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che mi apparivano necessariamente legate al disegno


sistematico e agli apparati teorico-concettuali tipici
della tradizione europea. Ero dunque in una posizione,
se non contraddittoria, certo bivalente. Del resto sono
rimasto convinto nel tempo che solo un esame superficiale o guidato da intenti politici immediati avrebbe
potuto giustificare la decisione di unaccettazione o di
un rifiuto in blocco. I concetti sociologici sono storici
o non sono nulla. E vanno quindi elaborati e costruiti a
contatto con i problemi degli specifici contesti.
Gemelli Del resto questo fu anche latteggiamento di
Adriano Olivetti nei confronti delle problematiche e
dei modelli organizzativi provenienti da oltreoceano:
il taylorismo, la produttivit e infine anche le logiche
economiche del piano Marshall, che critic senza mezzi termini. In una lettera aperta pubblicata dalla rivista
World nel giugno del 1953, Adriano Olivetti scriveva
infatti: LEuropa per sollevarsi ha bisogno di nuove idee,
non di applicare bene o male quello che stato fatto in
America [...]. Questo limportante. Non il tentativo di
vendere allEuropa la pi recente rivoluzione industriale
americana. La diversit della struttura sociale e politica dellItalia non fu tenuta in considerazione e il piano
Marshall stato attuato attraverso quelle forze - i monopoli e la burocrazia - che avevano creato o accettato
il fascismo [...]. La speranza di un ordine nuovo legata
al destino di unidea. Il mondo moderno ha bisogno di
nuovi ideali [...]. La verit non si pu limitare in formule parziali, specialistiche o astratte, ma deve dare luogo

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a una sintesi creativa, dove quanto vivo e vitale della


democrazia, del liberalismo e del socialismo si esprime
in un linguaggio armonico e moderno.
Si riconosce, o, per meglio dire, riconosce in questatteggiamento mentale e programmatico uno dei punti
forti del suo incontro con Olivetti? Mi racconti come
avvenne il vostro incontro e che cosa quellincontro
signific alla luce del suo percorso di ricerca, non solo
delle domande che andava maturando nellambito della
sociologia, ma della sua percezione di che cosa occorresse fare nella societ italiana uscita dalla guerra.
Ferrarotti Alla prima domanda rispondo in modo
lapidario: senza alcun dubbio, in questa citazione dalla
lettera di Adriano Olivetti ritrovo, in una variante pi
pratica e, per cos dire politica, lo spirito che guidava i
miei passi verso lesplorazione della cultura del nuovo continente, apertura, curiosit, ma anche una giusta
dose di spirito critico nei confronti dei pericoli di una
sociologia standardizzante. Alla seconda risponder
in modo pi discorsivo.
Incontrai Olivetti nella tarda estate, gli ultimi giorni di
agosto o i primi giorni di settembre del 1948, di ritorno dallInghilterra; lo incontrai, e avemmo subito uno
scambio di idee anche vivace, ma avevo gi anni prima, credo nel 1946-47, scritto una lettera al direttore
di Comunit, quando usciva come settimanale con
carta rosa, ed erano due i redattori, Giuseppe Rovero,
un professore credo di scuola media, filosofo, di Torino,
e Giovanni Cairola, assistente, non a caso, di Abbagnano,
morti entrambi precocemente. Ero soprattutto amico

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di Giovanni Cairola, che poi fu con Felice Balbo nel


famoso Partito della sinistra cristiana, diretto da Franco
Rodano, ma questa unaltra storia. La mia preoccupazione era sempre quella di mantenere, in questa molteplicit di interessi, una forte coerenza, e la coerenza
mi era data da ci che consideravo fondamentale, limportanza della ricerca sociale empirica concettualmente orientata, in una societ in via di sviluppo, e allora
debbo dire, quando lei mi domanda come mai lAmerica, che allora avevo dato un appuntamento che poi
scattato. Ero convinto che in fondo le ottiche culturali
prevalenti in Italia non avrebbero potuto, nel tempo, dar
conto dello sviluppo di questo paese. Le ottiche prevalenti erano tre: cera quella propriamente filosofica, ma
si trattava di una filosofia idealistica crociana e gentiliana
post-hegeliana incapace di fare i conti con la realt; se
uno legge i libri di filosofia dellepoca colpito dal fatto
che siano tutti presi dal duetto, per cos dire, fra Io e
non-Io, fra il soggetto che proietta e riproduce se stesso
nelloggetto e cos via, non c mai un vero e proprio
interesse, un orientamento verso la situazione sociale
empirica. Quindi la filosofia andava esclusa; del resto,
finita la guerra, arrivato il marxismo: il marxismo italiano lho sempre criticato per essere un marxismo che
non faceva ricerche, cio un marxismo, come disse un
marxista, mi pare Lucio Lombardo Radice, imbevuto
di idealismo. Lo stesso Gramsci, a cui si possono riconoscere delle attenuanti perch oltretutto era in carcere,
nei suoi Quaderni sviluppa un marxismo anche in senso
originale, ma che ancora tutto soggettivistico. Gramsci viene in qualche modo catturato dallinterlocutore

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crociano quando parla di marxismo in II materialismo


storico e la filosofia di Benedetto Croce e alla fine ne rimane ostaggio. Quindi in fondo lottica filosofica per
le situazioni socio-economiche importanti nellItalia in
fase di ricostruzione del tutto inadeguata. Cera per
una seconda grande tradizione italiana, la tradizione
giuridica giurisprudenziale. Per si trattava pur sempre
di unimpostazione che non era basata, come avviene
nel mondo anglosassone della common law, sulla legge
che si fa attraverso le decisioni del giudice, che non si
limita a interpretare la norma ma la costruisce creando
il precedente. Qui invece, per non risalire al diritto romano, eravamo in pieno codice napoleonico, cio limpostazione giuridica arrivava post-factum, teorizzava il gi
acquisito, non aveva una capacit predittiva e non aveva
neppure una grande capacit analitica. Del resto, basta
ricordare i lavori preparatori dellAssemblea Costituente
per la nuova costituzione italiana, basta ricordare i pareri
di Piero Calamandrei, andati del tutto disattesi e inascoltati, per capire che in fondo la tradizione giuridica,
molto importante, addirittura veneranda, era per come
lalbatros di cui parla Baudelaire, le cui ali da gigante gli
impediscono di camminare. Terza tradizione quella
storica e qui gi il cappello, la tradizione storiografica
italiana illustre, ma di che storia stiamo parlando? Qui
bisogna fare davvero i conti col crocismo, nel corso di
trenta, quarantanni anche dopo Croce, come stato riconosciuto da Bobbio, che poi un post-crociano un
po come tutti i migliori intellettuali italiani. La lunga,
fortunata battaglia condotta da Croce contro la filosofia della storia ha avuto successo. stata una battaglia

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contro la storia come previsione dello sviluppo sociale


e a favore del culto della storia gi storica, penetrazione
critica e sistemazione dei fatti gi avvenuti, interpretazione e giustificazione, per cui non vi pu mai essere
un dramma, una tragedia puramente negativa, perch
nella sequenza logica dello sviluppo storico evidentemente abbiamo sempre dei momenti che sembrano negativi, mentre in realt sono necessari dialetticamente
per tradursi nel momento positivo. Stiamo parlando di
una storia di lite. Che cosa significa questo? Significa
che si tratta di una storia politica e al pi intellettuale.
Nulla a che vedere, per esempio, con la storia dei francesi delle Annales, nulla a che vedere con la storia del
quotidiano, nulla a che vedere con la storia della lunga
durata alla Braudel; ma solo una storia dei piccoli gruppi
elitari che hanno nelle loro mani, si suppone, il destino
dellumanit.
Gemelli Quindi una storia che, per cos dire, si chiama
fuori dalla problematica delle scienze sociali, che non
guarda alle societ nel loro complesso, nellarticolarsi di
fenomeni di natura diversa e che riduce la complessit
del reale a una delle sue componenti, peraltro quella
pi accessibile e oserei dire pi ovvia?
Ferrarotti Comunque una storia che arriva dopo,
che non vede la storia nel suo farsi, perch le sfugge
completamente la quotidianit. Questo va molto bene
per una societ rurale, artigianale, statica, ma per una societ che venga sviluppandosi necessario, al contrario,
poter disporre di uno strumento di autoascolto, di au-

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tointerpretazione, di autocoscienza della societ mentre si viene facendo, non dopo, e questa per me era la
sociologia. La sociologia per me, infatti, resta uno strumento, una scienza di osservazione empirica, per non
empiristica, vale a dire empirica, ma concettualmente
orientata, che capace di interpretare e prevedere lo
sviluppo, o comunque il movimento storico, mentre lo
si sta facendo. Per queste ragioni la sociologia per me
era molto importante e in termini culturali occorreva reintrodurla in Italia. Quindi hanno torto, secondo
me, quei colleghi che intendono la sociologia arrivata
semplicemente con la vittoria americana oppure con le
relazioni umane nellindustria. In realt il ritorno della
sociologia in Italia avvenuto in seguito a un dibattito
intellettuale e culturale molto forte, ma perch? Perch
gli sviluppi culturali, mentre evidentemente sono condizionati dallo sviluppo della societ come dato di fatto,
hanno una loro autonomia, per quanto relativa. Pensare
che la sociologia italiana sia arrivata in Italia al seguito
dei carri armati delle truppe alleate mi sembra una visione di una grossolanit incredibile.
Gemelli Eppure qualcosa mancava in Italia, qualcosa
che il confronto mediato e non grossolanamente imitativo, come dice giustamente lei, con la cultura doltreoceano riusc a stimolare, anche in relazione al crearsi
di nuclei intellettuali portatori di forme di pensiero
inquieto, per nulla subalterno rispetto a modelli culturali venuti da fuori, n tanto meno a ideologie contrabbandate come teorie della societ. Negli anni Cinquanta la societ italiana era in una situazione di tensione

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trasformatrice. Cera nelle nuove generazioni una forte


proiezione verso il cambiamento, che investiva anche il
settore della formazione. Allinizio per esempio la proposta di Adriano Olivetti di creare una scuola di alti
studi per la formazione dei dirigenti dazienda e che,
nel 1952, si concretizz nellIPSOA6 di Torino, ebbe
successo tra i giovani laureati delle facolt non solo di
ingegneria e di economia, ma anche di giurisprudenza e seppure, in misura numericamente pi contenuta,
attir anche qualche umanista. Poi per limpatto di
un modello formativo del tutto inedito in Italia, che
sostituiva le lezioni ex cathedra con la discussione aperta
e che oltrepassava i solchi tracciati dalle discipline accademiche risult irrisorio, per non dire addirittura negativo, visto che i giovani diplomati dellistituto torinese,
divennero una diaspora, la cui influenza stata pi di
tipo intellettuale che di reale trasformazione sociale. Il
modello formativo dellIPSOA non riusc, in definitiva,
a incidere sulla cultura dellimpresa in Italia, n tanto
meno su un sistema che, come lei ha sottolineato molto
bene nel suo saggio Management in Italy, pubblicato
nel lontano 1959, in un volume curato da Harbison
e Myers, nel quadro di una ricerca che, se non erro,
fu finanziata dalla Fondazione Ford, era basato su un
modello di capitalismo patrimoniale, al quale corrispondevano tre tipologie: feudal or authoritarian paternalism [...] manipulative paternalism [...] and democratic or
participative paternalism. In particolare lei rilevava che
il principio di differenziazione di quelle tipologie non
dipendeva dalle competenze e dai profili professionali
dei manager, ma dalla power position of the family in the

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managerial structure. Riferendosi alla seconda tipologia,


la pi diffusa, lei ha scritto: More important than productive efficiency is the vital problem of the absolute loyalty
of his professional partners. This setting is rarely successful for
the professional managers. Professional managers feel that their
rise to positions depends on their connection with the family
[...] not on performance, efficiency, or merit [...] this results in
frustration on the part of professional managers [...] thus the
frustrated professional specialist becomes the counterpart of
the manipulative capitalism. Questo mi sembra spieghi
due cose: le ragioni del sostanziale fallimento dellIPSOA e la limitatissima presenza in Italia della terza tipologia, alla quale Olivetti apparteneva, quella del democratic or participative paternalism, in cui anche la struttura
proprietaria subisce un processo di differenziazione tra
la propriet come social status [...] and property as initiative, that is as a functional decision-making power, which by its
very nature faces risk and fosters innovation7. C qualcosa
che vorrebbe aggiungere a questa analisi che mi sembra
sinteticamente esaustiva?
Ferrarotti No. Mi limiterei a sottolineare che in
Italia mancavano gli strumenti di auto-osservazione.
Poi, soprattutto, erano cadute le antiche certezze. Non
dimentichiamolo, la gente facilmente oggi lo dimentica, ma nel 1945 questo paese aveva visto crollare il
fascismo, alcune certezze fondamentali erano venute
meno; la Chiesa era in gran parte compromessa; poi,
naturalmente, ha saputo, come ha sempre storicamente saputo, in qualche modo riorientarsi rapidamente, e
poi, nessun dubbio che il legame col popolo, la Resi-

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stenza, i monasteri, tutto questo abbia avuto un grosso peso. LItalia rischiava per di procedere in maniera
tutto sommato cieca. La sociologia, tornata in Italia, pur
restando ancora in gran parte separata, non essendo
stata ampiamente riconosciuta (una nuova scienza per
farsi riconoscere ha bisogno di decenni e forse di secoli), tuttavia ha avuto una buona influenza su altre scienze sociali; la psicologia divenuta anche psicologia sociale, letnologia anche antropologia culturale; la stessa
storia, che sembrava impervia, oggi in qualche modo si
aperta al dialogo con le altre discipline.
Gemelli Su questo avrei qualche riserva: la storiografia
italiana in ambito contemporaneistico si interessata
soprattutto alla storia dei partiti politici e dei movimenti sindacali tradizionali: lo scarsissimo interesse che
lesperienza olivettiana ha suscitato tra gli storici, se si
eccettuano un paio di ottime biografie, mi sembra possa essere interpretata come uno dei rivelatori di questo
atteggiamento, cio di unapertura alle problematiche
delle scienze sociali che ha agito in superficie, ma non
in profondit. Magari, avremo occasione di tornare su
questo argomento in seguito. Ci che mi sembra importante rilevare, da quanto ha detto sinora, il singolare intreccio tra la sua esperienza olivettiana e quella
americana: il fatto, cio, che il suo incontro con lambiente intellettuale dellUniversit di Chicago, a partire
dal quadro che lei ha tracciato adesso, appare niente
affatto casuale, direi quasi inevitabile. Dopo unanalisi a
largo raggio ritorniamo, dunque, al suo percorso biografico e, completando il quadro della sua esperienza

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americana proseguiamo nel tempo, seguendo il filo del


dialogo e della collaborazione con Adriano Olivetti.
Ferrarotti Lascio New York e vado a Chicago. La
scelta non casuale, perch Thorstein Veblen aveva lavorato nellUniversit di Chicago e a Chicago nel 1899
aveva pubblicato il suo libro pi famoso. L per qualche tempo era stato redattore del Quarterly of Political
Economy. Non aveva avuto fortuna, non aveva fatto
carriera. I suoi rapporti con il cancelliere dellUniversit di Chicago, Harper, di cui possiedo tutta la documentazione anche epistolare - che utilizzer un giorno,
se mai scriver la biografia di Veblen - erano tutti negativi. Luomo era anche molto difficile, insomma cerano anche delle variabili soggettive in gioco. Ma non
era solo questo. Non potevo certo fermarmi a New
York, perch New York questa... come dire, multiforme, direi quasi meteorica, compresenza di stili di vita e
di culture fortemente differenziati, ma non ha il forte
pulsare della produzione industriale, che in quegli anni
aveva Chicago; era gi allora, soprattutto, un mercato
finanziario. A Chicago, oltre alla sociologia industriale,
cera lindustria. E non dimentichiamo che se io parto
nel 1951 e vado in America ci vado contro la volont di Adriano Olivetti. Lui mi permette di andare solo
per tre mesi, io ci resto quasi tre anni. Ci vado anche
perch Adriano era stato atterrato dal primo infarto nel
1950, dopo la nascita della figlia Laura (Lalla). Come
suo aiuto personale, per dirla in inglese, come suo personal trouble shooter, non avevo niente da fare e allora decido di andare: ma io non andai in America per Olivetti,

Franco Ferrarotti, Un imprenditore di idee


2015 Comunit Editrice, Roma/Ivrea
1a edizione: Edizioni di Comunit, Milano 2001
ISBN 978-88-98220-24-3
Edizioni di Comunit uniniziativa in collaborazione
con la Fondazione Adriano Olivetti
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Direzione editoriale: Beniamino de Liguori Carino
Redazione: Angela Ricci
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