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SCIENZA POLITICA

0. INTRODUZIONE
INTRODUZIONE
Cos’è precisamente la politica?
La politica è l’attività umana relativa alla presa di decisioni pubbliche imperative. Sono pubbliche perché
riguardano il complesso della società. Le decisioni politiche si applicano a chiunque sia dotato di una data
cittadinanza e/o viva in uno specifico territorio (o stato). Sono imperative perché il governo che prende tali
decisioni è investito dell’autorità (e legittimità) per renderli vincolanti e obbligatorie, vale a dire che ha la
facoltà di sanzionare gli individui che non le rispettano. Le “autorità” hanno il potere di obbligare o forzare
gli individui al rispetto delle proprie decisioni tramite mezzi coercitivi.
La politica è perciò l’attività di acquisizione (e mantenimento) del potere di prendere tali decisioni e di
esercitarlo. È il conflitto o la competizione per il potere e il suo impiego.
Chi decide che cosa, e come, è importante per la vita della società (le decisioni prese riguardano la vita di
tutti i giorni, mentre il modo in cui decisioni pubbliche imperative sono prese varia notevolmente. E ,infine,
conta anche chi prende o influenza le decisioni).

CHE COS’E LA SCIENZA POLITICA?


Lo studio scientifico della politica
Le 3 branche fondamentali dello studio dei fenomeni politici sono:
• la scienza politica (descrittiva e positiva)
• la teoria politica (valutativa e normativa)
• le relazioni internazionali

Mentre la teoria politica tratta questioni normative e teoriche (riguardo a uguaglianza, democrazia, giustizia
ecc), la scienza politica tratta questioni empiriche. Nonostante gli studiosi di scienza politica naturalmente si
interessino anche alle questioni di natura normativa, la disciplina in sé è empirica e neutrale rispetto ai
valori.
D’altro canto, mente le relazioni internazionali si occupano delle interazioni tra sistemi politici (equilibrio di
potere, guerra, commercio), la scienza politica tratta le interazioni all’interno dei sistemi politici.
Come disciplina di studio, la scienza politica è interessata ai rapporti di forza fra individui, gruppi e
organizzazioni, classi e istituzioni all’interno dei sistemi politici.
La distinzione fra scienza politica, teoria politica e relazioni internazionali non è così netta. Molti sostengono
che la scienza politica e le relazioni internazionali convengono ormai verso un’unica, singola disciplina. Per il
momento ciò che è importante comprendere è che la scienza politica è una disciplina che si occupa della
pura essenza della politica laddove risiede la sovranità.
Quindi in poche parole la scienza politica è una scienza empirica che studia principalmente la politica
interna.

Tipi di politica comparata


La politica comparata costituisce a pieno titolo una branca della scienza politica.
La disciplina della politica comparata include tre differenti tradizioni.
1. La prima tradizione è orientata verso lo studio dei singoli casi
2. La seconda tradizione è metodologica e si interessa di definire regole e standard dell’analisi comparata.
Questa tradizione affronta la questione di come le analisi comparate dovrebbero essere condotte ai fini di
accrescere il loro potenziale per l’accumulazione descrittiva di informazioni comparative, della spiegazione
e della predizione.
3. La terza tradizione è analitica, cioè combina sostanza e metodo empirici.
Così come tutte le discipline scientifiche, la scienza politica è una combinazione di oggetto (lo studio dei
sistemi politici e dei loro attori e processi) e metodo (identificare e spiegare le differenze e le somiglianze
tra casi, seguendo regole e standard consolidati di analisi). La scienza politica implica l’analisi di somiglianze
e differenze tra i casi.
Che cosa fa in pratica la scienza politica? Quali sono i suoi obbiettivi?
1. Comparare significa che somiglianze e differenze siano descritte. La scienza politica descrive il mondo
reale e, a partire da queste descrizioni, stabilisce classificazioni e tipologie.
2. Somiglianze e differenze sono spiegate. Come in tutte le discipline scientifiche formuliamo ipotesi
cercando di spiegare queste differenze (per controllare la variazione) e usiamo dati empirici per testarle –
per verificare se le ipotesi reggono alla prova dei fatti o meno. È tramite questo metodo che si può inferire
la casualità, che si possono produrre le generalizzazioni e che si possono sviluppare e migliorare le teorie.
3. La scienza politica mira a formulare predizioni. Cerca di capire quali fattori possano causare esiti simili o
differenti.

Oggi va da sé che l’analisi dei fenomeni politici è comparata, ossia comporta l’esame di più di un caso.

L’OGGETTO DELLA SCIENZA POLITICA


Che cosa si compara?
I classici casi della scienza politica sono i sistemi politici nazionali. Questi sono (tuttora) le più importanti
unità politiche nel mondo contemporaneo. Tuttavia, i sistemi politici nazionali non sono i soli casi che la
scienza politica analizza.
1. In primo luogo è possibile comprare i sistemi politici non-nazionali: sistemi politici regionali subnazionali
(a livello statuale negli USA e o dei Lander in Germania) oppure unità sovranazionali come:
- regioni (Europa occidentale, Europa centro-orientale, Nord America, America Latina e così via),
- imperi (ottomano, asburgico, cinese, romano ecc.)
- organizzazioni internazionali (unione europea, NAFTA ecc.)
2. È possibile comparare tipi di sistemi politici (per ex. una comparazione tra regimi democratici e autoritari
in base a, poniamo, le performance economiche)
3. La scienza politica può comparare elementi singoli o componenti del sistema politico piuttosto che
l’intero sistema.

È stato sostenuto che proprio perché la scienza politica comprende “ogni cosa” come oggetto di studio,
essa non possiede una specificità da questo punto di vista, ma piuttosto solo una specificità metodologica
basata sulla comparazione, e il suo status disciplinare è stato messo in discussione. Tuttavia c’è una
specificità sostanziale, che è rappresentata dall’analisi empirica delle strutture, dei processi e degli attori
interni. Ma è anche vero che la scienza politica è un’ampia disciplina e, nel corso dei decenni, essa ha avuto
fasi nelle quali si è concentrata su particolari aspetti.

Dalle istituzioni alle funzioni…


La scienza politica prima della 2GM era principalmente interessata all’analisi dello stato e delle sue
istituzioni. Il tipo di analisi era formale, impiegando come principali fonti di informazioni testi costituzioni e
documenti legali. La tradizionale e ristretta enfasi sullo studio delle istituzioni politiche formali si
concentrava, naturalmente, sulle aree geografiche dove si erano inizialmente sviluppate, ossia prima di
tutto l’Europa occidentale e il Nord America.
La reazione contro ciò che era percepito come lo studio legalistico della politica condusse a una delle
maggiori svolte nella disciplina, che ebbe luogo tra la fine degli anni 20 e gli anni 60 del XX secolo – un
periodo considerato da molti come “l’età dell’oro” della scienza politica (Dalton 1991). La rivoluzione
comportamentista – importata dall’antropologia sociale, dalla biologia e dalla sociologia – spostava
l’oggetto di studio della scienza politica al di fuori delle istituzioni. Pionieri della politica comparata come
Gabriel A. Almond iniziavano ad analizzare aspetti della politica diversi dalle istituzioni formali e a osservare
la politica nella pratica piuttosto che secondo la definizione dei testi ufficiali.
Che cosa innescò questa rivoluzione? In primo luogo, una maggiore attenzione venne dedicata ai “nuovi”
casi, e ciò significava un rigetto della pressoché esclusiva attenzione all’occidente e al mondo sviluppato.
L’ascesa dei regimi comunisti nell’Europa orientale, nonché il crollo della democrazia laddove le dittature
fasciste salirono al potere – in alcuni casi rimanendovi fino agli anni 70 come in Portogallo, Spagna e
America Latina, e in una certa misura anche in Grecia – evidenziarono che altri tipi di “ordine politico”
potevano esistere e necessitavano essere capiti e spiegati. Dopo la 2GM, i percorsi della decolonizzazione
resero possibili analisi che volevano andare al di là di quelle riguardanti le istituzioni liberaldemocratiche
anglosassoni. Nuovi regimi patrimonialisti emersero in Africa e nel Medio Oriente, così come regimi
populisti in Sud America.
Questi percorsi divergenti non potevano essere capiti all’interno delle ristrette categorie delle istituzioni
occidentali. Nuove categorie e nuovi concetti erano necessari, così come era necessaria una maggiore
attenzione ad altri attori, come i partiti rivoluzionari e i clan sotto le leadership patrimonialiste. La
mobilitazione delle masse sperimentata nei regimi comunisti e fascisti in Europa, così come nei populismi in
Sud America, spostava l’attenzione dalle istituzione verso le ideologie, i sistemi di credenza e la
comunicazione.
Dagli anni 60 del XX secolo in poi, gli scienziati politici comparativisti europei iniziavano così a mettere in
dubbio la supposta “supremazia” – in termini di stabilità ed efficienza delle democrazie di stampo
anglosassone basate su istituzioni maggioritarie e culture omogenee. Altri tipi di democrazie non erano
necessariamente le democrazie instabili di Francia, Germania o Italia. L’analisi della Norvegia, dell’Austria ,
della Svizzera, del Belgio, dei Paesi Bassi, del Canada, del Sudafrica e del Libano – tutti questi casi –
dimostravano che la politica funzionava in modo differente dal modello anglosassone.
Benché divise etnicamente, linguisticamente e religiosamente, queste società non erano solo stabili e
pacifiche ma anche benestanti e socialmente giuste. Da un lato, questi nuovi casi mostravano che altre
forme di democrazia erano praticabili. Oltre alla democrazia maggioritaria, questi autori sottolineavano il
modello “consociativo” fondato su forme di compromesso – invece della competizione – tra le élite quali gli
“accordi amichevoli”; in breve, su pratiche politiche alternative al di là delle istituzioni formali.
Quali sono state le conseguenze dell’allargamento del focus geografico e delle esperienze storiche?
In primo luogo, si incrementava la varietà dei sistemi politici.
In secondo luogo, si putava l’attenzione sul ruolo di agenzie diverse dalle istituzioni, in particolare partiti e
associazioni di interessi, così come sul ruolo delle organizzazioni della società civile, dei movimenti sociali,
dei media.
In terzo luogo, si introduceva una nuova metodologia basata su:
• l’analisi del comportamento e dei ruoli basati sull’osservazione empirica
• il ricorso a molti casi (N grande), cioè a comparazioni su larga-scala
• lo sviluppo delle tecniche statistiche per l’analisi di grandi basi dati
• uno sforzo straordinario di raccolta sistematica di dati fra casi e la creazione di archivi di dati
In quarto luogo, un nuovo “linguaggio”, ossia il funzionamento sistemico, venne importato nella scienza
politica. La sfida posta dall’estensione della portata della comparazione era di elaborare un corpo
concettuale in grado di abbracciare la diversità dei casi. Concetti, indicatori e misure che erano stati
sviluppati per un insieme di casi occidentali non erano consone ai nuovi casi. Inoltre divenne presto
evidente che i “concetti occidentali” avevano un significato differente in altre parti del mondo.
L’enfasi sulle istituzioni e sullo stato venne abbandonata a causa della necessità di categorie più generali e
universali. A partire dalla rivoluzione comportamentista non parliamo più dello stato ma del sistema
politico (Easton 1953).

… e il ritorno alle istituzioni


Tuttavia, divenne presto chiaro che il prezzo da pagare per racchiudere concetti transculturali fosse un
livello di astrazione eccessivamente elevato. Questa struttura concettuale non era abbastanza ricca di
informazioni ed era troppo distante dal contesto storico concreto di specifici sistemi. Già negli anni 70 del
XX secolo, scienziati politici comparativisti avevano notato che le categorie astoriche del funzionalismo
sistematico non permettevano di comprendere casi concreti.
La controreazione al funzionalismo sistematico inizia precisamente nel 1967 e comporta (1) uno
spostamento dell’oggetto di attenzione sostanziale, (2) un restringersi della portata geografica, (3) un
cambio della metodologia e (4) una svolta teorica che dedica maggiore attenzione alla razionalità degli
attori e alle loro strategie.
Ritorno allo stato:
Lo spostamento dell’oggetto di attenzione sostanziale consiste in un ritorno allo stato e alle sue principali
istituzioni definite come insiemi di regole, procedure e norme sociali. Nella prospettiva della teoria neo-
istituzionalista le istituzioni sono viste come gli attori più importanti.
Grounded theory:
Al posto di teorie universalistiche generali, teorie di medio raggio (grounded theory) sottolineano i vantaggi
di casi di studio o di analisi svolte in profondità su pochi paesi.
Alcuni autori sostengono che il risveglio di attenzione per lo stato e le sue istituzioni è di fatto una
conseguenza di questo restringimento della portata geografica.
Il cambio dell’oggetto di attenzione sostanziale è stato favorito dal restringersi dell’ambito di riferimento
geografico.
Analisi orientata ai casi:
Il restringersi della portata implicava anche un cambiamento metodologico. La reazione a comparazione su
larga scala basate su concetti universali si manifestava nello sviluppo di metodi basati su pochi casi (piccolo
N). Questo “nuovo” metodo comparato rappresenta infatti lo strumento per analizzare in maniera rigorosa
fenomeni di cui si sono verificati pochi casi a livello storico.
Teoria della scelta razionale:
Alla fine degli anni 80 si realizzò un’altra svolta nella scienza politica, rafforzando ulteriormente il posto
riservato alle istituzioni. La svolta era contrassegnata dalla crescente influenza della teoria della scelta
razione nella scienza politica.
Mentre la rivoluzione comportamentista importava modelli e concetti principalmente dalla sociologia, la
svolta alla fine degli anni 80 era ispirata dagli sviluppi avvenuti nell’economia .
Tale teoria dell’azione è basata sull’idea che gli attori (individui ma anche organizzazioni come partiti
politici) sono razionali. Essi sono in grado di mettere in ordine opzioni alternative dalla più alla meno
preferita e quindi, tramite la loro scelta, cercano di massimizzare le proprie preferenze (utilità). È per
esempio, i votanti sono considerati in grado di individuare quello che è il loro interesse e distinguere le
diverse alternative che i partiti politici offrono nei loro programmi riguardo a specifiche politiche. Quindi, gli
elettori massimizzano la loro utilità votando per il partito politico le cui promesse in termini di policy sono
più prossime ai propri interessi. Per i partiti politici è razionale offrire programmi che si rivolgono a un largo
segmento dell’elettorato, poiché conduce alla massimizzazione dei voti.
L’applicazione della teoria della scelta razionale nella scienza politica deve molto al lavoro di William Riker.
Così l’oggetto di studio della scienza politica non cambiò per l’impulso della teoria della scelta razionale. Al
contrario, quest’ultima determinò un rafforzamento della preminenza delle istituzioni nella scienza politica.

Che cosa rimane?


Come abbiamo visto, c’è stato un processo quasi ciclico. Tuttavia, la scienza politica, a seguito di questo
processo, non è tornata semplicemente al suo punto di partenza.
1. A dispetto del recente restringersi della sua portata e della tendenza a concentrarsi su grounded theory,
l’espansione che ha avuto luogo negli 50 e 60 del XX secolo ha lasciato in eredità una straordinaria varietà
di argomenti. La scienza politica tratta un gran numero di caratteristiche del sistema politico.
2. Anche il grande contributo apportato dal paradigma sistemico non è andato perduto. Continuiamo infatti
a parlare di sistema politico e ad usare questo strumento descrittivo. La struttura e gli argomenti di questo
libro rispecchiano il sistema politico descritto da David Easton. Quella di Easton è una costruzione teoria
monumentale e probabilmente il più importante tentativo di arrivare a una teoria empirica in grado di
includere gli attori e i processi dei sistemi politici. Egli intende il sistema politico come un insieme di
strutture (istituzioni e agenzie) la cui funzione di decision-making è di arrivare a un’allocazione imperativa e
collettiva di valori (output, ossia le politiche pubbliche), ricevendo sostegno così come accogliendo istanze
(input) dall’ambiente, sia domestico sia internazionale. Che esso stesso contribuisce a plasmare attraverso
gli output in un circuito di feedback.
3. La portata sostantiva della scienza politica non ha cessato di crescere e questa tendenza è perseguita
anche nei decenni più recenti. C’è stato uno spostamento dell’attenzione dai processi di “input” ai processi
di “output”.

Figura – il sistema politico Fonte: Easton (1965)

IL METODO DELLA SCIENZA POLTICA


Una varietà di metodi
La scienza politica non si basa su un metodo specifico, principalmente per 4 ragioni.
1. Il metodo applicato dipende dalla domanda di ricerca. Per prima cosa consideriamo il problema e
formuliamo la domanda di ricerca; in seguito cerchiamo i dati e i metodi più appropriati per procedere
nell’analisi. La scelta dei casi dipende molto spesso dalla domanda di ricerca: ci sono fenomeni politici che si
verificano raramente, talora una sola volta. In questo senso, la scienza politica può analizzare un singolo
caso (caso di studio). I disegni di ricerca possono essere più o meno intensivi o estensivi (a seconda del
bilanciamento fra il numero dei casi e il numero di caratteristiche analizzate), possono essere sincronici o
diacronici, e così via. Ciò che conta è che il mercato della ricerca segua la domanda di ricerca.
2. Anche le dimensioni della comparazione posso essere diverse. È errato supporre che la scienza politica si
basi sempre su studi che implicano una comparazione spaziale fra paesi, regioni, aree o gruppi di sistemi
politici. In effetti, la cosiddetta comparazione spaziale è solo una delle possibili dimensioni della
comparazione. Una seconda dimensione della comparazione è quella funzionale. Una terza dimensione
della comparazione è quella longitudinale.
3.le unità d’analisi possono essere diverse. Come abbiamo visto sopra, “ciò che si compara” può riguardare
sia i sistemi politici nel loro complesso sia i singoli attori, le istituzioni, i processi o le tendenze.
4. I disegni di ricerca comparati possono focalizzarsi sia sulle somiglianze sia sulle differenze. Per spiegare
esiti simili cerchiamo fattori comuni (qualcosa che sia presente in tutti i casi nei quali un certo esito si è
verificato – una rivoluzione o il collasso di una democrazia) tra i casi altrimenti molto diversi l’uno dall’altro.
Questa tipologia di disegno di ricerca è stata definita metodo della concordanza da John Stuart Mill.
Tuttavia, in certi casi impiegheremo il metodo della differenza in cui analizziamo esiti differenti. Per
spiegare esiti diversi cioè cerchiamo fattori che variano (un qualcosa che sia o presente o assente nel caso
in cui l’esito ricercato – in questo caso, la democrazia – si verifichi o meno) in casi altrimenti simili tra loro.
Spesso inoltre combiniamo i due metodi.

Dai casi alle variabili…


Prima della rivoluzione comportamentista, la scienza politica era tipicamente una disciplina che operava
comparando pochi casi. Oggi parliamo di disegni di ricerca con “N piccolo”. Il numero dei casi era perciò
limitato a USA, Gran Bretagna, Francia, oltre a pochi altri casi quali il Canada, talvolta l’Australia e la Nuova
Zelanda, così come le democrazie “fallite” di Germania e Italia.
La rivoluzione comportamentista implicava un ampliamento dei casi. Da un lato, ciò comportava uno sforzo
molto maggiore di raccolta dei dati. Dall’altro lato, si faceva largo il bisogno di garantire la comparabilità fra
diversi indicatori e, come si sarebbe visto da lì a breve, il “linguaggio” più generale della ricerca stava
diventando quello delle quantità. Entrambi i fattori – il crescente numero di casi e la quantificazione degli
indicatori – favorirono lo sviluppo di sempre più sofisticate tecniche statistiche, che divennero il metodo
dominante. I disegni di ricerca erano basati su “N grande”.
Questa tendenza aveva l’effetto di distogliere l’attenzione dai casi per spostarla sulle variabili. Disegni di
ricerca intensivi diventavano estensivi.

… e ritorno ai casi
Più di recente c’è stato un ritorno a disegni di ricerca con “N piccolo” e orientati ai casi. Diversi studiosi
hanno dimostrato che test empirici rigorosi possono essere condotti anche quando il numero dei casi è
limitato. Questo mutamento metodologico mette in evidenza i vantaggi intrinseci dello studio di pochi casi.
I ricercatori sottolineano che le comparazioni con N-piccolo permettono analisi in profondità. I casi sono
visti nel loro “insieme” piuttosto che scomponendoli in variabili isolate. La spiegazione consiste in
costellazioni di fattori piuttosto che nell’impatto di ciascun fattore preso individualmente.
Ancora una volta osserviamo una sorta di tendenza ciclica nello sviluppo del metodo della scienza politica
esattamente come si è visto per il suo oggetto disciplinare.

Dai dati aggregati ai dati individuali…


Per molto tempo, i soli dati disponibili erano quelli raccolti sotto forma di statistiche ufficiali.
Per operare, gli stati avevano bisogno di migliorare la loro conoscenza della società e dell’economia che
erano tenuti a regolare e governare. La democratizzazione diede una grande spinta verso lo sviluppo delle
statistiche, poiché i governi erano sempre più responsabili delle loro azioni: dovevano essere in grado di
produrre prestazioni considerevoli, il che implicava una sistematica raccolta di informazioni. Allo scopo di
soddisfare questa necessità metodi e tecniche per accumulare informazioni vennero grandemente
migliorati.
Le statistiche che venivano raccolte erano legate all’azione economica e militare. La presenza di statistiche
politiche era in certa misura meno comune rispetto a quella di altre categorie.
Le pietre miliari di questo sviluppo sono state l’organizzazione di censimenti regolari e la pubblicazione di
annuari statistici.
Questo tipo di dati sono chiamati dati aggregati perché sono disponibili rispetto a un qualche livello
territoriale: province, regioni, interi paesi. Un esempio tipico di dati aggregati sono i risultati delle elezioni.
Con la rivoluzione comportamentista, comunque, l’approccio alla raccolta dati è cambiato radicalmente.
1. I ricercatori scientifici sono diventati più scettici riguardo alle statistiche ufficiali che, specialmente negli
stati non democratici, sono suscettibili di manipolazione.
2. Le statistiche ufficiali non includono tutte le variabili di interesse per i ricercatori. Da un lato, le statistiche
ufficiali non includono informazioni sugli attori politici. un esempio sono i dati sui partiti politici, i loro
membri e le loro finanze. Dall’altro lato, le statistiche ufficiali non includono informazioni su valori, opinioni,
attitudini e credenze degli individui, competenze e fiducia nelle istituzioni politiche, differenze fra élite e
masse nella preferenze politiche. Per esempio attraverso statistiche ufficiali non sarebbe possibile sapere se
un individuo ha una mentalità di tipo autoritario, se è fortemente religioso e così via.
La rivoluzione comportamentista ha introdotto i sondaggi come strumento sistematico per raccogliere dati
individuali.
3. La raccolta di dati individuali comporta insiemi di dati molto più grandi, dal momento che migliaia di
individui vengono inclusi in un sondaggio. Questo ammontare di dati può essere analizzato solo a seguito
della computerizzazione delle scienze sociali, che ha inizio negli anni 50 del XX secolo.
4. L’anno 1950 fu devastante per l’analisi con dati aggregati. Ciò che è vero a livello aggregato non è
necessariamente vero a livello individuale.

… e ritorno ai dati aggregati


La reazione a questo “shock” iniziò quasi immediatamente. Vennero così creati archivi di dati internazionali.
Gli archivi di dati sviluppati in tutti i paesi sono connessi in una rete globale. Tali sforzi hanno portato a
importanti pubblicazioni di raccolte di dati aggregati e di documentazione.
Organizzazioni internazionali quali l’ONU, L’organizzazione mondiale del commercio, la banca mondiale, il
fondo monetario internazionale, l’organizzazione mondiale della sanità ecc. hanno contribuito a loro volta
con dati aggregati alla creazione di grandi insiemi di dati comparati nei rispettivi settori di competenza.
Tuttavia, è possibile che la ragione principale per una “riscoperta” dell’analisi dei dati aggregati risieda
nell’intrinseca debolezza dei dati a livello individuale. È più difficile costruire lunghe serie temporali con dati
individuali.
I dati aggregati non sono perciò usciti di scena e, al contrario, forniscono basi più solide rispetto a dati
individuali per le comparazioni internazionali di lungo periodo.

CONCLUSIONE
Le varietà della scienza politica
La grande varietà di approcci, metodi e dati della scienza politica corrisponde alla grande varietà di società,
economie, culture e sistemi politici del mondo. Questo manuale si basa sul principio metodologico che
“tutto” sia comparabile. Le comparazioni su larga scala attraverso sia lo spazio che il tempo sono basate
sull’idea che non ci siano limiti alla comparazione.
Non è solo l’ampiezza degli oggetti di studio che conferisce alla scienza politica un carattere di grande
varietà. Tale varietà emerge anche nel disegno di ricerca e nelle strutture teoriche che applichiamo. Oggi,
questa varietà diviene persino maggiore, poiché la scienza politica “invade” sempre più la disciplina delle
relazioni internazionali (e viceversa). I confini tra queste due branche divengono sempre più indistinti.
L’intento della scienza politica è quello proprio di un campo di studio rigoroso, scientifico ed empirico:
descrizione, spiegazione e predizione.

Dalla divergenza alla convergenza…


La scienza politica è figlia naturale della diversità. Non ci sarebbe scienza politica senza la diversità dei
sistemi politici e delle loro caratteristiche. Fino agli anni 50 del XX secolo, la letteratura partiva dal
presupposto che vi sarebbe stata una convergenza verso il modello delle principali liberal democrazie
occidentali. Al contrario, la convergenza non ha avuto luogo e c’è stata invece una divergenza (sotto forma
di modelli alternativi di ordine politico) e ciò ha portato all’attuale sviluppo della scienza politica.
Il ruolo della scienza politica è perciò chiamato in causa in un mondo che è sempre meno diverso. Quale è il
futuro della scienza politica in un mondo globalizzato? La scienza politica si concentra sulle differenze tra
casi analitici. Tuttavia, una tale disciplina come tratta l’esistenza di comunanze, percorsi di omogenizzatine
ed effetti di diffusione? In aggiunta, la scienza politica è stata edificata sull’assunto metodologico che i casi
– ossia, i sistemi politici nazionali – fossero indipendenti l’uno dall’altro.
Tuttavia, è sempre più difficile mantenere una prospettiva di questo genere e infatti processi di contagio tra
i casi violano l’assunto d’indipendenza tra le unità d’analisi. Le unità d’analisi non sono isolare le una dalle
altre. A livello diacronico i fenomeni si diffondono da un caso all’altro.
La maggior parte dei paesi sono oggi sistemi aperti sempre più soggetti a influenze esterne: prendono in
prestito soluzioni e imparano dalle pratiche altrui.
La nostra metodologia corrente è adatta ad analizzare sviluppi comuni, cambiamenti senza variazione fra
casi e situazioni di dipendenza fra essi? Ovviamente, il problema cresce con i processi di
transnazionalizzazione, con il miglioramento delle comunicazioni, con la diffusione dell’informazione e con
l’accelerazione degli scambi. I politologi di stampo comparativista sono consapevoli che i fenomeni sociali
non sono isolati e autosufficienti ma piuttosto influenzati da eventi che hanno luogo in altre società,
talvolta anche assai lontane.

… e ritorno alla divergenza?


Non si dovrebbe dimenticare che mentre ci sono processi di convergenza e omogeneizzazione, ci sono
anche segnali che puntano in altre, divergenti, direzioni. Gli esempi includono: il rinnovato ruolo che la
religione gioca in alcune parti del mondo, la comparsa di forme alternative di democrazie “bolivariane”
neo-populiste in America Latina, Bolivia e Venezuela, ecc.

1. LO STATO NAZIONE
Le unità politiche più importanti del mondo moderno sono generalmente denominate “stati” o “stati-
nazione”. È all’interno degli stati e fra gli stati che si svolge tipicamente l’attività politica contemporanea.

INTRODUZIONE
La maggioranza delle unità politiche (o polity) contemporanee condivide alcuni aspetti che giustificano il
fatto che esse vengano chiamate “stati”.
In tale misura, esse costituiscono odierne manifestazioni di in tipo di polity che si sviluppò originariamente
nel moderno Occidente.
Un approccio coerente in termini di “scienza politica” dovrebbe considerare sia gli elementi costitutivi di
quel tipo di polity, sia i più importanti stadi del suo sviluppo.

LO STATO: UN QUADRO CONCETTUALE


• Monopolio della violenza legittima: internamente, gli stati sono caratterizzati dall’esistenza di un singolo
centro di potere che si riserva la facoltà di controllare, esercitare o minacciare la violenza legittima (mezzo
ultimo dell’attività politica) su un territorio definito. Individui e organizzazioni operanti all’interno di quel
territorio possono occasionalmente esercitare violenza, ma se lo fanno senza mandato o permesso dal
centro di potere quest’ultimo considera illegittimo quell’esercizio e cerca di porvi freno. Tipicamente, esso
impiega il proprio potenziale di violenza per sopraffare la violenza praticata da quegli individui o
organizzazioni e impone loro di “cessare o desistere”. Se esso non può farlo e se nel territorio centri
alternativi di potere possono agire con impunità basandosi sull’assunto che esso è importante. Non si ha
più propriamente uno stato ma qualche altro tipo di polity (al giorno d’oggi si parla spesso si “stati falliti”).
• Territorialità: il territorio in sé è uno degli elementi più significativi dello stato. Per qualificarsi come stato,
la polity non solo deve essere in grado di “mantenere l’ordine” su un dato territorio, sopprimendo qualsiasi
sfida interna che potrebbe emergere rispetto al proprio monopolio della violenza legittima, ma deve anche
rivendicare quel territorio contro tutti i possibili sfidanti come esclusivamente suo, deve essere in grado e
disposto a difenderlo, a sorvegliarne i confini, a fronteggiare e a respingere qualsiasi violazione da parte di
altri stati. Ancora una volta, il mezzo ultimo per tali attività è la violenza organizzata.
La relazione fra stato e territorio è una relazione intima. Il territorio rappresenta la manifestazione fisica
dell’identità stesa dello stato, il fondamento ultimo della sua esistenza e della sua continuità storica. Come
sostenuto dal giurista Santi Romano, lo stato non ha un territorio, piuttosto è un territorio.
• Sovranità: è con riferimento al proprio territorio che lo stato fonda ed esercita la propria sovranità. Per
ogni stato, essere sovrano significa non riconoscere alcun potere superiore a se stesso. Lo stato prende
parte all’attività politica solo ed esclusivamente su proprio mandato, impegna le proprie risorse, agisce di
propria iniziativa e a proprio rischio. Lo stato è il solo giudice dei propri interessi e si assume l’intera
responsabilità per il perseguimento di quegli interessi, a cominciare dalla propria sicurezza. In quanto
sovrano, lo stato mantiene l’autorità ultima sul territorio (e pertanto sulla popolazione che vi risiede).
Sovranità significa anche che nessuno stato accetta interferenze da parte di altri nei suoi affari domestici.
• Pluralità: l’ambiente moderno consiste in una pluralità di stati territoriali distinti, che si affermano, si
organizzano e si difendono in maniera autonoma. Ciascuno di essi presuppone l’esistenza di tutti gli altri ed
è in principio il loro uguale, poiché condivide con essi (e riconosce in essi) le sue stesse caratteristiche, e la
sovranità in particolare. Poiché al di sopra degli stati non esiste un livello di autorità più elevato – un’unità
superiore dotata di mezzi propri per la violenza con il diritto a supervisionare e controllare gli stati – questi
necessariamente tendono a considerarsi l’un l’altro come potenzialmente ostili, come minacce incombenti
alla propria sicurezza, ed entrano in relazione l’un con l’altro innanzitutto per neutralizzare o per
fronteggiare e sconfiggere quelle minacce (li tratta quindi come antagonisti, alleati o soggetti neutrali).
• Relazione con la popolazione: gli stati esercitano il potere sopra una popolazione, impartiscono ordini e si
aspettano obbedienza dalla popolazione, perseguono politiche vincolanti per la popolazione. Tuttavia, gli
stati, benché talvolta sembrino presentarsi come entità a sé stanti e dotate di personalità propria, sono essi
stessi costituiti da persone e operano esclusivamente nell’ambito e attraverso l’attività degli individui. A
tale riguardo l’esistenza stessa degli stati implica una forma di diseguaglianza sociale, una più o meno
stabile e pronunciata asimmetria tra individui che esercitano il governo (una minoranza) e individui soggetti
a esso (la grande maggioranza). Tale asimmetria è in una certa misura legata e giustificata dall’impressione
che le due parti in questione siano complementari e congiuntamente costituiscano un’entità collettiva.
Assieme alla minoranza che governa, la popolazione dei governanti forma una comunità politica. Per questa
comunità le attività di governo rappresentano un mezzo per esistere, per raggiungere e mantenere
un’identità condivisa, per perseguire interessi ce si presuppone siano comuni. Come nel caso del territorio,
la popolazione non è percepita come una mera entità demografica, ma come un popolo. In quanto tale,
essa intrattiene una relazione più significativa, più intima, si potrebbe dire costitutiva, con lo stato stesso.

UN CONCETTO PIU AMPIO


In economia e società, Max Weber definisce così il concetto di stato:
“ le caratteristiche formali principali dello stato moderno sono le seguenti: esso possiede un ordinamento
amministrativo e legale che può essere modificato tramite la legislazione, verso cui sono orientate le attività
organizzate dello staff amministrativo, anch’esse regolamentate in modo formale. Questo sistema di ordinamento
afferma la propria autorità non solo sui membri dello stato, i cittadini, la maggior parte dei quali vi appartiene per
nascita, ma anche in larga misura su tutte le azioni che hanno luogo nella sua area di giurisdizione. È perciò
un’organizzazione obbligatoria con una base territoriale. Inoltre, oggi l’uso della forza è considerato legittimo sono
nella misura in cui è permesso dallo stato o da esso prescritto”

Questa definizione mette in evidenza alcune caratteristiche ulteriori degli stati attivi nel XIX e XX secolo,
anche se naturalmente i vari stati le condividono in misura e in modi differente da caso a caso. Questa
diversità è il tema principiale di studio della scienza politica.

1. Il ruolo dell’ordinamento giuridico


possiamo iniziare notando che la legge, intesa come un insieme di comandi e proibizioni generali esecutive,
ha giocato un ruolo significativo nella costruzione e nella gestione degli stati. In tutte le società, la legge così
intesa ha svolto principalmente due funzioni: primo, reprimere comportamenti antisociali; secondo,
ripartire fra gruppi o individui l’accesso e l’utilizzo di risorse materiali. Nel mondo occidentale, tuttavia, la
legge è stata destinata a un terzo uso: fondare polity, implementare decisioni di natura politica, istituire
agenzie e uffici pubblici, organizzare e controllare le loro operazioni.
Questi usi peculiari del diritto si affermarono per la prima volta nelle polis greche, poi nella Repubblica e
nell’Impero romani.
Il ruolo dei governanti era molto più limitato: essi perlopiù implementavano i verdetti di giudici e giurie.
Successivamente questo assetto cambiò. I governanti s’impegnarono per assumere un ruolo legale più
attivo. Sempre più assistiti da funzionari con una preparazione specifica, cominciarono a codificare gli usi e
costumi locali, applicandoli uniformemente sul territorio. Soprattutto, si affermano come la fonte di un
nuovo tipo di legge, il diritto pubblico.
Avremo poi due successivi sviluppi. Da un lato, si iniziò a sostenere che tutte le leggi erano tali solo nella
misura in cui erano prodotte dallo stato tramite organi e procedure speciali: la legge era diventata, per così
dire, l’ambito esclusivo dello stato. Dall’altro lato, lo stato si dichiarava vincolato dalla sue stesse leggi; le
attività dei suoi organi e i comandi dei pubblici ufficiali erano considerati validi solo se il loro continuo o, più
spesso, i modi in cui venivano prodotti erano conformi ad alcuni ben precisi principi legali, come quelli
contenuti nelle costituzione. Specie nel continente europeo, una formazione universitaria in ambito
giuridico divenne la qualifica standard per quanti aspirassero a entrare negli apparati amministrativi dello
stato. In misura variabile nel tempo e da regione a regione, lo stato – senza comunque cessare di affermare
i propri fondamenti in termini di mero potere – venne coinvolto nella produzione e implementazione si
assetti che trovarono espressione attraverso strumenti legali di diverso tipo: costituzioni, statuti, decreti,
sentenze, ordinanze e leggi sussidiarie.

2. L’organizzazione centralizzata e gerarchizzata


Questi strumenti no non stanno sullo stesso piano, ma creano una gerarchia di fonti giuridiche più o meno
esplicita e vincolante. Tipicamente, la costituzione sta al vertice, le leggi sussidiarie stanno al di sotto degli
statuti, e così via. Ciò è vero da tre diversi punti di vista, tra loro strettamente correlati.
1) fonti giuridiche superiori legittimano e pongono limiti su fonti giuridiche inferiori.
2) i prodotti di fonti giuridiche inferiori possono cambiare senza alterare il contenuto di quelle superiori ,
ma sonno articolarle e specificarle in modi diversi e varabile.
3) nel caso in cui si verifichi un contrasto fra il contenuto di una fonte giuridica superiore e quello di una
fonte inferiore, quella inferiore viene invalidata. Organi giudiziari differenti hanno facoltà di emettere
sentenze di diversa portata o gravità. Quelli superiori possono riesaminare e annullare o rettificare le
sentenze di quelli inferiori.
Questo asseto gerarchico è volto a portare unità e coerenza a una varietà di strumenti legali e organi
collegati tra loro.
Più in generale, il modello organizzativo dello stato rivela di rispondere soprattutto a criteri di razionalità
gestionale piuttosto che legale.

3. La distinzione fra stato e società


La distinzione fra “stato” e “società (civile)”, teorizzata fra gli altri da Hegel, si riflette più o meno
espressamente nella costituzione di molti stati occidentali. Lo stato, in linea di principio, è un insieme di
assetti e pratiche istituzionali che riguardano tutti e solamente gli aspetti politici della gestione di una
società delimitata territorialmente. Rappresenta e giustifica se stesso come un ambito di attività
espressamente politiche (legislazione, giurisdizione, polizia, azione militare, politiche pubbliche),
complementari a un ambito diverso – la società – comprendente una varietà di attività sociali che non sono
considerate politiche i natura e che gli organi dello stato non promuovono e controllano espressamente. Gli
individui intraprendono quelle attività come privati, perseguendo valori e interessi propri e stabilendo fra di
sé dei rapporti che non sono di interesse delle politiche pubbliche. Al centro dell’ambito sociale stanno due
serie di questioni che per lungo tempo lo stato considerò di propria competenza, ma che successivamente,
in seguito a processi lunghi e complessi, abbandonò.

4. La religione è il mercato
Per prima cosa, lo stato diviene sempre più secolare – vale a dire che esso progressivamente abbandona
ogni preoccupazione circa il benessere spirituale degli individui, che in precedenza aveva invece promosso,
in genere privilegiando (e professando) una religione e associandosi a una confessione. Una delle cause
fondamentali di questo sviluppo fu il collasso dell’unità religiosa dell’Occidente causato dalla Riforma
protestante.
In secondo luogo, lo stato affida progressivamente alle due istituzioni centrali del diritto privato – proprietà
e contratto – la disciplina legale delle attività che riguardano la produzione e la distribuzione di ricchezza e
che sempre più sono allocate tramite il mercato. Il governi, la religione e l’economia, così differenziati,
possono ciascuno affermare la propria autonomia e sviluppare la propria razionalità.
Questi ambiti non stanno sullo stesso piano. Uno dei significati di sovranità è che l’interesse specifico dello
stato per la sicurezza esterna e l’ordine pubblico può essere anteposto a quello degli individui privati,
specialmente nell’affrontare le emergenze. Inoltre, le attività private sono svolte entro una cornice di
norme pubbliche della cui promulgazione e implementazione lo stato è responsabile.
Allo stesso modo, è prerogativa dello stato finanziare le proprie attività estraendo risorse da l'economia.
Tipicamente lo stato moderno è uno "stato fiscale": estrae risorse del sistema economico perlopiù sotto
forma di denaro regolarmente riscosso da depositi e flussi di ricchezza privata. Queste riscossioni,
autorizzate dalla legge ed eseguite da funzionari pubblici, sono compatibili con la garanzia della proprietà
privata e con l'autonomia del mercato. La denominazione stessa di un'altra forma di estrazione sussidiaria,
il debito pubblico, sottolinea quella compatibilità: individui privati diventano creditori dello stato. Inoltre, lo
stato-svolge un ruolo indispensabile nell'emettere e garantire moneta, ma non è suo compito quello di
allocare la ricchezza accumulata è veicolata per mezzo di quella stessa moneta.
Con il procedere della modernizzazione, la distinzione fra stato e società è resa più profonda da ulteriori
processi di differenziazione che hanno luogo in entrambi gli ambiti. Per esempio, all'interno della società
civile emerge un ambito, la scienza, che i occupa espressamente ed esclusivamente della produzione e
distribuzione del sapere secolare riguardo alla natura, in autonomia dalle autorità religiose. All'interno dello
stato stesso, la cosiddetta "separazione dei poteri" tra legislativo, giudiziario ed esecutivo è l'esito di un
processo di differenziazione. Processi di differenziazione sono in atto anche in seno al potere esecutivo, con
l'emergere di temi amministrativi burocratici. Di conseguenza, lo stato si presenta sempre più come un
complesso di parti volutamente differenziate e coordinate, ciascuna designata a svolgere uno specifico
compito. L'immagine dello stato come una macchina e la rilevanza sempre maggiore che acquisisce il
lessico dell'organizzazione ben esemplificano queste dinamiche.

5. La sfera pubblica
La formazione della "sfera pubblica" come una sorta di perno fra stato e società. I soggetti che sono attivi al
suo interno acquisiscono una capacità in primo luogo di osservare le attività dello stato, poi di comunicare
l'uno con l'altro riguardo a esse, di criticarle e infine di portare significativi contributi alle stesse. All'inizio
questo è possibile solo per una ristretta minoranza all'interno della popolazione che di sponde del tempo e
delle risorse materiali e culturali necessarie. Ma sul lungo periodo quella minoranza cresce.
La sfera pubblica comprende istituzioni come la libertà di parola, di stampa, di assemblea, di associazione,
regole che richiedono ad alcuni organi dello stato di condurre le proprie attività in pubblico esponendole a
dibattiti e a critiche legittime, e soprattutto le istituzioni del governo rappresentativo".

6. Assetti liberali e democratici per la partecipazione


La selezione di quelle piccole minoranze che manovrano direttamente viene a dipendere dalle preferenze
periodicamente espresse da quel numero molto più ampio di individui che costituisce l'elettorato. All’inizio
solo una ristretta minoranza della popolazione può formare ed esprimere queste preferenze, e anche se
con il progresso del liberalismo quella minoranza cresce, essa per un lungo periodo rimane limitata da due
requisiti: possedimenti materiali (voto di censo) e il livello culturale (voto di capacità).
Possiamo caratterizzare il progresso della democrazia come il graduale abbassamento e in seguito
l’eliminazione di quelle barriere. Nel lungo periodo, la grande maggioranza della popolazione adulta (per
lungo tempo in molti paesi, donne escluse) acquisisce, attraverso il suffragio, una eguale (benché minima)
capacità di esprimere preferenze e d’influenzare di conseguenza la selezione delle élite politiche e la
elaborazione delle politiche pubbliche. La elaborazione delle politiche pubbliche è il frutto della
“contrapposizione elettorale, ma anche il diritto del partito che è stato sconfitto in una data competizione
di criticare le politiche del partito vincitore, proporre politiche alternative e cercare di vincere la
competizione successiva.

7. Il fardello del conflitto


Attraverso la sfera pubblica i contrasti di opinione su questioni politiche emerse all'interno della società si
proiettano essi stessi sullo stato, influenzando le operazioni dei suoi organi legislativi e di quelli incaricati di
avviare e implementare le politiche. Tali contrasti anche non generalmente no si esprimono attraverso la
violenza organizzata (dato il monopolio di questa da parte dello stato), possono essere aspri e disgreganti,
poiché schieramenti dichiaratamente politici come i partiti spesso derivano i loro orientamenti conflittuali
sulle politiche da profonde e durature fratture sociali all'interno della popolazione. Tali fratture non
rappresentano solo differenti orientamenti di opinione riguardo a questioni individuali, ma talvolta
riflettono profonde differenze culturali (per ex. Tra gruppi religiosi o linguistici), tensioni fra centro di un
paese e la sua periferia, differenze etniche, oppure acuti antagonismi di classe.
8. Cittadinanza e nazione
Nella maggioranza degli Stati moderni, questa minaccia è fronteggiata attraverso due strategie differenti:
1. Cittadinanza: la prima strategia consiste nell’istituzione della cittadinanza, la quale trova la sua
espressione primigenia nella massima “tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge”. Nel tempo, il principio
venne a significare la progressiva inclusione di tutti gli individui che costituiscono il popolo in una relazione
formalmente uguale con lo stato stesso. Il fatto che gli individui si ritrovassero sottoposti agli stessi obblighi
e che godessero degli stessi diritti verso lo stato contribuiva a farli sentire più uguali l’uno all’altro. Inoltre i
loro diritti che riguardavano la sfera pubblica finirono per plasmare un nuovo principio di uguaglianza,
associato con il progresso della democrazia, originariamente riassunto nella formula “una testa, un voto”.
In virtù di questo principio, masse di individui sempre più ampie entrarono nel processo politico e diedero
un loro contributo alle attività dello stato tramite la competizione di partiti. Quelli supportati
principalmente da strati social economicamente svantaggiati promuovevano politiche pubbliche – welfare
state – che allargavano il concetto di cittadinanza a nuovi diritti nei confronti dello stato. Tali diritti
riducevano o compensavano le diseguaglianze tra gli individui generate dai meccanismi del sistema di
mercato e dalle fratture di classe che ne derivano. Di conseguenza quelle fratture persero molto del proprio
potenziale di minaccia per l’unità dello stato.
2. Nazionalità: la seconda strategia cerca di generare nell’intera società, al di là delle appartenenze di
classe, un senso di solidarietà condiviso, fondato sulla nazionalità. Ci si aspetta che la comunità politica
tipica degli stati moderni costituisca una nazione. La maggior parte delle polity definisce se stessa come
stato-nazione: le relazioni degli stati tra loro costituiscono la politica internazionale. Il perseguimento
dell’interesse nazionale da parte di ciascuno stato è ritenuto essere il fondamento logico chiave di queste
relazioni. Infine la più grande organizzazione internazionale nell’ambiente politico contemporaneo si
chiama nazioni unite. Inoltre il nazionalismo è ampiamente considerato (nel bene e nel male) come una
delle determinanti più significative dell’attività politica. Per questi motivi, il concetto di nazione è
notoriamente difficile da definire.

Il quadro concettuale: una sintesi


Il contesto politico moderno è composto da una pluralità di Stati che condividono alcune caratteristiche
formali.
Grazie al suo monopolio della violenza legittima e organizzata, ogni stato esercita un onere sovrano su una
popolazione che abita in un territorio delimitato e costituisce una comunità politica, spesso chiamata
nazione. Le iterazioni fra Stati sono normalmente pacifiche, ma poiché non sono supervisionate e regolate
da un potere superiore capace di imporre sanzioni, tali interazioni dipendono dalla potenza che ciascuno
stato può impiegare per opporsi o avere la meglio su altri Stati che perseguono interessi opposti ai propri.
Così quelle interazioni sono altamente contingenti e possono essere ridefinite dalla minaccia o
dall'attuazione di azioni militari tra gli stati coinvolti.
Nel corso degli ultimi due o tre secoli, molti Stati hanno acquisito tratti aggiuntivi.
La loro struttura interna è generalmente architettata e controllata sulla base di leggi che ciascuno stato
produce e rinforza, ma che a loro volta regolano le attività dello stato stesso. Tali attività sono molte diverse
e sono generalmente svolte da una serie di organismi e agenzie specializzate. Quest'ultimi si occupano dire
attente di questioni che lo stato considera di valore pubblico, mentre quelle questioni che costituiscono gli
interessi della società civile vengono lasciate all'iniziativa individuale.
Tuttavia, alcune attività statali, incluse la produzione delle leggi e la loro applicazione, definiscono delle
strutture per il perseguimento degli interessi individuali. Inoltre, le istituzioni della sfera pubblica possono
contribuire a far sì che gli individui si dormono e si scambino opinioni sulle politiche statali e si organizzano
in partiti che rappresentano diversi (e spesso contrastanti) interessi presenti all'interno della società,
selezionano il reso alle dei vari organismi statali e impongono le proprie politiche.
Nel corso degli ultimi due secoli, la maggior parte degli Stati ha attribuito agli individui che fanno tre delle
proprie popolazioni un insieme variabile di diritti di cittadinanza, a partire da quelli relativi alla sfera
pubblica, e comprendenti rivendicazioni di vari benefici e servizi forniti dallo stato, ma in ottima istanza
finanziati dai proventi della tassazione imposta dallo stato.
L'allargamento del concetto di cittadinanza ha spesso comportato il rendere le differenze socio-economiche
fra individui una questione pubblica e il mettere in atto politiche pubbliche per attenuarle. Per questa
ragione lo stato è stato spesso conte stato.

SVILUPPO DELLO STATO


Percorsi di formazione dello stato
Si possono distinguere almeno 5 percorsi nella formazione dello stato.

1. Attraverso la monarchia assoluta, che ottenne un potere indipendente creando eserciti e burocrazie
responsabili esclusivamente nei confronti del monarca (Francia, Prussia)

2. Attraverso monarchie costituzionali (in cui i sovrani si confrontavano con assemblee rappresentative e
successivamente, all'interno di esse, partiti politici), che svilupparono forza sufficiente per diventare
poteri indipendenti (Inghilterra, Svezia)

3. Dal basso, attraverso confederazioni o federazioni, caratterizzate dal mantenimento di una effettiva
autonomia degli "Stati" costituenti e un enfasi generale sulla divisione del potere centrale attraverso
"pesi e contrappesi" (Svizzera, USA)

4. Tramite conquista e o unificazione (Germania, Italia)

5. Tramite indipendenza (Irlanda, Norvegia e casi di frammentazione di imperi, come quello asburgico e
ottomano)

*in alcuni casi la costruzione dello stato precedette la costruzione della nazione, in altri casi fu l'opposto.

Si posano distinguere all'interno della storia dello stato moderno, 3 fasi principali, che diversi Stati europei
hanno attraversato in una sequenza piuttosto variabile.
• Consolidamento del governo: prima fase che ha luogo principalmente tra il XII è il XVII secolo. Durante
questo periodo, diminuisce il numero complessivo di centri politici esistenti, e quelli che restano estendono
il proprio controllo su una porzione sempre più ampia dell'Europa. Tipicamente, ciascuno di essi amplia la
portata territoriale del proprio monopolio della violenza legittima e la impone su altri centri. La mappa
politica del continente diviene sempre più semplice, poiché ogni centro ora governa, in maniera più
uniforme, su territori sempre più vasti. Inoltre, questi ultimi tendono a diventare geograficamente più
continui e più stabili nel tempo.
Talvolta i processi di consolidamento Sono pacifici. Tuttavia, il consolidamento è generalmente l'esito di
conflitti aperti tra due centri diversi riguardo a chi controllerà quale territorio. Tali conflitti sono solitamente
risolti tramite la guerra, seguita dalla conquista e dall’annessione forzata da parte del vincitore di tutto o
parte del territorio dello sconfitto.
Un ruolo decisivo nel consolidamento del governo è quindi giocato dalle risorse militari. Tuttavia, queste a
loro volta richiedono “le energie della guerra”, cioè la capacità finanziaria di radunare queste risorse –
truppe, ufficiali, equipaggiamento bellico – e di dispiegarle contro gli avversari, facendole prevalere nello
scontro delle armi sulle risorse messe in campo dal nemico.
Il ricorso alla guerra, per quanto frequente attraverso tutta la storia europea, avviene tuttavia in maniera
intermittente. Quando le armi sono silenziose, sia pur temporaneamente, entrano in gioco risorse di
diversa natura. Spesso, i centri politici che sono intenti al consolidamento di governo lo fanno in risposta a
un appello alla pace, un fenomeno estremamente ricorrente nella storia europea, spesso promosso da
leader religiosi. Ciascun centro sostiene (e cerca di dimostrare) che stabilendo il proprio controllo su un
territorio più grande può mettere fine alle rivalità fra poteri minori che altrimenti causerebbero la guerra.
Questo non necessariamente implica il prevalere su questi poteri per mezzo delle armi. L’azione
diplomatica, il gioco delle alleanze e delle coalizioni, l’abilità di isolare gli avversari o di far loro accettare un
certo grado di subordinazione, talvolta il ricorso all’arbitrato dell’impero o del papato, possono avere
anch’essi un ruolo.
• Razionalizzazione del governo: possiamo distinguere tre aspetti del processo di razionalizzazione: (1)
centralizzazione, (2) gerarchia e (3) funzione.
- Centralizzazione: nel consolidamento e nell’esercizio del governo, i governanti si avvalsero in larga misura
della cooperazione di vari centri di potere, subordinati ma privilegiati – principalmente dinastie
aristocratiche, villaggi, vescovi ecc. Spesso quella cooperazione si instaurava solo dopo che i poteri
subordinati erano stati costretti a rinunciare ad alcuni dei loro privilegi. Nondimeno la loro successiva
cooperazione generalmente doveva essere negoziata , poiché questi poteri sub statali mantenevano un
grado di controllo autonomo su varie risorse e le gestivano in prima istanza per proprio conto. Potevano
essere indotti ad agire per conto del governante solo a certe condizioni, sancite dalla tradizione o da
espliciti accordi tra essi stessi e il governante. Per esempio, i poteri inferiori coinvolti nella cooperazione
potevano estrarre risorse economiche dalla popolazione locale posta sotto la propria giurisdizione per poi
cederle al governante. Tuttavia essi erano disposti a cooperare solo nel caso in cui fossero in sintonia con lo
scopo per il quale il governante intendeva impegnare quelle risorse. Essi spesso tenevano una parte
piuttosto sostanziosa di quelle risorse per sé e controllavano i modi in cui il resto di esse era gestito e
spesso a livello locale.
Ovviamente tali accordi limitavano considerevolmente la libertà d’azione dei governanti, la loro capacità di
stabilire politiche per lo stato nel suo complesso e di vederle eseguite in maniera pronta, affidabile e
uniforme su tutto il territorio.
Per rimediare a questa situazione, i governanti progressivamente espropriarono gli individui e gli organismi
in questione delle loro facoltà e degli strumenti che essi avevano precedentemente impiegato per svolgere
sia quei compiti, sia quelli richiesti da nuove circostanze. Essi definirono assetti alternativi per svolgere sia
quei compiti, sia quelli richiesti da nuove circostanze. Invece di far affidamento su quegli individui e quegli
organismi con cui avevano precedentemente cooperato, scelsero di avvalersi di agenti e agenzie, cioè
individui e organismi che i governanti selezionavano, legittimavano, organizzavano, controllavano,
finanziavano, disciplinavano e premiavano in prima persona. In altri termini i governanti costruirono le
burocrazie.
@ Lo stato burocratico @
quando prevale lo stato di diritto, un’organizzazione burocratica è governata dai principi elencanti di
seguito.
1. Gli affari ufficiali sono condotti su base continuativa
2. Ci sono regole in un organismo amministrativo tali per cui: (1) il dovere di ciascun funzionario di svolgere
certi tipi di lavoro è definito da criteri impersonali, (2) al funzionario è data l’autorità necessaria a svolgere
le funzioni a lui/lei assegnate, (3) i mezzi di coercizione a sua disposizione sono strettamente limitati.
3. Le responsabilità e l’autorità ufficiali sono parte di una gerarchia.
4. I funzionari non possiedono le risorse necessarie per lo svolgimento delle loro funzioni, ma sono
responsabili del loro uso. Gli affari ufficiali e privati sono strettamente separati.
5. I titolari non possono appropriarsi degli uffici come fossero proprietà privata che può essere venduta o
ereditata.
6. Gli affari ufficiali sono condotti sulla base di documenti scritti.

I governanti arrivano effettivamente a sorvegliare, controllare e in una certa misura, gestire la vita sociale in
generale in una maniera sempre più intensa, continuativa, sistematica, intenzionale e pervasiva. Tuttavia,
per essere legittimo. Il governo deve apparire orientato a perseguire quegli interessi che sono riconosciuti
come generali, e deve essere esercitato in un modo sempre più impersonale e formale.
La razionalizzazione del governo è essa stessa parte di un più ampio processo di razionalizzazione del vivere
sociale in generale. Ciascuna delle grandi sfere della società (politica, economia e religione) diviene di
esclusiva competenza di un ben distinto complesso istituzionale: un insieme di assetti, personale, risorse,
principi e modelli di attività.
- Gerarchia: nel contesto politico, la razionalizzazione modifica la base dell’esercizio abitudinale del potere.
Come abbiamo visto, quella base era costituita tradizionalmente da diritti e benefici di un certo numero di
individui e organismi privilegiati. La nuova base consiste in doveri e obblighi di individui nominati
appositamente per determinati uffici. Le loro attività politiche e amministrative possono essere pianificate
dall’alto tramite direttive esplicite. Le direttive stesse hanno due caratteristiche fondamentali: tendono ad
essere generali, cioè si riferiscono in termini astratti a una varietà di circostanze concrete, e il loro
contenuto può cambiare legittimamente e così rispondere a nuove circostanze,
Perché ciò accada, i nuovi insiemi di individui che svolgono attività politiche e amministrative – le unità
burocratiche – devono essere strutturati gerarchicamente. Alla base della struttura, anche i funzionari di
basso livello sono autorizzati a dare ordini a quelli che sottostanno alla stessa struttura. Tuttavia, quegli
stessi funzionari sono comunque tenuti a rispettare le direttive dei superiori. Tale assetto, replicato a vari
livelli entro l’intera struttura, porta alla costituzione di un ordinamento in cui gli uffici superiori
supervisionano, attivano e dirigono quelli inferiori. Parallelamente, gli uffici inferiori informano quelli
superiori – formulano proposte su come affrontare le situazioni – e quelli superiori prendono decisioni e le
trasmettono a quelli inferiori perché vengano messe in atto.
Come già indicato, il diritto gioca un ruolo significativo nello strutturare questi assetti di governo.
Innanzitutto il diritto è esso stesso un insieme gerarchicamente strutturato di comandi ufficiali. In secondo
luogo, il diritto può essere insegnato e appreso.
Questo secondo aspetto del diritto illustra un elemento più generale della razionalizzazione del governo: il
crescente ruolo del sapere nel governo e nell’amministrazione dello stato. Poiché col tempo i governanti
fanno sempre meno ricorso alla cooperazione di individui e organismi privilegiati, i funzionari che li
rimpiazzano sono prevalentemente scelti sulla base di ciò che sanno e sulla base dei loro titoli accademici e
di test di selezione. Ci si attende che i funzionari orientino le pratiche di governo sempre meno a seconda
delle proprie preferenze individuali o di tradizione e costumi locali, e invece sempre più a partire da un
sapere sistematico e propriamente imparato appreso.
- Funzione: un altro principio che struttura il sistema centralizzato degli uffici è la funzione: il sistema è
differenziato interamente per far sì che ciascuna parte si occupi nella maniera migliore di un compito
specifico. A questo scopo, le componenti del sistema devono possedere risorse di diverso genere. L’intera
struttura è fatta funzionare e controllata non solo dal sapere ma dal denaro, principalmente acquisito
tramite la tassazione.
Oggi, le agenzie operano spendendo fondi pubblici allocati loro sulla base di decisioni esplicite e periodiche
(i bilanci) e sono ritenute responsabili per come quei fondi sono spesi. I titolari di uffici sono tipicamente
remunerati, gestiscono risorse che non appartengono a loro personalmente ma ai loro uffici e,
nell’adempire ai propri doveri, ci si attende che non cerchino alcun guadagno personale, salvo sotto forma
di avanzamento di carriera.
Nella misura in cui è razionalizzato, l’esercizio del governo diviene maggiormente compatibile con il
perseguimento degli interessi privati individuali in seno alla società civile. Dalla prospettiva di quegli
individui, il governo, così come viene esercitato dai funzionari, appare standardizzato e prevedibile, ed è
possibile rimediare a deviazioni occasionali dalle regole.
• Espansione del governo: nella terza fase, gli stati sono caratterizzati da uno sviluppo che possiamo
chiamare “l’espansione del governo”. Per secoli, le attività di ciascuno stato erano orientate da due
principali preoccupazioni.
1. Sulla scena internazionale, esso cercava principalmente di proteggersi dalla violazione da parte di altri
stati del proprio territorio e della propria capacità di definire e perseguire autonomamente i propri
interessi.
2. Entro il suo territorio, esso si impegnava al mantenimento dell’ordine pubblico e dell’efficacia delle sue
leggi.
Nella seconda metà del XIX e nel corso di gran parte del XX secolo gli stati ampliarono le loro attività di
governo fino ad abbracciare una sempre più diversa gamma di interessi sociali.
Essenzialmente, lo stato non si limita più semplicemente a regolare tramite la legislazione le iniziative
autonome degli individui o dei gruppi, oppure a sanzionare i loro accordi privati attraverso il proprio
sistema giuridico. Sempre più, lo stato interviene negli affari privati modificando quegli accordi o
raccogliendo risorse più ingenti per poi distribuirle in misura maggiore a qualche gruppo sociale piuttosto
che ad altri inoltre cerca di gestire le attività sociali a seconda del proprio giudizio e delle proprie
preferenze, poiché considera l’esito di quelle attività come una questione di legittimo interesse pubblico,
che dovrebbe riflettere un interesse più ampio ed elevato.
L’espansione del governo modifica profondamente la relazione fra stato e società caratteristica della fase
precedente. Possiamo classificare la maggior parte delle spiegazioni di questo processo a seconda che esse
individuino la principale spinta all’espansione nello stato o nella società.
Tali spiegazioni si articolano in vari modi:
1. Una prima interpretazione imputa alla macchina ammnistrativa dello stato una tendenza intrinseca a
crescere, ad avvalersi di maggiori risorse, a farsi carico di più compiti.
2. Una seconda spiegazione individua la principale ragione per l’espansione dello stato nelle dinamiche
della democrazia rappresentativa e della politica competitiva. Detto in maniera semplice, un partito escluso
dal potere ha interesse a incrementare il proprio supporto promettendo, una volta eletto al potere, di
dedicare più risorse pubbliche a questa o quella nuova attività statale, promuovendo così gli interessi dei
gruppi sociali che avranno risposto al suo appello.
3. Questa interpretazione è strettamente correlata a una terza che imputa l’espansione dello stato
principalmente ai fenomeni collocati sul versante sociale della dicotomia stato/società. In quest’ottica, i
gruppi svantaggiati sono quelli che potrebbero trarre i maggiori benefici dall’espansione dello stato e così la
richiedono e la favoriscono attraverso il loro voto e altre forme di mobilitazione.
4. Tuttavia, secondo una quarta interpretazione, molti aspetti dell’espansione dello stato consolidano
direttamente o indirettamente ì, anziché correggere e contrastare, i meccanismi dell’economia di mercato,
facendo gli interessi in primo luogo delle imprese e dei datori di lavoro.
Qualunque sia la ragione, l’espansione dello stato implica una crescita di 3 aspetti interdipendenti:
- il prelievo fiscale, cioè la quota del prodotto annuale di un paese estratta e gestita dallo stato.
- il grado di differenziazione interna della macchina organizzativa dello stato
- il numero totale di individui che quelle unità impiegano e che possiedono qualifiche e abilità sempre più
diversificate.
2. LE DEMOCRAZIE
Dopo aver costituito meno di un regime su quattro a livello mondiale negli anni cinquanta e sessanta del XX
secolo, le democrazie oggi ne rappresentano quasi tre su quattro.
Quello che un tempo era un gruppo piccolo e omogeneo di regimi democratici è ora divenuto grande ed
eterogeneo. Perciò, le tipologie e le classificazioni sono importanti per capire come funzionano le
democrazie.

COMPARARE LE DEMOCRAZIE
Ci sono almeno 4 fattori importanti, tra loro collegati, che hanno contribuito a questo nuovo interesse verso
la comparazione delle democrazie.

1. La comparazione dei regimi


Il primo fattore proviene dall’ambito accademico stesso, con due importanti studi pubblicati nei primi anni
80 del XX secolo di Powell (1982) e Lijphart (1984), che cercavano di caratterizzate e comprare i regimi
democratici e le strutture istituzionali nel loro complesso.
Nel caso di Lijphart, questo approccio lo ha portato a elaborare la distinzione più onnicomprensiva tra
modelli di democrazia maggioritaria e consensuale, che si è rivelata un contributo assai influente alla
letteratura sulla democrazia comparata sia nella prima versione del 1984, sia nella versione rivista ed estesa
pubblicata in seguito (Lijphart 1999). Questo studio ha incoraggiato anche altri studiosi a pensare alle
democrazie in termini più dettagliati e a tentare di misurare la loro sopravvivenza e il loro impatto nei
termini dell’intero complesso di istituzioni che erano coinvolte.

2. La “terza ondata” di democratizzazione


Il secondo fondamentale impulso è venuto dalla “terza ondata” di democratizzazione e, in particolare,
dall’esplosione dei processi di transizione alla democrazia che si verificò con, e subito dopo, la caduta del
muro di Berlino nel 1989.
*Tabella 2.1 – modelli di democrazia maggioritaria e consensuale pagina 72
In uno studio molto influente pubblicato poco dopo la caduta del muro, Samuel Huntington (1991)
sosteneva che la democratizzazione si è storicamente sviluppata in una serie di esplosioni o “ondate”,
laddove un’ondata di democratizzazione veniva definita come “un gruppo di transizioni da regimi non-
democratici a democratici che si verifica entro uno specifico periodo di tempo e che supera
significativamente in numero le transizioni nell’opposta direzione”. La democratizzazione si è affermata
attraverso flussi e riflussi. Le numerose transizioni alla democrazia sono state seguite da un più piccolo
numero di transizioni in senso contrario, verso alternative non democratiche. Secondo Huntigton
• Prima ondata: durò dal 1826-1926. È una data che caratterizza il cuore del modo occidentale dove si
affermano le prime democrazie come evoluzione dello stato liberale (dalla rivoluzione francese alla
rivoluzione inglese).
• Primo riflusso: anni '20 e '30 del XX secolo. Colpisce i paesi che non hanno sviluppato in maniera adeguata
la logica dell'opposizione. Riguarda la Germania, l'Italia e la Spagna.
• Seconda ondata: dopo la 2GM.
• Secondo riflusso: anni '60 e '70 del XX secolo. Caso della Grecia perché si afferma una dittatura militare
guidata da colonnelli. (L'Italia non rientra in questo riflusso)
• Terza ondata: Portogallo 1974 (ancora in corso al momento della pubblicazione del libro). Un giovane
gruppo di militari decide di sovvertire la dittatura di Salazar. La terza ondata raggiunse proporzioni
esplosive dopo il 1989.
→ Similitudini e differenze tra le prime, seconde e terze ondate:
Geograficamente localizzate in zone diverse e in tempi diversi.
Sono processi che avvengono in contesti diversi, che toccano culture diverse.
*Entro la fine del secolo il numero delle democrazie era rapidamente cresciuto, arrivando a costruire quasi
il 75% dei paesi a livello mondiale.
All’interno di questo universo in espansione, le democrazie inevitabilmente presentavano un’immensa
varietà di strutture e forme istituzionali. Avendo adesso a disposizione più casi e una maggiore varietà, è
divenuto più importante classificare le democrazie e distinguere le loro variazione. Come sostenuto da
Linz, “il fatto che attualmente non ci sia alternativa alla democrazia come principio di legittimità e che così
tanti paesi abbiano intrapreso una transizione alla democrazia, ci spinge a guardare più da vicino alla
varietà di democrazie e ai modi in cui funzionano”

3. L’ingegneria istituzionale
Il terzo impulso fondamentale si collegava anche all’evidente mancanza di esperienza democratica in molti
dei paesi che stavano effettuando questa transizione, portando a una grande ripresa dell’interesse concreto
verso le questioni di “ingegneria istituzionale” (Sartori 1994). Nel costruire democrazie da zero, diventava
cruciale per gli estensori delle costituzioni raccogliere indicazioni riguardo le probabili implicazioni di
particolari scelte istituzionali, mentre il processo rappresentava anche un laboratorio nuovo e senza
precedenti nel quale gli studiosi potevano testare teorie riguardanti le cause e le conseguenze della
progettazione concreta delle democrazie. La questione fondamentale diventava quella di valutare i
differenti modelli di democrazia nei termini della loro efficienza, stabilità e legittimità.
Coloro che si occupano di ingegneria istituzionale hanno mostrato un particolare interesse per le ragioni
per cui alcuni sistemai sembrano fornire prestazioni “migliori” rispetto ad altri.

4. Il neo-istituzionalismo
Il quarto fattore si legava anch’esso agli sviluppi all’interno della scienza politica più in generale, e in
particolare alla cosiddetta svolta neo-istituzionalista nell’analisi politica (March e Olson 1984). Nell’ambito
dell’emergente approccio neo-istituzionalista, al contrario, le istituzioni cominciavano a essere viste come
variabili indipendenti che impattavano direttamente su esiti e comportamento, quasi a prescindere dal
contesto sociale ed economico. Questo incoraggiava gli studiosi a iniziare ad analizzare sistematicamente
gli effetti della democrazia piuttosto che solamente le fonti della democrazia e a indagare il modo in cui
differenti forme di democrazia esercitano un impatto diverso sui livelli della crescita economica, della
stabilità sociale, della soddisfazione democratica, e così via. Questo ha portato alla definizione di nuove
modalità di classificazione delle polity democratiche e nuovi modi di comparare le diverse architetture
istituzionali. Dalla fine degli anni 80 del XX secolo, l’enfasi è stata posta sulla forma e la qualità della
democrazia, piuttosto che sulla sua esistenza in quanto tale. Quindi dato che la democrazia diventa “the
only game in town” la ricerca accademica si è concentrata sulla qualità, piuttosto che sulla quantità, della
democrazia.

DEFINIRE LA DEMOCRAZIA
Democrazia procedurale vs. democrazia sostantiva
Ci sono due approcci ben distinti per definire la democrazia. Da un lato, ci sono molte definizioni
procedurali di democrazia che si concentrano su come il regime è organizzato e sui processi tramite i quali
la rappresentanza, l’accountability e la legittimità sono assicurati.
Dall’altro lato, ci sono le varie definizioni sostantive di democrazia che si occupano anche degli obbiettivi e
dell’efficacia del regime e della misura in cui la volontà del popolo possa essere rispettata in senso più
esplicito.
Schumpeter ha offerto una definizione strettamente procedurale di democrazia: “il metodo democratico è
quell’assetto istituzionale per giungere a decisioni politiche all’interno del quale gli individui acquisiscono il
potere di decidere per mezzo di una competizione per il voto del popolo”. Questa è diventata una delle
definizioni di democrazia più ampiamente usate e Schumpeter ha cercato di semplificarla ulteriormente
sostenendo che la democrazia implica “libera competizione per un libero voto” (1947).
Le definizioni sostantive, al contrario, prevedono anche obiettivi particolari, tali per cui la democrazia reale
non può essere definita solo come un processo, ma implica anche sforzi per promuovere l’uguaglianza,
l’equità e l’inclusione. E precisamente questo approccio che Schumpeter cercava di superare, dal momento
che egli rifiutava esplicitamente un significato precedente e più normativo di democrazia, tipico del XVIII
secolo, che vedeva “il metodo democratico come l’assetto istituzionale per arrivare a decisioni politiche che
realizza il bene comune facendo decidere il popolo stesso attraverso l’elezione di individui che devono
riunirsi per espletare la sua volontà”.

Poliarchia
Nella pratica, le definizioni procedurali sono solitamente preferite nelle comparazioni dei regimi
democratici. In effetti l’impiego di definizioni sostantive di democrazie è diventato molto raro nei dibattiti
accademici contemporanei, a dispetto dell’insistenza di Dahl sul fatto che processo e sostanza non possono
essere realmente separati. È forse per questa ragione che Dahl preferisce non parlare di “democrazie”
quando considera casi del mondo reale bensì di “poliarchie” (1971), che egli definisce in termini
primariamente procedurali. Nel caso di Dahl, tuttavia, a differenza di Schumpeter, la definizione
procedurale è estesa anziché ristretta. In altri termini, le poliarchie sono definite da qualcosa di più di un
semplice processo elettorale, ma anche da una cittadinanza più o meno inclusiva e dal diritto di quei
cittadini a opporsi e destituire i propri governanti. La definizione di poliarchia va al di là della libera
competizione per il voto libero.
Nel suo classico “Poliarchia” (1971) Dahl enumera otto garanzie istituzionali che sono richieste affinché i
cittadini possano formulare le loro preferenze, possano dichiarare queste preferenze e possano vedere
queste preferenze ponderate equamente nella condotta del governo. Questi sono i 3 elementi che egli
reputa necessari perché il governo risponda in maniera democratica ai suoi cittadini.
Più tardi, in “La democrazia e i suoi critici” (1989) Dahl specifica le 7 istituzioni che devono esistere affinché
un governo sia classificato come una poliarchia: istituzioni che includono rappresentanti eletti, elezioni
libere ed eque, suffragio inclusivo, il diritto a concorrere per gli incarichi, libertà di espressione, la presenza
di fonti alternative di informazione e autonomia associativa.
Nella versione procedurale ristretta principalmente associata a Schumpeter, la democrazia riguarda quindi
le elezioni e poco più che le elezioni, nella definizione procedurale estesa, principalmente associata a Dahl,
la democrazia (o poliarchia) implica anche il conferimento di garanzie e controlli costituzionali riguardo
l’esercizio del potere esecutivo.
In un saggio più recente Dahl (2000) distingue due dimensioni della democrazia:
1. La prima di queste due dimensioni è caratterizzata da un insieme esecutivo di diritti e opportunità, sulla
base dei quali i cittadini possono scegliere di agire se lo desiderano, e che include i diritti di libertà di
associazione, culto ed espressione, e così via: “un paese senza questi diritti e opportunità indispensabili di
conseguenza mancherebbe anche delle istituzioni politiche fondamentali necessarie per la democrazia. Tali
condizioni, poi, sono parte della versione procedurale “estesa”
2. La seconda dimensione di Dahl corrisponde alla versione “ristretta” e si riferisce alla reale partecipazione
nella vita politica. “L’esistenza continuativa di un rodine democratico sembrerebbe richiedere che i
cittadini, o almeno alcuni di essi, talvolta partecipino realmente alla vita politica, esercitando i loro diritti e
agendo sulla base delle opportunità garantite loro”. Comunque, vedere la democrazia solo alla luce della
seconda dimensione sarebbe errato, aggiunge Dahl, poiché la presenza di diritti e opportunità fondamentali
è anche un elemento intrinseco della sua definizione.
In maniera simile, Mény eSurel (2002) tracciano una distinzione tra democrazia popolare e democrazia
costituzionale come due pilastri che insieme determinano la legittimità e l’efficacia dei regimi democratici.
La democrazia liberale comprende il ruolo del demos, la libera associazione dei cittadini, il mantenimento di
libere elezioni, la libertà di espressione politica e il governo “dal” popolo.
La democrazia costituzionale comprende i requisiti istituzionali del buon governo, come i limiti
dell’autonomia dell’esecutivo e la garanzia di diritti individuali e collettivi. Questo è il governo “per” il
popolo e per i bene pubblico. Come evidenziamo Mény e Surel, una democrazia ideale ha bisogno di
trovare un equilibrio fra questi due pilastri.

Democrazia liberale e illiberale


Tra le nuove democrazie è stata proposta una nuova categorizzazione che distingue fra le democrazie che
convenzionalmente promuovono entrambi i pilastri e quindi continuano a essere definite come democrazie
liberali o poliarchie; e quelle in cui un’accettazione della democrazia popolare e del governo “dal” popolo si
combina con la persistenza o persino la reintroduzione di restrizioni e limiti sulle libertà e i diritti individuali.
Questi ultimi regimi sono stati definiti come democrazie elettorali o democrazie illiberali.
Questa nuova categoria di democrazia, praticamente sconosciuta prima della fine degli anni 80 del XX
secolo, è caratterizzata dall’istituzione formale di un processo elettorale democratico, ma in presenza di
fondamentali lacune riguardo al conferimento di libertà costituzionali e all’introduzione di limiti all’esercizio
arbitrario del potere esecutivo.
per Zakaria, che analizza lo sviluppo dei modelli di democrazia del mondo della metà degli anni 90 del XX
secolo, “la democrazia illiberale è un’industria in crescita, e fino a oggi poche democrazie illiberali sono
maturate diventando democrazie liberali; al contrario, si stanno muovendo verso un accresciuto
illiberalismo”.
In questi casi concreti, vediamo nella pratica una separazione fra i due pilastri della democrazia. Molte
nuove democrazie si sono democratizzate solo per quel che concerne le elezioni, mentre è stata trascurata
la costruzione di corrispondenti garanzie di libertà costituzionali.
Zakaria (1997) sostiene che è più probabile che i regimi che istituiscono libertà costituzionali prima dl
suffragio elettorale universale creino e mantengano un ordine liberaldemocratico stabile rispetto a quelle
che democratizzano il processo elettorale prima di cercare di stabilire un costituzionalismo liberale.
Il percorso verso la democratizzazione intrapreso da molti degli stati europei occidentali – nei quali i diritti
civili o costituzionali furono istituti precedentemente ai diritti politici di partecipazione – è visto come molto
più positivo rispetto a quello nel quale i diritti politici di partecipazione sono stati istituiti per primi.
Ma mentre tale categoria (delle democrazie illiberali) appariva assai diffusa alla metà degli anni 90 del XX
secolo, ora ha iniziato a decrescere, la proporzione delle democrazie elettorali o illiberali sul numero totale
di democrazie è calata.
Perciò questa nuova categoria di democrazia – che combina libere elezioni con libertà costituzionali limitate
– sembra esistere in maniera sempre più residuale. Come nelle democrazie occidentali di lungo corso, il
diritto di partecipare è sempre più combinato con i diritti di associazione, la libertà di parola e così via, e ciò
sembra essere vero persino quando i diritti di partecipazione sono introdotti prima di quelli relativi alle
libertà costituzionali. Al contrario, quando le libertà civili vengono ridotte, come per esempio in Russia
contemporanea, anche le libertà politiche tendono a venire ristrette. Perciò come era il caso prima degli
anni 90 del XX secolo, entrambe le dimensioni della democrazia tendono a coincidere piuttosto che a
divergere, e a sommarsi piuttosto che a confliggere. Le democrazie tendono a essere o liberali e
democratiche, oppure non liberali e non democratiche. Altre combinazioni sono di fatto difficili da trovare
(MØller 2007).

DEMOCRAZIE IN VIA DI SVILUPPO


Secondo Dahl (1966)ci sono state tre tappe fondamentali nello sviluppo delle democrazie: la prima, quella
dell’incorporazione, quando la massa della cittadinanza fu gradualmente ammessa nella società politica; la
seconda, quella della rappresentanza, quando fu accettato il diritto a organizzarsi in partiti; e la terza, quella
dell’opposizione organizzata, quando i cittadini acquisirono il diritto a opporsi al governo attraverso il voto.
Qui Dahl si riferiva principalmente agli stadi che furono raggiunti durante la prima, lunga ondata di
democratizzazione di Huntigton, nella quale queste tappe fondamentali furono superate una a una e spesso
lungo un periodo di tempo esteso durante le transizioni della terza ondata, al contrario, le tappe
fondamentali sono state raggiunte più o meno simultaneamente.
Incorporazione
La prima tappa fondamentale fu raggiunta quando i cittadini acquisirono il diritto di partecipare alle
decisioni governative esprimendo un voto, il che implicava un ampiamento della società politica e l’aprirsi
della polity al coinvolgimento – alla fine del processo – di tutti i cittadini adulti. Tre le democrazie più
antiche e più durature, questa tappa fondamentale iniziò a essere superata alla metà del XIX secolo – la
Francia e poi la Svizzera introdussero con successo il suffragio universale maschile per la prima volta nel
1848, seguiti dagli USA nel 1970. Entro la fine della 1GM, la maggior parte di questi sistemi politici aveva
accordato i diritti di voto ai cittadini maschi, indipendentemente dalla proprietà e da alti requisiti di status.
(L’estensione del diritto di voto → il diritto di voto fu progressivamente esteso fino a che il suffragio
divenne universale. La percentuale di maschi con diritto di voto crebbe durante la seconda metà del XIX
secolo. Accanto a genere ed età, le principali restrizioni al diritto di voto furono:
- voto per censo: il diritto di voto era garantito solo agli individui ricchi
- voto per capacità: il diritto di voto era ristretto agli individui istruiti
- razza: la popolazione non-bianca era esclusa dal diritto di voto
Talvolta, invece di restrizioni nel diritto di voto, furono impiegati i sistemi di voto plurali in cui, a seconda
della ricchezza personale, differenti elettori avevano diritto a più o meno voti.
Per esempio in Belgio fra il 1893 e il 1918 gli elettori avevano uno, due o tre voti a seconda della loro
ricchezza e professione. In Prussia fra il 1848 e il 1870 vi erano tre classi di tassazione. Coloro che pagavano
più tasse avevano anche più voti. I sistemi di voto plurali sono esplicitamente in contrasto con il principio
“una testa, un voto”).
Il suffragio femminile si affermò più lentamente. I primi paesi a introdurre il suffragio femminile universale,
e pertanto il suffragio universale in quanto tale, furono la Nuova Zelanda nel 1893, l’Australia nel 1902 e la
Finlandia nel 1907. Seguirono un certo numero di altre democrazie europee e gli USA all’indomani della
1GM, spesso sotto la pressione delle organizzazioni che si battevano per il suffragio femminile. Alcuni paesi
vi giunsero persino più tardi. Il Regno Unito concesse alle donne diritti di voto uguali agli uomini nel 1928, la
Francia nel 1945, l’Italia dopo il crollo del fascismo e la fine della 2GM, con l’elezione dell’Assemblea
Costituente nel 1946, e il Belgio nel 1949. La Svizzera concesse alle donne uguali diritti di voto nel 1971,
diventando così infine una democrazia completamente sviluppata.
Nella maggior parte di queste democrazie, comunque, ai residenti stranieri sono ancora negati i diritti di
voto. In tal senso, il suffragio resta universale solo fra la cittadinanza nazionale.
Durante la prima lunga ondata, la democratizzazione fu segnata dall’abolizione graduale delle varie
restrizioni al diritto di voto – restrizioni che erano state definite tramite il genere, lo status, la posizione
sociale e così via – così che la popolazione con pieno diritto di partecipare alla società politica fu allargata in
maniera sostanziale. Fra le democrazie della prima e persino della seconda ondata, il solo importante
cambiamento successivo nel diritto di voto arrivò con l’abbassamento della soglia d’età, da 25 a 21 ed infine
a 18 anni, nella maggior parte dei paesi entro a fine degli anni 70 del XX secolo. Nelle elezioni legislative
austriache del 2007, per la prima volta ine lezioni di livello nazionale, la soglia d’età è stata ridotta a 16
anni.

Rappresentanza
La seconda delle tappe fondamentali secondo Dahl fu il diritto a essere rappresentati, cioè il diritto a
organizzarsi in partiti e far sì che questi concorrano in pari condizioni all’elezione del parlamento.
L’organizzazione dei partiti in quanto tali non fu mai un ostacolo molto importante, persino nei regimi più
restrittivi, ma la loro registrazione, il loro riconoscimento formale e la facilità con cui potevano partecipare
alla vita parlamentare variava sostanzialmente da sistema a sistema.
Un utile indicatore, sebbene non del tutto accurato, del raggiungimento di questa tappa fondamentale era
rappresentato dal cambiamento del sistema elettorale, da quello tradizionalmente maggioritario che
caratterizzava i – più esclusivi – regimi del XIX secolo a formule di voto più aperte e proporzionali.
I sistemi elettorali divennero più proporzionali nel momento in cui i nuovi partiti di opposizione iniziarono a
guadagnare terreno. Se i sistemi fossero rimasti maggioritari, i nuovi partiti, che spesso beneficiavano di
una base solida nel nuovo elettorato di massa precedentemente privo del diritto di voto, avrebbero in
ultima istanza beneficiato di un enorme vantaggio rispetto ai partiti delle élite che erano già in parlamento.
Non deve perciò sorprendere il fatto che i sistemi proporzionali vennero adottati in molti paesi europei
nello stesso momento in cui il diritto di voto veniva universalizzato – 1907 in Finlandia, 1918 nei Paesi Bassi,
1919 in Germania. In un numero limitato di paesi, in particolare Regno Unito, negli USA e in Canada, i nuovi
partiti non erano visti come particolarmente minacciosi e i sistemi rimasero maggioritari ed eventualmente
anche meno frammentati.

Opposizione organizzata
La terza tappa fondamentale secondo Dahl fu segnata dal diritto di un’opposizione organizzata di chiedere
un voto contro il governo nelle elezioni e in parlamento, un diritto che è stato descritto senza mezzi termini
come la disponibilità per i cittadini di mezzi democratici per “liberarsi dai mascalzoni”. Nei sistemi
parlamentari, questa tappa fondamentale è raggiunta quando l’esecutivo diviene pienamente responsabile
verso il potere legislativo e, pertanto, quando può essere sfiduciato da una maggioranza in parlamento.
Un indicatore approssimativo di quando questa tappa fondamentale fu raggiunta per la prima volta tra le
democrazie di più lunga durata può essere individuato nel momento del primo ingresso al governo dei
partiti socialisti o socialdemocratici. Questo è avvenuto in tempi molto diversi fra le democrazie di più lunga
tradizione, specialmente al di fuori dell’Europa, iniziando dall’Australia nel 1904 e arrivando infine al
Giappone nel 1993. Finora un partito definibile come socialista o socialdemocratico non è riuscito ad
accedere al governo nazionale in Canada e negli USA, mentre in molte democrazie europee l’accesso fu
conquistato negli anni fra le due guerre mondiali (Austria, Finlandia, Norvegia, Regno Unito) o
immediatamente dopo la 2GM (Islanda, Irlanda, Italia). Dal momento che questi partiti hanno costituito
l’ultima grande forza di opposizione che si è sviluppata nella maggior parte delle democrazie prima del
1989, il lor o ingresso nell’esecutivo ha segnato uno spartiacque cruciale nello sviluppo democratico.
Tuttavia, benché il diritto all’opposizione sia stato ormai riconosciuto in tutte le democrazie liberali,
permangono differenze sostanziali nella capacità ordinaria dei parlamenti di rendere possibile una
completa alternanza all’interno dell’esecutivo. In particolare, la frammentazione del sistema dei partiti e la
necessità di maggioranze parlamentari talvolta spinge ad affidarsi a coalizioni multipartitiche che non
possono essere sostituite per intero. Cioè, dati certi tipi di coalizione e data una molteplicità di partiti,
un’alternanza completa diventa difficile e, pertanto, solo alcuni dei “mascalzoni” possono essere rimpiazzati
in un dato momento.
Nei sistemi bipartitici, al contrario, così come nei vari sistemi multipartitici o bipolari che sono caratteristici
di un certo numero di democrazie più recenti, l’alternanza completa al governo è un evento relativamente
frequente.

Percorsi di democratizzazione
In maniera più schematica, Dahl ha anche tracciato la trasformazione dei regimi non democratici verso la
democrazia lungo due dimensioni – quella della liberalizzazione, o della contestazione pubblica (il diritto di
essere rappresentato e di mobilitare l’opposizione), e quella dell’inclusività, o della partecipazione e del
voto – al fine di comparare i diversi percorsi di approdo alla democrazia di massa.
I regimi non democratici (nella maggior parte dei casi, monarchie assolute) che hanno sperimentato la
liberalizzazione senza diventare più inclusivi sono stati classificati da Dahl come oligarchie competitive.
Queste includono i regimi parlamentari con suffragio ristretto che si affermarono nel Regno Unito e in
Francia nel periodo precedente la 1GM. I regimi non democratici che sono divenuti più inclusivi senza
liberalizzazione sono stati classificati come egemonie inclusive. Essi includono i regimi totalitari fascisti e
comunisti rispettivamente nella Germania nazista e nel blocco sovietico, che ricorrevano regolarmente a
processi elettorali di massa non competitivi.
I regimi che sono diventati effettivamente democratici (le poliarchie), lo hanno fatto sia liberalizzando, sia
diventando più inclusivi, simultaneamente o in fasi diverse.
TIPOLOGIE DI DEMOCRAZIA
Democrazie maggioritarie vs. consensuali
Ci sono stati solo una manciata di tentativi da parte degli studiosi di ideare tipologie di democrazie come
sistemi completi; il più esauriente di questi è stata l’influente distinzione tra democrazie maggioritarie e
consensuali elaborate da Lijphart in una serie di pubblicazioni chiave negli anni 80 e 90 del XX secolo. Si
trattava infatti di una rielaborazione di un approccio precedente che Lijphart aveva sviluppato inizialmente
nel 1968, quando propose una nuova tipologia di sistemi democratici come correttivo ai modelli sviluppati
all’epoca da Gabriel Almond.
L’obbiettivo iniziale di Almond era quello di arrivare a una classificazione dei sistemi politici in tutto il
mondo, incluse le molte non-democrazie. All’interno dell’universo democratico egli aveva tracciato una
distinzione chiave tra ciò che chiamava le democrazie angloamericane, da un lato, e le democrazie
dell’Europa continentale, dall’altro. Il primo modello era caratterizzato da una cultura politica secolare e
omogenea nella quale gli attori e le associazioni partecipanti erano indipendenti ma autonomi, mentre il
secondo era caratterizzato da una cultura politica frammentata con subculture politiche separate. Nel
primo caso, il sistema politico è probabile sia centripeto, moderato e stabile; nell’altro caso, è probabile sia
conflittuale e instabile.
Le modifiche proposte da Lijphart a questo modello basilare implicavano prendere in considerazione una
seconda dimensione trasversale e quasi-istituzionale, nella quale egli distingueva due tipi di
comportamento delle élite politiche, collaborativo e avversariale.

Struttura della società


Comportamento delle elite Omogenea Plurale

Cooperativo Democrazia depoliticizzata Democrazia consociativa ^


*

Avversariale democrazia centripeta ** democrazia centrifuga ^^

* per esempio USA. C'è un sistema di valori condivisi


** modello anglosassoni: UK e Nuova Zelanda. Le élite competono sull'elettore centrista
^ Italia pero nel 1994 passiamo a una democrazia centrifuga ma si accenna una frattura storica tra comunisti e anticomunisti
^^ Nord Europa: Belgio, Paesi Bassi

Mettendo questa classificazione in contrasto a quella di Almond si arrivava a una semplice tipologia
quadrupla dei regimi democratici, nella quale l’attenzione di Lijphart si rivolgeva particolarmente a quelle
che egli definiva “democrazie consociative”, cioè quei sistemi nei quali le élite collaborative cercavano di
neutralizzare i peggiori effetti della frammentazione e dei conflitti sociali. In particolare, Lijphart applicava
questo modello a un certo numero di democrazie europee più piccole che erano effettivamente trascurate
dalla tipologia di Almond – i cosiddetti sistemi multipartitici funzionanti di Austria, Svizzera, Paesi Bassi e
Belgio – nei quali fratture socio-politiche profonde e potenzialmente molto conflittuali erano controllate e
gestite da élite politiche alla ricerca del consenso.
La nuova tipologia delle democrazie sviluppata da Lijphart nel corso degli anni 80 del XX secolo era di più
ampio raggio, e poiché era definita in termini quasi esclusivamente politici e istituzionali (piuttosto che
politico-culturali) poteva adattarsi a una casistica quasi illimitata da un punto di vista geografico. Si trattava
della distinzione tra democrazie maggioritarie e consensuali. Costruite su un insieme ad ampio raggio e
piuttosto esaustivo di indicatori politici e istituzionali, soprattutto nella versione del 1999 quando anche il
sistema delle associazioni di interessi e il grado di indipendenza della banca centrale vennero aggiunti alla
lista dei criteri distintivi. Nel modello originale consociativo, al contrario, venivano considerate solo quattro
caratteristiche istituzionali: la proporzionalità, il veto delle minoranze, l’autonomia dei segmenti sociali e la
grande coalizione.
In breve, le democrazie maggioritarie erano viste come quelle in cui un partito o una coalizione di partiti
vincenti poteva esercitare un potere virtualmente illimitato all’interno di un sistema partitico, per via del
fatto che l’autorità di governo era soggetta a pochi vincoli. In altre parole, all’interno di queste democrazie
c’era una grande differenza fra vincitori e perdenti e il potere era esclusivo – i perdenti non avevano voce –
piuttosto che inclusivo. Al contrario, nelle democrazie consensuali era più probabile che il potere fosse
condiviso piuttosto che conteso, le minoranze venivano formalmente incluse nei processi decisionali e il
potere esecutivo era limitato da corti costituzionali, seconde camere dotate di un certo potere e un sistema
decentrato di governance territoriale.
Lijphart definì la sua nuova struttura identificando per prima cosa le varie caratteristiche politiche e
istituzionali che potevano essere associate alla democrazia maggioritaria – e che erano originariamente
esemplificate dai casi del Regno Unito e dalla Nuova Zelanda – e poi definendo ciascuna delle
caratteristiche della democrazia consensuale come l’opposto di quella che prevaleva nel caso maggioritario.
Si trattava di un quadro di riferimento induttivo per la comparazione delle democrazie, che a partire da due
casi reali arrivava a individuare modelli idealtipici collocati agli estremi opposti di un continuum teorico.
Tuttavia si trattava di un approccio problematico e non sempre interamente coerente. Le 8 caratteristiche
associate al modello maggioritario nella versione del 1984 e le 10 adottate nel 1999 si combinavano in
maniera molto coerente nel particolare sistema politico dal quale esse erano state derivate induttivamente
– il sistema britannico. Analogamente, anche le 8 (e poi 10) caratteristiche della democrazie consensuale
formavano un insieme piuttosto coerente all’estremo opposto dello spettro – nei casi del Belgio e della
Svizzera. Tuttavia, fra questi due estremi la maggior parte degli altri sistemi del mondo reale presentava
una miscela talvolta confusa di caratteristiche sia maggioritarie, sia consensuali (per esempio gli USA).

Democrazie centrifughe vs. democrazie centripete


Problemi analoghi possono essere visti nel recente tentativo di Gerring et al. (2005) di andare oltre Lijphart
e sviluppare una categorizzazione alternativa onnicomprensiva delle democrazie. Questo approccio, che
insieme a quello di Lijphart è uno dei pochissimi a tentare una comparazione olistica delle democrazie,
tiene conto di una gamma più dettagliata di variabili istituzionali e politiche di quanto faccia Lijphart e
propone una distinzione categorica tra i cosiddetti modelli “decentrati” e “centripeti” di democrazia. Tra le
caratteristiche fondamentali del modello decentrato vi sono “diffusione del potere, ampia partecipazione
politica e limiti all’azione governativa”. È anche caratterizzato dalla frammentazione sia del potere
popolare, sia del potere politico: collegi uninominali, debole coesione partitica, spiccata separazione dei
poteri e forti limiti all’autorità dell’esecutivo. Il modello centripeto, al contrario, enfatizza l’importanza di
istituzioni inclusive ma dotate di forte autorità e si ispira fortemente al modello del “governo responsabile
di partito”. È caratterizzato da un governo forte e unificato, di natura maggioritaria, che associa
proporzionalità, gruppi d’interesse centralizzati e partiti politici ben organizzati e fortemente coesi.
Le democrazie decentrate sono tipizzate dal caso statunitense; le democrazie centripete dai casi della
Norvegia e della Svezia.

I problemi dei modelli olistici


I lavori di Gerring et al. E di Lijphart sono inusuali, per la ragione che in entrambi i casi si fa un tentativo per
modellare le democrazie come dei sistemi completi.
Per Lijphart, per esempio, la scelta chiave è tra un sistema maggioritario che è pronto a rispondere alle
sfide, responsabile e spesso efficiente, ma nel quale le forme della rappresentanza possono negare la voce
a vaste porzioni della popolazione, e un sistema consensuale che è inclusivo e più rappresentativo, ma che
può rivelarsi meno efficiente nel lungo termine. Tuttavia, a dispetto di tutti i problemi relativi ai processi
decisionali e ai poteri di veto nella democrazia consensuale di LiJphart, quest’ultima resta comunque, a suo
avviso, un modello di democrazia “più umile, più gentile” e quindi di maggior valore. Per Garring et la., sono
le democrazie centripete a essere superiori: “la buona governance deriva da istituzioni che attirano verso il
centro, offrendo incentivi a partecipare e disincentivi a defezionare”.
Ciò che è più rilevante per la presente discussione è che entrambi gli studi raggiungono le loro conclusioni
avendo esaminato una grande varietà di dimensioni istituzionali lungo le quali le singole polity possono
essere posizionare, ed è qui che sorgono i problemi. Per esempio in nessuno, in nessuno di questi approcci
una singola dimensione della comparazione è resa prioritaria. Benché Gerring et al. si riferiscano a 4
dimensioni in particolare come “di interesse primario” per la loro analisi – sovranità territoriale, struttura
legislativa, la forma dell’esecutivo e il sistema elettorale – ciascuna delle 21 caratteristiche distintive da loro
utilizzate ha lo stesso peso nella loro definizione.
Lo stesso è vero per per le 10 caratteristiche distintive specificate da LiJphart (1999). E la principale
difficoltà nell’applicare questi modelli alla comparazione delle democrazie del mondo reale sorge quando
queste differenti dimensioni si rivelano incongruenti, come quando una polity è maggioritaria riguardo, per
esempio, al suo sistema dei gruppi di interesse, ma consensuale a livello di sistema elettorale; o quando,
nel modello proposto da Gerring et al., un sistema è decentrato rispetto al suo ramo legislativo, ma
centripeto per ciò che concerne il suo impiego dei referendum. Queste incongruenze non sono nemmeno
inconsuete o eccezionali. I casi difficili da collocare per Gerring et al. sono i tipi ideali di Lijphart e viceversa.
Ma perché modelli di democrazia apparentemente coerenti dovrebbero rivelarsi così difficili da applicare
alla comparazione dl mondo reale?
Nella pratica tuttavia le democrazie del mondo reale raramente si dimostrano così nettamente delimitate o
internamente coerenti come potrebbero suggerire i vari modelli olistici di natura sistematica.
In breve, è sempre meno probabile che le democrazie siano sistemi chiusi e autosufficienti e in questo
senso è anche sempre meno probabile che essere riflettano modelli totalmente coerenti se soggette ad
analisi comparate a livello sistematico.

DEMOCRAZIE ALL’AUDIENCE?
Benché la democrazia sia diventata il tipo di regime più comune nel mondo, c’è una crescente
preoccupazione che le sue fondamenta siano meno robuste di prima. Un sintomo di questo problema
incipiente è rappresentato dalle numerose evidenze dell’insoddisfazione dei cittadini verso taluni aspetti
della democrazia, così come dal declino nei livelli di partecipazione e impegno. Questi segni di ritiro dei
cittadini dal coinvolgimento politico tradizionale sono sempre più pervasivi e sembrano caratterizzare molte
delle democrazie. L’affluenza elettorale è diminuita, particolarmente dalla fine degli anni 80 del XX secolo, il
numero di iscritti ai partiti è spesso crollato a minimi da record e sia la stabilità sia la forza dei livelli di
identificazione partitica si sono nettamente indebolite. Più in generale, la fiducia popolare nella politica e
nei politici è caduta quasi ai minimi termini.
Durante i primi anni del dopoguerra e probabilmente almeno sino alla fine degli anni 70 del XX secolo, la
politica tradizionale era vista come qualcosa che apparteneva ai cittadini e in cui i cittadini potevano
impegnarsi – e spesso lo facevano. Con l’inizio del nuovo secolo la politica tradizionale pare essere
diventata parte di un mondo esterno che gli individui preferiscono osservare da fuori. C’è un mondo dei
partiti, e un mondo dei leader politici, che è sempre più separato dal mondo dei cittadini e, quindi, un
mondo nel quale la partecipazione popolare sta diventando meno rilevante. Così come sostenuto da
Bernard Manin (1997), ciò che stiamo osservando è la sostituzione della democrazia rappresentativa o
democrazia partitica con la democrazia dell’audience.
Mentre i cittadini si ritirano dalla politica, i processi decisionali diventano più depoliticizzati.

CONCLUSIONE
A partire dalla caduta del muro di Berlino nel 1989 e dall’esplosione delle transizioni alla democrazia negli
anni 90 del XX secolo, gli studiosi e i policy-maker sono diventanti sempre più attenti verso le differenze fra
sistemi democratici. Trattando la democrazia stessa come l’opzione standard fra i vari regimi politici,
l’interesse si è spostato dal concentrarsi sulla questione della quantità di democrazia alla questione relativa
alla qualità della democrazia. Allo stesso tempo, la capacità di comparare sistematicamente le democrazie
si è indebolita perché i regimi democratici stessi divengono soggetti a influenze globali e transnazionali e
poiché le istituzioni sono riformate o trapiantate senza molta attenzione alla loro coerenza e coesione. Ciò
che era una volta un gruppo ristretto ed omogeneo di regimi democratici è ora diventato ampio ed
eterogeneo, e molto meno riconducibile a classificazioni e modellazioni.
Le democrazie hanno attraversato diverse turbolenze negli anni recenti. Il disimpegno dei cittadini dalle
elezioni e da altre modalità tradizionali di partecipazione politica, così come la crescente diffidenza
popolare e insoddisfazione verso le leadership politiche, hanno teso a creare una democrazia più passiva e
orientata all’audience. Il processo elettorale, che una volta era visto come la caratteristica definitoria di una
polity democratica, è stato spesso screditato e soggetto a sfide, con il risultato che i processi decisionali
sono sempre più nelle mani delle istituzioni giudiziarie o di altre agenzie non maggioritarie. In uno sforzo
per incoraggiare maggiori legami con la popolazione, i leader politici pongono un’enfasi crescente sull’uso
di referendum e primarie, sviando il potere decisionale da quei partiti, oggi sempre più offuscati, che una
volta incarnavano la democrazia.
In queste circostanze, il ruolo del pilastro costituzionale della democrazia acquisisce nuova centralità,
mentre quello del pilastro popolare sembra sempre meno rilevante. In altre parole, la democrazia, sia essa
su scala nazionale o transnazionale, sembra ora riguardare più protezione dei diritti degli individui, e meno
la garanzia che essi abbiano ancora voce in capitolo.
3. REGIMI AUTORITARI
INTRODUZIONE
Fino a te poi recenti, gli Stati erano normalmente governati da regimi autoritari e la maggior parte di essi
erano monarchie ereditarie. Tuttavia l'idea che il governo su di uno stato e la sua popolazione potesse
essere ereditati come se si trattasse di proprietà privata avrebbe finito per sembrare molto primitiva non
appena la democrazia inizio a competere con le monarchie. Per sopravvivere il regime autoritario doveva
modernizzarsi introducendo una forma nuova e moderna di dittatura, piuttosto che una monarchia.
Ma l'evoluzione della dittatura andò ben oltre sul piano dell'organizzazione e su quello della legittimazione
durante le tre fasi di modernizzazione che si svilupparono nel XIX e XX secolo.
La prima fase di modernizzazione della dittatura incluse:
1. Il governo di un'organizzazione militare oppure del suo leader
2. e una legittimazione "democratica" attraverso un plebiscito o un'elezione presidenziale con un unico
candidato oppure sostenendo che si trattasse di una dittatura temporanea finalizzata a democratizzare o
"purificare" il sistema politico

Nel corso del XIX secolo, dittature modernizzate di questo tipo vennero istituti te con una certa frequenza
in America Latina, ma nel XX secolo si diffusero anche nel "terzo mondo".
Infatti esse rappresentano la forma più comune di regime autoritario nel XX secolo e da un punto di vista
numerico superarono di gran lunga la nuova forma - quella dello stato ideologico a partito unico - che
emerse nella seconda fase della modernizzazione della dittatura.
La seconda fase di modernizzazione portò alla nascita dello stato ideologico a partito unico attraverso due
innovazioni radicali. Innanzitutto, venne adottata l'organizzazione chiave della democrazia, il partito
politico, ma nell'ambito di un sistema monopartitico piuttosto che multipartitico. in secondo luogo, questo
stato rivendicò la propria legittimità attraverso un qualche nere di ideologia, quali il comunismo o il
fascismo. Questa nuova forma di regime autoritario apparve per la prima volta in seguito alla Rivoluzione di
ottobre in quello che era stato sono ad allora l'impero russo. Nel corso degli anni 30 del XX secolo il nuovo
leader del partito, Stalin stabili una dittatura personale con cui rivaleggiarono per "asprezza" totalitaria
suolo i due Stati ideologici a partito unico fascisti costituiti da Mussolini nell'Italia fascista e Hitler nella
Germania nazista (anche se il primo non riuscì mai a consolidarsi come un totalitarismo compiuto).
Nel terzo quarto del XX secolo la maggioranza dei paesi del mondo era governato da dittature della prima o
seconda fase di modernizzazione - incluse alcune nuove varianti come lo stato africano a partito unico.
Così attorno alla metà degli anni 70 del XX secolo sembrava che i regimi autoritari stessero dominando a
livello globale non solo da un punto di vista numerico, ma anche politico.
Tuttavia, in quel periodo cioè nell'ultimo quarto del XX secolo inizio anche una nuova ondata globale di
democratizzazione. Nonostante non coinvolgesse il Medio Oriente, essa tocco in maniera quasi sequenziale
le altre regioni del mondo: l'Europa meridionale, l'America Latina, l'Asia, l'Europa orientale, l'Africa, per non
menzionare la dissoluzione dell'Unione sovietica.
Proprio allora emerse anche una terza fase di modernizzazione, che comportava:
1. Rimpiazzare lo stato a partito unico con un sistema multipartitico presunto "democratico"
2. E sostituire la legittimazione ideologica con una rivendicazione di legittimazione democratica basata sul
fatto di tenere elezioni multipartitiche presunte "competitive".
La terza fase della dittatura accrebbe ulteriormente la già sorprendente diversità dei regimi autoritari. Il
modo migliore per categorizzare e descrivere una simile varietà di regimi è porsi le domande del chi
governa, perché governa e come governa.

→ Conquista del potere da parte dei miliziani


Retroterra storico: la conquista da parte di un’organizzazione militare o del suo leader è storicamente il
modo più antico di predisporre una forma moderna di regime autoritario.
La conquista del potere: la conquista delle cariche pubbliche di un paese è realizzata tramite un coup d’état
reale o minacciato, ma in pratica è spesso un’aggressione senza spargimento di sangue da parte del braccio
militare dello stato contro il proprio governo.
Tipi di colpo di stato:
• il colpo di stato corporativo è eseguito dall’esercito come organo corporativo e sotto il comando dei suoi
ufficiali più anziani in grado
• il colpo di stato miliziano è eseguito solo da una fazione in seno all’esercito e spesso sotto il comando
soltanto di ufficiali di media posizione (è spesso descritto come il colpo di stato “dei colonnelli”)
• il contro-colpo di stato è lanciato contro un governo militare da una fazione di ufficiali insoddisfatti o
ambiziosi.
Implicazioni pratiche: tali distinzioni sono importanti in pratica così come in teoria. Per esempio la maggior
parte dei colpi di stato sono miliziani e la maggior parte di essi fallisce, per cui ogni governo democratico
che affronta un colpo di stato militare ha buone possibilità di fronteggiarlo con successo a meno che si tratti
di uno dei casi relativamente rari di colpo di stato di tipo corporativo.

CHI GOVERNA?

La domanda "chi governa" è stata impiegata a lungo per classificare i regimi.


Distinguiamo:

1. Il governo di un'organizzazione (un partito o un esercito)

2. Il governo personale
a) del leader di un'organizzazione dittatoriale
b) o di un dittatore camuffato da leader democratico che è tipicamente "un monarca presidenziale
populista"

• inoltre la categoria del governo personale e stata ulteriormente estesa sino ad includere le monarchie
che governano, dato che ne sopravvivono ancora alcune e che quelle del mondo arabo, specie il regno
dell'Arabia saudita, hanno un peso rilevante a livello internazionale.

Monarchie dittatoriali
Solo le monarchie che governano esercitano lo stesso tipo e/o grado di potere di una dittatura.
Al contrario, le monarchie regnanti si trovano generalmente in contesti democratici, in cui il monarca è un
capo di Stati scelto su base ereditaria ma dalle funzioni prevalentemente cerimoniali e con poteri
costituzionali molto limitati. Naturalmente, a livello storico anche i monarchi che governano hanno
conosciuto limitazioni al proprio potere per mano delle tradizioni, delle religioni, delle costituzioni o anche
semplicemente del potere di altri attori sulla scena politica. Il monarca assoluto in grado di esercitare un
potere illimitato in maniera discrezionale o persino arbitraria rappresenta senz'altro l'eccezione alla regola,
a livello storico. Nessuna delle monarchie che ancora sopravvivono al mondo è assoluta e alcune di essere
sono monarchie regnanti piuttosto che monarchie che governano, come le monarchie regnanti che possono
essere trovate in alcuni Stati democratici dell'Europa occidentale.
Le monarchie che governano sopravvissute si trovano prevalentemente nel mondo arabo e specialmente
nella regione del Golfo Arabo/Persiano del Mondo Orientale (Arabia saudita, Emirati Arabi e il sultanato
dell'Oman).
La sopravvivenza di queste monarchie arabe non può essere spiegata dalla forza della tradizione, si
potrebbero essere tentanti di spiegare la sopravvivenza della monarchia saudita e delle altre monarchie
arabe sulla base dei loro possedimenti di petrolio ("nessuna rappresentanza senza tassazione").
Tuttavia Herb sostiene che una spiegazione migliore della sopravvivenza delle monarchie arabe al potere è
che spesso si tratta di monarchie dinastiche. Le loro famiglie reali non devono seguire la regola della
primogenitura, caratteristica delle monarchie occidentali. Così la famiglia reale dinastica può impedire a
una persona incompetente e inaffidabile di succedere al trono e può anche rimuover un monarca che sia
diventato incompetente o inaffidabile.
Un'altra caratteristica distintiva di queste monarchie dinastiche è che le famiglie reali sono molto numerose
e hanno mostrato il desiderio di "impegnarsi nel servizio pubblico" all'interno del governo,
dell'amministrazione pubblica e dell'esercito.
Questo conferisce alle famiglie reali dinastiche un controllo esteso su tutto lo stato.
Inoltre, i sudditi di alcune monarchie arabe hanno il diritto di presentare di persona le loro lamentele e
richieste al monarca. L'accessibilità ai governanti potrebbe essere volta a compensare una mancanza di
istituzioni democratiche, ma le monarchie arabe non-dinastiche di Giordania e Marocco sono andate oltre e
hanno creato istituzioni parlamentari presunte democratiche, con tanto di elezioni semi democratiche, e
condividendo persino il potere con politici eletti.

Dittatori monarchici
Così come è difficile distinguere tra monarchi che governano e monarchi che regnano soltanto, è altrettanto
difficile distinguere dittatori che esercitano un governo personale e dittatori che sono meramente agenti
dell'organizzazione che governa.
Il leader del partito comunista Mao Zedong era il dittatore personale della Cina negli anni 60 e 70 del XX
secolo e in effetti il suo potere era comparabile a quello di un monarca assoluto. Mao aveva di fatto
rovesciato la relazione principale-agente col proprio partita e aveva trasformato quello che interroga era il
partito al governo in un mero agente o strumento del suo governo personale.
Nonostante un numero relativamente ristretto di dittatori sia divenuto un governante assoluto, essi hanno
ottenuto far gradi di autonomia dal partito o dall'esercito che hanno condotto al potere o di cui sono stati a
capo durante il recesso di consolidamento del potere da parte di quell'organizzazione.
Un'indicazione di questa autonomia sta nella tendenza a diventare dittatori monarchici "a vita" e persino
nell'istaurare meccanismi di successione ereditaria nei confronti di un figlio o un fratello - creando quella
che gli scienziati politici degli anni 70 del XX secolo definivano una monarchie presidenziale. La monarchia
presidenziale stava divenendo prevalente in Africa e in altri parti del terzo Mondo. Nonostante la gran parte
delle monarchie presidenziali venissero rovesciate dallo data globale di democratizzazione degli anni 80 e
90 del XX secolo, Bashir Assad succedette ad Hafiz Assad nel 2000, Kim Jong II a Kim II Sung nel 1994,
mentre il fratello più giovane di Fidel Castro, Raul, ne prese il posto ne 2005, quando il presidente di ritirò
per motivi di salute.
L'ondata globale di democratizzazione che portò al crollo di gran parte delle monarchie presidenziali ha
determinato un contesto politico in cui una forma insolita di monarchia presidenziale è adesso divenuta la
forma standard e dovrebbe essere distinta come una categoria separata di governo personale - la
monarchia presidenziale populista. Si tratta di una forma storicamente antica di dittatura personale che ha
le sue origini alla metà del XIX secolo ed è apparsa successivamente in maniera occasionale in America
Latina. È stato svoltato con il-passaggio recente alla terza fase che la monarchia presidenziale populista si è
affermata. Questo è in parte dovuto al fatto che essa si presta bene a essere una forma di dittatura
personale camuffata da democrazia, ma anche perché il modo in cui una monarchia populista presidenziale
viene fondata è coerente col contesto politico democratico a livello mondiale.
La monarchia presidenziale populista emerge attraverso un'appropriazione indebita di potere da parte di
un presidente eletto, quello che in America Latina veniva chiamato un autogolpe. Il presidente trasforma
l'elettorato nello strumento del proprio governo personale. La tradizione latinoamericana di autogolpe e di
no arche presidenziali populiste è stata mantenuta negli anni 90 del XX secolo da Fujimori in Perù, da
Chavez in Venezuela e in molti paesi dell'ex URSS.

Governo militare
La dittatura militare è un caso molto ovvio di governo da parte di un'organizzazione distintiva. Ci fu un
periodo negli anni 70 del XX secolo quando sembro che l'esercito fosse davvero sulla strada di governare
ogni paese del Terzo Mondo. D'altro canto l'esercito aveva smesso ceduto i potere ai civili attraverso
elezioni democratiche o perché non aveva mai avuto intenzione di mantenere il potere a lungo oppure
perché aveva scoperto che i costi istituzionali di mantenimento del potere erano di gran lunga maggiori dei
benefici.
Quindi non può sorprendere che il governo militare avesse una durata media di alcuni anni, piuttosto che
decenni.
L'ondata globale di democratizzazione che iniziò a metà degli anni 70 del XX secolo non solo rimosse la
maggior parte delle dittature militari, ma riducesse anche drasticamente il numero di paesi soggetti a
interventi militari nella politica.
L'intervento militare nella politica ha prodotto parecchie differenti forme strutturali di governo militare. Ci
sono sia:

1. Forme palesi di governo militare

2. Sia forme camuffate di governo militare, tra cui


a) la trasformazione in governo civile oppure
b) il governo indiretto tramite un gabinetto guidato dai civili

Governo militare palese


Un governo dei militari non camuffato, cioè un governo militare palese nasce quando un colpo di stato
militare porta gli ufficiali a formare una giunta (o consiglio) che agisca di fatto come governo supremo del
paese. La giunta può diventare un mezzo altamente istituzionalizzato per rappresentare l'esercito ed
evitare che uno degli ufficiali di grado più elevato diventi un di attore personale, come nel recente caso del
consiglio supremo delle forze armate egiziano. Ma le giunte hanno spesso fallito nell'impedire l'ascesa di
governi personali di leader militari, mentre alcune delle dittature militari che non hanno istituito una giunta
hanno avuto successo nel continuare a esistere come governo dell'organizzazione piuttosto che personale.

Governo militare camuffato (governo civile o indiretto)


Il governo militare camuffato si ha quando il governo dell'esercito è mascherato tramite la trasformazione
in governo civile, oppure opera indirettamente influenzando dietro le quinte un governo civile. La
trasformazione in governo civile di una dittatura militare implica la cessazione - molto propagandata - delle
caratteristiche più evidenti di un governo militare come una giunta o la presenza di un militare alla
presidenza.
La trasformazione in governo civile ha solitamente incluso una presunta democratizzazione attraverso
qualche genere di elezioni del parlamento e/o della presidenza.
Governo a partito unico
L'altro tipo di dittatura delle organizzazioni, il governo a partito unico, non è stato tanto comune quanto
comune quanto il governo militare, ma ha tesso a produrre dittature più longeve. Esse si realizzano con un
partito dittatoriale che conquista il potere tramite una rivoluzione, oppure con un'appropriazione ingiusta
del potere attraverso elezioni democratiche.

In seguito, il partito istituisce una delle tre forme strutturali di stato a partito unico:

1. Lo stato palesemente è letteralmente a partito unico nel usale tutti gli altri partiti sono vietati

2. Lo stato camuffato ma quasi a partito unico nel quale il partito ufficiale del regime "guida" un qualche
genere di coalizione con uno o più partiti fantocci

3. Lo stato camuffato e' di fatto a partito unico in cui a tutti gli altri partiti è di fatto impedito di competere
realmente col partito ufficiale.

Tuttavia uno stato a partito unico non è necessariamente un caso di governo a partito unico.
I sottotipi di governo a partito unico sono stati solitamente classificati dagli scienziati politici nei termini
delle differenze a livello di orientamento ideologico e politiche pubbliche, anziché rispetto alle differenze
nella forma strutturale di stato monopartitico.
Le due categorie più ovvie a livello ideologico e di politiche pubbliche sono i sottotipi fascista e comunista,
ma c'è anche un gruppo residuale di una certa ampiezza ovvero il sottotipo "Terzo Mondo". Di questi tre
sottotipi, quello fascista è stato storicamente il più raro e si è estinto quando la Germania fu sconfitta
militarmente nel 1945. Al contrario, i sottotipi "comunista" e "terzo mondo" sono stati abbastanza
numerosi storicamente e il sottotipo comunista è riuscito ad evitare l'estinzione.

Comunista
Il regime comunista è storicamente il sottotipo più importante così come quello più numeroso. Produsse
una delle superpotenze del XX secolo, la defunta Unione sovietica, e sembra destinato a produrre un'altra
superpotenza nel XXI secolo se la Cina manterrà il suo tasso di sviluppo economico - e il suo governo a
partito comunista.
Al momento del loro picco numerico negli anni 80 del XX secolo, ci furono diversi regimi che sposarono i
fondamenti dell'ideologia comunista del marxismo-leninismo. Tuttavia una buona parte di questi regimi
erano in realtà dittature personali di capi militari che impiegavano il marxismo-leninismo semplicemente
come una facciata ideologica.
Fu così che tanti regimi comunisti crollarono alla fine degli anni 80 e all'inizio degli anni 90 del XX secolo.
Attualmente solo tre di queste dittature dell'organizzazione sopravvivono ancora: Cina, Vietnam e Laos

Terzo Mondo
Il sottotipo "terzo mondo" è una categoria residuale che raccoglie una varietà di casi. Il sottogruppo più
significativo è un gruppo di "Stati monopartitici africani" che emersero dalla decolonizzazione dell'impero
britannico e francese in Africa fra gli anni 40 e 60 del XX secolo.
Questi esempi africani di governo a partito unico furono presto o rovesciati da un colpo di stato militare,
oppure videro il loro capo partito diventare un dittatore personale, solitamente nella forma di un monarca
presidenziale. La maggioranza di queste dittature personali sopravvisse per una generazione prima di
essere rimossa dallo data di democratizzazione che vesti l'Africa negli anni 90 del XX secolo.
Ci sono stati alcuni casi di governo a partito unico del Terzo Mondo fuori dall'Africa, come il governo del
partito baathista in Iraq sotto la leadership di Saddam Hussein. Egli trasformo il regime in un governo a
partito unico prima di stabilire una dittatura personale sino all invasione statunitense dell'Iraq nel 2003.
In America Latina, 3 esempi di spicco di governo a partito unico furono quelli del Messico, della Bolivia e del
Nicaragua
PERCHÉ GOVERNA?
Tutti i regime autoritari rivendicano un autorità legittima. Quest'ultima conferisce loro il diritto a governare
e ad imporre ai propri sudditi il dovere di obbedire.

• Legittimità di diritto: rivendicano una giustificazione e una base legale per il proprio governo. In effetti i
regimi autoritari tipicamente hanno un qualche genere di costituzione, parlamento e sistema giudiziario
che può rappresentare una notevole rivendicazione formale di legittimità sul piano del diritto. In aggiunta
a questa rivendicazione di legittimità di diritto ci sarà anche una rivendicazione di

• Legittimità religiosa: le rivendicazioni religiose all'autorità legittima sono state storicamente le più
comuni, ma sono ora relativamente rare e si trovano solo nel medio oriente (Iran) e nella Città del
Vaticano

• Legittimità ideologica: durante il XX secolo, le rivendicazioni di legittimità basaste sulla religione furono
ampiamente "sostituite" da rivendicazioni basate sull'ideologia. Queste ideologie variavano dal
marxismo-leninismo al populismo latinoamericano. Se u ideologia vuole essere efficace come queste
religioni nel fornire una base di legittimità a un regime autoritario, al l'ideologia dovrà essere data una
simile presenza e influenza sociale dal "suo" regime - attraverso l'impiego dei mass media, il sistema
educativo e le organizzazioni per la mobilitazione di massa, quali il partito ufficiale del regime, il
movimento giovanile e sindacati. La diversità ideologia dei regimi autoritari include non solo il contenuto
delle loro ideologie, ma che il fatto che molte di queste ideologie non sono prese seriamente e che molti
regimi militari non si sono mai neppure preoccupati di avere u ideologia simbolica. Un'altra fonte di
diversità è quella per cui le rivendicazioni ideologiche per legittimare l'autorità assumono forme
differenti.
Ci sono state rivendicazioni ideologiche alla legittimità a livello:
- personale (leader che rivendicano una legittimità profetica in quanto ideologi)
- organizzativo (partiti o militari che rivendicano un diritto ideologico al potere
- visionario o programmatico (un regime che asserisce che gli obbiettivi e i principi racchiusi nella sua
ideologia gli conferiscono un diritto al governo.
L'ideologia comunista è stata quella più utilizzata per rivendicare la legittimità, con il suo nucleo marxista-
leninista capace di fornire tanto una forma organizzativa leninista quanto una concezione visionaria
marxista.
Non c'è stato nessun equivalente del leninismo tra i rari tentavi di giustificare il governo militare da un
punto di vista ideologico.

• Legittimità democratica: la rivendicazione alla legittimità democratica ha preso una forma istituzionale.
C'è stata una rivendicazione o del fatto di stare usando situazioni democratiche, come un parlamento o
una presidenza eletti, oppure del fatto di stare adoperandosi per introdurle/reintrodurle.

L'ultimo caso si presenta tipicamente dopo che l'esercito si è impossessato del potere da ciò che reputa
essere un governo non democratico, corrotto e incompetente. Solitamente, l'esercito rassicura
rapidamente le platee internazionali e domestiche sul fatto che il governo militare è solo temporaneo e che
si sa adoperando per la (re)introduzione della democrazia. Ma potrebbe volerci un lungo periodo di tempo
per tenere fede a queste promesse.

Al contrario, la rivendicazione di stare utilizzando istituzioni democratiche consiste nell'avere effetti ente,
piuttosto che nel promettere, un parlamento o un presidente eletti - ma sulla base di elezioni non
democratiche.

Per esempio, un parlamento potrebbe venire eletto in maniera plebiscitaria, come sperimentato per la
prima volta nella prima fase di modernizzazione della dittatura, quando agli elettori viene data la "scelta" di
o approvare o rigettare il candidato, o la lista di candidati ufficiali.
Un esempio precoce di dittatura della seconda fase in cui venne eletto un parlamento in maniera
plebiscitaria è rappresentato dalla Germania nazista nel 1938 - 5 anni dopo la sua trasformazione di fatti e
di diritto in uno stato a partito unico. Hitler enne nuove elezioni per il Reichstag sulla base di un sistema di
rappresentanza proporzionale per liste, ma con un unica lista di candidati da approvare o rigettare. Si
trattava di una lista di candidati scelti personalmente da Hitler. Grazie a brogli elettorali e altri metodi non
democratici il risultato delle elezioni fu un voto per oltre il 99% favorevole alla lista.

Nonostante queste elezioni siano state definite elezioni a lista unica o a candidato unici, una descrizione più
ampia e più calzane è quella di elezioni "non competitive".

Tuttavia, anche quando istituiscono partii fantoccio, le elezioni non competitive non possono raggiunger la
sofisticazione caratteristica delle elezioni semi competitive, che vennero inventate in America Latina molto
tempo fa e sono divenute il metodo standard della terza fase della modernizzazione e delle dittature
camuffate da democrazia. Le elezioni semi competitive sono democraticamente più credibili delle elezioni
non competitive perché consentono una certa competizione elettorale tra i partiti, benché il partito o
candidato ufficiale non possa perdere - se necessario, il regime ricorrerà a brogli elettorali o persino
annullerà le elezioni in qualche modo.

La terza fase di modernizzazione ha già prodotto nuove varianti di elezioni semi competitive, specialmente
introducendo partiti o candidati fantoccio che garantiscono una competizione e "opposizione" fasulla al
governo o al regime (per ex. Kazakistan).
La crescente sofisticazioni dei metodi elettorali delle dittature di terza fase ha reso più acuto il problema di
come distinguerle da regimi ibridi che collocano nella zona grigia tra autoritarismo e democrazia.

COME GOVERNA?
Questo paragrafo descrive il modo in cui i regimi autoritari hanno impiegato vari meccanismi per esercitare
un controllo sullo stato e sulla società. Inoltre descrive il modo più estremo in cui le dittature hanno
governato e che gli scienziati politici hanno chiamato totalitarismo.

TOTALITARISMO E AUTORITARISMO
Totalitarismo
Il termine totalitarismo fu reso popolare per la prima volta negli anni 20. E 30 del XX secolo, quando
Mussolini descrisse lo stato fascista come totalitario. Quando il termine fu adottato dagli scienziati politici
dopo la 2GM, questi ne diedero una più ampia applicazione che includeva il regime nazista hitleriano e il
regime comunista stalinista dell'Unione sovietica. Gli scienziati politici che si sono occupati di totalitarismo
lo hanno descritto come una forma di dittatura nuova particolarmente ambiziosa.

A differenza dei tipi precedenti di dittatura, essa cercò di trasformare la aura umana attraverso
un'organizzazione "totalitaria" di tutti gli aspetti della vita e tramite un ideologia ufficiale che non solo
giustificava e indirizzava questa trasformazione della natura umana, ma. Forniva anche mezzi psicologici per
eseguirla - ovviamente con ausilio di controlli esterni messi in atto dal partito di regime e da altre
organizzazioni, specialmente il "terrore" imposto dalla polizia segreta.

I primi teorici del totalitarismo si focalizzarono sul ruolo della leadership ideologicamente ispirata,
specialmente concentrandosi sulla figura di leader quali Hitler o Stalin che interpretavano profeticamente
l'ideologia e ne erano guidati.

Tuttavia questo ed altri aspetti del totalitarismo dovettero essere riconsiderai all'indomani della morte di
Stalin nel 1953, dal momento che la leadership post-staliniana mise fine al regno del terrore imposto dalla
polizia politica e critico il governo personale di Stalin, accusandolo di aver creato un "culto della
personalità".
In aggiunta dagli anni 60 del XX secolo la ricerca storica stava iniziando a mostrare che i regimi di Hitler e
Stalin non erano riusciti a imporre un controllo totale delle azioni, per non parlare delle menti, e che il
concetto di totalitarismo poteva essere applicato solo alle aspirazioni o agli obbiettivi di questi regimi,
piuttosto che ai loro reali "risultati". Infatti, sembra che alcune dittature successive, come il regime
comunista della Corea del Nord siano state un esempio migliore di totalitarismo.

Autoritarismo
La differenza fra il modo totalitario di governare e quello standard dei regimi autoritario fu sottolineato
grazie a un sofisticati concetto di autoritarismo sviluppato da Linz negli anni 70 (1970). Egli descrisse 4
elementi o caratteristiche distintive dell'autoritarismo tali da delineare qualcosa che andava al di là della
monarchia, a era molto meno estremo rispetto al totalitarismo:
• Presenza di un limitato pluralismo politico
• L'assenza di un ideologia che sia elaborata e/o stata per guidare il regime
• L'assenza di una mobilitazione politica intensa o estesa
• Una leadership soggetta a limiti prevedibili nell'esercizio del potere piuttosto che arbitraria o
discrezionale, di un piccolo gruppo o di un individuo.

→ Il fascismo italiano: un regime autoritario


Per poter classificare un regime politico è necessario ricorrere a una prospettiva di tipo comparato,
esattamente come fa la scienza politica, e non descrivere esclusivamente un singolo caso, come viceversa
spesso fanno gli storici. È un'opinione diffusa, soprattutto fra i politologi, che il fascismo italiano costituisca
un regime autoritario che, sebbene abbia ricercato un consolidamento totalitario, non sia mai riuscito
nell'impresa di realizzarlo. C'è un importate differenza che separa un regime autoritario da un regime
totalitario cioè la distribuzione di potere. Se nel caso del totalitarismo si è in presenza di una configurazione
monista, in base alla quale vi è un unico soggetto titolare del potere decisionale all'interno del regime, nel
caso dell'autoritarismo la configurazione è limitatamente pluralista, includendo si solito più di un attore
politico in grado di influenzare le decisioni prese dal regime stesso. Poiché il fascismo non riuscì ad
eliminare dalla scena due importanti attori quali la chiesa cattolica e la monarchia, esso non può
considerarsi a tutti gli effetti un regime totalitario.

Queste 4 caratteristiche sono state presenti nella grande maggioranza delle dittature, a prescindere dal
fatto che la dittatura fosse personale, militare o a partito unico.
Linz sostenne anche che i regimi totalitari potessero infine svilupparsi in qualcosa che apparisse più simile a
un regime autoritario, conio infatti il termine "post-totalitario".
Successivamente introdusse l'espressione "moderno sultani amo" per descrivere quei di attori personali
assoluti che non solo erano privi della carica ideologica e della legittimazione caratteristica dei leader
totalitari, ma che ricorrevano anche all'avidità e alla paura per motivare i propri subordinati.

Esercitare il controllo
Sia il totalitarismo che l'autoritarismo impiegano una gamma di meccanismi di controllo per assicurate che
vi sia obbedienza al regime.
Il meccanismo di controllo più efficace è una forza di polizia politica oppure "segreta" competente. A
seconda del regime e delle circostanze, i metodi della polizia politica:

1. Per ciò che riguarda la raccolta di informazioni, spaziano dall'impiego della tortura e di delatori a una
sorveglianza meramente elettronica e

2. per ciò che riguarda le punizioni, spaziano dal l'esecuzione pubblica o dalla "sparizione" alla mera
stroncatura delle rispettive di carriera degli individui.

È più probabile che sia il totalitarismo, rispetto all'autoritarismo, a ricorrere ai metodi estremi di polizia
politica, ma ogni dittatura può impiegarli nei periodi di repressione più aspra.
Un regime militare ha alcuni meccanismi distintivi di controllo, specialmente la giunta e la dichiarazione
della legge marziale. Quest'ultima conferisce poteri di polizia e giudiziari all'esercito che può poi impiegare i
propri soldati per mantenere l'ordine e controllare la popolazione sul territorio. La giunta può essere
impiegata per controllare il governo presidenziale o ministeriale del regime militare per controbilanciare
l'influenza dei civili sopra e all'interno del governo, specialmente per ciò che riguarda i civili che hanno
incarichi tecnici, come quello di ministero delle Finanze, alcuni regimi militari hanno esteso ulteriormente il
loro controllo sullo stato nominando ufficiali dell'esercito a importanti posizioni nell'amministrazione
pubblica e nel governo regionale o locale.

I meccanismi di controllo distintivi del governo a partiti l'unico sono stati basati sul l'impiego di un partito
politico per controllare lo stato e la società. Il partito ricorre ai propri numerosi iscritti nell'amministrazione
pubblica e nel l'esercito per assicurarsi che queste politiche siano realizzare.

4. PARTECIPAZIONE POLITICA
INTRODUZIONE
La partecipazione politica istituisce dei collegamenti fra il pubblico di massa ed élite politiche. Il termine si
riferisce a un'ampia gamma di attività, che includono votare ala elezioni, donare tempo e soldi alle
campagne politiche, candidarsi per una carica, promuovere petizioni e boicottaggi, riga nizzardi in insaccati,
manifestare, svolger sit-in illegali o occupazioni, blocchi o persino un assalto fisico contro le forze
dell'ordine.
La democrazia non funziona senza la partecipazione politica (volontaria e legale) e i suoi cittadini.
Ma anche molti regimi autoritari possono tollerare qualche modalità di partecipazione politica, se non altro
per raccogliere informazioni riguardo alle lamentele dei loro sudditi in modo da sedare la frustrazione
repressa.
I regimi totalitari istituiscono anche la partecipazione obbligatoria per mantenere l'ordine politico esistente.

La partecipazione politica volontaria ha attirato l'attenzione di molti studiosi e solleva interrogativi


affascinanti.
La partecipazione politica è quindi un'attività che si svolge a dispetto di tutti i tipi di ostacoli e preferenze
per azioni più spontanee e indipendenti.

COME? MODALITÀ DELLA PARTECIPAZIONE POLITICA

1. La partecipazione politica può avere luogo in arene o contesti politici differenti

2. L'intensità della partecipazione (tempo e risorse) varia grandemente

3. Le attività di partecipazione possono essere distinte con riguardo alla loro rischiosità per la libertà e la
vita dei partecipanti

Spazi della partecipazione


1. Gli individui possono essere coinvolti in un arena pubblica per rendere note e comunicare le proprie
istanze a chiunque voglia sentirle.
2. Essi possono rivolgersi ai policy-maker nel l'organo legislativo oppure all'esercito o come destinatari delle
proprie comunicazione.
3. Oppure essi possono essere coinvolti nel processo di selezione di coloro che aspirano a cariche legislative
o nell'esecutivo.
Ciascuno di questi spazi comporta una varietà di possibili forme di impegno e dedizione personale, dato che
gli individui possono passare da una partecipazione intermittente a una continua sino a porsi in posizioni di
leadership.
Il rischio della partecipazione dipende ovviamente dal regime legale e politico nel quale si verifica. Tanto
meno tollerante un regime è rispetto alla libera espressione e all'organizzazione delle opinioni politiche dei
cittadini, quanto più rischiose e costose sono le forme.
In tutti i regimi politici, la politica di protesa che danneggia gli individui o i diritti di proprietà è soggetta a
sanzioni di legge. Nei regimi non democratici, più attività sono "non convenzionali" e punite.

Modalità di partecipazione
La maggior parte della partecipazione popolare è organizzata e regolare.
Movimenti sociali
Flussi di attività che indirizzano istanze ai policy-maker attraverso eventi a livello di comunità, di piazza e
mediatico come loro spazi principali di articolazione sono movimenti sociali. I movimenti sociali possono
coinvolgere un gran numero di individui, ma generalmente hanno piccolo nuclei organizzativi formali.
Tipicamente non vi è un adesione formale.

Gruppi di interesse
Quelle attività in cui i partecipanti fanno principalmente affidamento sul comunicare le proprie preferenze,
istanze e minacce ai policy-maker coinvolti nell'arena legislativa ed esecutiva tendono a portare alla
creazione di gruppi di interesse durevoli. Tipicamente, essi sono organizzati in modo formale con espliciti
ruoli d'appartenenza.
Il numero degli associati è un indicatore della capacità di minaccia di un gruppo di interesse nei confronti
dei policy-maker.
In parte, il potere di un gruppo di interesse deriva dalla centralizzazione della sua organizzazione interna.

Partiti politici
Quelle attività in cui i partecipanti cooperano per nominare candidati parlamentari, li iuta no a conquistare
gli elettori e organizzano l'affluenza alle urne di elettori in favore di tali candidati concernono la formazione
di partiti politici.
I partiti acquisiscono reputazione e possono fare promesse in maniera credibile solo se riuniscono un gran
numero di politici per un lungo periodo e li fanno accordare su istanze più o meno simili.
Tutte le associazioni politiche si focalizzano su una sola "competenza centrale" e su un solo spazio di
mobilitazione partecipativa in un dato momento

PERCHÉ? DETERMINANTI DELLA PARTECIPAZIONE POLITICA


Partecipazione politica vs. Altri tipi di partecipazione
La partecipazione politica è solo uno dei tanti modi per i membri di una società di ampliare le proprie
opportunità. In alternativa essi possono fare affidamento sui mercati o sulle famiglie e le associazioni
comunitarie.
Gli individui partecipano perché alla politica perché è una scelta di ultima istanza (è vero ma solo in parte
perché dipende molto dai contesti). Quando tecniche più semplici per la risoluzione dei problemi risultano
inefficaci, le persone partecipano.

Il paradosso dell'azione collettiva


Gli individui partecipano alla politica per arrivare a decisioni vincolanti che assegnano costi e benefici a
gruppi di grandi dimensioni. Questo costi e benefici hanno il carattere di beni collettivi. Una volta prodotti,
nessun individuo appartenente a una polity può essere escluso dal godere (o dal soffrire) delle conseguenze
di avere tali beni, a prescindere dal fatto che quell'individuo abbia contribuito o meno alla loro produzione.
Questo genera un apparente paradossi dell'azione collettiva (Olson 1965).
Se gli individui sono mossi dal proprio interesse e tentano di minimizzare il proprio sforzo nel produrre
qualche beneficio, essi porrebbero non contribuire a produrre beni collettivi. Infatti gli individui si
comporterebbero da freme-rider.
Ci aspetteremmo che ciò avvenga nella gran parte delle istituzioni che riguardano gruppi di grandi
dimensioni, dove i costi personali di mobilitazione per il conseguimento per via politica del bene
("partecipazione") prevalgono di gran lunga sui benefici personali derivabili dal godimento di quel bene.
Perciò, se ciascun individuo arriva alla conclusione che gli altri dovrebbero sobbarcarsi i costi del produrre il
bene collettivo, nessun bene verrebbe mai prodotto.
Olson sostiene che nonostante ciò la partecipazione politica si verifica perché gli incentivi selettivi superano
il problema del free-rider. Coloro che partecipano a uno sforzo di mobilitazione per produrre beni collettivi
ricevono benefici "provati" aggiuntivi che riguardano solo i partecipanti. Se ali incentivi selettivi sono
sufficientemente preziosi da prevalere sui costi della partecipazione, allora la mobilitazione politica avrà
luogo.
La teoria di Olsen deve fare i conti con una sfida empirica: la partecipazione politica sembra verificarsi
molto più frequentemente di quando la teoria permetterebbe. Un esempio particolarmente importante è il
cosiddetto "paradosso del voto" (Aldrich 1993).
Milioni di cittadini si presentano regolarmente alla cabina elettorale senza vivi incentivi selettivi.

Le soluzioni sono "esterne". Alcune soluzioni al "paradosso dell'azione collettiva" sono:


• Vi possono essere alcuni imprenditori politici che non considerano costoso il coinvolgimento politico. Essi
possono essere insensibili ai costi dell'azione collettiva per ragioni di natura morale o per motivazione
altruistiche.

• Premessa dell'importazione di Olson è che gli individui trattano la partecipazione politica come un costo.
Ma cosa succede se da essa deriva un beneficio o se è essa stessa un beneficio?

• Gli attori possono essere portati a sottostimare i costi della partecipazione. Si può trattare di una semplice
questione di errata percezione

• Le reti sociali possono servire come dispositivo di monitoraggio

È impossibile effettuare delle previsioni chiare riguardo all'azione collettiva

QUANDO E DOVE? SPIEGARE LA PARTECIPAZIONE POLITICA A LIVELLO MACRO


La spiegazione del perché gli individui si impegnano nella partecipazione politica si articola in due parti:
1. Perché esse si trovano in un certo momento in un certo luogo (il ruolo del contesto e del l'opportunità) e
perché gli imprenditori politici promuovono l'organizzazione di azioni politiche appropriate e
2. Perché hanno risorse e disposizioni che facilitano la partecipazione (fattori individuali o di livello micro).

Differenze nella partecipazione tra diversi regimi politici


Lo spettro di strumenti organizzativi che leader politici e cittadini possono impiegare per perseguire
obiettivi politici varia a seconda del contesto:

1. Nelle democrazie con elezioni a suffragio universale per l'organo legislativo e per le cariche
nell'esecutivo e con istituzioni per proteggere i diritti civili e politici dei cittadini. Esiste un'ampia gamma
di azioni arte inattive tra cui movimenti con nuclei organizzativi ristretti, grandi gruppi di interesse e
partiti politici
2. Nei regimi autoritari come le monarchie costituzionale del XIX secolo o in molte dittature militari e civili
del XX secolo, l'esecutivo è al di là della responsabilità democratica, ma tollera alcune attività di
movimenti sociali e di partiti politici.
3. Nei regimi dispotici aspramente repressivi le opportunità sono sostanzialmente più ristrette. Essi non
solo contrastano e reprimono ogni forma di azione coordinata dal basso ma impongono dall'alto la
partecipazione politica obbligatoria attraverso organizzazioni statali di massa.

Differenze nella partecipazione all'interno delle democrazie


La partecipazione non varia solo tra diversi tipi di regime, ma anche tra regimi dello stesso tipo. Quando
analizziamo la partecipazione e le sue forme organizzative comparando le democrazie, vi è una notevole
diversità nello spazio e nel tempo. Sembra che i livelli dello sviluppo economico siano in qualche modo
correlati alla partecipazione. Il gruppo di paesi più ricchi è caratterizzato da un'esperienza partecipativa
molto più ampia dei paesi post-comunisti o altri paesi in via di sviluppo. Queste differenze potrebbero
avere a che fare con la struttura delle opportunità politiche potenziali che gli imprenditori di una nuova
causa politica stanno fronteggiando.
Inoltre, gli effetti contestuali delle democrazie possono influenzare la partecipazione politica, ad esempio
per votare in Usa bisogna registrarsi e questo comporta un costo per i cittadini in termini di tempo,
scoraggiando i cittadini disinteressati alla politica a partecipare.
Un fattore contestuale riguarda la disponibilità della politica ad introdurre nuove istanze all’interno della
propria polity: se partiti e i gruppi di interesse esistenti sono disponibili e in grado di soddisfare i bisogni
dell’elettorato, la necessità di partecipare sarà minore rispetto ad un contesto politico in cui i veicoli
esistenti di aggregazione degli interessi resistono all’incorporazione di nuove istanze salienti nella polity
(cioè se è difficile far sì che la politica ascolti le esigenze ed agisca per soddisfarle).
Un secondo fattore determinante è il sistema partitico: nei sistemi multipartitici frammentati tende ad
essere più probabile che i veicoli consolidati di aggregazione degli interessi raccolgano nuove domande,
tuttavia la maggior facilità di ingresso nei sistemi elettorali a rappresentanza proporzionale (che prevale nei
sistemi multipartitici) controbilancia questa tendenza; nei sistemi bipartitici, invece, una mancanza di
coesione interna ai partiti può creare dei punti di accesso per nuove istanze nell’ambito della politica già
consolidata, così che non sia necessario per tali interessi intraprendere il percorso della protesta
continuativa e della costruzione di nuove associazioni politiche rivali.

Due esempi dove ci si può attendere che gli effetti contestuali delle democrazie influenzano la
partecipazione politica. Il primo riguarda il "paradosso del voto" che mette in relazione il contesto di un
paese con il suo livello di affluenza alle urne. Il secondo esempio riguarda i differenti livelli di adesione
sindacale.

Affluenza alle urne


I paesi con un sistema di voto obbligatorio tendono a esprimere u affluenza molto più elevata. Vi sono
parecchi importanti meccanismi istituzionali che influenzano l'affluenza elettorale aggregata.

• Il voto obbligatorio ha un legame con l'affluenza. È cruciale sapere se è come il non-voto sia sanzionato.
Per quando riguarda le democrazie occidentali, i paesi con voto obbligatorio tendono ad avere un tasso
d'affluenza più elevato.

• Le regole regionali hanno un legame con l'affluenza. Si distingue solitamente tra sistemi a rappresentanza
proporzionale (ogni voto conta) e sistemi maggioritari o a collegi uninominali (il vincitore prende tutto). In
tutti questi sistemi gli elettori razionali che ritengono che il loro patito o candidato preferito non abbia la
possibilità di vincere un seggio e che hanno in antipatia tutte le opzioni alternative, manifestano una forte
preferenza a starsene a casa.

• I requisiti di registrazione hanno un legame con l'affluenza. In molte democrazie la registrazione è


automatica e pertanto non costituisce un freno nei confronti del voto. Negli USA, i cittadini devono
registrarsi attivamente e molti sono sotto presentati nell'elettorato registrato. Non sorprende che fra gli
elettori registrati, i livelli di affluenza alle urne negli USA siano bassi. Infatti, Powell calcola che se le
democrazie europee funzionassero usando le medesime norme istituzionali degli USA l'affluenza degli
elettori in Europa sarebbe persino più bassa che negli USA.

• La collocazione temporale delle elezioni ha un legame con l'affluenza al di fuori delle democrazie
parlamentari. L'affluenza tende ad essere maggiore se le elezioni legislative e presidenziali hanno luogo lo
stesso giorno.

*Al di là di queste l'affluenza è anche condizionata da importanti condizioni strategiche e politico-


economiche, quali la vicinanza delle elezioni.

L'adesione ai sindacati dei lavoratori


Nelle democrazie, i sindacati tendono ad avere più membri di quasi ogni altro gruppo di interessi
organizzato. Tuttavia, l'adesione varia radicale nel tempo e nello spazio.

1. L'adesione ai sindacati del lavoro tende ad essere più elevata nelle polity ricche piuttosto che nei paesi
in via di sviluppo.
2. Anche il regime politico conta. Le associazioni volontarie degli interessi come i sindacati prosperano
nelle polity democratiche. Nelle prime transizioni alla democrazia in Europa, i sindacati promossero la
democratizzazione.

3. Le politiche di sviluppo economico messe in atto nei regimi comunisti e in quelli autoritari
corporativi: poiché le industrie nazionali crescevano, ma rimanevano relativamente inefficienti, la
mobilitazione dell’influenza politica risultava vitale per la loro sopravvivenza.
4. Un'altra considerazione che si è fatta è che il tasso di adesione sindacale è rimasto elevato o è
cresciuto nei Paesi dove era già forte, ma quasi invariabilmente è diminuito nei Paesi dove i sindacati
avevano solo una forza moderata o erano già deboli.

Storicamente, un altro fatto che ha contribuito ad influenzare il livello di adesione sindacale è il sistema di
Gent:avviato nei paesi socialisti, consisteva nella delegazione da parte del governo ai sindacati del compito
di organizzare e amministrare l’indennità di disoccupazione.

Le organizzazioni politiche e la mobilitazione


La natura della posta in gioco modella l'organizzazione della partecipazione politica. Le cause fondate su
singole questioni (single-issue), che mirano a una decisione discreta una tantum, si incarnano tipicamente
in movimenti sociali con piccole strutture organizzative. Gli sforzi di movibili tazzine attorno a una gamma
strettamente specializzata di questioni che persistono nel tempo facilitano la costruzione di gruppi di
interesse. Dove le cause politiche perseguono complesse piattaforme di questioni interdipendenti, è
probabile che si formino partiti politici e che entrino quindi nell'arena della competizione elettorale.

CHI? SPIEGARE LA PARTECIPAZIONE A LIVELLO MICRO


La scelta delle pratiche partecipative può esser governata sia da tratti individuali (risorse, capacità,
attitudini, disposizioni), sia da stimoli contestuali che gli attori raccolgono a partire dalla situazione politico-
strategica e dalle caratteristiche di fondo del regime.

Tratti individuali
Gli individui si impegnano nella partecipazione politica se hanno risorse e disposizioni che facilitano la
partecipazione. I fattori più importanti a livello individuale possono essere ulteriormente distinti in 4
differenti insiemi (Schlozman):
• Risorse
• Reclutamento
• Orientamenti verso la politica
• Stimoli contestuali

Risorse
Una semplice condizione fondamentale per la partecipazione politica è la disponibilità di tempo. Chi non
lavora, o non lavora a tempo pieno, tende a mostrare livelli più elevati di partecipazione politica.
Una variabile chiave è chiaramente la scolarizzazione/istruzione. Una migliore istruzione consente ai
cittadini di rielaborare più informazioni riguardo alle decisioni politiche in corso e formarsi un'opinione su
che cosa influenza o meno la qualità della loro vita in modi che possono spingere all'azione politica. Una
migliore istruzione promuove anche una più forte fiducia in se stessi è un senso di capacità individuale di
governare la propria vita piuttosto che lasciare che autorità esterne prendano decisioni al proprio posto.
Inoltre la capacità di processare informazioni consente agli attori di identificare strategie più efficienti per
perseguire i propri obbiettivi attraverso l'azione politica.
L'istruzione indirettamente accresce la partecipazione attraverso il suo impatto sul reddito. Individui più
istruiti tendono a percepire redditi più elevati che consentono loro di indirizzare parte delle proprie risorse
economiche verso attività discrezionali, come l'economia.
L'istruzione, il reddito e la vita professionale o lavorativa promuovono anche un coinvolgimento in una
varietà di attività civiche, come le associazioni professionali e culturali.

Reclutamento
Il coinvolgimento associativo è un meccanismo che spiega la partecipazione politica non solo per colore che
hanno dotazioni personali favorevoli al coinvolgimento nella politica (istruzione, tempo, denaro). Il
coinvolgimento associativo può essere un amplificatore della partecipazione.
Entrambi i parlamentari della vita lavorativa e della situazione residenziale potrebbero giocare un ruolo a
questo proposito.
Gli impegni che non richiedono un alto capitale umano e che non garantiscono a chi li pratica un maggiore
controllo sul proprio tempo possono stimolare la partecipazione politica, se l'organizzazione del processo
lavorativo consente agli attori di entrare i contatto con altri che vivono in condizioni sociali molto simili.
L'elevata capacità di azione collettiva che ne deriva è ulteriormente potenziata anche dalla situazione
residenziale delle famiglie dei dipendenti, concretati in quartieri vicini alle strutture di lavoro.
I risultanti milieu di classe e di gruppo promuovono e sostengono un'elevata capacità di azione collettiva.
Storicamente il picco dell'organizzazione sociale e della partecipazione politica basata sull'ambiente fu
raggiunto nella prima metà del XX secolo, quando la dimensione delle fabbriche raggiunge il suo apice. Il
restringimento della dimensione dei luoghi di lavoro, la crescente separazione tra luoghi di lavoro e luoghi
di residenza e la dispersione territoriale delle abitazioni che accompagnarono l'avvento dell'automobile
come mezzo relativamente economico di trasporto a partire dalla 2GM hanno progressivamente eliminato
la capacità dei luoghi di lavoro e dei quartieri circostanti di favorire l'organizzazione della partecipazione
politica.
Importante è anche il ruolo della famiglia. La famiglia è il luogo critico in cui i giovani acquisiscono il gusto, o
l'avversione, per la partecipazione politica.
È infine necessario menzionare le caratteristiche demografiche di età e genere. Le persone giovani e le
donne tendono a essere meno attive in politica rispetto alle persone più anziane e agli uomini, per ragioni
che hanno a che fare con l'esperienza politica e con la formazione culturale.

Orientamenti
Come ulteriore determinante della partecipazione politica aggiungiamo l'interesse politico e l'ideologia.

Stimoli consensuali
Comparare i livelli di partecipazione fra i paesi rivela che la distribuzione delle risorse e delle disposizioni dei
cittadini spiega solo una piccola parte delle differenze transnazionali.
Morales (2009) individua 3 gruppi: primo, nei paesi del Nord Europa, le adesioni associative sono molto
elevate, tuttavia la partecipazione nelle attività dell'associazione è strettamente debole. Secondo, nei paesi
anglosassoni e in qualche paese continentale, l'appartenenza a gruppi politici è contenuta, ma l'attivismo è
più forte. Infine nei paesi mediterranei poche persone sono parte di associazioni politiche, ma quelle che lo
sono mostrano una maggiore volontà di partecipare.
Le grandi differenze nella propensione media dei cittadini alla partecipazione politica, come unirsi in gruppi
di interesse, dipendono da fattori contestuali. Alcuni di essi li abbiamo già indicati, come l'impatto delle
orme elettorali sull'affluenza elettorale o il ruolo del sistema Gent.

Più in generale, possiamo distinguere almeno 4 differenti livelli di effetti contestuali, che hanno un impatto
sui profili individuali e aggregati della partecipazione politica

• A livello micro, le reti famigliari e amicali influenzano la partecipazione: se le reti sociali personali di un
individuo sono fortemente politicizzate, sono alte le possibilità che anch'esso diventi politicamente attivo.

• A livello meso, l'esistenza di associazioni grandi e generalista (integrative) e di partiti organizzati in


maniera capillare ha un gran peso. La presenza di tali reti è probabile che renda meno costoso e più
attraente per i cittadini unirsi e farsi coinvolgere.

• A livello macro, non solo le istituzioni democratiche ma anche gli allineamenti strategici tra forze politiche
possono incoraggiarlo scoraggiare il coinvolgimento.

• Anche la natura del sistema dei partiti influenza la partecipazione. Dove gli individui scelgono tra
un'ampia varietà di partiti politici piuttosto che solo tra due grandi partiti, è più probabile che uno di essi
abbia un programma politico molto vicino a ciò che il singolo cittadino vorrebbe vedere realizzato nel
policy-Making. Ciò può incoraggiare lui o lei a contribuire a quel partito diventandone membro.

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