IDENTITÀ E
MISSIONE DELLA SCIENZA POLITICA
Politica: un termine in cerca di significati
La politica degli antichi: il trionfo del normativismo di Aristotele
Di fronte a fenomeni costitutivi della vita associata degli esseri umani (come la necessità di
coordinare comportamento degli individui o di decidere su questioni essenziali) il concetto di
politica è stato definito in modi assai diversi nel corso del tempo.
La politica degli anni greci è ben diversa dalla politica dell'età contemporanea: la parola è la
stessa ma il significato è cambiato radicalmente.
Il termine politica deriva dal greco pòlis→ città, metropoli e la politica risulta essere l’arte di
governare la città; nell’antica Grecia la politica governava la polis, le persone si riunivano per
prendere le decisioni comuni, per la città. Chi si riuniva erano i cittadini, liberi, coloro che
avevano la discendenza nella pòlis e avevano una fascia di territorio e maschi. Si riunivano
molte volte l’anno, circa due volte a settimana, ciò comportava che la parte concreta della vita
civile spettasse alle donne e agli schiavi. Oggi la democrazia ateniese non è riconosciuta come
una democrazia moderna. Nella definizione greca non vi era alcuna distinzione tra politica e
società. Politica era la dimensione collettiva del vivere sociale che differenziava l'essere
umano in quanto tale dagli altri essere viventi; il cittadino Greco era pienamente essere umano
proprio perché politico. In questa prospettiva, che fonda la concezione di politica fino a
Machiavelli, fine ultimo della politica non può che essere il bene collettivo.
Nella concezione moderna della politica emerge con forza la sua dimensione di verticalità.
Politica aristotelica era caratterizzata da relazioni orizzontali, proprie del vivere in comunità.
Le testimonianze della democrazia greca ci arrivano dai filosofi e scrittori antichi, Aristotele,
Platone, Protagora e i sofisti. Platone si pone il problema del verticale: le assemblee si lasciano
spesso orientare da chi sa parlare meglio, da chi ha più denaro, interessi, istruzione, le
differenze di egualità risaltavano anche in un’assemblea che apparentemente non dovrebbe
averne. Platone si dimostra preoccupato, c’è sempre un aspetto verticista nella politica, c’è
sempre qualcuno che prende le decisioni per gli altri e raggiunge l’apice del disincantamento
verso la democrazia assembleare con il suicidio indotto di Socrate; chi attua le decisioni deve
essere qualcuno realmente erudito, equilibrato, il contrario delle assemblee. Per Platone la
politica era dunque legata una visione etica degli ordini sociali; per Protagora invece la politica
era l'arte del persuadere.
Già nell'antica Grecia molte delle diverse accezioni di politica che caratterizzano il dibattito
contemporaneo erano presenti e discusse. Ma alla fine quella che si radica come un pilastro
della cultura occidentale è la concezione aristotelica che si impone in modo egemonico nei
secoli successivi grazie anche alla sua ricezione e rimodulazione da parte della dottrina
cristiana. La politica aristotelica, nella sua versione medievale, è dominata dal principio di
verità della volontà Divina, tale principio include la politica, religioni, la morale e il diritto. La
politica quindi non è una dimensione autonoma della vita sociale ma è uno degli aspetti
operativi dei principi cristiani che discendono direttamente dalla parola Divina .
La politica aristotelica, quindi, ha poco a che fare con la lotta per il potere, con il governo della
società, con l’esercizio del potere su una società. La verticalità del fenomeno politico viene
ricondotta unicamente all’attività di governare una collettività, focalizzando l’attenzione su chi
esercita il potere e su come lo esercita.
Con il tempo le città stato lasciano spazio agli stati-nazione, che nascono per aggregazione, il
potere si accumula quanto più la città si sviluppa, i cittadini si specializzano. Con la
teorizzazione dello stato ( Hobbes, Locke e altri pensatori) il problema comincia ad essere il
potere; come si mantiene? come si difende lo stato da altri stati? Politica e potere divengono i
due elementi centrali dello stato. Diventa più importante mantenere coesione all’interno di
una comunità politica tanto più l’arte politica si autonomizza come scienza (il principe di
Macchiavelli) e quindi l’autonomizzazione della politica come arsenale analitico- mentale per
poter governare lo facciamo partire da Macchiavelli.
La sintesi migliore di questo percorso è rappresentata dalla definizione di Max Weber, il quale,
nella sua classica riflessione sulla politica come professione [1919], definisce in modo netto e
chiaro la natura della politica come intrinsecamente legata al conflitto per il potere nello
Stato e tra gli Stati. La riflessione weberiana sulle caratteristiche costitutive della politica non
esclude una dimensione assiologica e, quindi, normativa: per Weber l’azione politica non è solo
potere per il potere, ma è lotta per il potere al fine di «servire una causa» basata su scelte
soggettive.
Con la netta focalizzazione weberiana sul potere (il suo esercizio, la sua capacità di determinare
comportamenti collettivi, la sua distribuzione, le sue tecniche e dinamiche relazionali), la
politica trova finalmente un ambito proprio e può essere studiata in modo autonomo. In
questa prospettiva, man mano che l’analisi scientifica della politica si istituzionalizza e si
articola in diverse proposte teoriche, nel corso del XX secolo, la definizione di «politica» viene a
essere meglio specificata soprattutto per renderne chiari i confini che vanno ben oltre quelli
dello Stato.
La centralità del potere nella definizione di «politica» non risolve comunque il fatto cioè che
sfugga a qualsiasi tentativo definitorio la possibilità di individuare un elemento costitutivo del
comportamento politico. A differenza del comportamento morale o di quello economico, per i
quali esiste una condivisione rispetto ai criteri caratterizzanti (rispettivamente il «bene» e
l’«utile»), il comportamento politico non è riducibile a uno specifico e netto criterio
costitutivo. A questo proposito Carl Schmitt [1972] propone la sua distinzione tra «amico» e
«nemico» come criterio fondante delle azioni e dei motivi politici risolve questo problema.
Tale definizione venne rifiutata perché essa fonda sostanzialmente più che la politica in quanto
tale come attività quotidiana, il momento «politico» della decisione estrema.
Il potere non si dimostra essere un elemento distintivo della politica poiché esistono diverse
forme di potere a seconda dei contesti in cui esso viene esercitato (pensiamo, ad es., al potere
sociale oppure a quello economico) e perché, comunque sia, la politica deve tener conto anche
del «consenso» e delle modalità mediante le quali esso viene ottenuto dagli attori politici.
Giovanni Sartori ha enfatizzato la dimensione verticale della politica definendola proprio sulla
base di una specifica sede in cui essa si manifesta.
Processi politici→ attività fatte da chi investito del potere politico in quel momento ma anche
i cittadini, come essi si organizzano pongono delle richieste e come il sistema politico reagisce
a tali ricerche. La scienza politica non si chiede come sarebbe ideale che una comunità si
regolasse ma descrive come realmente la società si regola, ecco perchè è definito scienziato
empirico in modo asettico studia le “leggi”, delimitate nel tempo e nello spazio, che regolano
la società.
Anche specificando le due dimensioni della politica non risolve la sua intrinseca natura ubiqua.
La politica è ovunque perché in molte sedi e luoghi si ragiona e si agisce per influenzare chi ha
la responsabilità ultima delle decisioni. Le definizioni di Sartori e di Easton, enfatizzando la
dimensione imperativa e verticale della politica, rischiano di sottostimare il fatto che l’ambito
della politica si caratterizzi per una strutturale incertezza su quello che può/deve essere fatto
per garantire l’ordine sociale.
Pertanto, che la politica giri attorno al potere è plausibile e che i politici perseguano il
mantenimento del proprio potere è altrettanto plausibile, ma al tempo stesso questa
ricerca/lotta per il potere deve dare risposte ai problemi collettivi, rassicurando i cittadini
rispetto al loro futuro. Così affermava Hugh Heclo:
La politica trova le sue risorse non solo nel potere, ma anche nell’incertezza,
quando le collettività si chiedono che fare. I governi non solo «esercitano il
potere» ma cercano anche di risolvere puzzles collettivi. Il policy making è una
forma di soluzione di puzzles collettivi per conto della società
[Heclo 1974].
La politica ha almeno due dimensioni portanti: quella del potere (dove gli interessi confliggono o
cooperano per tutelare sé stessi, influenzando chi deve prendere decisioni per la collettività) e
quella della soluzione di problemi collettivi.
Harold Lasswell [1936] ha suggerito di affrontare lo studio della politica: «chi ottiene cosa,
dove e come».
Chi fa la politica? La politica è un’attività molto complessa e può essere «fatta» da una
miriade di potenziali attori individuali e collettivi. Dalle élite socioeconomiche ai
gruppi di interesse, dai partiti ai movimenti, dai funzionari amministrativi ai singoli
cittadini (che mediante il voto alle elezioni compiono un’azione politica).
Ma come si relazionano questi attori tra loro? Su quali risorse fondano la loro azione?
Quando e perché si attivano? Le risposte a queste domande rappresentano la sfida
quotidiana della scienza politica e, sostanzialmente, il suo obiettivo primario.
Che cosa si ottiene con la politica? Il risultato aggregato dell’azione politica dovrebbe
essere il perseguimento di un determinato ordine sociale ,influenzato ovviamente dallo
specifico contesto socioeconomico e dal tipo di regime politico. Ma il risultato aggregato
dell’azione politica contiene al proprio interno (a volte componendoli insieme, altre
escludendone alcuni) gli obiettivi singoli dei diversi attori. Ottenere qualcosa in politica
deve sempre fare i conti con il fatto che il conflitto tra interessi e idee divergenti è
strutturale. Inoltre, i processi politici possono essere sia a somma zero (qualcuno vince
qualcuno perde) sia a somma positiva (tutti ottengono qualcosa) sia, infine, a somma
negativa (tutti perdono qualcosa). La risposta quindi alla domanda “chi ottiene
qualcosa?” non è mai definitiva, non solo perché la politica è un processo, ma
soprattutto perché essa dipende dai punti di vista; deve esserci dunque un’attenta analisi
dei benefici (e dei costi) ottenuti dagli attori con l’analisi degli effetti sistemici (l’ordine
politico, gli interessi generali, il bene pubblico).
Come si perseguono i propri fini in politica? Le modalità mediante le quali gli attori
cercano di perseguire i propri obiettivi in politica sono assai diversificate. Il «come» è
incanalato dalle caratteristiche del regime politico e soprattutto dalle forme prevalenti
di legittimazione del potere. Dal punto di vista processuale, l’azione politica può
perseguire i propri fini attraverso specifiche modalità relazionali tra gli attori, come la
cooperazione e il conflitto. In linea generale, possiamo dire che il «come» della politica
è dato dal confronto tra interessi e tra idee divergenti, che può trovare diversi tipi di
risoluzione a seconda delle caratteristiche sistemiche e di quelle dei processi.
Dove si perseguono i propri fini in politica? L’ambito di un’azione politica non può che
essere una collettività in cui vi sia un organismo deputato a prendere decisioni
collettiviz zate. Chi agisce politicamente lo fa per ottenere risultati e questi risultati si
ottengono se vengono recepiti da una decisione collettivizzata. In questo senso, il dove
della politica, pur essendo potenzialmente ubiquo, può essere rinvenuto sia in
luoghi/spazi identificati da una serie di istituzioni (il parlamento, quindi la collettività
nazionale; il consiglio comunale, quindi una collettività municipale), sia in arene
politiche che vengono definite dagli attori stessi.
Come si può capire, rispondere alle domande «chi?», «cosa?», «dove?» e «come?» della politica
significa non solo cercare di definire meglio come la lotta per il potere si strutturi in una
determinata collettività e come essa cerchi di dare risposte ai propri problemi collettivi, ma
anche affrontare in modo empirico l’analisi della politica stessa.
Infine, la scienza politica è una disciplina che, per le sue caratteristiche, può svilupparsi solo in
un contesto democratico. In un contesto nel quale sia possibile raccogliere dati in modo
indipendente, interloquire liberamente con i protagonisti della politica, pubblicare i risultati di
ricerche che possono anche mostrare i limiti, i problemi e le mancanze della politica.
Il fatto che la politica sia sempre esistita non significa che vi sia sempre stata una scienza
politica. Il fatto che è sempre esistito un discorso – filosofico, morale, giuridico, religioso – sulla
politica ha poco a che fare con la scienza politica. Per avere una scienza politica abbiamo
dovuto aspettare che i cambiamenti storici avvenuti in epoca moderna e contemporanea
«liberassero» la politica dai suoi stretti legami di dipendenza dall’etica e dalla religione e,
infine, dal diritto. E abbiamo avuto bisogno che si acquisisse la consapevolezza che l’oggetto
«politica» trattato dalla filosofia politica è qualcosa di diverso dall’oggetto «politica» trattato in
modo scientifico.
La scienza politica necessita, pertanto, di una definizione di «politica» come attività autonoma
dalle altre attività umane e, al tempo stesso, di uno specifico contesto storico. La scienza
politica ha origini diverse in Europa rispetto agli Stati Uniti e che ha avuto anche diversi
percorsi. In fondo, anche se gli studiosi della scuola elitista europea (Mosca, Pareto e Michels)
sono considerati i padri della scienza politica contemporanea, lo sviluppo e la prima definitiva
istituzionalizzazione della scienza politica sono vicende soprattutto nordamericane. La scienza
politica è una disciplina che, per le sue caratteristiche, può svilupparsi solo in un contesto
democratico. In entrambi i continenti lo studio scientifico della politica deve innanzitutto
rendersi autonomo dal diritto costituzionale, negli Stati Uniti è notevole l’influenza della storia
politica, mentre in Europa maggiore è l’influenza della dialettica hegeliana e marxiana. Se,
infatti, in Europa abbiamo gli elitisti, negli Stati Uniti agli inizi del secolo scorso viene pubblicato
il libro di Arthur F. Bentley, The Process of Government [1908], in cui la politica è vista,
realisticamente, come una lotta tra gruppi di interesse che, interagendo, influenzano
fortemente le decisioni politiche.
Nel periodo delle due guerre mondiali negli Stati Uniti Charles E. Merriam costituisce un gruppo
di ricerca (che passerà alla storia come la Scuola di Chicago) in cui lo studio tradizionale della
politica (basato sul diritto e sulla storia) viene allargato ai contributi della sociologia, della
psicologia e dell’antropologia. Negli Stati Uniti la scienza politica trova terreno fertile per una
veloce istituzionalizzazione e anche per la svolta teorico-metodologica che porterà, alla fine
della seconda guerra mondiale, alla consacrazione della rivoluzione comportamentista.
In Europa le cose vanno molto diversamente. L’evoluzione dei sistemi politici e il retroterra
culturale sono differenti. Dopo il contributo degli elitisti e di Weber l’analisi empirica della
politica trova barriere invalicabili. Non è un caso che i contributi più interessanti sulla politica e
sulla democrazia prodotti tra le due guerre in Europa siano di matrice giuridica; d’altra parte, la
storia europea è la storia dello Stato che, durante il XIX secolo, si costituzionalizza anche
mediante la giuridicizzazione della forma-Stato e, quindi, della politica. È proprio in questo
processo che la scienza giuridica diventa la scienza del Principe, cioè la scienza incaricata di
incanalare la politica all’interno dell’ordinamento giuridico. La storia europea è la storia di
quella grave crisi del processo di democratizzazione che, a partire dal primo dopoguerra,
getta le basi per la costituzione di quei regimi autoritari che furono tra le cause scatenanti del
secondo conflitto mondiale. In un contesto del genere le possibilità per un’evoluzione dello
studio scientifico della politica sono davvero minime.
Con la fine della Seconda guerra mondiale e i processi di ripresa e consolidamento della
democratizzazione in Europa, si riapre uno spazio per una riflessione meno ideologizzata e più
realista del fenomeno politico che consentirà alla disciplina di espandersi e istituzionalizzarsi,
seppur con una tempistica diversa a seconda delle caratteristiche culturali e storiche dei vari
paesi.
il processo di istituzionalizzazione è più veloce nel Regno Unito e nei paesi del Nord Europa,
mentre procede in modo lento e difficoltoso in Germania, in Francia, in Spagna e in Italia,
dove la diversa tradizione storico-culturale (la rilevanza del ruolo dello Stato e l’egemonia del
diritto pubblico e costituzionale) frappone notevoli ostacoli a una concettualizzazione
autonoma della politica.
In particolare quattro sono le discipline che, preesistendo alla scienza politica, hanno
rappresentato i punti di riferimento e di sfida per la nuova disciplina: la filosofia politica,
l’economia politica, il diritto pubblico e costituzionale e la sociologia.
Scienza politica e filosofia politica. Si è portati a ritenere che la filosofia politica si
occupi di idee, mentre la scienza politica si occupi di fatti; che la filosofia politica sia
basata solo su concetti mentre la scienza politica necessiti di prove empiriche per
validare le proprie affermazioni. Sia la filosofia sia la scienza politica focalizzano
l’attenzione su una domanda costitutiva del comportamento umano: come è possibile
l’ordine politico? La filosofia politica assume sempre una prospettiva intrinsecamente
normativa (cerca di individuare il miglior ordine sociale da perseguire), mentre la
scienza politica aspira a spiegare il perché un ordine sociale prevale in un dato
momento. Di fatto che il cordone ombelicale tra le due discipline non sia mai stato
reciso: in primo luogo, perché alcuni termini fondamentali della scienza politica vengono
dalla lunga storia della filosofia politica ; in secondo luogo, perché ogni qual volta venga
proposta una teoria empirica di un fenomeno politico si basa su una fondazione di tipo
filosofico.
Scienza politica ed economia. Una volta preso atto delle differenze del campo
d’indagine, non si può che riscontrare un continuo e spesso fecondo contaminarsi a
vicenda. Oggi l’economia si divide in microeconomia (che studia, sulla base del criterio
dell’efficienza allocativa, il comportamento individuale di chi consuma e quello di chi
produce e le loro interazioni) e in macroeconomia (che studia il comportamento
economico di un sistema e gli interventi – le politiche – mediante i quali è possibile
condizionare i comportamenti microeconomici proprio per cambiare le performance di
sistema). La distinzione tra scienza politica ed economia incontra due problemi uno
pratico e l’altro legato allo sviluppo teorico della scienza politica stessa e di alcuni filoni
dell’analisi economica. Il problema pratico si rileva in un continuo sovrapporsi fattuale
dell’oggetto della politica e dell’oggetto dell’economia. Soprattutto quando si ragiona a
livello sistemico e quindi degli interventi da porre in essere per migliorare le
performance di sistema. Uno dei principali filoni teorici della scienza politica,
la Rational Choice, si fonda sull’assunto dell’azione microeconomica, e cioè che «il
complesso del comportamento umano può essere considerato composto da individui che
partecipano al fine di massimizzare la propria utilità sulla base di un insieme di
preferenze stabili, un insieme di informazioni ottimale e di input provenienti da altri
contesti». Questa prospettiva teorica ha reso molto simile l’analisi politologica a quella
economica, soprattutto in quei settori d’indagine in cui ci si occupa di analizzare i
processi mediante i quali si operano le scelte collettive.
Esistono altri terreni di incontro tra scienza politica e analisi economica come la
«tragedia dei beni comuni», cioè al problema della gestione delle risorse naturali (ad
es., l’acqua) in cui un comportamento finalizzato all’utile di breve periodo può
contribuire a risultati sociali e aggregati disastrosi nel medio-lungo periodo.
Infine, non si può non accennare ai fruttuosi intrecci tra scienza politica ed economia nel
compenetrarsi, sia a livello di analisi interna – Political Economy – sia a livello di politica
internazionale – International Political Economy – per spiegare i fenomeni politici e
sociali mettendo in relazione le influenze reciproche tra elementi propri della politica
( come il comportamento dello Stato,) ed elementi propri del sistema economico (come i
meccanismi di funzionamento del mercato).
Comunque, i confini tra «scienza politica» e «scienza economica» rimangono abbastanza
netti e chiari; la prima cerca di spiegare come si struttura l’ordine politico di un
determinato sistema, la seconda come , con quale efficacia ed efficienza, un sistema
riesce a raggiungere e a mantenere un determinato equilibrio economico.
Scienza politica e scienza giuridica. Tra la scienza politica e la scienza giuridica persiste
una rivalità che vede le sue origini storicamente sedimentate; la scienza giuridica ha
rappresentato il linguaggio costitutivo del passaggio dallo Stato assoluto allo Stato
costituzionale. Il diritto si è imposto a lungo come il linguaggio dello Stato e per certi
versi anche della politica; con la giuridicizzazione dello Stato si è giuridicizzata la
politica, ovvero si è cercato di convogliare la lotta per il potere politico, e il conflitto
tra interessi, all’interno di un sistema di norme (l’ordinamento giuridico) che, regolando
la vita associata, definisce che cosa, e come, può essere fatto. Con la giuridicizzazione
del potere, la fonte del potere politico è esterna a esso, ed esso stesso nel suo
esercizio deve conformarsi al principio di legalità e di legittimità. La scienza giuridica
dovrebbe essere la disciplina che si occupa unicamente della coerenza dell’ordinamento
giuridico in un determinato sistema politico; occuparsi della legalità e della legittimità
del sistema politico consente ai cultori del diritto di entrare anche nel merito del
comportamento politico e quindi di sconfinare nel territorio della scienza politica.
D’altra parte, anche gli scienziati politici sconfinano spesso (quando si occupano di
riforme costituzionali) nel campo dei giuristi. Nonostante queste “invasioni di campo” le
differenze rimangono notevoli: la scienza politica studia la concretezza dei fenomeni
politici al fine di capirli e spiegarli, mentre la scienza giuridica analizza i comportamenti
politici per valutarne la coerenza, in termini di legalità e legittimità, con l’ordinamento
giuridico esistente.
Scienza politica e sociologia. I confini tra «sociologia» e «scienza politica» sono assai più
labili di quelli precedentemente analizzati; ciò è dovuto al fatto che la sociologia è una
delle sorelle maggiori della scienza politica, e quest’ultima ha tratto dalla sociologia un
insieme assolutamente rilevante di concetti fondamentali. Inoltre, entrambe le discipline
sono non solo empiricamente orientate ma condividono molte metodologie qualitative
e quantitative di ricerca. Le loro differenze stanno soprattutto nel modo di organizzare
il rapporto tra variabili indipendenti (le cause) e variabili dipendenti (gli effetti). Per
il sociologo, ad esempio, ogni fenomeno studiato è riconducibile alle caratteristiche
del sistema o della struttura sociale. Da parte loro gli scienziati politici ritengono la
struttura sociale come il prodotto del comportamento degli attori e delle istituzioni
politiche.
Gli studi compresi in questa area di sostanziale sovrapposizione sono spesso ricondotti
alla sociologia politica, ovvero quella disciplina in cui scienza politica e sociologia si
ibridano, al fine di studiare le basi sociali e istituzionali dei fenomeni tipici del
comportamento politico.
Grazie al comportamentismo la scienza politica acquisisce alcuni elementi costitutivi della sua
autonomia e identità:
1. la ricerca di regolarità;
4. la sistematizzazione (ovvero l’esigenza di dare una robusta base teorica alla ricerca
empirica).
L’epoca comportamentista produce anche un tentativo di teoria generale per l’analisi della
politica, quello proprio di David Easton che propone il primo approccio teorico in cui lo Stato non
è il centro motore della politica. Esso viene sostituito dal concetto di «sistema politico»,
ovverosia quell’insieme di interazioni interdipendenti tra attori politici e attività funzionali
della società, mediante il quale vengono prodotte e attuate decisioni politiche e, quindi,
allocati valori in una società. Progressivamente il comportamentismo e l’analisi sistemica di
Easton vengono criticati e abbandonati anche se alcuni loro elementi persistono nella scienza
politica contemporanea e sono diventati patrimonio comune degli scienziati politici. Il declino
del progetto eastoniano ha prodotto una significativa frammentazione, dal punto di vista
teorico, nella scienza politica; la scienza politica ha visto l’emergere e il coesistere di diversi
paradigmi teorici. Negli anni Settanta si impone con vigore la Rational Choice; negli anni
Novanta torna progressivamente in auge l’attenzione per il ruolo delle istituzioni (intese sia
come regole formali sia come schemi di comportamenti condivisi e persistenti);contestualmente,
emerge un consistente filone di ricerca che enfatizza il ruolo delle idee nell’influenzare i
processi politici. È questa la fase in cui si sviluppa a partire dagli Stati Uniti un’impressionante
letteratura sulla governance, ovverosia sul problema del modo in cui i processi decisionali
vengono governati in contesti affollati di attori che perseguono i propri interessi su diversi livelli
istituzionali. il processo di globalizzazione ha ulteriormente influenzato l’evoluzione di questi
studi: una parte della scienza politica si muove oggi in una dimensione terza fra le due classiche
aree della politica comparata (ovvero la comparazione degli Stati) e le relazioni
internazionali (la politica tra gli Stati): la dimensione che vede nella governance multilivello il
contesto dove opera l’insieme degli attori rilevanti: gli enti locali, regionali, lo Stato, gli
organismi sovranazionali.
Insomma, dal punto di vista teorico la scienza politica è venuta sedimentando un notevole
pluralismo, oltre che metodologico, che se da una parte ne mostra la vivacità, dall’altra
presenta il rischio di difficile o lenta cumulabilità delle conoscenze.
Gli approcci teorici sono intimamente legati ai metodi e alle tecniche della ricerca scientifica, e
il loro successo determina la storia della scienza politica.
Ma quali sono gli approcci oggi riconosciuti nella scienza politica composita del XXI secolo?
6. Approccio ideazionale. che raccoglie quelle filiere teoriche che enfatizzano, prendendo
spunto dall'epistemologia costruttivista, il ruolo delle idee, dei valori,
dell'argomentazione e delle norme condivise come fondamenti dell'azione politica. La
prospettiva ideazionale si è istituzionalizzata focalizzandosi su due specifiche domande di
ricerca: a) in quali situazioni le idee, i valori, le norme condivise, e
l’argomentazione possono influenzare le scelte politiche?; b) in quali modi e attraverso
quali dinamiche le idee esercitano la loro influenza nei processi di decisioni per la
collettività?
Partendo dalla premessa che non si può avere una scienza empirica della politica senza una
raccolta dei dati operata attraverso un adeguato trattamento dei concetti e coerente con le
tecniche di analisi che si intende utilizzare. Uno scienziato politico può voler:
Il focus dello scienziato politico è sempre quello di capire come funzionano i processi politici e
quindi quello di descrivere, spiegare o interpretare quali sono i fattori (le variabili
indipendenti) che influenzano o determinano il fenomeno che intendiamo studiare (la variabile
dipendente), se ci sono i fattori che possono modificare l’intensità e il verso delle variabili
indipendenti (le variabili intervenienti), e quali sono gli elementi contingenti in cui l’analisi
viene operata (le variabili di contesto).
Diversi metodi sono a disposizione degli scienziati politici per raggiungere i loro obiettivi.
Dall’analisi del singolo caso al metodo comparato, dal metodo statistico al metodo
sperimentale. E per ciascuno dei metodi prescelti, lo scienziato politico potrà utilizzare diverse
tecniche di analisi, sia qualitative sia quantitative.
1. Serve a offrire ai cittadini e ai decisori una visione dei fenomeni politici, delle loro
cause e dei loro potenziali effetti, deideologizzata ed empiricamente fondata.
2. Serve a fornire una preparazione specifica su come funzionano i processi che hanno a
che fare direttamente e indirettamente con le modalità mediante cui ogni collettività
decide quali sono i suoi problemi (sociali, economici e politici) e come risolverli.
3. La scienza politica è una disciplina che educa alla democrazia perché, «svelando» come
davvero funziona la politica, ne fa emergere, in modo empirico – mostrando fatti e
correlazioni tra fatti che spesso sfuggono all’osservazione quotidiana – i vizi e i problemi