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Pragma Sofia, l'esercizio della filosofia.

«Et inquietum est cor nostrum» (Agostino, Confessioni)

FILOSOFIA

Hanna Arendt, Socrate.

14 NOVEMBRE 2015 | DAVIDE UBIZZO | ARENDT, SOCRATE | LASCIA UN COMMENTO

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Hannah Arendt è nota ai più come cronista e autrice de “La banalità del male” titolo dei resoconti del
processo Heichmann in Israele per conto del New Yorker nel 1962, (poi raccolti nel volume
omonimo), nonché come autrice dell’opera “Le origini del totalitarismo” in cui tracciò le radici dello
stalinismo e del nazismo nel 1951. Hanna Arendt fu in realtà filosofa per vocazione e pare anzi che
preferisse definirsi una teorica di filosofia politica. In “Vita activa”, la sua opera filosofica più
importante che pubblicò nel 1958, troviamo le sue principali riflessioni tra filosofia e politica,
riflessioni incardinate sulla ridefinizione della condizione umana che Arendt vede come la
condizione della pluralità che costituisce il presupposto e al tempo stesso il senso dell’agire, la
realizzazione dell’identità umana. Come scrive Dal Lago nell’introduzione a “Vita activa” per
l’edizione italiana Bompiani: “Hannah Arendt è interessata invece a una definizione della condizione umana
in opposizione sia al primato scientifico e cognitivo dell’antropologia, sia al primato del pensiero su cui insistono
Husserl e Heidegger. In breve, vuole cercare una diversa definizione dell’identità umana («”chi” è l’uomo?») e
la trova nella “rivalutazione dell’agire”.
La Arendt si laureò con Karl Jaspers e precedentemente fu in relazione con Heidegger negli anni ’20
del ‘900, prima di espatriare negli Stati Uniti, e fu autrice controversa e difficilmente inquadrabile, se
è vero, come scrive sempre Dal Lago, che “Le opere di Hannah Arendt conosciute in Europa all’inizio degli
anni Sessanta erano circondate da un alone di sospe o ideologico e politico. Per alcuni era una transfuga
dell’ebraismo, per altri una tipica esponente della sinistra europea trapiantata negli Stati Uniti e convertita
all’americanismo, per altri ancora una scri rice di destra.”

E lo conferma anche Maragarethe Von Tro a regista, intervistata a proposito del suo film del 2013
uscito in Italia nel 2014: “Hanna Arendt”. “Ricordo di come la mia generazione, durante il ’68, non osasse
criticare il comunismo, e di come invece la Arendt, nei suoi discorsi sul totalitarismo, poneva allo stesso livello il
regime nazista con quello stalinista.”

In “Vita activa” commentava ampiamente Platone e inevitabilmente il riferimento era Socrate, i


riferimenti socratici in quel testo infa i non mancavano ed un le ore a ento li avrebbe colti
facilmente anche se collegati al pensiero platonico dal quale, per buona parte della critica allora, era
difficile disgiungerli.

Oggi possiamo inquadrare gli studi del quel periodo in una luce più chiara con la pubblicazione di
questo agile testo di Raffaello Cortina Editore, “Socrate” un saggio che compare per la prima volta in
traduzione italiana e che in origine fu la terza e ultima parte di un corso tenuto presso la Notre Dame
University nel 1954 dal titolo “ Philosophy and politics: The problem of action thought after the French
revolution”.

Il testo si apre con Il processo di Socrate e la replica di Platone, in cui Arendt delinea immediatamente
l’essenziale: “L’abisso tra filosofia e politica si apre storicamente con il processo e la condanna di Socrate” e
così ha inizio la riflessione politica della tradizione occidentale. L’incapacità di Socrate di persuadere i
giudici della sua innocenza porta Platone al disprezzo della doxa l’opinione e a ipotizzare una realtà
metafisica capace di garantire la verità ideale a cui fare riferimento. E’ così che si cara erizza il
rapporto tra il filosofi e la ci à, Socrate mostra che la polis non è un luogo sicuro per i sapienti, i quali
anche per Platone non sanno cosa sia bene per loro stessi, ricordando Talete che cade nel pozzo tu o
preso a fissare il cielo. Platone, per Arendt , andò ben oltre nel tentativo di “vendicare” il maestro,
rivendicò proprio per i filosofi il ruolo di governanti della polis, cosa che nell’Atene antica era
piu osto inedita in quanto si riteneva che i sophos, i sapienti fossero a i esclusivamente a questioni
estranee alla vita della polis. E Aristotele concorda pienamente con questa opinione quando afferma:
«Anassagora e Talete erano sapienti ma non saggi. Non si interessavano di ciò che è bene per gli uomini — gli
anthropina agatha ». Platone si considera erede e figlio di Socrate e ne intende interpretare proprio il
pensiero politico “ la tragedia del confli o tra il filosofo e la polis sta tu o in un fraintendimento: la polis non
aveva compreso che Socrate non pretendeva affa o di essere un sophos, un sapiente, in quanto dubitava che la
sapienza fosse alla portata dei mortali”. Socrate per Arendt, proprio per la sua pretesa di non essere un
sapiente, rivendicava un ruolo nuovo e diverso per il filosofo. La verità viene intesa da Platone come
l’esa o opposto dell’opinione comune e il discorso, la sua forma filosofica, il dialeghesthai, è l’opposto
della persuasione retorica, utile a convincere la moltitudine, mentre il dialogo si traduce in diale ica
tra due controparti.

Nella seconda parte dello scri o La posizione di Socrate, Arendt analizza le motivazioni del dialogo
socratico come non necessariamente legate al disprezzo della doxa quanto piu osto al suo
miglioramento, a cui si ricollega il tema dell’arte maieutica socratica, “rendere i ci adini più veritieri”.
Socrate, spiega Arendt, cercò di fare degli ateniesi degli amici ed è questo tema che Aristotele – che
per l’autrice si rifarà sempre a Socrate nella sua riflessione politica sopra u o nell’Etica Nicomachea –
riprende quando parla di isasthenai il rendere uguali, portare a livello di uguaglianza, equiparare, che
intende come dinamica a a a formare la comunità, l’essere in comune. A questo, secondo al Arendt,
pensava Socrate quando riteneva che ciò che è comune fosse favorito da una relazione tra amici e a
questo si ricollegano due massime socratiche, delle quali la prima è forse una delle più conosciute
“Conosci te stesso” mentre la seconda è tra le meno citate, tra a dal Teeteto, “è meglio essere in
disaccordo con molti piu osto che essere in disaccordo con me stesso” ma per l’autrice è quella più
importante.

La scoperta del due in uno. In questa parte del testo la Arendt introduce la sua tesi più innovativa e
forse più controversa: quella del “due in uno”. Secondo Socrate infa i il principio guida per l’uomo
veritiero è essere d’accordo con se stesso, non contraddirsi e ciò deriva dal fa o che ognuno di noi
essendo uno può parlare con se stesso come se fosse due. “E’ perché io sono due-in-uno – per lo meno, lo
sono quando cerco di pensare – che Aristotele definisce l’amico un altro se stesso ( heteros gar autos ho hilos
estin). (…) essendo uno io non mi contraddirò e al tempo stesso potrò contraddirmi, poiché io sono due- in -uno
e quindi non vivo soltanto con gli altri, per i quali sono uno, ma anche con me stesso” E’ prima in se stesso
che l’uomo trova il principio di validazione del se e della propria doxa, che quindi non ha motivo di
essere validata da entità metafisiche, sembra indicare Arendt che so olinea che l’etica nasce qui non
meno della logica. Arendt afferma che se è vero che l’identità dell’uomo greco era già tu a compresa
nel logos che è discorso e pensiero, Socrate vi aggiunge un quid essenziale, il dialogo tra me e me,
come condizione essenziale del pensiero, ( che la psicanalisi facilmente chiamerebbe schizofrenia) e
scoperta di massima rilevanza politica “condizione necessaria al buon funzionamento della polis”. Questa
la fondamentale scoperta di Socrate, “essendo uno io non mi contraddirò, poiché nel pensiero io sono due-in-
uno e quindi non vivo soltanto con gli altri, per i quali sono uno, ma anche con me stesso. (…) Il filosofo che si
rifugia nella solitudine assoluta, cercando di sfuggire alla condizione umana di pluralità, viene consegnato più
radicalmente più di chiunque altro a questa pluralità insita in ogni essere umano.”

La sconfi a di Socrate. Questa concezione socratica fu dirompente e la Arendt la indica chiaramente


come il punto di ro ura con la polis. Da una parte perché la ci à ha le sue leggi che non possono
tenere conto della coscienza individuale dei singoli ci adini, dall’altra perché la doxa non può essere
messa so o esame se non entro certi limiti pena la sua distruzione, che è insopportabile per la
moltitudine. “De o altrimenti il confli o tra la filosofia e la politica, tra il filosofo e la polis esplose dopo che
Socrate più che svolgere un ruolo politico aveva voluto rendere la filosofia rilevante per la polis” e questo
determinò la separazione tra pensiero e azione e di conseguenza la divisione in phronesis e aletheia,
saggezza pratica e teoretica, confli o del filosofo e sua scissione interiore. E qui ritorna Platone con la
sua precisa scelta di rivolgersi all’episteme come forma ideale e il suo rapporto con la politica che nel
mito della caverna trova una forma raffigurativa, di cui Arendt offre un’esemplare spiegazione e due
domande inevase: perché il filosofo e cosa lo rende incapace di exemplum per gli altri uomini in
caverna. Arendt deduce dall’immagine della caverna l’originaria matrice filosofica: la meraviglia,
“che l’uomo patisce, o che lo colpisce, non può tradursi in parole perché è troppo smisurata per le parole”.

E’ quindi con la riflessione sulla meraviglia, thaumazein che Arendt chiude questo scri o: “ La filosofia,
la filosofia politica come ogni altro ramo della filosofia, non potrà mai negare di avere origine nel thaumazein,
per la meraviglia per ciò che è così com’è. I filosofi, se vorranno arrivare ad una nuova filosofia politica, sfidando
il loro necessario straniamento dalla vita quotidiana, dovranno però assumere come ogge o del thaumazein la
pluralità degli uomini, dalla quale sorge, nella sua grandezza nella sua miseria, l’intera sfera degli affari
umani.” E chiude con una sorprendente ( perché inedita in questo testo) citazione biblica,
sull’acce azione del miracolo dell’universo, dell’uomo e dell’essere, della creazione dell’uomo,
maschio e femmina e sul “non è bene per l’uomo essere solo.”

Chiudono questo breve e denso testo due saggi critici di Adriana Caravero docente di filosofia
politica all’Università degli studi di Verona e Visiting Professor presso la New York University, e di
Simona Forti ordinario di Storia della filosofia politica presso l’Università del Piemonte Orientale. Il
primo ripercorre all’interno del pensiero della Arendt la riflessione su Socrate, le differenze
originarie rispe o allo sviluppo platonico e anche le possibili critiche all’impostazione del due-in-uno
come matrice ontologica della pluralità, tema centrale e spunto originale del testo; e invita a
“Ripensare l’umanità, contro Platone in compagnia di Socrate (…) per liberarsi dalla perniciosità delle categorie
metafisiche, e , esponendosi alla realtà per darne conto, ricominciare”.
Il secondo saggio, di Simona Forti, apre una prospe iva filosofica che meriterebbe una tra azione a
parte infa i individua una linea di coerenza tra il tema socratico del daimon e della parresia e la
riflessione di Michel Foucault e Jan Patočka – due pensatori del ‘900 che a fondo indagarono il
pensiero socratico – entrambi infa i videro nella cura di sé la praxis di interrogazione che innesca il
processo del pensiero e che conduce in vista di un’etica immanente, una sogge ività nuova, capace
di imprimere un ethos al bios. Patočka individuò nel pensiero socratico tre cara eristiche dell’anima:
l’anima è coraggiosa, disciplinata e giusta. “Essa conferisce a se stessa uno stile proprio, nella
consapevolezza che la vita ordinaria, quotidiana, della ci à segue solitamente il criterio della doxa.”(J. Patočka,
Socrate 1999 )

Questo saggio in particolare offre un interessante spunto di riflessione anche all’esercizio della
filosofia che oggi si concretizza nelle diverse pratiche filosofiche, penso alla Consulenza filosofica, ai
Caffè e ai Laboratori, sopra u o quando afferma: “Ritornare a Socrate è una scelta filosofica ina uale e
per questo coraggiosa, che mira a riappropriarsi delle parole di cui la metafisica si è servita per ridefinirne
radicalmente il significato. (…) Il daimon socratico è il nome per poter dire ciò che nel sogge o oppone
costantemente una resistenza, (…) è il nome della possibilità, del potere di ciascuno di resistere ad un altro
potere.”

Hannah Arendt, Socrate, a cura di Ilaria Possenti, con saggi critici di Adriana Caravero e Simona Forti.
Raffaello Cortina Editore , collana Minima, 2015.

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