalità del mercato stesso. Il
sistema capitalista e la ragione liberale che lo sostiene generano
sistematicamente condizioni che mettono a repentaglio le funzionalità del
sistema stesso. Ciò induce una proliferazione reattiva di meccanismi
correttivi che consentono l’esercizio di alcune libertà (tutte quelle
compatibili con le libertà di compravendita), mentre intervengono
capillarmente nel normare la sfera personale altrove. Paradossalmente,
nessuna epoca storica ha conosciuto una normazione più estesa e capillare
di quella liberale contemporanea. Le leggi del passato presentavano di
solito forme punitive più drastiche di quelle contemporanee (morte,
tortura e mutilazione erano spesso contemplate), ma le maglie della legge
e le capacità di effettivo controllo erano immensamente più larghe.
Nessun’altra epoca ha conosciuto più della presente normazioni così
diffuse e precise relative ai comportamenti quotidiani, alla gestione dei
gli, ai rapporti con il prossimo, alle espressioni verbali consentite,
all’esazione scale, alla detenzione di armi, all’uso di sostanze psicotrope
ecc. Questo processo ipernormativo dipende dalla crescente impossibilità
di poter dare per scontato il sussistere di “normatività informali” in
comune, di uno sfondo di regole sociali tacite e condivise. Queste
impossibilità si estendono quanto più i canoni della ragione liberale si
affermano.
È importante comprendere come questa crescita normativa non sia un
fenomeno arbitrario, non dipenda dall’occasionale diffondersi di
“opinioni autoritarie”, ma esprima una dinamica profonda. Con il venir
meno dei vincoli sociali informali e di un comune sostrato di aspettative
reciproche, molte delle cose che in passato appartenevano alla
consuetudine e al “buon senso” richiedono interventi normativi espliciti.
Il mondo liberale, abolendo di principio ogni comunanza di principi
assiologici e morali, sopprime con ciò anche la possibilità di con dare nel
“senso comune”, e dunque si trova indotto a trattare sempre di più
ciascun individuo come se fosse un potenziale portatore di dolo. Questa
tendenza si esacerba con il crescere dei fattori di mutua incomprensione,
isolamento etico e competizione individuale. Questa dinamica ha un
aspetto paradossale. Le società liberali dopo aver sviluppato a lungo
un’estensione degli spazi di libertà individuale, ne hanno avviato la
contrazione, incrementando le esigenze di sorveglianza e controllo su
quegli stessi spazi.
Questa tendenza si esacerba con il processo di logoramento dei vincoli
morali e assiologici, e con l’incremento della percezione di estraneità degli
individui rispetto all’intorno sociale. Una simile dinamica era già ben
visibile nel corso della “prima globalizzazione”, a cavallo tra Ottocento e
Novecento, quando il disorientamento etico, la “decadenza”, della società
urbana europea ha lasciato traccia di sé in una moltitudine di
rappresentazioni letterarie. A tale processo di disgregazione sociale e di
perdita del senso di controllo la società tende a reagire in forme sempre
più nervose e autoritarie.
Il meccanismo psicologico più semplice ed ef cace per porre argine al
processo di disfacimento di un’unità sociale è l’individuazione di un
nemico comune, la creazione di un capro espiatorio. Nel caso della
“prima globalizzazione” quelle dinamiche reattive trovarono una forma
peculiare, oggi ampiamente fraintesa. Nell’ultima parte del XIX secolo la
reazione prese le forme del nazionalismo sciovinista, e dell’identi cazione
dell’estraneo-tra-di-noi nella forma esemplare dell’“ebreo”, in cui si
concentravano simbolicamente il carattere di sradicamento cosmopolita e
la partecipazione alla sfera del capitale. La storia dell’antisemitismo
europeo, dal “caso Dreyfus” ai campi di sterminio nazisti, è la storia
dell’identi cazione di un capro espiatorio che riassumeva sul piano
simbolico tutti i fronti di insicurezza socialmente percepiti: la rottura
dell’unità sociale e comunitaria (simbolizzata dalla transnazionalità del
Weltjudentum), l’estraneità della massa rispetto alle élite intellettuali ed
economiche, la manipolazione del denaro come potenza alienante e
irrazionale. La crescita dello sciovinismo e del nazionalismo aggressivo,
con la sua “chiamata alle armi” (in senso prima metaforico, poi reale)
corse in parallelo con la crescita dell’antisemitismo.
Nell’ultima parte del XX secolo la lettura dominante della prima
globalizzazione, dagli imperialismi, alla guerra, ai fascismi ha discusso
spesso di questi sviluppi come se si fosse trattato di oscuri fantasmi,
atavismi, residui tribali materializzatisi dal nulla, e rispetto a cui le ignare e
nobili istanze liberali sarebbero state improvvidamente scon tte. Si tratta
di una lettura gravemente fuorviante. Sciovinismo, nazionalismo
aggressivo e antisemitismo, tutti temi che sopravviveranno alla Prima
guerra mondiale e con uiranno nei successivi fascismi europei, sono
reazioni del tutto intelligibili ai processi di deterioramento normativo
tipici dei processi capitalistici.
Questa mescolanza apparentemente paradossale tra trionfo della ragione
liberale e crescita dei fattori di repressione e controllo sociale sarà di
nuovo visibile nello sviluppo del neoliberalismo. Il “trentennio glorioso”,
che dal punto di vista economico si presenta come un compromesso tra
modello liberale e modello socialista, dal punto di vista ideologico è già
essenzialmente liberale, anche se vi troviamo mescolati tratti libertari e
comunitari, anarchici, consumistici e collettivisti. L’impianto ideologico
dei “trenta gloriosi” resta fondamentalmente liberale, e genera, ben prima
della svolta neoliberale degli anni ’70, quegli aspetti di frammentazione
sociale ed erosione assiologica su cui si soffermò con profetica eloquenza
Pier Paolo Pasolini. Nel ’68 con uirono in una mistura esplosiva il
libertarismo e l’individualismo anarchizzante proprio delle dinamiche
liberali, con la spinta rivoluzionaria e collettivistica propria della matrice
marxista. Dopo il ’68 a sopravvivere sarà però solo la prima di queste
istanze, che si accentuerà nei decenni successivi integrandosi nell’impianto
neoliberale.
Di fronte ai problemi di consenso e coordinamento, posti dagli
ordinamenti democratici, la strada liberale non procede nella direzione di
portare gli individui all’altezza della democrazia (cioè in grado,
materialmente e culturalmente, di gestire la propria libertà), ma in
direzione di una repressione selettiva, adeguata a tenere la barra a dritta
per il buon funzionamento dei mercati (l’unico vero ideale normativo).
Gli sviluppi contemporanei, con la costante crescita dell’estrema destra in
Europa, segnalano la medesima dinamica, già vista altre volte, per cui gli
effetti nichilisti e disgregatori della ragione liberale provocano una
reazione, come spinta repressiva di contenimento. Come emblema di
questa dinamica bicefala si può prendere un dato statistico, ovvero quello
sulla popolazione carceraria degli USA: il “paese della libertà”, il paese
culturalmente liberale per eccellenza, presenta anche la più elevata
percentuale di popolazione in carcere al mondo.
Concentrarsi sulla sola fase reattiva, dimenticandone il carattere
appunto di risposta, è un modo ingegnoso per fraintendere gli eventi.
Stigmatizzare i riemergenti tratti “securitari”, repressivi o di controllo,
senza mettere in discussione i processi socialmente disgreganti a monte è
un errore fatale. Di fronte a incrementi nella presenza di criminalità
organizzata, o nelle truffe agli anziani, o nelle violenze sessuali, o nelle
condotte terroristiche ecc., si possono avere risposte repressive più o
meno intelligenti; ma che risposte adeguatamente dure vi debbano essere
è indubbio; perciò ogni allerta libertaria in chiave antirepressiva, senza
una concomitante visione d’insieme, rimane intrinsecamente fuorviante.
Le reazioni antiliberali in forma di stilemi tradizionalisti o retoriche
nazionaliste possono suscitare interesse o ripulsa, ma quale che sia il
giudizio, esse rappresentano reazioni siologiche, che vale a poco
stigmatizzare isolatamente. L’unico autentico punto di fuga da questa
dinamica complementare è rappresentato da un abbattimento
dell’egemonia della ragione liberale nel suo complesso, evidenziandone
l’intrinseca distruttività sul lungo periodo e palesandone il sistema di
credenze, generalmente dissimulato.
Accanto ai processi repressivi e alle dinamiche da “capro espiatorio”
esiste un terzo modo in cui la ragione liberale mette in campo forme
compensative alle tendenze disgregative da essa prodotte. Si tratta della
produzione di mezzi di distrazione, distoglimento, divertimento. Che
l’intrattenimento popolare potesse avere funzione di contenimento delle
crisi sociali è noto almeno dai circenses della Roma imperiale. Oggi,
tuttavia, grazie alla dinamicità di un apparato produttivo volto al
soddisfacimento della domanda contingente, la presenza di “distrattori”
ha assunto una dimensione di massa inedita nella storia. La componente
dell’economia dedicata all’intrattenimento, dallo show business (da solo,
più del 3% del PIL mondiale), a giochi e videogiochi, al settore delle
scommesse, a quello dello sport professionistico ecc., rappresenta un
impegno produttivo storicamente inedito, la cui funzione capillare di
natura compensativa è evidente. Questo non signi ca, beninteso, che vi
sia qualche “complotto” volto a “distrarre l’opinione pubblica”, ma
signi ca semplicemente che uno dei modi più ef caci per ridurre il tasso
di disagio e tensione sociale è stato consegnato a funzioni di mercato.
25.7 Quattro “distruzioni creative”: del valore, dell’essere, dell’identità, del
limite
Per guidare le analisi successive, vogliamo qui richiamare quattro
“nuclei negativi” della ragione liberale, nuclei che, operando
negativamente operano di fatto come “cellule generatrici” producendo
peculiari effetti preterintenzionali. Si tratta, per così dire, di fattori di
“distruzione creativa”, che attraversano la storia della ragione liberale e
che oggi, nell’epoca della sua compiuta affermazione, acquisiscono una
forma e un rilievo inediti.
Il primo “effetto preterintenzionale” della negatività liberale concerne il
rapporto tra diritto e forza. È parte dell’origine come del compimento
della ragione liberale la tendenza a scoraggiare ordinamenti istituzionali
che promuovano l’adesione a valori positivi con pretese obiettive. L’idea
di un’etica condivisa è profondamente estranea al modo di porsi della
prospettiva liberale, che rivendica un irriducibile individualismo
assiologico e rende di conseguenza essenzialmente ingiusti cabile
qualunque ordinamento normativo. Tuttavia nessun ordinamento
istituzionale può funzionare senza l’adesione a una comune cornice di
valore, e l’ordinamento istituzionale liberale non fa eccezione: è costretto
perciò a percorrere strade che violano operativamente la privatizzazione
assiologica che predica. Questa inconsequenzialità obbligata da parte
delle istituzioni liberali sfocia in un’accettazione pratica – accompagnata
da una negazione teorica – della riconduzione del valore a rapporti di forza.
La dimensione normativa non può più trovare razionale giusti cazione,
ma rimanendo comunque operativamente necessaria, nisce per trarre la
sua (tacita) legittimazione da semplici equilibri di potere.
Il secondo “effetto preterintenzionale” concerne la concezione
ontologica. La ragione liberale non ha elaborato una propria ontologia.
Tuttavia, in stretta connessione con lo svuotamento della sfera assiologica,
le componenti essenziali di ogni ontologia, cioè la “mente” (ragione) e il
“mondo” (natura), subiscono una metamorfosi concettuale. La ragione,
privata di qualità assiologiche, viene identi cata con l’aspetto logico-
formale del pensiero, matematizzante e deterministico. Simmetricamente
la realtà oggettiva (la natura), privata anch’essa di dimensione valoriale,
viene concepita come mezzo, strumento, intermediazione neutrale, “cosa
indifferente”. Il pensiero non è più luogo delle manifestazioni di senso,
ma mezzo di calcolo. La natura non è più luogo della qualità, della
spontaneità e della vita, ma deposito di strumenti potenziali. L’essere tutto
(la realtà ontologica) si presenta dunque ora come un mezzo quantitativo
per ni ignoti ( ni mai universalizzabili, privati). Il quadro ontologico
complessivo si caratterizza come ratio calculans e causalità deterministica.
Entrambe sono istanze qualitativamente indifferenti, ipostatizzazioni
dell’essere strumentale, dell’essere mezzo. Un lo rosso tiene perciò
insieme lo sviluppo della concezione dell’essere, dalla visione meccanica
di Hobbes al naturalismo contemporaneo. La negazione delle pretese
pubbliche del valore crea di fatto come sottoprodotto preterintenzionale
un’ontologia di quantità adiafore.
Il terzo effetto concerne la natura della soggettività. In linea con i due
passi precedenti, la soggettività che emerge alle origini della ragione
liberale, e si avvia a compimento nell’epoca neoliberale, è una soggettività
destrutturata. Il soggetto liberale non ha tratti universalizzabili, se non
eventualmente quelli cognitivi. L’individuo liberale è inizialmente
concepito come vuoto passivo, meramente senziente (dalla tabula rasa di
Locke al bundle of different perceptions di Hume). Su questa piattaforma
di passività l’attività appare come un’eccentrica forma di passività
(passioni, pulsioni). La forzosa “naturalizzazione” e “desocializzazione”
dell’uomo lo riduce perciò a uno nodo pulsionale privo di struttura, delle
cui ragioni non ha senso discutere, ma che può essere solamente lasciato
libero di muoversi, o arrestato. La soggettività liberale emerge dal
processo della sua imposizione come identità fragile ed ef mera, una
soggettività individuale che tende ad avere sempre maggiore libertà di
fare, e sempre meno motivazioni per voler davvero fare alcunché. Ma
questo svuotamento delle motivazioni positive nella soggettività non
perviene (di solito) al suo esito ultimo, che sarebbe una vera condizione
psicotica, o l’estinzione della soggettività. Non potendo esprimere la
propria vitalità residua in imprese positive la soggettività liberale trae
allora le proprie motivazioni in sempre maggior misura da istanze
negative, dalla polemica, dalla rivendicazione, dalla competizione, che le
forniscono quella componente identitaria altrimenti inattingibile. Il
soggetto dell’epoca liberale esiste in quanto odia, detesta, combatte o
avversa qualcosa (o qualcuno).
In ne, l’insieme di questi momenti (soggettivismo assiologico,
obiettivismo naturalistico, destrutturazione identitaria) sfocia in un effetto
complessivo rimarchevole. Il sistema della ragione liberale, diversamente
da ogni altro sistema istituzionale della storia umana, non possiede al
proprio interno alcun fattore di contenimento, alcuna misura. Esso non è
nutrito da alcun orizzonte di valore condiviso, e dunque non può neppure
concepire modi per potersi contenere, per de nire limiti al proprio
operato. Ciò che sul piano della descrizione economica viene presentato
come pulsione alla crescita illimitata, sul piano dell’esistenza umana si
presenta come hybris, come eccesso e violazione, infrazione e
rovesciamento, come superamento di ogni limite ma anche come
abbattimento di ogni equilibrio. In questo senso, lo sviluppo storico della
ragione liberale è qualcosa di simile a una febbre che dapprima aumenta il
metabolismo e accelera la crescita di un organismo, per poi intaccarne la
forma e minarne l’esistenza stessa.
Nell’ultima sezione vedremo tutte queste dinamiche all’opera in una
pluralità di direzioni cruciali.
161
Con l’espressione “scambio competitivo” intendo quella forma di scambio che ha luogo nella
cornice delle relazioni di capitale, o comunque in presenza di economie monetarie sviluppate, dove
lo scambio mira alla massimizzazione di un guadagno materiale e dove dunque la regola generale,
che ne de nisce il carattere competitivo, è “cercare di ottenere di più dando di meno”. Lo scambio
competitivo si oppone a tutte quelle forme di scambio, prevalenti negli ambiti pre- o extra-
monetari, dove non domina l’aspetto del guadagno economico ma quello della costituzione di
legami o alleanze (scambi propri delle “economie del dono”).
162
L. Boltanski, E. Chiapello, op. cit., pp. 144 e ss.
163
Ivi, pp. 294-296.
164
R. Sennett, L’uomo essibile, Feltrinelli, Milano 2000.
165
C. Durand, op. cit., cap. V.
166
Th. Piketty, op. cit., capp. 11-12.
167
P. Dardot, Ch. Laval, op. cit., pp. 232-233.
168
Ivi, p. 322.
169
Cfr. J.-C. Michéa, L’impero del male minore. Saggio sulla civiltà liberale, Libri Scheiwiller,
Milano 2008, p. 27 (L’Empire du moindre mal. Essai sur la civilisation libérale, Climats-Flammarion,
Paris 2007).
170
A. Zhok, Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo, cit., pp. 285-293.
171
Come notato da K. Phillips (Wealth and Democracy, Broadway Books, New York 2002, pp.
322-324), nel 90% dei casi, nelle elezioni per il Senato americano chi dispone di più fondi vince.
172
A. Zhok, Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo, cit., pp. 109-170 e pp. 206-210.
173
D. La Valle, Denaro, prestigio e regolazione sociale, il Mulino, Bologna 1992, pp. 26-27.
174
F. von Hayek, Law, Legislation and Liberty, cit., pp. 71 e ss.
175
Cfr. N. Klein, No Logo, Flamingo, London 2000, cap. 2.
176
J.-S. Mill, Utilitarianism, in Utilitarianism and On Liberty, Blackwell, Oxford 2003, p. 188.
177
Un’etica “perfezionista” è un’etica il cui movente è la realizzazione di sé conformemente alla
natura umana, il perfezionamento nel senso di compimento delle proprie potenzialità: al centro di
un’etica perfezionista non sta il piacere, ma lo sviluppo. Liberali perfezionisti sono, ad esempio,
T.H. Green o Joseph Raz.
178
Per una discussione comprensiva sul tema rinviamo il lettore interessato ad A. Zhok, Identità,
Meltemi, Milano 2018.
179
Questo legame dell’insorgere di sintomatologie depressive con la combinazione di una spinta
al “dover essere” e della sua frustrazione è esposto nell’ampia casistica registrata in H. Tellenbach,
Melancolia. Storia del problema, endogenicità, tipologia, patogenesi, clinica, Il Pensiero Scienti co
Editore, Roma 2015. Tellenbach si occupa essenzialmente delle forme depressive gravi, che
sfociano in psicosi, ma quanto emerge dai casi riportati vale come dinamica anche per i casi meno
gravi.
180
M. Bell, Melancholia: The Western Malady, Cambridge University Press, Cambridge 2014.
181
L.P. Rehm, A.L. Wagner, C. Ivens-Tyndal, Mood Disorders: Unipolar and Bipolar, in P. Sutker,
H.E. Adams (a cura di), Comprehensive Handbook of Psychopathology, Kluwer Academic
Publishers, New York-Boston-Dordrecht 2002, pp. 277-308.
182
B.H. Hidaka, Depression as a disease of modernity: explanations for increasing prevalence, in
“Journal of Affective Disorders”, 140 (3), 2012, pp. 205-214.
183
J. Twenge et al., Birth cohort increases in psychopathology among young Americans, 1938-2007:
A cross-temporal meta-analysis of the MMPI, in “Clinical Psychology Review”, 30, 2010, pp. 145-
154.
184
M. Olfson, B.G. Druss, S.C. Marcus, Trends in Mental Health Care among Children and
Adolescents, in “New England Journal of Medicine”, 372, 2015, pp. 2029-2038.
185
C.A. Boyle, S. Boulet, L.A. Schieve, R.A. Cohen, S.J. Blumberg, M. Yeargin-Allsopp, S. Visser,
M.D. Kogan, Trends in the Prevalence of Developmental Disabilities in US Children, 1997-2008, in
“Pediatrics”, June 2011, volume 127/Issue 6.
186
National Health Service – Survey on Mental Health of Children and Young People in England
2017.
[https://digital.nhs.uk/data-and-information/publications/statistical/mental-health-of-children-
and-young-people-in-england/2017/2017#resources]
187
Th.G. Grobe, S. Steinmann, J. Szecsenyi, Artztreport 2018, Barmer Hsg., Berlin.
[https://www.barmer.de/blob/144368/08f7b513fdb6f06703c6e9765ee9375f/data/dl-barmer-
arztreport-2018.pdf]
188
J.M. Twenge, L. Zhang, C. Im, It’s beyond my control: A cross-temporal meta-analysis of
increasing externality in locus of control, 1960-2002, in “Personality and Social Psychology Review”,
8, 2004, pp. 308-319.
189
Per un’analisi approfondita dei rapporti tra élite e forme di vita democratica si veda V. Costa,
Élites e populismo, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2019.
190
D. Harvey, A Brief History of Neoliberalism, cit., p. 42.
191
Vedi a questo proposito le illuminanti pagine di Ch. Lasch, La rivolta delle élite. Il tradimento
della democrazia, cit.
192
J.T. Cacioppo, W. Patrick, Loneliness: human nature and the need for social connection,
Norton, New York 2009. Cfr. R. Stivers, Shades of Loneliness: Pathologies of a Technological
Society, Rowman & Little eld Publishers, Oxford 2004.
193
Il problema del “free rider”, anche se notato più volte, venne sistematizzato per la prima volta
da M. Olson, The Logic of Collective Action, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1965.
194
J. Young, The Exclusive Society, SAGE Publications, London 1999, pp. 9 e ss.
195
Ivi, p. 93.
196
G.H. Sutherland, White-Collar Crime, The Dryden Press, New York 1949.
197
Sulla teoria del “consumo ostentativo” (conspicuous consumption) il riferimento classico è Th.
Veblen, The Theory of the Leisure Class, Oxford University Press, Oxford 2007 [I ed. 1899].
198
R. Agnew, N. Leeper Piquero, F.T. Cullen, General Strain Theory and White-Collar Crime, in
S. Simpson, D. Weisburd (a cura di), The Criminology of White-Collar Crime, Springer, New York
2009, pp. 35-60.
199
M. Cohen, The Costs of White-Collar Crime, in S.R. Van Slyke, M.L. Benson, F.T. Cullen (a
cura di), The Oxford Handbook of White-Collar Crime, Oxford University Press, New York 2016,
pp. 78-98. Secondo l’autore dello studio, l’impatto economico per gli USA della criminalità
comune per il 2012 era stimato in 833 miliardi di dollari, laddove quello dei “crimini nanziari”
superava i 1600 miliardi di dollari.
200
“The voter is thought of as a customer and the politician as a businessman/entrepreneur. The
bureaucracy of General Motors is thought to be attempting to design and sell reasonably good cars
because that is how promotions and pay rises are secured. Similarly, we assume that the
government bureaucracy will be attempting mainly to produce policies which in the views of their
superiors are good because that is how their promotions and pay rises are secured” (G. Tullock,
Public Choice Theory in S.N. Durlauf, L.E. Blume, a cura di, The New Palgrave Dictionary of
Economics Online, Palgrave Macmillan, Basingstoke-Hampshire-New York 2008).
201
Così in J.M. Buchanan, G. Tullock, The Calculus of Consent: Logical Foundations of
Constitutional Democracy, University of Michigan Press, Ann Arbor 1962.
202
W.A. Niskanen, Bureaucracy and Public Economics, Aldine-Atherton, Chicago 1971.
203
J.R. McNeill, P. Engelke, La grande accelerazione. Una storia ambientale dell’Antropocene dopo
il 1945, Einaudi, Torino 2018.
204
Si veda il celebre documento elaborato dal cosiddetto “club di Roma”: D.H. Meadows, D.L.
Meadows, J. Randers, W.W. Behrens III, The Limits to Growth, New York 1972.
205
Per “contraddizione materiale” intendiamo una logica operativa che produce atti, le cui
implicazioni obliterano le premesse che rendevano possibili e motivanti quegli atti stessi.
Sezione sesta
Regimi della ragione liberale

Nella sezione introduttiva al testo abbiamo brevemente discusso l’analisi


foucaultiana della ragione liberale, nel corso della quale è emersa la
nozione di “regime di verità”. Per Foucault un “regime di verità” è
qualcosa di af ne a ciò che si evoca con “ideologia”, con un’importante
differenza: un regime di verità non si limita a interpretare la realtà, ma
contribuisce a crearla, modi cando i criteri con cui essa viene veri cata e
progettata. L’idea di “regime di verità” coglie un tratto importante del
nesso tra storia e verità: nel corso della storia non cambiano soltanto fatti,
opinioni e categorie, ma anche i modi con cui se ne determina la validità, e
dunque le basi su cui si costruiscono le decisioni. Tuttavia il modo in cui
Foucault tratta il nesso tra storia e verità nisce per obliterare l’idea stessa
di verità, facendone qualcosa di strettamente dipendente dalla
contingenza storico-politica.
La prospettiva che vogliamo perseguire qui ha invece alcune af nità, ma
anche essenziali differenze rispetto alla proposta di Foucault. Parleremo
perciò non di “regimi di verità”, ma di “regimi di ragione”, intendendo
con ciò un sistema di motivazioni e giusti cazioni che dà sì forma a
pratiche sociali reali (e in questo senso non è mera “sovrastruttura”), ma
che non esclude la possibilità di formulare giudizi veri non compromessi
con un contingente “regime di verità” (con un sistema prevalente di
giudizi). La visione liberale (neoliberale) oggi dominante è certamente un
insieme di regimi di ragione, di microsistemi concettuali, dotato di
un’unità di fondo, che consente di concepirla come un regime nel suo
complesso. I regimi della ragione liberale non si limitano a rivestire la
realtà con una gabbia interpretativa, ma creano opzioni categoriali,
apparentemente opposte, che de niscono il campo di gioco in cui una
ricerca di orientamento appare possibile.
La differenza tra un’ideologia e un regime di ragione può essere espressa
nei seguenti termini. Se chiamiamo “ideologie” cose come
l’individualismo o l’edonismo, vediamo che esse si pongono come
rivendicazioni di un estremo in una dicotomia (individuo vs. collettività,
piacere vs. dovere). Ma proprio questa dichiarata parzialità ne de nisce
l’essenziale precarietà. Nessuna vita riesce a essere governata af dandola
esclusivamente a uno dei poli di queste parzialità: l’individualista più
accanito verrà di volta in volta a patti con le esigenze altrui, l’edonista più
coerente farà di quando in quando spazio a istanze di “dover essere” che
non ne massimizzano il piacere. In generale quelle ideologie parziali si
limiteranno ad accentuare comparativamente alcuni aspetti della realtà
rispetto a quelli opposti, ma non elimineranno mai quell’opposizione, la
abiteranno.
Un regime di ragioni è invece un sistema che de nisce il tipo di
opposizioni che verranno prese in considerazione. In un regime di ragioni
le categorie sono strutturate in modo tale da predisporre l’intero spazio di
oscillazione concettuale disponibile. Per esaminare un regime di ragioni
non basta, come per un’unità ideologica, discutere i vantaggi comparativi
di un estremo concettuale su di un altro (es.: dell’etica del dovere rispetto
all’etica del piacere), ma bisogna mostrare cosa viene lasciato fuori da quel
gioco di opposizioni tra estremi categoriali. Per ragioni metodologiche che
qui non possiamo esaminare, l’analisi fenomenologica, supportata da
quella storico-genealogica, consente di portare a galla le parzialità dei
regimi di ragione, anche quando essi sono dominanti nella propria
epoca206.
Questa è la natura dei regimi della ragione liberale che cercheremo ora
di tratteggiare.

26. Ragione liberale e obiettivismo naturalistico


26.1 L’ascesa della Tecnica e l’ipostasi del mezzo
Nella ri essione loso ca del Novecento ha rivestito un ruolo
importante un’interpretazione dello sviluppo storico in cui occupa
posizione centrale la “Tecnica” o “Tecnologia”, vista come una sorta di
fattore destinale, un fato storico che de nisce le forme di sviluppo
ancorandosi a una “volontà di potenza” della specie umana. Con
differenze rimarchevoli, ma anche con sostanziali comunanze, troviamo a
sostegno di questa visione Adorno e Horkheimer, nella loro Dialettica
dell’Illuminismo, ma soprattutto Martin Heidegger, e autori da lui ispirati
come Herbert Marcuse, Günther Anders ed Emanuele Severino. In
questa prospettiva il capitalismo, e i suoi processi socialmente
degenerativi, sono stati letti come una sorta di effetto collaterale del
processo di progressiva dominazione tecnologica, di assoggettamento, di
volontà di dominio da parte del soggetto. La Tecnica viene posta al centro
della vicenda storica, come agente, dislocando l’Economia e la Società in
posizioni dipendenti e accessorie. Non entriamo qui nelle speci cità delle
varie posizioni, che meriterebbero una ri essione più approfondita. Ciò
che ci interessa rilevare è solo l’esistenza di questa ispirazione
complessiva, che pone al centro dello sviluppo storico il dominio
tecnologico come processo destinale e crescente.
Alla luce del percorso fatto (e di analisi svolte in lavori precedenti)
crediamo indispensabile prendere le distanze in modo quali cato da
questa interpretazione. Questa prospettiva, in effetti, oltre a spiacevoli
implicazioni fatalistiche, presenta seri limiti di analisi. Qui la tecnica (o
tecnoscienza) appare come incarnazione di un impulso umano dominante
(la nietzscheana “volontà di potenza”), rispetto cui ogni altro valore, ogni
altra preferenza o inclinazione arretrano o soccombono. Si tratta di una
lettura coerente con la visione nichilistica di Nietzsche, dove l’unico
“motore assiologico” dell’uomo è appunto la volontà di potenza, che è
acquisizione di una capacità di fare non subordinata a nessun ne da
perseguire. In questa prospettiva, la pulsione all’acquisizione e al dominio,
propria dell’uomo, si incarnerebbe nella tecnoscienza moderna, che poi a
sua volta alimenterebbe le forme dell’economia capitalista. In questo
quadro si assume ab origine un soggetto umano con tratti che ricordano
curiosamente l’antropologia hobbesiana: aggressivo, assoggettante,
acquisitivo.
Ora, però, non è facile vedere per quali ragioni tra le varie pulsioni che
la psicologia, l’antropologia o la biologia assegnano all’uomo, la “volontà
di potenza” debba assumere un pro lo così unilateralmente dominante. In
numerosi contesti storici e antropologici, che non siano gli ultimi quattro
secoli in Occidente, troviamo spinte di tipo gregario, affettivo,
riproduttivo, religioso ecc. che sembrano ef cacemente contendere la
priorità alla pulsione verso il dominio e il potere. Per quale motivo con la
nascita della ragione liberale quest’ultima pulsione debba diventare il
dominus incontrastato della storia è francamente poco motivato, tanto se
ci si appella naturalisticamente a “pulsioni innate” (Nietzsche) che se ci si
appella meta sicamente a “errori originari” (Heidegger).
Nel quadro che abbiamo presentato, il nuovo accreditamento sociale
della tecnoscienza si intende alla luce della sua convergenza funzionale
con le esigenze di riconoscimento individuale e con la maturazione della
pratica monetaria. La “visione scienti ca del mondo” può essere perciò
vista sotto due pro li molto differenti.
Da un lato essa appare come la più ef ciente forma di cui disponiamo
per apprendere e manipolare nessi di causa ed effetto. Sotto questo
pro lo la tecnoscienza rimane subordinata alle speci che nalità cui tale
apprensione voglia essere applicata. Così intesa, la visione scienti ca del
mondo non assume alcun posizionamento ontologico, e non si sovrappone
a nessuna sfera assiologica.
Accanto a questa visione ne troviamo una seconda, più propriamente
ontologica, dove la visione scienti ca del mondo comporta la credenza in
una forma di monismo naturalista, dove il mondo si presenta come una
collezione di cose disponibili, di oggetti sici privi di connotazioni
valoriali e semplicemente assoggettabili. È questa seconda visione che si
associa strutturalmente all’espulsione di tutti i tratti intenzionali e
assiologici dal mondo (dall’ontologia). La pratica scienti ca non ha alcun
bisogno di trasformarsi in ontologia, tantomeno in un’ontologia
obiettivista e riduzionista. Questo secondo passaggio è però proprio
quello che caratterizza quegli approcci loso ci e ideologici che
ipostatizzano unilateralmente una visione scienti ca del mondo.
Non è dunque la tecnoscienza (Tecnica, Tecnologia) in quanto tale a
rappresentare un problema, bensì la sua collocazione come chiave di
lettura ontologica, come visione onnicomprensiva e dominante del
mondo. L’ascesa della tecnoscienza a questo statuto ontologico segue da
vicino l’ascesa al potere della ragione liberale. In questo processo
troviamo due meccanismi di rinforzo fondamentali.
A) In primo luogo, il dominio sul sapere tecnologico conferisce potenza
economica, e la potenza economica a sua volta condiziona il
riconoscimento intersoggettivo. All’avvio della Rivoluzione industriale il
potere militare (navale) dell’Inghilterra gioca un ruolo determinante nella
sua capacità di espansione economica mondiale. L’Inghilterra divenne poi
“of cina del mondo”, accelerando i processi di capitalizzazione in
maniera precedentemente sconosciuta, sulla scorta della capacità di
giovarsi dello sviluppo tecnologico in un contesto di libertà economica. Il
semplice sviluppo scienti co, in Francia o nei paesi di lingua tedesca, pur
non avendo niente da invidiare a quello britannico, non si combinò
inizialmente con le istanze politiche ed economiche della ragione liberale,
e perciò non determinò in prima battuta né uno sviluppo capitalistico, né
una visione ontologica modellata sulle scienze della natura.
Con il nesso strutturale tra “progresso tecnologico” e “progresso
economico” si veri cò un accrescimento dello status, del riconoscimento
pubblico, conferito alla visione tecnoscienti ca, sempre più associabile al
“successo”. Nella seconda parte del Novecento questo processo di
accreditamento del progresso tecnoscienti co in chiave economica si è
manifestato nella spinta crescente a orientare gli studi verso indirizzi
“STEM” (Science, Technology, Engineering & Mathematics), con il
con uire di incentivi e nanziamenti in quella direzione.
B ) In secondo luogo, risulta decisiva la trasvalutazione dei mezzi in ni
prodotta dall’imporsi della pratica monetaria capitalistica. Come
dicevamo poc’anzi, non c’è niente sul piano operativo o epistemologico
che spinga la tecnoscienza a dislocarsi dalla sua posizione naturale di
“sapere rivolto alla conquista di mezzi” verso l’impropria posizione di
“visione ontologica”, di “giudizio vero sulla realtà nel suo complesso”.
Questo slittamento tuttavia si comprende se lo si legge alla luce del
tendenziale rovesciamento mezzi- ni che caratterizza l’imporsi delle
moderne dinamiche di capitale. Come abbiamo detto, il sistema di
produzione capitalistico funziona ponendo al centro della sua sfera di
obiettivi l’incremento del capitale in quanto tale, mentre ogni altra pratica
viene riclassi cata come mezzo o accessorio in vista di un incremento di
capitale. Non è l’uomo a usare l’economia, ma l’economia a usare gli
uomini. Non sono nalità elaborate dagli uomini a cercare
soddisfacimento attraverso la conquista di adeguati mezzi, ma è la
conquista dei mezzi a divenire l’unica nalità condivisa. In questa cornice
la tecnoscienza si accredita come “mezzo universale” nella stessa misura in
cui lo fa il capitale. Come nello spazio degli incentivi il mezzo universale
del capitale si trasforma in unica nalità condivisa, così la tecnoscienza
come mezzo universale si trasforma in orizzonte ontologico condiviso.
Nella società liberale la discussione intorno alla sfera dei ni, e al senso
complessivo della realtà, viene privatizzata, concepita come una
dimensione che non può accedere alla condivisione universale, e che in
certo modo è persino pericoloso o inappropriato tentare di argomentare.
Ciò lascia al riconoscimento intersoggettivo la sola dimensione
assiologicamente neutra della conquista dei mezzi: dunque del denaro e
della tecnica.
Questi due meccanismi (A e B) conferiscono prestigio al dominio
tecnoscienti co, e rendono la “conquista dei mezzi” il principale luogo di
convergenza degli accordi intersoggettivi, e dunque anche del
riconoscimento reciproco. Insieme sospingono la visione tecnoscienti ca
dalla sfera della conquista dei mezzi alla sfera delle verità ultime,
dell’ontologia e dell’assiologia. Senza questo nesso tra scienza e sviluppo
scocioeconomico non si comprenderebbe lo speci co processo di
conferimento di valore alla tecnoscienza, che emerge in dipendenza dal
ruolo giocato nella sfera del riconoscimento sociale. Invece nel modello, di
ispirazione nietzscheana, che pone la Tecnica come una sorta di entità
autonoma destinale, il “soggetto” non è il soggetto umano socializzato. Si
tratta di un soggetto immaginario, simile al soggetto hobbesiano, la cui
“volontà di potenza” si esprimerebbe come istinto primario, inerente in
ciascun individuo isolatamente preso.
26.2 Naturalismo loso co e stilemi analitici
La visione ontologica che corrisponde alla trasformazione del mondo in
una collezione di mezzi qualitativamente neutrali è il “naturalismo
sicalista”. Questa visione presenta il mondo come una sommatoria di
“cose”, dove le cose stesse non hanno essenzialmente alcuna qualità che
non sia idealmente riducibile a quantità. Il soggetto stesso in questo
quadro viene ridotto tendenzialmente a cosa tra le cose, anch’esso di
principio determinato e quanti cabile. Questa visione emerge inizialmente
come modello di supporto a una metodologia volta a cogliere nessi
reiterabili, regolarità, ordinamenti prevedibili e computabili. Sono queste
esigenze metodologiche a motivare l’elisione delle componenti
irriducibilmente qualitative, o non reiterabili, dal novero dei fenomeni
scienti camente rilevanti. La scienza mira a isolare un sistema di relazioni
causali determinate e quantitative, per essenza predisposte a essere
calcolate, che si stagliano in un universo dove vigono leggi inderogabili.
La visione naturalistica del mondo è la traduzione ontologica (non
necessaria) di quell’ef cace approccio metodologico. Come ho provato ad
argomentare in lavori precedenti207, questa visione è insostenibile sul
piano fenomenico ed esperienziale, ma deve la sua autorevolezza proprio
al fatto di immaginare un mondo naturalmente disposto a essere asservito.
Nel mondo reale incontriamo costantemente qualità irriducibili, decorsi
irregolari, signi cati, intenzioni, nalità, pensieri ecc., tutte “cose” che
non sono affatto cose, non sono quanti cabili, né subordinabili a leggi di
natura. Ciò non toglie che, sotto condizioni socialmente adatte, noi
possiamo divenire ciechi all’esperienza e assumere come evidente
un’ontologia di quantità adiafore che travalica ogni esperienza possibile.
Il naturalismo sicalista è una forma di obiettivismo, ovvero una visione
ontologica dove vi sono solo oggetti senza un soggetto (o dove il soggetto
è concepito come oggetto tra oggetti). Questa visione pone una gerarchia
di autorevolezza al cui vertice sta ciò che è prodotto seguendo i criteri di
accreditamento propri delle scienze della natura. Le implicazioni della
predominanza di quel modello sono molteplici, e implicano una caduta in
discredito di tutto ciò che si distanzia dalla rappresentazione sicalista,
quanto più se ne distanzia. Dunque le dinamiche del vivente sono viste
come meno “vere” di quelle della materia sica, le dinamiche della
coscienza meno di quelle del vivente, e ogni prospettiva di tipo
trascendentale o trascendente è massimamente screditata. In sostanza
l’animale, l’umano e il divino, le tre forme principali della concezione
della soggettività nella tradizione occidentale, sono marginalizzate sul
piano ontologico e, quanto più lontane dalla rappresentazione sica, tanto
più marginalizzate.
Questo processo di accreditamento assiologico dell’ontologia
tecnoscienti ca ha preso piede anche nella ri essione loso ca, in
particolare negli sviluppi di ciò che viene chiamata, con una certa
approssimazione, “ loso a analitica”. Sotto questa classi cazione si
muove oggi una vasta pluralità di ri essioni, temi, e approcci, che rende
tutt’altro che univoca l’identi cazione di un “paradigma analitico” in
senso stretto208. Tuttavia, alcuni tratti prevalenti sono individuabili, anche
al variare nel tempo dell’estensione di ciò che va sotto il nome di “ loso a
analitica”. Ne possiamo elencare essenzialmente tre:
1) l’idea che la base preferenziale di evidenze da cui partire per
l’elaborazione loso ca sia rappresentata dai risultati della ricerca
scienti ca corrente;
2) l’idea che la correttezza logico-formale delle espressioni sia un requisito
imprescindibile nella produzione delle argomentazioni;
3) l’idea che il sapere loso co possa progredire, come quello scienti co,
attraverso un accumulo di saperi elaborati localmente da una pluralità di
esperti.
Questi stilemi sono tutt’altro che privi di ripercussioni problematiche
per l’indagine loso ca, e val la pena di esaminarli partitamente in breve.
1) Il naturalismo non ha fatto sempre parte dell’impianto prevalente
della “ loso a analitica”, per quanto inizi ad affermarsi precocemente (nel
positivismo logico) e si consolidi con il lavoro di Quine. La prospettiva
naturalistica subordina di fatto la ricerca loso ca allo stato dell’arte
corrente nella ricerca scienti ca. E questo non sarebbe un problema, se
intenti e metodi delle scienze della natura fossero gli stessi dell’indagine
loso ca. Così però non è. La prima cosa da osservare è che di fatto non
esiste il linguaggio della scienza, e che le diverse scienze presentano
paradigmi e concetti fondamentali spesso incompatibili. Non esiste il
modo generalmente scienti co di rappresentare il mondo. Esistono modi
di rappresentare il mondo sotto una prospettiva sicalista, o sotto una
prospettiva biologica, o economica, o psicologica; e invero anche al loro
interno ciascuna di queste prospettive presenta divergenze di visione
spesso rilevanti. Non esiste un modo coerente di rappresentare il mondo
dove convivano unitariamente gli atti volontari presupposti dalla
psicologia, gli istinti animali descritti dalla biologia, le leggi causali
descritte dalla sica, le realtà storiche descritte dall’economia o dalla
sociologia o dall’antropologia ecc.
Il fatto che la molteplicità delle scienze non consenta automaticamente
una rappresentazione scienti ca unitaria del mondo è stato già rilevato più
volte. Per superare questa dif coltà il neopositivismo aveva tentato la
strada di una riduzione ideale di tutte le concettualità scienti che a una
sola, quella sica, in quanto la sica descrive le “cose elementari” in un
mondo concepito come collezione di “cose composte”. Questa strada
rimane la sola che sia in grado di produrre una coerente “immagine
scienti ca del mondo” e un linguaggio scienti co comune. Tale coerenza
però è pagata a caro prezzo, con la riduzione di ogni struttura concettuale
a un modello preferenziale, quello sicalista appunto. Una volta operata la
riduzione al paradigma sicalista, dall’ontologia spariscono senza
remissione entità quali intenzioni, istinti, preferenze, signi cati, e la storia
stessa (un mondo di leggi necessarie non è compatibile con un mondo che
abbia davvero una storia).
Inoltre, cercare di poggiare radicalmente il sapere loso co sui risultati
delle scienze della natura porta a situazioni concettualmente aporetiche,
come il tentativo di “naturalizzare l’epistemologia”, che equivale a
considerare i risultati della scienza come fondativi dei metodi e dei
paradigmi che portano alla luce quei risultati stessi. Questa prospettiva,
che pure ha avuto autorevoli sostenitori, come W.V.O. Quine209, sfocia in
una situazione strutturalmente paradossale e in ultima istanza
insostenibile.
2) La seconda tendenza analitica, ovvero quella di conferire un
particolare privilegio all’analisi linguistica e speci camente ai moduli
argomentativi di tipo logico-formale ha aspetti fecondi e aspetti
problematici. Da un lato, questa tendenza contraddistingue la loso a
analitica nella sua ricerca di chiarezza espressiva e pulizia concettuale,
intento che non può che essere visto con favore in ogni attività di
argomentazione razionale. Non di rado questo sforzo produce esiti molto
pro cui, alimentando forme di prosa perspicua e illuminante. Al tempo
stesso, tuttavia, questo approccio tende talvolta a sclerotizzare le
potenzialità espressive del linguaggio, giacché il presupposto logico-
formale della perfetta univocità (un segno, un signi cato) è assai lontano
dal funzionamento di ogni linguaggio naturale. L’evoluzione interna del
pensiero di Wittgenstein, dal Tractatus (tra le opere più in uenti della
loso a analitica alle origini) alle Ricerche loso che, mostra precisamente
un percorso di presa di coscienza dell’insuf cienza delle pretese della
formalizzazione.
La propensione ad adottare come preferenziali canoni espressivi di tipo
logico-formale ha rappresentato una tendenza molto diffusa in ambito
analitico. Tale tendenza ha due implicazioni dannose. Essa irrigidisce le
forme espressive di chi scrive, paradossalmente riducendone spesso la
comprensibilità, e in secondo luogo, impone un atteggiamento censorio,
spesso poco fecondo, nei confronti di forme espressive loso che che non
si attagliano a tali schematismi espressivi. Quest’ultima tendenza è
catturata in modo esemplare dal celebre tentativo di “refutazione logica”
del testo di Heidegger Was ist Metaphysik? prodotto da Rudolf Carnap210.
Per quanto il testo di Heidegger possa essere criticato in vari modi, è
ridicolo negare che abbia un contenuto loso camente assai signi cativo.
E ritenere possibile la delegittimazione a priori di un testo per il mancato
rispetto di alcuni canoni logico-formali conduce a un estremo
impoverimento del discorso loso co.
3) La terza tendenza è probabilmente quella più pericolosa per il senso
stesso della pratica loso ca. L’idea di poter trasporre formati e modalità
di fare ricerca propri delle scienze della natura in ambito loso co211
appare pesantemente controproducente. Lo stile di elaborazione analitico
tende, proprio come la moderna ricerca scienti ca, a svilupparsi
attraverso un frazionamento di campi, per specializzazioni che producono
un linguaggio settoriale interno e che de niscono classi di problemi
uf cialmente riconosciuti come tali, cui dedicarsi. In quest’ottica la forma
prediletta del “gioco analitico” diviene quella del testo breve, dell’articolo
dedicato a un “problema di area” con una sua tradizione accademica, una
letteratura riconosciuta ecc. Questa forma ha peraltro anche il non
trascurabile pregio di essere agile, poco costosa nella diffusione, di rapida
fruizione. La conoscenza loso ca viene così concepita come qualcosa che
può essere prodotto per sommatoria di ricerche individuali, secondo il
sistema della divisione del lavoro.
Questa tendenza, che imita gli stilemi delle scienze della natura, produce
effetti distorsivi.
In primo luogo, essa trasforma la loso a in una disciplina altamente
settoriale che si preclude lo sbocco nella παιδεία o nella Bildung, cioè
nella formazione umana e culturale dei cittadini. Così facendo viene
sottratto alla pratica loso ca uno dei suoi tratti storicamente più
rilevanti. Da Socrate a Sartre la loso a ha sempre operato con l’intento
(anche) di educare, istruire, guidare e orientare l’uomo: non il collega di
dipartimento, non l’accademico o lo specialista, ma l’uomo (o almeno
l’uomo colto). La rinuncia di fatto a questa dimensione è un mutamento
di codice genetico nell’impresa loso ca, che ne oblitera il senso storico.
In un recente volume il losofo analitico Diego Marconi mostra piena
consapevolezza di questa tendenza, e la rivendica. Egli riconosce che la
loso a sia di fatto “in buona parte sparita dall’orizzonte delle persone
colte”212, ma questo a suo avviso sarebbe inevitabile, in quanto nessuno
potrebbe oggi occuparsi di “ loso a” in quanto tale, proprio come
nessuno scienziato si occupa oggi di “ sica” o “biologia”, ma solo di aree
speci che al loro interno213. Il losofo perciò non ha più l’ambizione di
costruire cattedrali o di progettare città ideali, ma “fabbrica armadi e
poltrone, scarpe e gioielli, al pari dei tanti altri membri della vasta
comunità a cui appartiene”214. Questa visione ha l’evidente virtù di essere
al passo con i tempi: si concepisce la loso a non più come ri essione
sull’intero (il mondo, la vita), ma come una specializzazione intellettuale
accanto ad altre, che all’interno di un sistema di divisione del lavoro
produrrebbe chiari cazioni concettuali locali, in formati agili e poco
onerosi. È insomma un modo per concepire la loso a come una
rispettabile attività artigianale, integrata in un sistema di cui è parte
funzionale, senza più la pretesa di comprenderlo ( guriamoci
correggerlo). Il problema è che, per quanto nessuno dubiti delle ottime
intenzioni e della perfetta buona fede di chi sostiene queste tesi, esse
implicano semplicemente l’estinzione della loso a come tentativo di
confronto razionale con il tutto, di orientamento nella vita, nella storia, nel
mondo, trasformandola in un prodotto di intrattenimento intellettuale di
nicchia, accanto a rebus e cruciverba.
Ma perché mai la loso a, se ripercorre le orme della specializzazione
scienti ca, è condannata a ridursi a intrattenimento intellettuale? La
ragione è semplice quanto fondamentale. La specializzazione scienti ca
consente davvero di estendere il dominio su serie causali complesse a
partire dal dominio di nessi causali locali. In questo modo le “conoscenze
locali” di un’investigazione scienti ca possono spesso unirsi ad altre
“conoscenze locali”, contribuendo alla crescita di una conoscenza più
estesa. Questo processo tuttavia semplicemente non ha luogo per verità
concernenti “unità di signi cato”. Nel caso delle indagini su unità di
signi cato (diversamente da quelle sui nessi causali), l’accuratezza locale è
soltanto uno degli aspetti rilevanti per l’afferramento del “vero”. Almeno
altrettanto importante è la capacità di dare conto in modo comprensivo
dell’intero di cui le analisi locali sono parti. La natura del signi cato (come
riconosce ad esempio Donald Davidson) è olistica. Perciò pensare che
un’immagine intelligibile del mondo possa emergere da una
giustapposizione cumulativa di soluzioni parziali a problemi disgiunti è
semplicemente privo di senso. La parcellizzazione delle questioni crea una
molteplicità di vere e proprie “tradizioni locali”, con relativi idioletti, una
“scolastica” i cui risultati (diversamente in ciò dai risultati delle scienze
della natura) non possono essere senz’altro trasposti e composti. In
loso a ciascun “risultato” è il frutto speci co del tipo di argomentazione
di cui è risultato, e senza una comprensione del processo argomentativo a
monte non si comprende affatto il senso del risultato. Ciò non è vero per
le verità tecnoscienti che (nella misura in cui non abbiano pretese
ontologiche), giacché una volta identi cato un nesso causale, questo può
essere manipolato anche da chi nulla conosce del percorso fatto per
portarlo alla luce. In questo senso, all’elaborazione tecnoscienti ca è
possibile lavorare attraverso una parcellizzazione dei compiti e una
divisione del lavoro, all’elaborazione loso ca no.
La metamorfosi cui tende la ri essione loso ca con l’adesione al
naturalismo, con la formalizzazione linguistica, con la perdita di interesse
per la formazione generale, è qualcosa che se fosse condotto senza remore
porterebbe rapidamente all’estinzione quella forma culturale speci ca che
è stato il sapere loso co. Fortunatamente il panorama di ciò che va sotto
il nome di “ loso a analitica” è assai variegato, e le tendenze segnalate qui
sopra sono tutt’altro che totalizzanti.
È tuttavia importante vedere come il movimento di diffusione dei
paradigmi tecnoscienti ci sul piano ontologico e loso co in generale sia
potenzialmente latore di un degrado profondo. La diffusione di un
paradigma naturalista ha creato la più straordinaria trasformazione nella
percezione comune prodotta nel corso della storia umana: l’universo è
stato sistematicamente depauperato di tutto ciò che vi conferiva senso,
lasciando dietro di sé solo uno scheletro di leggi e nessi causali. Il
processo di secolarizzazione (la cosiddetta “morte di Dio”) è solo uno,
anche se il più visibile, degli elementi di questa trasformazione. In
generale, sono rimaste a presidiare l’ontologia solo quelle proprietà che si
ritenevano estranee alla soggettività (le “qualità primarie” di Locke e i
loro aggiornamenti): posizioni spaziotemporali, lunghezze, super ci,
volumi, velocità, accelerazioni, masse. Nel mondo naturalizzato la vita, la
coscienza, la nalità, il signi cato, il progetto, il sacro sono stati posti
come dimensioni marginali e illusorie, come qualcosa che, anche se non
ancora ridotto a descrizione sicalista, sarebbe destinato di principio a
esserlo. Inutile rimarcare come tale processo non possa che incidere
profondamente nelle forme di vita e negli orizzonti etici dei soggetti
contemporanei.
Il nesso tra questi sviluppi e l’imporsi della ragione liberale non è
immediato, e tuttavia è ben comprensibile. Il modo più intuitivo per
vederlo è scorgere il progresso parallelo dell’imporsi della ragione liberale
e degli stilemi tecnoscienti ci che abbiamo descritto sopra. Storicamente
la punta avanzata di questo sviluppo è stata la tradizione anglosassone. Il
liberalismo inizialmente fu identi cato non a caso come una sorta di
loso a nazionale inglese, e al suo anco si svilupparono il naturalismo
nella sua forma empiristica e poi il pragmatismo americano. Ciò che
prenderà il nome di “ loso a analitica” nella temperie culturale generata
dalla Seconda guerra mondiale, venne inizialmente concepita da Russell
come una “ loso a britannica” in opposizione alla “ loso a
continentale”215.
Naturalmente né l’esistenza di tendenze culturali prevalenti in una
tradizione speci ca, né il nesso con gli sviluppi economico-sociali del
capitalismo industriale avanzato comportano di per sé alcun discredito: la
produzione loso ca empirista, naturalista, e pragmatista, di prevalente
ispirazione anglosassone, presenta testi di grande spessore e rimarchevole
interesse. Ciò che vogliamo qui notare è solo l’atmosfera comune che
abbraccia questa produzione intellettuale e che crea, quali che siano le
intenzioni, un sistema di supporto implicito alla ragione liberale. La visione
del mondo “disanimata” e obiettivistica del naturalismo sostiene la visione
strumentale del mondo propria del liberalismo. Al contempo,
l’obiettivismo naturalistico, l’approccio tecnoscienti co, l’economia
neoclassica, e il paradigma dominante in loso a analitica sono
accomunati tutti dall’abbandono della chiave di lettura storica. In tutti
questi orientamenti culturali la storia appare come marginale o assente.
Attraverso questi approcci la tradizione liberale cancella le proprie tracce
storiche proponendosi (e imponendosi) come visione astorica, che perciò
può ambire a porsi come fondata su leggi eterne (come le ferree leggi del
mercato) e insuperabile.
Com’è chiaro, non si propone qui di immaginare che il “naturalismo” o
la “ loso a analitica” o l’“obiettivismo” siano parte di un qualche
“complotto liberale”. Né si tratta di usare una contiguità politica per
screditare un certo strumentario concettuale. Il punto essenziale, l’unico
qui quali cante, è scorgere come alcuni strumenti e orientamenti
concettuali trovino nel sistema di relazioni del mondo liberale condizioni
favorevoli per prosperare. E come tali condizioni si producano in quanto
quegli orientamenti concettuali esprimono una conciliabilità, e un’alleanza
implicita, con le dinamiche dominanti della ragione liberale.

27. Ragione liberale e postmodernismo loso co


27.1 Preambolo
Il parallelismo che abbiamo rintracciato qui sopra tra sviluppo della
ragione liberale e paradigmi di ispirazione tecnoscienti ca potrebbe far
pensare a una necessaria associazione della ragione liberale con un blocco
concettuale omogeneo, un blocco dove troveremo calcolo, determinismo,
ef cienza, volontà di dominio, razionalità. Una simile stretta associazione
tra liberalismo (capitalismo) e tecnoscienza è in effetti opinione condivisa
dalla prospettiva cosiddetta “postmoderna” in loso a. Si tratta, tuttavia,
di un’associazione essenzialmente fuorviante.
Se riandiamo per un momento alle origini seicentesche della ragione
liberale, dobbiamo ricordare che Hobbes la inaugura tracciando una
speci ca divisione del mondo tra soggettività e oggettività: a parte objecti
troviamo la natura così come intesa dalla scienza moderna (rei cata,
deterministica, razionalizzabile con il calcolo); a parte subjecti abbiamo,
come “residuo ontologico”, un’individualità pulsionale, emozionale,
appetitiva. Questa linea divisoria è cruciale. Essa articola il mondo della
ragione liberale creando due spazi ontologici separati, dove ragione ed
emozione, calcolo e valore stanno su piani opposti. Questa cesura non
avviene accidentalmente. Essa è essenziale per poter escludere la
contendibilità razionale dei valori, che è atto costitutivo della ragione
liberale. La dimensione del senso e del valore viene così sin da principio
derazionalizzata, ridotta a mero “sentire”, e posta perciò nell’ambito
dell’interiorità privata. Questa cesura sarà poi quella da cui si genereranno
le classiche opposizioni interne all’Illuminismo e al Romanticismo, e tra di
essi. L’opposizione tra “ragione” e “sentimento” implicava un concetto di
ragione isolata dalla sensibilità, dall’emozione, dalla preferenza e dal
valore, dunque una ragione che niva fatalmente per ridursi a una forma
di calcolo (si pensi all’ideale leibniziano di poter risolvere le controversie
semplicemente “sedendosi e calcolando”)216. Simultaneamente, la
dimensione assiologica residua veniva ridotta a qualcosa di arazionale (e
spesso di orgogliosamente irrazionale), esistente in una sfera sentimentale
intima e privata. Questa linea oppositiva è funzionale all’edi cio della
ragione liberale, così come lo abbiamo esaminato: i soggetti individuali
vivono la sfera del valore come qualcosa di inattingibile alle ragioni
pubbliche e di strettamente privato; e ciò produce di rimando una società
che non può essere niente più che una sommatoria di individui e di
relazioni negoziali basate sul calcolo (costi e bene ci personali).
È per queste ragioni che la ragione liberale non va affatto sovrapposta
all’obiettivismo naturalista, che pure ne rappresenta un lato essenziale.
Fondamentale per lo sviluppo della ragione liberale è leggere il mondo
come risolto nel gioco oppositivo tra obiettivismo naturalista e
soggettivismo emotivista, tra durezza della ragione tecnoscienti ca e
mollezza dell’interiorità sensibile. La ragione liberale non è identi cabile
con la “ragione” contro il “sentimento”, né con la durezza delle hard
sciences di contro alla mollezza dell’intimismo emotivista, ma proprio con
questa opposizione complementare. Tale opposizione astratta, lungi
dall’essere onnicomprensiva, delegittima dati fenomenologici primari: essa
cancella la continuità tra sfera del ragionamento e sfera senziente, così
come quella tra valore e realtà, e come la continuità fondamentale tra
dimensione individuale e dimensione intersoggettiva.
Questo breve preambolo ci permette di comprendere meglio il fatto,
apparentemente paradossale, per cui forme ri essive viste spesso come
opposte, quali il naturalismo scienti co (e in parte la loso a analitica) e
la ri essione loso ca postmoderna aderiscano entrambe in misura
signi cativa al paradigma fondante della ragione liberale.
27.2 Il postmodernismo loso co e il ’68 francese
Mentre la ri essione di matrice analitica si è sviluppata prevalentemente
in area anglosassone, il “postmodernismo” loso co si è sviluppato
essenzialmente in area francese. In questo secondo caso, tuttavia, si tratta
di uno sviluppo culturale molto più circoscritto temporalmente, e
strettamente legato a eventi storici particolari. È dif cile pensare
all’evoluzione, e soprattutto al successo, del postmodernismo in
un’atmosfera culturale differente da quella che succede al Maggio ’68.
Con la sola eccezione di Foucault, che sviluppa i tratti di fondo della sua
ri essione già in precedenza, per tutti i maggiori rappresentanti del
cosiddetto postmodernismo loso co il ’68 rappresenta un punto di
svolta, qualcosa che incide in maniera decisiva sulla loro elaborazione, e
sull’eco della loro opera.
Dal punto di vista del retroterra loso co generale, il panorama francese
degli anni ’60 era fortemente in uenzato dalla gura di J.-P. Sartre, che ne
dava un’impronta soggettivista, storicista e politicamente impegnata. In
questo senso l’estraneità della maggior parte della cultura loso ca
francese ai modelli di ri essione naturalistici e tecnoscienti ci è un tratto
dominante di quel contesto. Il ’68 crea una cesura nell’intellighentsia
francese su due fronti. In primo luogo emerse l’inadeguatezza
dell’ortodossia sovietica del Partito Comunista Francese, cui gran parte
dell’intellighentzia francese (a partire da Sartre) aveva dato credito, e che
si dimostrò incapace di cogliere e orientare i fermenti innovativi presenti
nel movimento studentesco. In secondo luogo, il fallimento stesso di
quella “quasi-rivoluzione” che è stata il ’68 produsse un ri usso, disilluso
circa la possibilità di “superare il capitalismo” attraverso le chiavi
interpretative precedenti, informate dal marxismo. Queste condizioni
storiche generali forniscono le motivazioni per una teorizzazione che,
nonostante ovvie differenze individuali, presenta un’omogeneità di fondo
su temi caratterizzanti.
Il nucleo fondamentale della ri essione postmoderna in loso a può
essere ef cacemente riassunto prendendo in considerazione le posizioni
dei suoi autori più rappresentativi: Foucault, Deleuze, Lyotard, Derrida e
Baudrillard. In questi autori il “soggettivismo” e “storicismo” che
caratterizzavano le posizioni sartriane, e in generale l’in usso
fenomenologico-marxista, vengono destrutturate o senz’altro
abbandonate, portando a una dissoluzione del soggetto e a una
fondamentale s ducia nel senso storico. L’antiscientismo diviene ora
senz’altro un rigetto del razionalismo. Mentre tanto la soggettività
fenomenologica che quella hegelo-marxiana permettevano di descrivere lo
sviluppo di forme razionali nella storia e di sostenere tesi con pretese di
verità, tutto questo viene meno nella ri essione postmoderna. Storia,
soggettività, verità, essenza, identità, umanità, Stato, società, valore,
autenticità vengono tutti erosi e dissolti in una pluralità di teorizzazioni
che ne dichiarano variamente la ne. La dimensione soggettiva rimane
operante, ma solo come soggettivismo negativo, cioè come ri uto
dell’oggettività e dei suoi criteri. La dimensione storica rimane operante,
ma solo nella forma negativa di un ri uto della stabilità e di un appello alla
relatività.
27.3 Foucault
Questi tratti si trovano nella loro forma più chiara (e anche meglio
argomentata) nell’opera di Michel Foucault. Come noto, Foucault è un
losofo sui generis, in quanto rifugge per lo più da analisi generali e fonda
le sue argomentazioni sulla disamina di speci che circostanze storiche. E
tuttavia la Storia, nel senso di Weltgeschichte, Storia Universale, per
Foucault non esiste più: non vi si cercano più ricorrenze categoriali, ma
eventi particolari, non più continuità razionali di lungo periodo, ma
fratture contingenti217. Va subito osservato come le critiche che sono state
spesso mosse a una “logica storica” di matrice hegeliana, cioè il fatto di
operare attraverso completamenti razionali che travalicano il dato, possono
essere parimenti mosse alle argomentazioni genealogiche di Foucault.
Invero, è stato fatto notare più volte come sul piano lologico molte delle
osservazioni storiche di Foucault siano contestabili218, ma tali
contestazioni lologiche hanno incontrato di solito scarso interesse nel
losofo francese; tale disinteresse però risulta giusti cabile solo in una
cornice che identi chi “ragioni profonde” negli eventi storici, ragioni
irriducibili ad accidentalità particolari degli eventi. Se la storia venisse
davvero compiutamente “derazionalizzata”, allora anche quella forma di
storia alternativa che sono i resoconti genealogici foucaultiani verrebbe
trascinata a fondo insieme alla Weltgeschichte hegeliana.
Questo problema non sembra risolvibile nella cornice di pensiero
foucaultiana, per due ordini di motivi. Non è risolvibile innanzitutto
perché Foucault nega esplicitamente alla storia tanto la presenza di nalità
immanenti che quella di una qualche unità di coscienza, come sarebbe
quella de nita leggendo la storia a partire da un’idea di umanità. E in
secondo luogo non è risolvibile perché la stessa idea di una verità con
pretese di obiettività è negata da Foucault: ogni giudizio è “storico” nel
senso di essere de nito dalle strutture sociali di potere contingentemente
in vigore. In questo quadro l’idea che sia possibile produrre genealogie
storiche con pretese di verità sembra rapidamente disfacersi.
Insieme alla storia e alla verità è l’idea stessa di soggetto dotato di
un’identità a venir messa radicalmente in crisi da Foucault. Non è soltanto
l’autorialità degli autori (pensatori, scrittori ecc.) a essere messa in
discussione219, ma proprio l’idea di agente razionale dotato di una propria
identità. Questa posizione si estende a una critica radicale all’idea stessa di
umanità e di natura umana220.
È importante vedere come operino insieme queste idee sulla mancata
obiettività del vero, sulla mancata razionalità dello storico e sulla mancata
identità del soggetto. In prima battuta, sotto queste premesse, ogni
giudizio (ogni pretesa di conoscenza) non può che presentarsi come il
semplice esito di rapporti di potere. L’esercizio del potere però di per sé
non sembra poter essere giudicato come “buono” o “cattivo”, poiché non
c’è alcuna verità morale né alcuna essenza umana cui esso possa
appellarsi. Dunque ogni esercizio di potere e ogni categorizzazione che vi
prelude sono innanzitutto posti come parimenti ingiusti cabili e
illegittimi. Da ciò emerge quella propensione di fondo nella ri essione di
Foucault verso la rilegittimazione o emancipazione di tutte le forme di
soggettività tradizionalmente marginalizzate (il folle, il carcerato, il
“pervertito” ecc.). Al contempo, tuttavia, non c’è in Foucault la possibilità
di richiamarsi ad alcuna soggettività autentica, e questo sostanzialmente
fornisce alle rivendicazioni individuali solo un bersaglio negativo, da
avversare (il “potere”, la “categorizzazione”), ma nessuna aspirazione
positiva.
Lo sforzo intellettuale di Foucault ha tuttavia un carattere
autenticamente critico, ed è perciò capace di approfondirsi nel tempo in
forme non ovvie. Nei lavori dell’ultima fase, come la Nascita della
biopolitica, che abbiamo esaminato all’inizio, e la Volontà di sapere, alcune
posizioni tanto sulla storia che sulla soggettività vengono sviluppate e in
parte corrette. Nella prospettiva che qui stiamo seguendo, tuttavia, non è
importante una rendicontazione lologica dell’opera di Foucault, ma una
prospettiva sulla sua in uenza e ricezione prevalente. L’opera di Foucault,
che si sviluppa in buona parte prima del ’68, avvia (a un alto livello di
elaborazione) una demolizione dei concetti portanti della ri essione
loso ca occidentale: l’identità personale e l’unità del soggetto,
l’oggettività del vero, il senso della storia, la ricerca dell’essenza o natura,
l’idea di umanità. Nei successivi protagonisti della stagione postmoderna
questa linea di “emancipazione distruttiva”, il cui senso storico
esamineremo più avanti, verrà riconfermata.
27.4 Deleuze
Se andiamo a Gilles Deleuze, coetaneo di Foucault, vediamo come la sua
produzione più nota e in uente sia quella successiva al ’68, di intento più
marcatamente politico, e sviluppata in collaborazione con Félix Guattari.
Per Deleuze l’ontologia, che sta al cuore della loso a, non deve
occuparsi più di identità, ma di differenze, non più di scoperta, ma di
invenzione. Per Deleuze e Guattari, “la loso a è l’arte di formare, di
inventare, di fabbricare concetti”221. Il “pensiero è creazione, non volontà
di verità”222.
La loso a non consiste nel sapere, non c’è una verità che la ispiri; ci sono piuttosto delle
categorie come quelle di Interessante, di Notevole o di Importante, che decidono della riuscita o
dello scacco, non prima però di aver costruito.223

Su questa base, che sembra rappresentare la premessa più per un


esercizio di nzione letteraria che per un’indagine loso ca, Deleuze si
muove in forme che sembrano porsi intenzionalmente agli antipodi dello
stile analitico, evitando addirittura il confronto argomentativo in quanto
tale224. Le tesi – se così possiamo chiamarle – cui Deleuze perviene
colpiscono innanzitutto l’unitarietà del soggetto umano e della persona,
che vengono disassemblate in coacervi di gesti, parole, relazioni. Più in
generale è ogni identità a essere contestata, proponendo una loso a
come loso a della “differenza”. Tale “ loso a della differenza” è
pensiero che predilige il divenire all’essere, il suggerire al dire, la uidità
È
alla stasi, il nomadismo alla stanzialità. È estremamente dif cile – almeno
per chi scrive – trovare modi per discutere o criticare le posizioni di
Deleuze, perché l’evasività della forma argomentativa non permette di
afferrare un ragionamento in forma de nita. Il fatto che questo formato
espressivo sia certamente frutto di una scelta intenzionale non è di per sé
suf ciente a stabilire che vi siano buone ragioni per darvi credito. A ogni
modo, nonostante l’elusività degli argomenti, non si può dire che le tesi di
Deleuze siano vuote o prive di implicazioni. In effetti esse presentano una
sorta di sistema di suggestioni di natura destruens, suggestioni che,
curiosamente, egli immagina come contributi “antiliberali”. Il preteso
antiliberalismo di Deleuze parte dall’idea per cui il liberalismo sarebbe
una teoria politica che assume come fondamento l’esistenza di individui
razionali, con una propria agenda di interessi e rappresentati da un
governo, e ritiene perciò di minare il liberalismo minando la soggettività
unitaria degli individui, la loro razionalità, e poi tutte le realtà che, nella
lettura politica di quegli anni, vengono lette come nozioni alleate con il
capitalismo, come lo Stato225. Ma, come abbiamo visto, qui Deleuze non fa
che aderire a uno dei due poli dell’oscillazione liberale. Di fatto queste
posizioni si limitano a occupare la casella opposta e complementare al
razionalismo economico, alimentando le pulsioni anarcoindividualiste di
cui il sistema di mercato si nutre. In concreto il principale contributo delle
suggestioni deleuziane sul piano politico è quello di disarmare qualunque
opposizione reale allo status quo capitalista, consegnando ogni “protesta”
a una dimensione di “trasgressività” privata, perfettamente compatibile
con i più ordinari funzionamenti del capitale.
27.5 Lyotard
Il termine “postmodernismo” si impone come etichetta classi catoria a
partire dal testo La Condition postmoderne: rapport sur le savoir (1979) di
Jean-François Lyotard. Per Lyotard ciò che caratterizza il pensiero
postmoderno è “l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni”226,
laddove per “metanarrazioni” Lyotard intende tutti i tentativi di
giusti cazione comprensiva e di fondazione dei saperi, del vero, del
giusto. Un altro modo di concepire la postmodernità è in termini di
“guerra alla totalità”227, dove la totalità menzionata rinvierebbe a tutte le
nozioni di valore generale come la “società” o la “scienza”. Anche qui,
come in Deleuze, la critica alle “totalità” (identità) implica un appello alle
“differenze”.
Per Lyotard non esiste alcun modello autentico, o più autentico, di
società da perseguire, neppure un modello che miri semplicemente
all’autodeterminazione democratica228. Egli vede al centro della
dimensione politica il problema dello scontro tra “generi di discorso”, tra
“giochi linguistici” incompatibili: la politica è la “minaccia del dissidio
(différend)”229, dove per “dissidio” si intende la prevaricazione di un gioco
linguistico, con le sue regole interne, su di un altro230. L’idea di “giochi
linguistici” (o “frasi”) pensati come recinti di regole impenetrabili e
incapaci di mediazione è molto caratteristica. Lyotard riprende la nozione
wittgensteiniana di “gioco linguistico” trascurandone però il correlato
pragmatico, cioè la forma di vita sottostante al gioco linguistico: la realtà
viene così ricondotta alla sua formulazione verbale. Il mondo viene ridotto
a una collezione di sfere linguistiche autoreferenziali e tendenzialmente
“autistiche”, da cui non ci sono vie d’uscita razionali. Insieme alle “grandi
narrazioni” vengono meno nella prospettiva di Lyotard tutte le pretese di
verità, autenticità e identità. L’umanità stessa diviene solo l’esito interno a
un gioco linguistico particolare. In mancanza di una nozione di “autentica
umanità” Lyotard può prendere le distanze dall’inumanità della moderna
merci cazione solo abbracciando una diversa “inumanità”: egli infatti
contrappone l’inumano “cattivo” della merci cazione capitalista
all’inumano “buono” dell’innocenza infantile preculturale, o dell’arte
come esplorazione di possibilità231. Naturalmente questa posizione di tipo
marcatamente “sovrastrutturale”, “antiumanista” e “relativista” non può
che prendere radicalmente le distanze dalla lezione marxista, e lo fa invero
in forme estreme, con nanti con la schietta provocazione232.
27.6 Derrida
Se ora spostiamo lo sguardo sull’elaborazione di Jacques Derrida
troviamo un’impostazione e un punto di partenza dell’analisi molto
diverso. Derrida prende le mosse nella sua ri essione da un serio studio
della fenomenologia husserliana, da cui prende le distanze dedicandovi
alcuni saggi brevi quanto acuti (La voce e il fenomeno, Introduzione
all’Origine della geometria di Husserl). A partire dalla Grammatologia
(1967) il suo percorso di pensiero prende la strada che poi lo identi cherà
come padre del “decostruzionismo”. Il passaggio cruciale nello sviluppo
teorico di Derrida è quello che lo porta ad assumere come paradigma del
segno quella forma peculiare di segno che è il segno scritto. Il
ragionamento essenziale che Derrida svolge, e che lo porta al suo approdo
teorico ultimo, è riconducibile ai seguenti passaggi.
Egli parte da una prospettiva fenomenologica, dove tutto ciò che si
manifesta (ogni fenomeno) è ciò che è in quanto ha per noi un signi cato.
Ma ogni manifestazione presente è portatrice del suo signi cato in quanto
rimando a un non-presente, a un altro da sé, a una “traccia” (qui l’analisi
husserliana del rapporto tra presenza e rimando alla sedimentazione
temporale subisce una radicale metamorfosi). Tale “traccia” viene
concepita da Derrida nella forma di una sorta di “scrittura” (archi-
scrittura)233. Il richiamo alla scrittura è essenziale perché qui l’idea guida è
che la scrittura sia per sua natura “segno di segno” (nel senso in cui lettere
o sillabe rinviano ai segni sonori del linguaggio)234. Concepire la traccia, il
non-presente che dà signi cato alla manifestazione presente come una
sorta di “scrittura” signi ca concepirlo come un segno che rinvia a sua
volta a un altro segno. Questa concezione – va sottolineato – si fonda nella
negazione frontale di ciò che è invece il più fondamentale degli aspetti
della fenomenologia husserliana, ovvero l’identi cazione di diversi livelli
di fondazione, tali per cui, ad esempio, la percezione ha un valore
conoscitivo superiore e preliminare rispetto al ricordo o alla fantasia. In
Derrida è questo ordinamento gerarchico a saltare. Non c’è più una
gerarchia dei segni, dei signi cati, delle evidenze, e dunque non c’è più
neppure alcun modo per distinguere un signi cato da una verità. Una
volta impostato il funzionamento dei signi cati in questo modo il
panorama che si presenta è quello di un sistema di segni in perenne e
in nito rinvio gli uni agli altri; ogni realtà è leggibile come un testo, testo
che rinvia semplicemente ad altri testi, già prodotti o possibili. L’analisi
loso ca diviene così un’indagine intratestuale senza meta, una “strategia
senza nalità”235.
L’opera di Derrida successiva al 1967 in questo senso è dif cilmente
interpretabile come loso ca, quanto meno se si ritiene che la loso a
abbisogni di un riferimento alla conoscenza e che ci sia conoscenza solo
dove c’è una qualche forma di verità. La brillante attività intellettuale di
Derrida si con gura perciò come una serie di esercizi in cui, rimanendo
rigorosamente all’interno del gioco semantico dell’analisi testuale, i
concetti vengono esposti nei loro contrasti reciproci, esponendone
l’intrinseca natura relazionale. Quest’operazione spesso acuta, può
risultare utile per ri ettere su assonanze, associazioni, origini
etimologiche, con ni de nitori di questo o quel concetto, tuttavia è del
tutto inadeguata a trarre la benché minima conclusione di valore
operativo. Per quanto Derrida si occupi di volta in volta di autori di peso
politico come Marx236 o di tematiche eminentemente politiche come
democrazia e sovranità237, si cercherebbero invano argomentazioni o tesi
capaci di indirizzare un agente nel contesto delle scelte etiche e politiche
attuali. L’esito complessivo della ri essione derridiana sul piano etico-
politico, lungi dal rappresentare l’aspirazione a un “nuovo
illuminismo”238, si presenta come un’operazione di scepsi generalizzata e,
in de nitiva, nichilistica.
27.7 Baudrillard
Le somiglianze di famiglia nel postmodernismo francese, al netto delle
differenze di percorso, si consolidano se guardiamo al percorso di Jean
Baudrillard. Baudrillard prende le mosse anche lui, sulla scorta degli esiti
del ’68, da un’analisi critica del marxismo. La critica di Baudrillard parte
da una critica all’opposizione marxiana tra valore d’uso e valore di
scambio per approdare a una concezione del valore come valore simbolico
(valore-segno)239. Se, all’inizio, la critica alla predominanza nel marxismo
del “valore d’uso”, e il richiamo ai valori di status, poteva presentarsi
ancora come un’integrazione all’analisi marxista, successivamente il
distacco diviene sempre più marcato. Egli sostiene che l’analisi marxiana,
mentre critica il capitalismo, ne accetterebbe l’economicismo, diventando
uno specchio del produttivismo borghese240. A partire da questo
approccio critico la posizione di Baudrillard inizia a prendere una deriva
conforme a quella dell’intera famiglia del postmodernismo francese,
muovendosi verso una direzione culturalista, in cui il problema dei
rapporti storici reali tra detentori del capitale e lavoratori è totalmente
abbandonato. Baudrillard dichiara senza esitazioni la ne della
problematica marxista e dell’economia politica241. La “liberazione” dagli
imperativi del capitalismo, visti come imperativi all’ef cienza e
all’ottimizzazione, verrebbe promossa attraverso le pratiche della spesa e
dell’eccesso, dello spreco, del sacri cio, del consumo simbolico. Questa
forma di “emancipazione”, naturalmente, è qualcosa che potrebbe
sensatamente riguardare soltanto i ceti abbienti dei paesi abbienti, ma a
parte ciò è curioso osservare come la trasposizione del modello
premoderno delle economie di dono nel contesto del mondo moderno
venga letta come un atto “liberatorio”. Come se esercitare lo spreco e il
sacri cio all’interno di una cultura arcaica e pre-economica potesse avere
lo stesso senso di esercitarla come gioco simbolico (conspicuous
consumption) tra ceti benestanti di una società capitalista.
Baudrillard in ultima istanza abbraccia esplicitamente una forma di
aristocratismo nietzscheano, dove gli individui creerebbero i loro valori e
si opporrebbero alla piccineria borghese a colpi di consumo ostentativo e
spreco. Non desta particolare sorpresa che l’esito di questa prospettiva,
nutrita di estetismo aristocrateggiante sia, come ammette lo stesso
Baudrillard, il nichilismo242.
27.8 Il postmodernismo come liberalismo inconsapevole
Questa rapida carrellata sui principali rappresentanti del
postmodernismo loso co non ha né la pretesa né la possibilità di entrare
nei dettagli di contributi intellettuali che hanno avuto larga in uenza, e
che, non foss’altro per questo, meriterebbero una considerazione più
articolata. Non ci interessa quindi porci sul piano della confutazione,
piano che peraltro appare qui spesso poco percorribile per la frequente
dif coltà a identi care tesi e argomenti. Ciò che rileva per la presente
analisi è comprendere l’impatto etico-politico avuto dalla ri essione
loso ca postmoderna in relazione agli sviluppi della ragione liberale.
La ri essione del postmodernismo francese sembra collocarsi del tutto
inconsapevolmente all’interno di uno dei due poli de nitori della ragione
liberale: esso rigetta l’obiettivismo e il razionalismo scientista per ricadere
nel polo complementare del soggettivismo antirazionalistico. È importante
sottolineare come questi “pensatori postmoderni”, segnati o lanciati
dall’esperienza del ’68, concepiscano la loro attività intellettuale come
eminentemente “politica”, e inoltre come “anticapitalistica”. Questo è il
punto di inserzione che permetterà a essi di accreditarsi nelle la della
“nuova sinistra” post-marxista che emerge in quegli anni.
L’anticapitalismo dei postmoderni sembra però avere una provenienza
assai circoscritta, radicata nell’esperienza del maggio francese e nel
riconoscimento delle inadeguatezze del PCF, da cui tutti paiono trarre la
conclusione, piuttosto frettolosa, dell’obsolescenza della lezione marxiana.
Sulla scorta di quella protesta a trazione studentesca, il capitalismo, la
società borghese, lo Stato, i partiti e i sindacati vengono letti come un
blocco “istituzionale” complessivo, come una struttura unitaria da
contestare nel suo insieme. Così la ricerca dell’ef cienza, della razionalità
mezzi- ni, della verità scienti ca – funzionali allo sviluppo capitalistico
come alla piani cazione sovietica – vengono percepiti come parte di un
ordinamento oppressivo da contestare. Le istanze di insofferenza
individuale vengono intese come potenza emancipativa, e l’intero spettro
delle aspettative teoriche e politiche si sposta in direzione di un ribellismo
soggettivista che crede di fare qualcosa di politicamente progressivo
quando assume atteggiamenti relativistici e antirazionalistici.
Il primo tratto caratterizzante del postmodernismo loso co è in effetti
proprio questo carattere spiccatamente antirazionalistico e scettico.
L’insofferenza per le richieste del “sistema” viene tradotta in una fuga da
tutte le pretese di spiegazioni totalizzanti, da tutte le teorie d’insieme o
“grandi narrazioni”. Il richiamo al pluralismo, politico ed epistemico,
diviene schietto soggettivismo individualista, impermeabile alle esigenze di
ogni consenso razionale e di ogni teoria generale. È essenziale osservare
come questa tendenza anti-olistica e centrifuga sia, in effetti, una perfetta
incarnazione dell’individualismo liberale classico, e sia agevolmente
metabolizzabile dalle dinamiche di mercato243. Il ri uto “antiautoritario”
di ogni pretesa di verità strutturata, di pretese universali, di de nizioni
essenziali si ripercuote sul piano politico in un’operazione che disarma
completamente la critica teorica, lasciando libero spazio ai meccanismi
autoriproducentesi del mercato. In sostanza, l’operazione sedicente “anti-
oppressiva” e “anti-capitalistica” prodotta dal postmodernismo nisce per
in acchire ogni possibilità di contestazione razionale, e dunque per
favorire il potere inerziale dello status quo. Le analisi apparentemente
“radicali” rivolte alle opzioni marginali, alle “differenze”, al gioco delle
“frasi”, alle “soluzioni immaginarie”, alla “decostruzione dei signi cati”,
si con gurano come un’operazione in grande stile di sterilizzazione e
privatizzazione del pensiero. Gli “intellettuali” ora possono dedicarsi a
giochi di rimando intratestuale o invenzioni di concetti, strategie
accomunate da un’istanza negativa, ovvero dal non consentire di trarre
alcuna conclusione fondata sul mondo reale e dall’ostacolare ogni accordo
rivolto a un’iniziativa collettiva. Si tratta di una grande operazione di
chiusura nel privato, travestita da radicalità loso ca.
Naturalmente l’elaborazione loso ca non è tenuta mai a ritrarsi dalle
implicazioni eventualmente problematiche delle verità che raggiunge. Se
gli esiti di cui parliamo fossero “solide ma spiacevoli verità” raggiunte
dalla ri essione postmodernista, loso camente non potremmo che
accettare la sgradevolezza delle implicazioni. Tuttavia noi non stiamo
rimproverando il pensiero postmoderno di avere “cattive conseguenze
politiche”. Il problema è proprio l’opposto. È la ri essione postmoderna a
ri utare di appellarsi a verità e obiettività, e al contempo a mettere in
primo piano la questione delle conseguenze politiche delle proprie
posizioni e credenze. Ed è proprio leggendole come vogliono esser lette,
come teorizzazioni mosse da ambizioni politiche emancipative, che questo
istanze falliscono.
Il paradosso apparente di questa tendenza culturale è che, nell’intento di
liberare l’individuo dall’oppressione del “potere”, delle istituzioni, dello
Stato, della società, del capitale, del partito, del razionalismo e della
tecnoscienza, essa ha portato a completa soggezione e dissoluzione
l’individuo stesso che pensava di liberare. La distruzione del soggetto, sia
come autocoscienza razionale che come umanità, è in effetti uno dei tratti
caratterizzanti della ri essione postmodernista. Il soggetto viene meno nel
momento stesso in cui vengono meno i criteri di verità e la possibilità di
appellarsi a valori universalizzabili. Un soggetto che non possa o non
voglia più identi carsi con una ragione comune, e soprattutto con valori
comuni, non può che ritirarsi in una sfera di emotivismo arbitrario,
sottratto al consenso e al riconoscimento. In questa dimensione, senza
ragioni né valori comuni, il soggetto non ha più nulla che lo tenga assieme:
non un télos, non un’entelechia che de nisca l’umano, non una ragione
uni cante che dia coerenza e unità di intenti a gesti, parole, progetti, non
una “natura” che separi l’autentico dall’inautentico. Così è del tutto
coerente che il riferimento a un “autore” (come a un agente razionale) sia
respinto: non siamo più legittimati a parlare di un “autore” (o un agente)
perché non ammettiamo più proprio la continuità e fondatezza
dell’intenzione della persona come fattore uni cante. Nello stesso senso il
postmodernismo si presenta come attacco a ogni forma di umanismo,
giacché è venuto meno ogni criterio razionale e assiologico per de nire
qualcosa come una “natura umana”. E ovviamente la dissoluzione del
riferimento a una natura umana porta con sé la possibilità stessa di porre
la questione circa forme di vita autentiche o inautentiche, disalienate o
alienate, giacché non esiste autenticità o alienazione se non in rapporto a
un’essenza umana244.
Una volta dissolto il soggetto agente con la sua ragione e la sua
entelechia (natura), l’intera dimensione storica scompare dal novero dei
concetti rilevanti, visto che non ci sono più criteri per concepire entità
storiche sovraindividuali (stati, popoli, classi, l’umanità tutta ecc.) mossi
da progetti comuni, valori comuni, ragioni comuni.
La ri essione loso ca postmodernista sembra perciò con gurarsi come
un’offerta teorica paradossale. Si tratta di una teorizzazione antiautoritaria
e libertaria che apre la strada alla svolta neoliberale, con le relative
compressioni delle libertà. Si tratta di una teorizzazione che, per
contestare la prepotenza della tecnoscienza, lascia l’intero campo delle
argomentazioni di valore obiettivo al naturalismo scienti co, ritirandosi in
uno spazio impotente di opinionismo arbitrario. Si tratta di una
teorizzazione che vuole contestare lo status quo capitalistico, ma che di
fatto ostacola ogni tentativo di cambiamento strutturale. In de nitiva si
tratta di una ri essione che si crede radicale, rivoluzionaria e antisistema,
mentre in effetti è il frutto inconsapevole di una speci ca deriva della
ragione liberale245, il soggettivismo libertario come espressione compiuta
del capitalismo avanzato246.
27.9 Nietzsche, patrono del postmodernismo
Una nota nale, di natura squisitamente storico- loso ca, può aiutare a
inquadrare meglio il fenomeno delle “ loso e postmoderniste”. Se uno
volesse risalire alla genealogia teorica di questo sviluppo loso co avrebbe
dif coltà a trovare radici comuni, con l’eccezione di un solo autore:
Friedrich Nietzsche. Volendo leggere schematicamente, come stiamo qui
facendo, la ri essione postmodernista nel suo insieme, vediamo come la
gura di Nietzsche eserciti un fascino ubiquo, spesso utilizzato dagli
autori citati per sottrarsi alla visione marxista, dominante in quegli anni.
Nietzsche, trattato per molti anni erroneamente come un prodromo del
nazismo, veniva riabilitato in quegli anni presso il pensiero “progressista”.
Ora il pensiero di Nietzsche, come quello di ogni pensatore autentico, è
dif cilmente classi cabile, e chi lo volesse ridurre senz’altro a un’etichetta
storica, farebbe un pessimo servigio alla ri essione loso ca. Tuttavia, una
volta chiarito che ogni “riduzione” di Nietzsche a etichette è
inappropriata, può essere utile, per una volta, vedere il losofo in una luce
storico-politica.
Nietzsche è stato infatti letto spesso, soprattutto negli ultimi decenni,
come una sorta di pensatore senza padri e senza tempo, un “profeta dei
tempi nuovi”, estraneo agli in ussi del mondo sociale, politico ed
economico circostante. Come tale esso è stato utilizzato anche dai
“postmodernisti” come “ ne psicologo” e come “pensatore radicale”.
Tutto ciò va benissimo ed è conforme a come Nietzsche desiderava esser
letto. Tuttavia forse si potrebbe adottare un pizzico dello spirito
dissacrante di Nietzsche e applicarlo a lui stesso. E così facendo
potremmo scoprire in Nietzsche, non un pensatore “inattuale” e “senza
padri”, quanto piuttosto il più geniale rappresentante del liberalismo
maturo. Che il contesto sociale in cui Nietzsche matura e scrive sia quello
del liberalismo europeo giunto a piena maturità è empiricamente
innegabile. Meno scontato è provare a vederne le tracce all’interno del suo
pensiero stesso. Partiamo dall’osservazione, non controversa, di come
Nietzsche sia il pensatore individualista per eccellenza e un pensatore che
vede nella lotta reciproca tra gli individui una chiave di lettura elettiva
della storia. Ma per cosa lottano gli individui nel mondo nietzscheano?
Essi lottano per un “potere vuoto”, per il potere in quanto potere, il
potere come potenza non subordinata a nessun ne (Wille zur Macht). Ma
cos’è questo potere vuoto se non proprio ciò che viene incarnato
pragmaticamente nel modo più chiaro dal capitale, dal denaro come mezzo
per ogni ne. La società in cui non si perseguono ni speci ci, tantomeno
ni collettivi, ma dove si insegue la vuota potenza ne a se stessa è in
effetti proprio la società liberale idealmente compiuta. Nella visione
nietzscheana, come nella società liberale condotta alle sue estreme
conseguenze dissolutive, non c’è più né Dio, né l’uomo, né comunità, né
tradizioni. È la società del nichilismo realizzato, quella società in cui
l’individuo può tentare di sottrarsi al proprio nulla (alla dostoevskijana
pulsione a uccidersi del nichilista) solo in quanto rilancia la propria
esistenza in una dimensione totalmente vuota e inaudita, una dimensione
il cui unico vero contenuto è di essere “oltre”, di essere “trans-umana”
(übermenschlich). La tensione assiologica rimasta in Nietzsche è una
tensione senza più alcun tratto positivo: i valori si trasvalutano e l’uomo
deve trasformarsi in “oltre-uomo”.
È assai interessante vedere come Nietzsche stesso, così come faranno
suoi successivi epigoni, fraintenda la propria stessa società. Egli pensa al
“capitalismo” con disprezzo aristocratico identi candolo con la
“borghesia”. Ma la borghesia ottocentesca, lungi dall’essere il ceto
capitalista per eccellenza, ne è ancora una forma primitiva, un
compromesso etico che non abbandona davvero gli ideali morali e
culturali dell’aristocrazia, anzi li idolatra (la “buona educazione”
borghese, con lo spazio dedicato alle lettere e alle arti è un residuo
aristocratico). Al tempo stesso, in un mondo forgiato
dall’autoriproduzione del capitale, quegli ideali presi a prestito
con iggono con la realtà del mondo in cui il borghese si guadagna da
vivere. È perciò che si sviluppa quella caratteristica così spesso tratteggiata
nella letteratura ottocentesca che è la proverbiale “ipocrisia borghese”.
Nietzsche è perciò “antiborghese” proprio come saranno poi
“antiborghesi” i postmoderni, perché ne ri uta l’ipocrisia, ri utando con
ciò anche l’eredità premoderna della borghesia (Dio, patria e famiglia).
Tale ri uto avviene nel nome del compimento della ragione liberale: le
forme di vita borghesi sono inadeguate e devono essere superate,
abbracciando una forma puri cata di nichilismo individualistico.
Nietzsche denuncia le maschere borghesi, fustiga le falsità della morale
borghese, della religione borghese, della tradizione borghese, ma non lo fa
nel nome di alcuna natura o autenticità, bensì nel nome di un abbandono
di ogni morale, ogni religione, ogni tradizione, cioè nel nome di un
compimento dell’epoca dell’autoriproduzione del capitale (della pura e
vuota volontà di potenza).
In questo senso, forse con un po’ di malignità, si potrebbe dire che
Nietzsche, lungi dall’essere quel pensatore terribile e senza tempo che
ritiene di essere, appare piuttosto come il portavoce (un portavoce geniale
senza dubbio) del “nuovo mondo coraggioso” del capitale, un mondo
in nitamente lontano da quel mondo degli antichi greci su cui si era
formato. Il carattere “profetico”, di nunzio dei tempi nuovi, di Nietzsche
è dunque forse meglio inquadrabile come una compiuta adesione di
Nietzsche allo spirito del mondo emergente della ragione liberale. Ciò che
in Nietzsche, agli albori della “prima globalizzazione”, appariva come una
geniale intuizione, nella ri essione postmodernista glia del maggio
francese, agli albori della seconda globalizzazione, diviene forma
epigonale.

28. Ragione liberale e diritto naturale soggettivo


28.1 L’insuf cienza fondativa della ragione liberale
Nel percorso che de nisce la cornice del liberalismo classico sono
emersi quattro tratti dominanti, due prescrizioni e due idealizzazioni. Esse
sono nell’ordine:
a) l’idea di libertà negativa, che de nisce la libertà degna di essere
perseguita come indipendenza rispetto alla volontà di terzi, ovvero come
richiesta di non interferenza;
b) l’individualismo assiologico, ovvero la concezione per cui il valore si
manifesta essenzialmente nell’acquisizione o soddisfacimento di desideri
individuali;
c) l’assunto ideale dell’esistenza di diritti naturali, che uniscono la
normatività del diritto positivo con la presunta autoevidenza di un
fondamento presente in natura, e accessibile alla ragione umana
universalmente condivisa;
d) l’assunto ideale per cui la libera interazione di individui, che si
muovono sulla base delle prescrizioni a) e b), è suf ciente a generare
esiti generalmente positivi (paradigma della “mano invisibile”).
Le prime due proposizioni de niscono uno spazio assiologico speci co,
determinandone la forma e l’ambito di legittimità: la lotta per un’unità del
Bene e per un’etica comune vengono tolte di mezzo creando un’arena
dove la realtà del valore è soggettiva e privata. Le seconde due
proposizioni hanno un carattere proiettivo, idealizzante, di af ato quasi
teologico, e introducono due visioni del funzionamento dei rapporti
intersoggettivi. Parlare di “diritti naturali” pone la normatività fondante,
cioè ciò che dovrebbe de nire i vincoli ultimi nei rapporti intersoggettivi,
al di sopra della società e della storia. Affermare che il diritto ha un
fondamento “naturale” non impegna a dire cosa sia “naturale”, ma
consente di erodere la legittimazione delle leggi positive vigenti. Quanto al
paradigma della “mano invisibile”, esso propone l’immagine di una sorta
di “provvidenza” atea, dove le spinte al libero appagamento individuale
creerebbero, con mirabile armonia prestabilita, condizioni socialmente
ottimali (o comunque le migliori tra quelle attingibili).
È importante tener fermo quanto abbiamo già sottolineato in
precedenza: questo quadro concettuale non emerge come frutto di una
ri essione organica. Si tratta di un quadro che prende forma non perché
raggiunto attraverso un’elaborazione fondativa soddisfacente, non perché
la ricerca della verità abbia condotto con la forza degli argomenti questo o
quell’autore a tali conclusioni. Si tratta al contrario di una collazione di
argomenti di solidità epistemica dubbia, ma che si sono rivelati ef caci sul
piano della tenzone politica. Si tratta dunque di argomenti la cui forza si è
messa alla prova essenzialmente con riferimento alla loro capacità di
abbattere, contestare o criticare un regime esistente. Rifarsi a un diritto di
natura permetteva di delegittimare e indebolire la sovranità regale,
creando un orizzonte di giusti cazioni alternative alla tradizione. Non era
necessario che tale orizzonte fosse particolarmente perspicuo, giacché
neppure le ragioni a favore della tradizione avevano particolari prove a
loro favore: far balenare uno scenario alternativo era suf ciente alla
bisogna. Similmente, mostrare come ci potessero essere bene ci collettivi
dal perseguimento di interessi egoistici era suf ciente ad abbattere l’idea
che l’ordine sociale e una ferma guida gerarchica fossero presupposti
indispensabili per la prosperità collettiva. Quanto esteso dovesse essere
questo nuovo spazio di libera interazione tra individui (interazione
peraltro sempre esistita) non viene indagato articolatamente da Adam
Smith, e lascia enormi aree inesplorate che verranno solo gradualmente, e
parzialmente, precisate con l’evolvere della scienza economica.
Il basso contenuto veritativo e la scarsa fondazione delle premesse della
ragione liberale emergono ogni qualvolta un sistema sociale inizia a darvi
concretezza: è il successo della ragione liberale a evidenziarne le
disfunzioni. Le incrinature iniziano dunque a manifestarsi una prima volta
a partire dalla seconda metà del XIX secolo, no alla Prima guerra
mondiale, per riprendere a mostrarsi nel mondo occidentale a guida
americana, nato dalle macerie della Seconda guerra mondiale.
Nell’ottica del “diritto naturale”, che desideriamo esaminare ora,
possiamo scandire tre tappe simboliche di questo secondo, e più radicale,
trionfo della ragione liberale: il 1948, con la Dichiarazione Universale dei
Diritti Umani; il 1968, con l’imporsi di una nuova piattaforma
rivendicativa fondata sulle esigenze di “realizzazione” dell’individuo; e il
1989-1991, quando il crollo del Muro di Berlino e dell’URSS sancisce il
venir meno di ogni limite condizionante all’estensione imperialistica della
ragione liberale.
28.2 Prodromi storici dei “diritti umani”
Il tema dei Diritti dell’Uomo rappresenta un passaggio teorico
fondamentale. Come noto, esistono almeno due grandi precedenti storici
alla Dichiarazione del 1948, ovvero le proclamazioni di diritti universali
presenti nella Dichiarazione di Indipendenza americana (1776) e nella
Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino francese in occasione
della Rivoluzione del 1789. Sia il primo documento che (soprattutto) il
secondo furono oggetto di riedizioni e varianti.
La Dichiarazione americana non è intesa come una carta dei diritti e il
testo è dedicato prevalentemente a motivare le ragioni dell’Indipendenza
dalla corona britannica. Gli argomenti sui “diritti dell’uomo” vengono
inseriti come cappello introduttivo nobilitante, ma anche con la funzione
teorica di de nire una chiave di legittimazione estranea alla fedeltà al re.
Vengono perciò dichiarate verità evidenti, senza bisogno di motivazione,
che “tutti gli uomini sono creati eguali”, che sono dotati dal Creatore di
inalienabili diritti, tra cui “la Vita, la Libertà, e il perseguimento della
Felicità”, che i governi sono istituiti per garantire questi diritti e che perciò,
quando così non avviene, il popolo ha diritto di cambiare la forma di
governo. La struttura del ragionamento nella sua elementarità è
chiarissima: il fondamento della vita sociale non deriva dalla tradizione (e
dunque dal re), ma da Dio (come da noi interpretato) e dai diritti da Lui
conferiti. Una volta compiuto questo rovesciamento del canone fondativo,
avendo posto i diritti degli uomini, al di fuori di ogni storia o società,
come base di valore, il governo e le istituzioni sociali acquisiscono un
senso derivativo, dipendente dalla capacità di difendere quei diritti. La
mossa emancipativa qui è espressa con la massima chiarezza, ed è al
centro della scena. Contenuti e fondamenti dei diritti inalienabili su cui si
basa quella mossa sono invece ridotti ai minimi termini. Così, ad esempio,
vi troviamo celebrato il principio che “tutti gli uomini sono creati eguali”;
e tuttavia non è una dimenticanza accidentale che la schiavitù (allora
orente) non venisse condannata: un paragrafo inizialmente dedicato alla
condanna della schiavitù venne omesso nella redazione de nitiva per
mediare tra interessi diversi. Viene rimarcato che vi sono diritti
fondamentali che non sono conferiti da fonti storiche, sociali o
tradizionali; tuttavia cosa implichino quei diritti, quale ne sia l’effettivo
contenuto, è lasciato a precisazioni e trattative a venire. Una decina d’anni
dopo venne approvata la Costituzione americana, dove però non erano
presenti dichiarazioni di diritti, che vennero invece aggiunti tra il 1789 e il
1791, anche sulla scorta della concomitante Rivoluzione francese, in forma
di “emendamenti” alla Costituzione. È dunque negli emendamenti che
troveranno spazio i diritti di culto, parola, riunione, detenzione delle armi,
inviolabilità del domicilio, giusto processo ecc. Va però osservato, che la
collocazione dei “diritti fondamentali” nella forma di emendamenti alla
Costituzione ne de niva ora il carattere in termini distanti da quelli
universalisti dei “diritti dell’uomo”. Ciò di cui qui si parla sono diritti
civili interni alla nazione americana (sarebbe altrimenti arduo capire come
potrebbe con gurarsi, ad esempio, un “diritto naturale a detenere armi”).
Se andiamo ai diciassette articoli della Dichiarazione dei Diritti
dell’Uomo e del Cittadino del 1789, qui troviamo una caratterizzazione
dei diritti dell’uomo di nuovo molto particolare. Nel preambolo ci si
appella a “diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo”, dunque a una
dimensione universalista e astorica. Tuttavia già dal terzo articolo (“Il
principio d’ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione”) la
dichiarazione prende una piega storicamente determinata ed
eminentemente politica, dove la libertà individuale è limitata dalle leggi; le
leggi, “espressione della volontà generale” (art. VI), sono giusti cate dal
bene della società (art. V); la resistenza del cittadino alle leggi è giudicata
inammissibile (art. VII) ecc. Il protagonista della Dichiarazione del 1789 è
dunque la legge civile de nita dalla nazione, all’interno della quale il
cittadino trova il suo spazio di libertà. Gli unici due articoli che sembrano
riguardare l’uomo in quanto uomo, nella sua “naturalità presociale”, sono
i primi due. Nel primo si afferma che “gli uomini nascono e restano liberi
ed eguali nei diritti” e che quindi le distinzioni sociali non dipendono dal
sangue, ma dall’“utilità comune”. Nel secondo si pongono come diritti
naturali “la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza
all’oppressione”, asserendo che la loro conservazione è scopo di ogni
associazione politica. Anche qui la sproporzione tra la componente storica
e politica, relativa al cittadino (citoyen) sottoposto alle leggi positive dello
stato, e la componente immaginata come “naturale” e “presociale” è
rimarchevole. La quasi totalità della Dichiarazione concerne il cittadino,
mentre i primi due articoli si appellano all’Uomo in quanto hanno la
funzione di de nire il terreno su cui la Rivoluzione poteva essere
giusti cata, e la nuova Legge poteva essere promulgata: l’eguaglianza degli
uomini (contro le dottrine sull’ineguaglianza di nascita), e la funzione
delle associazioni politiche di tutelare l’eguaglianza nella difesa dei diritti
di “libertà, proprietà, sicurezza e resistenza all’oppressione” (elencati così,
senza precisazioni o chiari cazioni). Anche qui i “diritti umani” giocano
un ruolo del tutto marginale, salvo per la funzione che ne ha sostenuto
l’emergere sin da principio, ovvero la creazione di un nuovo terreno di
legittimazione politica che, ricorrendo a una fondazione “naturale”,
sfuggisse alla legittimazione tradizionalista dell’Ancien Régime.
28.3 La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948)
Questa digressione sugli “antecedenti nobili” della Dichiarazione
Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 ci permette di apprezzarne
l’audacia innovativa: in questo documento per la prima volta l’idea di un
diritto naturale che apparterrebbe individualmente a ciascun membro
della specie umana viene articolato davvero. Gli antecedenti storici non
andavano al di là del ssare un principio, funzionale a una politica
contingente, quel principio che consentiva rispettivamente alla nazione
americana e a quella francese di investirsi di una sovranità indipendente
dai re britannico e francese. La “naturalità” del diritto serviva a fare un
passo di lato rispetto alla “tradizione”, e una volta fatto, tali “diritti
naturali” portavano su di sé poco peso. Tutt’altro avviene con la
Dichiarazione del 1948 (d’ora in poi citata con l’acronimo internazionale
UDHR). Qui ci troviamo di fronte a un tentativo di creare un robusto
corpus di diritti nel senso comune del diritto legale, che però
diversamente da quest’ultimo non dipendessero da alcun organismo
politico, storico, sociale. Una delle spinte etiche alla radice dell’esigenza di
redigere tale carta consisteva nel desiderio di trovare un modo per
condannare i criminali nazisti che non dovesse fare i conti con il problema
dell’ammissibilità o meno di quei crimini secondo la legge tedesca. In
verità atrocità come l’Olocausto non sarebbero risultate legali neppure
secondo la legislazione razzista emanata dal Terzo Reich (Leggi di
Norimberga), ma di fronte a ciò che si presentava come il “male assoluto”
la spinta a trovare un punto di vista superiore e astorico, che non
concedesse alcun possibile terreno di legittimità alla legislazione nazista,
risultava psicologicamente comprensibile. In quest’ottica, l’idea di “diritto
umano”, con i suoi antecedenti storici, si prestava perfettamente alla
funzione. A questo quadro va naturalmente aggiunto il ruolo cruciale
giocato nella promozione dell’UDHR da parte degli USA, la cui cultura
individualista e antitradizionalista trovava del tutto naturale muoversi in
un orizzonte naturalistico e destoricizzato.
Nonostante queste premesse favorevoli, l’elaborazione dell’UDHR fu
notoriamente travagliata. Nelle fasi preparatorie (1947) l’UNESCO avviò
un’indagine preliminare su vasta scala con l’intento di de nire le
fondamenta loso che di ciò che avrebbe dovuto con uire nella
dichiarazione. Venne richiesto il giudizio di intellettuali, teologi, leader
politici di tutto il mondo per isolare la basi teoriche dell’impresa a seguire,
ma con un esito così inconcludente, che alla ne la Commissione sui
Diritti Umani decise di non inserire i risultati di quell’indagine
preliminare nei documenti di accompagnamento all’UDHR. Sempre in
fase di redazione, l’American Anthropological Association mosse severe
critiche alla possibilità stessa di concepire qualcosa come una “dottrina
universale dei diritti umani”. Gli antropologi osservarono come fosse
impensabile considerare come base di partenza dell’analisi un ipotetico
individuo desocializzato, giacché ciascun individuo è ciò che è come parte
di un gruppo sociale, con una forma di vita sanzionata che ne modella il
comportamento. In quest’ottica non era chiaro come una dichiarazione
che pretendesse di applicarsi a tutti i singoli esseri umani potesse saltare la
questione delle loro appartenenze culturali, correndo il rischio di
diventare “una affermazione di diritti concepiti solo nei termini dei valori
prevalenti nei paesi dell’Europa Occidentale e dell’America”247. Parlare di
rispetto degli individui senza simultaneamente parlare di rispetto per le
differenze culturali degli individui è privo di senso e legittimava il sospetto
che si fosse di fronte all’ennesima versione del “fardello dell’uomo
bianco” che aveva alimentato i colonialismi248.
Queste considerazioni vennero lasciate totalmente inascoltate. D’altra
parte, gli stessi intellettuali promotori del progetto come René Cassin non
lo concepivano come un resoconto descrittivo, che dovesse adeguarsi a
una realtà naturale accertata, ma come un progetto normativo, che
riposava “su di un atto di fede in un domani migliore”249. In effetti, le
fondamenta teoriche dell’UDHR reggono solo no a quando vengono
date per scontate, mentre una considerazione di anche modesta
profondità ne rileva rapidamente la straordinaria fragilità.
Sul piano strettamente logico l’idea che possa esistere qualcosa come un
“diritto di natura” è una sfacciata istanza di “fallacia naturalistica”, che
trasforma un (presunto) “dato naturale” in una norma. In natura noi
possiamo trovare fatti, e con un po’ di applicazione possiamo anche
trovare valori, ma né fatti né valori implicano automaticamente delle
norme. Il passaggio dall’adesione a un valore alla formazione di una
norma è sempre qualcosa di complesso e accidentato, che deve fare i conti
con le contingenze storiche. Così, ad esempio, se leggiamo l’art. 3
dell’UDHR troviamo scritto che “ogni individuo ha diritto alla vita, alla
libertà e alla sicurezza della propria persona”. Ora, in un senso vago, tutti
possiamo trovare un modo di leggere in questa proposizione dei valori
condivisibili: chi potrebbe mai desiderare che gli sia tolta la vita o la
libertà, o di vivere nell’insicurezza? Ma da questi “valori”
approssimativamente condivisi non deriva alcuna norma, e dunque nessun
diritto, se le parole hanno un senso. Il fatto che ogni individuo abbia
diritto alla libertà signi ca forse che la sua libertà non possa mai essere
limitata? Ovviamente no, altrimenti non esisterebbero carceri. Ma se non
è questo il signi cato di quell’affermazione, allora qual è? Quanta libertà e
sotto quali condizioni è quella cui si ha diritto? Se diciamo che è quella
consentita dal diritto positivo dei vari stati, allora quella dichiarazione è
perfettamente vuota, mero atus vocis. Se non facciamo riferimento a
nessuna legislazione reale, nessuno Stato reale, nessuna società storica,
allora di cosa stiamo parlando? Se nella stessa frase è dichiarato il diritto
alla libertà e quello alla sicurezza, quanta sicurezza può limitare la libertà,
o quanta libertà può intaccare la sicurezza? Come osservava Norberto
Bobbio, i cosiddetti “diritti naturali” non sono propriamente diritti, ma
tutt’al più “esigenze” che poi devono essere fatte valere da ordinamenti
normativi positivi250. Se guardiamo al “diritto alla vita”, le controversie tra
diverse morali e vari ordinamenti giuridici non sono mai state intorno al
riconoscimento del valore della vita per chi la vive, ma circa
le speci cazioni estremamente diversi cate – dei casi in cui è lecito sopprimerla (legittima difesa,
stato di necessità, difesa sociale, scontro bellico, aborto, duello, pena di morte, eutanasia,
sacri cio religioso, vendetta legittima, esecuzione di dovere morale o di pubblico uf cio, suicidio
rituale, esigenze rivoluzionarie, lotta all’eresia o quant’altro eticamente e quindi giuridicamente è
stato pensato nelle varie culture e nei vari periodi storici).251

Se fosse il semplice lumen naturale a dettare norme universali fondate su


esigenze o valori universali, come sarebbe possibile che nel mondo e nella
storia vi sia tale varietà di soluzioni normative? Persino tra quelli che si
rifanno proprio all’idea di un lumen naturale universale troviamo
divergenze inconciliabili; basta guardare alle conclusioni cui giungono il
governo della California e quello del Vaticano sull’aborto252.
I controesempi potrebbero moltiplicarsi per ciascuno dei trenta articoli
dell’UDHR. È importante però osservare come il grado di vaghezza degli
articoli varia in modo importante a seconda che facciano o meno
riferimento a istituzioni e usi storici concreti. Così, ad esempio, il
contenuto degli articoli 4 (divieto di schiavitù), 5 (divieto di tortura) e 9
(divieto di arresto arbitrario), sono più determinati in quanto fanno
riferimento, vietandole, a pratiche storiche concrete, di cui c’è evidenza e
memoria storica. È super uo dire che, per quanto qui il contenuto sia più
de nito, anche qui i margini di aggiustamento e interpretazione restano
assai ampli (altrimenti non avremmo mai avuto Guantanamo).
Altri articoli, che nominano particolari diritti politici, fanno di fatto
riferimento implicito a speci ci sistemi istituzionali come i moderni
tribunali (artt. 10 e 11), o l’istituto della cittadinanza (15), o del
matrimonio (16), o della democrazia a suffragio universale (21). Qui il
contenuto del diritto è più de nito che nei diritti di contenuto più
“ loso co” e generale, ma il prezzo da pagare per questa maggiore
de nizione è l’ovvio legame con speci che realtà storiche e sociali, per cui
non ha letteralmente alcun senso logico poter attribuire i relativi diritti a
ogni singolo “membro della famiglia umana”, in quanto tale. Questi
articoli rappresentano semplici proiezioni dello status quo istituzionale
dominante nei paesi promotori del documento. Le espressioni usate sono
comunque sempre suf cientemente vaghe e ambigue da permettere a
gruppi con aspettative molto diverse di non sentirsi esclusi.
Quanto in ne al gruppo dei diritti umani di contenuto sociale (artt. 22-
27), qui la situazione è ancora più paradossale. Si tratta di diritti inseriti
inizialmente sotto la pressione dell’allora Unione Sovietica (che comunque
alla ne si astenne nella votazione nale). Di norma, quando si levano gli
scudi nel denunciare violazioni dei diritti umani, questi diritti sono
curiosamente lasciati nell’ombra, forse perché sono stati violati
sistematicamente e ininterrottamente in quasi tutto il mondo occidentale
dal 1948 a oggi. Che ogni individuo abbia il diritto umano al “lavoro”, alla
“protezione contro la disoccupazione”, a “una rimunerazione equa e
soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia un’esistenza
conforme alla dignità umana” (art. 23) e a “ferie periodiche retribuite”
(24) è parte di un libro dei sogni che conta troppe violazioni, anche nei
paesi più benestanti, per poterle enumerare.
Il problema che emerge in ogni riga dell’UDHR è che questo elenco di
“desiderata occidentali” manca proprio delle due condizioni che ovunque
nella storia consentono a dei valori di trasformarsi in norme condivise e in
diritto positivo: manca del riferimento a un organismo deputato a
implementarle, e manca di una cornice culturale condivisa, che possa
sostenere criteri di interpretazione univoci per quelle che sono solo
verbalizzazioni volutamente vaghe.
28.4 La logica traviante dell’appello ai diritti umani
Ma a questo punto ci si potrebbe chiedere se, dopo tutto, le critiche che
muoviamo non siano sovradimensionate rispetto al problema. In n dei
conti che fastidio ci dà se un organismo internazionale ha redatto un
“libro dei sogni”, proiettando ingenuamente condizioni presenti in alcuni
paesi in una sfera idealizzata? Che problema può rappresentare una
prospettiva ottativa e generica, che pretende, magari un po’ goffamente, di
incarnare una visione universale dell’umanità?
Già. Il problema tuttavia c’è, ed è insito nella forma di vita che viene
promossa (tacitamente, ma anche praticamente) da quell’edi cio teorico.
Per intendere questo punto la prima cosa da osservare è che la forma del
diritto soggettivo è qui assolutamente cruciale. I “diritti umani” non si
presentano come espressioni utopiche di condizioni desiderabili, ma
appunto come diritti, cioè come ciò che Ronald Dworkin chiama trumps
(assi di briscola)253, cioè istanze normative che, una volta riconosciute,
devono battere ogni altra considerazione. La forma logica di un diritto
soggettivo è quella di un’istanza non negoziabile, inerente a un individuo,
che deve poter avere la meglio anche eventualmente a scapito di
importanti interessi pubblici o ni collettivi254. Questa nozione di diritto
trae originariamente la sua giusti cazione dall’esigenza di ammettere
istanze di protezione individuale che non possano essere oggetto di
negoziazione e compravendita. Infatti in assenza di tali diritti un soggetto
debole (ad esempio perché povero) potrebbe sempre cedere le proprie
facoltà in una negoziazione (ad esempio, vendere il proprio diritto di
voto). Al contrario, se si stabilisce che i diritti in questione ineriscono
all’individuo in quanto tale e non sono negoziabili, la sfera di protezione
dovrebbe essere garantita.
Il contesto in cui simili diritti soggettivi hanno senso è però quello di
una comunità politica strutturata, un sistema istituzionale, uno Stato, che
sia in grado di modulare e bilanciare gli spazi di protezione personali con
l’interesse pubblico. Ma cosa accade quando diritti soggettivi di questa
fattura compaiono in un formato che parla a nome di ciascun individuo
della specie umana, al di fuori di ogni tempo, istituzione e cultura? In
sostanza si stabilisce il principio dell’esistenza di istanze individuali che
possono legittimamente abbattere ogni altra considerazione, ogni interesse
collettivo, ogni sovranità nazionale, ogni consenso democratico. Qui, di
nuovo, potrebbe sembrare di essere di fronte a un gioco talmente
utopistico e indeterminato da essere privo di implicazioni pratiche, un
sermone benintenzionato come se ne sentono tanti. Ma tutto cambia
quando il discorso pubblico che assume la validità dei “diritti umani”
diviene egemonico e quando l’agenda internazionale, e i suoi titolari più
autorevoli, iniziano a “farsene carico” sul piano operativo. Questo è il
processo che inizia a prendere forma durante la “Guerra Fredda”, in cui il
riferimento alle “violazioni dei diritti umani” venne brandito
sistematicamente dagli Stati Uniti come sostegno etico alle proprie
iniziative contro l’Unione Sovietica, la Repubblica Popolare Cinese e i
loro alleati, e che fece un salto di qualità con l’ascesa del neoliberalismo
durante gli anni ’70, no a divenire, a partire dagli anni ’90, una sorta di
etica pubblica dominante nel discorso internazionale255.
La concomitanza dell’imporsi del paradigma neoliberale e del discorso
pubblico sui diritti umani merita un’attenta considerazione. Di fatto
l’espressione “diritti umani” non divenne una formula ricorrente prima
degli anni ’70256. Negli stessi anni in cui i diritti sociali in tutti i paesi
occidentali subivano una progressiva compressione, e con la stessa curva
di accelerazione, aumentava lo spazio dedicato nel discorso pubblico ai
“diritti umani”. Studiosi dei diritti umani come Samuel Moyn hanno
provato a darsi ragione di questa concomitanza. Moyn parte
dall’osservazione di buon senso che non possono essere certo stati i diritti
umani a produrre l’era neoliberale, non fosse altro perché gli sviluppi
caratteristici del neoliberalismo appaiono spesso in aperta violazione di
vari articoli dell’UDHR. D’altro canto, tuttavia, non si può negare che
speci ci sviluppi storici, come la fase delle privatizzazioni di massa in
Europa Orientale dopo la caduta dell’URSS, abbia visto le organizzazioni
sui diritti umani singolarmente concentrate sulla difesa dei soli diritti che
non interferivano con i processi neoliberali, chiudendo gli occhi di fronte
all’incremento abissale delle diseguaglianze, e alla svendita del patrimonio
pubblico a oligarchi di dubbia fama257. La conclusione che l’autore ne trae
è piuttosto debole; egli ritiene che la concomitanza tra i due sviluppi vada
letta nei termini di una semplice carenza, un’insuf cienza dell’apparato
predisposto a far rispettare i diritti umani nel limitare la diseguaglianza
neoliberale e le violazioni dei diritti sociali: proprio perché la “rivoluzione
dei diritti umani ha focalizzato così intensamente sugli abusi statali” essa
avrebbe mancato di riconoscere l’obliterazione neoliberale
dell’eguaglianza .
258
Quest’interpretazione sembra tuttavia non vedere alcuni nessi
importanti. Quando ci si trova di fronte a due fenomeni che mostrano una
stretta concomitanza, se non si riesce a stabilire un nesso causale dell’uno
sull’altro, l’alternativa più plausibile da considerare è che siano entrambi
l’effetto di un terzo mutamento a monte. E questo è precisamente quanto
sembra avvenire nel caso del nesso tra sviluppi neoliberali e imposizione
del paradigma dei “diritti umani”. Il terzo movimento a monte è l’imporsi
storico della ragione liberale, le cui premesse individualistiche e
antistataliste si biforcano a partire dagli anni ’70, da un lato nei processi di
privatizzazione neoliberali, e dall’altro nell’imporsi di un modello etico
radicalmente individualista.
La seconda rami cazione è quella che sfocia nel “regime di ragione” dei
diritti umani, e merita qualche chiarimento. In questa dinamica sono
distinguibili tre aspetti, che andremo a descrivere: l’individualismo
metodologico collaterale alla logica dei diritti umani, il loro
“rivendicazionismo”, e in ne la loro intrinseca manipolabilità.
28.5 L’individualismo metodologico dei diritti umani
In che senso l’ideologia dei “diritti umani” può essere accusata di essere
individualistica? Dopo tutto, se ci appelliamo ai diritti umani per aiutare
persone che non siamo noi, perché mai dovremmo pensare alla morale dei
diritti umani come a una morale “individualistica”?
Ma qui bisogna notare come, nonostante la frequente sovrapposizione,
“individualismo” ed “egoismo” non siano nozioni coincidenti. L’ideologia
dei diritti umani assume proprio quello stesso “individualismo
metodologico” che Ludwig von Mises invocava come “microfondazione”
della teoria economica259. I diritti vengono immaginati come inerenti
all’individuo “naturale”, cioè astratto, astorico e aculturale, cioè a
qualcosa che non è mai esistito e che, con riferimento all’individualità
personale, non può di principio esistere260. L’individualismo metodologico
non afferma che le nostre azioni debbano necessariamente perseguire
nalità egoistiche, ma afferma che l’analisi di qualunque intero sociale o
qualunque dinamica collettiva può (e anzi deve) essere fornita sulla scorta
degli atti, delle intenzioni e dei valori dei singoli individui che la
compongono. Che sul piano economico ciò non funzioni, che cioè effetti
preterintenzionali, esternalità, beni posizionali ecc., creino dinamiche
irriducibili all’analisi su base individuale, è piuttosto noto, e non ne
discutiamo in questa sede261. Il punto che invece ci preme sottolineare è
un altro, e precisamente che questa centratura della legittimazione etica
sui “valori” dell’individuo astratto comporta una rilevante trasformazione
del modo di concepire la motivazione etica. Il dispositivo dei “diritti
umani” crea un paesaggio teorico in cui richieste individuali che non
fanno riferimento a nessun organismo sociale o contesto culturale, e che
nessuno nora ha riconosciuto, possono essere poste come eticamente
fondanti ed esistenti “in natura”, in attesa che qualcuno se ne faccia
carico.
È importante comprendere il costitutivo irrazionalismo di questa
visione: possono essere poste come eticamente fondanti entità (richieste,
esigenze, rivendicazioni) che per de nizione non hanno bisogno del
criterio epistemico più fondamentale, cioè dell’accordo intersoggettivo.
Questo punto si manifesta chiaramente quando si nota come
l’agglomerato dei “diritti umani” non abbia niente di sso, e non sia da
ricondurre necessariamente all’elenco dell’UDHR, ma sia invece un
insieme che tende continuamente a crescere e a complessi carsi. Negli
ultimi anni si sono moltiplicate richieste di riconoscimento di nuovi diritti
umani come il “diritto dei bambini a essere amati”, il “diritto alla pace”, il
“diritto al suicidio assistito”262, o ancora il “diritto a conoscere i propri
genitori”, il “diritto alla sessualità”, il “diritto a una famiglia”, il “diritto
all’informazione”, il “diritto all’acqua”263 ecc.
Naturalmente non tutte le richieste di riconoscimento di un nuovo
“diritto umano” sono immediatamente accolte, diventando qualcosa
intorno a cui mobilitarsi, tuttavia qui il passaggio centrale sta nella
trasformazione che subisce l’idea di “diritto”, che sul piano fondazionale
diviene indistinguibile da un semplice desiderio. Così, il dispositivo teorico
dei “diritti umani”, attraverso il suo individualismo metodologico,
produce simultaneamente due effetti: delegittima gli ordinamenti sociali
(comunità, collettivi, nazioni) come sorgente di diritto e accredita il
desiderio individuale come fonte di diritto.
28.6 La logica “rivendicazionista” dei diritti umani
Il passaggio successivo è cruciale e conseguente all’individualismo
metodologico. Nel momento in cui si fa posto all’idea che propensioni o
desideri personali possano essere fonte primaria di diritto si crea uno
scenario in cui il desiderio personale è legittimato a imporre obblighi a terzi.
Anche qui, naturalmente, non può accadere nella realtà che un desiderio
individuale si trasformi immediatamente in diritto, e dunque in obbligo
per altri: è una situazione che collasserebbe immediatamente nel bellum
hobbesiano. Ciò che invece tende ad accadere è che la forma privilegiata
per l’ottenimento di norme sociali diviene la rivendicazione, il contenzioso,
la s da aggressiva che si appella a un potere estraneo per avere ragione. È
importante comprendere il peso di questa metamorfosi della sfera
normativa. In tutta la storia umana e no a tempi recentissimi la fonte
primaria della normatività sociale, che si tratti di diritto scritto o
consuetudinario, è stata la concordia pratica, la capacità di certe aspettative
di far funzionare un gruppo sociale. Ciò si incarnava in costumi prevalenti,
tradizioni, regole tacite che, nelle società dotate di diritto scritto, potevano
trasporsi in leggi vere e proprie. La legge scritta creava poi le condizioni
per discernere i casi dubbi, per districare le situazioni ambigue, dove
capitava di appellarsi a costumi differenti con esiti con ittuali. Su questa
base si presentavano come fonti normative naturalmente anche la volontà
del sovrano o quella di assemblee legislative sovrane. Nel diritto moderno
gli usi e i costumi, la normatività sociale tacita, sono considerati soltanto
una fonte di diritto terziaria (dopo le fonti costituzionali e la legislazione
corrente) in quanto si assume che il diritto scritto abbia già assorbito nel
tempo quell’originaria base informale, e dunque la includa in una forma
logicamente sorvegliata e precisa.
Ciò che è essenziale comprendere qui è che il funzionamento di ogni
regola e ogni legge presuppone sempre necessariamente la condivisione di
abiti collettivi, usi, pratiche sociali, che rendano la norma intelligibile264.
Quando una legge si distacca in maniera troppo netta da tutte le linee di
comportamento sociale condiviso, essa tende a “rimanere sulla carta”,
senza incidere sul comportamento comune (salvo quando si tratti di meri
divieti, che non hanno contenuto proprio).
Il “rivendicazionismo” implicito nel paradigma dei “diritti umani”
capovolge radicalmente il senso della normatività sociale, pretendendo
che desideri soggettivi si impongano a costumi consolidati, anzi,
appellandosi spesso proprio all’esigenza di opporsi al costume consolidato,
che in quanto “tradizionale” e “collettivo” porterebbe con sé uno stigma,
un sospetto di irrazionalità e oppressione. In quest’ottica il “diritto
umano”, invece di assumere come il diritto positivo ordinario una
funzione regolatrice e paci catrice, tende a rappresentare il grido di
battaglia di rivendicazioni sempre nuove, cioè di richieste che qualcun
altro si adegui alle mie esigenze.
L’idea, spesso ripetuta, che una crescita illimitata dei “diritti” sia di per
sé un bene, in quanto crescita di libertà, è naturalmente una sciocchezza
priva di senso. In un contesto sociale ordinario, salvo rare eccezioni, a
ogni diritto di qualcuno corrisponde il dovere di qualcun altro265. La
crescita di alcuni diritti implica la dislocazione di comportamenti altrui, la
limitazione di libertà altrui, la contribuzione altrui all’implementazione di
un certo diritto ecc. Perciò una società infarcita di diritti soggettivi tende a
essere anche una società con elevatissimi tassi di repressione, coazione e
sorveglianza, dove la possibilità di “violare qualche diritto altrui” diviene
un fantasma ossessivo266.
L’aspetto più problematico del rivendicazionismo connesso al
dispositivo dei diritti umani è la sua illimitata tendenza al contenzioso,
all’aggressione mediata da un’autorità terza. I punti quali canti qui sono
due. Il primo è l’impedimento a pensare le ragioni come frutto di una
mediazione: invece di supporre che una buona ragione possa emergere
dalla mediazione con gli altri e i loro interessi, la tendenza imperativa
diventa quella di ipostatizzare le proprie esigenze, assumendo che non
abbisognino di nulla per rappresentare una ragione, e chiedendo poi a
un’autorità esterna di intervenire per allocare ragioni preconfezionate e
sanzioni. In un mondo di estranei – e dove l’estraneità viene
accuratamente coltivata – le differenze di aspettative non sono risolte da
una mediazione comunicativa (che richiede peraltro capacità e fatica), ma
vanno risolte chiedendo a un’autorità delegata di disporre appropriate
forme coattive. Questa disposizione generale è l’esatto opposto di un
“comportamento politico” o di una qualunque disposizione alla
“partecipazione democratica”. Qui, se gli interessi non collimano la strada
da prendere è quella dell’interazione competitiva, della s da per ottenere
quanto più possibile a scapito della controparte. Ciò che sul mercato è la
competizione per il massimo vantaggio economico, sul piano normativo
diviene la lotta per rivendicare il massimo riconoscimento dei propri
desideri. La sacralizzazione delle inclinazioni, opinioni e desideri personali
esige semplicemente di trovare qualcuno che ti dia ragione e ti attribuisca
i mezzi per esercitare la tua volontà.
Il secondo punto quali cante è che lo spazio rivendicativo è
strutturalmente illimitato: non esistendo alcun riferimento assiologico
obiettivo, alcun ideale da raggiungere, alcun punto di caduta de nito, ne
segue che la spinta alla rivendicazione soggettiva tende a essere illimitata
(e chi la evita, peraltro, corre il rischio di essere travolto dalle
rivendicazioni altrui). Essendo i “diritti di natura” sin dall’inizio nzioni
utili alla pratica politica e all’ottenimento di speci ci risultati, quando essi
divengono un modello egemonico la loro mancanza di fondamento diviene
mancanza di limite: non vi inerisce alcuna visione del “mondo giusto” o
della “vita buona”, ma semplicemente la richiesta di “più diritti per sé”.
Il paradigma rivendicazionista genera con ittualità sociale, litigiosità
legale, depoliticizzazione, e forme di intolleranza diffusa, giacché il diritto
altrui si presenta a ciascuno come la semplice vittoria pro-tempore di un
desiderio adeguatamente “armato” (organizzato, potente, nanziato ecc.).
Questo punto ci conduce al terzo tratto di fondo del paradigma dei
“diritti umani”.
28.7 La strutturale manipolabilità dei diritti umani
A partire dalle premesse di cui sopra non è dif cile vedere come il
paradigma culturale egemonico dei “diritti umani” sfoci in un’etica
pubblica che paradossalmente, nel nome di un “diritto” sui generis,
capovolge le premesse di ciò che è stata la maggiore conquista storica
della ragione liberale, ovvero lo “Stato di diritto”. Nel momento in cui i
diritti più fondamentali vengono intesi come istanze inerenti nel singolo
individuo, che non dipendono né da istituzioni né da un consenso
comunitario, e che sono costantemente in eri, l’inevitabile conseguenza è
che lo spazio dei diritti e delle ragioni pubbliche diventi permeabile
all’arbitrio, divenendo con ciò preda dei manipolatori più ef cienti. Il
paradigma dei “diritti umani” riapre paradossalmente le porte al “diritto
del più forte”, che sia la forza di uno studio legale, di uno stato potente, di
una lobby organizzata o altro. La forma di diritto inventata con l’imporsi
del modello dei diritti naturali soggettivi è una forma uida, enormemente
contendibile, reinventabile a piacimento, capace di superare tutte le
barriere di consenso pubblico, sovranità nazionale o legittimazione
democratica. I diritti, come abbiamo detto, si presentano come trumps
fondati in una natura mitologica e imperscrutabile, i cui aruspici,
autorizzati a interpretarne i responsi, niscono per “aver ragione” sulla
semplice scorta della loro forza.
Che le cose stiano così non solo in teoria, ma anche sul piano operativo è
abbastanza chiaro se si guarda alla costante esibizione di doppi standard
nella “tutela internazionale dei diritti umani”. Come abbiamo detto,
l’UDHR non de niva nessun ente preposto a sovraintendere
all’implementazione di diritti così solennemente sanciti, e ciò per l’ovvia
ragione che non esisteva, né esiste, alcun “governo mondiale” e nessuno
Stato al mondo ha preso lontanamente in considerazione l’idea di cedere
la propria sovranità per far amministrare la “giustizia mondiale” al
proprio posto. Ma il fatto che non vi fosse alcuna istituzione preposta
uf cialmente non ha mai impedito al principale promotore dell’UDHR,
cioè gli USA, di assumersi di fatto il Western Man’s Burden, di richiamare
gli altri al rispetto dei diritti umani, e di intervenire quando ritenuto
appropriato. Tali interventi nel nome dei diritti umani sono stati talvolta
promossi direttamente dagli USA (come la “coalizione dei volenterosi”
che ha attaccato l’Iraq nel 2003), talaltra indossando i panni della Nato
(come nei bombardamenti sulla Serbia del 1999), altre volte ancora con la
copertura dell’ONU (come nell’intervento in Libia del 2011, in cui il
primo colpo venne lasciato alla Francia). Ci vogliono abilità dialettiche
non comuni per spiegare come mai Slobodan Miloševic´, responsabile
politico dell’uccisione di qualche migliaio di persone durante la guerra
civile jugoslava, abbia nito i propri giorni in un carcere del Tribunale
Internazionale dell’Aia, mentre George W. Bush, responsabile politico
della distruzione di un paese sovrano (Iraq) e di circa 650.000 morti267,
trascorra una serena vecchiaia nella casa di famiglia, senza nessun
mandato di cattura internazionale pendente. Si potrebbe sospettare che
quando si tratta di valutare nazioni particolarmente robuste e sbrigative,
l’assolutismo deontologico dei cavalieri dei diritti umani si tramuti lesto in
accondiscendente Realpolitik. È del tutto trasparente che esista un doppio
standard per cui alcuni stati, gli Stati Uniti e i suoi più stretti alleati in
primis, possono al tempo stesso appellarsi ai diritti umani contro terzi e
non accettare di sottomettervisi in alcuna misura268. Spesso gli stati che
per il loro peso sanno di non doversi comunque sottomettere a valutazioni
dei diritti umani non si prendono neppure la briga di sottoscrivere
formalmente documenti in tal senso: lo Statuto di Roma che stabilisce la
Corte Criminale Internazionale, entrato in vigore nel 2002, non porta le
rme di USA, Russia, Cina e India.
D’altro canto, le Organizzazioni Non Governative che promuovono
iniziative di difesa dei diritti umani in tutto il mondo hanno grosse
dif coltà a non replicare questo doppio standard. Ciò avviene
innanzitutto sul piano concreto della propria ef cacia, concreta quando fa
da cassa di risonanza per operazioni coerenti con gli interessi delle grandi
potenze, impercettibile quando tocca realtà dove con igge con quegli
interessi269. Ma ciò avviene anche in termini di in uenza diretta sulle
ONG da parte di istanze politiche nazionali: ad esempio l’adesione di
Human Rights Watch a una prospettiva simpatetica con il governo
americano è stata ribadita più volte270, e anche Amnesty International ha
mostrato dif coltà a mantenere un atteggiamento politicamente
equidistante271.
Ma al di là del problema dell’effettiva neutralità politica o meno, il
principale problema legato al ruolo giocato dalle ONG come
“sorveglianti” dei diritti umani concerne la loro natura stessa. Si tratta di
organizzazioni private che si muovono sulla base di valutazioni di
opportunità di cui non devono rispondere a nessuno, i cui criteri di
giudizio sono vaghi, e la cui conoscenza effettiva delle realtà su cui
ritengono di voler intervenire può essere spesso messa in dubbio. Qui il
problema non è la buona fede, che può essere serenamente concessa, ma il
meccanismo stesso del loro funzionamento, alimentato con meccanismi
come il crowdfunding, che opera attraverso l’effetto emozionale su
persone lontane e sconosciute, cui viene chiesto di contribuire a cause di
cui non sanno nulla, in luoghi che non saprebbero trovare su un
mappamondo. Come scrive Hopgood sulle petizioni di Avaaz, esse
possono anche ottenere cinquecentomila rme in poche ore, e tuttavia:
Avaaz non ha voti e non è una circoscrizione politica per nessun decisore, il che la priva di
presa. Essa aspira a prosperare precisamente nel gioco dei meri numeri. Ciò la rende
radicalmente maggioritaria in un senso ristretto, ma non essendo una comunità politica essa
È
manca di relazioni di reciprocità tra i membri o con i bene ciari o con i politici. È una protesta
di estranei. Chi è questa gente, in cosa crede, come sono veramente, e quanto sono responsabili
delle loro decisioni? Essi hanno soltanto l’autorità della folla.272

Questo aspetto non è secondario, ma esprime una questione cruciale e


caratterizzante degli appelli internazionali ai diritti umani. L’ampiezza
interpretativa dei diritti umani e il loro universalismo orgogliosamente
refrattario a contestualizzazioni storiche e culturali, combinata con la
distanza sica e culturale della cosiddetta “opinione pubblica
internazionale” rende l’appello ai diritti umani un’arma di politica
internazionale pericolosa e immensamente manipolabile. Chiunque abbia
avuto occasione di leggere resoconti giornalistici di eventi vissuti in prima
persona avrà probabilmente potuto notare distorsioni, omissioni e/o
drammatizzazioni rispetto alla propria esperienza. Se questo indichi
super cialità del cronista o limitatezza della propria visione può essere
oggetto di dibattito, tuttavia già qui si percepisce acutamente quali enormi
margini di interpretazione possano esservi anche nella descrizione di
eventi comuni da parte di soggetti che hanno tutti i mezzi culturali e
conoscitivi per fornire descrizioni af dabili. Quando si traspone questo
problema nella descrizione di eventi remoti, in paesi culturalmente
distanti, e in situazioni di cui si ha conoscenza vaga o nulla degli
antecedenti, l’esito distorsivo è spesso potente e incontenibile. Quando
intervengono spinte a “capitalizzare” (economicamente o politicamente)
l’emozione suscitabile con quei resoconti, i margini per fraintendimenti
catastro ci divengono rilevanti.
Il modello dell’interventismo mondiale sui “diritti umani” è un
archetipo di hybris. L’opinione pubblica mondiale è rappresentata da
un’immensa pluralità di soggetti estranei tra di loro, e agli eventi che
giudicano, soggetti che vengono incitati a esprimere il proprio sdegno
verso cause di cui hanno sentito resoconti volanti da qualche nestra sul
web, e poi a esprimere il proprio supporto, nanziario o politico, per
“fare qualcosa”. Poiché la maggior parte dei paesi occidentali si pregiano
di avere sistemi democratici, le inclinazioni dell’opinione pubblica
internazionale sono una variabile spesso decisiva per consentire l’avvio di
interventi internazionali, dove vi siano ulteriori interessi concreti a
supporto. I tassi di manipolabilità qui sono abnormi. La cosiddetta
“opinione pubblica internazionale” è un’entità meta sica che si esprime in
occasionali sondaggi e che non ha né il tempo né la preparazione per farsi
un’opinione fondata sui temi che viene chiamata a giudicare. L’opinione
pubblica si esprime sulla base di nestre informative intrinsecamente
limitate, cui peraltro dedica generalmente pochissimo tempo, essendo
chiamata a esprimersi a raf ca su questioni le più disparate in giro per
l’orbe terracqueo. Per queste ragioni, come è stato osservato più volte, la
chiave per ottenere l’attenzione in questi casi è di natura squisitamente
emozionale e passa in massima prevalenza attraverso testimonianze
commoventi o scatti fotogra ci “fortunati”273. L’immagine avvicina ai
nostri occhi un evento estrapolandolo dagli in niti che in ogni istante si
succedono sul pianeta e conferisce un apparente peso evidenziale alle
didascalie, cioè ai resoconti di cui sopra. Una volta suscitata un’emozione
suf cientemente intensa la credenza si consolida e acquisisce lo statuto di
un’evidenza, mettere in dubbio la quale è percepito come cattivo gusto,
quando non senz’altro come “disumanità”. Milioni di persone
“informate”, le stesse che hanno serie dif coltà a comprendere i
comportamenti del proprio dirimpettaio, vengono elette giudici a ore
delle sorti di popoli e culture di cui non sapevano nulla ventiquattr’ore
prima e di cui dimenticheranno tutto in capo ad altre ventiquattr’ore.
Società, culture, situazioni che presuppongono strati cazioni di antefatti,
e coinvolgono milioni di persone, vengono ridotte a brevi narrazioni prêt-
à-porter, confezioni convenzionali di vittime e carne ci. I conseguenti
patrimoni di denaro da crowdfunding, o di sottoscrizioni di petizioni, o di
crocette su di un sondaggio, verranno poi utilizzati da gruppi organizzati
(governi o ONG) con le proprie agende politiche, che grazie a ciò si
sentiranno in diritto di “parlare a nome dell’umanità”.
Naturalmente non è detto che tali processi conducano a esiti dannosi.
Possono dare il via libera a un cacciabombardiere, ma possono anche far
arrivare del cibo a un bisognoso; possono giusti care un sanguinoso
rovesciamento di regime, ma possono anche spingere un governo a salvare
una riserva naturale. Il problema qui è che questo sistema si presenta
come una sorta di sostituto globale dei processi partecipativi e
democratici, mentre in effetti è assai più simile alla Lotteria di Babilonia di
Borges, che determina la vita, la morte o il semplice caos grazie a
convergenze accidentali di interessi. L’illusione prima, circa l’esistenza di
diritti personali disseminati in natura, crea il terreno per l’illusione
seconda: che in un mondo di individui sempre più autoreferenziali e
desocializzati ci si possa comprare una scala per il paradiso con qualche
scampolo di indignazione telecomandata, e relativa donazione. Di fatto
non esiste nessun succedaneo per un giudizio consapevole rispetto alla
conoscenza di lungo periodo, alla partecipazione vissuta, alla discussione
reiterata sul campo. E questo signi ca che, nel migliore dei casi, possiamo
formarci idee fondate, idee all’altezza di una decisione razionale, su quelle
parti di mondo e di storia in cui siamo coinvolti direttamente e con
continuità. Il paradosso odierno è quello di aver prima demolito la
partecipazione a quell’unica sfera dove gli individui (non senza fatica)
possono pervenire a decisioni razionali, cioè la vita reale della polis estesa
no allo Stato, per poi creare succedanei virtuali come la “opinione
pubblica internazionale” e il suo caotico farsi e disfarsi.
28.8 L’era dell’arbitrio dissimulato
Siamo ora in grado di tirare le la. L’individualismo metodologico, il
rivendicazionismo e la manipolabilità che caratterizzano il “paradigma dei
diritti umani” non sono errori contingenti. Sempre più chiaramente il
quadro implicito in quella cornice intellettuale sta venendo alla luce, ad
esempio con l’abbandono del tentativo di dare una fondazione ai diritti
umani e con il suo rimpiazzo con una “funzione politica” degli stessi274.
Tale funzione politica non ha più una fondazione democratica, ma parte
da una dimensione sovranazionale dove tali diritti sono de niti da chi li
implementa di fatto, ovvero (così Rawls) dai “popoli ben ordinati”,
includenti “popoli ragionevolmente liberali” e “popoli decenti”275. Sono
questi popoli a stabilire le leggi internazionali (la “Legge dei popoli”) e a
stabilire con ciò l’importanza dei “diritti umani”. Qui oramai gli originari
dubbi antropologici sulla legittimità di una visione politica che estendeva
imperialisticamente le proprie opinioni correnti a tutto il mondo, e a tutta
la storia, sono scomparsi. Al posto di quei dubbi c’è la serenità con cui il
centro dominante del potere militare ed economico de nisce i criteri
morali di appartenenza ai “popoli ben ordinati”, legifera su quella base, e
in ne esegue le relative sentenze.
Alle pretese di diritto universale e di naturalità prepolitica è così
subentrata senza particolari remore una prospettiva di Realpolitik, che
però ri uta di riconoscersi come tale, una prospettiva dove vige di fatto la
legge del più forte – da soli o in alleanze. Naturalmente, come un tempo ci
si poteva augurare che l’Imperatore non fosse né folle né malvagio, ma
agisse saggiamente, così oggi si può sperare che l’arbitrio dell’imperio dei
“popoli ben ordinati” sia un arbitrio moderato. In questo quadro i “diritti
umani” rivestirebbero il ruolo formale di circoscrivere le ragioni per una
guerra giusti cabile e di sancire le limitazioni di sovranità dei governi
(anche quelli democratici e decenti)276. Si è qui di fronte a una visione
paradossale della “legge” dove ogni separazione dei poteri si è dissolta,
dove ogni processo democratico è assente, e dove con tutta evidenza i
giudici non sono sottoposti alle proprie leggi. Quanto questa situazione di
arbitrio soddisfatto di sé abbia a che fare con l’opinione che la ragione
liberale è solita avere di sé, è un interrogativo in attesa di risposta.
Per ottenere una visione d’insieme, proviamo a fare un passo indietro,
alle origini della ragione liberale. Come abbiamo osservato in precedenza,
l’avvento della ragione liberale ha creato lo spazio per una nuova idea di
libertà: non più libertà legata alla partecipazione alla vita pubblica, alla
capacità concreta di giocare un ruolo nel proprio mondo, ma libertà
negativa, in cui l’individuo chiedeva un ambito di non interferenza e
inviolabilità. Questa mossa aveva la sua ragione di fondo nell’esigenza di
staccarsi dalla tradizione normativa, sociale e istituzionale del passato, che
si dimostrava inadatta alle emergenti forme di vita e produzione. Ciò che
può passare inosservato in questo passaggio è che l’idea di libertà così
emersa, proprio in quanto nasce con una funzione di distacco rispetto a
quel mondo culturalmente, socialmente e normativamente denso, di fatto
ottiene il suo senso da ciò che nega. La libertà liberale negando il mondo
precedente de nisce la propria esistenza in relazione a esso. Ciò ha
un’implicazione assai importante: con il regredire del “mondo antico”, e
dunque con il progressivo trionfo della ragione liberale, anche la “libertà
liberale” deve subire una trasformazione. Essa non può più limitarsi a
operare in funzione negativa, critica, rispetto a un ordinamento
prevalente, ma deve uscire dalla propria condizione di mera reattività
divenendo attiva, propositiva, “positiva”.
A questo punto due strade sono aperte davanti a essa. Essa può divenire
“auto-nomia”, può diventare la matrice di una nuova socialità, una nuova
normatività, un nuovo ethos, una nuova tradizione, capace di stabilire così
una nuova libertà positiva, partecipativa. Non v’è dubbio che Marx
immaginasse il socialismo/comunismo precisamente così, quando lo
nominava come la comunità in cui “il libero sviluppo di ognuno è
condizione per il libero sviluppo di tutti” (se poi la proposta marxiana sia
all’altezza dell’intento è altra questione).
Ma cosa accade se invece la libertà negativa del liberalismo diviene
istanza propositiva senza superare il proprio carattere meramente negativo,
e dunque soggettivistico, privo di ancoramento sociale, culturale e
valoriale? La risposta è semplice e ce la fornisce il § 15 dei Lineamenti di
Filoso a del Diritto di Hegel: essa diviene arbitrio. Con arbitrio si intende
l’apparenza della libertà quando viene esercitata senza appellarsi ad
alcuna dimensione razionale, normativa e valoriale che ne circoscriva e
de nisca la portata: la libertà ridotta al “poter fare quel che si vuole”
perché lo si vuole277.
Nel contesto del trionfo della ragione liberale, a partire dagli anni ’70
del XX secolo, la libertà negativa del liberalismo classico “diviene ciò che
è” traducendosi in arbitrio, cioè in una forma di libertà priva di senso del
limite, priva di fondamento e persino della preoccupazione del
fondamento, mossa semplicemente dalla propria volontà di imporsi.
L’esito paradossale della libertà negativa trionfante è che essa comincia a
esprimere il proprio originario carattere di “rivendicazione difensiva” in
modo impositivo, aggressivo. Una volta ottenuto il trionfo su tutto ciò che
restava del “vecchio mondo” la libertà negativa diviene appunto arbitrio.
A questo punto la ragione liberale inizia a divorare se stessa.
Questo è il processo che si esprime nella strutturale bulimia
dell’economia capitalista, dove la pluralità di spinte competitive
individuali deve convertirsi in “crescita” a prescindere da ogni valutazione
di necessità, bontà o utilità. Con la svolta neoliberale il sogno ordoliberale
di Röpke, con le sue piccole unità famigliari in equilibrata competizione e
bucolica armonia ambientale, lascia lo spazio alla realtà del governo delle
concentrazioni di capitale, di cui i governi politici tendono a essere
strumenti e i cittadini mezzi di produzione.
Questo è il processo che si esprime nell’etica del “diritto naturale
soggettivo”, che nisce per esautorare le comunità storiche, i ni collettivi
e in ne le sovranità democratiche, costruendo un edi cio istituzionale
dell’arbitrio, nazionale e sovranazionale.
29. Ragione liberale e liquefazione sociale (dal second-wave feminism al
postumanismo)
Il processo involutivo della ragione liberale che abbiamo osservato con
riferimento all’idea di “diritto naturale soggettivo” mostra un evidente
parallelismo nello sviluppo di quella questione epocale che è la “questione
femminile”, così come sviluppata dal femminismo. La transizione storica
della ne degli anni ’60 ha portato alla luce una profonda metamorfosi
delle istanze femministe, metamorfosi che corre in parallelo con ciò che
abbiamo osservato sul piano dei “diritti umani”: un’accentuazione del
soggettivismo, una rimozione dell’analisi storico-economica, e l’emergere
di una forma di “rivendicazionismo”.
Per tentare di fare un po’ di chiarezza in questa complessa e controversa
questione è opportuno dare un po’ di profondità storica al tema,
socialmente fondante, dei rapporti tra i sessi.
29.1 Le origini
Per quanto possa sembrare super uo ribadirlo, i rapporti tra i sessi non
sono uno qualunque tra i molti temi sociali di cui discorrere, ma il più
fondativo, pervasivo e radicale tra essi, da cui letteralmente la
sopravvivenza storica di ciascuna società è sempre dipesa, e continua a
dipendere. La specie umana è quella in cui la riproduzione e l’allevamento
della progenie rappresenta di gran lunga il maggior investimento di tempo
e risorse rispetto a ogni altra specie, anche prossima, come le scimmie
antropomorfe. La gravidanza prolungata, il parto di norma singolo, la
lunga cura dopo la nascita, e l’esteso addestramento sociale sono
componenti strutturali della specie, che ne portano alla luce le potenzialità
e gli speci ci vantaggi evolutivi. In quest’ottica possiamo comprendere
l’ubiquità nella specie umana (e invero, già in specie prossime come gli
scimpanzé)278 di forme di “divisione sessuale del lavoro”.
Va subito osservato che l’espressione “divisione del lavoro” è qui
piuttosto forzata e a rischio di fraintendimento. Parlare di “divisione
sessuale del lavoro” evoca i processi di specializzazione massimizzante che
hanno caratterizzato l’evoluzione capitalista, mentre ciò di fronte a cui ci
troviamo è piuttosto una forma di complementarità funzionale, che ha
davvero poco a che spartire con Adam Smith. Tuttavia, trattandosi di
un’espressione entrata nell’uso comune, non possiamo che continuare a
usarla, esortando tuttavia a respingere associazioni improprie con
dinamiche precipuamente capitalistiche.
La prima e fondamentale “divisione sessuale del lavoro” è quella
ricordata dall’espressione antropologica “cacciatori-raccoglitori”. Circa il
90% della storia nota dell’umanità ha conosciuto esclusivamente la forma
sociale dei “cacciatori-raccoglitori”, e ancora nel 1500 un terzo del pianeta
era popolato da popolazioni di cacciatori-raccoglitori279. Nelle cosiddette
società di cacciatori e raccoglitori, la caccia era attività essenzialmente
maschile e implicava l’allontanamento dal ricovero del gruppo, mentre la
raccolta di bacche e semi era attività essenzialmente femminile, in quanto
avveniva in prossimità dell’insediamento, per compatibilità con la
sorveglianza della prole280. All’origine di questa divisione stanno due
fattori naturali, ovvero il dimor smo sessuale tra maschi e femmine, con la
tendenziale maggiore massa muscolare dei primi, e l’asimmetria nella
facoltà riproduttiva, in cui gravidanza e allattamento sono monopolio
femminile. È importante osservare, sulla scorta sia di gruppi ancora
esistenti che di ricostruzioni storiche, come l’organizzazione sociale dei
gruppi di cacciatori-raccoglitori manifesti un elevato livello di eguaglianza,
in termini di dignità e potere decisionale, tra soggetti maschili e
femminili281. Il quadro che si presenta in questo contesto organizzativo è
quello di una complementarità funzionale tra i sessi, con una
differenziazione dei ruoli che esprime coessenzialità, e che dunque non si
ripercuote in gerarchie di potere.
Con la graduale transizione alle società agricole stanziali (intorno al
10.000 a.C.) e in particolare con l’estensione delle strutture organizzate
dell’età del Bronzo (dal 3.000 a.C.) si avvia un progressivo mutamento di
quella complementarità. L’originaria “divisione sessuale del lavoro” aveva
de nito sommariamente una partizione de nita dalla soglia “interno-
esterno”, dove il femminile aveva competenza sulla sfera dell’interno, cioè
dell’intrafamigliare, e il maschile sulla sfera dell’esterno, o extrafamigliare.
Con l’estendersi delle dimensioni dei gruppi sociali e il loro strutturarsi
territoriale questa partizione “interno-esterno” si trasforma in partizione
“privato-pubblico”. La donna ha controllo e competenza nella sfera
privata, l’uomo in quella pubblica. Questa asimmetria è ricca di
implicazioni, in quanto nel corso della storia umana, speci camente con la
comparsa della scrittura e l’ampliarsi degli insediamenti, la sfera pubblica
si sviluppa in maniera molto più estesa e diversi cata di quella privata.
Nella sfera pubblica nasce ciò che chiamiamo oggi “potere” senza
aggettivi, ma che è in effetti propriamente il potere legale e politico.
L’ambito del potere legale e politico, del potere in cui vigono leggi scritte
e istituzioni, si estende progressivamente nel corso degli ultimi tre
millenni, e in quanto ambito extrafamigliare esso eredita l’antecedente
divisione sessuale del lavoro, con gurandosi come sfera di prevalente
competenza maschile. Questo è l’ambito di cui abbiamo uf cialmente
storia, che è storia scritta della sfera pubblica, e in cui dunque le gure
maschili si stagliano con nettissima prevalenza rispetto alle gure
femminili, proprio a partire da quella arcaica “divisione del lavoro”.
Intendere questa asimmetria dei ruoli nel potere pubblico come
“oppressione” sarebbe tuttavia un indebito anacronismo. Il nostro
moderno senso di giustizia è strettamente legato alle idee di parità e
uguaglianza, ma questa è una prospettiva estranea alla stragrande
maggioranza della storia umana no a tempi recentissimi. La nozione
antica e tradizionale di giustizia è bene espressa dal principio del diritto
romano: unicuique suum tribuere (attribuire a ciascuno ciò che gli spetta).
E ciò che spettava a ciascuno era la sua appropriata posizione e compito
in una società permeata di relazioni gerarchiche da capo a fondo. Prima
del XVIII secolo (dunque no 12-14 generazioni fa), più o meno ovunque
nel mondo, la posizione di ciascun individuo era de nita dalla
subordinazione a qualcun altro. In questi modelli di società gerarchiche il
“giusto” è il comportamento, di solito consuetudinario, che conferisce al
subordinato precisi doveri di obbedienza verso il sovraordinato, e a
quest’ultimo precisi doveri di cura verso il subordinato. Nella sensibilità
moderna l’idea di dipendere dalla benevolenza del superiore è vissuta con
disagio, quando non senz’altro come un affronto alla propria dignità; nella
storia umana tuttavia questa è stata la condizione normale per tutti, salvo,
di volta in volta, uno (re, imperatore, ponte ce ecc.). Il “paternalismo” è
la nota etica caratterizzante di tutte le etiche tradizionali, informate da un
modello di società mutuato dall’idea dei rapporti famigliari. Così, se
gettiamo uno sguardo, ad esempio, alla storia romana, di cui abbiamo
ampia documentazione, vi troviamo una chiara condizione di
subordinazione legale della donna rispetto al padre e al marito, ma vi
troviamo anche ampia testimonianza dell’in uenza e della capacità di farsi
valere delle donne282. L’inferiorità dello status pubblico non equivaleva a
oppressione o sfruttamento, che potevano presentarsi, ma che non
rappresentavano la normalità.
La forma della “realizzazione personale” nelle società premoderne
raramente ha la forma del trionfo individuale, necessariamente riservato a
esigue minoranze, ma è piuttosto quello della buona rappresentanza di ciò
che compete al ruolo. E questo valeva per chiunque, uomini e donne. A
grandi linee, per millenni l’aspettativa strutturata del rapporto tra uomo e
donna era informata da un modello dove la donna portava con sé una
dote, e il marito si impegnava a mantenerla, mentre il di lei principale
compito sarebbe stato di essere moglie, e soprattutto madre283. La rigidità
di questo ordinamento (come, peraltro, di ogni ordinamento più vecchio
di un secolo) può suonare oggi oppressiva, ma nulla fa apparire che fosse
usualmente percepita come tale. Qui l’ideale di fondo è quello di una
“benevola complementarità”, non quello dell’eguaglianza di diritto. Quale
delle due posizioni nel rapporto tra i sessi fosse storicamente la più
“comoda”, o la meno onerosa, è questione di assai dif cile risoluzione:
erano i doveri della gravidanza e della cura più o meno onerosi dei doveri
del lavoro e della guerra? È probabile che ogni discussione in merito sia
destinata a rimanere inconcludente.
29.2 Rivoluzione industriale e primo femminismo
Qualcosa di essenziale comincia a cambiare con l’emergere del “mondo
nuovo” delle relazioni capitalistiche. Nel mondo dell’economia
capitalistica in corso di affermazione, dalla seconda metà del Settecento in
Europa, i nessi sociali di tipo informale, le obbligazioni di tipo
paternalistico, le forme di lealtà implicita tra “inferiori” e “superiori”, si
spezzano. Sempre più chiaramente la dignità si acquista nella sfera
pubblica del lavoro e della partecipazione politica, la cui rappresentanza
inizia a estendersi. Sul piano dei rapporti economici il paternalismo,
ancora manifesto nell’Inghilterra post-elisabettiana, si mostra sempre più
inadeguato. Inadeguati i rimproveri morali ai poveri, la cui
disoccupazione veniva vista come pigrizia; inadeguato il sistema di
sostegno alla povertà delle parrocchie; inadeguato il ricorso al lavoro
semi-coatto nelle workhouses ecc. Similmente, il paternalismo nei rapporti
tra uomini e donne mostrava sempre più evidentemente la corda. È in
questa nuova atmosfera sociale che prende le mosse ciò che oggi
chiamiamo “femminismo”, il cui inizio simbolico è fatto spesso coincidere
con la pubblicazione nel 1792 di Vindication of the Rights of Woman di
Mary Wollstonecraft.
La progressiva insostenibilità del vecchio modello sociale iniziò ad
apparire chiara anche sul piano strettamente funzionale. In un censimento
britannico del 1851 emerse come il 30% delle donne tra i trenta e i
quarant’anni risultassero nubili, il che nella tradizionale divisione dei ruoli
avrebbe signi cato un alto rischio di mancanza dei mezzi di sussistenza284.
L’esigenza di fare spazio anche nella società borghese al lavoro femminile
(già ampiamente praticato tra i proletari), divenne perciò sempre più
chiara. Nonostante le resistenze di molte donne, che, coerentemente con
la tradizione, vedevano in ciò una caduta di status, gli spazi del lavoro
femminile si aprirono.
Quanto ai rapporti tra i sessi, il processo di aggiustamento della società
occidentale al nuovo sistema di produzione rappresentava una rivoluzione
non inferiore a quello che era stato il rovesciamento dei rapporti sociali
rispetto all’Ancien Régime. Su pressione di un movimento crescente, cui
parteciparono sia donne che uomini (si pensi a Harriet Taylor e al suo
secondo marito, il losofo John Stuart Mill)285, si mise mano
gradualmente, e non senza notevoli resistenze, a una radicale modi ca
della posizione sociale della donna, in direzione di una pari cazione dei
diritti con l’uomo. Questo processo implicava l’accesso a tutti i livelli
educativi (mentre in precedenza l’istruzione terziaria era di norma
preclusa alle donne), la parità legale in tutte le forme di diritto di
proprietà, la parità nella tutela legale dei gli, il diritto di voto e di piena
partecipazione politica ecc. Nell’arco di tempo che va dal 1906
(Finlandia) al 1971 (Svizzera) tutti i paesi occidentali pervengono al
riconoscimento del suffragio universale femminile.
29.3 Il femminismo della “seconda onda”
A cavallo tra la ne degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 anche il
femminismo subisce una metamorfosi radicale. In un articolo uscito sul
“New York Times Magazine” nel 1968 viene usata per la prima volta la
distinzione tra rst-wave feminism, con cui si nomina il femminismo
tradizionale, che nei precedenti centocinquant’anni aveva mietuto evidenti
successi, e un nuovo femminismo, chiamato femminismo della “seconda
onda” (second-wave feminism).
Per comprendere questo spostamento verso una nuova forma di
femminismo bisogna focalizzare da un lato sul cambiamento
dell’atmosfera culturale rappresentata dal ’68 e che abbiamo già avuto
modo di esaminare, e dall’altro sugli esiti delle lotte del rst-wave
feminism. Alla ne degli anni ’60, almeno nei paesi occidentali, l’idea di
una parità completa tra uomo e donna si era affermata, il suffragio
universale era stato ottenuto, le nuove generazioni nate poco prima o
poco dopo la ne della Seconda guerra mondiale avevano metabolizzato
l’idea di eguaglianza tra i sessi, e le costituzioni di tutti i paesi la
esplicitavano. Questa vittoria sul piano formale e legale non signi cava
che la transizione a un nuovo ordinamento paritario fosse compiuta.
Come in ogni cambiamento storico radicale, e questo lo era certamente,
strascichi e inerzie sono inevitabili, anche perché ogni vecchio equilibrio
può essere serenamente abbandonato solo quando un nuovo equilibrio
viene trovato; e trovare un nuovo equilibrio sostitutivo di ordinamenti
sociali millenari non è questione banale. Così alla ne degli anni ’60 le
abitudini relazionali si modi cavano gradualmente, le aspettative circa
quali fossero le attività “appropriate” per ciascun sesso cambiavano “per
prove ed errori”, mentre nelle aree più arretrate, e nelle generazioni più
anziane, l’ordinamento tradizionale dei rapporti continuava a opporre una
siologica resistenza al cambiamento. Anche sul piano strettamente legale
rimanevano elementi di trattamento asimmetrico da emendare: ad
esempio in un paese tra i meno solleciti a recepire le novità sociali come
l’Italia, per vedere l’abolizione delle attenuanti per il “delitto d’onore” e
per veder delegittimata la pratica del “matrimonio riparatore” si dovrà
attendere il 1981.
Accanto a queste questioni, ma su un piano differente, rimaneva (e
ancor oggi rimane) il problema strutturale di come abbinare nel nuovo
ordinamento sociale lo spazio della procreazione e dell’accudimento con
le richieste del regime capitalistico. Tutto il millenario sistema della
cosiddetta “divisione sessuale del lavoro” ruotava intorno al
riconoscimento della cruciale importanza per l’esistenza e la prosperità
umana dello snodo procreazione-accudimento. Per quanto nel XX secolo
i progressi della medicina abbiano ridotto drasticamente i rischi connessi
alla gravidanza, e per quanto svariati prodotti ed elettrodomestici abbiano
alleggerito attività collaterali all’accudimento, nella specie umana quello
snodo restava e resta oneroso, e non intercambiabile tra i sessi. La logica
interna delle relazioni di tipo capitalistico presenta due sole opzioni
compatibili: o l’accettazione di una piattaforma “unisex” con l’implicita
rinuncia alla procreazione, oppure l’abbassamento del valore di mercato di
quella “forza lavoro” che è impegnata, o potrebbe essere impegnata,
nell’attività procreativa. Questa seconda dinamica è quella che si
ripercuote ancor oggi nel persistere di differenziali salariali medi tra
uomini e donne, giacché sta nell’essenza delle dinamiche dello “scambio
competitivo” utilizzare ogni “debolezza” (anche solo potenziale) della
controparte per comprimerne le pretese. Sul piano concreto, solo un
intervento di tipo statale, estraneo e compensativo alle logiche di mercato,
può risolvere questo problema, senza rassegnarsi né alla diseguaglianza né
alla denatalità.
Questi importanti problemi residui nel processo di aggiustamento verso
un nuovo equilibrio furono oggetto di una reinterpretazione radicale nella
nuova temperie culturale a cavallo del ’68. I rapporti di complementarità
funzionale tra uomo e donna vennero interpretati sulla falsariga del
rapporto capitalistico tra sfruttatori e sfruttati, proiettando
retrospettivamente un canone storico recente all’intera storia
dell’umanità286. Il rapporto tra uomo e donna viene dunque concepito
come il più antico sistema di sfruttamento di classe, fondato sulla
divisione sessuale del lavoro, per abbattere il quale sarebbe necessario un
superamento di tale divisione287. Sulla scorta dello slogan sessantottino
secondo cui “il personale è politico” venne proposta una lettura della
storia in cui il potere maschile sarebbe stato costantemente esercitato e
rinforzato utilizzando strumentalmente istituzioni “personali” come il
matrimonio, l’allevamento dei gli, e le pratiche sessuali288. La pervasività
di questo sistema di sfruttamento è ritenuto radicale: esso godrebbe
ancora di grande seguito perché gli sfruttati (cioè le donne) non avrebbero
ancora preso pienamente coscienza della propria condizione, e
continuerebbero perciò a collaborarvi inconsapevolmente. Per questa
ragione l’atteggiamento che viene promosso nel second-wave feminism è
quello di una militanza politica con nalità persuasive: non basta chiamare
le donne alla ribellione, ma bisogna prima renderle consapevoli che, per
quanto possano ritenere di aver liberamente scelto la propria condizione
(ad esempio di moglie o madre), di fatto esse avrebbero semplicemente
introiettato il punto di vista dell’oppressore289.
Il second-wave feminism diverge in maniera nettissima dal femminismo
classico e dalle sue istanze. Mentre quest’ultimo era stato mosso dall’idea
dell’eguaglianza di diritti tra uomini e donne, la “seconda onda” mira a un
“rovesciamento del potere”, che corregga le ingiustizie del passato.
Mentre il primo femminismo era mosso da un ideale egalitario, il secondo
è mosso da un ideale rivendicativo. Mentre il primo aveva tentato di
costruire una nuova unità, un nuovo equilibrio nei rapporti tra i sessi, il
secondo mirava al riconoscimento di un’irriducibile differenza290. Mentre il
primo aveva fatto ampio spazio a gure maschili, alleate nella richiesta di
parità, il secondo si concepisce come un atto di s da belligerante nei
confronti del sesso maschile in quanto tale.
Va notato come le istanze rivolte al riconoscimento delle differenze, e
alla rivendicazione di ragioni brandite come orgogliosamente “di parte”,
si armonizzassero perfettamente con la nuova atmosfera neoliberale, tutta
rivolta a cancellare ogni traccia di egalitarismo e ogni senso di unità
sociale291.
Naturalmente, come in ogni movimento storico e politico, anche
nell’ambito del second-wave feminism è possibile trovare una pluralità di
posizioni e sfumature, e non pretendiamo qui di fornirne un resoconto
con pretese di esaustività. Possiamo tuttavia identi carne un nucleo
generalmente condiviso, espresso attraverso due concezioni
caratterizzanti: l’idea di patriarcato, e la distinzione tra sesso e genere.
Proviamo a tratteggiarne brevemente il signi cato.
29.3.1 Sul “patriarcato”
In antropologia la nozione di “patriarcato” indica la gestione del potere
pubblico per linea maschile, paterna. Nonostante nel corso dell’Ottocento
gli studi di Bachofen292 avessero ipotizzato l’esistenza storica di società
matriarcali, di fatto questa ipotesi si è successivamente dimostrata
infondata293. Esistono società matrilineari, cioè in cui l’appartenenza al
gruppo e alla famiglia viene de nito secondo la discendenza per parte di
madre (ad esempio l’ebraismo), ed esistono società con distribuzioni
variabili di ricchezza e di distinzione tra uomini e donne, ma non risultano
casi acclarati in cui l’autorità pubblica sia stata af data unilateralmente
alla linea femminile (matriarcato). Come abbiamo osservato in
precedenza, tuttavia, potere e potere pubblico non sono la stessa cosa,
giacché l’autorità intrafamigliare rappresenta un nucleo di in uenza meno
appariscente, ma costante e cruciale, capace di trasmettersi al di fuori
della sfera privata294.
Nel 1970, con Sexual Politics di Kate Millett295, prendeva piede per la
prima volta nel dibattito pubblico la peculiare accezione femminista della
nozione di “patriarcato”. La differenza tra il precedente concetto storico-
descrittivo e quello femminista sta tutto nel concepire la “divisione
sessuale del lavoro”, con la subordinazione femminile nella sfera del
potere pubblico, come espressione di un sistema di oppressione e
sfruttamento delle donne da parte degli uomini296. Partendo dalle
condizioni del mondo contemporaneo, la capacità di comprendere un
sistema sociale diverso, come quello che ha dominato la storia
dell’umanità negli ultimi millenni, appare compromessa e l’unica
spiegazione per un sistema di ordinamento gerarchico diventa quella
ottenuta proiettando nel passato i moderni rapporti di sfruttamento
capitalistico. Il modello sociale della “reciprocità asimmetrica”, che
caratterizza i sistemi di scambio di tipo oblativo (“economie di dono”)
appare ora inintelligibile297.
Questo spostamento del peso sulla nozione di patriarcato riveste un
signi cato particolare, rappresentativo della svolta avvenuta. Millett
riconosceva i progressi avvenuti sul piano legale e istituzionale nella
cornice del rst-wave feminism, ma lamentava una mancanza di risultati
sul piano della coscienza, degli abiti mentali298. Il patriarcato, nella nuova
accezione, voleva identi care precisamente la dimensione culturale,
ideologica, la struttura psichica che doveva essere abbattuta per portare la
“rivoluzione sessuale” a compimento299.
In perfetta continuità con la svolta postmodernista, anche il femminismo
abbandona dunque la dimensione dell’analisi strutturale, socioeconomica,
e si concentra sul tentativo di ottenere un rivolgimento culturale. Questo
spostamento è ricco di conseguenze, non solo perché concorda con la
tendenza soggettivistica del periodo, che non disturba più il manovratore
(non tocca i processi economici)300, e tende a concentrarsi sui fattori di
“opinione”, ma anche perché concorre al processo di intendere i rapporti
di potere come un fattore di natura morale. In prima battuta l’asimmetria
di potere viene tradotta come oppressione e sfruttamento, e in seconda
battuta lo sfruttamento diviene segno di una mentalità maschile
moralmente deformata, il patriarcato appunto. Inizia a emergere a questo
punto l’idea che la violenza dell’uomo sulla donna sia una forma
costitutiva ed essenziale del “patriarcato”301. Si avvia così quel movimento
di “sensibilizzazione” al tema della violenza sulle donne che, oltre al
merito di aver ampliato la conoscenza di un fenomeno, minoritario ma
reale, ha però anche spesso promosso una visione unilaterale e a tratti
paranoica dei rapporti tra i sessi302. In tempi recenti, questa forma di
“sensibilizzazione” è stata all’origine del fenomeno internazionale noto
come Me Too, il cui meccanismo è stato descritto da una femminista come
Margaret Atwood attraverso un’analogia con i processi alle streghe di
Salem, dove si era “colpevoli in quanto accusati”. Per questo giudizio la
stessa Atwood ha subito virulenti attacchi, che l’hanno costretta a
prendere le proprie difese pubblicamente303.
Il processo culturale che ha introdotto questa nozione di patriarcato ha
perciò costruito una cornice sistematicamente accusatoria da parte dei
sedicenti “sfruttati”, verso gli “sfruttatori”, delle donne in quanto tali
verso gli uomini in quanto tali. È singolare in questo processo
l’estrapolazione e magni cazione dalla storia umana di una sola forma di
subordinazione. Il fatto che le subordinazioni per ceto e censo avessero
sempre statuto preferenziale rispetto a quelle per sesso, e che perciò tutte
le donne di un ceto/censo comparativamente superiore avessero sempre
esercitato potere su tutti gli uomini di ceto/censo inferiore viene di norma
trascurato, o menzionato come un fattore trascurabile. Compare
frequentemente l’idea di dover “correggere un torto storico”, come se le
donne contemporanee fossero le eredi dirette di tutte le donne sfruttate
della storia, rimuovendo il dato ovvio che ogni donna vivente è
naturalmente erede in egual misura della catena dei “privilegi degli
sfruttatori” non meno che delle “sofferenze delle sfruttate”, se così
vogliamo intenderli.
In quest’ottica, l’idea di “amore romantico” è stata vista diffusamente
come una sorta di inganno ideologico, un imbroglio, volto a tenere le
donne in una condizione di soggezione304. Non sorprende troppo, perciò,
che uno degli esiti di questa visione sia stata di concepire l’omosessualità
femminile non come un semplice orientamento sessuale, ma come una
vera e propria “scelta politica”, una “scelta di campo” che coerentemente
evitava ogni compromissione con il “nemico”. Secondo Adrienne Rich, il
romanticismo eterosessuale è un’ideologia cui le donne sarebbero
indottrinate e forzate sin dalla prima infanzia305. È in questo senso che Ti-
Grace Atkinson poteva lanciare il fortunato slogan: “femminismo è la
teoria, lesbismo la pratica”306. Queste ultime tesi radicali rimangono esiti
controversi, non immediatamente generalizzabili all’intero second-wave
feminism, tuttavia il quadro teorico complessivo è comunque chiaramente
incline a promuovere una sorta di “separatismo” femminile, da declinare
poi in varie maniere.
29.3.2 Sesso e genere
La seconda concezione, cruciale e in uente, promossa dal femminismo
della seconda onda è la dissociazione tra “sesso” (sex) e “genere” (gender).
La distinzione nei suoi tratti generali non sembra controversa. Essa cerca
in prima istanza di distinguere l’aspetto biologico della differenza sessuale
da quello psicologico, utilizzando il termine “sesso” per i tratti biologici
della distinzione, e il termine “genere” per i tratti psicologici. È certo che
l’identità sessuale di tipo biologico (attribuita su base oggettiva, come la
presenza di genitali esterni o di un cromosoma Y) non necessariamente
coincide con l’identità sessuale psicologica vissuta in prima persona. In
questo senso “femminilità” e “mascolinità”, come tratti psicologici, sono
sostantivi che si possono applicare sia a soggetti biologicamente femminili
che maschili307. Fino a questo punto la distinzione è descrittivamente
ineccepibile.
Tuttavia, quando si cerca di guardare più da vicino cosa dovrebbe
rientrare nella nozione di “genere” le aporie crescono. Il primo e
fondamentale punto controverso concerne il passaggio, che viene svolto
senza neppure notarlo, dalla natura psicologica del “genere” alla sua
interpretazione come entità culturale308. In connessione con l’idea del
dominio patriarcale come ideologia di sfruttamento, emerge l’idea per cui
il genere sarebbe un costrutto culturale, imposto su una base biologica
malleabile, al ne di de nire i generi maschile e femminile come
rispettivamente il gruppo destinato a comandare e quello destinato a
obbedire309. Concepire il genere come costrutto culturale con intenti
politici ha come immediata conseguenza l’idea che sia possibile
decostruire, e ricostruire altrimenti, i generi per perseguire un’agenda
politica differente. Se si suppone che la distinzione polare tra maschile e
femminile sia l’esito di uno sfruttamento storico, l’intento di modi carla
radicalmente, o anche di cancellarla proprio, assume una parvenza
ragionevole. Una volta ssata questa cornice di “desiderio politico”, resta
da riempirla di contenuti, e questa è un’operazione che ha avuto numerosi
seguaci e una considerevole espansione negli ultimi decenni.
Il “binarismo sessuale”, cioè l’idea che vi sia una distinzione primaria e
naturale tra maschile e femminile, è stato ricondotto, sulla scorta di alcune
considerazioni di Derrida e di Lacan, alla tendenza delle categorie
linguistiche a costruirsi per opposizioni binarie310. L’antiessenzialismo, che
caratterizza il postmodernismo loso co, trova una sua felice applicazione
nell’ambito del binarismo sessuale, che viene derubricato a costrutto
irreale, meramente linguistico, sotto di cui non sussisterebbe alcuna realtà
sostanziale311. Spesso a supporto di queste tesi viene richiamato un uso
altamente selettivo di alcune tesi psicoanalitiche312: ad esempio le ipotesi
freudiane sulla strutturazione della sessualità infantile313, e quelle di Lacan
sull’ingresso dell’infante nell’ordine simbolico binario.
L’autrice che si è dedicata con maggiore intensità, e maggior seguito, a
questa operazione di “de-essenzializzazione” e “de-naturalizzazione” del
rapporto tra sesso e genere è probabilmente Judith Butler. Secondo
Butler, l’idea di opporre sesso a genere è già in qualche modo fuorviante,
in quanto a suo avviso non c’è alcun riferimento possibile al corpo
biologico che non sia già ltrato da signi cati culturali, e in questo senso
la nozione di “sesso”, riferita al corpo biologico, è già sempre de nita e
appresa attraverso quella di “genere”314. La nozione di “genere” non
sarebbe un nome ordinario, ma un performativo, dunque un’espressione
che non nomina, ma fa essere il proprio signi cato315. Il corpo-dotato-di-
genere si presenta perciò come una performance, una fabbricazione, priva
di statuto ontologico proprio, prodotta attraverso gesti e atti condizionati
dal prevalente discorso pubblico316. In questo senso le idee di un’autentica
femminilità e mascolinità sarebbero semplici travestimenti del carattere
performativo del genere, arti cialmente plasmato dal “dominio
maschilista e dall’eterosessualità obbligatoria”317. Per queste ragioni il
punto di caduta di una discussione che sopprima i condizionamenti storici
e culturali sull’idea di genere sarebbe, secondo Butler, la dissoluzione di
ogni rigida opposizione e la “ uidi cazione” del genere, teorizzata oggi
dalla cosiddetta queer theory318.
Il quadro qui presentato opera in una direzione culturale caratteristica
dell’apogeo della ragione liberale, con la sostituzione di ogni identità,
normalità e naturalità con un appello all’arbitrio soggettivo di essere
qualunque cosa si voglia essere. Con ciò, come vedremo, l’elemento
“emancipativo” divora se stesso e inizia a invadere violentemente lo spazio
delle libertà altrui. Ma prima di trarre conclusioni, discutiamo brevemente
le tesi implicite nell’opposizione tra sesso e genere sostenuta dal second-
wave feminism.
Come abbiamo osservato, la mossa argomentativa problematica avviene
subito, leggendo l’identità vissuta, psicologica, come “prodotto culturale”.
Questo passaggio presuppone un’accezione schematica e oggi
insostenibile dell’opposizione classica tra “natura” e “cultura”. In questo
resoconto sembra che la “natura” sia una datità materiale statica, cui si
sovrapporrebbe dall’esterno la dimensione attiva e soggettiva della cultura
(educazione). Questa prospettiva corrisponde in termini loso ci a una
forma di idealismo soggettivo, dove lo psicologico sarebbe disincarnato e
disponibile a essere arbitrariamente plasmato. Questo aspetto idealistico si
vede bene nel “gioco di prestigio” verbale di cui sopra, per cui, siccome il
“corpo biologico” è un concetto culturale, allora esso deve trarre il
proprio contenuto dalla sfera culturale, ed è perciò subordinato alla
nozione, eminentemente culturale, di “genere”. Ma naturalmente questo
gioco potrebbe essere similmente riproposto per qualunque cosa: ogni
nozione d’uso corrente, inclusi materia, spazio, tempo, casualità ecc. sono
concetti culturali quando ne parliamo, ma questo non può certo signi care
che il contenuto indicato da queste parole sia determinato univocamente
per via culturale (o addirittura, “politica”), e soggetto a libera
rideterminazione, se così desideriamo.
Oltre al corpo come oggetto di discussione culturale, e prima di ogni
discussione culturale, c’è il corpo vissuto con le sue pulsioni, tendenze,
istinti, bisogni, che non ha nessun bisogno di elaborazione semantica per
essere ciò che è. Più speci camente, nel caso della specie umana ci
troviamo di fronte a una specie che è naturalmente predisposta ad
apprendere una cultura, in quanto è predisposta ad apprendere un
linguaggio. È dunque il corpo vissuto a consentire l’accesso alla cultura:
l’apprendimento umano presuppone il buon funzionamento di
disposizioni naturali ef cienti, e non è certo nella condizione di
scegliersele. Inoltre tali disposizioni naturali non sono semplicemente
“presenti alla nascita”, secondo il vecchio modello per cui le facoltà
umane erano o “innate” (presenti alla nascita) o “apprese” (acquisite
culturalmente). Di fatto l’intero percorso di maturazione dall’infanzia
all’adolescenza è un percorso predisposto come disposizione naturale, e
che come tale implica la comparsa graduale di certe capacità e certe
inclinazioni, non presenti alla nascita se non in potenza. Ciò vale per il
linguaggio non meno che per la sessualità.
Dunque la questione non potrà mai essere sensatamente quella di
ridurre il naturale al culturale, il predisposto al costruito, ma solo quella di
capire in che misura l’intervento culturale può modulare le disposizioni
naturali (o eventualmente storpiarle o reprimerle). Se il concetto di
“genere” si limitasse a indicare le componenti comportamentali apprese e
speci che di una determinata cultura, non ci sarebbero elementi per una
controversia. Ad esempio, è noto che ciò che conta come “grazia
femminile” o come “approccio erotico” varia grandemente in contesti
culturali diversi, o in epoche diverse, ed esserne consapevoli può essere di
grande aiuto per sviluppare tolleranza nei confronti di diversità espressive
contestualmente motivate. In società come quelle moderne, in cui la
mobilità e la varietà di modelli educativi sono estreme, ci si può aspettare
un incremento di fraintendimenti e di incomprensioni in quel complesso
processo rappresentato dai “segnali tra i sessi” (ben presente già tra gli
animali, come nei “canoni di corteggiamento”). Comprendere che le
proprie aspettative possono divergere da quelle altrui, e che non
necessariamente le proprie siano giuste e le altrui sbagliate è una lezione
utile che si sarebbe potuta trarre dalla distinzione tra sesso e genere. Ma
“genere” come costrutto non si è concentrato su queste varianti
comportamentali, estendendosi invece sino a ricomprendere tutte le
caratteristiche tradizionalmente riconosciute nella differenza sessuale,
dunque tutte le propensioni, tendenze, facoltà e istinti in qualche misura
variabili tra i sessi. E in ultima istanza, si è esteso all’attrazione sessuale
stessa, supponendo che anche qui fossimo di fronte a un costrutto socio-
politico.
Ora, il fatto di trovarsi a discutere del fondamento dell’esistenza in vita
di tutte le specie sessuate sul pianeta avrebbe forse dovuto suggerire un
po’ di prudenza e modestia prima di lanciarsi in tesi radicali come la
“denaturalizzazione” della sessualità. Ma qui probabilmente la
dimensione militante della ri essione della “seconda onda” non era
contenibile.
Nello speci co, che esistano differenze medie in numerose
caratteristiche biologiche e comportamentali tra i due sessi nella specie
homo sapiens è cosa talmente acclarata da sembrare super uo doverlo
ribadire. Esistono differenze nella massa muscolare, nel tessuto adiposo
sottocutaneo, nella lateralizzazione cerebrale319, nei livelli di aggressività,
nell’inclinazione all’empatia320, nelle abilità spaziali321 e linguistiche322.
Esistono inoltre differenze precoci, osservate sia in maniera culturalmente
trasversale che sotto controllo sperimentale, circa le tipologie di gioco
maggiormente preferite da maschi e femmine rispettivamente323. E
incidentalmente tutte le differenze rilevate tendono, in varia misura, a
ribadire quelle che sono le credenze comuni a proposito (quando non
addirittura gli “stereotipi”)324.
Con riferimento speci co alle inclinazioni sessuali, il fatto che esse siano
determinate da fattori eminentemente culturali ed educativi non trova
riscontri. Gli esiti dei tentativi di riassegnazione di genere eseguiti da John
Money presso la Johns Hopkins University rappresentano una sorta di
esperimento sistematico di massa che confuta la teoria di un carattere
eminentemente culturale ed educativo delle inclinazioni sessuali325.
Naturalmente, circa le facoltà e inclinazioni comportamentali tutte le
differenze di cui parliamo sono differenze medie e tendenziali. Dunque
cercarvi la presenza di “essenze” intese come scatole chiuse e non
comunicanti sarebbe assurdo. Chiunque cerchi in natura essenze
concepite come differenze assolute che non presentino casi intermedi,
variazioni di grado ed elementi ambigui, resterà inevitabilmente deluso.
Né le facoltà di categorizzazione umana326, né i processi evolutivi
funzionano in modo da forgiare tali compartimenti isolati. Per ogni
categoria naturale si troveranno casi limite o sovrapposizioni parziali di
questa o quella proprietà. Così è ovvio che, per quanto mediamente i
maschi abbiano una muscolatura più robusta di quella delle donne, questo
non toglie che vi siano donne con una muscolatura più robusta di una
parte dei maschi. E lo stesso avviene per ogni altra caratteristica, incluso
notoriamente l’orientamento sessuale, in cui troviamo di nuovo
distribuzioni statistiche con orientamenti ampiamente maggioritari, casi
periferici ed eccezioni estreme327.
Il punto essenziale da tener fermo qui però è semplice. Prendiamo due
specie animali qualunque. Per quanto diverse e difformi possano essere,
potremo sempre stabilire sul piano biologico una concatenazione di casi
intermedi che renda il con ne “sfocato”, la distanza negoziabile. Se
cerchiamo un con ne netto in natura possiamo cercare all’in nito: sul
piano materiale vi sono continuità non solo tra ogni specie vivente e ogni
altra, ma anche tra il vivente e il non vivente. Se l’assenza di un con ne
netto fosse ragion suf ciente per decretare l’insussistenza di una categoria,
o l’inessenzialità di una differenza, non potremmo esibire una distinzione
“essenziale” neppure tra un lichene e Albert Einstein. Questo signi ca che
ammettere l’esistenza di casi centrali e casi periferici, di identi cazioni
semplici e identi cazioni ambigue o sfumate non può contare come
argomento per delegittimare l’uso delle distinzioni categoriali. Il quadro
realistico e scienti camente suffragabile è quello in cui propensioni
biologicamente de nite possono essere coltivate e precisate in
comportamenti molteplici. La regola di condotta qui non può essere
quella, illusoria, di creare recinti protetti su base individuale, né quella di
rigettare forme educative tradizionali in quanto “compromesse col
binarismo sessuale”, ottenendo l’unico risultato di mettere tutti
egualmente a disagio. La regola aurea qui può essere solo quella di
incrementare la tolleranza per eccentricità e variazioni.
Stiamo con ciò argomentando a favore di un necessario “binarismo
sessuale”, o addirittura di una “eterosessualità obbligatoria”? Niente
affatto, purché si comprenda chiaramente il punto di fondo. La
complementarità biologica tra i sessi, e psicologica tra i generi maschile e
femminile non può essere trattata come una distinzione sociologica
accanto a mille altre empiricamente rintracciabili. Tale complementarità è
preliminare e fondante per la riproduzione sica e sociale della specie: per
la procreazione, per l’accudimento, per l’esistenza di un ordinamento
famigliare e la relativa educazione. Non è qualcosa che stia sullo stesso
piano di una maggioranza politica pro tempore, o di un’opinione alla
moda. Toccare questo ambito senza cautela tende a produrre squilibri e
reazioni virulente. Non è un ambito in cui un atteggiamento militante sia
appropriato. In quest’ottica, un atteggiamento di equilibrato
approfondimento, che consenta di comprendere e giusti care l’esistenza
di casi che non rientrano nel canone binario “maschile-femminile” è
un’operazione culturalmente molto utile, che può sviluppare tolleranza,
accettazione, “normalizzazione” tra diversità. Purtroppo, rispetto a queste
istanze, che sono perfettamente in linea con l’egalitarismo del rst-wave
feminism, l’atteggiamento rivendicativo-rivoluzionario sul tema sorto
nell’ambito del second-wave feminism appare pericoloso e
controproducente; pericoloso e controproducente specialmente per quelli
che si ritiene di tutelare. Che ci siano individui i cui orientamenti di
genere non rientrano nella binarietà sessuale tradizionale è un dato di
fatto incontestabile e noto da tempo immemorabile. Che questo fatto
diventi la base per spiegare a chi si colloca nel quadro “binario”
tradizionale che è in qualche modo “in errore”, che sta supportando
inconsapevolmente un’ideologia oppressiva, che dovrebbe educare i
propri gli diversamente, che è lo sfortunato esito di condizionamenti
psicologici passati ecc. è il modo sicuro per generare un tasso di
con ittualità elevatissimo e rovinoso.
Armonizzare i “rapporti tra i sessi” in una società come quella
capitalistica odierna è di per sé un’impresa assai complessa, a causa delle
tendenze centrifughe, individualistiche e competitive che abbiamo
illustrato in precedenza. Proprio perché la dimensione culturale ed
educativa ha un peso signi cativo nella specie umana, prendersene cura,
educando a una complementarità psicologica elastica, ma funzionante, tra
i sessi è socialmente doveroso ed eticamente raccomandabile. E proprio
perché gli orientamenti sessuali “non ortodossi” non sono scelte
ideologiche o provocazioni gratuite, ma disposizioni incardinate in una
casistica biologica328 (minoritaria ma reale) è salutare farvi posto nelle
forme della tolleranza e dell’accettazione. Invece l’atteggiamento opposto,
che concepisce quelle disposizioni minoritarie come, appunto, scelte
ideologiche, identità brandite come provocazioni, e in ne persino come
tentativi di imporre la propria condizione come parametro normativo per
le situazioni altrui, questo è un atteggiamento non solo privo di base
scienti ca, ma soprattutto socialmente dannoso, divisivo, e generatore
arti ciale di con itto.
29.4 Sulle “politiche dell’identità”
Le istanze del second-wave feminism che abbiamo brevemente delineato
sfociano in ciò che ha preso il nome di “politica dell’identità” (identity
politics)329. Si tratta di un’espressione, come vedremo, piuttosto impropria.
L’idea di fondo che anima l’identity politics è quasi un rovesciamento delle
rivendicazioni passate: i gruppi sociali che si sentono oppressi non
cercano più di ottenere riconoscimento come “eguali”, sulla base di una
qualche forma di comunanza umana, ma di ottenere riconoscimento sulla
base della propria “specialità”330. Lo spostamento è signi cativo: da una
prospettiva egalitaria e comunitaria, a una prospettiva rivendicativa e
competitiva. Questo spostamento coincide non casualmente con la
rivoluzione neoliberale. Anche qui, come nel caso dell’emergere
prepotente del discorso sui “diritti umani” non bisogna cercare ragioni
proclamate che connettano i due movimenti, ma bisogna guardare a uno
spostamento strutturale a monte, in cui tanto il discorso sui diritti umani
che la identity politics trovano una loro ottimale collocazione. La
progressiva perdita di credito, nei primi anni ’70, della lezione marxiana e
socialista-comunista comporta una riduzione delle analisi attente alla
dimensione strutturale e collettiva dei fenomeni. La prospettiva in cui si
muovevano siologicamente le lotte sociali precedenti – anche fatta la tara
per confusioni e astrattezze ideologiche – era quella della costruzione di
una società nuova, una comunità nuova, una nazione nuova. Questa
tipologia di identità collettive letteralmente scompare dall’orizzonte in
concomitanza con la svolta neoliberale, mentre al suo posto emerge una
sfera di “identità” alternative.
Ora, ogni identità capace di propagarsi nel tempo e di svilupparsi deve
conciliare in sé una pluralità di differenze e inclinazioni. Ciò accade già
per l’identità personale, che riconcilia tendenze e impulsi molteplici
armonizzandoli in intenzioni e progetti di vita331, e accade a fortiori per
quelle identità collettive che superano i limiti della nitezza individuale
attraverso i meccanismi della riproduzione sociale, estendendosi
intergenerazionalmente. Ciò che caratterizza le identità collettive storiche
è di avere una ricchezza di contenuto interno, che dev’essere coltivato,
elaborato, amato e trasmesso, se se ne desidera la sopravvivenza. Questo
tipo di identità ha sempre con ni graduati e in qualche misura permeabili,
ed è capace di interagire con ciò che è altro da sé nella forma dello
scambio volontario o della condivisione.
Tutt’altra cosa sono quelle forme di identità che si costruiscono sulla
scorta di un gesto inaugurale di negazione, di aggressione o separazione.
Nel caso di identità collettive come gli stati nazione questo è ciò che è
accaduto e accade quando disposizioni positive come quelle del “senso
dello Stato” o dell’“amor di patria” cedono il passo all’identi cazione per
negazione, nelle forme dello sciovinismo e del nazionalismo. Nel
nazionalismo non è più centrale la coltivazione del proprio interno
(cultura, società, tradizioni ecc.), bensì la negazione del proprio esterno,
lo sprezzo nei confronti degli altri paesi, che conferisce identità nella
forma del “non essere l’altro”.
Le identità protagoniste della cosiddetta identity politics nascono
precisamente secondo la stessa dinamica della nascita dei nazionalismi,
cioè attraverso un gesto di negazione del “nemico”. Qui i soggetti non
sanno, né si curano di sapere, se davvero ci sia molto che li possa
accomunare “internamente” nel lungo periodo, ma trovano un’identità
nel momento in cui identi cano un nemico comune. Tipicamente questa
tipologia identitaria emerge sul piano psicologico nella forma di una
rivendicazione pubblica di “orgoglio”. È un tratto caratteristico delle
politiche dell’identità quello di esprimersi nella forma dell’orgoglio X,
dove X designa il gruppo identitario in questione. L’orgoglio è infatti la
risposta psicologica simmetrica e opposta all’umiliazione, e queste
politiche di identità si costruiscono come risposte a un’umiliazione, a uno
stigma percepito. Si tratta di una dinamica ben comprensibile, ma con un
problema di fondo: essa non è in grado di istituire realmente alcuna
identità collettiva. Come è stato osservato nell’ambito di discussioni sul
comunitarismo, non tutte le identità collettive hanno lo stesso senso:
identità fondate su un singolo tratto positivo o, peggio, su una singola
avversione, sono identità ef mere, incapaci di creare davvero comunità. Ci
si può identi care di volta in volta come juventini, amanti del trekking,
latelici, biblio li, antisemiti o anticomunisti, ma nessuna di queste
“identi cazioni” può produrre una comunità capace di un’esistenza
intertemporale. Invece di termini come “comunità” o “identità collettive”
un’espressione più appropriata introdotta a questo proposito è quella di
“life-style enclaves”332.
Le “identità” dell’identity politics dunque non portano in essere reali
comunità, e hanno esistenza solo in forma negativa, rivendicativa, come
tentativo di conquistare tutele, garanzie o diritti “speciali”, cioè a sé
riservati. Queste caratteristiche hanno due implicazioni fondamentali: esse
avviano processi di frazionamento sociale illimitato e spostano il discorso
pubblico dalla sfera materiale alla sfera “simbolica”.
Il processo di frazionamento è ben visibile già all’interno del second-
wave feminism, che iniziò praticamente subito a frazionarsi secondo
ulteriori faglie rivendicative: le femministe di colore iniziarono a sostenere
che la loro lotta quotidiana non aveva niente a che fare con quella delle
privilegiate donne bianche333; chi rivendicava le virtù di un pensiero
speci camente femminile334 entrò in rotta di collisione con chi riteneva
che questo fosse retrivo “essenzialismo”; chi auspicava una forma di
separatismo femminile autosuf ciente335 si trovò su fronti opposti rispetto
a chi auspicava una uidi cazione dei generi ecc.336. La totale diaspora era
contenuta soltanto dalla possibilità di rintracciare trasversalmente alle
“identità” un minimo comune denominatore dell’ostilità: è così che
emerge l’immagine del “maschio bianco eterosessuale” come oggetto
favorito di censura e biasimo.
Il vero problema sociale rappresentato da queste dinamiche, tuttavia,
riguarda l’effetto di frammentazione sociale complessivo. Ogni possibilità
di impostare una lotta sociale comune per obiettivi strutturali, ogni
tentativo di unire la forze per de nire politiche per una società, comunità
o nazione migliore sono sistematicamente ostacolate da una “politica
dell’identità” che si mostra essere in effetti una politica della progressiva
disintegrazione di ogni identità.
La rimozione di un’analisi delle società umane che prenda sul serio i
meccanismi economici, gli abiti collettivi e le pratiche sociali,
concentrandosi sull’identi cazione del nemico, ha come esito prevedibile
una focalizzazione del discorso sugli aspetti simbolici337. Mentre i detentori
di capitale e le lobby economiche esercitano con incontrastata serenità il
proprio potere, mentre le strutture statali si disgregano, le culture
nazionali si dissolvono, le soggettività personali si infragiliscono, mentre
tutto ciò accade, le risorse intellettuali più “progressive” si dedicano alla
sorveglianza ossessiva degli aspetti simbolici del discorso, chiedendo una
riforma permanente di gesti e parole, riforma che, incidentalmente, i
detentori di capitale e le lobby economiche tendono a favorire con
trasporto. Questo spostamento dallo strutturale al simbolico può essere
visto come semplice esito di un’originaria parzialità di analisi (la stessa che
abbiamo rilevato nel postmodernismo loso co francese). Tuttavia
sarebbe sbagliato pensare a questo movimento come mero epifenomeno,
privo di poteri esso stesso. Di fatto questa concentrazione sulla sfera
simbolico-culturale retroagisce a sua volta a livello sociale, e su ciò vale la
pena di svolgere qualche considerazione più speci ca.
29.5 Sul “politicamente corretto”
Il concentrarsi dell’identity politics su fattori simbolico-culturali viene
spesso discusso sotto la voce del “politicamente corretto”. Si tratta tuttavia
di un’etichetta fuorviante, che non ne richiama il signi cato radicale.
Quando parliamo di “politicamente corretto” tendiamo a pensare a cose
come le richieste di soluzioni ortogra che o espressive “non
discriminatorie”. Ed esiste naturalmente anche questo, con l’introduzione
di eufemismi (es.: “non vedente” invece che “cieco”; “di colore” invece
che “nero” ecc.), lo scambio di pronomi personali (negli articoli
accademici “she” al posto di “he”, quando utilizzati impersonalmente), la
sostituzione di desinenze maschili con asterischi o con desinenze
femminili inedite ecc. Discusse in questi termini le critiche al
“politicamente corretto” sembrerebbero limitarsi alla dubbia opportunità
di dedicare tempo e risorse ad aspetti formali la cui incidenza sui costumi
sociali è quantomeno incerta. Il massimo rischio qui sembrerebbe
l’irrilevanza o la distrazione da questioni più importanti.
Tuttavia questa tendenza culturale ha in effetti diramazioni molto più
radicali e insidiose. Come osserva Jonathan Friedman, i condizionamenti
del “politicamente corretto” sono un’operazione di organizzazione
egemonica interna alle élite, speci camente delle élite intellettuali338. In
questo senso, il suo impatto sociale non è proporzionale al numero delle
persone direttamente coinvolte. Dal punto di vista popolare le
gesticolazioni e censure del “politicamente corretto” rimangono di
interesse minoritario, tuttavia le minoranze coinvolte sono collocate nei
punti strategici della creazione dell’opinione pubblica (giornali, scuole,
università), e dunque si tratta di minoranze il cui impatto tende a essere
estensivo.
Eufemismi e riforme ortogra che sono solo un aspetto periferico di
questa tendenza. Il senso profondo del “politicamente corretto” consiste
nell’escludere dal novero del tollerabile, del dicibile, e possibilmente del
pensabile, ciò che si presenta come potenzialmente offensivo, o lesivo, di
gruppi che si presumono “stigmatizzati” o “vittimizzati”.
Tradizionalmente, quando si ssano sanzioni legali contro le offese, per
decidere cosa conti come offesa ci si af da alle aspettative medie condivise
e stabilizzate nel tempo, dunque alle parole o espressioni percepibili come
lesive sulla scorta di un costume sedimentato. Ma uno slittamento
importante avviene nel momento in cui la percezione soggettiva e il
desiderio individuale diventano sorgenti potenziali di diritto o di
normazione morale (vedi il capitolo 28). Quando si ammette che qualcuno
può imporre limiti all’espressione altrui sulla base del proprio senso
soggettivo di cosa sia offensivo o improprio, si apre un processo
intrinsecamente privo di moderazione e di limite. Qui a una parte viene
idealmente attribuito un privilegio unilaterale, senza bisogno di
confrontarsi con la controparte i cui diritti vengono compressi. Ora le
“richieste di rispetto”, per ottenere peso normativo, non hanno bisogno di
sollevare altro argomento che non sia il proprio disagio personale, il
proprio senso soggettivo di vulnerazione e insulto, di fronte a certe
espressioni, certi argomenti, certi temi.
A questo punto siamo usciti dalla sfera dei “giudizi estetici” e siamo
entrati in una sfera pericolosa, dove valutazioni soggettive insindacabili
possono acquisire valore normativo in questioni tanto di forma che di
contenuto. Facciamo un esempio, per rappresentarci meglio ciò di cui si
parla.
L’antropologo Jonathan Friedman ricorda il caso da cui è partito il
proprio interessamento per il tema del “politicamente corretto”. Nel 1999
sua moglie Kajsa Ekholm Friedman (KEF) venne invitata a parlare a
Stoccolma da un’organizzazione culturale (Folkviljan och massínvandring
– “Volontà popolare e immigrazione di massa”) su un tema caldo come la
questione migratoria in Svezia. L’organizzazione culturale in questione,
critica delle politiche migratorie svedesi, non appariva legata a gruppi di
estrema destra, e anzi se ne dichiarava distante. Il giorno dopo una rete
nazionale svedese e il maggior quotidiano del paese presentavano KEF
come leader di un gruppo razzista [sic!]. In seguito alla divulgazione della
notizia, alcuni studenti di dottorato del dipartimento di antropologia
sociale attaccarono KEF sul quotidiano di Lund per incitamento e
sostegno al razzismo. Nonostante il testo della conferenza fosse reso
pubblico nessuna discussione venne avviata nel merito delle tesi sostenute.
In compenso ci furono reiterate “prese di distanza” accademiche, no al
tentativo di radiarla dall’università. Le conseguenze di quell’episodio si
sono protratte per anni, ostacolandone la carriera339.
Casi del genere, anche se meno discussi, sono frequentissimi. Christina
Hoff Sommers riporta numerosi casi simili, sia nel contesto di redazioni
giornalistiche340, che in dipartimenti universitari americani341, dove la
resistenza alle tesi di gruppi di pressione “second-wave” può costare assai
caro in termini di carriera342.
Le accuse di sessismo, razzismo, omofobia e simili possono essere
innescate con estrema facilità e con una preoccupante tendenza alla
dilatazione semantica; come ricorda Friedman:
Quando i danesi votarono contro l’Unione monetaria, i commentatori e i politici svedesi
decisero di spiegare l’evento in termini di xenofobia e di una preoccupante tendenza al razzismo.
Il primo ministro svedese giunse a suggerire che il Partito della Sinistra, anch’esso abbastanza
avverso all’Unione europea, fosse di fatto complice di questa tendenza pericolosamente
fascista.343

Ora, per comprendere bene il fenomeno in questione è essenziale


isolarne tre dinamiche interne, le cui radici abbiamo già esaminato: 1) la
sacralizzazione della “vittima”, 2) il rivendicazionismo dei diritti, e 3) la
politicizzazione postmoderna del vero.
29.5.1 La sacralizzazione della “vittima”
Ciò che chiamiamo “sacralizzazione della vittima” è un’operazione etica
caratteristica del trionfo della ragione liberale. Il suo punto di partenza è
la cornice assiologica liberale dove, non esistendo più valori obiettivi,
l’unico “valore” sui generis rimasto è il “sentimento della libertà negativa”.
Date queste premesse, e visto che la libertà negativa non ha contenuti
propri, l’unico contenuto assiologico positivo su cui si può convergere è
dato da una doppia negazione: la comune avversione verso negazioni della
libertà soggettiva. Ogni negazione della libertà soggettiva è letta come un
esercizio di “violenza” su un soggetto passivo, la “vittima”. La vittima
entra così nella storia e nella sfera della coscienza altrui a partire dalla
propria passività originaria: essa è “chi ha subito”, e perciò chi è
proverbialmente senza colpa. Nella cornice liberale la “tutela delle
vittime” è perciò l’unica cosa rimasta su cui creare un simulacro di unità
etica.
Ma chi sono le “vittime”? Tutti noi possiamo trovare esempi univoci di
soggetti cui riconosceremmo lo statuto di vittima di certe circostanze, e
che perciò ci muoverebbero a compassione. Qui tuttavia il processo di
riconoscimento non ha la forma della pietà personale, ma innanzitutto
quella della normatività. La vittima gioca infatti qui un ruolo di fonte
normativa. La creazione di un gruppo vittimizzato è, nella logica della
ragione liberale, una mossa etica fondante. La vittima in quanto vittima
acquisisce immediatamente uno statuto particolare: essa è l’innocente per
de nizione (nasce come passività), che perciò viene posto al di sopra di
ogni giudizio; mettere in discussione la sua condizione di vittima sarebbe
un gesto moralmente imperdonabile344. Una volta che qualcuno è riuscito
ad accreditarsi nella posizione di “vittima” (o è stato così accreditato da
altri), esso acquista quell’autorità morale che nella società moderna è stata
sottratta a tutte le altre voci, che per de nizione esprimono solo “opinioni
personali”.
Val la pena di ricordare qui, di passaggio, quello stilema delle odierne
discussioni pubbliche noto come reductio-ad-Hitlerum, che ha meritato
menzione speciale per la frequenza con cui emerge nei dibattiti sui social
media. Si è ri ettuto poco sulle ragioni dell’imporsi di questo canone.
L’epoca del trionfo liberale soffre strutturalmente di un problema di
inconclusività nelle forme argomentative: non essendoci nulla di “sacro”,
non essendoci per de nizione valori condivisi cui poter fare riferimento, è
dif cile che un’argomentazione etico-politica possa giungere a una
conclusione condivisa. A ciò però si può porre rimedio non adducendo
evidenze etiche positive, ma accusando l’interlocutore di contiguità con il
“male”. L’odierna società liberale sorge dalle macerie delle due guerre
mondiali, e nella seconda metà del Novecento Hitler e il nazismo sono
stati narrativamente costruiti non come un ordinario evento storico, ma
come un evento limite, alieno, estraneo, una sorta di follia di massa,
refrattaria a ogni tentativo di comprensione storica, come un “male
assoluto” su cui ogni ri essione di merito va rigettata come sospetta, e che
sollecita solo una concorde avversione. Il nazismo hitleriano è stato cioè
costruito come un punto argomentativo dove il ragionamento si deve
fermare e dove si passa dalle opinioni soggettive, tutte egualmente valide,
tutte egualmente ef mere, al punto fermo della pura e semplice condanna.
Trovare il modo, nel corso di un’argomentazione, di associare un tema, un
argomento, un termine altrui al nazismo hitleriano consente così di
ottenere una vittoria dialettica, mettendo l’altro in una posizione dove gli
argomenti diventano impotenti, coperti da anticipato discredito.
Così, la nostra epoca non conosce “credenze fondative”, come in altre
epoche sono state le varie diramazioni del “sacro”, ma conosce una fede
negativa nella forma della “vittimizzazione assoluta”, di cui il nazismo
hitleriano rappresenta l’archetipo. Ciò è insuf ciente a determinare “chi
siano i buoni” o “cosa sia un’azione buona”, ma basta a “colpire i
malvagi”. Nel dibattito etico-politico contemporaneo chi riesce a giocare
le sue carte in modo da apparire dalla parte della vittima, facendo perciò
apparire la controparte nei panni del carne ce, ha vinto l’argomento345.
29.5.2 La guerra rivendicativa di tutti contro tutti
La dinamica del diritto naturale soggettivo, come abbiamo visto, nisce
per porre le proprie inclinazioni soggettive come sorgente normativa,
legittimata a elevare pretese nei confronti di terzi. Nel contesto presente
questo signi ca che chi si pone (o è posto) nella parte di “vittima”
acquista un diritto, vago ma univoco, a elevare pretese che esigono di
essere soddisfatte. La combinazione tra sacralizzazione della vittima e
“rivendicazionismo” crea una dinamica dove ogni gruppo dotato di una
narrativa che lo ponga come “oppresso” o “stigmatizzato” tende per ciò
stesso ad acquisire diritti e tutele speciali. Tali diritti possono venire
sanciti giuridicamente, o anche essere solo parte di una nuova normatività
morale. Questo secondo caso è quello più rilevante per il “politicamente
corretto”. Si viene così a creare uno spazio ampio, di principio illimitato,
di “rivendicazioni potenziali” che talvolta diventano norme giuridiche, ma
che esercitano il grosso della loro ef cacia nella forma del discredito
morale: tale nuova normatività morale è suf cientemente inde nita ed
estendibile a piacimento da rappresentare una minaccia costante per
moltissimi individui.
Pensiamo a una dinamica come quella della de nizione di “violenza
sessuale”. Originariamente il termine indicava lo stupro, nella sua cruda
accezione di atto sessuale avvenuto sotto minaccia concreta o coercizione
sica. Gradatamente la violenza sessuale ha trovato una ride nizione
come “violenza di genere”, avviando un processo di dilatazione semantica
che ha inglobato: spinte e strattoni nel corso di liti domestiche, violenze
psicologiche, violenze verbali, minacce, commenti degradanti,
corteggiamenti troppo insistenti, per arrivare all’insieme degli atti sessuali
dove possa venir messo in dubbio il chiaro consenso all’atto. In questo
novero si trova un’enorme casistica, dove troviamo anche i rapporti in cui
il consenso è stato dato, ma dove esso è ritenuto insuf ciente. Rientrano in
questo ambito casi in cui il rapporto sessuale sia avvenuto in una
condizione di alterazione dovuta ad alcolici o droghe, in cui una delle
parti appaia in una posizione di autorità o ducia rispetto all’altra, in cui
una delle parti abbia mentito sulla propria identità, sulla propria
posizione sociale ecc. In tutti questi casi si assume che la parte “fragile”
non abbia dato un “consenso informato”, e che dunque, in mancanza di
un consenso autentico, ci siano gli estremi di una violenza.
Trattandosi di casi in cui di norma non vi sono testimoni, dove la
valutazione di cosa sia “disagio” o di cosa sia “troppo” è soggettiva, e
dove la parola della “vittima” ha credito no a prova contraria, ciò ha
creato (soprattutto negli USA e nel Nord-Europa) una situazione di
allarme, e una rincorsa al “giusto procedimento” per evitare contenziosi.
Si sono così succedute in nite discussioni se il consenso verbale esplicito
sia necessario, se esso sia suf ciente, se non debba avvenire piuttosto in
forma scritta (Sexual Consent Contracts), o invece telematica (app per
smartphone come We-Consent e Good2Go), su cosa si debba fare se dopo
aver sottoscritto il contratto si cambia idea ecc.
Naturalmente il problema che qui si presenta è qualcosa di
strutturalmente insolubile sul piano formale. La forma in cui gli individui
si riconoscono reciprocamente, valutano, apprezzano, per poi
acconsentire all’accoppiamento, e magari anche alla procreazione, è
qualcosa di tipicamente sottile, personale, contestuale, in cui operano una
miriade di gesti, tacite intese, codici culturali speci ci, segnali. Non è un
caso che nella storia le forme di avvicinamento sessuale siano state
altamente ritualizzate e convenzionalizzate (balli, corteggiamenti
strutturati ecc.). Con i processi emancipativi del Novecento gran parte di
queste forme rituali e convenzionali sono scomparse, aumentando
ambiguità, incertezze comportamentali, possibilità di fraintendimento.
L’obliterazione di queste forme aumenta sì i gradi di libertà, ma la
concomitante riduzione di codici culturali comuni rende la ricerca di un
partner “giusto” più complessa, e presuppone una molto maggiore
responsabilizzazione personale dei soggetti coinvolti. Se in questo
contesto una delle parti viene prede nita come vittima potenziale – e con
ciò investita di uno spazio inde nito di “diritti potenziali” nei confronti
dell’altra – il processo di mutuo avvicinamento può divenire
proibitivamente oneroso. Non c’è nessuna formalizzazione, nessuna legge
che possa sostituire l’accordo, personale e informale, circa la ducia che ci
si dà reciprocamente. Una volta che si inizia a ragionare in termini di
timore reciproco e garanzie legali, ogni possibilità di conoscersi su basi
duciarie è scomparsa: il rapporto tra i sessi diviene un campo di battaglia
e l’altro diviene tutt’al più un erogatore occasionale di servizi sessuali, da
temere, e rispetto a cui cautelarsi.
In tutta questa discussione il punto più importante da comprendere è
che il nocciolo in questione qui non è legale, ma morale. Le possibilità di
pervenire a effettive condanne di natura penale sono solo una parte
minoritaria dei rischi connessi a queste nuove tendenze censorie. Molto
più rilevante è lo spazio di discredito pubblico in cui si può cadere con
facilità e senza necessità di “prove”. Qualcuno potrebbe ritenere
ingenuamente che tale discredito sia un mero fastidio, che ci si può
facilmente scrollare di dosso, ma in effetti per quegli ambiti sociali e di
carriera (di solito quali cati) in cui il credito presso i propri pari è
determinante, una caduta in discredito, anche immotivata e anche
momentanea, può costare carissima. Perciò il “politicamente corretto” è
un’arma spuntata se rivolta verso i ceti popolari o “subordinati”, ma è
un’arma af latissima quando usata in quei contesti socialmente apicali in
cui la carriera si fa sulla base di un consenso tra pari (dalla magistratura
all’accademia). Qui essere oggetto di attacchi violenti da parte di una
minoranza è suf ciente a compromettere il consenso necessario per
coltivare qualunque ambizione, e ciò spiega la capacità del conformismo
“politicamente corretto” di fare breccia tra le élite.
29.5.3 La politicizzazione del vero
Veniamo al terzo punto, ovvero il con uire della prospettiva
postmoderna su verità e politica nella tematica censoria del “politicamente
corretto”. Ciò che caratterizza l’atteggiamento del “politicamente
corretto” è l’opera di censura preventiva, tale da rendere certi temi, tesi,
idee, dif cili da intrattenere sinanche in forma ipotetica o problematica. Si
tratta di “blocchi sacri”, veri a propri tabù in senso tecnico, interdizioni
sacrali la cui violazione richiama solo ripugnanza, eventualmente odio, ma
nessuna discussione. Naturalmente a ciascuno di noi può venire in mente
qualche tema o argomento etico-politico dove a un certo punto si ritiene
che non vi sia più spazio per ulteriori argomentazioni. Così, se qualcuno
cominciasse a tessere le lodi della “soluzione nale” nazista davanti a me,
sarei incline a interrompere ogni ulteriore discussione. Tuttavia è
importante capire che letteralmente nessun giudizio su circostanze reali è
apriori assiologicamente ovvio. Ci sono temi che a noi appaiono
suf cientemente noti, discussi, acclarati da considerarli basi per un
giudizio comune senza rimetterli in discussione, ma è sempre concepibile
una revisione fattuale che ne muti l’interpretazione. Anche le intuizioni
morali più solide hanno presupposti empirici e interpretativi che possono
essere oggetto di ridiscussione. Ad esempio, per assurdo, le nostre
intuizioni morali sull’Olocausto potrebbero restare valorialmente
identiche e tuttavia il nostro giudizio sull’Olocausto potrebbe cambiare, se
avessimo ragione di credere che i dati storici sono stati falsi cati (questa è
stata in effetti la strada scelta – senza successo – dai negazionisti). Il punto
quali cante qui è il seguente: mentre un giudizio morale di principio, su
un caso ideale, può pervenire a intuizioni morali univoche, ciò non si
veri ca mai per giudizi morali concreti, su fattispecie reali. Qui pensare di
poter pervenire direttamente a giudizi morali saltando l’accertamento di
verità empiriche e contestuali, è di per sé una forma di menzogna morale.
Ora, gli sviluppi della cultura postmodernista hanno aggredito tutti i
procedimenti argomentativi miranti alla verità e alla sua ricerca. Come
abbiamo visto, il “vero” è stato concepito come un costrutto di potere,
venendo perciò strutturalmente politicizzato. Una volta che questo
passaggio è fatto, una volta che di fronte a una tesi qualsiasi la domanda
che sorge non è più: “Quanto è fondata?”, ma piuttosto: “A cosa mira chi
la pronuncia?”, il salto mortale nel mondo delle censure preventive è stato
fatto. Infatti, nel momento in cui si schiaccia il vero sul “politicamente
conveniente”, ogni posizione avversa non sarà più latrice potenziale di
argomenti e verità alternative, ma sarà semplicemente un attacco ai miei
(nostri) “valori” e dunque a me (noi) in persona.
Le “intuizioni morali ovvie” e i “tabù” non sono oggi più aree
circoscritte su cui vige un accordo consolidato e di lungo periodo. Ogni
tema e ogni argomento ha di principio la stessa natura: non conta quanto
sia solido, ma quanto sia “utile alla causa” (e se la “causa” è rappresentata
da rivendicazioni soggettive, il tutto si riduce a quanto sia utile a me
personalmente). Di fronte a ciò cui non voglio dar credito il mio
atteggiamento non sarà più discorsivo, ma di richiamo al disprezzo e alla
condanna. E il mio atteggiamento non sarà più volto alla ricerca degli
argomenti più solidi, ma piuttosto di un posizionamento “convenzionale”
o “vittimistico”, come donatore di autorità. Paradossalmente, la
scomparsa delle “autorità morali” pubbliche incrementa la sorveglianza
normativa su parole e opinioni, moltiplicando i censori. Gli sbarramenti
invalicabili della “convenienza” espressiva si moltiplicano, mentre gli
spazi di libertà del discorso pubblico si riducono.
Va osservato, di passaggio, come lo statuto epistemologico di buona
parte dei costrutti argomentativi del second-wave feminism (da cui
derivano le istanze del “politicamente corretto”), sia uno statuto incerto e
claudicante. Oltre infatti all’ampio ricorso come basi argomentative a tesi
di matrice postmodernista e psicanalitica – entrambe assai più inclini alla
suggestione che alla dimostrazione – quei costrutti teorici sono spesso
valutati in comunità di “pari” con caratteristiche piuttosto eccentriche
rispetto alle usuali comunità scienti che. Mentre in ogni ordinario ambito
scienti co il rischio del “con rmation bias” è ben noto e si cerca di evitarlo
minimizzando la presenza di interessi personali da parte di studiosi e
redattori346, nell’ambito culturale apertosi con il second-wave feminism
tende ad accadere l’opposto: il fatto di avere interessi personali in gioco è
visto come un valore aggiunto, in quanto si assume che solo chi “vive certe
cose sulla propria pelle” possa parlarne con autorevolezza. L’esito
tendenziale di questa dinamica è una grande dif coltà a separare nella
letteratura di riferimento argomenti obiettivi da tesi militanti, posizioni
scienti che da posizioni politiche347.
29.5.4 Il “politicamente corretto” come egemonizzazione etico-politica
Se ora gettiamo uno sguardo sintetico alle tre radici del “politicamente
corretto” (ma un’espressione più adeguata sarebbe forse “neobigottismo
liberale”), dobbiamo trarre alcune conclusioni.
La prima cosa da comprendere è che quando si parla di ciò che gravita
intorno all’atteggiamento del cosiddetto “politicamente corretto” non si
parla di una tematica marginale. Questo è un errore comune, in cui il
tema è assimilato a una sorta di questione di “buona educazione”, magari
con eccessi maniacali. Invece l’essenza del processo è quella di creare
un’egemonia politico-morale presso i “ceti apicali” della società. Come
sempre, questo non vuol dire che ci sia o ci sia stato un piano, un
“complotto” avente come ne tale egemonizzazione, ma il meccanismo
interno della ragione liberale tende spontaneamente a produrre tali esiti.
Questa forma egemonica si istituisce come particolarmente solida proprio
perché non ha carattere discorsivo, argomentativo, ma perché si appella
alla sfera emozionale, invocando sdegno da un lato e vergogna dall’altro.
La dinamica della vittima di cui sopra consegna ad alcuni gruppi, e ad
alcune istanze, privilegi unilaterali: possono odiare nel nome della lotta
all’odio, bullizzare nel nome della lotta al bullismo, ottenere condizioni di
favore nel nome della giustizia348.
I temi coinvolti in questi veti o queste tabuizzazioni non sono temi
marginali, ma temi pesantissimi riguardanti le forme di vita sociale,
l’educazione infantile, le strutture famigliari, i rapporti tra culture, la
bioetica ecc. In questo contesto emerge la minaccia, sempre latente, per
cui di fronte a tesi che non siano aprioristicamente favorevoli a soluzioni
liberali sia pronta a scattare una batteria di accuse di “razzismo”,
“maschilismo”, “omofobia” ecc. In questo modo si predispone un terreno
per il dibattito pubblico dove alcune tesi ricevono una patente di
legittimazione preferenziale aprioristica. Chi, ad esempio, ritenga
doveroso coltivare la cultura del proprio paese, o voler difendere la
sovranità democratica entro i con ni nazionali, si può ritrovare a dover
fronteggiare accuse (o sospetti) di razzismo, xenofobia ecc.349. Chi metta
in dubbio l’opportunità di pratiche controverse come la maternità
surrogata corre il rischio di essere bersagliato come “omofobo” ecc.
Questa tendenza produce dunque innanzitutto una falsi cazione e uno
sbilanciamento nel dibattito pubblico, dove tutte le prospettive che
dubitano delle virtù di una radicale uidi cazione delle strutture sociali
sono obbligate a partire sulla difensiva.
In secondo luogo, tale tendenza crea un crescente scollamento tra le
forme di discussione delle élite – dove la minaccia delle censure
“politicamente corrette” è una minaccia effettiva – e le forme di
discussione popolari, dove quelle censure hanno scarsa presa. In regimi
democratici tale scollamento non può che avere pesanti ripercussioni,
creando fratture insanabili nel dibattito pubblico.
In ne, ma non meno importante, l’articolazione dei gruppi de niti come
vittime e dunque come “socialmente in credito” produce una
competizione sociale verso rivendicazioni particolari, con esiti altamente
divisivi. A questo proposito è interessante notare come l’unico gruppo che
non compaia mai, neanche per accidente, tra quelli letti come oppressi e
bisognosi di tutele speciali è il “proletariato”, in una qualunque delle sue
versioni odierne. È indicativo della natura del fenomeno il fatto che quella
che è la principale forma di “vittimizzazione” della società liberale,
determinata dall’inferiorità economica, sia accuratamente lasciata fuori dal
quadro. Come notavamo prima con riferimento ai “diritti umani”, le
amnesie selettive degli odierni combattenti per i diritti sono un chiaro
indice della natura di queste tendenze, che emergono come effetti
collaterali del trionfo della ragione liberale.
L’effetto complessivo di questi processi è dunque duplice. Da un lato si
procede alla frammentazione di ogni società in una miriade di istanze
rivendicative particolari e per de nizione non universalizzabili; questo
processo viene selezionato favorevolmente dal sistema economico in
quanto crea un agone competitivo, e depotenzia ogni istituzione politica
che guardi alla società nel suo complesso. In seconda istanza, questo
processo di particolarizzazione colpisce sistematicamente le idee di
“normalità” e “naturalità”, con i loro corollari. A quest’ultimo punto
vogliamo dedicare alcune osservazioni nel prossimo sottoparagrafo.
29.6 La ragione liberale come “disumanismo”
Sin dall’inizio il riferimento liberale alla “natura” ha avuto la sola
funzione di delegittimare il conservatorismo tradizionalista, sostituendone
l’autorità con una diversa fonte autoritativa, la “natura” appunto. Tale
ricorso alla dimensione “naturale” non tenta mai seriamente di de nire la
veridicità di un ordinamento autonomo di valori, ni, virtù. La “natura”
della ragione liberale è, dall’inizio e consistentemente nel tempo, uno stato
di natura nzionale, popolato da individui ttizi, privi di appartenenze
culturali, di territorialità, di passato e socialità. I “diritti di natura” sono a
loro volta solo utili nzioni, che una volta ottenuto suf ciente potere
(come “ideologia dei diritti umani”) non hanno più neppure bisogno di
continuare a ngersi “fondati in natura”, e si confessano senz’altro come
espedienti pragmatici350. La “natura” serve dunque alla ragione liberale
solo per scalzare la norma consuetudinaria, de nita dalla tradizione, per
poi lasciare spazio a un’idea di natura svuotata, meccanizzata, concepita
come vuoto strumento, mezzo disponibile per ogni ne351. La natura che
prende piede parallelamente all’imporsi della ragione liberale è la natura
sicalista, dove le teleologie della materia biologica sono state rimosse.
Progressivamente l’imporsi della ragione liberale si esprime dunque
come un attacco, talvolta espresso talaltra implicito, a ogni concezione di
normalità sociale prima, e di naturalità biologica poi. Essendo la normalità
sociale e la naturalità biologica le due fonti primarie e inaggirabili di ogni
fondazione assiologica, la ragione liberale si dispiega come nichilismo
realizzato. Tale nichilismo, come dissoluzione di ogni riferimento, valore e
orientamento, si esplica in molte forme, alcune esplicitamente sostenute,
altre che prendono piede per default, perché la ragione liberale ha
abbattuto le forze che erano capaci di opporvisi.
In questo secondo novero troviamo tutti gli effetti collaterali delle
dinamiche capitalistiche, che abbiamo esaminato sopra. Lo sradicamento
territoriale, la negoziabilità universale di ogni valore, la disgregazione
delle identità personali, la perdita dell’unità sociale, l’impoverimento del
tessuto morale, e in ne il degrado ambientale che è di fatto un attacco alla
natura in tutte le sue dimensioni, dagli squilibri ecologici a quelli organici
interni.
Se guardiamo alle esplicite teorizzazioni, troviamo questa tendenza
espressa innanzitutto nell’alveo della ri essione postmodernista, sotto
l’egida dell’anti-essenzialismo. Il rigetto dell’essenza, così come espresso
dai rappresentanti del postmodernismo francese è un processo che porta
immediatamente con sé nel baratro le idee di verità-falsità, giustizia-
ingiustizia, valore-disvalore, umanità-inumanità, normalità-anormalità. I
noti sviluppi del movimento antipsichiatrico, la cui rappresentanza
loso ca eminente è Michel Foucault, esprimono bene il punto in
questione. Per combattere gli abusi della detenzione psichiatrica negli
anni ’60 venne adottata la strategia, radicale quanto problematica, di
contestare la legittimità stessa del concetto (essenza) di malattia
mentale352. Secondo un procedimento già esaminato, l’impossibilità di
rintracciare un con ne netto tra normalità e patologia psichiatrica
consentì di mettere in dubbio la categoria stessa di malattia mentale, il cui
senso venne allora concepito come l’esito di una decisione politica, di una
prevaricazione sociale, o di un arbitrario esercizio di potere.
Secondo una dinamica tipica dell’imporsi della ragione liberale, questo
movimento ebbe dapprima reali effetti emancipativi, consentendo di
rimettere in discussione categorizzazioni irrigidite e dogmatiche, per poi
scivolare progressivamente in situazioni aporetiche e insostenibili. Nel
lungo periodo, l’esigenza operativa di ripristinare la categoria di patologia
mentale è riemersa e si è imposta, lasciando alle spalle le istanze
dell’antipsichiatria. Tale sviluppo tuttavia non è stato privo di
conseguenze di lungo periodo, e se da un lato ha permesso un’utile
revisione delle norme sulla detenzione psichiatrica, dall’altro ha
contribuito a minare e delegittimare il concetto stesso di normalità353.
Osservazioni analoghe si possono fare lungo il crinale umanità-
inumanità. La critica all’umanismo è un tratto frequente della cultura
postmoderna, che prende direzioni molteplici. Il nucleo di fondo è
rappresentato dalla contestazione di qualcosa come una “essenza umana”.
Anche qui il “gioco del con ne incerto” può essere giocato
confortevolmente. Mostrando i con ni sfumati della categoria “umanità”
(come nel paradosso del Sorite)354, e invocando ad hoc l’evoluzione
biologica e il cambiamento storico, si può cercare di delegittimare l’idea
stessa di una “comune natura umana”. Le implicazioni di questa
delegittimazione sono ampiamente sottovalutate. Mentre varie versioni
dell’umanesimo (ad esempio quella illuminista), con le loro speci che
visioni dei valori, possono essere contestate senza dif coltà, una posizione
di rigetto perentorio dell’umano in quanto tale come punto di vista
preferenziale sul mondo apre immediatamente abissi incolmabili. Di fatto
noi non abbiamo a disposizione alcuna prospettiva che ci permetta di
aggirare la datità umana che abitiamo, con le sue facoltà e le sue
preferenze strutturali. Ogni operazione che proponga una dismissione del
punto di vista umano, immaginando di poter sospendere le facoltà e
preferenze umane su cui poggiamo, è un’operazione illusoria e fuorviante.
Ciò che attribuiamo come facoltà e preferenze ad altre specie lo
attribuiamo, e immaginiamo, sempre solo come variante di una facoltà o
preferenza di ciò che ci è noto in prima persona come esseri umani.
Naturalmente, noi come umani possiamo anche decidere di considerare
la vita di un’altra specie, o di tutte le altre specie, come più meritevoli
della nostra o come parimenti valide, o parimenti indifferenti ecc. Ma
ciascuna di queste operazioni avverrà presupponendo l’umanità che
incarniamo. Le nostre doglianze circa le lamentevoli insuf cienze
dell’umanità sono fatte sulla scorta delle facoltà e preferenze umane, e
senza di esse non avrebbero alcun senso. Possiamo certo decidere di
aderire a qualche visione “antiumanista”, nel senso di subordinare i nostri
interessi di specie alla sopravvivenza di altre specie non umane. Ma questa
sarebbe di nuovo precisamente un’operazione fondata su facoltà e valori
umani, intelligibile a noi in quanto umani; mentre sarebbe perfettamente
priva di senso per tutte le specie non umane a noi note.
Il fatto che ciò che siamo sia il prodotto dell’evoluzione o del buon Dio
è irrilevante nell’ottica di una delegittimazione del punto di vista umano:
tali supposte origini causali non ci forniscono comunque alcun punto di
vista superiore ed esterno, da cui valutare ciò che siamo. Possiamo
ritenere che la nostra capacità di amare i nostri gli, o di innamorarci, o di
provare empatia, o di avere senso della lealtà ecc. siano prodotti
accidentali, emersi da una prolungata evoluzione. Possiamo concedere che
non tutti gli esemplari di homo sapiens siano sensibili a questi “valori”.
Possiamo anche ammettere di non sapere quali eventuali ulteriori sviluppi
del sentire ci riservi una possibile evoluzione futura. Niente di tutto ciò
tocca minimamente il fatto che il nostro orientamento etico, quella base su
cui costruiamo le nostre speranze e aspettative, presuppongono la validità
di quei “valori” e che se ne sopprimiamo la validità non ci ritroviamo in
mano un’etica alternativa, ma il puro nulla. Nessuna “essenza” è scritta
nel marmo e nessuna è predisposta a essere de nita comodamente per
genere prossimo e differenza speci ca355, tuttavia rispetto a un’essenza
umana noi abbiamo solo la scelta tra cercare di tematizzarla, o lasciare che
essa operi in noi senza essere tematizzata, ma non sapremmo neppure
immaginare un progetto positivo in cui essa viene scavalcata e lasciata alle
spalle.
Il giudizio a effetto di Foucault nella chiusa de Le parole e le cose, dove
parla dell’uomo come di un’invenzione recente, di cui pronostica la ne
prossima, gioca volutamente con l’ambiguità tra la nozione di umanità
(anzi, di una sua speci ca accezione) e l’essenza dell’umano356. Siccome
per Foucault non c’è alcuna essenza che travalichi l’uso verbale, far
coincidere la ne dell’umano con il superamento di un’idea di umanità
non gli sembra un so sma. Ritroviamo questo antiumanesimo in forma
più esplicita e compiuta vent’anni dopo nel saggio di Lyotard
sull’Inumano, dove si prospetta l’idea di un superamento tecnologico
dell’umano in una forma capace di fare a meno del corpo, evitando con
ciò la sofferenza sica, gli oneri della riproduzione ecc. Per Lyotard già
l’aggiunta e trasformazione di facoltà attraverso l’educazione sarebbe
qualcosa di “inumano”, in quanto forma di violenza e costrizione; e in
questo senso l’aggiunta o trasformazione di facoltà in forma tecnologica
non rappresenterebbe una “inumanità” particolarmente difforme o
incomprensibile357. Qui, conformemente al modello della ragione liberale,
il superamento del limite, dei propri limiti, è posto come istanza
intrinsecamente desiderabile. Si apre così la tematica sviluppatasi negli
ultimi decenni sotto il nome di “postumanismo” o “transumanismo”,
dove l’idea di una trasformazione radicale dell’uomo in “qualcos’altro”
per via tecnologica viene presentata come una sorta di novella utopia.
Questa prospettiva presenta due linee di sviluppo, talvolta sovrapposte:
la prima (per cui usiamo l’espressione “transumanismo”) concepisce le
modi che tecnologiche del corpo umano, dall’ingegneria genetica alle
nanotecnologie, come un modo per potenziare, migliorare, accrescere la
facoltà umane. Quest’ottica transumanista è visibile in Lyotard, ed
espressa nella sua forma più netta in autori come Hans Moravec358, e Ray
Kurzweil359. La seconda (che seguendo il suggerimento di Miah360
chiamiamo “postumanismo culturale”) non mira a un accrescimento delle
facoltà quanto piuttosto a un dissolvimento dei con ni della soggettività
umana in quanto tali, poiché l’identi cazione di un’alterità (come altra
specie o altro sesso) viene vista come qualcosa di intrinsecamente
divisivo361. Il postumanismo culturale è rappresentato esemplarmente da
autrici come Katherine Hayles362 e Donna Haraway363.
Le differenze tra queste tendenze mostrano in ligrana la comune
appartenenza al regime di ragione liberale. Nel transumanismo si esprime
l’ipostasi del mezzo a ne che abbiamo rilevato più volte: la volontà di
potenza (non a caso incarnata da quel nume tutelare del transumanismo
che è il superuomo nietzscheano) si pone come nalità vuota fondante. La
potenza, l’accrescimento della capacità di fare, il superamento dei limiti
dati non traggono il proprio senso da alcun ordinamento valoriale, ma
sono ni a se stessi. I tratti fondanti della ragione liberale, con la sua
mancanza di una base valoriale obiettiva e la libertà negativa come
arbitrio, sfociano nella pura hybris: il “superamento di sé” come salto nel
buio, nel nome di un potere inde nito. In questo processo l’identità
corrente dell’umano appare come un accidente ef mero.
Al centro dell’attenzione del postumanismo culturale sta invece proprio
la magni cazione di questo aspetto di contingenza ef mera. Anche per
questo secondo indirizzo il cardine profondo è dato dalla libertà negativa,
svincolata da ogni valore sovraindividuale, ma qui la negatività non si
sviluppa in direzione della conquista di potenzialità vuote ma in quella
dell’abolizione dei vecchi con ni. La comunanza di intenti tra posizioni
come quelle di Hayles e Haraway, e le tesi di Judith Butler sulla
uidi cazione dell’identità sessuale è esplicita. Haraway concepisce la
rottura dei con ni tra uomo e macchina, la loro ibridazione in forma di
cyborg, come la soluzione de nitiva e radicale a tutte le discriminazioni
prodotte dal patriarcato, dal colonialismo, e dall’essenzialismo364.
L’ancoramento dei generi al binarismo sessuale verrebbe dissolto
attraverso la tecnologia, che ci libererebbe dalle angustie del corpo.
Mentre il nichilismo dell’istanza transumanista si esprime nella ricerca di
mezzi crescenti per ni assenti, il nichilismo del postumanismo culturale si
esprime nel rigetto di ogni identità “normale” o “naturale”.
Questo attacco all’idea di “naturalità” è tanto radicale quanto
insostenibile. La sua forma argomentativa è quella che abbiamo già visto
più volte, dove si immagina che per concedere sostanzialità a una qualche
categoria essa debba presentarsi come una sorta di scatola dai con ni
chiari e distinti. Una volta dimostrato che i con ni di una categoria non
hanno la chiarezza e distinzione auspicate, si procede alla cancellazione
della sostanzialità della categoria, che viene ridotta a pregiudizio o
prevaricazione politica. Questa sorta di “ontologia del Sorite” è in effetti
poco più di un espediente retorico. Il suo unico contributo alla ri essione
sta nel ricordare come le unità e le differenze del mondo non
appartengano alla materia bruta, ma alla nostra esperienza. Non c’è
nessun “salto” improvviso nelle lunghezze d’onda dello spettro dei colori,
ma questa continuità in sé nel trascolorare non rende affatto irrilevante
per noi la differenza tra un rosso e un verde.
E neppure determinare la “contingenza” (la possibilità di essere
diversamente) di qualcosa ne stabilisce l’irrilevanza. Il fatto che
nell’universo gli occhi avrebbero anche potuto non evolvere mai, non
cambia di una virgola il piacere che proviamo ora davanti a un tramonto o
un Caravaggio: che qualcosa possa essere un esito contingente non toglie
nulla alla validità assoluta di esistere così come esiste ora. Il nostro occhio
non inventa dal nulla i colori, ma neanche essi esistono in assenza di
occhi: essi sono ciò che sono, all’incontro tra gli occhi e il mondo delle
cose illuminate. Se qualcuno sulla base di questa natura del fenomeno
vuole dichiararne l’insostanzialità, l’irrilevante accidentalità, l’unica cosa
che può ottenere è di precludersi l’esperienza di tutta la bellezza che il
mondo cromatico può offrire. E ciò vale per ogni categoria e ogni
differenza.
La natura, è bene ricordarlo, non de nisce alcuna norma, dunque non
esistono obblighi dettati dalla natura, e perciò neppure “comportamenti
contro natura” (nel senso di violazioni di una legge di natura). Questo
però non toglie che la naturalità rappresenti una base assiologica
inaggirabile. Così, ad esempio, per la specie umana provare un qualche
grado di empatia verso chi prova dolore è naturale ed è fonte di valore; e
in questo senso il comportamento di uno psicopatico, che può uccidere o
torturare chiunque con totale indifferenza, è giudicato patologico, e collide
con le aspettative valoriali umane. Questo non signi ca né che in natura
l’indifferenza dello psicopatico sia una rarità inaudita (in effetti è la norma
per la maggior parte delle specie animali), né che in natura sia inscritta
una qualche “legge” che dica cosa fare degli psicopatici. Le nostre leggi
formali, o norme sociali, intorno agli psicopatici possono cambiare nel
tempo a seconda delle conoscenze scienti che, delle capacità terapeutiche
ecc. Questo perché una legge dice cosa fare, e ciò che facciamo dipende
sempre dalle opzioni concrete a disposizione: dalle nostre conoscenze e
capacità. Ma mentre questa dimensione normativa può variare
contingentemente, il nostro giudizio di valore sullo psicopatico rimane
stabile, in quanto è fondato su un tratto specie-speci co quali cante (su
una “normalità” umana).
Questa distinzione tra due sensi della “normatività”, uno telico-valoriale
e l’altro coercitivo-legale è cruciale. Le norme sociali sullo psicopatico
possono cambiare, mentre il giudizio di disvalore rispetto al suo
comportamento si fonda appunto su una caratteristica naturale, specie-
speci ca; e che tale caratteristica naturale non sia una necessità apodittica,
non appartenendo ad aracnidi né a rettili, non cambia di una virgola la
fermezza del nostro giudizio.
Nello stesso senso noi possiamo trovare che le capacità di vedere, o di
parlare, o di deambulare siano naturali nella specie umana; e perciò vi
attribuiamo valore, ponendole come facoltà desiderabili, e se qualcuno ne
è privo possiamo cercare di aiutarlo a colmare tale mancanza (proprio
perché la percepiamo come una mancanza). Anche qui, non c’è nessun
obbligo inscritto in natura, ma sulla scorta di un’attribuzione di valore
fondata su un giudizio di normalità naturale possiamo costruire norme che
cerchino di porre rimedio alla cecità, all’afasia, alla paralisi o quant’altro.
Qui non c’è comunque spazio per norme coercitive: nessuno obbliga il
cieco a curarsi. Nel caso dell’anormalità dello psicopatico, nella misura in
cui il suo comportamento risulti nocivo a terzi, è sensato operare
coercitivamente. Nei casi di scostamenti difettivi dalla normalità innocui
nei confronti di terzi, come la cecità, è sensato dare la possibilità di
raggiungere la normalità (se tecnicamente possibile), ma non ha senso
imporla.
È importante comprendere come sia proprio la naturalità a operare
come base normativa, nel senso valoriale-telico: noi giusti chiamo il
tentativo di rimediare alla cecità del cieco – se lo desidera –, sulla scorta
dell’assunzione che essere un umano normale abbia valore. La volontà
personale qui è un’istanza di secondo livello, dove il desiderio individuale
viene preso in considerazione perché si confà al valore naturale. Se, al
contrario, ci trovassimo di fronte a un vedente che chiede l’intervento del
servizio sanitario nazionale per diventare cieco, troveremmo la richiesta
controintuitiva e dif cilmente giusti cabile365. Se qualcuno poi volesse
insistere in questa direzione, eliminando ogni riferimento alla naturalità, e
sostituendola integralmente con il desiderio soggettivo, apriremmo la
strada a una situazione dove l’impegno collettivo per venire incontro alle
volontà personali dovrebbe necessariamente ritirarsi.
L’ostilità nei confronti del concetto di “naturalità” sul piano etico è
motivata dall’uso coercitivo-legale che ne è stato fatto in passato.
Dichiarare una pratica estranea alla normalità naturale per stabilirne
senz’altro l’illiceità è stata una propensione storica frequente, soprattutto
in contesti in uenzati dalle religioni monoteiste, dove l’idea di “legge
naturale” si abbinava all’idea di una volontà divina. Sotto queste
premesse, comportamenti “innaturali” possono essere facilmente tradotti
in “violazioni della volontà divina”, conducendo perciò a proibizioni
sociali. Questo passaggio tuttavia è del tutto immotivato se non si
accettano quelle peculiari premesse teistiche.
Ma, mentre la deduzione di una legge-coercizione da un’essenza naturale
è erronea, l’attribuzione di valore prima facie a ciò che è identi cato come
“naturale” è un’operazione non solo fondata, ma inaggirabile.
“Naturale” è espressione assai problematica sul piano assiologico se la
riferiamo alla mera “datità in natura”. In natura infatti possiamo trovare
tanto il virus dell’in uenza che l’anemia falciforme. Ma l’uso valoriale-
telico di “naturale” non si limita a registrare datità naturali, ma pone al
centro la funzionalità normale dell’uomo. Così, prendere un medicinale
per curare una malattia non è “contro natura” (perché la medicina
sarebbe un “arti cio”), ma è un atto conforme a natura perché fondato
nel buon funzionamento dell’organismo umano: il medicinale è un
intervento esterno utile a ripristinare un valore de nito dalla funzionalità
naturale, – e tale funzionalità implica il raggiungimento di facoltà medie
specie-speci che, la capacità di restare in vita e di riprodursi
intergenerazionalmente. Similmente, un intervento di ingegneria genetica
che sia limitato alla linea somatica (dunque che non passi alle generazioni
successive) e che sia utile a correggere una disfunzione organica (ad
esempio l’anemia falciforme di cui sopra) è giusti cabile su base naturale
perché aiuta a ripristinare una funzionalità coerente con la normalità
naturale della specie. Al contrario, un intervento di ingegneria genetica
che tentasse di “creare innovazione” in un organismo non sarebbe guidato
dal ripristino di una funzionalità naturale, e sarebbe dunque privo di
giusti cazione. In ne, un intervento genetico “innovativo”, operante sulla
linea germinale (e dunque trasmissibile intergenerazionalmente),
mancherebbe di giusti cazioni positive, e presenterebbe motivazioni
avverse: qui non solo l’innovazione non ripristina alcun valore naturale,
ma le sue conseguenze preterintenzionali minacciano di principio altri
soggetti (la progenie, le generazioni future).
Bisogna comprendere bene perché la naturalità, nel senso funzionale di
cui sopra, abbia una priorità fondativa assiologica prima facie. La prima e
fondamentale ragione è quella esplicitata in precedenza, e che possiamo
così riformulare: una modi ca di ciò che siamo che ne sostituisca le
fondamenta, le preferenze e facoltà specie-speci che, non è razionalmente
immaginabile, giacché forme e contenuti di tutto ciò che possiamo
immaginare (e sperare) dipendono proprio da ciò che siamo366. Noi
semplicemente non sappiamo, né possiamo di principio sapere, come
sarebbe essere scorpioni o angeli, e qualunque fantasia, qualunque
auspicio guidato da consimili immaginazioni è un semplice, gratuito, salto
nel buio.
In seconda istanza bisogna comprendere cosa attribuisce un valore
coeteris paribus positivo agli equilibri naturali esistenti, dentro e fuori di
noi. Per un credente la positività è implicita nell’assunto che l’equilibrio
naturale esistente sia stato “donato dal creatore” per ragioni
imperscrutabili, cui non possiamo che sottometterci. Non è però questa
prospettiva che ci interessa assumere, ma quella di una giusti cazione
laica, che può percorrere le seguenti linee.
Per quanto ci è dato di sapere, noi, come specie oggi vivente, siamo
l’esito di un lunghissimo percorso evolutivo. Ciascuna specie giunta no a
oggi appare come un “progetto di successo”, testato e selezionato da una
sterminata sequenza di prove ed errori, un “progetto” il cui complesso
equilibrio le consente di continuare a esistere e riprodursi
intergenerazionalmente. E continuare a esistere e riprodursi
intergenerazionalmente è per ogni vivente un valore di base, minimo ma
inattaccabile.
Questo stato di cose ci dice che ciò che ora è, come ordinamento
naturale, ha potenti ragioni per essere come è, anche se tali ragioni le
ignoriamo, e anche se dovessimo ignorarle per sempre. Rispetto a questo
dato, ogni variazione congetturale, ogni esperimento, avrebbe l’onere
della prova di dimostrare che la variante proposta è migliorativa, che i
vantaggi superano i potenziali danni. E naturalmente ciò che conta come
vantaggio o danno è valutabile come tale solo a partire da ciò che qui e ora
siamo, come specie. Noi non dominiamo affatto l’immensa pluralità delle
condizioni di equilibrio che consentono agli organismi che siamo di
esistere e prosperare nel tempo su questo pianeta. Possiamo, se ci sono
solide motivazioni, introdurre modi che limitate, correttivi locali,
sorvegliandone le implicazioni, con la consapevolezza che anche nel
migliore dei casi la nostra capacità di testare le conseguenze di una
modi ca indotta saranno limitate. Ma ogni progetto di autocreazione
antropica (trans- o post-umanista) è un incubo distopico camuffato da
sogno.
Un argomento simile, anche se meno forte, può essere esposto con
riferimento alla normalità sociale, cioè alla tradizione, agli usi e costumi
consolidati. Anche i costumi sociali, gli abiti collettivi, gli ordinamenti
comunitari e famigliari emergono nel tempo, per prove ed errori.
Naturalmente si tratta di estensioni temporali molto meno lunghe di
quelle evolutive, ma anche qui quando troviamo un costume consolidato
dobbiamo considerare che esso rappresenta una forma di vita (sociale) che
ha mostrato di essere in grado di funzionare intergenerazionalmente. E
anche qui, nessun soggetto presente ha una conoscenza complessiva di
tutte le condizioni, tutti i bilanciamenti e tutte le implicazioni che
simultaneamente operano in un sistema sociale. Dunque ogni forma di
ingegneria sociale che ritenga di poter creare a cuor leggero forme sociali
radicalmente nuove e inaudite rappresenta una forma di hybris, di cui è
prevedibile che crei squilibri che è incapace di governare. Tuttavia, qui il
sistema ha complessità inferiore a quello degli equilibri naturali, e anche la
sua inerzia temporale è inferiore, dunque i margini per variazioni
migliorative, graduali e sorvegliate, è più ampio.
Pur trattandosi di “costrutti umani”, le forme di vita sociali non sono
l’esito di progetti mirati e non sono trasparenti a chi le abita: nessuno ha
conoscenza di tutte le ragioni che supportano l’esistenza nel tempo di un
sistema sociale, di un costume o abito collettivo. Prendiamo un caso
semplice, come il cosiddetto “comune senso del pudore”. È certo che si
tratti di un aspetto antropologico che si esprime in forme assai variabili, e
non è facile ricostruire quali fattori vi intervengano: vi giocano
probabilmente un ruolo i codici interni che segnalano disponibilità
sessuale, le forme educative dei minori, le condizioni climatiche di
riferimento, e altro ancora. Ma non sapere perché all’interno di una certa
società alcuni comportamenti valgano come “violazioni del senso del
pudore” (oscenità) e altri no, non vale come motivo per ritenere quel
costume ingiusti cato. Non ci sono ragioni apodittiche che vietino di
concepire una società in cui, per dire, il coito possa avvenire ovunque
liberamente in pubblico. E noi possiamo anche costruire una storia
credibile in cui tale costume si presenta come un tratto consuetudinario.
Queste però non sono ragioni suf cienti per dichiarare la presente ritrosia
di fronte a un tale scenario come gratuita e immotivata. Di fronte a
costumi consolidati, la mancanza di argomenti decisivi a loro supporto
non è mai un argomento a loro detrimento.
Piccole varianti di costume, sperimentali e reversibili, sono legittime, e
di fatto avvengono costantemente in ogni società. Qui la legge deve
seguire e legittimare a posteriori costumi che hanno mostrato di poter
funzionare. Al contrario, leggi che forzano il costume corrente, credendosi
in dovere di “rivoluzionare i costumi” per aver intrattenuto
immaginativamente forme di vita idealizzata, sono da dif dare, giacché le
capacità di progettare tali forme di vita, e di visualizzarne le implicazioni
di lungo periodo, sono assai limitate.
La possibile introduzione di una norma sociale non va mai valutata a
partire da un singolo caso immaginato, il cui scenario può apparire
giusti cabile, ma bisogna chiedersi quali sarebbero le implicazioni nel
momento in cui lo scenario normato dovesse divenire un nuovo abito
collettivo, un costume diffuso. Questo perché una norma sociale implica
sempre la legittimazione di un nuovo costume, e non semplicemente la
tutela di una casistica individuale.
Non basta immaginare un caso in cui vendere i propri organi a chi ne ha
bisogno per un trapianto sembri ragionevole, per legittimare tale pratica,
ma bisogna rappresentarsi una società in cui ciò diventi pratica corrente,
con tutte le sue implicazioni. Non basta immaginare un caso in cui
l’acquisto di un neonato da una madre surrogata sembri un’opzione
ragionevole, per legittimarne la pratica, ma è necessario rappresentarsi
una società in cui tale fatto sia divenuto una nuova normalità sociale,
un’opzione corrente; e così avanti.
Nelle varie forme di postumanismo e transumanismo, e nel loro attacco
alle nozioni di “naturalità” e “normalità”, la ragione liberale, all’apice del
proprio processo di realizzazione, manifesta il proprio carattere
schiettamente nichilista. L’operazione inaugurale che secoli prima le aveva
consentito di infrangere i limiti e condizionamenti della storia, della
società e della tradizione, con esiti emancipativi, ora si ripresenta come
reiterazione dello stesso gesto di rottura dei limiti, di infrazione,
negazione, superamento, in un processo autonomizzatosi
istituzionalmente e costituitosi in ideologia. Individui sempre più fragili,
aggressivi e insicuri, in condizioni di crescente disagio e disorientamento,
nutrono una tumultuosa richiesta di “autocreazione” totalmente vuota,
una fuga a rotta di collo da ciò che si è. La fuga, la rivendicazione di un
altrove purchessia, appare come l’ultima redenzione. Il sistema crea
disagio, ma non è esso stesso percepito come problema. Di contro, sono
l’identi cazione e il riconoscimento da parte di terzi del proprio disagio
ad apparire ora come abusi, aggressioni esterne, che “categorizzando” il
soggetto lo vincolano a una condizione intollerabile. Il sistema produce
squilibrio e disfunzionalità; ma poi fornisce anche un’ideologia che li
abbellisce, dipingendoli come orgogliosa trasgressione. Il sistema produce
deformità e patologia, ma fornisce anche un vademecum per sentirsi a
posto con se stessi, perché dichiara non esservi alcuna conformità né
alcuna siologia cui attenersi. Il disagio, il male di vivere non chiamano ad
alcun cambiamento strutturale, ad alcun mutamento delle forma di vita,
ma rinviano a insurrezioni private che si nutrono di ideologie del “post” e
del “trans”, e che sfociano in qualcuno dei molti paradisi arti ciali forniti
– a prezzo mai così vantaggioso – dal mercato.
30. Elogio funebre della ragione liberale
Il quadro che abbiamo tratteggiato deve essere inteso correttamente.
Esso non ha niente a che vedere con un “attacco a un’opzione politica
sgradita”, né tantomeno si con gura come una lettura “demonizzante”
dello sviluppo storico oggi prevalente. Il tentativo qui svolto è quello di
comprendere, almeno nei suoi tratti principali, il senso e i limiti di una
grandiosa metamorfosi storica che nell’ultimo secolo ha nito per
coinvolgere l’intero pianeta.
30.1 Elogio del progresso liberale
Per circa due secoli la ragione liberale ha rappresentato il progresso, e
continua talvolta a farlo in quelle aree del mondo dove
l’industrializzazione ha tardato a emergere. Il carattere progressivo della
ragione liberale nella sua prima ascesa non dipese da giudizi di
approvazione estetica o morale, ma dal fatto che fu una soluzione creativa,
nella cultura occidentale, di fronte alle s de prodotte dagli sviluppi della
stampa alfabetica, dello scambio monetario e delle scienze naturali. Il
nuovo statuto della personalità individuale, le nuove potenzialità nella
manipolazione della natura e nella produzione economica producevano
mutamenti che esigevano risposte. La ragione liberale è emersa come la
risposta di maggior successo, capace di integrare molte di quelle istanze
(anche se non tutte).
Questo successo storico ne segna anche i limiti. Come abbiamo visto, la
ragione liberale non è emersa principalmente grazie a una solida
teorizzazione, ma come risposta pragmaticamente adatta in un contesto in
rapida evoluzione dopo il Rinascimento. Questo suo ruolo fa sì che, a
fronte di un compito epocale – si trattava di soppiantare un sistema
culturale e istituzionale millenario – la ragione liberale si è presentata
tramite iniziative politiche locali, teorizzazioni scarne e incomplete, e una
mistura di immaginario retorico e soluzioni istituzionali concrete. La
ragione liberale deve anche a ciò il proprio successo: sul piano operativo
l’essere inizialmente un contenitore culturale vago e piuttosto informe l’ha
resa permeabile a variazioni in corso d’opera, a integrazioni pragmatiche e
a una certa “ecumenicità” (donde la natura variegata delle istanze che si
sono dette “liberali”). In ultima istanza, tuttavia, la ragione liberale ha
trovato una chiara identità solo nei suoi tratti negativi, in ciò contro cui si
schierava (il superamento dell’Ancien Régime), lasciando alla
contendibilità futura ulteriori aspetti. È questo carattere che sta alla radice
della apparente dif coltà odierna di “non dirsi liberali”: dopo tutto in un
qualche senso chiunque non sostenga apertamente il ritorno a forme di
governo teocratico, monarchico o oligarchico a base ereditaria può essere
inserito in qualche modo nella “grande famiglia liberale”.
Questo processo di avanzamento pragmatico ha consentito alla ragione
liberale di escogitare numerose soluzioni di successo, che si sono
consolidate nel tempo.
Sul piano etico, la ragione liberale ha sostenuto ef cacemente la
tolleranza nei confronti di opinioni, posizioni, costumi ampiamente
differenti, promuovendo simultaneamente la libertà di pensiero e di
espressione.
Sul piano istituzionale, per quanto in una sua rami cazione eccentrica
(Montesquieu), la ragione liberale ha prodotto una teoria della divisione e
del bilanciamento dei poteri pubblici, teoria che si è mostrata adatta alla
gestione democratica di grandi organismi statali.
Sul piano economico, la ragione liberale ha mostrato le virtù della libera
iniziativa economica, capace di dinamizzare la produzione e incrementare
l’offerta di beni e servizi.
Sul piano legale, sono state create le condizioni per l’esistenza di stati di
diritto, dunque di stati in cui poteva vigere, almeno idealmente,
l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e dove singoli individui,
socialmente deboli, potevano ottenere riconoscimento dei loro diritti
attraverso l’intervento dello Stato.
In ne, sul piano politico, la ragione liberale ha fatto da levatrice per i
moderni stati democratici. Pur non essendo intrinsecamente devoto a una
prospettiva democratica, il liberalismo ha de nito istituzioni che hanno
permesso l’imporsi di ordinamenti formalmente democratici.
Tutte queste sono acquisizioni storiche consolidate. Questo non signi ca
che non possano essere rimesse in discussione, ma signi ca che, siccome
soddisfano ragioni storiche profonde, e non presentano evidenti
controindicazioni, esse manifestano considerevole resilienza. È dunque
legittimo aspettarsi che questi tratti, in qualche loro variante,
rappresentino conquiste irreversibili (salvo sconvolgimenti che mettano a
repentaglio l’evoluzione tecnologica e culturale dell’ultimo mezzo
millennio). In quest’ottica si può ben comprendere perché la ragione
liberale abbia rappresentato la forma culturale trainante tra il XVII e il
XIX secolo.
30.2 Le due globalizzazioni
Che la ragione liberale sia stata una forza progressiva in questo periodo
non signi ca che non siano emersi subito elementi problematici in essa.
Le pagine di un liberale come Tocqueville in Democracy in America
mostrano già in modo esemplare tanto gli elementi ammirevolmente
dinamici della ragione liberale, quanto i suoi tratti problematici. Tuttavia
per lungo tempo gli aspetti progressivi hanno nettamente sopravanzato
quelli problematici. Speci camente la resistenza inerziale del vecchio
mondo, dei suoi costumi e delle sue pratiche consentiva all’enfant terrible
della ragione liberale di esercitare il suo potere emancipativo senza
doversi curare di porre seriamente mano a meccanismi strutturanti,
costruttivi.
A metà Ottocento il quadro delle tendenze distruttive della ragione
liberale era oramai piuttosto chiaro (il Manifesto di Marx è del 1848). La
critica marxiana, di un’acutezza ancor oggi insuperata in molti aspetti,
aveva tuttavia davanti agli occhi un processo recente, appena giunto a
maturazione. Marx percepì da vicino, e vi diede riconoscimento, il
carattere progressivo della ragione liberale e della sua rivoluzione
produttiva. Alla luce dell’evoluzione successiva è però possibile sostenere
che la visione marxiana fosse ancora improntata a un eccessivo ottimismo
progressista relativo alla natura del movimento storico che stava
descrivendo. Con la ne dell’Ottocento iniziarono a manifestarsi tendenze
evolutive non contemplate dall’analisi marxiana: i processi di
disgregazione sociale e culturale, uniti alle dinamiche di competizione
capitalistica per nuovi mercati, portarono alla luce l’imperialismo, come
soluzione che tamponava la disgregazione sociale con la creazione di un
nemico esterno in forma di avversario economico (la nazione
concorrente). La “prima globalizzazione” creò disorientamento
individuale e rabbia sociale, che vennero veicolate nella direzione di
istanze antisemite, scioviniste e nazionaliste, no allo sbocco bellico del
1914.
Nell’ottica dello sviluppo della ragione liberale il trentennio 1914-1945
rappresentò in Europa (non negli USA, però) una parentesi, in cui la crisi
della visione liberale produsse due principali soluzioni alternative nella
forma del comunismo sovietico e dei totalitarismi di ispirazione fascista.
Entrambe queste soluzioni mostrarono gravi limiti intrinseci.
Le soluzioni di tipo fascista, strettamente dipendenti dalle istanze
nazionaliste che avevano condotto alla Prima guerra mondiale,
continuarono a presentare i medesimi elevati tassi di aggressività
imperialistica che avevano caratterizzato gli sviluppi n de siècle,
conducendo perciò fatalmente a quella che è a tutt’oggi la più grande
distruzione di risorse umane e materiali della storia.
La soluzione comunista presentava problemi differenti: la carenza di
strutture politiche partecipative, l’irreggimentazione di tipo militare (in
parte dipendente dalle criticità postrivoluzionarie) e l’opposizione, tipica
dell’universalismo illuminista, alle tradizioni religiose, incisero
progressivamente sulle capacità di “ delizzare” la cittadinanza. Per un
ordinamento progettato per essere un governo politico e popolare
dell’economia, la frattura tra politica e popolo doveva risultare fatale. La
storia dell’Europa del Patto di Varsavia è la storia dell’incapacità di creare
un tessuto partecipativo connesso alla dimensione politica, dopo aver
sradicato in modo “rivoluzionario” il tessuto sociale precedente.
Con il crollo dell’URSS venne meno l’ultimo residuo della reazione
storica alla “prima globalizzazione”. Giusto in tempo per assistere
all’ascesa trionfale della “seconda globalizzazione”, entro cui ancora ci
collochiamo.
30.3 Logica e struttura della disgregazione
Come abbiamo osservato, la ragione liberale è e rimane sottodeterminata
nelle sue componenti fondative: si tratta di una visione del mondo che
non nasce da una “rivelazione”, né da una “scoperta”, né da una “verità”,
ma da un gesto di ripulsa, un gesto all’altezza del momento storico e
perciò di successo, ma anche qualcosa di essenzialmente super ciale. Il
nucleo portante della visione liberale non è frutto di alcuna visione etica,
loso ca, religiosa, umana, non è mossa da un progetto, non da una
prospettiva di civiltà, non da un quadro morale, non da un’intuizione
ideale. In esso si ritrova la necessità di utilizzare ogni visione utile a
liberarsi del vecchio mondo, con il peso delle sue tradizioni e dei suoi
vincoli, e si ritrova la necessità di gestire un nuovo potere, conferito dalle
inedite capacità di manipolazione scienti ca e incremento produttivo.
Non c’è mai nella ragione liberale alcuna profondità etica. E anzi per il
liberale già parlare di qualcosa come una “profondità etica” appare
incongruo e sospetto. C’è l’esigenza per chi si va liberando dell’ingombro
del vecchio mondo di trovare coperture giusti cative e soluzioni pratiche
che gli consentano di cavalcare con successo le nuove forze sociali ed
economiche che si sono liberate. È perciò che il trascolorare dell’essenza
del liberalismo classico nelle categorie dell’economia neoclassica non
presentò alcuna dif coltà: non c’era una visione strutturata dell’uomo, del
mondo, del giusto e dello sbagliato da trasporre, ma solo una visione
minimalista e pragmatica, traducibile senza resti in una visione che
rendeva l’umano un fantoccio senz’anima, la storia un nonsenso, e la
società un’illusione.
La forma di vita liberale, implementata dal sistema di relazioni
capitalistiche, ha proceduto a elevare il mezzo all’altezza del ne, lo
strumento in posizione di scopo, il potere al posto del valore. Ciò ha
condotto a una progressiva “liquidazione del mondo”, concependo ogni
momento dell’esistenza come uno snodo, un transito provvisorio verso la
conquista di maggior potere, maggior libertà d’agire, maggior capitale. Le
identità sociali sono state frammentate inde nitamente e depoliticizzate.
Le identità territoriali sono state tra tte e debilitate dai movimenti di
capitali e forza lavoro. Le identità personali sono state impoverite e scosse
dalla rottura delle relazioni di riconoscimento, dalla mobilità e essibilità,
dalla precarietà e dall’insicurezza.
L’aumento del potere del denaro, e la collocazione del denaro all’altezza
del valore, hanno prodotto una contrazione del senso attribuito al passato
e di conseguenza al futuro. Nell’eterno presente in cui avviene la
“transazione vantaggiosa” si trovano a loro agio solo forme di vita
massimamente ef mere, devote all’apparenza, votate al consumo, ancorate
all’immagine.
L’idea di azione collettiva incontra due ostacoli strutturali: nella rottura
della comunanza culturale necessaria a un’ef cace comunicazione
intersoggettiva, e nella frammentazione dei rapporti materiali. Al
contempo, la dipendenza dell’ef cacia politica dalla disponibilità
economica crea colli di bottiglia dif cilmente sormontabili per chiunque
non conforti gli scopi del capitale. L’insieme di queste dif coltà e
condizioni portano a una tendenziale morte della politica, che abbandona
i panni della rappresentanza dell’interesse pubblico e diviene – o tende a
divenire – una forma di gestione del breve termine con contraccambio
privato.
Le tendenze destrutturanti viste all’opera sul piano sociale, politico,
etico e psicologico trovano una loro incarnazione esemplare sul piano
ecologico, dove le caratteristiche intrinseche della ragione liberale trovano
espressione nella sistematica tendenza all’infrazione di ogni equilibrio e di
ogni limite. I processi di concentrazione produttiva e di crescita illimitata
delle transazioni creano a ciclo continuo perturbazioni degli equilibri
organici ed ecologici.
Guardando all’implementazione strutturale, economica, della ragione
liberale, possiamo vedervi in trasparenza l’origine nel suo carattere
fondamentalmente negativo. La ragione liberale nasce come negazione
(della tradizione, dello status quo) e prosegue come superamento,
trasgressione, annullamento del limite. L’essenza della ragione liberale è
tutta racchiusa in questo gesto elementare e inaugurale di negazione. Solo
in tale negazione si trova il minimo comune denominatore dello sviluppo
storico della ragione liberale. Ogni limitazione, ogni appello alla
proporzione, all’equilibrio, alla regola, alla giusta forma viene idealmente
infranta dalla ragione liberale, che fa di questo principio negatore la
propria ispirazione primaria. Sul piano dell’organizzazione economico-
sociale ciò è implementato dai meccanismi di incremento illimitato del
capitale e di mobilizzazione illimitata dei fattori di produzione.
L’immagine di questi due in niti potenziali agisce come un fattore
euforizzante nella visione socioeconomica, dove l’unica forma accettabile
di correzione appare quella fornita come nuovo prodotto del sistema
stesso. Ma l’ordinamento delle relazioni materiali, la struttura economica,
ha bisogno di appellarsi a una visione morale e ontologica coerente, una
visione che ha cominciato ad affacciarsi in forma piena solo negli ultimi
decenni.
30.4 Ideologie della disgregazione: la prima falsa opposizione
La ragione liberale esplicita nella seconda metà del Novecento
un’apparente dualità di prospettive, presenti nella cultura occidentale sin
dal primo Ottocento. All’origine della ragione liberale sta, come abbiamo
visto, la negazione della dimensione reale, ontologica, obiettiva del valore.
Questa negazione produce due diramazioni.
Da un lato si pone una realtà senza valore: la natura, interpretata come
realtà obiettiva, viene sterilizzata assiologicamente. La natura si trasforma
in un grande deposito di mezzi e strumenti, di cose indifferenti, di cause
ef cienti prive di forma, di trasferimenti di anonima energia, un insieme
di enti “numeriformi” e predisposti al calcolo e all’inferenza deduttiva.
Scompaiono dal “vero essere” le “qualità secondarie” e molto di più,
scompaiono volti, colori, speranze, nostalgie, volizioni, armonie. Rimane
la rappresentazione di un in nito deserto senza senso e direzione, senza
profondità, senza mistero, senza possibilità. Questo è il processo in cui la
metodologia della scienza moderna viene trasformata in visione
ontologica, proiettando le proprie esigenze di sempli cazione e calcolo
sulla realtà.
Dal lato opposto si pone un valore privo di realtà: il luogo deputato a
trovare distinzioni, sentimenti, motivazioni, signi cati è ora solo
l’interiorità individuale idiosincratica. Nel mondo reale non c’è più alcun
valore, ma nella tua anima individuale esiste una riserva indiana di
apparenze che “fanno differenza” (per te). Questa sfera residuale di
“valore” è un’apparenza soggettiva insindacabile, che può essere espressa
in atti individuali, scelte di mercato, ma che non può ambire a costruire
alcuna realtà condivisa (e anche provarci può essere visto come una forma
di violenza). Il valore è ridotto a “emozione”, a uno sfarfallio policromo
dell’anima da afferrare e godere nella sua fragile inanità.
Si crea così una prima, cruciale, opposizione illusoria nell’ambito della
ragione liberale, un’opposizione tra istanze che sembrano osteggiarsi in
modo fondamentale, mentre di fatto concorrono nel coprire l’essenziale
parzialità della ragione liberale. Opponendo un “individualismo del
sentimento” all’obiettivismo naturalistico si crea una falsa opposizione tra
istanze accomunate alla radice dall’esclusione del valore dall’ontologia. È
tale falsa opposizione a conferire stabilità ideologica alla ragione liberale,
giacché il diffuso senso di inappagamento viene incanalato come
oscillazione tra due estremi, che si crede includano l’intero spazio delle
opzioni possibili. Chi si immalinconisce davanti al “razionalismo
naturalistico” cerca rifugio nel calore del sentimento interiore, nel culto
dell’emozione e della volizione individuale. Chi invece si intristisce per la
stucchevole irrilevanza del proprio intimo sentire cerca ispirazione nel
vigore del razionalismo scienti co. E in questa oscillazione ci si può
illudere di andar da qualche parte, mentre si stanno semplicemente
variando le forme di delusione, ad in nitum.
Se l’obiettivo esplicito della ragione liberale fu l’abbattimento
dell’Ancien Régime, il suo obiettivo implicito – o forse meglio il suo
“danno collaterale” – fu la distruzione dell’idea di società, comunità o
stati, informati da una comunanza di valori. Quest’idea, che è stata una
delle principali ispirazioni collettive nella storia umana, appare alla
ragione liberale come nemico storico, identi cato sempre nelle sue forme
degradate o estreme (come fondamentalismo religioso o totalitarismo
ideologico).
L’idea liberale che una società possa funzionare con la sola adozione di
“regole formali” (le “rules of just conduct” di Hayek), mentre tutto il resto
può essere lasciato alla libera scelta individuale, è un’idea palesemente
insostenibile. Falsa empiricamente, come dimostrano le tendenze
disgregatrici nelle società che approssimano tale forma, e falsa
logicamente. Perché mai, infatti, dovremmo tutti concordare nel rispetto
delle stesse regole formali? Sulla scorta di quale fattore motivante? Forse
perché l’adesione a regole formali promette “pace”, o “benessere
economico”? Ma se così fosse, sarebbe appunto l’adesione a quei valori
condivisi a giusti care l’adozione delle “regole di mera condotta”. E allora
quelle regole non sarebbero più ciò che dicono di essere: potrebbero
essere revocate a favore di regole differenti, o anche di decisioni
sostanziali, che promettano di implementare meglio i valori cui si aspira.
Invece in mancanza di tale condivisione assiologica (che sotto premesse
liberali non può avvenire) il rispetto delle regole formali può contare solo
sull’inerzia storica, magari su valori “arcaici” e preliberali come
l’obbedienza e il rispetto per il prossimo, valori il cui assottigliamento,
collaterale al successo liberale, mina la base stessa per ogni accordo su
regole comuni.
La negazione dell’essere del valore porta dunque al mondo due
parzialità, oscillando tra le quali si può dissipare la propria intera vita:
l’ef cienza senz’anima del naturalismo obiettivistico e l’anima senza
ef cienza, senza potere, epifenomenica, del soggettivismo. Il carattere
originariamente negativo della ragione liberale si estrinseca in una
moltitudine di rappresentazioni accomunate dal fatto di porre all’altezza
del valore positivo vuoti atti di “superamento”. Come “ef cienza
senz’anima” la ragione liberale alimenta sistematicamente la crescita
illimitata delle transazioni economiche, dello sfruttamento naturale e della
manipolazione tecnologica. A farne le spese sono rispettivamente gli
equilibri sociali, quelli ecologici e in ultima istanza la stessa identità umana
(come ben descritto dall’ottica transumanista). Come “anima senza
ef cienza” la ragione liberale si esprime in un pullulare di appelli alla
“rottura delle regole”, al “superamento dei limiti”, alla “trasgressione”,
alla “libertà” purchessia: una perenne gesticolazione libertaria, oscillante
tra ribellismo e rivendicazionismo. Queste due tendenze si fondono
spesso, dando luogo a un orilegio di esibizioni competitive, di “guinness
dei primati”, di campionati sul nulla.
Qui è interessante notare, di passaggio, come si sia trasformato il senso
della parola “campione”. Inizialmente il “campione” era l’esemplare
migliore in un’attività, e che per tale eccellenza rappresentava il gruppo
(ne era appunto il campione). Nelle forme di competizione non bellica
premoderna, come nelle Olimpiadi greche, il “campione” è appunto
concepito come rappresentante, e l’essere rappresentante eminente era ciò
che conferiva onore e grati cazione all’essere un campione. In quel
contesto la competizione non bellica era strettamente connessa a capacità
utili in contesti reali: gli sport olimpici erano originariamente connessi con
gesti di interesse guerresco (dal lancio del giavellotto alla corsa con i
cavalli).
La scena pubblica della contemporaneità crea invece a getto continuo
“competizioni”, da sport sempre più improbabili a talent show sempre
più inverosimili, il cui unico senso è stabilire l’esistenza di un vincitore
della competizione stessa. E qui si continua a usare, inappropriatamente,
il termine “campione”, là dove i vincenti non rappresentano più nessuno
se non (a malapena) se stessi, e dove ciò in cui prevalgono non
rappresenta più nulla se non una celebrazione del prevalere stesso.
In questo contesto una nota a parte merita la gura che ha soppiantato
nella rappresentazione popolare (soprattutto cinematogra ca) la gura
dell’eroe. L’eroe, tradizionalmente, era un soggetto che dimostrava forza,
coraggio, audacia o abilità fuori dal comune nel difendere valori comuni,
correndo un rischio personale. Da Gilgameš a Ettore, dal barone von
Richthofen a Vasilij Zajcev, questa è la forma generale dell’eroe nella
narrazione storica. Nel cinquantennio liberale l’eroe in questo formato
classico si estingue. Un soggetto che si immoli per una causa, o che rischi
per il bene comune è percepito come sospetto, poco credibile, anche
patetico, a meno che non sia posto retrospettivamente in epoche passate o
in luoghi esotici. Al contempo è emerso come succedaneo dell’eroe nella
cultura popolare la gura del killer367, del virtuoso dell’assassinio; non
però un killer qualunque, ma un killer vittimista. Il killer vittimista è l’eroe
del mondo neoliberale. Esso custodisce dentro di sé, giustapposti e in
compresenza, l’ef cienza priva di remore della tecnoscienza e l’interiorità
vuota dei soggetti postmoderni. Le sue caratteristiche sono eloquenti:
massimamente ef ciente, totalmente spregiudicato, del tutto privo di
motivazioni pubbliche o civili – percepite come patetismi insensati –
mentre a umanizzarlo sta da qualche parte un “passato travagliato”, una
pena interiore remota, un lutto o torto subito, qualcosa che al contempo
gli conferisce un pizzico di interiorità misteriosa, un sospetto d’anima, e
che lo giusti ca tacitamente per qualunque efferatezza possa compiere
d’ora in poi (avendo tanto sofferto, essendo egli stesso una vittima, gli
dobbiamo perdonare tutto, pronti ad assistere con diletto all’esibizione
della sua letale ef cienza)368. Il killer vittimista è la perfetta combinazione
degli “opposti apparenti” che governano la ragione liberale.
Al di fuori del contesto delle rappresentazioni virtuali l’isolamento
soggettivo si esprime nella sua forma più sistematica attraverso le istanze
del “rivendicazionismo”. Ogni gruppo, sottogruppo, e in ultima istanza
ogni individuo lotta per essere riconosciuto come vittima di qualcosa o
qualcuno, in modo da poter conquistare spazi o diritti a scapito di altri
individui o gruppi. Un sistema di rivendicazioni oppositive ha preso il
posto del tentativo di creare consenso positivo intorno a qualcosa; al suo
posto emerge la ricerca di un consenso negativo come legittima rivalsa.
Vengono così a crearsi a getto continuo linee di frattura e risentimento:
donne contro uomini, omosessuali contro eterosessuali, bianchi contro
neri, islamici contro cristiani, nord contro sud, vegani contro onnivori,
giovani contro anziani ecc. L’epoca che inneggia alla “diversità” fa di
questa diversità un campo di battaglia in cui i rapporti tra diversi
prendono una forma oscillante tra il contenzioso sindacale e la causa
giudiziaria. Con itti naturalmente ci sono sempre stati e non si tratta di
dar corso a fantasticherie ireniche, ma la forma odierna del con itto
sociale è inedita: non si è più invitati a trovare un modo per condividere
una forma di vita comune, ma solo per conquistare terreno relativo, in un
rapporto di in nita contesa e negoziazione tra estranei.
In questo clima di avvelenamento sociale permanente la forma
prevalente nella creazione di un consenso politico diviene necessariamente
quella oppositivo-rivendicativa. La politica esige azione collettiva, ma
quest’ultima è impedita dalla natura centrifuga dell’intero odierno
funzionamento sociale, perciò l’odio per un nemico comune si presenta
come la più ef ciente, e spesso l’unica, motivazione per coalizzarsi. Inutile
dire che sotto queste premesse gli spazi per costrutti sociali positivi sono
pressoché nulli, o si ritirano a livello famigliare o di piccole enclave.
30.5 La seconda falsa opposizione
Ma la falsa opposizione tra obiettivismo naturalistico e soggettivismo
sentimentale, natura morta e anima sterile non è l’unica a dissimulare la
ragione liberale nel panorama contemporaneo. Una seconda cruciale
dicotomia è quella tra progressismo liberale e reazionarismo neoliberale (o
imperialistico). Mentre la prima falsa opposizione è più loso ca e
sincronica, questa seconda si può rappresentare come più politica e
diacronica, in quanto sembra opporre due stadi temporali ben de niti,
che riguardano modi alternativi di espressione del potere. Secondo questa
seconda dicotomia la linea di sviluppo “progressista” sarebbe quella che
continua a remare nella direzione della corrente, procedendo allo
smantellamento delle unità sociali residue e alla liquidazione delle identità
più coriacee; la linea “reazionaria” sarebbe quella che, rigettando tale
movimento, fa il gesto di ripristinare, qua e là, condizioni preliberali.
Anche qui è importante capire perché questa opposizione sia illusoria, e
come impedisca di vedere il vicolo cieco della storia in cui ci siamo
addentrati.
La ragione liberale, come abbiamo provato a mostrare, è emersa come
risposta a spinte storiche reali e potenti. Che le soluzioni gradualmente
adottate abbiano condotto in direzioni progressivamente sempre più
insostenibili non signi ca che si sia trattato di un mero “sbaglio”, di un
semplice “ottenebramento”; e senza una comprensione delle ragioni
ineludibili che hanno reso a lungo il “liberalismo” sinonimo di
“progresso” ogni opposizione a esso è destinata a essere illusoria. Forme
di “reazione” hanno fedelmente accompagnato lo sviluppo della ragione
liberale sin dall’inizio, mostrandosi in effetti come la migliore garanzia del
suo successo, in quanto la forma dell’opposizione “reazionaria” è
strutturalmente fallimentare. La reazione tende a porre come modello
alternativo al “progresso liberale” una versione idealizzata del mondo
preliberale, o di sue speci che istituzioni. L’intento è comprensibile ed
entro certi limiti sensato. Tuttavia nella storia non sono mai disponibili
semplici “passi indietro”. Noi possiamo forse ammirare il mondo
premonetario dei poemi omerici, ma l’abbandono improvviso della
pratica monetaria con un ritorno a quel passato è concretamente
improponibile. Noi possiamo ammirare il comunitarismo delle città-stato
antiche o medievali, ma un semplice ritorno a quei modelli sociali e
organizzativi è fuori portata.
Il contributo speci co dei movimenti reazionari nello sviluppo della
ragione liberale è stato perciò quello di dare l’impressione di rimettere in
discussione la tendenza storica, operando in modo “antiliberale” su temi
circoscritti, prevalentemente di costume, senza una visione d’insieme e
senza rimettere in discussione tratti economici e istituzionali di fondo.
Così, ad esempio, le posizioni monarchiche, nazionaliste e antisemite
dell’Action Française di Maurras nella Parigi n de siècle rappresentarono
con veemenza la reazione “antiliberale” del periodo, salvo però non
mettere in discussione nulla della principale incarnazione istituzionale
della ragione liberale, ovvero l’organizzazione economica capitalista.
Quasi un secolo dopo il neoliberalismo di Ronald Reagan e Margaret
Thatcher gesticoleranno anch’essi impetuosamente in direzione di valori e
stili di vita “più tradizionali” o di “valori patriottici”, mentre
simultaneamente apriranno la strada allo sventramento socioeconomico
delle loro società. E neppure oggi, naturalmente, vi è carenza di soggetti
politici che brandeggiano disinvoltamente valori tradizionali e simboli
religiosi, mentre tengono fermo il timone di quello stesso ordinamento
socioeconomico che ne decreta l’estinzione.
L’effetto combinato di questa oscillazione storica tra progressismo
liberale e reazione nominalmente antiliberale è di nuovo quello di
stabilizzare ideologicamente la ragione liberale, rendendone le tendenze
inemendabili. Si crea l’illusione di una “resistenza” ai processi dissolutivi,
mentre si tratta in effetti di movimenti sterili, che non deviano di un grado
la rotta dei processi liberali, fornendovi anzi copertura. I richiami religiosi,
nazionali, comunitari, tradizionalisti, spirituali della “reazione” si
appellano spesso a intuizioni profonde, ma nel momento in cui la forma
della loro risposta è quella di proporre episodici ed estemporanei “passi
indietro”, ciò non fa altro che neutralizzare il potenziale di cambiamento
storico, indirizzandolo in un senso dove lo scacco è inevitabile.
30.6 Quali uscite dal vicolo cieco della storia corrente?
Giunti a questo punto, se le argomentazioni svolte sono state
suf cientemente eloquenti, l’animo del lettore dovrebbe essersi assestato
su un congruo livello di sconforto. Ora, proporre articolate vie d’uscita
non è qualcosa che possa essere tentato qui e ora. Quello che si può fare,
per non abbandonare chi ci abbia cortesemente accompagnato n qua al
semplice abbattimento, è abbozzare la cornice esterna di una “pars
construens”. Proviamo a farlo usando una metafora.
Il sistema economico, istituzionale e ideologico cui ha dato forma la
ragione liberale può essere raf gurato come un’automobile potente,
dotata di acceleratore, ma sprovvista sia di un freno che di un volante.
Crisi economiche e contestazioni ideologiche di tipo reazionario possono
solo allentare provvisoriamente la spinta sull’acceleratore, che altrimenti
procederebbe incrementando i processi dissolutivi della ragione liberale,
inebriata dalla propria stessa velocità. Per evitare che l’automobile vada a
schiantarsi, o che cada a pezzi per le eccessive sollecitazioni, essa avrebbe
dunque bisogno sia di un impianto frenante che di uno sterzo.
In questa metafora l’impianto frenante deve essere in grado di governare
le tendenze all’accelerazione materiale perenne che caratterizzano lo
sviluppo economico capitalistico, mentre lo sterzo deve poter orientare la
prospettiva etico-politica che dovrebbe conferire direzione alla storia a
venire.
Nell’ottica evolutiva che abbiamo esaminato, i punti critici del sistema
economico corrente sono rappresentabili attraverso due istanze
fondamentali: quella, multifattoriale, che abbiamo chiamato il “potere del
denaro”, e la tendenza sistemica alla crescita in nita. L’eccessivo potere
del denaro prende la forma di: 1) ampliamento delle tipologie di “cose”
che sono disponibili per atti di compravendita; 2) estensione della
capacità del denaro di esercitare il suo potere al di là di con ni politici
(mobilità internazionale dei capitali); 3) aumento delle diseguaglianze
economiche (polarizzazione reddituale); 4) esistenza di soggetti
suf cientemente immiseriti da essere a totale disposizione di chi possiede
denaro. Per esempli care con una rappresentazione limite, un sistema
dove:
1) tutto fosse in vendita;
2) i capitali potessero esercitare ovunque il proprio potere in modo
illimitato a prescindere da ogni condizionamento politico;
3) i capitali fossero concentrati tutti in poche mani; e
4) le masse di non abbienti fossero immiserite no alla totale ricattabilità,
non avendo altre possibilità di sostentamento salvo l’accesso al capitale,
sarebbe un sistema già approdato al collasso.
Molto prima di arrivare a quella condizione limite esso esploderebbe in
varianti dello stato di natura hobbesiano. Senza una visione ideologica
alternativa a quella liberale, tuttavia, questo bellum omnium contra omnes
non potrebbe mai sfociare, come Marx auspicava, in un “evento
rivoluzionario”. Si tratterebbe di una condizione stagnante o ciclica di
caos e arbitrio predatorio, senza remissione. A oggi solo il secondo dei
punti di cui sopra è prossimo alla realizzazione (in Occidente), ma
esistono ancora leggi statali che limitano gli spazi di ciò che può essere
oggetto di compravendita, esistono ancora estesi ceti medi, ed esistono
ancora sostegni di welfare che limitano le condizioni di ricattabilità dei
meno abbienti in molti paesi. Tutte queste condizioni, per quanto ancora
esistenti, tendono tuttavia da decenni a recedere.
L’altra istanza menzionata sopra, cioè la spinta alla crescita in nita, oltre
a essere già inclusa nelle dinamiche che conferiscono potere al denaro, è
speci camente cruciale per il suo impatto sugli equilibri organici ed
ecologici. La pulsione alla crescita in nita agisce come un agente
patogeno, un virus, che spezza necessariamente e sistematicamente le
precondizioni fondamentali per la vita e la salute di organismi ed
ecosistemi.
Nelle sue linee di principio, formali, ciò che bisogna fare è semplice:
bisogna arginare tutti questi processi, adottando sistematicamente tutti i
correttivi disponibili per modulare, arrestare, e anche far regredire le
tendenze già all’opera. Il sistema economico capitalistico esprime la sua
anima liberale nei termini di mancanza del limite, di sviluppo policentrico
illimitato. E il limite è esattamente ciò che deve essere reintrodotto nel
sistema, pena il suo collasso.
Le dif coltà qui non sono, se non marginalmente, di carattere teorico.
Tecnicamente per ciascuna di queste tendenze esistono già teorizzazioni
disponibili: ridurre gli spazi legali di ciò che è soggetto a compravendita,
limitare la libertà dei ussi di capitale, tassare le transazioni nanziarie
(Tobin tax), introdurre tassazioni fortemente progressive e redistribuzioni
sostanziali in forma di servizi, sono tutte componenti fondamentali e
sperimentate, capaci in combinazione coordinata di stabilizzare le
dinamiche degenerative del sistema capitalistico. Il tutto però esige di
incardinarsi nell’ultimo aspetto, da cui tutti gli altri dipendono: deve
rigettare l’esigenza di crescita in nita dei sistemi economici.
Quest’ultimo punto non può realizzarsi sotto condizioni capitalistiche.
Un sistema che possa funzionare senza dover assumere una crescita
in nita è semplicemente un sistema cui è consentito di funzionare in vista
del proprio mantenimento, senza la prospettiva di margini di pro tto. Un
tale sistema può consentire processi competitivi e libera iniziativa
economica, ma solo in forme circoscritte e subordinate, come “giochi
interni”, come attività in cui la competizione economica non può essere
qualcosa da cui dipendono vita e morte, potere e rispetto. Un tale sistema
esige che un organismo di natura politica circoscriva, dosi e limiti gli spazi
della libertà economica in maniera mirata. Questa prospettiva richiede
perciò di implementare una qualche variante di ciò che storicamente ha
preso il nome di “socialismo”369.
Il passaggio dalla visione di massima, a un’implementazione concreta di
un ef cace freno nel sistema appare come un’impresa complessa, rispetto
a cui le resistenze sono e saranno enormi. Gli spazi di successo sono però
condizionati in modo decisivo dal secondo elemento che abbiamo
menzionato, cioè dalla disponibilità di uno “sterzo” di natura ideale.
Poiché portare in esistenza un “freno” deve af darsi a una sfera di
decisioni politiche, questa sfera deve possedere una propria solida
capacità di orientamento assiologico. Ora, mentre quanto ai “progetti per
la fabbricazione del freno”, abbiamo conoscenze mature, in questa
seconda direzione siamo in una condizione di desolante indigenza.
L’evoluzione storica della ragione liberale ha fatto un deserto di tutti i
presupposti per il raggiungimento di un consenso etico, anzi per la stessa
implementazione di una qualunque forma di ragion pratica. Il grido di
Zarathustra sulla morte di Dio ha coinvolto ogni etica con pretese di
verità. Non siamo una civiltà che ha bisogno eticamente di un
“rinnovamento”, ma di una ricostruzione dalle fondamenta. Solo una
visione etica fondata nelle potenzialità e aspirazioni dell’uomo, nella sua
posizione nel cosmo, può spezzare la deriva della hybris liberale,
promuovere il desiderio di forme di vita equilibrate, ride nire la
signi catività del dovere, conferire senso a ciò che sta fuori e oltre gli
individui che siamo, nel tempo e nello spazio. Di fronte allo sradicamento
percepiamo il valore dell’appartenenza, di fronte alla solitudine ontologica
quella del riconoscimento intersoggettivo, di fronte alla “morte del
futuro” cogliamo il valore della possibilità, della promessa, del progetto.
Ma come tutto ciò debba con gurarsi precisamente, e quali siano le
possibilità che ciò conduca a un consenso etico, questo è qualcosa rispetto
a cui abbiamo ancora solo un bisogno senza ben capire come sia fatto ciò
di cui abbiamo bisogno370.
30.7 Marcia funebre
La ragione liberale è morente e anzi, in un senso speci co, è già morta.
Quando un organismo ha esaurito la sua capacità di rigenerazione vitale si
dice che esso è morto, e la ragione liberale non ha da tempo più nulla da
offrire in termini di “nuove soluzioni” ai problemi creati dalla sua
irruzione nel vecchio mondo: la sua capacità generativa e rigenerativa è
esaurita. Il suo movente vitale, il compito storico della ragione liberale è
stato quello di liberare le forze prodotte dall’emergere di nuove pratiche
sociali (stampa, moneta, scienza) e, collateralmente, di produrre
ordinamenti politici, economici e culturali che potessero riconciliarle. Il
processo di liberazione dalle istituzioni del vecchio mondo è compiuto da
tempo, salvo scampoli periferici, mentre nell’ultimo mezzo secolo gli
ordinamenti di ispirazione liberale hanno iniziato a erodere anche le
proprie istanze di maggior successo.
L’individualismo liberale è sfociato progressivamente in un
infragilimento delle individualità personali, che di saldo preservano solo
un alto senso della propria sprezzante unicità, a fronte di uno
svuotamento caratteriale e progettuale.
Il potenziamento dei mezzi di comunicazione e l’addensamento
crescente della popolazione in grandi assembramenti si è convertito in
incomunicabilità e accresciuto senso di solitudine.
Lo scientismo naturalistico, nel nome della lotta al pregiudizio e
dell’ef cienza, ha prodotto una de agrante frammentazione ontologica,
una parcellizzazione del reale in regioni incomunicanti e
incommensurabili. La conseguente riduzione di intelligibilità del mondo
ha aperto la strada a irrazionalismi settari ben più controversi delle
religioni tradizionali.
L’insofferenza progressista per lo status quo si è liberata delle pretese di
razionalità della storia, viste come fattore di irrigidimento e oppressione.
E così facendo ha rimosso anche gli strumenti che promuovevano l’azione
collettiva e consentivano il cambiamento, consegnandosi senza resistenze
allo status quo.
Lo sfaldamento di ogni eticità, nel nome di rivendicazioni libertarie, ha
moltiplicato con ittualità e violazioni, che a loro volta hanno richiesto un
incremento delle esigenze di sorveglianza e controllo.
Dopo aver prodotto lo “stato di diritto” l’appello alla sedicente
dimensione “naturale” dei diritti ha aperto la strada a un ritorno della
“legge del più forte”. Sul piano internazionale la vaghezza e
manipolabilità degli appelli ai “diritti umani” hanno consacrato in ultima
istanza il paese militarmente più forte nel ruolo di legislatore, giudice ed
esecutore della “legge dei popoli”. Sul piano interno, il rivendicazionismo
di diritti presunti “naturali” ha promosso sistematicamente contenziosi
arbitrari, alla ricerca di “nuovi diritti” soggettivi, abbandonando la strada
del consolidamento di un consenso pubblico e af dandosi alla forza di
gruppi di pressione.
L’abbattimento liberale delle autorità morali pubbliche ha lasciato
spazio a forme di autorità informali private, nella forma del
“politicamente corretto”. Così, nell’epoca del presunto trionfo della
libertà d’opinione aumentano le forme censorie, le sanzioni per la
“sconvenienza” espressiva, il conformismo e convenzionalismo delle
opinioni.
La pulsione all’accrescimento illimitato di potere e controllo sul mondo-
ambiente ha prodotto esternalità massive, con conseguenti squilibri
organici ed ecologici. E tali squilibri niscono per ridurre la prevedibilità
degli eventi e il nostro stesso controllo sul mondo-ambiente.
In sintesi: l’individualismo ha smantellato le individualità, la frenesia
degli scambi ha prodotto solitudine, lo scientismo ha generato
irrazionalismo, il progressismo ha rinforzato lo status quo, il libertarismo
ha evocato sorveglianza e controllo, la fregola dei diritti ha alimentato la
legge del più forte, la negazione di autorità comuni ha imposto
autoritarismi privati, l’asservimento tecnologico si va rovesciando in
crescita dell’imponderabile.
L’impressione complessiva è che la ragione liberale si sia manifestata
come una potenza dissolutiva, un acido, un solvente, un lubri cante, un
accelerante, qualcosa che libera energia e movimento nché si può
applicare a una massa strutturata, ma che al venir meno di questa, al venir
meno delle vestigia del “vecchio mondo”, inizia a divorare se stessa.
La ragione liberale è morta perché non ha più potere generativo, ma
solo degenerativo. Ma la sua morte non signi ca affatto la sua scomparsa.
Essa può continuare a decomporsi, avvelenando la storia a venire, per un
tempo inde nito. Come è già avvenuto una volta, essa può muoversi lungo
la seconda “falsa opposizione” di cui sopra e avviare qualche processo
distruttivo su grande scala, che allenti la tensione su altre parti del sistema,
e fornisca a soggettività nichilistiche un modo per sentirsi vive (“un caldo
bagno di sangue” rinnoverà l’umanità, scriveva Papini nel 1914). Ma ci
possono attendere all’orizzonte anche processi distruttivi di ordine
naturale che, diversamente da quelli umani, non hanno il carattere della
volontaria reversibilità.
Che queste tendenze non possano procedere immutate lungo tali linee
di sviluppo è certo.
Che possano semplicemente produrre tragedie cicliche, no a una
tragedia nale dove non sarà rimasto più nessuno ad apprezzare la catarsi,
è una possibilità.
Che vengano superate, aprendo le strada a un mondo nuovo e migliore,
è una seconda possibilità, una possibilità che per essere percorsa
richiederà non l’iniziativa ispirata di qualche individuo, ma l’impegno
ideale e il lavoro caparbio di (almeno) una generazione.
206
L’analisi fenomenologica può sottrarsi alla relatività storica delle categorie che usa in quanto
l’analisi dei fenomeni e delle loro condizioni di possibilità non si limita a giocare con le carte
fornite dalle categorie disponibili, ma usa il linguaggio per andare descrittivamente oltre il
linguaggio (cfr. A. Zhok, La realtà e i suoi sensi, ETS, Pisa 2012, pp. 9-27). In ciò si radicano le
ragioni per sostenere un concetto di verità indipendente dalla contingenza storico-politica.
207
A. Zhok, La realtà e i suoi sensi, cit.
208
Per ogni caratteristica che si voglia usare come identi cativa della “ loso a analitica” è
sempre possibile trovare un controesempio (cfr. M. Beaney, What is Analytic Philosophy, in The
Oxford Handbook of The History of Analytic Philosophy, OUP, Oxford 2013, pp. 3-29). Ciò che è
però possibile identi care è un’atmosfera culturale comune, con prevalenti “somiglianze di
famiglia”.
209
W.V.O. Quine, Epistemology Naturalized, in W.V.O. Quine, Ontological Relativity and Other
Essays, Columbia University Press, New York 1969, pp. 69-90. Per una critica articolata al
naturalismo e alla sua possibilità di rappresentare una base per l’epistemologia rinvio il lettore
interessato al citato La realtà e i suoi sensi, cit.
210
R. Carnap, Die Überwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache, in
“Erkenntnis”, 2 (1), 1931, pp. 219-241.
211
Si veda a questo proposito B. Russell, On Scienti c Method in Philosophy [1914], in B. Russell,
Mysticism and Logic, George Allen & Unwin, London 1918, cap. 6.
212
D. Marconi, Il mestiere di pensare, Einaudi, Torino 2014, p. 8.
213
Ivi, p. 15.
214
Ivi, p. 22.
215
B. Russell, A History of Western Philosophy, Simon & Schuster, New York 1945, p. 643.
216
Nel merito, sull’impossibilità e insensatezza di questa cesura, e su come vada concepita la
continuità tra razionalità ri essa, dimensione senziente ed emotiva ho provato a produrre una
ri essione articolata in lavori precedenti.
217
M. Foucault, L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, Rizzoli,
Milano 1980, pp. 17 e ss.
218
Si vedano ad esempio, relativamente alla Storia della follia, i rilievi di R. Porter, Foucault’s
great con nement, in “History of the Human Sciences”, vol. 3 (1), 1990, pp. 47-54.
219
M. Foucault, L’ordine del discorso e altri interventi, Einaudi, Torino 2014, pp. 12 e ss.
220
M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967, pp. 410 e ss.
221
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la loso a?, Einaudi, Torino 1996, p. X.
222
Ivi, p. 44.
223
Ivi, p. 74.
224
M. Todd, Gilles Deleuze. An Introduction, Cambridge University Press, Cambridge 2005, p.
22.
225
Ivi, p. 120.
226
J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 2014, p. 6.
227
S. Malpas, Jean-François Lyotard, Routledge, London 2003, p. 50.
228
J.-F. Lyotard (con J.-L. Thebaud), Just Gaming (trad. W. Godzich di Au juste: conversations,
Paris 1979), University of Minnesota Press, Minneapolis 1985, p. 23 e p. 31.
229
J.-F. Lyotard, Il dissidio, Feltrinelli, Milano 1985, p. 176 (Le différend, Les Éditions de Minuit,
Paris 1983).
230
Ivi, p. 30.
231
J.-F. Lyotard, The Inhuman. Re ections on Time, Stanford University Press, Stanford,
California 1991 (trad. di L’Inhuman: Causeries sur le temps, Editions Galilée, Paris 1988).
232
Il carattere provocatorio della polemica antimarxista di Lyotard può essere vista in molti testi.
Per comprenderne il tenore possiamo riprendere questo passo da L’economia libidinale: “i
disoccupati inglesi non divennero lavoratori per sopravvivere, essi […] godevano della dimensione
isterica, masochistica, qualunque fosse lo s nimento dello stare nelle miniere, nelle fonderie, nelle
fabbriche, all’inferno, a essi piaceva la folle distruzione del loro corpo organico che gli era infatti
imposta, essi godevano della decomposizione della loro identità personale, l’identità che la
tradizione contadina aveva costruito per loro, godevano della dissoluzione delle loro famiglie e
villaggi, e godevano del nuovo mostruoso anonimato delle periferie e dei pub al mattino e alla sera”
(Libidinal Economy, Athlone, London 1993, p. 111; trad. mia). – Non è ben chiaro, qui come
altrove, se si sia semplicemente di fronte al gusto di épater le bourgeois, o se l’autore sia realmente
convinto di questa interpretazione dell’operaio inglese, dislocato dalle enclosures, visto come una
sorta di giovin signore decadente alla ricerca di trasgressione ed “esperienze estreme”. Non è ben
chiaro, e a sommesso avviso dello scrivente, non merita la fatica di chiarirlo.
233
J. Derrida, Della grammatologia, Jaca Book, Milano 1982, p. 86.
234
Ivi, p. 68.
235
J. Derrida, La disseminazione, Jaca Book, Milano 2018, p. 14.
236
J. Derrida, Spettri di Marx, Cortina, Milano 1994.
237
J. Derrida, Stati canaglia: due saggi sulla ragione, Cortina, Milano 2003.
238
N. Royle, Jacques Derrida, Routledge, London 2003, p. 35.
239
J. Baudrillard, Per una critica dell’economia politica del segno, Mimesis, Milano-Udine 2010.
240
J. Baudrillard, Le Miroir de la production, Casterman, Paris 1973.
241
J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 2015, p. 8.
242
J. Baudrillard, Simulacra and Simulation (trad. S.F. Glaser), University of Michigan Press, Ann
Arbor 1994, p. 160.
243
Ch. Butler, Postmodernism. A Very Short Introduction, Oxford University Press, New York
2002, pp. 15-16.
244
D. Harvey, The Condition of Postmodernity. An Enquiry into the Origins of Cultural Change,
Blackwell, Oxford 1990, p. 41 e p. 53.
245
J. O’Neill, The poverty of postmodernism, Routledge, New York-London 1995, pp. 6-7.
246
“This way of seeing, so some would claim, has real material conditions: it springs from an
historic shift in the West to a new form of capitalism – to the ephemeral, decentralized world of
technology, consumerism and the culture industry, in which the service, nance and information
industries triumph over traditional manufacture, and classical class politics yield ground to a
diffuse range of ‘identity politics’. Postmodemism is a style of Culture which re ects something of
this epochal change, in a depthless, decentred, ungrounded, self-re exive, playful, derivative,
eclectic, pluralistic art which blurs the boundaries between ‘high’ and ‘popular’ culture, as well as
between art and everyday experience” (T. Eagleton, The Illusions of Postmodernism, Blackwell,
Oxford 1996, p. VII).
247
The Executive Board of the American Anthropological Association, Statement on Human
Rights, in “American Anthropologist”, vol. 49, n. 4, Part 1, 1947, pp. 539-543, p. 539.
248
Ivi, p. 540. – L’espressione “il fardello dell’uomo bianco” (The White Man’s Burden) proviene
da un poema di Rudyard Kipling (1899) che esortava gli USA ad assumere il controllo coloniale
delle Filippine, concependolo come onore e onere (fardello) di civilizzazione.
249
R. Cassin, Statement on the Implementation of Human Rights, United Nations, New York
1948, citato in De Benoist, A., Beyond Human Rights, Arktos Media Ltd., 2011, p. 35.
250
N. Bobbio, Diritti dell’uomo e società, in E. Castrucci (a cura di), Per una critica dell’ideologia
dei diritti dell’uomo, Editing, Firenze 2009, pp. 31-42, p. 38.
251
E. Castrucci, Il discorso sui diritti dell’uomo, in E. Castrucci, op. cit., p. 56.
252
Ch. Brown, Universal human rights: A critique, in “The International Journal of Human
Rights”, (1) 2, 1997, pp. 41-65, pp. 46-47.
253
R. Dworkin, Taking Rights Seriously, Bloomsbury, London-New York 2013, pp. 364 e ss.
254
Ivi, p. 367.
255
“[H]uman rights enjoyed increasing prominence in that very neoliberal age – breaking out
into mass visibility in the 1970s when neoliberalism experienced its rst breakthroughs, and
ascending to something like a consensus public philosophy in worldwide ethics in the 1990s, when
neoliberalism occupied the same status in worldwide economics” (S. Moyn, Not Enough. Human
Rights in an unequal World, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, Mass.
2018, p. 175).
256
R. Cruft, L.S.M. Liao, S., M. Renzo, The Philosophical Foundations of Human Rights: An
Overview, in R. Cruft, L.S.M. Liao, S., M. Renzo (a cura di), Philosophical Foundations of Human
Rights, Oxford University Press, Oxford 2015, pp. 1-44, p. 2.
257
S. Moyn, op. cit., pp. 186-187.
258
Ivi, pp. 216-217.
259
L. von Mises, op. cit., p. 41.
260
Per chi desideri un supplemento argomentativo, abbiamo esposto motivazioni articolate circa
l’impossibilità per una persona individuale di emergere come tale, al di fuori di un contesto sociale
e linguistico in A. Zhok, Identità, Meltemi, Milano 2018.
261
Ne abbiamo discusso variamente in A. Zhok, Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo,
passim.
262
R. Cruft et al., op. cit., p. 24.
263
B. Clifford (a cura di), The International Struggle for New Human Rights, The University of
Pennsylvania Press, Philadelphia 2009.
264
Per consolidare la base teorica di questa affermazione sarebbe utile dedicare una ri essione
alla celebre analisi wittgensteiniana sul signi cato di “seguire una regola”. Rinviamo il lettore
interessato a tale approfondimento a quanto detto in A. Zhok, L’etica del metodo. Saggio su Ludwig
Wittgenstein, Mimesis, Milano-Udine 2001, pp. 150-164; cfr. A. Zhok, Elementi per una teoria della
tradizione, in D. Bondì (a cura di), Teorie del pensiero storico, Unicopli, Milano 2014, pp. 187-213.
265
G. Zagrebelsky, Diritti per forza, Einaudi, Torino 2017, p. 45.
266
Va notato, di passaggio, come società dove compaiono vaste e crescenti pluralità di “diritti
putativi” da soddisfare, ne lasciano necessariamente la maggioranza insoddisfatti. Questo
panorama, dove vigono moltitudini di pretese di diritto inevase, crea condizioni perfette per
l’esercizio dell’arbitrio politico, in quanto chi governa può orientare la propria azione scegliendo
una qualunque sezione di diritti da prendere sul serio. E tale scelta, diversamente dalle politiche
tradizionali, non ha nessun bisogno di essere motivata, giacché per de nizione ogni diritto avrebbe
idealmente un’esigenza assoluta di essere realizzato.
267
G. Burnham, R. Lafta, S. Doocy, L. Roberts, Mortality after the 2003 invasion of Iraq: a cross-
sectional cluster sample survey, in “The Lancet”, vol. 368, 9545, 2006, pp. 1421-1428.
268
“And yet the United States, Western, liberal-democratic, and culturally Christian, tortured or
disappeared many of its alleged enemies on the back of some creative legal analysis. Even under
the Obama administration, Guantanamo Bay has not been closed, Khalid Sheikh Mohammed has
not been tried (he has been in custody for ten years), and the number of drone strikes has
increased. The White House even undertook a fty-page interpretation of domestic, constitutional,
and international law to justify the assassination by a drone strike of US citizen Anwar al-Awlaki in
Yemen in 2011. Law was used to defend an executive decision, in other words, not to decide if it
should take place at all” (S. Hopgood, The endtimes of human rights, Cornell University Press,
New York 2013, p. 13).
269
“International nongovernmental organizations (INGOs) and Human Rights advocates gain
political traction internationally only when they serve the functional requirements of powerful
states. The NATO-led intervention in Libya in 2011 and NATO’s impotence in Syria in 2013 are a
good illustration. NATO is the battering ram” (Hopgood, op. cit., p. 3).
270
S. Hopgood, op. cit., pp. 101 e ss.
271
Ivi, pp. 115-116.
272
“Avaaz has no votes and is not a political constituency for any decision maker, which deprives
it of leverage. It aspires to thrive precisely in the game of sheer numbers. This makes it radically
majoritarian in a narrow way, but because it is not a political community it lacks reciprocity
relations between members or with bene ciaries or politicians. It is a protest of strangers. Who are
these people, what do they believe in, what are they really like, and how accountable are they for
their decisions? They have only mob authority” (S. Hopgood, op. cit., p. 107).
273
“It can be useful to deploy victims to change the way people see the world,” argues the
executive director of Human Rights Watch, Kenneth Roth, but “most of what we do is beyond the
ability of the victims to follow or beyond our ability to keep victims informed” (S. Hopgood, op.
cit., p. 96).
274
È questa la posizione presa dagli autori contemporanei che sostengono la cosiddetta
“concezione politica dei diritti umani”, come John Rawls (in The Law of Peoples, Harvard
University Press, Cambridge, Mass. 1999) o Charles Beitz (in The Idea of Human Rights, Oxford
University Press, Oxford 2009).
275
J. Rawls, The Law of Peoples, cit., p. 4.
276
“Human rights are a class of rights that play a special role in a reasonable Law of Peoples:
they restrict the justifying reasons for war and its conduct, and they specify limits to a regime’s
internal autonomy. In this way they re ect the two basic and historically profound changes in how
the powers of sovereignty have been conceived since World War II. First, war is no longer an
admissible means of government policy and is justi ed only in self-defense, or in grave cases of
intervention to protect human rights. And second, a government’s internal autonomy is now
limited” (J. Rawls, The Law of Peoples, cit., p. 79).
277
G.W.F. Hegel, Lineamenti di loso a del diritto, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 35 e ss.
278
B. Chapais, Primeval Kinship. How Pair-Bonding Gave Birth to Human Society, Harvard
University Press, Cambridge, Mass. 2008, pp. 181-182.
279
R.B. Lee, R.H. Daly (a cura di), The Cambridge Encyclopedia of Hunters and Gatherers,
Cambridge University Press, Cambridge 1999, p. 2.
280
W.F. Marlowe, Hunting and Gathering. The Human Sexual Division of Foraging Labor, in
“Cross-Cultural Research”, vol. 41, n. 2, 2007, pp. 170-195.
281
M. Dyble, G.D. Salali, N. Chaudhary, A. Page, D. Smith, J. Thompson, L. Vinicius, R. Mace,
A.B. Migliano, Sex equality can explain the unique social structure of hunter-gatherer bands, in
“Science”, vol. 348: 6236, 15 maggio 2015, pp. 796-798.
282
Un esempio emblematico tra i numerosi che si potrebbero fare è la celebre orazione di
Ortensia davanti ai triumviri (Ottaviano, Lepido e Marco Antonio) nel 42 a.C., in cui l’oratrice
contestò la tassazione supplementare introdotta nei confronti delle 1400 donne più ricche di Roma,
per le spese della guerra civile. L’argomento principale di Ortensia, come riportato da Appiano,
chiedeva perché mai esse avrebbero dovuto contribuire, visto che alle donne non competevano
uf ci pubblici né comandi militari. Ella ricordava che le donne non erano mai state chiamate a
contribuire alle spese di guerra, e che contribuzione vi era stata solo una volta, spontaneamente,
nella guerra contro Cartagine. Si vedono qui in trasparenza sia la partizione dei ruoli, con la
subordinazione legale della donna nella sfera pubblica (Ortensia avrebbe dovuto formalmente
parlare attraverso un intermediario maschile), sia come tale subordinazione non implicasse di per
sé un impedimento a far valere le proprie ragioni: l’argomento di Ortensia venne in ne accolto,
nonostante il disappunto dei triumviri, che modi carono la legge, riducendo drasticamente le
pretese e cambiando la base dell’esazione. (B. MacLachlan, Women in Ancient Rome, Bloomsbury,
London 2013, p. 108)
283
S. Hodgson, Early Feminism, in S. Gamble (a cura di), The Routledge Companion to Feminism
and Postfeminism, Routledge, New York-London 1998, pp. 3-14, p. 4.
284
V. Sanders, First Wave Feminism, in S. Gamble, op. cit., p. 20.
285
Ivi, pp. 17-18. Il saggio di Harriet Taylor, The Enfranchisement of Women (1851) e il saggio di
John Stuart Mill, The Subjection of Women (1869) sono probabilmente i due maggiori contributi
intellettuali all’emancipazione femminile del XIX secolo.
286
Va notato che questa indebita retrospezione ha un illustre antecedente proprio nel Manifesto
di Marx ed Engels, le cui celebri prime righe suonano: “La storia di ogni società esistita no a
questo momento è la storia di lotte di classe. Libero e schiavo, patrizio e plebeo, barone e servo
della gleba, mastro artigiano e garzone, per farla breve oppressori e oppressi si sono sempre trovati
in contrasto tra loro […]”. (K. Marx, F. Engels, Il Manifesto, cit., p. 231) Trattare tutte le
differenze di potere nella storia sul modello dell’opposizione tra classi è un palese anacronismo,
che liquida come vuota apparenza praticamente tutto ciò che conta in una de nizione storica
dell’uomo e della società. Tale sempli cazione è giusti cabile alla luce del carattere militante, di
“chiamata alle armi” del Manifesto, che è fortunatamente compensata dal rigore delle analisi
storiche che Marx svolge nei suoi testi di approfondimento.
287
S. Firestone, The Dialectic of Sex: The Case for Feminist Revolution, Farrar, Straus and
Giroux, New York 2003 [I ed. 1970].
288
S. Thornham, Second Wave Feminism, in S. Gamble, op. cit., p. 26.
289
J. Mitchell, Woman’s Estate, Verso, London 2015 [I ed. 1971], p. 19.
290
N. Fraser, Fortunes of Feminism. From State-Managed Capitalism to Neoliberal Crisis, Verso,
London-New York 2013, p. 1.
291
Ivi, p. 5.
292
J. Bachofen, Das Mutterrecht. Eine Untersuchung über die Gynaikokratie der alten Welt nach
ihrer religiösen und rechtlichen Natur, Verlag von Krais und Hoffmann, Stuttgart 1861.
293
R. Bates Graber, Culture Change, in H.J. Birx (a cura di), 21st century anthropology: a
reference handbook, Sage Publications, London 2010, pp. 565-575, p. 565.
294
A. Béteille, Inequality and Equality, in T. Ingold (a cura di), Companion Encyclopedia of
Anthropology, Routledge, London 1994, pp. 1010-1039, p. 1023. – Vedi anche L. Beldo, Concept of
Culture, in Birx, op. cit., pp. 144-152, p. 150.
295
K. Millett, Sexual Politics, University of Illinois Press, Chicago 2000 [I ed. 1970].
296
“I […] de ne patriarchy as a system of social structures and practices in which men dominate,
oppress and exploit women” (S. Walby, Theorizing patriarchy, Wiley-Blackwell, Oxford 1990, p.
20).
297
Per “reciprocità asimmetrica” si intende il sistema di prestazioni e controprestazioni, doveri e
controdoveri che legano gruppi sociali che non stanno sullo stesso piano, ma su diversi livelli in
una gerarchia sociale. Mentre in un sistema capitalista non mitigato il superiore (il “padrone”) non
ha doveri nei confronti dell’inferiore, ma solo l’inferiore verso il superiore, nei sistemi sociali
tradizionali l’inferiore ha doveri di servizio e obbedienza verso il superiore, ma a sua volta il
superiore ha doveri di cura e protezione verso l’inferiore. Per una discussione più estesa dei sistemi
sociali “di dono” rinviamo il lettore interessato ad A. Zhok, Lo spirito del denaro e la liquidazione
del mondo, cit., pp. 127-170.
298
K. Millett, op. cit., p. 63.
299
Ivi, p. 168.
300
N. Fraser, op. cit., p. 160.
301
“Patriarchy requires violence or the subliminal threat of violence in order to maintain itself”
(G. Steinem, Revolution from Within: A Book of Self-Esteem, Little-Brown, Boston 1992, p. 259).
302
Nel testo di Christina Hoff Sommers, Who Stole Feminism? si trova un’ampia raccolta di
episodi, negli USA, che segnalano una tendenza alla deformazione delle aspettative intorno alla
violenza maschile. Ne riportiamo qui solo uno, a titolo di esempio: “In January 1993 newspapers
and television networks reported an alarming nding: incidence of domestic battery tended to rise
by 40 percent on Super Bowl Sunday. NBC, which was broadcasting the game that year, made
special pleas to men to stay calm. Feminists called for emergency preparations in anticipation of
the expected increase in violence on January 31. They also used the occasion to drive home the
message that maleness and violence against women are synonymous. Nancy Isaac, a Harvard
School of Public Health research associate who specializes in domestic violence, told the Boston
Globe: ‘It’s a day for men to revel in their maleness and unfortunately, for a lot of men that includes
being violent toward women if they want to be.’ Journalists across the country accepted the 40
percent gure at face value and duly reported the bleak tidings. The sole exception was Ken
Ringle, a reporter at the Washington Post, who decided to check on the sources. […] [H]e quickly
found that the story had no basis in fact. It turns out that Super Bowl Sunday is in no way different
from other days in the amount of domestic violence. Though Ringle exposed the rumor, it had
done its work: millions of American women who heard about it are completely unaware that it is
not true. What they do ‘know’ is that American males, especially the sports fans among them, are a
dangerous and violent species”. (Ch. Hoff-Sommers, Who stole feminism? How women have
betrayed women, Simon & Schuster, New York 1994, p. 15).
303
“In times of extremes, extremists win. Their ideology becomes a religion, anyone who doesn’t
puppet their views is seen as an apostate, a heretic or a traitor, and moderates in the middle are
annihilated” (M. Atwood, Am I a bad feminist?, in Special to The Globe and Mail, January 13,
2018).
304
“The concept of romantic love affords a means of emotional manipulation which the male is
free to exploit, since love is the only circumstance in which the female is (ideologically) pardoned
for sexual activity. […] Romantic love also obscures the realities of female status and the burden of
economic dependency” (K. Millett, op. cit., p. 37) – “Romance itself serves a larger political
purpose by offering at least a temporary reward for gender roles and threatening rebels with
loneliness and rejection. […] It privatizes our hopes and distracts us from making societal changes.
The Roman ‘bread and circuses’ way of keeping the masses happy […] might now be updated”
(G. Steinem, op. cit., p. 260).
305
A. Rich, Compulsory Heterosexuality and Lesbian Existence, in “Journal of Women’s History”,
vol. 15, n. 3, 2003, pp. 11-48.
306
“Feminism is the theory, lesbianism the practice” (A. Echols, Daring to be Bad: Radical
Feminism in America, 1967-1975, University of Minnesota Press, Minneapolis 2003, p. 238 [I ed.
1989]).
307
R. Stoller, Sex and Gender, Science House, New York 1968, pp. VIII-IX.
308
Così ad esempio, K. Millett, op. cit., p. 30.
309
“[Sex/gender system is] that complex process whereby bi-sexual infants are transformed into
male and female gender personalities, the one destined to command, the other to obey” (S.L.
Bartky, Femininity and Domination: Studies in the Phenomenology of Oppression, Routledge, New
York 1990, p. 50).
310
S. Phoca, Feminism and Gender, in S. Gamble, op. cit., p. 46.
311
Ivi, p. 48.
312
Chiunque abbia una conoscenza più che episodica del panorama psicoanalitico può
facilmente veri care l’estrazione di alcune tesi, utili alla causa, da un novero di tesi considerate
dagli stessi estrattori screditate o aberranti: le stesse pagine freudiane da cui vengono estratte le
idee sul “polimor smo sessuale” originario dell’infante sono quelle in cui si sostiene l’aborrita
teoria dell’“invidia del pene”.
313
S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, BUR, Milano 2010.
314
“[T]here is no recourse to a body that has not always already been interpreted by cultural
meanings; hence, sex could not qualify as a prediscursive anatomical facticity. Indeed, sex, by
de nition, will be shown to have been gender all along” (J. Butler, Gender Trouble. Feminism and
the Subversion of Identity, Routledge, London 1999, p. 12).
315
Ivi, p. 33.
316
“That the gendered body is performative suggests that it has no ontological status apart from
the various acts which constitute its reality” (J. Butler, op. cit., p. 173).
317
“That gender reality is created through sustained social performances means that the very
notions of an essential sex and a true or abiding masculinity or femininity are also constituted as
part of the strategy that conceals gender’s performative character and the performative possibilities
for proliferating gender con gurations outside the restricting frames of masculinist domination and
compulsory heterosexuality” (J. Butler, op. cit., p. 180).
318
“[Q]ueer theory represents the effect of poststructuralism on feminism and sexuality politics,
breaking down all essentialist notions of gender and sexual identity and replacing them with
identities that are contingent on cultural and social negotiation” (S. Gamble, op. cit., p. 281).
319
W. Stainton Rogers, R. Stainton Rogers, The Psychology of Gender and Sexuality, Open
University Press, New York 2001, p. 26.
320
S. Baron-Cohen, The Science of Evil. On empathy and the Origins of Cruelty, Basic Books,
New York 2011, p. 136 e passim.
321
C. Lawton, Gender, Spatial Abilities, and Way- nding, in J.C. Chrisler, D.R. McCreary (a cura
di), Handbook of Gender Research in Psychology, Springer, New York 2010, pp. 317-342.
322
M.T. Ullman, R.A. Miranda, M.L. Travers, Sex Differences in the Neurocognition of Language,
in J.B. Becker, K.J. Berkley, N. Geary, E. Hampson, J. Herman, E.A. Young (a cura di), Sex
Differences in the Brain. From Genes to Behavior, Oxford University Press, Oxford 2008, pp. 291-
310.
323
S. Berenbaum, C. Lynn Martin, L. Hanish, Ph. Briggs, R. Fabes, Sex Differences in Children’s
Play, in J.B. Becker et al., cit., pp. 275-290.
324
Per una sintesi a proposito si veda: D. Saucier, C. Ehresman, The Physiology of Sex
Differences, in Chrisler, J.C., & McCreary, D.R. (a cura di), cit., pp. 215-234.
325
W.G. Reiner, Gender Identity and Sex-of-rearing in Children with Disordersof Sexual
Differentiation, in “Journal of Pediatric Endocrinology and Metabolism”, 18(6), 2005, pp. 549-553.
– Per una discussione più ampia di questo punto si veda A. Zhok, Identità, cit., pp. 295 e ss.
326
Il riferimento qui è al fatto che la struttura categoriale umana si organizza per esempi centrali
e casi via via più periferici, e non per discontinuità assolute. Per un esame in dettaglio di questo
tema rinvio ad A. Zhok, Rappresentazione e realtà, cit., cap. 4 (in particolare pp. 166 e ss.).
327
Per “casi periferici” (in un senso meramente quantitativo e non valutativo del termine)
intendiamo gli orientamenti di tipo omosessuale, che coprono, secondo i dati prevalenti, tra il 5 e il
10% della popolazione. Per “casi estremi” intendiamo casi come la sindrome da insensibilità agli
androgeni, la sindrome di Turner, o l’iperplasia surrenale congenita, che coprono un ordine di
grandezza di un caso su 10.000.
328
Tutto ciò che sappiamo intorno alla natura dell’omosessualità a oggi parla a favore di una sua
origine epigenetica, dunque né genetica, né educativa. Cfr. J. Petersen, J. Shibley Hyde, Gender
Differences in Sexuality, in J.C. Chrisler, D.R. McCreary (a cura di), cit., pp. 471-494.
329
Secondo la de nizione del Merriam-Webster Dictionary: “Identity politics is politics in which
groups of people having a particular racial, religious, ethnic, social, or cultural identity tend to
promote their own speci c interests or concerns without regard to the interests or concerns of any
larger political group. Identity politics took its modern form during the second half of the last
century. It emerged as an emancipatory mode of political action and thinking based on the shared
experience of injustice by particular groups – notably blacks, women, gays, Latinos and American
Indians”.
330
S. Kruks, Retrieving Experience. Subjectivity and Recognition in Feminist Politics, Cornell
University Press, Ithaca 2001, p. 85.
331
Per un’analisi comprensiva del modo di darsi dell’identità personale e del suo innesto
necessario nelle identità collettive rinvio il lettore ad A. Zhok, Identità, cit.
332
R. Bellah, R. Madsen, W. Sullivan, A. Swidler, S. Tipton, Habits of The Heart. Individualism
and Commitment in American Life, University of California Press, Berkeley 1985, p. 335.
333
S. Thornham, op. cit., p. 27.
334
Cfr. C. Gilligan, In a Different Voice: Psychological Theory and Women’s Development,
Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1993.
335
AA.VV. Radicalesbians, The Woman Identi ed Woman, reprinted in S. Hoagland, J. Penelope
(a cura di), For Lesbians Only: A Separatist Anthology, Onlywomen Press, London 1988 [I ed.
1970].
336
“An exemplary con ict within the identity politics of sexuality focuses on the expansion of
gay and lesbian organizing to those with other queer af liations, especially bisexual and
transgendered activists. Skepticism about inclusion of these groups in organizational mandates,
community centers, parades, and festivals has origins in more traditional understandings of identity
politics that see reclaiming lesbian and/or gay identity from its corruption in a homophobic society
as a task compromised by those whose identities are read as diluted, treacherous, ambiguous, or
peripheral. Some lesbian feminist critiques of transgender, for example, see male-to-female
transsexuals in particular as male in ltrators of women’s space, individuals so intent on denying
their male privilege that they will modify their bodies and attempt to pass as women to do it;
bisexual women dabble in lesbian life, but ee to straight privilege when occasion demands” (C.
Hayes, Identity Politics, The Stanford Encyclopedia of Philosophy, Fall 2018 Edition, a cura di E.N.
Zalta [https://plato.stanford.edu/archives/fall2018/entries/identity-politics/].
337
M. Lilla, L’identità non è di sinistra. Oltre l’antipolitica, Marsilio, Venezia 2018, p. 19.
338
J. Friedman, Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime, Meltemi, Milano
2018, p. 31.
339
J. Friedman, op. cit., pp. 76 e ss. e pp. 125 e ss.
340
Ch. Hoff Sommers, op. cit., p. 48.
341
Ivi, p. 128.
342
“Intimidation has enforced a stultifying conformity. To criticize the New Feminist scholarship
without having tenure is reckless in the extreme: it is now virtually impossible to nd public fault
with academic feminism without paying for it in drastically diminished prospects for jobs or
advancement in the American academy” (Ch. Hoff Sommers, op. cit., p. 134).
343
J. Friedman, op. cit., p. 29.
344
“La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e
promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza
da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. Come potrebbe la vittima
essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. Non agisce, patisce.
Nella vittima si articolano mancanza e rivendicazione, debolezza e pretesa, desiderio di avere e
desiderio di essere. Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che abbiamo subito, ciò che possiamo
perdere, ciò che ci hanno tolto” (D. Giglioli, Critica della vittima. Un esperimento con l’etica,
Edizioni Nottetempo, Roma 2014, p. 9).
345
Naturalmente, in una logica così sempli cata, dove chi arriva a leggersi come vittima può
pretendere ragione assoluta, emergono seri problemi quando anche la controparte è capace di
elevare le stesse pretese: il caso dell’in nita lotta di legittimazioni contrapposte tra la narrazione
della Shoah per Israele e quella della Nakba per i Palestinesi è degno di qualche ri essione (Cfr. D.
Giglioli, op. cit., p. 59).
346
Spesso nel caso di articoli scienti ci viene fatto rmare uno speci co documento (Con ict of
Interest Disclosure Form) che attesta l’assenza di con itti di interessi, cioè di un interesse personale
all’ottenimento di certi risultati o nella formulazione di certi giudizi.
347
Vedi Ch. Hoff Sommers, op. cit., p. 217.
348
Una dinamica nota in questo processo in cui condizioni di privilegio sono introdotte nel nome
della giustizia è quella che va sotto il nome di “azione positiva” (af rmative action), in cui
(soprattutto negli USA) sono state introdotte condizioni di favore nell’accesso ad alcune posizioni
per membri di gruppi ritenuti in qualche modo svantaggiati. Trattandosi di una serie di iniziative
politiche molto variegate è dif cile darne una valutazione complessiva. Ci sono casi in cui
interventi correttivi mirati possono essere utili. Tuttavia queste iniziative tendono di rimando a
creare gelosie, ostilità e un rilevante senso di ingiustizia e discriminazione. Così, ad esempio, come
ricorda Robert Hughes, l’abbassamento del punteggio per gli accessi universitari ai candidati
afroamericani ha prodotto rabbia e sconcerto in altre minoranze etniche americane, come i
cittadini di origine asiatica (R. Hughes, La cultura del piagnisteo, Adelphi, Milano 2013, pp. 83-84).
349
“[Q]uanti si oppongono alla polarizzazione e alla frammentazione culturale, considerando la
politica multiculturale un modo di segmentare la popolazione territoriale della nazione, sono
rapidamente etichettati come razzisti. Il ministro [svedese, N.d.R.] dell’immigrazione ha infatti
proclamato che tutti gli oppositori delle politiche migratorie dello Stato dovrebbero essere
criminalizzati in quanto razzisti. Una pubblicazione governativa sul razzismo […] ha suggerito di
ampliare la de nizione della parola sino a includere tutte le rappresentazioni che si basano su
‘valutazioni estremamente positive della propria identità culturale’, per la ragione che tali
valutazioni possono essere usate contro gli immigrati” (J. Friedman, op. cit., pp. 154-155).
350
Vedi sopra, nota 274 e argomentazioni limitrofe.
351
Vedi sopra, capitolo 26.
352
Th. Szasz, The Myth of Mental Illness, Harper & Row, New York 1961.
353
Per una discussione complessiva del problema della de nizione di “patologia psichiatrica” si
veda A. Zhok, Identità, cit., pp. 129-233.
354
Come noto il “paradosso del Sorite” è quel paradosso semantico dell’antichità dove si mostra
come un cambiamento graduale di un ente – ad esempio di un mucchio di sabbia sottraendovi un
granello alla volta – porta a situazioni indecidibili (quanti granelli di sabbia meriterebbero ancora il
nome di “mucchio”?).
355
Per una discussione di un’accezione non platonica di “essenza”, capace di fare spazio al
cambiamento storico, rinvio il lettore ad A. Zhok, The Ontological Status of Essences in Husserl’s
Thought, in “New Yearbook for Phenomenology and Phenomenological Philosophy”, vol. 11,
2011, pp. 99-130.
356
“Una cosa comunque è certa: l’uomo non è il problema più vecchio o più costante postosi al
sapere umano. Prendendo una cronologia relativamente breve e una circoscrizione geogra ca
ristretta – la cultura europea dal XVI secolo in poi – possiamo essere certi che l’uomo vi costituisce
un’invenzione recente. […] L’uomo è un’invenzione di cui l’archeologia del nostro pensiero mostra
agevolmente la data recente. E forse la ne prossima” (M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli,
Milano 1967, pp. 413-414).
357
S. Herbrechter, Posthumanism. A critical analysis, Bloomsbury, London-New Delhi-New York
2013, pp. 7-8.
358
H. Moravec, Mind Children. The Future of Robot and Human Intelligence, Harvard University
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359
R. Kurzweil, The Age of Spiritual Machines: When Computers Exceed Human Intelligence,
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360
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Enhancement and Posthumanity, Springer, Berlin-New York 2008, pp. 71-94.
361
A. Miah, op. cit., p. 89.
362
N.K. Hayles, How we became posthuman: virtual bodies in cybernetics, literature, and
informatics, University of Chicago Press, Chicago 1999.
363
D. Haraway, Simians, Cyborgs and Women: The Reinvention of Nature, Routledge, New York
1991.
364
D. Haraway, op. cit., p. 155.
365
Questo non è un caso meramente ipotetico. Esistono casi di Body Integrity Dysphoria, dove il
soggetto esprime il desiderio di essere mutilato o di essere in varie forme reso menomato o disabile.
366
Per una discussione di dettaglio sui limiti dell’immaginazione razionale si veda A. Zhok,
Rappresentazione e realtà, cit.
367
Una variante del killer è il “mercenario”, per cui valgono le medesime coordinate
interpretative.
368
Da Rambo a Leòn, dal Mel Gibson di Arma Letale al Charles Bronson del Giustiziere della
notte, al Liam Neeson di Taken gli amanti della cinematogra a d’azione e noir non avranno
dif coltà a stilare una lista interminabile di personaggi con queste caratteristiche esemplari.
369
Per una ri essione sui possibili signi cati e scenari contemporanei del “socialismo” si veda C.
Formenti, Il socialismo è morto. Viva il socialismo!, Meltemi, Milano 2019.
370
Speranza e ambizione di chi scrive è quella di riuscire a tracciare presto qualche lineamento
meno vago di tale orizzonte etico.
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Visioni eretiche

1 Thomas Fazi e William Mitchell, Sovranità o barbarie. Il ritorno della questione nazionale
2 Carlo Formenti, Il socialismo è morto, viva il socialismo! Dalla disfatta della sinistra al momento
populista
3 Onofrio Romano, La libertà verticale. Come affrontare il declino di un modello sociale
4 Aldo Barba, Massimo Pivetti, Il lavoro importato. Immigrazione, salari e Stato sociale
5 Nancy Fraser, Capitalismo. Una conversazione con Rahel Jaeggi
6 Álvaro García Linera, Democrazia, Stato, Rivoluzione. Presente e futuro del socialismo del XXI
secolo
7 Mimmo Porcaro, I senza patria. La solitudine degli italiani in un mondo di nazioni

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