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RIASSUNTO DI SISTEMI POLITICI COMPARATI (Vassallo)

CAPITOLO 1: POLITICA COMPARATA


1.1 Politica, regime, Stato, sistema politico
Di cosa parliamo quando parliamo di “politica”?
Una definizione univoca trovata a partire dalla sua specifica funzione è la seguente: assunzione di decisioni
pubbliche collettivamente vincolanti, cioè di decisioni prese da autorità pubbliche, che si applicano a tutti i
componenti della collettività e a cui nessuno di essi si può sottrarre senza correre il rischio di subire
sanzioni. Si tratta di una funzione insostituibile perché qualsiasi collettività ha bisogno di essere governata.
Per non essere lacerata da conflitti insanabili o da attacchi distruttivi, ha bisogno di istituzioni che
garantiscano, come minimo, l’ordine interno e la difesa verso l’esterno.
La politica così intesa presuppone l’esistenza di una comunità politica, solitamente delimitata da confini
territoriali, che si è data o che è comunque sottoposta a uno specifico regime politico, cioè a un assetto
istituzionale stabile nel quale a chi ricopre determinati ruoli è riconosciuto il potere di prendere decisioni
collettivamente vincolanti.
Il termine “regime” non si riferisce esclusivamente alle dittature, come talvolta capita nel linguaggio
quotidiano: esistono regimi autoritari e regimi democratici, stabili o instabili. La gran parte dei regimi
contemporanei ha caratteristiche tuttavia abbastanza differenti rispetto a quelli del passato. I regimi politici
di oggi mantengono ancora tratti acquisiti dal processo di formazione degli stati nazionali in epoca
moderna.
Secondo la classica sintesi proposta da Max Weber, rispetto agli ordinamenti precedenti (città-stato,
principati, sistemi tribali, imperi, sistemi feudali), lo stato moderno si contraddistingue per:
• una rigorosa definizione dei confini territoriali;
• la costruzione di un’identità nazionale che fissa un ulteriore confine, di carattere culturale, tra ciascun
“popolo” e gli altri;
• la neutralizzazione e la sottomissione di contropoteri quali erano stati, ad esempio, i signori feudali, le
corporazioni, le gerarchie ecclesiastiche e gli ordini religiosi;
• la creazione di una burocrazia pubblica a cui viene affidato il compito di attuare decisioni prese dalle
autorità politiche costituita da funzionari stipendiati scelti su basi professionali (non più in base al rango
sociale o alla discendenza) specializzati per settore di intervento e per competenze, ciascuno dei quali
risponde a un superiore gerarchico secondo una linea di comando che risale fino ai vertici dello stato;
• la tutela della sovranità nazionale dalle interferenze di soggetti esterni, che presuppone un ambiente
costituito da stati indipendenti;
• l’attribuzione alle sole istituzioni pubbliche del monopolio della coercizione legittima, cioè della
prerogativa di utilizzare (in ultima istanza) la violenza fisica per imporre a qualcuno di adempiere a un
obbligo, impedire che compia atti vietati o contrari all’interesse pubblico, per comminare (sancire,
assegnare) sanzioni.
Il processo di formazione degli stati nazionali è venuto a compimento, in Europa, tra il 1600 e il 1800,
attraverso la guerra dei 30 anni, la pace di Westfalia, la Rivoluzione francese, il Congresso di Vienna e la
restaurazione. Inizialmente è stato promosso dalle monarchie assolute, che la diffusione del pensiero
liberale e dell’economia di mercato, attraverso riforme o rotture rivoluzionarie, hanno trasformato in
monarchie o repubbliche parlamentari. Poi il modello è stato esportato nelle colonie o ex colonie, mentre
in altre parti del mondo si è sviluppato per imitazione o secondo percorsi storici indipendenti, continuando
a diffondersi per tutto il XX secolo. Nell’ambito della formazione dello stato moderno si è inoltre affermata
l’idea della separazione tra diversi organi dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, così come la

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distinzione tra le sfere politica, economica e religiosa. La democrazia come l’abbiamo conosciuta a partire
dall’800 a oggi si è affermata, insieme alla progressiva estensione dei diritti (civili, politici e sociali),
nell’ambito degli stati nazionali e continua a svolgersi principalmente al loro interno. Nel frattempo, grandi
cambiamenti hanno trasformato il contesto. I capitali, le tecnologie, le imprese, le persone, le merci, le
idee, la cultura popolare e la ricerca avanzata si muovono e diffondono scavalcando i confini nazionali. Ed è
sempre più evidente che gli stati nazionali non possono governare, ciascuno per proprio conto, i potenti
processi (migratori, crisi economiche e ambientali) che li attraversano per effetto della globalizzazione.
Per fare fronte a questi limiti, in molti campi sono stati definiti insiemi di norme, principi e istituzioni che
tutelano diritti, dirimono conflitti o regolano l’economia a livello globale e che gli scienziati sociali
considerano regimi internazionali.
L’unione Europea costituisce un tentativo ancora più complesso e ambizioso che mira a creare istituzioni di
governo sovranazionali. Tuttavia, gli stati e le loro autorità politiche rimangono attori chiave nel mondo
contemporaneo: chi si chiede dove andrà l’Unione Europea non può dare una risposta senza considerare a
quali famiglie politiche aderiscono i capi di stato e di governo dei principali paesi, quanto è stabile la loro
posizione, da quali altri partiti sono sfidati nell’arena politica interna.
La nostra analisi riguarderà i sistemi politici di alcuni grandi paesi nei quali si è affermato un regime
democratico. L’espressione “sistema politico” è stata introdotta negli anni ’60 all’interno della scienza
politica americana dai cultori di un approccio rimasto in voga per un pario di decenni e denominato
struttural-funzionalismo.
Concepire la politica come un “sistema” voleva dire sottolineare che essa è composta da una serie di
elementi tra loro interdipendenti, che è governata da sue logiche non sempre perfettamente chiare per chi
le osserva dall’esterno, tanto da apparire come una black box. Secondo questi modelli, la comunicazione tra
sistema politico e società si svolge attraverso una sequenza di stimoli e reazioni, attraverso gli output che il
primo produce in risposta agli input che riceve dall’ambiente sociale. Gli input provengono da individui,
movimenti, gruppi e consistono sia in domande rivolte alla politica sia in sostegno offerto al regime nel suo
complesso o a specifici attori (partiti, leader). Gli attori politici (autorità) filtrano le domande (gatekeeping),
le aggregano in programmi di governo e le traducono in decisioni di politica pubblica, che costituiscono
l’output. Le decisioni pubbliche producono a loro volta effetti sull’ambiente sociale e quindi modificano le
aspettative, le domande, la disponibilità a offrire sostegno al sistema politico e così via.
Seguendo questo modo di ragionare, alcuni autori hanno costruito modelli più complessi; Almond e Powell
(1988) ad esempio hanno ipotizzato che qualsiasi sistema politico sia chiamato a svolgere inevitabilmente
una serie di funzioni: sistematiche (di socializzazione, reclutamento del personale politico, comunicazione);
di processo (articolazione e aggregazione degli interessi, elaborazione e implementazione delle politiche);
di politica pubblica (estrazione, regolazione e distribuzione). Nella loro visione, gli scienziati politici
avrebbero dovuto mettere a confronto le strutture (partiti, gruppi, governi, parlamenti, amministrazioni
pubbliche) che nei vari sistemi politici assolvono a ciascuna di quelle funzioni. Tuttavia, le categorie del
modello sistematico si sono rivelate troppo vaghe e l’approccio sistematico, già alla metà degli anni ’80, era
stato abbandonato.
L’espressione “sistema politico” è comunque rimasta nel linguaggio quotidiano e rimane attuale l’invito a
studiare il “sistema di interazioni” che si sviluppano all’interno di un particolare ordinamento o regime.

1.2 Finalità e settori della scienza politica


La scienza politica è una disciplina che condivide con altre l’interesse per lo stesso ambito, ma se ne
distingue per metodi e finalità:
• filosofia politica: lavora sulle teorie e i concetti attraverso cui possiamo giudicare la giustezza morale
delle scelte pubbliche;

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• storia politica: descrive singoli movimenti, partiti, personalità o fenomeni e ne offre un’interpretazione
cercando le connessioni tra una sequenza di eventi rigorosamente documentati;
• diritto costituzionale: studia il sistema delle norme in base alle quali possiamo valutare la correttezza
giuridica dei comportamenti politici.
La principale ambizione dei politologi, invece, è quella di spiegare i comportamenti degli attori (elettori,
rappresentanti di gruppi di interesse, leader di partito, semplici parlamentari ecc.) e lo svolgimento dei
processi politici (come la democratizzazione, la competizione elettorale, il policy making) andando alla
ricerca dei fattori che influenza una certa regolarità. Esempio: i giuristi saranno interessati a valutare la
costituzionalità delle leggi elettorali; la scienza politica, invece, studia le leggi elettorali per capire le loro
conseguenze sul numero dei partiti rappresentati in parlamento, sulla dinamica della competizione politica
e sulla stabilità dei governi.
All’interno della scienza politica si possono identificare due importanti distinzioni: come abbiamo già
ricordato, la politica si svolge all’interno degli stati, tra gli stati e all’interno di istituzioni sovranazionali. Ci
sono quindi teorie e comunità di ricerca specificatamente rivolte all’analisi delle relazioni internazionali e
altre rivolte all’analisi delle arene domestiche. Il settore degli studi riguardanti le arene domestiche viene
denominato politica comparate mentre gli studi sull’Unione Europea costituiscono un ulteriore
sottosettore.
La politica ha inoltre due dimensione (politics e policy): quella della lotta o della competizione per accedere
a posizioni di governo e acquisire quindi il potere di prendere decisioni collettivamente vincolanti; quella
dell’esercizio dei poteri di governo per rispondere alle domande della società e risolvere problemi collettivi.
È abbastanza usuale che il secondo sottosettore venga etichettato come “comparative public policy”, policy
studies o analisi delle politiche pubbliche, e il primo “comparative politics” o comparative government.

1.3 Perché è necessaria la comparazione


Si può parlare della politica di un singolo paese anche evitando qualsiasi riferimento a quello che accade
altrove. In questo modo si rischia però di cadere nella narrazione di eventi futili e aspetti irrilevanti, oppure
si rischia di considerare eccezionali fatti che in realtà sono abbastanza consueti in molti paesi simili. Ad
esempio, su che basi potremmo dire se il livello raggiunto dalla partecipazione elettorale in Gran Bretagna
sia basso o elevato? Per dirlo abbiamo bisogno di appropriati parametri di riferimento che si possono
ricavare solo da una comparazione con altri casi nazionali dello stesso tipo (non avrebbe senso mettere in
comparazione il potere del capo dello stato italiano con i capi di stato americano e francese che, al
contrario del primo, operano in sistemi presidenziali e semipresidenziali).
Questo dimostra che per descrivere in maniera intelligente un singolo sistema politico democratico
abbiamo bisogno di categorie e parametri e comparativi; in particolare, abbiamo bisogno di appropriati
strumenti di classificazione e di misurazione.
Quando le differenze di cui ci interessa tenere conto sono di genere o di specie, quando cioè ci imbattiamo
in differenze date dalla presenza o dall’assenza di determinate caratteristiche particolarmente importanti ai
fini dell’analisi, ricorriamo a classificazioni. Le classificazioni vengono chiamate tipologie se sono basate
contemporaneamente su più criteri e ci portano a identificare quattro o più tipi. Al contrario, quando le
differenze che ci interessa esaminare sono di grado, abbiamo bisogno di trovare indicatori empirici
codificabili che ci diano una misura per quanto possibile affidabile dell’intensità con cui la caratteristica in
questione si presenta in ciascuno dei casi che stiamo analizzando.
Se vogliamo avere un’idea di quanto i cittadini britannici siano propensi a partecipare alla vita politica
rispetto ai cittadini di altri paesi, dobbiamo trovare misure comparabili della partecipazione politica.
Non è sempre ovvio che sia preferibile classificare piuttosto che misurare; non sempre i due metodi si
escludono a vicenda. Per di più, non tutte le differenze rilevanti tra sistemi politici possono essere

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ricondotte a distinzioni tra classi o possono essere rilevate attraverso indicatori quantitativi (in alcuni casi
sono necessarie ricostruzioni di tipo narrativo).
Dunque, schemi di analisi e parametri comparativi ci aiutano a descrivere in maniera intelligente le
caratteristiche della politica in uno o più paesi. Ma c’è una ragione ancora più importante per la quale non
possiamo fare a meno del metodo comparato: solo attraverso la comparazione possiamo provare a
spiegare perché i sistemi politici sono tra loro diversi. È proprio la comparazione che ci aiuta a spiegare i
fenomeni osservati attraverso i fattori che li influenzano con una certa regolarità.
Perché in America Latina i regimi autoritari sono così ricorrenti? Perché i governi italiani hanno avuto
mediamente, dal dopoguerra a oggi, una durata brevissima? A ciascuno di questi quesiti si può rispondere
come farebbe uno studioso di storia contemporanea, ovvero trovando spiegazioni ad hoc per ciascun caso,
con tutta probabilità anche enfatizzando l’unicità di quel percorso.
La politica comparata aspira invece a identificare meccanismi di causa-effetto che si ripetono con una certa
regolarità in contesti diversi. Gli scienziati politici tendono a riformulare quesiti come quelli appena citati in
termini più generali, ad esempio: quali fattori favoriscono in genere la transizione verso regimi democratici
e il consolidamento della democrazia? Solo rispondendo a questi quesiti più generali possiamo provare a
capire quali fattori ricorrenti e quali fattori specifici influenzano la partecipazione politica, la
democratizzazione, il numero dei partiti o la stabilità dei governi.
In pratica, i politologi cercano di elaborare ipotesi scientifiche simili a quelle che consentono al medico di
spiegare perché certi tipi di individui sono più soggetti di altri ad avere ricorrenti problemi cardiovascolari.
Tuttavia, a differenza del medico che ha a disposizione numerosi casi da studiare e da manipolare per
sperimentare se un certo insieme di cause (prodotte artificialmente) generano l’effetto atteso, chi studia il
funzionamento di partiti, parlamenti e governi ha a disposizione un numero di casi molto limitato su cui,
per la maggior parte delle volte, non si possono condurre esperimenti. Ci si piò sono ingegnare a ricavare
deduzioni da quanto è già accaduto nei sistemi politici reali (relativamente pochi) che si è in grado di
esaminare.

1.4 Metodi di controllo storico e statistico


Studiando in parallelo il decorso di un determinato processo in un certo numero di casi possiamo provare a
identificare il meccanismo causale che lo ha generato o, meglio, riusciamo a identificare la logica comune
che sorregge quel processo e gli specifici fattori che hanno invece generato esiti differenti da caso a caso.
Esempio: Stein Rokkan ha studiato la formazione dei partiti politici di massa tra ‘800 e ‘900 e ha mostrato
come questo processo abbia alcuni elementi comuni in tutti i paesi europei, spiegando al tempo stesso
quali circostanze hanno portato in certi paesi alla formazione di partiti agrari o confessionali mentre lo
hanno impedito in altri.
Alcuni chiamano questo modo di procedere metodo storico o metodo della comparazione storica.
Tale metodo richiede uno studio approfondito di pochi casi condotto solitamente attraverso classificazioni,
tipologie e ricostruzioni di tipo narrativo.
Confrontando invece il modo in cui due o più fenomeni si sono svolti in molti paesi, magari per un lungo
arco temporale, possiamo verificare se esiste una qualche relazione statistica tra i modi in cui quei
fenomeni variano. Questo metodo è utile per verificare se e in che misura certi fattori o aspetti del sistema
politico ne influenzano stabilmente altri, può cioè sostenere o confutare ipotesi circa le relazioni causali
esistenti tra una o più variabili indipendenti (i fattori che lo spiegano) e una specifica variabile dipendente
(il fenomeno da spiegare). L’indizio che esista una relazione causale tra le variabili è dato dell’eventuale
correlazione statistica tra il modo in cui variano le proprietà che supponiamo siano le cause (variabili
indipendenti) e il modo in cui varia la proprietà che consideriamo l’effetto (variabile dipendente). Questo
metodo implica il ricorso a molti casi, ma ci induce a concentrarci su poche variabili.

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1.5 Strutture, cultura, calcolo razionale e istituzioni
La politica comparata studia un vasto spettro di ambiti; essa cerca di affrontare con un approccio realistico
ed empirico questioni di fondo riguardanti il modo in cui è effettivamente distribuito il potere politico, chi
ottiene cosa dalle scelte pubbliche, come si costituiscono i regimi politici e come possono essere sfidate le
autorità.
Le ipotesi scientifiche che toccano tutti questi aspetti sono orientate da scuole di pensiero e approcci
diversi. Un’importante distinzione tra i vari approcci riguarda il rilievo dato a tre diversi elementi che
contribuiscono a spiegare il comportamento degli individui o dei gruppi in contesti sociali: alcune teorie
pongono soprattutto l’accento sulla struttura delle relazioni entro cui individui e gruppi sono inseriti (es. la
divisione del lavoro in una particolare fase dello sviluppo economico e della conseguente divisione della
società in classi); altre pongono l’attenzione sulla cultura, ovvero sui codici cognitivi, i valori, le
comprensioni del mondo attraverso cui gli individui filtrano e valutano le alternative disponibili (es.
maggiore importanza data alla sicurezza, oppure alla libertà o all’uguaglianza); altre ancora partono
dall’assunto che tutti gli individui tendono a perseguire razionalmente un loro sistema di preferenze e che,
in ogni contesto, in genere, gli individui tendono a massimizzare un certo tipo di obiettivi (es. per le teorie
politologiche della scelta razionale più elementari i politici tendono a massimizzare la possibilità di acquisire
incarichi pubblici e di mantenerli e gli elettori la possibilità che vadano al governo i leader o i partiti che
esprimono le posizioni politiche più vicine alle loro).
A volte ci troviamo di fronte a teorie che adottano una sola di queste tre prospettive; oggi, invece, sempre
più sposso vengono adottati tutti e tre gli approcci. Nella scienza politica contemporanea si è verificato
inoltre un generale ritorno di interesse per le istituzioni:
- all’interno del cosiddetto neoistituzionalismo storico, che si occupa di macro fenomeni e grandi
trasformazioni di lungo periodo, si prediligono il metodo storico e le spiegazioni basate su fattori
strutturali;
- all’interno del neoistituzionalismo sociologico, per istituzioni si intendono norme interiorizzate,
schemi mentali, quadri cognitivi, paradigmi, miti razionalizzati (cioè componenti in senso lato
culturali) che definiscono le preferenze degli attori, vincolano le loro aspettative e i loro
orientamenti, inducendoli a dare per scontate certe opzioni rispetto ad altre;
- il neoistituzionalismo razionale costituisce una evoluzione delle teorie economiche della politica e
considera le istituzioni principalmente come regole o procedure che costituiscono un vincolo
rispetto al quale gli attori adattano strumentalmente le loro strategie oppure come un mezzo
attraverso cui attori razionali si propongono di raggiungere equilibri collettivamente più
vantaggiosi.

1.6 La comparazione e l’analisi dei casi


La comparazione migliora la nostra capacità di analisi della politica in modo circolare:
a) la descrizione dei singoli casi ci spinge a costruire parametri comparativi e sollecita questi circa la
relazione causale tra variabili;
b) con il metodo comparato possiamo sottoporre a verifica ipotesi scientifiche generali che ci
consentono di spiegare la variabilità dei fenomeni politici attraverso l’identificazione dei
meccanismi causali che li generano o li favoriscono;
c) il repertorio di ipotesi scientifiche di cui possiamo in questo modo disporre ci aiuta a costruire
schemi di analisi e spiegazioni dei singoli casi sempre più accurate, sollecitandoci a porre
particolare attenzione su alcuni aspetti, rilevanti ai nostri fini analitici, rispetto ad altri.

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L’obiettivo di questo manuale sarà quello di aiutare il lettore a riconoscere le differenze che esistono tra i
casi (i sistemi politici nazionali) e le relazioni che esistono tra le variabili (tra la struttura del sistema
partitico e la stabilità dei governi, ad esempio).

CAPITOLO 5: MODELLI DI DEMOCRAZIA E RENDIMENTO


La scienza politica, come tutte le discipline scientifiche, si propone innanzitutto di descrivere e spiegare i
fenomeni cercando di tenere distinte le sue analisi dai giudizi sugli attori e sulle loro preferenze. Questo
non vuol dire che sia completamente estranea a giudizi di valore.

5.1 I Falsi pericoli del presidenzialismo


Alcuni ritengono che il presidenzialismo esponga più del parlamentarismo le democrazie al rischio di
regressioni autoritarie. Ciò avviene perché la doppia legittimazione democratica (la separazione dei
mandati) spinge i presidenti ad entrare in conflitto con il parlamento, mentre la rigidità del mandato
presidenziale (la sua durata fissa) tende a rendere il conflitto irrimediabile. Al contrario, i sistemi
parlamentari sono più flessibili e favoriscono un reciproco adattamento tra le posizioni del leader di
governo e quelle dei partiti rappresentati nell'assemblea legislativa.
Mentre nei sistemi parlamentari il multipartitismo costringe a creare coalizioni più larghe e favorisce la
ricerca del consenso, nei sistemi presidenziali può avere l'effetto opposto: che si costituiscano governi
minoritari con posizioni molto distanti della posizione che prevale in parlamento.
Il conflitto rischia quindi di spingere il parlamento a bloccare le iniziative legislative del governo e il
presidente a scavalcare il parlamento con i decreti. L’inasprimento del conflitto o lo stallo porta al crollo del
regime e spesso all’entrata in campo dei militari come “potere moderatore”.
Questa lettura ricorda le note e tragiche vicende di alcuni paesi come Cile e Argentina degli anni ’70.
Attraverso un’accurata analisi empirica Cheibub ha messo in discussione questa lettura: i suoi dati
confutano la congettura secondo cui i sistemi presidenziali tenderebbero a disincentivare drasticamente la
formazione di coalizioni e i presidenti siano spesso sostenuti solo da una minoranza dei parlamentati.
Anche i capi di governo dei regimi presidenziali hanno infatti un ovvio interesse a negoziare il sostegno
della maggioranza parlamentare, sebbene abbiano incentivi più deboli rispetto ai primi ministri. Cheibub
non nega che i presidenzialismi tendano a regredire verso regimi autoritari più spesso delle democrazie
parlamentari. La sua analisi empirica lo conferma, con una specificazione importante. Essa mostra che le
democrazie crollano più difficilmente nei paesi più ricchi e nei paesi di minori dimensioni, mentre i
presidenzialismi sono più frequenti nei paesi poveri e più grandi. Tuttavia, rimane confermato che il
presidenzialismo ha un legame con l’instabilità del regime. Le democrazie cadono più spesso nei paesi con
regimi presidenziali, sostiene Cheibub, perché in quei paesi, per ragioni sociali indipendenti dalla forma di
governo, i militari tendono a invadere più spesso, con la forza, la sfera politica. E quando cedono il passo a
un governo democratico, tendono a concordare l’adozione di un regime presidenziale, più consono alla loro
cultura e alla loro visione delle istituzioni di governo.

5.2 Le incerte virtù della democrazia consensuale


Un altro dibattito tra i politologi riguarda i pregi e i difetti dei sistemi politici organizzati intorno al principio
della rappresentanza proporzionale e sul negoziato tra molti partiti, oppure intorno a quello maggioritario
della competizione tra proposte di governo alternative.
Lijphart ha fornito l'analisi più sistematica e certamente di maggiore diffusione sull'argomento
contrapponendo il “modello maggioritario di democrazie” e il “modello consensuale”. Alcuni ritengono

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che debba prevalere la proposta della maggioranza, anche se solo relativa, altri che si debba cercare
un’intesa tra il maggior numero di punti di vista frutto di un compromesso.
Lijphart ha identificato 10 caratteristiche alternative dell'assetto politico-istituzionale che a suo avviso
discenderebbero da una visione o dall'altra.
→Con riguardo alla dimensione dei rapporti partiti-parlamento-governo, la logica consensuale
implicherebbe:
- un sistema multipartitico,
- una legge elettorale proporzionale,
- la tendenza a formare coalizioni sovradimensionate,
- governi instabili che non dominano il legislativo,
- la stabile inclusione di associazioni imprenditoriali e sindacati nel processo decisionale pubblico
attraverso accordi di tipo neocorporativo.
→Sul piano dei rapporti tra istituzioni di governo centrali e autonomie territoriali, implicherebbe:
- un assetto federale,
- un parlamento bicamerale con poteri simmetrici e composizione disomogenea,
- una costituzione non scritta,
- la sovranità parlamentare assoluta sulla sua modifica,
- una banca centrale dipendente dall'esecutivo.
È rimasta abbastanza diffusa la convinzione che gli assetti consensuali non sono, in assoluto, preferibili. Gli
assetti consensuali rischiano di incentivare le divisioni e lo spirito di divisione, oltre agli “appetiti delle
minoranze”, facendo passare eccessivamente il loro potere di veto. Gli assetti maggioritari, al contrario,
danno ai cittadini la possibilità di esprimere un voto più incisivo e portano a governo più efficaci. Insomma,
le democrazie basate sul principio proporzionale e il negoziato sono state quasi sempre considerate più
rassicuranti, quelle basate sulla competizione maggioritaria più efficienti.
Lijphart ritiene invece di aver dimostrato che le democrazie consensuali hanno prodotto anche migliori
risultati rispetto alle democrazie maggioritarie con riguardo a una serie di obiettivi tra cui: la partecipazione
politica dei cittadini; l'adozione di politiche egualitarie; la presenza delle donne nei parlamenti nazionali; il
contenimento dell'inflazione e della disoccupazione.
Le migliori performance delle democrazie consensuali rilevate da Lijphart dipendono in realtà
principalmente da uno solo dei cinque fattori che compongono la prima dimensione. È l'indicatore di
corporativismo a risultare fortemente correlato con bassa inflazione e bassa disoccupazione. Analisi
successive hanno aggiunto che il legame positivo tra consensualismo, corporativismo e buoni rendimenti
economici riguarda soprattutto paesi piccoli dell'Europa centro-occidentale e scandinava. Quindi, il
consensualismo può essere efficace ma solo in congiunzione con il corporativismo e per paesi
relativamente piccoli, mentre il modello maggioritario appare preferibile per i grandi paesi.

5.3 Cosa viene prima? Economia, cultura, istituzioni


Non esistono risposte definitive agli interrogativi più ricorrenti e profondi riguardo alla preferibilità, in
assoluto, di questo o quel tipo di assetto istituzionale. E rimangono ancora da chiarire la natura e la
direzione dei nessi che legano sviluppo economico, cultura e istituzioni politiche. Ciò non toglie che le
democrazie abbiano bisogno di una continua manutenzione, di un continuo sforzo creativo per valorizzare
la partecipazione dei cittadini, rafforzare l’accountability e l’efficacia dei governi. È dubbio che la scienza
politica sia in grado di prescrivere le migliori riforme possibili.
Le conoscenze che la politica comparata può offrire aiutano comunque a mantenere ancorato alla realtà il
dibattito pubblico su questi temi, mettendolo al riparto da argomenti infondati, attraverso il confronto
sistematico delle esperienze di molti paesi diversi.

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CAPITOLO 6: IL REGNO UNITO
6.1 Il modello Westmister
Spesso il Regno Unito è preso ad esempio in quanto paese dotato di una lunga tradizione democratica. La
Camera dei comuni, che risiede nel palazzo di Westminster dal 1547, è l’istituzione legislativa più antica del
mondo. È inutile negare che l'idea del potere limitato e i principi dello stato di diritto (rule of law) si sono
istituzionalizzati definitivamente prima in Gran Bretagna che negli altri grandi paesi europei. Per di più, il
Regno Unito ha avuto una maggiore continuità politico-istituzionale, non avendo subito invasioni militari né
rivoluzioni politiche negli ultimi secoli.
L’assenza di grandi rotture e momenti costituenti ha lasciato il Regno Unito con un sistema costituzionale
abbastanza anomalo: a differenza di tutte le altre democrazie europee, non ha una Costituzione scritta, il
che rende l’assetto istituzionale assai flessibile, ma anche vulnerabile.
La forma di governo del Regno Unito è la monarchia parlamentare. Il concetto di sovranità in parlamento è
un’abbreviazione dell’espressione “la sovranità delle corona in parlamento”: il parlamento decide ma
decide in nome del monarca.
Questa formulazione ambigua è un elemento importante del sistema costituzionale, non solo perché
riconosce una sovranità alla corona che essa potrebbe rivendicare ma anche perché alcuni poteri formali
rimasti in mano alla corona (la cosiddetta “Royal Prerogative”) sono passati in pratica direttamente
all'esecutivo sfuggendo al controllo parlamentare.
Un’altra implicazione non irrilevante della sovranità del parlamento come principio costituzionale è che non
è mai stata riconosciuta formalmente la sovranità del popolo. La convezione costituzionale vuole che la
sovranità appartenga alla corona attraverso il parlamento, sia questo eletto a suffragio universale o meno.
Non essendoci nessuna “legge fondamentale” o “testo costituzionale”, istituzioni quale l’elezione a
suffragio universale, la libertà di espressione o il diritto al processo potrebbero essere soppressi con leggi
ordinarie.
Si intende che sarebbe politicamente insostenibile annullare le elezioni a suffragio universale e nessuno si
aspetterebbe che la regina eserciti i poteri della Royal Prerogative. All’apparenza, quindi, la democrazia
parlamentare britannica funziona in un modo più o meno stabile e prevedibile, nonostante l’assenza di un
testo costituzionale in grado di garantire i denominatori comuni della democrazia.
Il Regno Unito è un caso di democrazia maggioritaria come descritta da Lijphart. Dal dopoguerra al 2010 il
parlamentarismo britannico ha sempre sostenuto governi monopartitici, quasi sempre dotati della
maggioranza assoluta nella Camera dei comuni.
È una democrazia maggioritaria con governi monopartitici che hanno una maggioranza assoluta nella
Camera dei Comuni. Il bipartitismo britannico ha permesso una regolare alternanza al governo e la
compattezza dei loro gruppi parlamentari ha permesso ai differenti esecutivi di arrivare quasi sempre a fine
legislatura.
Il modello Westminster quindi produce governi stabili e monocolori, responsabili davanti al parlamento.
Una caratteristica interessante del caso britannico è che il sistema costituzionale non sembra aver
condizionato particolarmente le grandi linee di politica economica e sociale.
Il bipolarismo del modello Westminster può permettere sia una politica interventista dello Stato
nell'economia (laburisti del 1945-51) e sia una politica liberista (Thatcher-Major 1979-97).
Il governo laburista del 1945 fondò il moderno Welfare State britannico stabilendo pensioni pubbliche, il
sistema sanitario nazionale e nazionalizzò molti settori industriali come siderurgia, miniere e ferrovie. Il
Regno Unito in questo periodo era leader europeo nelle politiche sociali e nell’intervento statale
nell’economia. I conservatori, che succedettero ai laburisti, non apportarono grandi cambiamenti.

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La Thatcher, nel 1979, ridusse l'intervento statale nell'economia attraverso politiche di privatizzazione e
tagli ai programmi di spesa pubblica. Alla fine del XX secolo, il Regno Unito era considerato uno dei paesi
dove lo stato interveniva meno nell’economia, con un sistema di welfare relativamente limitato.
Che il Regno Unito sia stato il primo paese europeo a fondare un welfare state universalistico e poi il primo
ad adottare le ricette del neoliberalismo economico e sociale non è casuale. Anzi, il modello Westminster,
che mette insieme da una parte un bipartitismo forte con alternanze frequenti e dall’altra una forte
concentrazione dei poteri intorno alla leadership del governo centrale, permette di avviare grandi progetti
ideologici e superare le resistenze dei contropoteri parlamentari ed extraparlamentari.

6.2 Partecipazione politica e partiti: vecchie etichette, nuovi “cleavages”


Nel primo dopoguerra, a seguito dell'estensione del suffragio, si instaurò un bipartitismo quasi perfetto che
vedeva schierati sulla scena politica il Partito conservatore e il Partito laburista, che rappresentavano
interessi di classe chiaramente identificabili. La classe sociale era il motore della politica britannica.
Altri importanti cleavages politici, come la religione o il territorio, nel Regno Unito influivano in modo
secondario (questo, in realtà, vale soltanto per un periodo relativamente breve della storia britannica).
Il conflitto religioso fu al centro della politica britannica fino alla rivoluzione industriale (perse poi
importanza con la modernizzazione e la progressiva laicizzazione del paese).
All’inizio del XXI secolo, il cleavage religioso tra cattolici e protestanti si è politicamente assopito, con
l’eccezione dell’Irlanda del Nord.
La questione territoriale, invece, è rimasta una fonte importante di conflitto, anche se dalla formazione
della Repubblica d’Irlanda nel 1921 fino agli anni ’60 c’è stato un periodo di relativa calma.
Con l’attenuarsi del cleavage socioeconomico fra classe operaia e classe imprenditoriale dal 1960 in poi, il
“cleavage” territoriale riconquistò spazio.
Gli anni ’90 videro apparire in modo sorprendentemente forte un nuovo cleavage concernente il ruolo del
Regno Unito nel processo di integrazione europea; il discorso sempre più ostile dell’Unione Europea
adottato dal settore maggioritario del Partito conservatore dopo le dimissioni di Margaret Thatcher ha
creato un alto livello di tensione politica sulle questioni europee. Il cleavage europeo si è quindi incuneato
nella competizione politica fra destra e sinistra.
Un altro importante cleavage è quello (mai del tutto sepolto) fra immigrati extraeuropei e settori
dell’elettorato “indigeno” intorno a questioni di integrazione socioculturale. Il partito conservatore ha da
sempre manifestato il suo euroscetticismo, differenziandosi dai partiti di sinistra che premono per la
permanenza nell'Unione europea. I laburisti e i conservatori rimangono il perno del sistema partitico di
Westminster.
I conservatori hanno una storia che risale al '700. E' uno dei partiti più efficaci e stabili nel panorama
europeo. Esso è riuscito a superare momenti di mutamento sociale adattandosi alle nuove esigenze
politiche ed elettorati quando era necessario per la sua sopravvivenza. Durante la fase di industrializzazione
riuscì a integrare nel suo elettorato la classe imprenditoriale e, dopo la modernizzazione dell'assetto
organizzativo, anche di parte della classe operaia (anche dopo la formazione del Labour Party). Più di
recente, l’evoluzione organizzativa del partito è stata meno adeguata alle circostanze. Dopo la sconfitta del
1997, ripetutasi nel 2001 e nel 2005, la leadership ha affrontato alcune evidenti lacune strutturali, quali
l'esclusione degli iscritti dalla selezione dei candidati e del leader del partito e la separazione formale fra la
struttura di base, l'apparato centrale e il partito parlamentare. Furono poi stabilite nuove procedure
decisionali che coinvolgono anche la base del partito: anche gli iscritti possono votare per l'elezione del
leader e per i candidati al Parlamento. Le simpatie del Partito conservatore a favore dei ceti imprenditoriali
e dei grandi gruppi finanziari sono sempre state chiare.

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Il partito laburista è nato più recentemente rispetto ai conservatori; nacque nel 1900 come braccio
elettorale del potente movimento sindacale britannico. I sindacati erano la vera base del partito, e il
rapporto fra gli iscritti e la leadership del Labour era mediato dalle élite sindacali. Il modello organizzativo
ha comunque subito cambiamenti notevoli negli ultimi 25 anni: dalla fine del XX secolo il Labour è diventato
un partito sempre più autonomo dai sindacati.
I liberaldemocratici, la terza forza politica del Paese, hanno una storia più antica dei laburisti; prima della
nascita del Labour Party, erano la principale forza d'opposizione ai conservatori, distinguendosi per il loro
sostegno alla libertà religiosa e alle riforme politiche. Con la nascita e l'espansione del Labour Party, i
liberaldemocratici divennero una forza marginale nel sistema partitico britannico. Nel 1974 i liberali, come i
nazionalisti gallesi e scozzesi, sfruttarono la crisi del bipartitismo conservatori-laburisti aumentando i propri
consensi. Successivamente, una parte della fazione più moderata del Labour si scisse dal partito, fondando
il Partito socialdemocratico che nelle elezioni del 1983 formò una coalizione con i liberali. Dopo la
regressione elettorale del 1987, i due partiti si fusero in una nuova formazione, il Partito
liberaldemocratico. Questo nuovo partito mantiene le posizioni centriste del vecchio Partito liberale e si
contraddistingue per il suo europeismo. Con l’avvento di Tony Blair, i liberaldemocratici si erano avvicinati
molto al Labour, collaborando nella formazione delle riforme costituzionali e governando in coalizione con i
laburisti in Scozia. Ciò nonostante, questo avvicinamento è stato accolto con scetticismo dai liberali più
tradizionalisti e il partito è rimasto fiero della sua indipendenza. Nel 2010 la sconfitta del Labour ha
facilitato una svolta strategica dei liberaldemocratici, che hanno avuto l’opportunità di entrare nel governo
come partner di coalizione dei Conservatori. Però l’esperienza ha avuto costi notevoli: nelle elezioni del
2015 i liberaldemocratici hanno perso circa 2/3 dei voti e 49 dei 57 seggi conquistati 5 anni prima nella
Camera dei comuni, risultando del tutto marginali.

6.3 La competizione elettorale: il declino del bipartitismo


Il sistema partitico britannico continua a girare intorno ai due grandi partiti che, con l’aiuto del sistema
elettorale maggioritario, riescono a produrre nette maggioranze parlamentari e a governare senza dover
costruire coalizioni o richiedere appoggi esterni. Quest’apparente stabilità, comunque, maschera una serie
di importanti cambiamenti che dal 1974 in poi hanno messo in discussione il classico bipartitismo di
Westminster.
Dal 1945 al 1970 il bipartitismo britannico è stato una realtà indiscussa sia in termini di voti ottenuti dai
partiti, sia in termini della loro rappresentanza parlamentare. Le distorsioni del sistema elettorale si fecero
sentire in modo molto maggiore dal 1974 in poi, con l’emergere di forze politiche alternative che si
contendevano gli elettori delusi dai due principali partiti. Nelle elezioni del 1974 i laburisti ottennero una
maggioranza risicata di seggi parlamentari, mentre nel 1997 vinsero con una maggioranza schiacciante. Il
sistema elettorale vigente a Westminster, che prevede collegi uninominali, un solo turno di votazione e
formula plurality, favorisce i grandi partiti e penalizza i piccoli partiti con consensi geograficamente
concentrati. Solo con il crollo del voto conservatore nel 1997 i liberaldemocratici riuscirono ad aumentare
la loro presenza parlamentare.
Da tre decenni, quindi, un quarto dell’elettorato rifiuta stabilmente il bipartitismo, benché ciò non incida
direttamente e significativamente sull’aritmetica parlamentare. La ricerca di questo mutamento ha
scatenato un acceso dibattito. Il declino del voto Labour dai primi anni ’60 rispecchiava mutamenti
strutturali importanti nella società britannica: la classe operaia passò da un 58% dell’elettorato nel 1964 al
49% nel 1979 e al 36% nel 1992. Questa tendenza implicava un declino irreversibile del voto al Labour visto
che l’elettore medio cercava una rappresentanza meno collettivista di quella offerta dalla sinistra. Secondo
questa interpretazione, quindi, il declino del Labour si sarebbe potuto arrestare se il partito avesse
adeguato la sua offerta programmatica. La vittoria laburista alle elezioni del 1997, confermata nel 2001 e

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nel 2005, sembra avallare questa ipotesi in quanto i laburisti adottarono un programma mirato a
tranquillizzare gli elettori delusi dai conservatori, aumentando il numero di consensi nelle categorie sociali
più benestanti.
Per contro, alcuni studiosi individuano un’altra ipotesi: gli elettori mancano di chiare identificazioni
partitiche e votano in funzione della performance del partito di governo in termini soprattutto di indicatori
economici.
Il bipartitismo sta declinando anche nelle elezioni di secondo ordine, dove non vige il sistema elettorale
maggioritario. Nelle elezioni per le nuove istituzioni rappresentative in Scozia e Galles, il Labour ha perso
consensi, hanno invece riguadagnato terreno i partiti nazionalisti, i verdi e i socialisti scozzesi. Le elezioni
europee hanno visto la crescita dei Verdi e degli antieuropeisti dell’Ukip.
Nel 2015 queste tendenze hanno influito fortemente anche sulle elezioni legislative su scala nazionale:
l’Ukip ha ottenuto quasi il 13% dei voti (ma solo un seggio) e i nazionalisti scozzesi hanno travolto il Labour
nella sua roccaforte scozzese, prendendo 56 seggi su 59. Come conseguenza di questa nuova volatilità
elettorale, hanno acquisito maggiore importanza le campagne elettorali, per le quali i grandi partiti
impiegano le tecniche più avanzate di marketing politico per cercare di ottenere il voto degli elettori
indipendenti. Questo meccanismo fu messo in moto dai conservatori, mentre i laburisti inizialmente si
rifiutarono di seguirne l’esempio; dopo la sconfitta degli anni '80 anche i laburisti avviarono costose
campagne elettorali. Fondamentali nel finanziamento di queste campagne elettorali sono le aziende e i
singoli imprenditori. Negli ultimi anni i partiti sono ricorsi a metodi di finanziamento poco chiari dal
momento che l'iscrizione ai partiti è in calo.

6.4 Il governo: i poteri del primo ministro


Una delle caratteristiche più note del sistema britannico è l’accentramento di potere nell'esecutivo e nella
persona del primo ministro. Il sistema di “Cabinet Government” – il governo del gruppo ristretto dei
principali ministri riuniti nel Consiglio dei ministri – tende a rinforzare l'esecutivo e a indebolire il
parlamento. Nonostante negli ultimi anni si stia iniziando a parlare di presidenzializzazione del sistema
politico britannico (a causa della personalizzazione della politica intorno al primo ministro), rimane al
parlamento il potere di esprimere i governi e di mandarli a casa con un semplice voto di maggioranza.
Il quadro dei rapporti fra governo e parlamento è stato stabilito da un'evoluzione graduale del sistema
monarchico predemocratico. Quest'evoluzione ha spostato la sovranità dalla corona al parlamento, senza
però restringere i poteri formali del monarca. Questi poteri formali - la Royal Prerogative - vengono
esercitati in pratica dal governo, dando all’esecutivo un ampio margine di autonomia rispetto al legislativo.
Per esempio, il governo – in nome del monarca, che è il capo formale delle forze armate – può autorizzare
un’azione militare senza una previa votazione parlamentare.
Tuttavia, la forte posizione del Cabinet, e soprattutto del primo ministro, è dovuta solo in parte al Royal
Prerogative. È pur vero che il parlamento ha poteri di controllo notevoli, soprattutto grazie alla semplicità
delle procedure previste per esprimere la sfiducia al governo. Per di più, il personale ministeriale del
governo, per convenzione, proviene sempre dal parlamento: da un secolo a questa parte il primo ministro è
sempre stato un deputato della Camera bassa e tutti i ministri mantengono i loro seggi nei Comuni o nei
Lord e quando vengono nominati ministri dei non-parlamentari, viene loro assegnato un seggio alla Camera
alta. In pratica, quindi, il parlamento governa attraverso la fusione di legislativo ed esecutivo.
Questa fusione ha però due effetti contraddittori.
Da una parte, la presenza massiccia dei membri del governo in parlamento può avere un forte effetto sulla
capacità del governo di controllare la maggioranza parlamentare.
Dall'altra, questa fusione implica logicamente anche la presenza di una buona parte dei parlamentari
nell'esecutivo. In realtà, quindi, tutto dipende dalla coesione della maggioranza parlamentare. In un

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parlamento dove il partito vincitore ha un vantaggio numerico importante e le sue divisioni interne sono
sotto controllo, il governo riesce a imporre la sua volontà senza troppi problemi. Quando il partito di
governo ha una maggioranza risicata, la situazione si capovolge.
L’esercizio dei poteri formali e informali del primo ministro britannico ha come prerequisito una solida
maggioranza parlamentare e cioè la coesione interna del suo partito.
Il Cabinet Government, quindi, è in gran parte una conseguenza dell'evoluzione del sistema partitico. Il
bipartitismo, sostenuto e accentuato dal sistema elettorale maggioritario, fornisce maggioranze
parlamentari monopartitiche che sono molto più facili da gestire rispetto alle maggioranze di coalizioni
presenti in altre democrazie parlamentari europee.
Dal 1945 al 2005, infatti, solo 2 volte il partito più grande ai Comuni si è trovato senza una maggioranza
sufficiente per governare.
Il sistema elettorale, che sovrarappresenta i due partiti principali, “fabbrica” normalmente ampie
maggioranze. La formazione dei governi è quindi una conseguenza quasi meccanica dei risultati elettorali,
favorendo l’impressione che il primo ministro abbia una legittimazione personale di tipo presidenziale.
Dal punto di vista formale, le procedure di formazione del governo prevedono una partecipazione
significativa del monarca. Quando un primo ministro perde le elezioni o viene sfiduciato dal suo partito, la
convenzione vuole che presenti le dimissioni al monarca. Quest'ultimo, in qualità di capo dello stato, ha la
responsabilità di selezionare il nuovo capo del governo, dovendo scegliere il leader del nuovo partito di
maggioranza. Se nessun partito controlla la maggioranza dei seggi, allora il monarca deve scegliere il leader
del partito che ha più probabilità di ottenere il sostegno di una maggioranza alla Camera dei comuni. Il
leader del secondo partito alla Camera dei comuni ricopre il ruolo formale di “leader dell’opposizione” e
nomina anche dei “ministri-ombra” insieme ai quali costituisce una sorta di governo alternativo.
In condizioni normali, il monarca ha il semplice compito di invitare a Buckingham Palace il leader del partito
che ha vinto le elezioni per nominarlo primo ministro. Quest'ultimo si mette poi subito al lavoro per
scegliere i ministri del nuovo governo. Solo in un secondo momento viene convocato il nuovo parlamento e
il governo sottopone il suo programma legislativo per l'approvazione alla Camera dei comuni.
Il testo del programma viene pronunciato dal monarca – il cosiddetto Queen’s/King’s Speech – dopodiché
l’esecutivo si intende formalmente in carica. Va detto che non esistono casi in epoca democratica in cui il
programma governativo sia stato rigettato dal parlamento.
Il primo ministro può essere dimesso con un semplice voto di sfiducia. È chiaro, quindi, che l’ipotizzata
presidenzializzazione del parlamentarismo britannico ha più a che fare con le prassi organizzative dei partiti
politici che con la Costituzione.
I gruppi parlamentari cercano di mantenere un sostegno coeso al governo o al governo-ombra; sono noti
per la loro durezza e spesso la disciplina viene mantenuta anche con ricatti personali: i parlamentari meno
disciplinati raramente vengono nominati a posizioni governative.
La disciplina di partito tende a rompersi in momenti di grave divisione interna su questioni fondamentali. La
convenzione della “responsabilità collettiva” prevede che i membri del governo debbano sostenere la linea
politica stabilita nelle riunioni del Consiglio dei ministri, oppure dimettersi. È vero che, in condizioni
normali, questa convenzione dà un notevole potere al primo ministro, che può sfidare i suoi avversari
interni ponendoli di fronte all’alternativa di mettersi in riga o lasciare il governo. In pratica, però, le divisioni
interne più gravi non possono essere arginate in questo modo. La responsabilità collettiva limita solamente
la pubblicità che viene data ai conflitti interni, ma non toglie il potere di ricatto che una fazione ben
organizzata può esercitare in seno al governo e alla maggioranza parlamentare.
L’ipotesi della presidenzializzazione non si basa, quindi, sulle regole costituzionali. Il parlamento mantiene
importanti poteri di controllo, oltre alla facilità con cui un governo può essere sfiduciato. Perciò, la forza del

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primo ministro dipende in gran parte dalla sua gestione del rapporto con il gruppo parlamentare dei
Comuni.

6.5 Il parlamento: un bicameralismo “ereditato”


Il Parlamento di Westminster è diviso in due camere: i Comuni (Camera bassa) e i Lord (Camera alta). Dopo
la piena democratizzazione delle elezioni ai Comuni, i Lord hanno perso gran parte della loro rilevanza.
La Camera dei Lord è composta dai nobili ereditari e dai cittadini comuni a cui il governo ha conferito titoli
nobiliari a vita. Proprio perché non è una Camera elettiva, non dispone degli stessi poteri della Camera dei
Comuni.
È principalmente la Camera dei Comuni che esercita le funzioni parlamentari. Le commissioni parlamentari
hanno due funzioni principali: esaminano e criticano le attività dei Dipartimenti ministeriali ed esaminano e
criticano i progetti di legge. L’iniziativa legislativa rimane fortemente nelle mani dell’esecutivo e c’è una
forte pressione sui deputati affinché sostengano senza riserve le proposte del Queen’s Speech.
Sicuramente i deputati dei Comuni hanno meno potere che i parlamentari di altre democrazie dove i
governi di coalizione sono la norma.

6.6 - Le istituzioni politiche territoriali: i paradossi della “devolution”


Fino al 1997 il Regno Unito poteva essere considerato uno dei paesi più fortemente centralizzati fra tutte le
democrazie occidentali. L’assenza di istituzioni regionali significative ha accentrato il potere nelle mani
dell’esecutivo di Londra.
Questa polarizzazione territoriale dell’elettorato diede luogo a una forte mobilitazione a favore di un
processo di decentramento che ebbe particolare rilievo in Scozia (devolution, 1998).
Nel caso della Scozia, tutti i principali partiti, tranne i conservatori, erano favorevoli alle devolution. Oggi il
parlamento scozzese, eletto con il sistema proporzionale, esprime dunque un proprio esecutivo con un
proprio primo ministro. La legge stabilisce quali sono i poteri che rimangono a Westminster (come la
politica monetaria e fiscale, il sistema del welfare e la politica estera e di difesa) e lascia tutte le altre
competenze nelle mani del parlamento scozzese. In sostanza, il parlamento scozzese decide sulla politica
sanitaria ed educativa e ha anche il potere di stabilire un margine di variazione all’imposta sul reddito fino a
un massimo del 3%.
Per ciò che concerne il Galles (1998), le legge sulla devolution crea un'assemblea che viene eletta con il
sistema proporzionale, dotata tuttavia di poteri più limitati: non può variare il livello delle imposte e non
può varare leggi, ma solo definire la legislazione secondaria.
Nel 1999 fu varata anche una legge per Londra che ricostituiva un’assemblea locale metropolitana per la
capitale, con un sindaco eletto.
Queste riforme hanno permesso alcune variazioni significative nelle politiche pubbliche territoriali della
Gran Bretagna. Per esempio, la riforma sanitaria del governo Blair, che consente di fondare ospedali
sovvenzionati dallo stato ma indipendenti nelle loro operazioni finanziarie, non è stata applicata né in
Scozia, né in Galles. Queste politiche differenziate sono una novità nella storia moderna del Regno Unito e
hanno creato non pochi problemi al governo di Tony Blair, spesso criticato per le sue tendenze
accentratrici.
Un’altra novità importante è l’uso dei sistemi elettorali proporzionali in un paese noto per le sue tendenze
maggioritarie. In Scozia il Labour è rimasto il primo partito nelle due elezioni per il nuovo parlamento di
Holyrood, ma senza maggioranza assoluta. È stato perciò obbligato a formare governi di coalizione con i
liberaldemocratici. In Galles il dominio del Labour è più chiaro, ma durante il primo mandato della nuova
assemblea il partito non aveva la maggioranza assoluta e ha dovuto ricorrere ad accordi prima con i
nazionalisti gallesi, poi con i liberaldemocratici.

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Una delle incognite della devolution è il modo in cui si gestiranno in futuro i rapporti fra Westminster e le
nuove istituzioni territoriali. In particolare, esiste, potenzialmente, una forte tensione fra la devolution dei
poteri sulla sanità e l’istruzione e la politica di spesa pubblica, che rimane quasi totalmente nelle mani del
governo centrale.
Le tensioni si sono acuite a seguito del risultato del referendum sull’uscita del Regno Unito dall’UE che in
Scozia, come in Irlanda del Nord, ha visto prevalere nettamente i favorevoli a rimanere.
Il caso dell’Irlanda del Nord merita un trattamento a parte. Dopo la divisione dell’isola d’Irlanda e la
creazione dello stato indipendente irlandese nel 1921 ci fu già una devolution dei poteri al Nord, che fu
governato da un parlamento territoriale con ampi poteri e sede a Stormont. La maggioranza protestante, a
favore dell’unione con la Gran Bretagna, ebbe il controllo totale di quest’istituzione, in parte grazie alla
manipolazione dei distretti elettorali e il disenfranchisement di molti cittadini cattolici (per lo più favorevoli
all’unificazione dell’isola in uno stato irlandese indipendente di maggioranza cattolica).
L’insostenibilità di questo sistema di dominio unionista fu la principale causa dei 20 anni di tensione e
violenza che seguirono. Una serie di tregue dell’Ira negli anni ‘90 permise di aprire i negoziati che
culminarono nel 1998 nell’accordo “del Venerdì Santo” che prevedeva una devolution anche per l’Irlanda
del Nord, con la creazione di un’assemblea nordirlandese che esprimesse un esecutivo per la gestione della
sanità, dell’istruzione e dell’agricoltura.
Questa devolution ha degli aspetti innovativi: oltre al sistema elettorale proporzionale, l’assemblea è
organizzata in modo chiaramente consociativo: quando i deputati ottengono i loro seggi nell’assemblea,
devono dichiarare a quale “comunità” appartengono. Devono dire se sono unionisti (normalmente
protestanti), nazionalisti (cattolici), o altro. Il sistema di votazione richiede che per le decisioni più
importanti, oltre alla maggioranza numerica, ci sia anche una maggioranza all’interno delle due comunità.

6.7 I caratteri del “policy making”: poteri e contropoteri


I processi decisionali nel sistema politico britannico sono fortemente condizionati dal principio della
sovranità del parlamento e dalle prerogative dell'esecutivo. In teoria, ci sono pochi limiti formali alla
capacità d'azione politica di un governo sostenuto da una coesa maggioranza nella Camera dei comuni. In
pratica, però, vi è una serie di limitazioni che condizionano le decisioni anche dei governi più forti. Si
possono identificare due tipi di contropoteri: quelli formali, che sono istituzioni dello Stato (regina, Camera
dei lord, potere giudiziario); contropoteri sociali (mass media, gruppi di interesse quali i sindacati e la
rappresentanza imprenditoriale, le lobby e i gruppi di pressione).
→Il ruolo del monarca è diminuito con l'elezione a suffragio universale della Camera dei comuni; anche la
Camera dei lord si è ridimensionata (difficilmente può sfidare la camera dei comuni non essendo legittimata
elettoralmente) anche se può ancora ritardare la promulgazione di una legge.
Il ruolo di questi due contropoteri è stato spesso criticato in quanto politicamente non neutrali. La regina
Elisabetta ha mantenuto l’apparenza di neutralità con grande successo, anche se è legittimo sospettare una
preferenza per la stabilità e la continuità nell’attività di governo. I Lord, in contrasto, non sono
politicamente neutrali: i Lord ereditari (che fino al 1999 erano la maggioranza schiacciante della camera)
davano un forte vantaggio ai conservatori nelle votazioni più importanti. Dopo la riforma, la composizione
partitica dei Lord è diventata più equilibrata.
Il potere giudiziario: il Regno Unito non ha una costituzione scritta e quindi non esiste un’istituzione
giudiziaria incaricata di verificare la costituzionalità dei provvedimenti governativi o delle leggi. Esiste però
un ruolo di judicial review delle decisioni del governo e delle leggi secondarie: qui i giudici dell’Alta Corte
(High Court), se un cittadino fa appello, possono decidere se un provvedimento governativo eccede i poteri
stabiliti dalle leggi del parlamento e della Common Law.

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→I contropoteri informali sono molto importanti e secondo numerosi osservatori sono diventati talmente
forti da implicare il passaggio da un sistema di governo forte (Westminster) a un sistema di governance.
Questa tesi sostiene che il governo non ha più sufficiente autorità per imporre i suoi criteri e diventa solo
un attore fra tanti nel processo di policy making.
Essa dà particolare rilievo al ruolo di reti di attori come i gruppi di pressione, i funzionari delle varie agenzie
governative semiautonome ed esperti di vario tipo.
La tesi della governance rischia però di esagerare il decentramento e la frammentazione dei poteri
decisionali. Si possono citare aree in cui il potere del governo centrale si è rafforzato, anziché diminuire. Per
esempio, il sistema di governo locale britannico, da sempre suscettibile alle pressioni del governo centrale,
è diventato fortemente dipendente dalle decisioni dei ministeri durante gli ultimi due decenni. I sindacati,
che mantenevano un forte potere contrattuale fino alla sconfitta del governo Labour del 1979, sono stati
stroncati dalle riforme economiche e dalla deindustrializzazione degli anni '80.
Le riforme liberiste degli anni '80 hanno favorito i ceti imprenditoriali e il grande capitale, ma le
organizzazioni patronali non hanno goduto di particolare influenza. La Confederation of British Industry,
che rappresenta le aziende del settore manifatturiero, non è stata particolarmente beneficiata durante
l'epoca Thatcher e ha accolto l'arrivo al potere del Labour con favore. Per dirla in breve, la concentrazione o
la consultazione governativa con le parti sociali è di importanza marginale nell'odierno policy making
britannico.
L'influenza politica dei media, invece, è sempre più forte nella politica britannica. La tradizione di
indipendenza delle reti pubbliche della Bbc e l'efficace funzionamento dell'autorità per le televisioni private
hanno contribuito alla relativa imparzialità politica dell'informazione televisiva. Lo stesso non si può dire
per la stampa. I principali giornali nazionali sono schierati politicamente in modo molto chiaro e spesso
presentano un’informazione politica con un forte taglio propagandistico. Questo è, in particolare, il caso dei
cosiddetti tabloids, di contenuto fortemente populista e schierati principalmente su posizioni di destra. I
due tabloids più rappresentativi di questo quadro generale sono “The Sun” e “The Daily Mail” (fanno
campagne contro l’immigrazione e l’integrazione europea); l’altro principale tabloid, “The Daily Mirror”, è
schierato su posizioni di sinistra populista.

6.8 I difficili rapporti con l’Unione Europea


Il Regno Unito è stato, fino al referendum del giugno 2016 la successiva uscita, membro a pieno titolo
dell’UE. La storia delle difficili relazioni del Regno Unito con il processo di integrazione europea sono dovuti
al passato imperiale del Paese e alla sua posizione geografica isolana. Essendo separato dal continente
europeo dal mare, non ha subito invasioni e occupazioni militari da parte delle truppe nemiche durante le
due guerre mondiali. Inoltre, la sua vocazione marittima ha consentito un’espansione coloniale su scala
globale, creando relazioni commerciali privilegiate con paesi extraeuropei e forti legami con gli stati
indipendenti che emersero dalla decolonizzazione.
Per tutti questi motivi, Il Regno Unito scelse di non partecipare alle prime mosse della costruzione europea,
rimanendone fuori fino al 1973. Gli anni della “eurosclerosi” contribuirono all’adattamento dell’opinione
pubblica britannica all’ingresso nella Comunità, e la creazione del mercato unico dopo l’Atto unico europeo
fu fortemente sostenuta, e addirittura in parte promossa, dal governo liberista di Margaret Thatcher (i
conservatori sono sempre stati a sfavore dell’UE).
Tuttavia, il conflitto all’interno del partito su questo argomento portò alle dimissioni della Thatcher e i
governi del suo successore Major continuarono a essere segnati da forti divisioni interne. Con i governi
Labour, dopo il 1997, questo atteggiamento ostile cadde e Tony Blair propose di cambiare radicalmente la
politica britannica nei confronti dell’UE, incorporando finalmente il capitolo sociale europeo nella
legislazione interna ed esprimendo l’intenzione di integrare il Regno Unito anche nell’unione monetaria.

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Ma la strategia di Blair si è scontrata con seri ostacoli. Innanzitutto, il Labour Party, pur non patendo i forti
istinti antieuropeisti dei conservatori, ha anch’esso un passato euroscettico e, nel suo programma
elettorale del 1983, aveva addirittura proposto l’uscita dalla Comunità.
La difficoltà dei differenti governi su questioni europee sono riconducibili anche all’essenziale sfiducia dei
cittadini britannici verso il processo di integrazione; i cittadini britannici, e in particolare quelli inglesi, sono
nettamente più ostili all’idea dell’Europa rispetto ai cittadini degli altri paesi dell’Unione. Questi sentimenti
di rigetto sono accompagnati da un livello di conoscenza del funzionamento delle istituzioni europee che è
anch’esso più limitato rispetto agli altri stati membri di lunga durata. Questa relativa ignoranza spiega
anche il fatto che l’opinione pubblica britannica raramente ha registrato i vantaggi che il suo governo è
riuscito a ottenere nei negoziati con gli altri stati membri (infatti, molti osservatori hanno concordato che il
testo costituzionale europeo del 2004 incorpora quasi totalmente le richieste del Regno Unito).
L’euroscetticismo, quindi, sembra un rifiuto della logica dell’integrazione fra stati europei, piuttosto che
una reazione critica alle istituzioni e a specifiche politiche europee. L’opinione pubblica, e un settore
importante del Partito conservatore, non hanno mai accettato pienamente l’integrazione del Regno Unito
nell’UE, con il risultato che il governo Cameron si è visto costretto a convocare il rischioso referendum del
2016 che ha sancito la scelta di uscire dall’Ue.

6.9 Conclusioni: un modello che cambia


Nonostante, quindi, l’impressione di stabilità e continuità, il sistema politico britannico sta vivendo
cambiamenti molto importanti. Il programma di riforme costituzionali avviato dal governo Blair alla fine
degli anni ‘90 ha portato alla creazione di nuove istituzioni di governo per la Scozia, il Galles e l’Irlanda del
Nord e ha eliminato il diritto di voto dei Lord ereditari nella Camera alta. Sono stati adottati sistemi
elettorali proporzionali per le nuove istituzioni elettive e anche per le elezioni europee. In alcune città
inglesi, fra cui la capitale, è stata adottata l’elezione diretta del sindaco.
Queste riforme hanno esplicitamente messo in questione il modello Westminster. Tuttavia, non si può dire
che si sia assistito a un cambiamento unidirezionale. Il sistema politico si è evoluto in direzioni
contraddittorie. Da una parte, la crescente personalizzazione della politica nei media e l’aumento delle
risorse governative in mano al primo ministro hanno dato una maggiore autonomia al capo dell’esecutivo.
Dall’altra, la devolution e il rafforzamento dell’esecutivo nei governi locali hanno portato a un maggiore
decentramento della politica britannica.
Sfide ancora maggiori al modello sono tuttavia venute negli anni successivi. Superata l’anomalia del
governo di coalizione, grazie alla conquista da parte dei conservatori di una risicata maggioranza di seggi
nelle elezioni del 2015, Cameron confidava di consolidare definitivamente la sua leadership,
ridimensionando i suoi antagonisti interni euroscettici, con un risultato favorevole al remain del
referendum sulla partecipazione britannica all’Ue. L’esito del referendum ha invece aperto uno scenario
completamente diverso. Non solo il leader dei conservatori, sconfitto dal suo stesso azzardo, si è dimesso.
Anche il leader labourista Jeremy Corbyn è stato sfiduciato dal suo gruppo parlamentare per aver tenuto
una posizione ambigua o quanto meno poco incisiva nella campagna per il remain, mentre i maggiori
esponenti del partito trasversale pro leave, Boris Johnson e Nigel Farage, in un modo o nell’altro sono usciti
di scena, forse anche a causa dell’impatto fortemente negativo della Brexit sui mercati e le aspettative del
pubblico* (in realtà, Boris Johnson è diventato primo ministro in seguito alle elezioni del 2018).
Inoltre, si è riaperta, più forte di prima, la campagna per la secessione scozzese in quanto i sostenitori del
leave hanno prevalso grazie ai voti raccolti in Inghilterra e in Galles, soprattutto tra gli elettori più anziani,
mentre il 62% degli scozzesi, il 56% dei residenti in Irlanda del Nord, il 60% dei londinesi e in prevalenza i
più giovani hanno votato a favore del remain.

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CAPITOLO 7: LA GERMANIA
7.1 Il disegno costituzionale: dalla “lezione di Weimar” alla riunificazione
La storia della Repubblica federale tedesca (Rft) viene solitamente considerata una storia di successo. Si
tratta di un'interpretazione che da un lato tiene conto dei fallimenti (Weimar) e tragedie del passato
(nazismo), dall'altro riflette i risultati conseguiti dalla Germania Ovest nella seconda metà del '900.
La riunificazione tedesca può essere vista come il coronamento di questo successo politico. La riunificazione
delle due Germanie costituisce l'esito di un lungo cammino, che era difficile prevedere all'indomani della
Seconda guerra mondiale. Nel 1945 il paese era stato sconfitto e occupato, le sue città e la popolazione
profondamente segnate dalle devastazioni della guerra e dall’esperienza del regime nazionalsocialista.
Nel 1949, la nascita della Repubblica federale a Ovest e della Repubblica democratica a Est sancivano
formalmente la divisione del paese quale diretta conseguenza della guerra fredda, generando un'ulteriore
fonte di insicurezza e frustrazione all’interno delle nuove entità statali.
Nella Germania Est veniva instaurato un regime a partito unico, mentre nella Germania Ovest, con
l'approvazione della Legge fondamentale nel 1949, furono gettate le basi di un nuovo ordinamento
democratico che godeva di una limitata legittimazione popolare.
La Rft costituiva più il prodotto di una scelta di politica estera dei governi alleati che l’espressone della
volontà del popolo tedesco: tanto più che quest’ultimo non aveva avuto la possibilità di eleggere
direttamente l’assemblea costituente (il Consiglio parlamentare) né quella di ratificare il testo finale della
Carta di Bonn (la capitale provvisoria fino alla riunificazione).
Il Consiglio si componeva dei rappresentanti delle assemblee nelle regioni occidentali (Laender) ed era
stato investito del potere costituente direttamente dalle forze di occupazione alleate. D’altra parte, la
cultura politica della maggioranza della popolazione era all'epoca ancora impregnata dell'autoritarismo di
derivazione prussiana che era ritenuto uno dei fattori che determinarono il crollo della Repubblica di
Weimar.
È opportuno sottolineare come il ricordo in negativo di Weimar, l'esperienza drammatica del
nazionalsocialismo, la centralità della “questione nazionale” e soprattutto l'incombenza del bipolarismo
internazionale abbiano profondamente condizionato sia l'affermazione che la successiva evoluzione della
democrazia tedesca fino ai giorni nostri. Anche i contenuti della Legge fondamentale (che ha valore di
“Costituzione”, in tedesco “Grundgesetz”) furono fortemente influenzati dalla cosiddetta “lezione di
Weimar”.
Due furono in particolare gli elementi dell'ordinamento politico-istituzionale weimariano che i costituenti di
Bonn considerarono come fattori che avevano contribuito al crollo del sistema. In primo luogo, la legge
elettorale proporzionale pura, dal momento che questa aveva agevolato la formazione di maggioranze
parlamentari instabili. In secondo luogo, gli ampi poteri del capo dello stato che avevano reso possibile la
deriva istituzionale del parlamentarismo verso un sistema in cui i governi si trovavano svincolati da ogni
legame con il parlamento.
Per questi motivi gli estensori della Legge fondamentale adottarono una serie di accorgimenti: il
rafforzamento della posizione dell'esecutivo, in particolare quella del cancelliere, e il tentativo di contenere
la frammentazione del sistema partitico. Nel 1953 venne introdotta la clausola di sbarramento del 5% su
base federale, mentre nel 1952 e nel 1956 vennero messi fuori legge i due partiti antisistema, il Partito
d’impronta neonazista (Srp) e quello comunista (Kpd).
I padri costituenti assegnarono al parlamento una posizione centrale nel processo di legittimazione del
potere politico e definendo per il presidente della Repubblica un ruolo notarile. Inoltre, per evitare la
ricostituzione di uno stato forte, gli occupanti americani, britannici e francesi attribuirono il potere
costituente a un consiglio composto da delegati dei Lander affinché venisse rafforzato il federalismo.

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Infine, allo scopo di immunizzare la democrazia tedesca contro eventuali cambiamenti negli orientamenti
politici, gli estensori del Grundgesetz decisero di regolamentare le funzioni dei partiti politici e di codificare
un nucleo costituzionale, un vero e proprio sistema di valori, che non può essere modificato neppure da
un’amplissima maggioranza.
In base alla cosiddetta clausola di eternità, sono sottratti al procedimento di revisione costituzionale sia i
diritti fondamentali relativi alla dignità umana e ai diritti umani, sia i principi basilari di struttura dello stato
(repubblica, democrazia, stato federale, stato di diritto e stato sociale).
L'altra limitazione della sovranità parlamentare è data dall'assegnazione della funzione di “custode della
Costituzione” alla Corte costituzionale federale, la quale è stata chiamata a risolvere quasi tutte le maggiori
controversie sull’interpretazione del dettato costituzionale.
Se si considerano l’elevata durata media dei governi si può ben dire che l’obiettivo della stabilità del
governo che si erano posti i costituenti tedeschi sia stato centrato. Tuttavia, sarebbe riduttivo considerare
tale esito come un effetto diretto della cosiddetta “lezione di Weimar”.
La sfiducia costruttiva è il meccanismo incaricato a regolare la fine anticipata del rapporto fiduciario che
prevede la possibilità di far cadere i governi solo in presenza di una sfiducia che indichi già il nuovo
cancelliere (questo meccanismo è stato adottato in due soli casi). Ha assunto l’aspetto di un vero
complotto, con i partiti costretti a condurre le trattative dietro le spalle del cancelliere, per evitare che
quest’ultimo giocasse d’anticipo tramite lo scioglimento anticipato delle camere.
Anche lo scioglimento anticipato è stato oggetto di un'evoluzione interpretativa che ha finito per
trasformarne profondamente il significato. Concepito come deterrente contro la crisi di governo, lo
scioglimento anticipato è diventato una sorta di potere semipresidenziale del cancelliere; alcuni di questi
non si sono fatti scrupoli ad azionare questa funzione, facendosi deliberatamente rifiutare la fiducia dalla
propria maggioranza parlamentare, che era stata posta proprio allo scopo di poter in seguito chiedere al
presidente federale, e poi ottenere, il ricorso anticipato alle urne.
Anche in Germania, come nel Regno Unito e in Spagna, le elezioni hanno quasi sempre portato a
un'investitura diretta del capo dell'esecutivo. Gli elettori si sono trovati quasi sempre nella condizione di
determinare direttamente, con le loro scelte di voto, il prevalere di una delle due coalizioni alternative e del
rispettivo candidato cancelliere. Il leader del governo ha sviluppato a sua volta un rapporto di
responsabilità sempre più diretto nei confronti degli elettori. La Legge fondamentale nel corso del tempo è
stata oggetto di numerose modifiche.
L’elevata frequenza con la quale è stato possibile emendare in Grundgesetz si può spiegare anche con il
fatto che in Germania il procedimento di revisione costituzionale è piuttosto semplice (richiede l’assenso di
due terzi dei membri del Bundestag e due terzi del Bundesrat).
Sul piano contenutistico, la maggior parte delle modifiche introdotte ha riguardato i rapporti tra la
federazione e i Lander e in particolare la ripartizione delle competenze legislative, lasciando tuttavia
inalterato l’impianto originario del disegno costituzionale.

7.2 Partecipazione politica e i partiti: tra rivoluzione e continuità


Nell'ambito del più ampio processo di democratizzazione della società tedesca nel secondo dopoguerra la
partecipazione politica è aumentata; se nei primi anni ’50 la popolazione appariva “disinteressata” per non
dire “ostile” nei confronti della politica, nei decenni successivi aumenta il numero degli iscritti ai principali
partiti politici. Alla fine degli anni ’60 irrompono i movimenti studenteschi e si assiste a un maggior
coinvolgimento degli intellettuali nella vita politica. Negli anni ’70 e ’80 emergono nuove sensibilità
politiche a favore della pace, dell’ambiente, dell'emancipazione femminile, dello sviluppo dei paesi più
poveri. Il livello di partecipazione elettorale non ha subito incrementi significativi perché nella Repubblica
federale è sempre stato elevato. Vi è stata una diminuzione di più di 10 punti percentuali tra il 1976 e il

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1990, ma questo calo di voto viene ricompensato dal ricorso più frequente a canali non convenzionali della
partecipazione politica.
Per quanto riguarda il periodo post-riunificazione, fino al 1998 la partecipazione elettorale ha ripreso ad
aumentare, per poi calare di nuovo in misura significativa negli ultimi anni. Generalmente, nella parte
orientale del paese i tassi di astensionismo e di volatilità elettorale (vale a dire la percentuale aggregata di
elettori che da un’elezione all’altra cambia voto) sono molto più elevati che nella parte occidentale.
Questo dato, da un lato, è riconducibile alla minore familiarità dei cittadini dell'Est con le istituzioni
democratiche, dall’altro riflette la forte delusione per il mancato miglioramento delle condizioni di vita
all'indomani della riunificazione tedesca.
Nelle tornate elettorali del 2009 e del 2013 sono stati registrati i livelli più bassi di partecipazione al voto dal
1949. Il fenomeno di disaffezione dei cittadini nei confronti dei principali partiti tradizionali ha finora
colpito tutte e tre le formazioni storiche del paese: i cristiano–democratici (Cdu e Csu), i socialdemocratici
(Spd) e i liberali (Fdp).
Eppure in passato cristiano-democratici, socialdemocratici e liberali si erano mostrati capaci di rispondere
alla domanda di cambiamento che proveniva dalla società. D’altra parte, occorre anche rilevare che rispetto
a quanto è avvenuto in altri paesi dell'Europa occidentale (Italia o Francia), la crisi dei partiti tradizionali in
Germania ha assunto dimensioni più limitate. Si consideri, ad esempio, che ancora nel 2009 Cdu/Csu, Spd e
Fdp rappresentavano le tre principali forze politiche del paese. Questo risultato si spiega anche grazie al
processo di unificazione che ha esteso le strutture politiche occidentali alla parte orientale del paese.
Insieme ai liberali, i cristiano-democratici e i socialdemocratici riflettono anche le storiche dimensioni di
conflitto socioeconomica (Cdu/Csu e Fdp vs Spd) e religiosa (Spd e Fdp vs Cdu/Csu).
Tuttavia è opportuno ricordare che la rilevanza di questi due cleavages nel processo di aggregazione delle
identità politiche è andata progressivamente diminuendo dinanzi alla sempre maggiore differenziazione
socioprofessionale e alla secolarizzazione della società.
Oltre alla dimensione socioeconomica se ne può individuare una seconda che viene definita ”social-
liberale”: le persone e i partiti con valori individualisti, libertari e socialmente liberali si collocherebbero a
un'estremità dello spettro, mentre le posizioni politiche che favoriscono la sicurezza e l'ordine, la religione
e i valori conservatori della famiglia si troverebbero all'altra estremità. Questo nuovo cleavage ha fatto la
sua comparsa in Germania tra fine anni '70 e primi anni '80 con l'ondata postmaterialista, con l'ingresso
nella scena politica tedesca del partito dei Verdi (Grunen), che hanno adottato le proprie strategie ai
meccanismi della democrazia rappresentativa. I Verdi hanno formato dei governi di coalizione a livello
regionale anche con la Cdu.
Un discorso a parte merita la Pds, oggi Die Linke. Nata dalle ceneri del partito unico (Sed) della ex Rdt, la
Pds si è posta sin dal principio come alternativa a tutti i principali partiti di matrice occidentale,
contestando la riunificazione e cavalcando il crescente malumore dei cittadini tedeschi orientali verso le
promesse non mantenute, soprattutto sul piano economico; il che spiega anche la sua iniziale irrilevanza
elettorale nella parte occidentale del paese. Col passare degli anni, il partito si è “occidentalizzato”
adottando un approccio più pragmatico.
Nonostante il divieto costituzionale delle forze antisistema, la Germania non è stata immune all'ascesa
periodica di partiti di destra radicale. Recentemente sulla scena politica tedesca hanno fatto il loro ingresso
altri due attori politici: i Pirati e l'Alternativa per la Germania (Afd). Entrambe le formazioni politiche si sono
presentate come movimenti di protesta contro i partiti consolidati, ottenendo alle elezioni politiche un
consenso trasversale rispetto agli schieramenti tradizionali, ma non sufficienti per entrare nel Bundestag. I
Pirati hanno mobilitato attraverso internet un elettorato giovane e molto critico nei confronti dei mezzi
tradizionali della democrazia rappresentativa; l’Afd ha fornito invece una nuova piattaforma politica per
dare voce ai sentimenti di euroscetticismo.

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7.3 La competizione elettorale: bipolarismo e (poche) alternanze
In Germania circa la metà dei seggi del Bundestag viene assegnata in collegi uninominali ai candidati che, in
ciascun collegio, ottengono la maggioranza relativa dei voti; l'altra metà viene assegnata con un sistema
proporzionale di lista, previo superamento di una clausola di sbarramento su base federale.
Il secondo voto è quello più importante, dal momento che determina con formula proporzionale il numero
complessivo dei seggi spettanti a quei partiti che abbiano ottenuto almeno il 5% dei voti di lista a livello
nazionale e 3 seggi nei collegi uninominali.
Da questa quota vengono poi detratti i seggi vinti nei collegi uninominali, così da compensare le eventuali
disproporzionalità prodotte dalla formula maggioritaria. Pur non trattandosi di un sistema elettorale
particolarmente costrittivo, è opinione diffusa che la “proporzionale personalizzata” con lo sbarramento al
5% abbia finito per produrre effetti selettivi, contribuendo a mantenere limitato il livello di pluralismo
partitico.
Per quanto riguarda l'evoluzione del sistema partitico tedesco, un primo importante cambiamento è
avvenuto tra il 1952 e il 1961. Dal sistema frammentato emerso dalle prime elezioni del 1949, con 10 partiti
al Bundestag, due dei quali su posizioni estreme, si è passati, in poco meno di un decennio, a un sistema
con soli tre partiti rilevanti (Cdu/Csu, Sdp e Fdp).
In questi anni si è poi assistito a una progressiva concentrazione del voto a vantaggio dei due grandi partiti
popolari: in seguito all’affermazione dei Verdi e al consolidarsi dell’alleanza di governo tra questi ultimi e la
Sdp (seconda metà degli anni ’90) si passa da un sistema composto da tre partiti a un sistema a due blocchi,
ovvero i cristiano-democratici e i liberali sul lato destro, i socialdemocratici e i Verdi sul lato sinistro. Più di
recente il sistema partitico tedesco è stato definito “pentapartitico fluido”: un sistema con cinque partiti
sopra la soglia di sbarramento del 5% (Cdu/Csu, Spd, Fdp, Verdi e Die Linke), in cui non può essere dato per
scontato che uno dei due schieramenti conquisti la maggioranza dei seggi parlamentari. Così sia nel 2005
che nel 2013 i due principali partiti sono stati “costretti” a formare una grande coalizione.

7.4 Il governo: democrazia del cancelliere e politica di coalizione


In considerazione del rapporto fiduciario che intercorre tra la Camera bassa (Bundestag) e il capo
dell'esecutivo (Bundeskanzler), la forma di governo è di tipo parlamentare. Il cancelliere, designato dal
presidente federale, viene eletto dal Bundestag senza dibattito, a scrutinio segreto e con il quorum della
maggioranza assoluta. L’art. 63 della Legge fondamentale dice anche che se il candidato proposto non viene
eletto, il Bundestag può eleggere un cancelliere federale a maggioranza dei suoi membri entro i quattordici
giorni successivi alla votazione. In assenza di elezione entro il predetto termine, ha luogo immediatamente
una nuova elezione, nella quale è eletto colui che ottiene il maggior numero di voti. Se l’eletto ottiene i voti
della maggioranza dei membri del Bundestag, il presidente federale lo deve nominare entro sette giorni
dall’elezione. Se l’eletto non raggiunge tale maggioranza, il presidente federale, entro sette giorni, deve
nominarlo o sciogliere il Bundestag.
Sempre il Bundestag ha poi il potere di destituirlo tramite il meccanismo della sfiducia costruttiva.
La “democrazia del cancelliere” è l'elemento distintivo del sistema politico tedesco meno colpito dai
cambiamenti intervenuti dopo la riunificazione. Il cancelliere e il suo gabinetto detengono il monopolio
dell'iniziativa politica.
L'iniziativa legislativa e/o amministrativa scaturisce, in genere, all'interno del ministero competente nella
materia; viene poi sottoposta all'attenzione degli altri componenti dell'esecutivo, ma anche di un cospicuo
numero di attori esterni. Una volta trovato un accordo tra i vari membri della coalizione, questo viene
presentato come progetto di legge a nome di tutto il gabinetto. D’altra parte, il cancelliere difficilmente
rinuncia a far valere la sua supremazia all’interno della compagine ministeriale nei casi in cui ciò dovesse

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risultare necessario: egli assume personalmente l'iniziativa politica in relazione alle questioni più rilevanti,
può bloccare un'iniziativa ministeriale che considera incompatibile con la sua linea politica e dispone
dell'autorità necessaria per mediare tutti i tipi di contrasto che si verificano all'interno del suo gabinetto.
Tuttavia, il cancelliere non può nemmeno essere considerato come il detentore assoluto del potere
decisionale: in primo luogo perché sia l'autonomia dei singoli ministri nella gestione degli affari che
rientrano nell'ambito della loro competenza, sia il principio della “responsabilità collettiva” del governo
sono costituzionalmente garantiti; in secondo luogo perché il cancelliere si è sempre trovato a operare
all'interno di un governo di coalizione, non potendo perciò prescindere delle rivendicazioni del partito
alleato senza rischiare una crisi di governo.
Le possibilità per il capo dell’esecutivo di far valere pienamente le sue prerogative costituzionali, dunque,
dipendono anche dalle dimensioni e dalla coerenza interna della coalizione di governo che si trova a
guidare.
Come si è detto, la composizione del governo in Germania è tipicamente multipartitica. Dal 1949 al 1960
abbiamo assistito prevalentemente a governi di coalizione dominati dall’Unione cristiano-democratica, che
contenevano un numero di partiti maggiore di quello necessario per giungere alla maggioranza in
parlamento. Dal 1961 a oggi si sono invece alternati per lo più stabili governi di coalizione “a maggioranza
minima vincente” di centrodestra e di centrosinistra, cioè governi di coalizione che non includevano alcun
partito che non fosse necessario per ottenere la maggioranza in parlamento.
In uno scenario dominato dall'alternanza tra governi di centrodestra e governi di centrosinistra, la
formazione di un governo di grande coalizione, nel 1996, nel 2005 e nel 2013, potrebbe apparire un fatto
episodico. In realtà, il primo accordo di governo tra i cristiano-democratici e i socialdemocratici fu al
contempo espressione e catalizzazione di due fenomeni di lungo periodo strettamente collegati: la
strutturazione del sistema dei partiti su una logica bipolare e il consolidamento di una cultura politica
consensuale. All’epoca, Cdu/Csu e Spd decisero di collaborare per contrastare insieme la prima recessione
economica del secondo dopoguerra.
Questa breve esperienza consociativa, anziché distorcere, finì per favorire l’andamento sostanzialmente
bipolare del sistema politico tedesco in direzione di una compiuta “democrazia dell’alternanza”.
Completamente diverse appaiono invece le circostanze in cui è maturato l’accordo di governo tra
cristianodemocratici e socialdemocratici nel 2005 e, successivamente, nel 2013. Negli ultimi due casi la
grande coalizione fu per lo più una necessità imposta dall’aritmetica.
L'esperienza della prima grande coalizione è stata considerata da alcuni studiosi come una fase segnata da
un ripiegamento verso un sistema di governo ispirato dalle logiche della “democrazia negoziale”. All’epoca
il cancelliere dovette infatti prendere atto del fatto che nel contesto di una grande coalizione il suo margine
di manovra risultava assai più limitato di quello dei suoi predecessori.
Il suo compito consisteva principalmente nel coordinare l’attività di governo e nell’elaborare soluzioni di
comportamento entro cui ricomporre i dissidi interni al governo e ai partiti della maggioranza. In realtà, i
maggiori condizionamenti connessi alla coabitazione tra partiti appartenenti a schieramenti normalmente
contrapposti non hanno impedito ad Angela Merkel, per esempio, di far valere alcune delle principali
prerogative della “democrazia del cancelliere”.
La cancelliera Merkel non solo ha potuto esercitare un ruolo attivo nella politica estera, ma non ha
nemmeno rinunciato a far valere la sua primazia all'interno della compagine ministeriale per indirizzare
l'azione di governo. Proprio il notevole apprezzamento mostrato dall'opinione pubblica nei confronti della
cancelliera ha indotto qualche osservatore a parlare di un latente “personalismo presidenziale”. Tuttavia,
rispetto al suo diretto predecessore e ad altri leader europei, Angela Merkel si è fin qui distinta per uno
stile di governo sobrio ed essenziale.

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7.5 Il Parlamento: il bicameralismo federale
In Germania, come in tutti i sistemi federali, il parlamento presenta una struttura bicamerale: il Bundestag,
eletto a suffragio universale, e il Bundesrat, composto dai rappresentanti dei governi regionali dei Lander.
• BUNDESTAG: 598 membri; rinnovo ogni 4 anni; potere di dare e ritirare la fiducia (una delle più
ampie prime camere al mondo).
• BUNDESRAT: 69 membri; membri designati in seguito alle diverse elezioni regionali; 3-6
rappresentanti in rapporto alla popolazione del Land; escluso dal circuito fiduciario.
L'immunità parlamentare vale invece solo per i deputati, cioè per i membri della camera eletta
direttamente dal popolo. I componenti del Bundesrat possono ugualmente beneficiare dell'immunità, ma
solo in quanto membri delle assemblee regionali e, dunque, solo nelle forme di tutela previsti dai rispettivi
Lander di appartenenza.
Il Bundesrat rappresenta un'istituzione unica nel suo genere, potendo essere considerato a tutti gli effetti
come una delle seconde camere più potenti nel mondo. Prima della riforma costituzionale del 2006, nel
processo legislativo il consenso del Bundesrat era richiesto costituzionalmente per più della metà delle leggi
federali, incluse alcune decisioni-chiave.
Inoltre, in situazioni di emergenza, il Bundesrat può addirittura determinare l’approvazione di una proposta
di legge nonostante il parere contrario della prima camera.
La camera dei Lander ha finito per sviluppare un'importante funzione anche nel dualismo tra governo e
opposizione, con la conseguenza che le decisioni di voto al Bundesrat sono state spesso orientate dalle
direttive di partito più che dagli interessi peculiari regionali.
La coabitazione tra due camere guidate da due maggioranze diverse costituiva sicuramente un problema di
tipo istituzionale. D’altra parte, la coabitazione “inefficiente” era anche un problema politico, fin quando i
partiti usavano i loro voti al Bundesrat per rafforzare l’opposizione a livello federale, costringendo il
governo a un’estenuante e spesso improduttiva negoziazione. Il rischio di immobilismo decisionale è stato
però quasi sempre scongiurato, soprattutto grazie al prevalere di strategie cooperative da parte delle
principali forze politiche in sede di “Commissione di mediazione congiunta”. Si tratta di un organo
composto da 32 membri, cui viene affidata la risoluzione delle controversie che emergono in ambito
legislativo tra Bundestag e Bundesrat.
Il caso tedesco mostra bene quanto sia illusoria la pretesa di ottenere una netta separazione tra la
rappresentanza politico-pratica e quella territoriale nei due rami del parlamento. A ciò va aggiunto che i più
prestigiosi e ambiziosi leader del partito di opposizione, piuttosto che farsi eleggere nella Camera bassa,
preferiscono solitamente candidarsi alla carica di ministri presidenti dei Lander.
Ciò nonostante, il parlamento tedesco figura tra le assemblee più produttive ed efficienti d’Europa. Ciò
trova conferma anche nel totale delle proposte di legge approvate, nella durata media dell’iter legislativo e
nel livello di precisione delle disposizioni normative. A tale riguardo, le commissioni parlamentari
permanenti della prima camera hanno finito per assumere un ruolo di primissimo piano, al punto che i
progetti da loro elaborati finiscono molto spesso per essere approvati dall’assemblea plenaria senza subire
alcuna modifica.

7.6 Istituzioni politiche territoriali: il federalismo cooperativo in trasformazione


Diversamente dalle due esperienze federali precedenti, la Bundesrepublik presenta una struttura statale
fortemente decentralizzata, con le sue componenti (Lander) dotate di una propria identità statuale, nonché
di ampie autonomie legislative, amministrative e giurisdizionali.
Sia nel Kaiserreich che nella Repubblica di Weimar gli equilibri tra centro e periferia pendevano infatti
nettamente a favore del governo centrale.

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Ciascun Land dispone di organi legislativi ed esecutivi propri e persino di una propria Costituzione. Si tratta
per lo più di “Costituzioni piene”, nel senso che disciplinano i vari aspetti relativi all'organizzazione e al
funzionamento del Land; d'altra parte, sono vincolate al rispetto dei principi dello stato di diritto,
democratico e repubblicano, ai sensi della Legge fondamentale. La forma di governo vigente in tutti i
Lander è di tipo parlamentare; esistono tuttavia in molti casi differenze significative rispetto al modello
federale della Kanzlerdemokratie.
Per quanto riguarda la ripartizione delle competenze tra il centro e la periferia, ai Lander viene
formalmente riconosciuta un'iniziale competenza (legislativa, amministrativa e giurisdizionale), laddove
non sia espressamente prevista una potestà in favore del Bund. In particolare, la federazione ha una
“competenza esclusiva” in materia di politica estera e di difesa, di cittadinanza federale e politica monetaria
e una “competenza concorrente” in materia di diritto civile e penale, assistenza sociale, tutela
dell'ambiente, ricerca scientifica. In questi ultimi settori l'intervento della federazione è consentito, in linea
di principio e sulla base del “criterio di sussidiarietà”, solo quando la potestà legislativa di un Land sia da
ritenere inefficace nei confronti di un altro Land, dell'unità giuridica ed economica del Bund o
dell’uniformità delle condizioni di vita.
Nella prassi, tuttavia, il Bund ha finito per estendere il controllo su gran parte della legislazione federale. Sui
Lander ricade invece, salvo che per poche eccezioni, l'intera responsabilità per l'implementazione
amministrativa delle leggi federali.
Questa particolare divisione delle competenze tra centro e periferia è alla base di ciò che viene definito
“federalismo cooperativo”. I Lander sono in larga misura autonomi su cultura, scuola, polizia, ordinamento
dei comuni e delle circoscrizioni. In altri ambiti si limitano ad attuare le leggi federali.
Per quanto riguarda invece gli aspetti finanziari, la Legge fondamentale conferisce alla federazione una
competenza esclusiva per i dazi e i monopoli fiscali e una competenza concorrente per le altre imposte;
mentre riconosce ai Lander la potestà di decidere su alcune imposte locali, come quelle sui consumi.
Al fine di modernizzare l’ordinamento federale e renderlo più efficiente, nel 2006 la grande coalizione
guidata da Angela Merkel ha varato una riforma che ha stabilito una più chiara ripartizione delle
responsabilità politiche e anche un parziale riordino delle competenze tra Bund e Lander.
I provvedimenti più rilevanti sono stati: una sostanziale riduzione del numero di leggi federali soggette
all’approvazione del Bundesrat; ai Lander è stata riconosciuta la facoltà di legiferare in deroga alla disciplina
federale in alcune materie di competenza concorrente, come l’ambiente, la disciplina dell’accesso alle
università o l’urbanistica. Questo diritto di deroga rappresenta un’apertura verso un federalismo meno
unitario e più competitivo, che consente ai Lander margini d’azione più ampi.

7.7 Gruppi di interesse e di burocrazie: il “Modell Deutschland” e il suo rinnovamento


In Germania, i principali gruppi di interesse “associativi” sono l'Associazione federale dell'industria tedesca
e l'Associazione federale dei datori di lavoro, da una parte, e la Confederazione del lavoro dall'altra, i quali
difendono rispettivamente gli interessi dell'impresa e quella dei lavoratori.
Le camere dell’industria, del commercio, dell’artigianato e dell’agricoltura, che operano a livello locale,
rappresentano il terzo pilastro del sistema tedesco di rappresentanza degli interessi imprenditoriali.
Per quanto riguarda invece il sistema di rappresentanza dei lavoratori, i sindacati più importanti sono quelli
dei metalmeccanici, dei chimici e dei servizi.
Dopo l’esperienza traumatica del nazionalsocialismo, i principali gruppi di interesse associativi decisero di
non affiliarsi a un partito specifico. Non rinunciarono però a instaurare rapporti preferenziali con le forze
politiche: i sindacati risultano tradizionalmente più vicini ai partiti collocati a sinistra e in particolare alla
Spd, mentre gli imprenditori tendono a prediligere il dialogo con la Cdu e l'Fdp. Nel contesto della guerra

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fredda tutti gli attori della partecipazione politica della Rft maturarono relativamente presto la convenzione
che fosse opportuno promuovere una politica di generale accettazione del sistema: pertanto i sindacati
accettarono un'economia di libero mercato; gli imprenditori convennero, invece, sull'opportunità di
garantire un robusto sistema di welfare e di riconoscere ai lavoratori determinati diritti contrattuali, di
partecipazione e di gestione nelle aziende.
Questo accordo tra le parti sociali fu alla base del cosiddetto “modello Germania”, un particolare modello
di società e di sviluppo capace di creare consenso, coniugando la crescita economica con le politiche di
welfare. Alla fine degli anni ’90 il Modell Deutschland appariva sempre meno sostenibile, soprattutto a
causa degli elevati costi della riunificazione tedesca, dal rallentamento dell’economia e dall’aumento della
disoccupazione.
Per fronteggiare le disastrose condizioni socioeconomiche nei Lander orientali, dalla parte occidentale del
paese erano stati trasferiti ingenti finanziamenti che fecero lievitare sia le tasse che la spesa pubblica, senza
tuttavia risolvere i problemi della crescita e dell’occupazione. Nel 2003 si contavano in Germania oltre 5
milioni di senza lavoro.
In questa situazione il governo di centrosinistra guidato da Schroder varava l’Agenda 2010, un pacchetto di
riforme che incise pesantemente sul mercato del lavoro e sul welfare. Per quanto controversa, l’Agenda
2010 viene oggi considerata tra le cause della rinascita economica della Germania.
La continua crescita dell’occupazione ha portato il paese in vetta alla classifica europea per le condizioni di
salute del mercato del lavoro.
Dal punto di vista politico, invece, gli effetti di tali riforme furono negativi, soprattutto per il partito di
Schroder. Dopo il 2003, la Spd perse infatti tutte le elezioni regionali e nel 2009 ottenne, alle elezioni, il suo
peggior risultato di sempre. Inevitabilmente, il rapporto privilegiato che la Spd storicamente aveva con il
mondo sindacale si è deteriorato. I sindacati hanno a loro volta perso parte del loro prestigio e molti iscritti.
La ricerca del compromesso a livello politico, sociale e istituzionale per assicurare la stabilità al sistema
produttivo rappresenta un elemento distintivo del modello tedesco. Oltre che per la tutela del principio
della concentrazione nell'ambito delle relazioni industriali e sindacali, il sistema tedesco si caratterizza per
una relativa stabilità proprietaria, fondata sul controllo di grandi banche tedesche di importanti quote di
capitale delle maggiori aziende. Infine, l’economia tedesca, tra le più industrializzate in Europa, risulta
ancora oggi fortemente orientata all’esportazione di beni primari di consumo durevole e di alta qualità, per
i quali risulta competitiva sui mercati mondiali.

7.8 Vincoli esterni: la potenza europea “semiegemonica” e “riluttante”


La Germania è il paese che più di ogni altro ha segnato la politica d'integrazione europea, subendola nelle
prime fasi, plasmandola e beneficiandone nel lungo periodo. Sin dai suoi esordi la vicenda della costruzione
europea risulta strettamente intrecciata con il tentativo delle principali potenze occidentali di cooptare la
Germania Ovest all'interno di un sistema di sicurezza collettiva che consentisse la valorizzazione delle sue
risorse nella lotta contro il comunismo internazionale e la prevenzione di una possibile risorgente minaccia
tedesca.
Nonostante i vincoli derivanti dall’esperienza del nazismo e dal nuovo contesto della guerra fredda,
l’approccio della classe politica tedesca occidentale all’integrazione europea non fu avulso dal
perseguimento degli interessi nazionali. Nel corso degli anni, la Germania Ovest si dimostrò inoltre assai più
capace degli altri paesi membri nel far pesare le proprie preferenze a livello europeo, soprattutto sul
terreno della politica economica e monetaria.
All'indomani della caduta del muro di Berlino, il 9 novembre 1989, si è posto nuovamente il problema di
trovare una soluzione alla cosiddetta “questione tedesca”, questa volta consistente nel timore che una
Germania non più divisa, ma unita e potente sul continente, potesse perdere interesse per l'integrazione

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europea o addirittura costituire una minaccia per i suoi vicini. Per scongiurare tali scenari furono accelerate
le trattative per la creazione di un'unione economica e monetaria, al fine di imbrigliare la Germania
riunificata.
Secondo la logica dello “scambio geopolitico”, in cambio del supporto degli altri paesi europei alla
riunificazione i tedeschi si impegnavano a rinunciare alla loro sovranità in materia di politica monetaria
attraverso la cosiddetta “europeizzazione del marco”.
Alla fine dei negoziati di Maastricht la Germania è comunque riuscita a imporre le sue preferenze,
esportando le due caratteristiche principali del modello tedesco di banca centrale, l'indipendenza politica e
l'orientamento anti-inflazionista, e soprattutto costringendo gli altri paesi membri a una disciplina di
bilancio in vista della fase finale dell'unione monetaria.
È opinione diffusa tra gli studiosi che negli ultimi anni la politica europea della Germania stia attraversando
una fase di grandi cambiamenti. Già prima dello scoppio della crisi dei debiti sovrani era stata rilevata una
“pragmatizzazione” o addirittura un processo di “deeuropeizzazione” con particolare riferimento ad alcune
politiche rilevanti come quelle di asilo e di difesa.
Nella gestione della crisi dell'eurozona la Germania ha mostrato un'inedita assertività, opponendosi
fermamente all'ipotesi di allentare i vincoli europei per consentire ai paesi più colpiti dalla crisi di
fronteggiare la recessione economica.
D’altra parte, la prospettiva di un fallimento del progetto europeo causata dalla diffusione della crisi ha
esposto la Germania a un’inedita condizione di vulnerabilità.
In ambito internazionale, la Germania è stata accusata di comportarsi come un paese egemonico ed
egoista, mentre sul piano interno l’ingresso sulla scena dell’Afd ha dato per la prima volta rappresentanza
politica a un progetto di sfida al tradizionale consenso europeista dell’élite tedesca.
Il modello di comportamento della Germania attuale in politica estera viene spesso descritto nei termini di
“potenza civile”: una potenza che lavora per “civilizzare” le relazioni interstatali, ossia per trasformarle
seguendo le direttive del multilateralismo, della cooperazione e del diritto internazionale. Se da un lato
l’osservanza di questi precetti rappresenta un’importante garanzia contro un possibile ritorno dei tedeschi
a una politica di pura affermazione nazionale, dall’altro lato i principali partner strategici considerano
insufficienti le risorse investite dalla Germania nella gestione della sicurezza internazionale, soprattutto a
fronte del ruolo di paese-guida assunto durante la crisi dell’eurozona.
La Germania viene inoltre guardata con crescente sospetto da paesi come gli USA, per il rafforzamento
delle relazioni strategiche con la Russia, la Cina, e con altri paesi cosiddetti “emergenti” (Brics) che offrono
importanti mercati di sbocco per le sue esportazioni. D'altra parte, alcune prese di posizione del governo
guidato dalla Merkel, come quelle nei confronti del governo russo nel contesto della crisi Ucraina nel 2014
o a proposito della tragedia umanitaria dei profughi nel 2015, potrebbero essere il segnale di un salto di
qualità della Germania nell'esercizio del suo ruolo di paese-guida in Europa, fin qui svolto prevalentemente
nell’ambito economico-monetario.

7.9 Rendimento e stabilità: tra modello maggioritario e modello consensuale


A oltre 25 anni dalla riunificazione, la fiducia nel sistema politico tedesco si è ulteriormente consolidata; tra
le regioni ricche (dell'Ovest) e quelle più povere (dell'Est) esistono tuttora importanti disparità
socioeconomiche, ma nei cittadini tedeschi occidentali e orientali si sta progressivamente sgretolando quel
“muro nella testa” che ha a lungo impedito loro di pensarsi come parte di un'unica comunità politica. Da
questo punto di vista, il lungo cancellierato di Angela Merkel può essere considerato una tappa importante
nell'ambito del processo di riunificazione politica e culturale della nazione.

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La stabilità è la caratteristica principale del sistema politico tedesco. Essa continua a trovare ampia
espressione nei frequenti governi di legislatura e, più in generale, nell'elevata durata media dei governi e,
infine, in un pluralismo partitico limitato.
Nel contesto dell'Unione Europea la Germania è il paese che più di ogni altro ha credenziali per svolgere un
ruolo di paese-guida: vanta tassi di crescita e di produttività tra i più alti in Europa, ha un grande surplus
commerciale, imprese competitive, conti pubblici in ordine e un welfare state ancora relativamente
generoso.
Le due principali spiegazioni degli elevati rendimenti politici ed economici che sono generalmente
riconosciuti alla Germania procedono entrambe da un’analisi del più ampio processo di policy making
tedesco, che presenta sia strutture maggioritarie, tipiche di una “democrazia competitiva”, sia
caratteristiche politico-istituzionali della “democrazia consensuale”.
I promotori del modello maggioritario tendono a esaltare la forte gerarchia nella strutturazione dei rapporti
lungo il raccordo esecutivo-legislativo, che consentirebbe al primo di disporre del monopolio dell’iniziativa
politica e legislativa e di imporre senza eccessivi problemi la propria azione di governo. L’esistenza di una
consolidata cultura politica consensuale è uno degli elementi che consentono tuttora la formazione e la
durata per tutta la legislatura di governi composti da partiti che normalmente appartengono a schieramenti
contrapposti.
In ultima analisi, gli elevati rendimenti politici ed economici e la stabilità che vengono generalmente
riconosciuti alla Germania sono da ricondurre a una felice combinazione tra caratteristiche politico-
istituzionali della democrazia consensuale e strutture maggioritarie tipiche di una democrazia competitiva.
Nonostante il buon funzionamento della democrazia tedesca non sia al momento in discussione, nemmeno
la Germania, tuttavia, può considerarsi al riparo dalle sfide che stanno affrontando tutte le principali
democrazie occidentali: crescente disaffezione nei confronti della politica, crisi dei partiti politici
tradizionali, ascesa del populismo, problemi della sicurezza internazionale e della gestione dei flussi
migratori, dilemmi connessi alla crescente integrazione dei mercati finanziari.

CAPITOLO 8: LA FRANCIA
8.1 La nascita della Quinta Repubblica
A partire dagli eventi rivoluzionari dell'89, la Francia ha conosciuto un’alta instabilità politico-istituzionale e
diversi regimi, tra i quali ben 5 fasi repubblicane. La Quinta Repubblica nasce nel 1958, dopo l’implosione
della Quarta per gli sconvolgimenti prodotti dal conflitto nella colonia d’Algeria. La Costituzione del 1958 fu
elaborata all’interno di una procedura controllata dall’esecutivo. Nel giugno di quell’anno, l’ultimo
parlamento della Quarta Repubblica votò l’investitura del generale De Gaulle a presidente del Consiglio. De
Gaulle si era poi dimesso nel 1946 per dissidi con la classe politica della Quarta Repubblica. Richiamato per
risolvere il problema algerino, de Gaulle fu investito dei pieni poteri.
Una legge costituzionale attribuì al suo governo il compito di approntare una revisione generale della
Costituzione del ‘46 e a tale fine De Gaulle creò un comitato interministeriale che fu incaricato di redigere
un progetto da sottoporre al governo e infine a referendum popolare. Il disegno istituzionale del 1958
costituì il compromesso tra le visioni dei protagonisti del processo costituente, uniti dalla volontà di porre
fine all’instabilità della Quarta Repubblica ma divisi sulle soluzioni.
De Gaulle era interessato alla figura del presidente e alle sue funzioni, in particolare la responsabilità di
ultima istanza sui destini del paese, con la possibilità di assumere poteri eccezionali e il dominio
sull'esecutivo. Egli riteneva che tale figura dovesse ergersi al di sopra dei poteri esecutivo e legislativo,
ponendosi come arbitro del loro conflitto e godendo, di conseguenza, di un potere di scioglimento
dell’Assemblea, che ottenne.

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Per de Gaulle inoltre il governo avrebbe dovuto derivare la propria legittimità da un presidente dotato di
potere di revoca oltre chi di nomina dei ministri e del primo ministro, mentre per i ministri della Quarta
Repubblica l’autorità del governo avrebbe dovuto derivare dall’Assemblea Nazionale. La soluzione fu
trovata in una formula ambigua, che nella pratica successiva avrebbe lasciato aperta la possibilità per i
primi ministri di decidere se chiedere o meno la fiducia al parlamento.
Ciò che i difensori del modello parlamentare riuscirono a ottenere da de Gaulle fu la dichiarazione che il
presidente non avrebbe avuto il potere di revocare il primo ministro.
De Gaulle attribuì grande importanza anche all’istituto del referendum; questo strumento fu cruciale per il
rafforzamento del ruolo presidenziale.
Inoltre venne realizzata la cosiddetta “razionalizzazione del parlamentarismo” che ha fornito ai governi
della Quinta Repubblica potenti strumenti di controllo sul parlamento.
Il disegno costituzionale della Quinta Repubblica subì un’importante revisione nel 1962. Nello stesso anno
l’elettorato francese approvò con un referendum la norma che stabiliva l’elezione del presidente della
Repubblica a suffragio universale diretto e non più mediante un collegio di grandi elettori.
Il sistema di governo francese oggi è definito “semipresidenziale”; esso è caratterizzato da:
• un presidente eletto con voto popolare che possiede notevoli poteri
• la coesistenza di un premier e di un gabinetto, soggetti alla fiducia dell’Assemblea
Il ruolo presidenziale ha tuttavia conosciuto un ridimensionamento quando le elezioni legislative hanno
portato alla formazione di una maggioranza parlamentare avversa a quella del presidente in carica.
Si tratta della cosiddetta “coabitazione” verificatasi due volte. Secondo alcuni studiosi, queste fasi
riporterebbero il sistema a funzionare secondo la modalità parlamentare. Anche con la coabitazione, però,
il presidente mantiene le prerogative che la Costituzione gli garantisce e che lo differenziano dal capo di
una Repubblica parlamentare.
La coabitazione fa comunque perdere al presidente il suo ruolo di capo della maggioranza e guida del
governo. Quello di presidente rimane, in ogni caso, il ruolo più ambito dai leader politici e quella
presidenziale la consultazione elettorale più importante della vita politica francese. La coabitazione, inoltre,
costituisce oggi una possibilità molto remota. Con la riforma costituzionale del 2000, infatti, è stata ridotta
la durata del mandato presidenziale da 7 a 5 anni, equiparandola a quella dell’Assemblea nazionale. I due
mandati sono da allora sincronizzati e tale sincronia potrebbe essere interrotta solo dal decesso/dimissioni
del presidente o dallo scioglimento anticipato dell’Assemblea.

8.2 Partecipazione politica e partiti: dal “rassemblement” alle primarie


In Francia il cleavege destra-sinistra nasconde la permanenza di altre fratture, originate dalla Rivoluzione e
dal processo di formazione della nazione nel XIX secolo. Si tratta delle fratture tra élite statali e Chiesa
cattolica, centro e periferie. Quest’ultima è stata in parte assorbita dalla prima, poiché le periferie con le
più forti identità regionali, erano proprio quelle dove il cattolicesimo costituiva la cultura dominante. Con il
passare degli anni anche il conflitto stato-chiesa si è in parte sovrapposto a quello sinistra-destra.
Da un lato infatti, durante il XIX secolo e i primi decenni del XX, la chiesa cattolica ha intrattenuto un
legame con le forze monarchiche e antirepubblicane e successivamente con i partiti di destra che
rimanevano sensibili alle richieste ecclesiastiche. Al contrario le forze repubblicane e i socialisti hanno fatto
della laicità il loro punto di forza.
A partire dagli anni ’70 il quadro delle fratture si è complicato. A sinistra si è rafforzato un movimento
ecologista che si è inizialmente posto in competizione con il Partito socialista nel tentativo di sostituire al
tradizionale cleavage destra-sinistra quello materialismo-postmaterialismo. Ma, più in generale, negli ultimi
decenni i processi economici, sociali e culturali delle democrazie postindustriali, connessi con
macrofenomeni come la globalizzazione e le sue conseguenze, hanno prodotto una destrutturazione delle

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fratture tradizionali recenti, posto nuovi problemi ai grandi partiti e aperto nuove possibilità a partiti più
recenti, come i partiti populisti e, in Francia, al Front National.
Possono essere identificate cinque nuove fratture:
1. Tra coloro che si sentono vittime dei processi della modernizzazione economica e coloro che
ritengono sia un’opportunità (antimodernizzatori/modernizzatori);
2. Tra coloro che vedono un’occasione nell’apertura internazionale e coloro che la temono e vogliono
politiche verso la dimensione nazionale e soluzioni protezionistiche (internazionalisti/nazionalisti);
3. Tra i sostenitori di un maggiore liberalismo culturale e i sostenitori del recupero dei valori
tradizionali e comunitari (liberalisti culturali/tradizionalisti culturali);
4. Tra i territori che a fronte dei processi di modernizzazione hanno subito una marginalizzazione e i
centri urbani (periferia/centro);
5. Tra le forze politiche tradizionali e i movimenti che si nutrono di sentimenti antipolitici (forze
politiche tradizionali/movimenti antipolitici).
Il Front National ha saputo sfruttare queste nuove fratture, assumendo la difese di quei settori della
popolazione ritenuti vittime dei processi di modernizzazione e mondializzazione.
Dal punto di vista organizzativo, i partiti francesi hanno sempre presentato una struttura debole e non sono
riusciti a radicarsi in modo significativo nella società.
Verso la fine degli anni ’70, molti commentatori adottarono per il sistema partitico francese l’espressione
“quadriglia bipolare”, intendendo così l’esistenza di due poli, uno di destra e uno di sinistra formati
entrambi da due partiti con una forza grosso modo equivalente.
Dopo la breve esperienza, durante la Quarta repubblica, del Rassemblement du Peuple Français (Rpf), nel
1958 apparve invece un nuovo partito gollista, l’Unione pour la Nouvelle République (Unr), frutto della
fusione di diversi movimenti gollisti, rinominato nel 1968 Union pour la Défense de la République (Udr). A
partire dal 1976 diventa Raggruppamento per la Repubblica (Rassemblement pour la République - Rpr) con
Chirac. Grazie a quest’ultimo, da questo momento essi conoscono una ristrutturazione.
Si ebbe infatti uno spostamento verso destra del programma, nel quale si trovarono a convergere posizioni
conservatrici sul piano culturale accanto al liberalismo in campo economico.
Le componenti moderate della destra non gollista confluirono nell’Udf (Union pour la Démocratie),
conosciuta come federazione di formazioni di tradizione cristianodemocratica e liberale. Nel 2002 il
presidente Chirac annunciò la creazione di un nuovo partito, l’Ump (Union pour un Mouvement Populaire).
Passando ai partiti della sinistra, occorre sottolineare che il Partito socialista (Psi) si presenta
organizzativamente debole rispetto ai suoi confratelli europei e continua ad essere caratterizzato da una
debolezza strutturale.
Sorto nel 1920, a partire dagli anni ’30 il Pcf (Partito Comunista francese) assunse la natura di vero e
proprio partito di massa e durante gli anni della Quarta Repubblica fu il primo partito in termini di voti e di
iscritti.
A partire dagli anni ’80, all’estrema destra si è fatto spazio il Front National. Marine Le Pen (figlia di Jean-
Marie, il fondatore del partito) ha orientato il Fn su posizioni laiche e liberali anche se non totalmente
condivise all’interno del suo partito. Con la sua nuova leader, il Fn ha conosciuto un rinnovamento
generazionale, oltre che un adattamento ideologico perseguendo la strategia di allontanamento dai toni e
dai contenuti estremisti che avevano contraddistinto l’era di Jean-Marie Le Pen.
Comunque, socialisti e neogollisti rimangono i protagonisti del sistema partitico francese. Essi hanno
conosciuto, pur in modi diversi, anche un processo di “presidenzializzazione”, ovvero di rafforzamento della
figura del leader.

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8.3 La competizione elettorale: erosione del centro e consolidamento del bipolarismo
La trasformazione del sistema partitico, tra IV e V Repubblica, è anche conseguenza delle leggi elettorali. Il
sistema uninominale maggioritario a due turni adottato per l'elezione dell'Assemblea nazionale ha
contribuito a rendere bipolare la competizione, con la scomparsa del centro.
Ha forzato i partiti a ricercare a livello nazionale accordi elettorali, oppure a negoziare la reciproca
desistenza al secondo turno a favore del candidato meglio posizionato al primo.
Così. a sinistra, la “disciplina repubblicana” ha consentito accordi al secondo turno tra socialisti e comunisti
mentre a destra le candidature comuni al primo turno hanno rappresentato la regola. Le piccole forze
politiche del centro non riusciranno mai a sviluppare alleanze nel quadro politico.
Importante per la strutturazione bipolare del sistema partitico è stata l’elezione diretta del presidente della
Repubblica che, consentendo l'accesso al secondo turno solo ai due candidati meglio piazzati nel primo, ha
prodotto una strutturazione dei partiti.
La formula maggioritaria ha contribuito a diminuire la frammentazione della rappresentanza, incentivando i
partiti ad aggregarsi.
Nelle regioni, allo scopo di contrastare il problema dell'ingovernabilità, fu introdotto nel 1999 un sistema
elettorale a due turni su liste regionali, con un premio di maggioranza pari a un quarto dei seggi per la lista
che ottiene la maggioranza assoluta al primo turno o relativa al secondo, e la possibilità di accedere al
secondo turno solo per le liste che hanno ottenuto il 10% dei voti.
Grazie agli incentivi della formula maggioritaria, si è passati dal multipartitismo estremo della Quarta
Repubblica a quello limitato alla fine degli anni '70, con soli 4 partiti rilevanti.
Negli anni ’80/’90 si è verificata una parziale destrutturazione del sistema politico, con la comparsa di nuovi
partiti. Tra i fattori che hanno favorito tale fenomeno non vi è solo il ricorso al sistema proporzionale in
diverse competizioni elettorali, ma anche il finanziamento pubblico per le campagne elettorali introdotto
nel 1988. (es. MoDem, piccolo partito di centro, Verdi a sinistra).

8.4 Il governo: concentrazione del potere esecutivo e razionalizzazione del parlamentarismo


Tra il 1958 e il 1981 si sono susseguiti presidenti della Repubblica e coalizioni di governo di centrodestra.
Questo “dominio della destra” ha contribuito a forgiare il dominio presidenziale e la dinamica tra
presidenza ed esecutivo. La prima alternanza presidenziale si verifica nel 1981 con Mitterand, e rende
possibile la prima alternanza al governo, a seguito dello scioglimento anticipato dell’Assemblea e la vittoria
dei socialisti che ottennero la maggioranza assoluta dei seggi. Ciò nonostante, essi formarono poi una
coalizione con i comunisti, fino all'uscita di questi nel 1984. Il governo socialista cadde però nel 1986 in
seguito alla vittoria del centrodestra: cominciava così la prima coabitazione, che terminò nel 1988 quando
venne poi rieletto Mitterand che portò al ripristino della concordanza tra maggioranza presidenziale e
parlamentare.
I governi socialisti che si susseguirono furono poi tutti di minoranza e riuscirono a sopravvivere grazie a un
largo uso di meccanismi di parlamentarismo razionalizzato e all'occasionale sostegno dei deputati
comunisti e dell'Udf.
Nel ‘93 si ebbe la seconda coabitazione con la vittoria ancora del centrodestra. Le elezioni presidenziali del
1995 ristabilirono l'omogeneità tra le maggioranze con la vittoria di Chirac; fu però lui stesso poi a porvi fine
nel 1997. Contro le sue aspettative, le elezioni furono vinte dai socialisti in coalizione con comunisti, Verdi e
Movimento dei cittadini.
Nel 2002 viene rieletto Chirac, centrodestra, fine della terza coabitazione. Nel 2007 venne eletto Sarkozy.
Nel 2012 gli elettori francesi hanno ristabilito la norma con l'elezione di un presidente socialista (il Ps non
era al governo da 10 anni). Nei casi, ormai improbabili, di coabitazione, il presidente ha sempre nominato
primo ministro il candidato designato dai partiti di maggioranza.

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Quando invece la maggioranza parlamentare gli è favorevole, non solo il presidente sceglie il primo
ministro su basi discrezionali, ma ha anche la facoltà, di fatto (non prevista in Costituzione), di revocarlo.
La Costituzione prescrive che il presidente nomini e ponga fine alle funzioni dei membri del governo su
proposta del Primo ministro. In un contesto in cui entrambe le figure godono di forte autonomia nella
scelta dei membri del governo, il loro peso relativo dipende dalla concordanza o meno delle maggioranze.
Nel primo caso, la volontà del presidente incide in modo significativo e questi possiede di fatto l'ultima
parola sulla scelta dei ministri.
Il potere del capo dello stato, inoltre, continua a essere esercitato anche in occasione di rimpasti, nomine,
promozioni o revoche. Ciò non si verificò, naturalmente, nelle tre fasi di coabitazione, quando la
composizione del governo diventò nuovamente affare del primo ministro.
Nelle fasi di concordanza delle maggioranze, la direzione dell’azione di governo è prevalentemente nelle
mani del presidente. Questo fenomeno si è rafforzato con la presidenza di Sarkozy, che ancor di più dei suoi
predecessori è direttamente intervenuto nella formazione dei governi, ha reso i ministri di fatto
responsabili nei suoi confronti e ha di frequente assunto direttamente l'iniziativa politica scavalcando
l'esecutivo.
Inoltre, ha ulteriormente potenziato le strutture della presidenza. Tuttavia, questo fenomeno pare essersi
attenuato durante la presidenza Hollande.
Il Consiglio dei ministri, presieduto dal presidente della Repubblica, svolge diverse funzioni:
• Costituisce l’occasione per ricordare ai ministri l’appartenenza a una struttura collegiale e
l'occasione per il presidente e il primo ministro di esprimere scelte, indicare orientamenti, dare
direttive.
• Le sue deliberazioni rappresentano l'ultima tappa dei processi decisionali più importanti, come
quelli che portano ai progetti di legge e alle ordinanze.
• I ministri inoltre si trovano in una posizione subordinata rispetto al capo del governo e
ogniqualvolta si sono creati dissensi all'interno dell'esecutivo, essi sono stati risolti con
l'allontanamento del ministro dissenziente.
Nonostante la preminenza del presidente sul primo ministro lungo la storia della Quinta Repubblica (ad
eccezione delle fasi di coabitazione) abbia reso inoperante l'art. 21 della Costituzione laddove attribuisce la
direzione dell'azione governativa del primo ministro, questi mantiene comunque un ruolo importante. La
sua azione è resa efficace da una serie di formazioni interministeriali da lui convocate e presiedute.
Egli possiede anche un potere di inviare "istruzioni" agli altri membri dell'esecutivo. Altrettanto rilevante
risulta essere la sua funzione di arbitro nei conflitti interministeriali.
Per quanto riguarda i rapporti tra esecutivo e legislativo, la Francia costituisce un caso di quel processo di
ridimensionamento del ruolo decisionale del Parlamento. La Costituzione ha introdotto nel '58 una
significativa innovazione, delimitando il dominio della legge. Essa infatti elenca le materie dove il
Parlamento può legiferare. Inoltre, l'iniziativa legislativa dei membri del parlamento è limitata dalla
disposizione che dichiara inaccettabili proposte di legge ed emendamenti che comportino una diminuzione
delle entrate o un aumento delle spese e alla quale i governi hanno fatto un massiccio ricorso.
Significativo è il “vote bloqué”: su richiesta del governo, l’Assemblea si pronuncia sull’insieme di un testo o
di una parte di esso con i soli emendamenti proposti o adottati dal governo, in pratica non può aggiungere
emendamenti.
Un mezzo analogo previsto dai costituenti è quello che prevede che il primo ministro può impegnare la
responsabilità del governo su un testo, il quale è considerato adottato se entro 24 ore non interviene una
mozione di sfiducia. La fiducia dell'Assemblea è quindi presunta e nel silenzio dei deputati il testo viene
approvato.

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A partire dal '66, l'impegno della responsabilità del governo davanti alla Camera bassa è divenuto una
facoltà e non un obbligo del primo ministro. Tale facoltà ha il vantaggio, per il governo privo di una sicura
maggioranza, di potersi insediare in una situazione di fiducia presunta (usata soprattutto nelle fasi di
coabitazione).
Nel 2008 si è verificata un’ulteriore revisione costituzionale. Per quanto riguarda il rapporto tra i governi e i
partiti che li sostengono, invece, la Francia della V Repubblica si avvicina al modello delle democrazie
competitive. I partiti francesi, deboli se comparati ai loro omologhi europei, appaiono ancora più deboli di
fronte al forte e autonomo governo francese. Inoltre, i ministri devono la loro carica più alla volontà del
presidente e del primo ministro che non ai negoziati inter o intra partitici.
Durante la V Repubblica si è anche venuta a creare una forte sovrapposizione tra l’élite burocratica
francese e la classe politica. Essa si è realizzata da un lato, attraverso la cooperazione tra personale politico
e alta dirigenza pubblica, dall'altro con il passaggio dalla carriera amministrativa a quella politica.

8.5 Il parlamento: un bicameralismo asimmetrico e disomogeneo


Il bicameralismo francese è asimmetrico e disomogeneo. Asimmetrico perché, pur partecipando il Senato al
processo legislativo, in caso di disaccordo tra le due camere è l’Assemblea nazionale che ha l’ultima parola.
Inoltre, solo un voto negativo di essa costringe il governo a presentare le dimissioni.
Disomogeneo perché le due camere sono formate con modalità differenti.
L’Assemblea nazionale è eletta a suffragio universale e rappresenta la nazione nel suo insieme. Il Senato è
eletto indirettamente attraverso un collegio di grandi elettori scelti tra gli amministratori locali.
La prevalenza dell’Assemblea sul Senato costituisce un punto di forza del governo che, in caso di disaccordo
tra le camere su un disegno di legge può, alla fine dell'iter procedurale, richiedere il voto definitivo della
sola Camera bassa.
La revisione del 2008 ha limitato la possibilità per il governo di introdurre la procedura accelerata che
consente di intervenire non dopo due, ma dopo solo una lettura di entrambe le camere. Tuttavia, il ricorso
alla decisione finale dell'Assemblea nazionale è avvenuto di rado e il Senato non ha comunque smesso di
svolgere una funzione di riflessione e di perfezionamento della legislazione attraverso modifiche ed
emendamenti.
Come si è detto, la revisione costituzionale voluta da Sarkozy ha investito anche il parlamento. Per quanto
riguarda il Parlamento, il Presidente del Comitato per la riforma costituzionale Balladur aveva espresso la
preoccupazione di creare un rapporto più equilibrato tra di esso e l’esecutivo, fornendo alla Camera bassa
maggiori possibilità di intervenire nella redazione delle leggi e di esercitare il potere di controllo.
Circa gli strumenti della razionalizzazione del parlamentarismo, gli interventi sono stati limitati. Significativa
è la limitazione dell'articolo 49.3 con il quale il governo pone la fiducia su un proprio testo che risulta
approvato se non interviene una mozione di sfiducia entro 24 ore: ora esso è limitato alle sole leggi
finanziarie e di finanziamento della previdenza sociale.
La revisione è intervenuta anche sull'ordine del giorno e ha limitato a due settimane di seduta su quattro
l'esame prioritario e secondo l'ordine fissato dal governo dei testi per i quali esso richiede l'iscrizione, pur
con alcune eccezioni (es. testi finanziari).
Sempre relativamente all'attività legislativa, è da segnalare che la discussione in aula dei progetti di legge
del governo non avviene più (a parte le leggi di revisione costituzionale, la legge finanziaria e le leggi di
finanziamento della previdenza sociale) sul testo da esso direttamente presentato; tali progetti sono
preventivamente inviati alla commissione permanente competente e la discussione in aula avviene sul
testo della commissione.
Le commissioni permanenti, inoltre, sono state portate da 6 a 8.

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Il parlamento è stato rafforzato anche nella sua funzione di controllo, con l’introduzione di nuovi strumenti.
La riforma ha anche ampliato le competenze parlamentari relative alla valutazione delle politiche
pubbliche, una funzione per la quale, in realtà, il parlamento appare ancora poco attrezzato. A fronte di
questi e altri cambiamenti che hanno investito il parlamento e il suo rapporto con l’esecutivo si è parlato di
un riflusso del parlamentarismo razionalizzato. Il parlamento francese continua a essere caratterizzato da
un bicameralismo ineguale a favore della Camera bassa e dall’organizzazione dei gruppi parlamentari in una
chiara maggioranza che sostiene il governo e in una chiara opposizione.

8.6 Le istituzioni politiche territoriali: dalla tradizione centralista alla regionalizzazione


La tradizione di centralizzazione politica e amministrativa francese convive con un’antica pratica di
interdipendenza tra il livello locale e quello centrale e con il decentramento che ha investito la Francia dagli
anni ’80.
La carriera politica ha spesso inizio a livello locale; ciò che caratterizza la Francia, però, è la pratica di
cumulare mandati elettivi locali e nazionali (come sindaco e parlamentare). La legge del 2000 che ha
limitato la possibilità di cumulare mandati non ha inciso significativamente sul fenomeno, anche se la
successiva legge del 2014 ha interdetto il cumulo della carica di parlamentare con cariche esecutive locali
(come quella di sindaco) a partire dal 2017.
Attraverso il Senato, inoltre, la classe politica locale ha potuto esercitare un potere di veto sulle proposte
del governo centrale per tutelare gli interessi delle comunità locali, incidendo anche sui processi di
decentramento, dagli anni ’80 sino a oggi.
Sono i governi socialisti che, a partire dalla legge del 1982, hanno introdotto nel sistema unitario francese
un significativo decentramento.
Sono state ampliate le competenze dei comuni. Inoltre, è stato trasformato in profondità il ruolo dei
dipartimenti, con l’ampliamento delle loro attribuzioni e il passaggio del potere esecutivo dal prefetto al
presidente del consiglio generale (l’esecutivo del dipartimento).
Le regioni sono divenute enti con proprie istituzioni di governo democraticamente elette; esse
progressivamente si sono trasformate in veri e propri luoghi di decisione e rappresentanza politica.
Mentre nelle riforme degli anni ’80 era presente l’attenzione verso il tema della democrazia locale, le
riforme realizzate tra il 2003 e il 2010 dai governi di centrodestra, ma anche la riforma realizzata tra il 2014
e il 2016 dietro l’impulso di Hollande, sono state tutte improntate principalmente all’idea di una migliore
gestione della cosa pubblica e soprattutto della spesa pubblica.
Le riforme di centrodestra hanno realizzato nuovi trasferimenti di risorse e competenze. A ciò è corrisposto
un significativo aumento della spesa pubblica locale, anche se la parte del leone ha continuato a essere
giocata dallo stato centrale; ciò nonostante, i livelli locali francesi godono di un’autonomia fiscale non
irrilevante.
Tuttavia, questa autonomia negli ultimi 25 anni è stata progressivamente ridotta, ovvero è stata ridotta la
componente delle entrate delle imposte locali, sostituite da trasferimenti diretti o partecipazione a imposte
nazionali. A livello regionale si stima che in seguito alle diverse riforme l’autonomia fiscale sia passata dal
38% al 10%.
Sino alla più recente riforma, inoltre, la struttura istituzionale di fondo del “millefoglie territoriale”, come è
chiamata la Francia, non è mutata, rimanendo fortemente connotata dalle dimensioni comunale e
dipartimentale. Inoltre, nonostante la suddivisione in blocchi di competenze, i diversi enti hanno sempre
avuto la possibilità di intervenire in tutti i settori delle politiche pubbliche, grazie, in particolare, a una
“clausola generale di competenza” in virtù della quale ogni collettività poteva intervenire in ogni ambito
che presentasse un interesse per il proprio livello. Questa opportunità ha prodotto una serie di
sovrapposizioni.

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Il governo socialista ha approvato in diverse tappe, tra il 2014 e il 2015, una nuova riforma territoriale. Le
22 regioni della Francia metropolitana sono state ridotte a 13 e nel 2015 si sono tenute le prime elezioni
regionali organizzate sul nuovo assetto. Anche questo processo ha visto il condizionamento dei
dipartimenti, che sono riusciti a evitare la loro soppressione e il passaggio di alcune loro competenze alle
regioni. Tuttavia, la riforma ha cercato di meglio definire le competenze di ogni ente ed evitare le
sovrapposizioni sino a ora verificatesi, anche eliminando la clausola di competenza sopra citata per regioni
e dipartimenti.
Inoltre, sono stati approvati gli statuti di nuove città metropolitane (es. Toulouse) e tutti i comuni sono stati
obbligati ad aderire a una comunità di comuni o a un'agglomerazione urbana o in una metropoli. Le
competenze della comunità dei comuni riguardano i rifiuti e il turismo e dal 2020 riguarderanno la gestione
dell'acqua e lo smaltimento dei rifiuti, ancora in capo ai comuni. Le competenze regionali sono aumentate a
scapito di quelle dei dipartimenti.
Va infine rammentato che l’assetto tendenzialmente omogene del sistema territoriale francese è
contraddetto da elementi di differenziazione particolari. In Francia la rivendicazione di un’autonomia
basata su identità culturali rappresenta una motivazione marginale del processo di decentramento, anche
se movimenti culturali e politici periferici sono presenti sin dalla Rivoluzione francese. Tuttavia, come
altrove in Europa, anche in Francia vi è una ripresa di tali rivendicazioni a partire dagli anni '60-'70, in
particolare in regioni, oltre alla Corsica, come la Bretagna e l’Alsazia. La Corsica e i territori d’oltremare
hanno ottenuto statuti differenziati. Particolare è anche la situazione dell’Ile de France, che possiede
competenze allargate.

8.7 I caratteri del “policy making”: esecutivo e alta amministrazione come “Milieu décisionnel central”
Con il passaggio dalla Quarta alla Quinta repubblica si è prodotto uno spostamento verso l’alto del locus
ove vengono elaborate le decisioni cruciali di politica pubblica: dal parlamento verso l’esecutivo e l'alta
amministrazione. Infatti i protagonisti assoluti sono il presidente, il primo ministro, il ministro delle Finanze.
In Francia esiste una tradizione di concertazione con i gruppi di interesse attraverso le commissioni
governative, che riuniscono funzionari e rappresentanti degli interessi privati.
Nella Quinta Repubblica, però, esse non sembrano aver costituito una modalità molto efficace di
condizionamento da parte dei gruppi. Più efficaci sembrano essere, invece, i contatti formali e informali con
ministri e altri funzionari.
Nonostante le consultazioni siano costanti e frequenti, il rapporto con i gruppi di interesse rimane in ogni
caso saldamente sotto il controllo dei pubblici poteri. Inoltre, sono il governo e l'amministrazione che
decidono quali gruppi sono da considerare legittimati a dialogare e quali no e la relazione rimane ineguale e
lo stato si riserva il diritto di produrre politiche non negoziabili anche in ambiti che interessano i gruppi più
potenti.
Nonostante la debolezza del parlamento, non sono irrilevanti i contatti dei gruppi con i parlamentari;
piuttosto scarse sono invece le relazioni con i partiti.
L’accesso dei gruppi alle decisioni pubbliche trova, inoltre, un freno nel carattere accentrato e
“tecnocratico” delle istituzioni di governo. Per questa ragione, oltre che per la debolezza delle stesse
organizzazioni partitiche, sindacali e professionali, i gruppi fanno spesso ricorso in Francia a forme dirette e
spesso non convenzionali di partecipazione come manifestazioni, scioperi, atti dimostrativi.
Questo fenomeno, che ha tipicamente accompagnato la storia politica e sociale francese sin dai tempi della
Rivoluzione, ha portato alcuni a parlare (esagerando) della prevalenza di un “modello protestatario”.
Con il decentramento anche la dimensione territoriale è divenuta rilevante nella produzione delle politiche
pubbliche. Innanzitutto si è prodotto un frazionamento dell’agenda politica, nel senso che al livello delle
entità territoriali problemi locali sono divenuti oggetto di dibattito e hanno condotto alla messa in opera di

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politiche pubbliche specificatamente locali. Questo fenomeno è stato accompagnato dallo sviluppo e falla
professionalizzazione di un’alta amministrazione locale che potrebbe costituire l’embrione di un mileu
décisionnel local accanto a quello centrale.

8.8 I rapporti con l’Unione Europea: tra spirito federale e difesa della sovranità nazionale
Tra gli stati che sin dal 1950 (trattato di Roma) hanno costituito il motore dell’integrazione europea, la
Francia ha perseguito la propria politica europea in bilico tra due diverse visioni, quella incarnata da Jean
Monnet che ha come proprio obiettivo finale la realizzazione di un’Europa federale e quella in origine
sostenuta da de Gaulle dell’Europa degli stati, legata all’idea del mantenimento della sovranità nazionale.
Al tempo stesso, così come essa ha influito in modo determinante nella definizione delle istituzioni e delle
politiche dell’Unione Europea, la Francia ha anche subito un condizionamento sulle proprie istituzioni e
sulle proprie politiche.
Per quanto concerne queste ultime, il tradizionale interventismo dello stato in economia è stato
fortemente indebolito dalla partecipazione del paese al mercato unico. D’altro canto, non sono mancati i
condizionamenti della Francia sulle politiche europee, in particolare sulla politica agricola. Infatti, la Francia
fu in grado di estendere all’Europa la sua tradizionale politica di sussidi agli agricoltori e di protezione dei
prodotti agricoli dalla competizione esterna, traendo da essa notevoli vantaggi, sebbene dagli anni ’90 essa
abbia dovuto accettare il ridimensionamento di una politica i cui costi eccessivi sono progressivamente
diventati più evidenti e che ha subito una riforma nel 2014.
È a partire dagli anni ’80 e ’90, a fronte del maggior livello di integrazione comportato dall’Atto unico
europeo e dai trattati di Maastricht e di Amsterdam, che ai limitati adeguamenti delle istituzioni nazionali
realizzati nei decenni precedenti si aggiunge una più significativa riorganizzazione delle strutture preposte
al coordinamento con il policy making europeo, sia in seno all’esecutivo sia in seno al legislativo.
L’Unione Europea è diventata parte integrante dell’ordine costituzionale francese. Un dato al quale va
aggiunto quello altrettanto rilevante del progressivo, anche se non facile, riconoscimento della preminenza
della Corte europea di giustizia rispetto alle Corti nazionali e, quindi, della legislatura europea su quella
francese. Una coabitazione comunque complessa che pone inevitabilmente limiti alla sovranità di un paese,
la Francia, particolarmente legato alla propria autonomia nazionale. Con le presidenze di Sarkozy e
Hollande si è riproposto il tema di un nuovo protagonismo francese nell’Unione Europea, dopo la lunga
presidenza di Chirac, contrassegnata dal no al referendum del 2005 sulla ratifica del trattato costituzionale
europeo e durante la quale la Francia sul piano europeo era apparsa molto timida.

8.9 Conclusioni: supremazia presidenziale e opinione pubblica


La Quinta Repubblica ha visto il consolidamento di un sistema di governo maggioritario, con un esecutivo
che domina il parlamento e un sistema partitico bipolare, con due grandi partiti dominanti, l'uno a destra,
l'altro a sinistra, che consente l'alternanza.
Non si può però dimenticare che oggi è presente un terzo grande partito, su posizioni estreme, il Front
National di Marine Le Pen. Tale presenza costituisce un sintomo della difficoltà dei due maggiori partiti di
essere rappresentativi di una parte consistente dell’elettorato e la forza del partito di estrema destra è un
sintomo della scarsa fiducia dell’opinione pubblica verso i partiti più tradizionali e pro-sistema.
Le inchieste di opinione rilevano una scarsa fiducia verso i partiti. Questo risultato appare in linea con la
valutazione che la democrazia francese non funzioni molto bene. La percezione che il contesto politico,
economico e sociale sia in costante peggioramento e con esso la qualità di vita, investe anche le istituzioni
dello stato francese, compresa la presidenza. Sempre la medesima ricerca mostra come rispetto alle
istituzioni politiche francesi il livello di fiducia sia più elevato nei confronti di quelle più prossime al
territorio e diminuisca al livello nazionale.

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I tragici attentati del gennaio 2015, con il conseguente rafforzamento del sentimento di solidarietà verso la
nazione francese, hanno prodotto un relativo aumento rispetto al 2014 della fiducia in presidenza e
governo, che però si è in poco tempo ridimensionamento e non sembra essersi rafforzato dopo i nuovi,
sanguinosi, attentati nel novembre dello stesso anno.
Eppure il sistema pareva aver trovato un proprio equilibrio. Con l'introduzione del quinquennato e
l'elezione presidenziale che precede quella dell'Assemblea nazionale la coincidenza delle maggioranze
sembra essersi avviata a divenire, di fatto, la norma, così come l'istituzionalizzazione della dominanza del
presidente sul primo ministro.
L'ulteriore presidenzializzazione del sistema politico-istituzionale convive però, con la percezione di un
basso rendimento della democrazia. Una percezione, sia detto, che è contestuale alla lunga crisi economica
apertasi nel 2008 e alle conseguenze da esse prodotte.
Si può osservare che il rafforzamento della figura presidenziale nella sua funzione governante e di
conseguenza l'attribuzione di una crescente responsabilità a tale figura da parte dell'opinione pubblica,
sembra aver posto la presidenza francese maggiormente in balìa degli umori di quell'opinione. Umori
condizionati dalla diffusa percezione di un peggioramento delle condizioni di vita e che, inoltre, nella storia
francese si sono mostrati altamente mutevoli. Se istituzioni forti, un sistema partitico che grazie ai vincoli e
incentivi politico-istituzionali è ancora in grado di produrre ampie maggioranza di governo, un sistema
amministrativo solido offrono nel loro insieme un contesto che favorisce la governabilità, questa è tuttavia
confrontata da sfide politiche, economiche e sociali di portata globale – dalla crisi economica alla sempre
minore sostenibilità dei sistemi di welfare all’immigrazione – che richiedono nuove capacità di leadership e
di immaginazione politica che ancora partiti e leader francesi sembrano non aver sviluppato.
Come altre democrazie occidentali, anche il semipresidenzialismo francese sconta la crescente difficoltà
delle classi dirigenti e di leadership politiche sempre più visibili, ma probabilmente non altrettanto potenti,
a misurarsi con un mondo in rapida trasformazione. Questo può ripercuotersi sulla funzionalità delle
istituzioni e, nello specifico caso francese, può rimettere in discussione l'idea di quel consolidamento del
sistema, nella forma di un forte presidente governante con una solida maggioranza a sua disposizione, che
pareva aver trovato conferma con l'avvio della presidenza Sarkozy.
Non bisogna, però, dimenticare che la complessità del sistema semipresidenziale francese è stata da più
parti apprezzata in quanto elemento di flessibilità. Il quinquennato ha ridotto la portata di tale flessibilità,
senza tuttavia eliminarla, ed essa può rappresentare una risorsa in una fase di crisi e cambiamenti. Anche
se le difficoltà dei due grandi partiti tradizionali, socialisti e gollisti, e la forza del populismo lepenista
pongono un’ipoteca non irrilevante sui futuri processi di aggiustamento del sistema politico francese, che
rimane bipolare in virtù dei vincoli e degli incentivi posti dal suo assetto costituzionale e istituzionale, ma
presenta ormai tre grandi forze partitiche in campo.

CAPITOLO 9: L’ITALIA
9.1 Una democrazia a lungo incompiuta
Dopo la faticosa costruzione dello stato unitario (1870), si assiste anche in Italia, come in altri grandi paesi
europei, una progressiva estensione del diritto di voto e al progressivo trasferimento di poteri dalla
monarchia a governi espressione della maggioranza parlamentare. Anche a causa della frantumazione del
quadro politico emersa dalle prime elezioni a suffragio universale maschile, questo processo di
democratizzazione di interruppe bruscamente con l'avvento di Mussolini al potere e la costruzione del
regime fascista.
Il ritorno alla democrazia coincise quindi con il tragico svolgimento della Seconda guerra mondiale e l’inizio
della guerra fredda. Tra il 1989 e il 1994 si è poi svolta un'altra trasformazione dell'assetto istituzionale: un

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cambiamento all'interno del regime democratico, con il passaggio da un'organizzazione della
rappresentanza basata sul principio proporzionale a una basata sul principio maggioritario a cui si è
accompagnata una ristrutturazione del sintema partitico.
Nel lessico ormai consolidato, si parla di una “Prima” e di una “Seconda” Repubblica anche se, rispetto alla
Francia, il passaggio da una fase all'altra non è stato contrassegnato da una riscrittura della Costituzione.
Sarebbe dunque più corretto dire che si è passati dal “primo” al “secondo” sistema partitico della storia
repubblicana.
Alcuni difetti della Prima Repubblica sono stati spesso addebitati al particolare contesto nel quale il regime
democratico aveva preso forma. La transizione del regime autoritario a quello repubblicano era iniziata con
la seduta del Gran consiglio del fascismo del 1943 durante la quale Mussolini fu formalmente sfiduciato
anche dai gerarchi a lui più vicini affinché il re potesse destituirlo.
Il crollo del fascismo e la scarsa credibilità della monarchia crearono incertezza e un vuoto di potere che fu
colmato dai dirigenti dei partiti attivi al Nord nella lotta partigiana e riuniti nel Comitato di liberazione
nazionale (Cln).
Le elezioni del 1946 per l'Assemblea costituente diedero una prima misura del seguito popolare su cui
potevano contare soprattutto democristiani, socialisti e comunisti. I leader dei tre partiti erano in quel
momento alleati come componenti del governo di unità nazionale presieduto dal democristiano De
Gasperi.
Ma mentre erano ancora in corso i lavori dell'Assemblea costituente, all’inizio del 1947, diventò evidente la
necessità di chiarire la collocazione dell'Italia nell'ambito della divisione del mondo in due blocchi
contrapposti che si andava delineando. Sia fattori internazionali che fattori interni facevano prevalere
l’influenza americana e l’adesione al campo atlantico. Socialisti e comunisti vennero quindi esclusi da De
Gasperi al momento del quarto governo da lui presieduto, di cui entrarono a far parte solo, oltre alla Dc, i
liberali, i repubblicani e i socialdemocratici.
I lavori dell'Assemblea costituente continuarono in un clima che era al tempo stesso di collaborazione e di
sospetto. Né i politici della coalizione filo-occidentale che ruotava intorno alla Dc, né i partiti filosovietici di
sinistra potevano prevedere con certezza chi avrebbe vinto le successive elezioni generali.
I costituenti mantenevano peraltro una forte diffidenza verso le ipotesi di un rafforzamento del ruolo
dell’esecutivo a causa dell’appena terminato regime fascista. Inoltre, furono molto attenti nella definizione
dei valori comuni, dei diritti fondamentali e delle norme programmatiche contenuti nel preambolo e nella
prima parte del testo. Al tempo stesso, nella redazione della seconda parte, optarono per una forma di
governo parlamentare priva di qualsiasi elemento di razionalizzazione, al contrario di quanto era stato
inizialmente concordato durante i lavori preparatori.
Tra i costituenti, inoltre, cominciò ad affermarsi una concezione della rappresentanza che vedeva ciascun
partito come il naturale portavoce di uno specifico segmento della società (i cattolici, i laici, la classe
operaia) e che considerava quindi il principio proporzionale come la quintessenza della democrazia.
Tale concezione venne messa in discussione nel 1953, quando De Gasperi propose e ottenne, nonostante le
durissime critiche dell’opposizione, l’approvazione di una legge elettorale che avrebbe garantito alla
coalizione che avesse ricevuto la maggioranza assoluta dei voti il 65% dei seggi.
Nelle elezioni del ’53 il premio non scattò, si tornò al sistema elettorale precedente e prevalse
definitivamente la logica proporzionale.
La prima transizione si può considerare conclusa con le elezioni parlamentari del 1948, nelle quali vennero
praticate per la prima volta le nuove regole fissate dell'Assemblea costituente. I due principali partiti di
massa si affermarono quali protagonisti fondamentali della vita politica e fu definitivamente confermata la
collocazione del paese nel campo analitico con la vittoria della Democrazia cristiana sul Fronte popolare
egemonizzato dal Partito comunista.

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L’assetto proporzionalistico-negoziale e l’assenza di ricambio, pur avendo consentito il consolidamento
della democrazia, produssero però anche alcuni vistosi difetti, cosicché tra la fine degli anni ’70 e l’inizio
degli anni ’80 entrò nell’agenda politica il tema della riforma istituzionale.
Nel 1983 venne istituita una prima commissione parlamentare composta da componenti di entrambe le
camere con il compito di elaborare una proposta di modifica del sistema elettorale e adattamenti della
Costituzione. Ma nessuna proposta sopravvisse ai veti reciproci tra i principali partiti.
Mentre la transizione del regime fascista alla democrazia repubblicana fu guidata dalla classe dirigente dei
partiti di massa, la transizione della Prima alla Seconda Repubblica avverrà contro di loro. Alla fine degli
anni '80 il debito pubblico cominciò a crescere su se stesso, per effetto delle spese per interessi. Alle
elezioni dell’aprile 1992, crollato il muro di Berlino e venuto meno quindi il “pericolo comunista”, molti
elettori del Nord, particolarmente sensibili all’inevitabile crescita della pressione fiscale, abbandonarono i
partiti di governo a favore della Lega.
All’indomani delle elezioni, le indagini della magistratura fecero emergere un diffuso sistema di corruzione
e illecito finanziamento dei partiti. Nello stesso periodo, l’intensificarsi dell’azione investigativa contro la
criminalità organizzata meridionale portò a risultati molto più incisivi che nel passato, confermando
l’esistenza di convivenze da parte di settori del mondo politico.
Questi risultati misero in moto una serie di reazioni da parte della mafia: a meno di un mese dalle elezioni
del 1992, venne ucciso Salvo Lima – un esponente di rilievo della corrente dell’allora presidente del
Consiglio, Giulio Andreotti – di cui vennero documentate le relazioni con Cosa Nostra. Dopo le elezioni,
vennero uccisi con due attentati i giudici Falcone e Borsellino, tra i principali protagonisti della lotta alla
mafia.
Nel frattempo era cresciuto un movimento civico favorevole ai cambiamento della legge elettorale
attraverso l'uso del referendum abrogativo, di cui assunse la leadership Mario Segni, un esponente di
secondo piano della Dc. Le idee favorevoli all'affermazione del principio maggioritario divennero
rapidamente popolari.
Un primo referendum si svolse nel 1991 ed ebbe a oggetto la riduzione a uno dei voti di preferenza
esprimibili per l'elezione dei deputati. Un secondo referendum, tenuto nel 1993, trasformò il sistema
elettorale del Senato in un sistema plurality.
I partiti che avevano fatto parte per tutti gli anni '80 della coalizione di governo (Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli) furono
i più esposti alle indagini della magistratura e si trovarono spiazzati di fronte al mutato contesto della
competizione elettorale. La delegittimazione e lo sbandamento della classe politica di quei cinque partiti
favorì inizialmente le coalizioni “progressiste” formate da esponenti del movimento referendario, dal Pds e
da altri gruppi minori le quali, grazie ai nuovi sistemi elettorali, conquistarono nel 1993 e nel 1994 molte
amministrazioni locali.
Mario Segni costituì una sua formazione autonoma e creò con gli altri ex democristiani una coalizione di
centro. La decisione di entrare nell’agone politico da parte del principale imprenditore televisivo (Silvio
Berlusconi), attraverso un cospicuo investimento di risorse private e attraverso un massiccio uso dei mezzi
di comunicazione di sua proprietà, mutò abbastanza radicalmente il quadro. Berlusconi colse l’esistenza di
un vuoto nell’offerta di rappresentanza nel centrodestra e intuì, assai meglio di molti politici di professione,
quale fosse la struttura delle opportunità delineata dal nuovo sistema elettorale. A partire dalle elezioni del
1994 si è avviato un processo di apprendimento da parte degli elettori e dei partiti che ha portato alla
formazione di nuovi soggetti politici e all'affermarsi di una dinamica competitiva bipolare.

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9.2 Partecipazione politica e partiti: dalle subculture ai leader
Il formato del sistema partitico italiano del dopoguerra può essere spiegato con la lente della teoria
rokkaniana dei “cleavages”. Sono prevalse nella politica italiana fratture di carattere strettamente
ideologico.
La profondità e il rilievo di tali linee di divisione (tra laici e cattolici, comunisti e anticomunisti, fascisti e
antifascisti) hanno fatto passare in secondo piano pe fratture tra centro e periferia, tra città e campagna,
tra agricoltura e industria.
La mobilitazione politica dei cattolici, deliberatamente finalizzata sin dai primi del ‘900 a fronteggiare il
nascente movimento socialista, ha inoltre reso molto meno netta che in altri paesi europei la
corrispondenza tra orientamento politico e classe sociale. Molti operai, ad esempio, votavamo per la Dc. Il
sistema proporzionale consentiva anche ai partiti più piccoli di coltivare un proprio orto elettorale e anzi li
incentivava a farlo.
Ciascuno dei partiti citati aveva costruito una sua struttura organizzativa, reti specifiche di relazioni con
gruppi di interesse, fedeltà elettorali e gerarchie interne difficili da smontare.
I comunisti disponevano della struttura di partito decisamente più coesa e disciplinata. Erano gli unici ad
aver mantenuto stabilmente un'organizzazione clandestina in Italia durante il periodo fascista e avevano
poi assunto la guida della lotta partigiana in ampie aree del Centro-Nord. Posero così le basi per la
successiva affermazione nelle regioni un tempo parte dello stato pontificio (Emilia-Romagna, Marche,
Umbria).
Costruito sul modello del partito leninista, il Pci negli anni '50 poteva contare su un'articolata rete di
organizzazioni collaterali, attive nel campo sindacale, editoriale, culturale, ricreativo, su circa 2 mln di iscritti
e su un corposo apparato burocratico professionale. La coesione della complessa macchina del partito era
garantita dal principio del “centralismo democratico”, il quale implicava la scelta dei dirigenti per
cooptazione, la riservatezza in merito alla diversità di posizioni individuali.
Al contrario, tanto la Dc quando il Psi erano partiti articolati in correnti. La Democrazia cristiana era stata
costituita nell'immediato dopoguerra principalmente grazie al sostegno delle organizzazioni cattoliche, le
quali avevano potuto rafforzarsi durante il fascismo, al contrario di quasi tutte le altre forme associative,
all'ombra dell'accordo tra la chiesa e il regime, e vennero poi mobilitate in vista delle elezioni del 1948.
In quelle elezioni ebbero in particolare un ruolo molto importante i “comitati civici”.
Successivamente, la stessa Azione cattolica fornì molti quadri locali al partito attraverso le sue
organizzazioni intellettuali, parte della classe dirigente. I dirigenti democristiani poterono però coltivare
relazioni con una rete molto più articolata di interessi economici e sociali di associazioni amiche.
Così avvenne ad esempio in agricoltura con la Coldiretti e nel settore pubblico con la Cisl e le Acli. Tale
strategia era parte di un più ampio disegno, portato avanti da Fanfani, segretario del partito dal 1954 al
1959. Fanfani intendeva incrementare il numero degli iscritti e dare alla Dc una organizzazione ramificata,
con associazioni collaterali simili a quelle del Pci.
Ma mentre nel Nord si affermò un modello da partito di massa di stile socialdemocratico, nel Sud quella
strategia di consolidamento organizzativo consistette nella sostituzione del tradizionale clientelismo dei
notabili con un clientelismo di massa mediato dal partito. Nel 1963 la Dc aveva effettivamente raggiunto
più iscritti del Pci, ma questa crescita di iscritti andava di pari passo con l'accentuarsi della competizione
interna tra le correnti.
Ciascuna corrente aveva propri mezzi di stampa, uffici, riunioni, convegni culturali, posizioni di politica
pubblica ecc. A partire dagli anni ’70 furono condotti vari tentativi per riattribuire al partito una più netta
identità culturale ma non ci riuscirono.
Una trasformazione piuttosto drastica fu invece promossa all'interno del Psi, all'inizio degli anni '80, sotto la
guida di Craxi. Anche il Psi era sempre stato un partito molto frazionato, e anche quando Craxi era stato

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eletto segretario, nel 1976, la sua corrente poteva fare affidamento solo sul 14% dei voti congressuali. Al
momento della seconda rielezione, nel 1981, la sua corrente aveva inglobato invece il 70% del partito.
Nei partiti laici minori (Pri, Pli, Psdi), date le loro dimensioni, la vita del partito era fondamentalmente
giocata sul confronto tra poche personalità.
Il Pri e il Pli, apertamente sostenuti da ambienti imprenditoriali, avevano una struttura organizzativa di tipo
notabilare; il Psdi si era invece andato ritagliando una sua nicchia come difensore delle prestazioni
pensionistiche e assistenziali.
Il Msi, al contrario, soprattutto a partire dall'inizio degli anni '70, quando, sotto la direzione di Almirante, si
propose come partito d'ordine, nettamente anticomunista e al tempo stesso critico delle degenerazioni
clientelari della Dc.
Fino almeno alla fine degli anni ’60, la profondità delle fratture ideologiche e l'estensione delle reti
organizzative costruite intorno ai maggiori partiti erano in grado di canalizzare in maniera pressoché
esclusiva la partecipazione politica dei cittadini italiani. In alcune regioni gli aderenti all'uno o all'altro
orientamento ideologico costituivano forti subculture. Chi vi era inserito sviluppava quindi un fortissimo
senso di appartenenza sia verso la subcultura sia verso il partito di riferimento.
Nel Nord-Est era dominante la subcultura bianca (cattolica), nel Centro-Nord quella rossa (comunista). In
Romagna e Toscana erano inoltre presenti insediamenti subculturali di orientamento repubblicano. Nel
Sud, dove non esistevano reti organizzative e forti identità subculturali, la partecipazione era spesso
sollecitata dai favori che singoli uomini politici potevano offrire ai loro “clienti" attraverso le imprese e gli
enti pubblici.
Con i movimenti sociali degli anni ’60 e ’70 si diffusero nuove forme di partecipazione esterne mentre le
organizzazioni un tempo collaterali come i sindacati, le imprese cooperative, le associazioni religiose ecc. si
resero definitivamente autonome. Iniziava così anche in Italia il superamento del modello “burocratico di
massa" e la trasformazione dei partiti in senso “professionale-elettorale".
Tutte le tendenze connesse a questa sindrome - l'abbandono di ideologie strutturate, il venir meno di una
classe sociale di riferimento, la comunicazione diretta dei leader con il pubblico attraverso i media come
sostituto dell'intermediazione svolta in precedenza dai quadri e dagli iscritti – hanno poi avuto una brusca
accelerazione con la svolta dei primi anni ’90. Venuti meno i partiti della Prima Repubblica, quasi nessuna
tra le nuove formazioni politiche ha acquisito una struttura organizzativa stabile e una fisionomia
indipendente dal leader-fondatore.
Il Movimento 5 Stelle, l'ultimo grande partito approdato in parlamento, è nato e si è affermato grazie alla
peculiare capacità comunicativa di Beppe Grillo e sotto la direzione operativa di Casaleggio. Nella narrativa
condivisa dai leader e dagli aderenti sono ricorrenti una radicale critica alle istituzioni non elettive, alle élite
che le governano (banche, giornali ecc.) e all'establishment degli altri partiti, un'enfasi sulla partecipazione
dal basso attraverso la rete secondo l'adagio “uno vale uno” e sulla piena intercambiabilità dei ruoli in base
al principio per cui qualunque cittadino onesto sarebbe in grado di esercitare le funzioni di rappresentanza
meglio dei politici di professione.
L'ascesa e il declino di una delle principali componenti del centrodestra è stata strettamente influenzata
dalla parabola individuale di Silvio Berlusconi. Forza Italia, costituita inizialmente da funzionari delle
imprese di sua proprietà, aveva come unità di base, al posto delle tradizionali sezioni, i “club”. Gli iscritti
avevano un ruolo di supporto alle attività del partito ma non hanno mai potuto partecipare alla formazione
della classe dirigente in quanto quest'ultima era scelta per cooptazione degli organismi di vertice o
nominata direttamente dal leader.
Tra il 2009 e 2010 venne creato il Popolo della libertà dalla fusione di Fi, Alleanza nazionale e altri gruppi
minori. Il violento conflitto che si sviluppò nel 2010 tra Berlusconi e l'ex leader di An, Gianfranco Fini, portò
alla prima di una serie di scissioni. Nel 2013, preso atto che il progetto unitario era fallito, le attività del Pdl

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furono sospese. Ma mentre tra il 1994 e il 2001 il consenso per Forza Italia di era aggirato intorno al 20 e il
30% dei votanti, ora le intenzioni di voto registrate dai sondaggi superavano di poco il 10%. Mentre nel
primo periodo Berlusconi era riuscito a proporsi come cerniera tra Fini (An) e Bossi (Lega), allora su
posizioni nettamente contrastanti, nella fase discendente della sua parabola si troverà a fronteggiare
l'ostilità di una inedita alleanza tra Salvini e la destra guidata da Giorgia Meloni. La fallita
istituzionalizzazione del Pdl ha quindi portato anche allo smembramento di An.
Gli unici due partiti rilevanti ancora presenti nel 2016 nell'arena politica italiana sono Lega Nord e Pd.
La Lega Nord era nata nel 1990 della Lega lombarda sostituendo o incorporando altri gruppi leghisti tra cui
la Liga veneta. Sotto la leadership iconica di Umberto Bossi si era fatta interprete di un violento
risentimento verso la politica nazionale (Roma ladrona) e di un'identità territoriale elaborata a misura del
suo insediamento elettorale (la Padania). E' riuscita così a costruire dal nulla una subcultura simile a quelle
della Prima Repubblica, con una base di votanti identificati interclassista, una rete di quadri leali verso
l'organizzazione, iscritti e sezioni, associazioni ricreative e sindacati collaterali. Una parte di questo
patrimonio è stato poi disperso quando il leader e altri dirigenti di primo piano sono stati travolti da
scandali sull'uso privato dei finanziamenti pubblici ai partiti, nel 2012. Sempre nel 2012, sull'onda degli
scandali, fu ratificata per alzata di mano l'elezione di Roberto Maroni a segretario, allora candidato unico da
parte dei delegati al congresso federale.
L'anno successivo verrà invece eletto un nuovo segretario, Matteo Salvini, con il voto diretto degli iscritti, in
contrapposizione al leader storico Bossi, che assumerà comunque la presidenza del partito.
Il Partito democratico nasce tra il 2007 e il 2008 dalla confluenza tra le formazioni politiche che avevano
dato in precedenza vita alla coalizione dell'Ulivo: i Democratici di sinistra, la Margherita e di forze minori. Il
suo vero e proprio battesimo era avvenuto due anni prima, quando alle primarie aveva riscosso un
inaspettato successo, con oltre 4 mln di elettori che si erano riconosciuti nel candidato comune delle
componenti riformiste (Romano Prodi).
Il modello statutario e organizzativo del Pd è stato deliberatamente concepito per promuovere la
formazione di leadership forti, rese però contendibili dall'apertura dei confini di partito a una doppia platea
di aderenti: accanto alla più tradizionale figura dell'iscritto, lo statuto del Pd riconosce lo status di aderente
anche ai cittadini che si dichiarano disponibili ad essere registrati come “elettori del Pd" nel momento
stesso in cui partecipano alle primarie indette dal partito per selezionare i candidati alla carica di sindaco e
presidente di regione, oppure all'elezione diretta del segretario nazionale, considerato il naturale candidato
del partito alla carica di primo ministro. Queste innovazioni hanno in parte surrogato la decrescente
disponibilità delle persone a iscriversi ai partiti, hanno favorito il ricambio della classe dirigente e
l'alternanza tra leader di diverso orientamento (Veltroni, Bersani e Renzi), ciascuno portatore di una
specifica agenda politica.

9.3 La competizione elettorale: dal proporzionalismo ai sistemi “majority assuring"


La frammentazione del sistema partitico era molto elevata nella Prima Repubblica e ha continuato a esserlo
nella Seconda.
Per l'elezione della Camera dei deputati il territorio nazionale era diviso in 32 circoscrizioni, a ciascuna delle
quali era assegnato un numero di seggi proporzionale al numero dei residenti. Si andava da circoscrizioni
relativamente piccole a cui erano assegnati 4 seggi ad altre molto grandi in cui se ne assegnavano più di 50.
In pratica, il costo in voti di un seggio era pari, in prima battuta, al totale dei voti validi diviso il numero dei
deputati da eleggere più due. I voti residui non utilizzati e i seggi non assegnati nelle varie circoscrizioni
venivano riportati in un collegio unico nazionale all'interno del quale si procedeva a una nuova ripartizione.
Il sistema elettorale produceva una trasposizione in seggi molto fedele della forza elettorale di ciascun
partito.

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Per l'elezione del Senato, invece, il sistema elettorale era apparentemente maggioritario; per vincere in un
singolo collegio non bastava però né la maggioranza relativa né quella assoluta, ma occorreva ottenere il
65% dei voti, cosa che non accadeva quasi mai. Quindi, la ripartizione dei seggi avveniva con metodo
proporzionale (formula d'Hondt), nell'ambito di circoscrizioni regionali, sulla base del totale dei voti ricevuti
nella regione da ciascun partito.
I sistemi elettorali non sortivano alcun effetto sulla competizione tra partiti ma piuttosto all'interno dei
partiti poiché l'assegnazione dei seggi all'interno delle liste veniva attribuita in base al numero di
preferenze ricevuto da ciascun candidato (alla Camera). Al Senato invece gli elettori potevano votare solo
per i candidati dei collegi uninominali.
Dopo aver ripartito i seggi tra tutti i partiti, venivano quindi assegnati, all'interno di ciascuno di essi, ai
candidati che avevano ottenuto la percentuale di voti più alta all'interno dei collegi uninominali. Anche al
Senato la capacità dei singoli candidati di portare consensi era premiata, ma in misura meno evidente. La
necessità di raccogliere voti di preferenza, entrando in competizione con altri candidati del proprio partito,
costituiva certamente un notevole onere aggiuntivo per diventare deputato, ma costituiva al tempo al
tempo stesso un'opportunità per dimostrare l'ampiezza del proprio seguito o per farsi largo all'inizio della
carriera. L'intensità della competizione era comunque piuttosto diversa in partiti molto frazionati, come la
Dc, rispetto a partiti disciplinati, come il Pci. L'uso del voto di preferenza era inoltre molto più frequente al
Sud, per ragioni a cui si è già accennato, rispetto al Nord. Il sistema elettorale tendeva quindi ad accentuare
sia la frammentazione del sistema partitico sia la scarsa coesione interna dei partiti di governo. I sistemi
elettorali per i consigli regionali e comunali presentavano le stesse caratteristiche di quello per la Camera
ad eccezione per i comuni con meno di 5.000 abitanti che utilizzavano un sistema plurinominale
maggioritario e dei consigli provinciali, il cui sistema elettorale era simile a quello del Senato.
Nel 1948, la vittoria della Dc e il successivo consolidamento della sua posizione dominante nel governo, così
come la scomposizione del blocco di sinistra, e il prevalere del Pci rispetto ai socialisti, farà parlare Giorgio
Galli di un “bipartitismo imperfetto". Con questa espressione si voleva segnalare l'asimmetria tra i due
partiti maggiori e l'impossibilità di un'alternanza al potere. Le elezioni successive del 1953 non hanno
portato a cambiamenti significativi. Solo in prossimità delle elezioni del 1976 tornò ad apparire plausibile
che il Pci superasse la Dc. Come le elezioni del 1948, quelle del 1976 portarono nuovamente a una
concentrazione del voto sulle due liste principali, a un basso astensionismo e a una riduzione delle
differenze territoriali. Per questo gli studiosi dei comportamenti elettorali le definiscono “elezioni di
mobilitazione". Per il resto, la storia elettorale italiana della Prima Repubblica è apparsa come una sorta di
lunga ed estenuante, quanto infruttuosa, guerra di logoramento condotta nei confronti della Dc da parte
dei suoi alleati non meno che del suo principale antagonista. Al suo interno si possono identificare tre
principali tendenze. Con le elezioni del 1948 inizia il processo di assorbimento dei partiti di destra
monarchici e qualunquisti che si può considerare sostanzialmente concluso con le elezioni del 1963. Dalla
metà degli anni ’60 alla metà del decennio successivo si assiste poi a un ridimensionamento dell'area
socialista e al fallimento dei partiti della nuova sinistra a vantaggio di una notevole crescita elettorale del
Pci, culminata nel risultato del 1976. A partire dalle elezioni del 1979 inizia invece un nuovo trend: crescono
in dimensioni e in numero i partiti che potremmo definire antiestablishment, che si caratterizzano per
riferimenti ideologici deboli e per una forte critica nei confronti tanto dei partiti dell'area di governo quanto
del Pci.
Tutto cambia con il NUOVO SISTEMA ELETTORALE MAGGIORITARIO che permette la formazione di
coalizioni alternative e governi stabili, soprattutto a livello locale, provinciale e regionale. Per i comuni con
meno di 15.000 abitanti è previsto un sistema plurality e un unico turno. A ciascun candidato a sindaco
deve essere collegata un'unica lista per il consiglio comunale. Gli elettori non possono dividere il loro voto
tra un certo candidato a sindaco e una lista che gli si oppone. Dal 2012 è stata introdotta la doppia

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preferenza di genere, dando cioè due preferenze a un uomo e una donna. La lista collegata al candidato
sindaco vincente ottiene sempre e comunque i due terzi dei seggi disponibili mentre i seggi rimanenti
vengono ripartiti in base alla formula d'Hondt tra le altre liste. I seggi sono attribuiti ai singoli candidati al
consiglio comunale in base al numero di preferenze ricevute. Per i comuni con più di 15.000 abitanti è
richiesta la maggioranza assoluta e con due turni (nell'eventualità che nessuno dei candidati raggiunga la
maggioranza al primo turno) e gli elettori possono dividere il voto. Per le province è stato adottato un
collegamento tra candidato a presidente ed elezione del consiglio simile ai comuni con meno di 15.000
abitanti e i consiglieri vengono scelti con un sistema uninominale; dal 2014 gli organi delle province
vengono eletti in secondo grado dai consiglieri comunali e dai sindaci. Per le regioni vi è un collegamento
tra l'elezione del presidente e dei consiglieri simile ai comuni con più di 15.000 abitanti. In questo caso però
viene previsto un premio di maggioranza che viene assegnato alla coalizione collegata al candidato eletto. Il
sistema di elezione di Camera e Senato è stato oggetto di diversi cambiamenti. I sistemi elettorali sono
cambiati nel corso della Seconda Repubblica: nel 1993 viene adottato un sistema misto - maggioritario
(legge Mattarella) dove i deputati venivano eletti in 475 collegi uninominali con formula plurality e i restanti
155 venivano eletti in collegi plurinominali su liste bloccate. Nel 2005 si adotta un sistema proporzionale
con premio di maggioranza a un turno simile a quello in vigore per le regioni, con una differenza cruciale tra
Camera e Senato: alla Camera il premio andava alla coalizione o al partito che avesse ottenuto il maggior
numero di voti a livello nazionale; al Senato il premio veniva assegnato invece regione per regione; in
questo modo, la coalizione vincente al livello nazionale correva il rischio di ottenere una maggioranza molto
risicata al Senato, o di non averla affatto. I difetti della legge, immediatamente segnalati da molti analisti,
diventarono evidentissimi nel 2013. Al Senato infatti non c'era una maggioranza di centrosinistra e il
segretario del Pd, Bersani, preso atto dell'indisponibilità del M5S a sostenere un governo da lui stesso
presieduto, lavorò per una grande coalizione con il Pdl a sostegno di un governo presieduto dal suo vive
Enrico Letta. Le elezioni del 2006 hanno mostrato una configurazione di bipolarismo frammentato; infatti
quasi il 100% dell'elettorato votò per una delle due principali coalizioni (massimo bipolarismo), le quali
contenevano tuttavia ben 21 liste. Le differenze sociografiche e valoriali tra gli elettori dei due schieramenti
sono risultate molto meno marcate di quelle che si potevano riscontrare fra gli elettorati dei due principali
contendenti della Prima Repubblica. Le differenze si sono ridotte con riferimento alla sfera religiosa: i due
schieramenti hanno attratto una quota pressoché identica di cattolici praticanti. Lievemente più
pronunciate sono rimaste le differenze di carattere socioeconomico. Dopo il 2006 la configurazione del
bipolarismo frammentato è stata alterata principalmente da due fattori. Per un verso nel centrosinistra la
frammentazione si è ridotta in maniera significativa grazie alla creazione del Pd e alla scelta di alcuni dei
suoi leader di praticare la cosiddetta “vocazione maggioritaria”. Per un altro verso, con le elezioni del 2013,
un partito antiestablishment (M5S) è riuscito a raccogliere ampi consensi sia da elettori che si definiscono
di centrosinistra sia da elettori di centrodestra. Nel 2014 la Corte costituzionale ha giudicato incostituzionali
alcuni elementi della legge Calderoli cancellando il premio di maggioranza e introducendo il voto di
preferenza, anche per il Senato. Nel 2015 Renzi, in accordo con Berlusconi, ha approvato un'ulteriore
modifica alla legge elettorale, adottando l'Italicum. Questo sistema, valido solo per la Camera dei deputati,
prevede l'aumento del numero delle circoscrizioni e la riduzione delle loro dimensioni, l'accorciamento
delle liste circoscrizionali, doppia preferenza di genere, il ripristino del premio di maggioranza ma sono
esclusi i collegamenti tra più liste, quindi il premio viene attribuito alla singola lista più votata. Inoltre, se
nessuna delle liste ottiene più del 40% dei voti validi, si svolge un turno di ballottaggio tra le due più votate
e il premio viene attribuito a quella che al secondo turno riceve la maggioranza assoluta dei voti validi.
OGGI: Legge Rosato, sistema elettorale misto a separazione completa.

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9.4 Il governo: dalla stabile instabilità all'alternanza continua
Durante la PRIMA REPUBBLICA tutti i governi sono nati da ACCORDI POSTELETTORALI DI COALIZIONE. Da un
lato, la presenza di ali estreme considerate “antisistema” (Pci e Msi) limitava il possibile perimetro delle
coalizioni di governo. Dall'altro la progressiva erosione della forza parlamentare della Dc e le sue crescenti
divisioni interne hanno reso necessario l'allargamento delle coalizioni a tutti i partner divenuti “accettabili”.
Con la FASE DEL CENTRISMO (1948-53), la Dc era sostenuta da una maggioranza assoluta dei seggi e il
leader faceva da ago della bilancia tra le contrastanti pressioni delle correnti interne alla stessa Dc e di
quelli che allora erano suoi partner non necessari; nella fase del centrosinistra (1963–68), vengono inclusi
nell'area di governo anche partiti come il Psi e il Pli, dando una svolta a sinistra in un periodo importante e
compromettente come la Guerra fredda. Alla fine degli anni ’70, di fronte alla profonda crisi economica in
cui versava il paese, alle fortissime tensioni sociali e ai pericoli posti dal terrorismo, anche il Pci viene
incluso nella maggioranza parlamentare. I governi di solidarietà nazionale, presieduti da Andreotti,
godevano dell'appoggio dei partiti esclusi fino a qualche anno prima, come il Pci, il Psi, Psdi, Pri, Pli. Questa
apertura non fu definitiva (era un espediente per superare una fase particolarmente critica), non sancì la
piena legittimazione del Partito comunista e non aprì la strada all'alternanza. Con il primo governo della
storia repubblicana presieduto da un non democristiano prende infine avvio la lunga fase del pentapartito,
basata su coalizioni che includono a pieno titolo, oltre alla Dc, sia i due partiti “laici" sia i due partiti
socialisti. Tra la crisi di una “formula di coalizione” e l'avvio di quella successiva, ci sono lunghe fasi di
instabilità spesso coperte da governi di minoranza formati soltanto da esponenti democristiani. Dato tale
complesso quadro della politica di coalizione, il processo di formazione dei governi appariva sempre
piuttosto contorto. Lo dimostra la durata della crisi tra un governo e l'altro. All'indomani delle elezioni o in
presenza di una crisi nel corso di una legislatura, il Pdr, dopo aver consultato i segretari dei partiti, poteva
affidare a un esponente politico un incarico “pieno” a formare il governo oppure un incarico meramente
“esplorativo”, finalizzato cioè a sondare ulteriormente i partiti e le correnti Dc circa le loro intenzioni.
Secondo l'articolo 92 della Costituzione, i ministri devono giurare davanti al Pdr prima che il governo possa
presentarsi di fronte alle camere per chiedere la fiducia. Una volta formato il governo e ottenuta la fiducia,
il presidente del Consiglio non poteva attivare nessun deterrente nei confronti di componenti della sua
base parlamentare che volessero metterlo in difficoltà. L'unico modo per evitare che le crisi fossero troppo
frequenti consisteva nell'includere anche i partiti non strettamente necessari al raggiungimento della
maggioranza. Venivano cioè spesso costituite coalizioni sovradimensionate. Con l'affermarsi della dinamica
bipolare, alcune delle consuetudini della Prima Repubblica sono cadute in disuso, soprattutto perché la
nuova struttura della competizione e i nuovi sistemi elettorali hanno quasi sempre attribuito la
maggioranza assoluta dei seggi a una delle coalizioni. Come abbiamo visto, nel 1994 il centrodestra era
articolato in due distinti raggruppamenti tenuti insieme da Berlusconi. Ciononostante, all'indomani delle
elezioni, era chiaro a tutti che non vi potessero essere alternative a un governo formato da Fi, An, Lega e
Ccd, presieduto dal leader di Fi. Al contrario di quanto accadeva nella Prima Repubblica, le elezioni sono
risultate decisive. Poiché le due principali coalizioni hanno mantenuto un bacino elettorale di dimensioni
simili, le elezioni sono risultate anche competitive, producendo ripetute alternanze. La formazione dei
governi ha avuto tempi mediamente più brevi che nel passato. Il ruolo del primo ministro è risultato
notevolmente rafforzato. Ma d'altro canto, il permanere di una notevole frammentazione all'interno delle
due principali coalizioni hanno reso queste coalizioni instabili. Alla fine del 1994, pochi mesi dopo le elezioni
vinte dal centrodestra, la Lega Nord rompe l'alleanza con Berlusconi, il quale deve passare la mano al
governo tecnico di Dini. A fine 1998, il Pcr ritira la fiducia al governo Prodi e la legislatura continua con
governi presieduti da Massimo D'Alema e Giuliano Amato. La XIV legislatura (2001-06), l'unica iniziata e

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conclusa con lo stesso presidente del Consiglio (Berlusconi), fu attraversata da forti tensioni tra l'Udc e la
Lega, tra il leader di An Fini e il ministro di Fi Giulio Tremonti.
Quella inaugurata nel 2006 dal secondo governo Prodi si è interrotta dopo due anni abbastanza tormentati,
segnati da continui strappi dei vari microgruppi che componevano la maggioranza. Berlusconi rivince nel
2008 ma a fine 2011 ai dimette (dopo una serie di scandali) passando la mano al governo Monti. Ciascuna
di queste crisi peraltro ha portato a una inevitabile espansione dei poteri effettivamente esercitati dal Pdr.
Secondo la Costituzione, il capo dello stato: nomina il presidente del Consiglio, può decidere lo scioglimento
anticipato del parlamento, può inviare messaggi alle camere, promulga leggi ed emana i decreti, autorizza
la presentazione di progetti di legge di iniziativa del governo, presiede il Consiglio superiore della
magistratura. Ma fino a quando esiste una chiara maggioranza parlamentare, il Pdr è chiamato a svolgere
una funzione quasi solo cerimoniale. In situazioni di incertezza, la sua personale valutazione può invece
pesare moltissimo. Ad esempio, quando nel 1994 cadde il primo governo Berlusconi, fu determinante la
preferenza dell'allora Pdr Scalfaro a favore della costituzione di un governo tecnico prima di tornare alle
elezioni. Un caso simile si è verificato nel 2011, sotto la presidenza di Napolitano, quando Berlusconi fu
sostituito da Monti. Questi due casi segnalano anche un'altra particolarità della politica italiana. Per
superare situazioni di stallo si è fatto più volte ricorso a personalità esterne alla politica. Le vistose
inefficienze della politica nazionale, gli scandali che hanno nuovamente coinvolto i gruppi dirigenti di diversi
partiti e il loro generale invecchiamento, oltre alla forzata convivenza nella stessa maggioranza dei
principali antagonisti della dinamica bipolare contribuiscono a spiegare l'eccezionale successo del M5S.

9.5 Il parlamento: dalla centralità alla fuga verso la decretazione


L'assetto proporzionalistico-consensuale della Prima Repubblica si rifletteva nella cosiddetta “centralità del
parlamento". Come abbiamo già visto, una caratteristica peculiare del sistema parlamentare designato dai
costituenti del 1946-47 consiste nella composizione perfettamente congruente delle due camere le quali
hanno anche competenze legislative perfettamente paritarie (bicameralismo perfetto). Ogni proposta di
legge deve essere approvata in una identica formulazione da Camera e Senato. Entrambi i rami del
parlamento sono articolati in commissioni parlamentari, specializzati per materie. Esse esaminano i progetti
di legge. Di solito le commissioni delegano uno dei loro componenti o un comitato ristretto a elaborare un
“testo unificato” o testo base che viene sottoposto a un ulteriore esame da parte dell'aula. In questo caso si
dice che il progetto è stato esaminato dalla commissione in “sede referente”. In alternativa, le commissioni
possono essere chiamate a formulare un progetto su cui l'assemblea si dovrà poi pronunciare senza
possibilità di introdurre emendamenti (si tratta della cosiddetta “sede redigente”, mai utilizzata), oppure ad
approvare il progetto per conto dell'assemblea (si parla in questo caso di “sede legislativa" nel lessico della
Camera o di “sede deliberante" nel lessico del Senato). La simmetria dei poteri tra le due camere offre ai
gruppi che intendono opporsi a una certa proposta una possibilità più che doppia di bloccare o allungare il
percorso della decisione legislativa. Al contrario, la possibilità di decentrare l'approvazione dei progetti di
legge dall'aula alle commissioni consente di snellire i tempi del processo legislativo. Per capire come
lavorava in passato e come lavora oggi il parlamento italiano si deve anche considerare il modo in cui i
regolamenti delle camere hanno disciplinato il “potere di agenda". Fino al 1988, il governo era considerato
come una sorta di “ospite" in parlamento. Il calendario dei lavori era affidato agli accordi raggiunti
all'interno della “conferenza dei capigruppo" e doveva essere elaborato con il consenso di tutti i maggiori
partiti, compresi quelli di opposizione. I regolamenti non fissavano alcun limite ai tempi della discussione
generale su ciascun progetto di legge. I regolamenti prevedevano inoltre il ricorso pressoché generalizzato
al voto segreto, il quale permetteva a componenti della maggioranza di votare contro provvedimenti
proposti dal governo al riparo della segretezza del voto. Queste caratteristiche dell'organizzazione della vita
parlamentare si riflettevano sulle dimensioni e sulla qualità della produzione legislativa. Le proposte di

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iniziativa parlamentare erano di gran lunga superiori a quelle di iniziativa governativa. Al contrario che in
altri paesi, erano soprattutto i parlamentari a presentare proposte di legge ed emendamenti a titolo
individuale. Molte di queste proposte venivano presentate on realtà solo per dimostrare l'interesse dei
singoli parlamentari verso un determinato problema e rimanevano poi lettera morta, per cui alla fine dei
conti la gran parte dei progetti approvati era di origine governativa. Tuttavia, quasi mai arrivarono in porto
senza che il parlamento li avesse modificati. Nella Prima Repubblica, quindi, la capacità del governo di
guidare l'attività del parlamento era limitata, per ragioni sia politiche sia istituzionali. Con l'avvento del
sistema bipolare, l'equilibrio tra le due istituzioni si è notevolmente spostato a vantaggio dell'esecutivo. Nel
1988 ci fu una ulteriore revisione dei regolamenti parlamentari. Al Senato venne drasticamente ridotto il
ricorso al voto segreto e fu previsto che il calendario dei lavori fosse fissato tenendo conto delle priorità
indicate dall'esecutivo. La decisione ultima sulla programmazione dei lavori continua a rimanere nelle mani
della conferenza dei capigruppo ma ora in caso di disaccordo la conferenza decide a maggioranza e quindi
anche senza il consenso dei partiti di opposizione. Alla Camera il cambiamento dei regolamenti è stato
inizialmente meno incisivo. Solo nel 1990 si è data per la prima volta cittadinanza alle indicazioni del
governo sull'agenda dei lavori. La revisione è stata poi completata nel 1997, prevedendo il
contingentamento dei tempi. Sin dall'inizio degli anni '80, tutti i governi hanno fatto un uso molto più
frequente che in passato dei decreti legge. Per molto tempo questo fenomeno si è sviluppato in maniera
caotica e spesso al di fuori dei “casi straordinari di necessità e d'urgenza”. A partire dai primi anni '90, per
aggredire il problema del debito pubblico e raggiungere i parametri fissati per l'entrata nell'euro, il governo
ha poi iniziato a utilizzare in maniera molto più decisa anche altri strumenti. Innanzitutto, ha accresciuto il
suo controllo sulla sessione di bilancio e sulle leggi collegate alla manovra annuale di finanza pubblica. In
secondo luogo, alcune materie, a cominciare dell'organizzazione dei ministri, sono state delegificate, nel
senso che non sono più disciplinate con leggi ma attraverso regolamenti emanati dall'esecutivo che non
hanno bisogno dell'approvazione parlamentare. In terzo luogo, sugli argomenti che richiedono una
disciplina più articolata e più complessa, i governi hanno fatto approvare sempre più spesso al parlamento
ampie leggi di delegazione in modo da poter poi intervenire attraverso l'emanazione di decreti legislativi.
Tutto questo si è accompagnato alla drastica riduzione del ricorso alle commissioni come “sede
deliberante”, a una riduzione del numero medio delle leggi approvate e a una riduzione ugualmente
significativa del numero di proposte di singoli parlamentari trasformate in legge. Soprattutto a partire dalla
XIV legislatura sono state inoltre utilizzate con frequenza altre due tecniche: questione di fiducia e
maxiemendamenti. Attraverso i maxiemendamenti viene proposta la completa o quasi completa riscrittura
di un progetto di legge, eventualmente con integrazioni, mentre il testo è all'esame di una commissione o
dell'aula. Quando viene posta la questione di fiducia su un articolo o un singolo emendamento, piccolo o
grande, il parlamento deve esaminare in via prioritaria il testo proposto dal governo. Se il testo del governo
viene approvato, si considerano respinti tutti i testi o gli emendamenti alternativi e quasi si azzerano gli
spazi per l'ostruzionismo. Ponendo la questione di fiducia il governo mette in gioco la sua sopravvivenza,
quindi anche i componenti dissenzienti della maggioranza sono spinti a votare a favore.

9.6 Le istituzioni politiche territoriali: dal decentramento politicamente vincolato al rafforzamento delle
autonomie
Mentre la Prima Repubblica è stata caratterizzata da una notevole dispersione del potere tra diversi attori
nell'ambito del governo nazionale, presentava invece forte accentramento nei rapporti tra la politica
nazionale e gli enti locali. La scelta di un assetto “centralistico” si era affermata già con l’approvazione del
codice amministrativo nel 1865. Nonostante la presenza di alcune voci dissenzienti, le élite piemontesi
avevano scartato ogni ipotesi “federale” temendo che la chiesa e le altre forze contrarie al disegno unitario
potessero usare le istituzioni territoriali, soprattutto nel Sud, per creare movimenti secessionisti. Tra il 1888

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e il 1896 verranno poi resi elettivi gli organi di governo degli enti locali, ma il fascismo abolirà anche questa
forma di partecipazione democratica. All'avvio della fase repubblicana gli organi degli enti locali tornarono
ad essere eletti dai cittadini e si riprese a discutere della istituzione delle regioni. Nell'ambito della
Costituente furono soprattutto gli esponenti democristiani, repubblicani e azionisti a farsene paladini. Al
contrario socialisti e comunisti erano contrari sulla base della teoria leninista sullo stato, la quale vedeva le
autonomie territoriali come un possibile ostacolo a una trasformazione della società guidata dal centro.
L'assetto definito dai costituenti prevedeva 14 regioni a statuto ordinario (Abruzzo e Molise verranno
distinte con una legge) e 5 regioni dotate di uno speciale statuto di autonomia: Sicilia, Sardegna, Trentino-
Alto Adige, Valle d'Aosta, Friuli-Venezia Giulia. Le prime 4 regioni a statuto speciale vennero effettivamente
istituite in tempi brevi. Per il Friuli si dovette attendere la soluzione della contesa su Trieste e la regione
venne istituita sono nel 1964. Al contrario, l’istituzione delle regioni a statuto ordinario venne
sistematicamente ostacolata dai governi a guida democristiana. L’efficacia delle politiche da esse messe in
atto e la fiducia dei cittadini verso le istituzioni regionali sono risultate comunque molto differenziate da
Nord a Sud, a causa dai diversi livelli di ricchezza economica, di civismo diffuso e stabilità dei governi.
L'articolazione territoriale dei poteri nella Prima Repubblica era insomma caratterizzata da un
decentramento apparentemente ampio, ma di fatto fortemente vincolato al centro. Inoltre, con l'eccezione
della zona rossa, dove il Pci poteva contare su una larga maggioranza relativa, e su tutti i gruppi consiliari
disciplinati, anche i governi regionali e locali erano estremamente instabili. La scelta dei sindaci delle grandi
città o dei presidenti di regione veniva spesso decisa nell’ambito di accordi di coalizione stipulati tra i
dirigenti nazionali dei partiti o dai politici di rango nazionale localmente più influenti. I sistemi elettorali
introdotti all’inizio degli anni ’90 hanno cambiato questa dinamica. L'elezione diretta dei capi degli esecutivi
ha reso soprattutto i sindaci e i presidenti di regione figure dotate una forte autonomia rispetto alla politica
nazionale, altre a rafforzare la stabilità delle loro giunte. Con la legge Bessanini del 1997 e i successivi
decreti legislativi sono state trasferite nuove funzioni e risorse dallo stato al comparto degli enti regionali e
locali in vari settori di politica pubblica. La ripartizione delle competenze legislative tra lo stato e le regioni è
stata modificata nel 2001 con una riforma che ha ampliato le competenze regionali e prefigurato la
possibilità anche per le regioni a statuto ordinario di chiedere forme speciali di autonomia. È stata inoltre
parificata la posizione del governo centrale e dei governi regionali per quanto riguarda la loro facoltà di
sollecitare il controllo di costituzionalità delle leggi (statali e regionali) da parte dell'Alta Corte. Sia le “leggi
Bassanini” del 1997 sia la riforma costituzionale del 2001 hanno rafforzato il ruolo delle sedi di
concentrazione tra i governi nazionale, regionali e locali: la conferenza stato-regioni, la conferenza stato-
città e la conferenza unificata al livello nazionale; le conferenze regioni-autonomie locali al livello
decentrato. Queste conferenze dovrebbero garantire il raccordo tra i vari livelli di governo soprattutto nella
fase di elaborazione dei progetti di legge o delle bozze di regolamento. Non si sono tuttavia rivelati
sufficienti a prevenire i conflitti di attribuzione tra stato e regioni. Da qui trova una ulteriore giustificazione
l’esigenza di trasformare l’inutile doppione del Senato in una sede di rappresentanza degli enti territoriali,
in modo da prevenire i conflitti di attribuzione nella fase di approvazione delle leggi. La riforma del 2001
aveva peraltro collocato tra quelle a competenze concorrente (statoregioni) anche materie come
l’ordinamento delle professioni e della comunicazione o il coordinamento dei sistemi statistici ecc.
L’ulteriore revisione costituzionale approvata dalle camere nel 2016 le ha riportate tra le materie di
esclusiva competenza dello stato reintroducendo anche il principio generale per cui il parlamento può
intervenire in materie non riservate allo stato centrale “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o
economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”. In questo caso, però, se il Senato
(sede di rappresentanza degli enti territoriali) propone modifiche a maggioranza assoluta dei suoi
componenti, la Camera può opporsi solo con il voto di una maggioranza ugualmente qualificata.

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9.7 I caratteri del “policy making”: la parabola del governo di partito
I vari elementi messi in evidenza nei paragrafi precedenti hanno avuto importanti ripercussioni sulle
modalità di formazione delle politiche pubbliche. Nella Roma della Prima Repubblica il processo decisionale
era piuttosto caotico. La complessità dei negoziati su cui si reggeva il processo decisionale, insieme alla
diffusa colonizzazione politica delle istituzioni amministrative ha portato molti analisti a considerare quello
italiano quello italiano come un policy making dominato dai partiti. I dirigenti di partito hanno
effettivamente esercitato un notevole controllo sui contenuti delle politiche pubbliche negli anni '50 e '60.
Successivamente, il ruolo dei dirigenti di partito nel policy making è rimasto rilevante. La loro capacità di
indirizzare il contenuto delle politiche pubbliche si è invece progressivamente attenuata, anche per effetto
del carattere caotico ed estremamente pluralistico del processo decisionale. Le commissioni parlamentari
erano la sede entro cui era più facile per i gruppi esercitare influenza sul processo decisionale. Le pressioni
avvenivano tuttavia attraverso linee pratiche, data la tradizionale affiliazione a una delle subculture delle
principali organizzazioni di rappresentanza degli interessi, a cominciare dalle tre maggiori organizzazioni
sindacali: la Cisl; la Cgil; la Uil. Con poche eccezioni, riforme incisive sono risultate praticabili solo quando
esse potevano contare su un ampio consenso e quindi promettevano di distribuire benefici a fronte di costi
poco visibili, almeno nel breve termine. Questa inclinazione distributiva ha poi avuto una ricaduta negativa
molto evidente sulla finanza pubblica. I cambiamenti intervenuti all'inizio degli anni '90 sono stati sotto
questo aspetto molto significativi, ma non si può dire che si siano stabilmente affermati nuovi modelli o
uno stile uniforme di elaborazione delle politiche. Come abbiamo visto, il processo decisionale è oggi più
fortemente controllato dal governo ma il grado e le forme del coinvolgimento dei gruppi di interesse sono
mutati a seconda del colore delle maggioranze, delle preferenze dei singoli ministri e della forza della
leadership. Negli anni in cui è risultato più intenso lo sforzo per il risanamento finanziario, e cioè nella fase
1993-94 dei governi tecnici e poi in quella 1996-98, le parti sociali sono state rese corresponsabili e
partecipi della strategia di risanamento attraverso la concertazione. Questa pratica è poi divenuta via via
meno ricorrente per varie ragioni. Innanzitutto, è cresciuta la frammentazione delle sigle sindacali e si è
assottigliata la loro base associativa tra gli occupati, mentre alcune tra le maggiori imprese hanno
abbandonato Confindustria. In secondo luogo, si è affermato uno stile di azione dei governi coerente con il
modello maggioritario, che tende a limitare i poteri di veto sulle scelte di politica pubblica e preferisce
sottoporre il proprio operato direttamente al giudizio del parlamento e degli elettori.

9.8 I rapporti con l'UE: da ancora di salvataggio a ostacolo per la crescita


La più evidente forma di pressione esogena sul sistema politico nazionale ha riguardato sicuramente la
politica di bilancio. Sia le pressioni dei mercati finanziari internazionali, sia i vincoli esplicitamente posti dal
trattato di Maastricht ai paesi interessati ad aderire all'area della moneta unica, costrinsero i governi
italiani ad affrontare il problema del crescente debito pubblico. L'UE costituiva per i governanti anche una
fonte di legittimazione. Gli italiani avevano infatti costantemente espresso nel dopoguerra, i livelli di fiducia
nei confronti delle istituzioni europee tra i più elevati. Tuttavia, a questo elevato tasso di europeismo, si
accompagnavano fino al 1989 comportamenti incoerenti sul piano legislativo e amministrativo: l'Italia
registrava uno tra i più bassi livelli di recepimento delle direttive comunitarie, un elevato numero di
contestazioni da parte della Commissione e il più alto numero di condanne per inadempienza della Corte di
giustizia europea, oltre a una bassissima capacità delle regioni del Sud ad accedere ai fondi comunitari. Con
i governi Amato, Ciampi, Dini e Prodi il vincolo comunitario è stato poi usato come una “ancora di
salvataggio" a cui aggrapparsi e come una preziosa risorsa simbolica per giustificare le politiche di
risanamento finanziario. Alla fase degli anni '90 in cui l'Europa è stata vista soprattutto come una occasione

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positiva e un termine di riferimento per l'adattamento delle politiche pubbliche, ha fatto seguito una
stagione con connotati molto diversi, nella quale le politiche di rigore finanziario vengono piuttosto
considerate un ostacolo per la crescita. Come in quasi tutti gli altri paesi europei, il malessere prodotto
dalla lunga stagnazione dell'economia iniziata con il nuovo secolo e dalla grande recessione che ha avuto il
suo apice tra il 2007 e il 2009 ha reso l'Ue oggetto di atteggiamenti molto più critici.

9.9 Conclusioni: verso una “normale" democrazia dell'alternanza?


La transizione della Seconda Repubblica avrebbe dovuto dare all'Italia un sistema istituzionale più simile a
quello di altre grandi democrazie. O meglio, simile alla forma ideal tipica della democrazia maggioritaria,
basata sulla competizione tra due forze politiche alternative. Come abbiamo visto, i sistemi elettorali
adottati dal 1993 in poi hanno effettivamente promosso la riaggregazione in chiave bipolare del sistema
partitico. Mentre al livello locale le aspettative riguardo alla stabilità degli esecutivi sono state
ragionevolmente soddisfatte, al livello nazionale si sono verificate diverse crisi in corso di legislatura che
hanno portato alla sostituzione del primo ministro “proposto” agli elettori della coalizione vincente o allo
scioglimento anticipato del parlamento. Inoltre. in tutte le elezioni svoltesi dal 1994 al 2013 i risultati hanno
trasmesso un giudizio negativo sui governi della legislatura appena conclusa portando a un ribaltamento
della maggioranza. Il permanere dell'instabilità e della scarsa efficacia dei governi sembra influenzata
principalmente da tre fattori istituzionali: la frammentazione e la conflittualità interna delle principali
coalizioni; l'assenza di norme costituzionali di “razionalizzazione del parlamentarismo” poste a tutela degli
esecutivi; la schizofrenia dei premi differenziati tra Camera e Senato in presenza di poteri identici delle due
camere.
L'eterogeneità e la conflittualità interna delle coalizioni sono state anche favorire dai sistemi elettorali: la
legge Calderoli del 2005 ancora di più che dalla legge Mattarella del 1993. Sin dalla metà degli anni ’90,
entrambi gli schieramenti avevano indicato la necessità di intervenire, con modifiche della Costituzione,
sugli altri due aspetti citati: la forma di governo e il bicameralismo. Le concrete posizioni prese sia dai
principali partiti di centrosinistra sia da quelli di centrodestra sono state però costantemente influenzate
dalle resistenze trasversali dei parlamentari in carica, e in particolare dai senatori, contrari a qualsiasi forma
che portasse al superamento di un doppio corpo di eletti. La revisione costituzionale approvata dal
parlamento nel 2016 prevede invece la trasformazione del Senato in una sede di rappresentanza degli enti
territoriali formata da 95 componenti selezionati tra i sindaci e i consiglieri regionali, più 5 di nomina
presidenziale. Quanto alla forma di governo, il centrosinistra propose un progetto organico di revisione
costituzionale improntato a un netto rafforzamento del primo ministro (mai applicato). Il sistema politico
italiano continua dunque a rimanere in bilico tra tentativi di consolidare il bipolarismo attraverso
l'unificazione delle principali coalizioni in grandi partiti e il suo definitivo tramonto, tra esperimenti per dare
al paese governi più stabili e la contrarietà di chi vede in questo modo eccessivamente ridotti i suoi poteri di
veto. La forte crescita tra il 2012 e il 2013 di un partito antagonista rispetto sia allo schieramento di
centrodestra sia a quello di centrosinistra, il M5S, oltre a riflettere una tendenza globale alla crescita dei
gruppi antiestablishment, interpreta il malcontento popolare per i fallimenti del bipolarismo italiano.

CAPITOLO 12: GLI STATI UNITI


12.1 Bilanciamento dei poteri e garanzia dei diritti
Dopo lo scoppio della Rivoluzione americana nel 1775, nel 1776 le 13 colonie dichiarano l'indipendenza da
re Giorgio III con un documento scritto. In un primo momento gli Stati Uniti sono una confederazione ma
nel 1787, in seguito a gravi problemi finanziari, agli ostacoli del commercio e all'assenza della moneta unica,

48
viene convocata la Convenzione costituzionale a Filadelfia con l'entrata in vigore della Costituzione nel
1788. Nel 1789 viene eletto il primo Presidente degli Stati Uniti, George Washington. In seguito nel 1791
furono approvati i primi 10 emendamenti, che divennero parte integrante della Costituzione, chiamati “Bill
of rights” (limitare il potere del governo e tutelare le libertà individuali). La Costituzione americana stabiliva
garanzie e limiti dell'esercizio del potere e un sistema federale in cui il potere era diviso, controllato e
controbilanciato tra Stati e tra organi del governo nazionale: il Presidente, un Congresso bicamerale
rappresentativo degli Stati e del popolo, l'ordine giudiziario Per evitare che il potere si concentrasse nelle
mani di un'unica istituzione, i padri fondatori decisero di dividere il potere costruendo comunque un
assetto politico e costituzionale solido, con un governo forte. Quindi la scelta federalista apparve la più
plausibile. Il sistema americano viene definito come un sistema di istituzioni separate che condividono una
quota di potere. Diversamente dai sistemi parlamentari, il potere del presidente non deriva dal sostegno
della maggioranza nelle assemblee legislative o da un rapporto di fiducia. La flessibilità della Costituzione è
stata possibile grazie alla legislazione del Congresso, alle pratiche presidenziali, all'interpretazione
giudiziaria, agli usi e alle consuetudini. Non è stato raro nella storia americana che il Bill of Rights fosse
stato modificato in alcune parti attraverso la sua riscrittura formale o attraverso l'interpretazione
giudiziaria.

12.2 Partecipazione politica e partiti: fratture deboli, valori comuni forti


Sin dalla fondazione della Repubblica i territori che compongono l’unione presentavano significative
differenze di carattere sociale ed economico che hanno avuto importanti riflessi sugli orientamenti politici.
Lo stesso si può dire della notevole eterogeneità del paese, da sempre terra di immigrazione, dal punto di
vista etnico-culturale. Negli Stati Uniti non hanno avuto grande influenza le fratture che hanno invece
caratterizzato le democrazie europee (soprattutto quelle tra stato e chiesa o tra capitale e lavoro). Gli
interessi territoriali e la grande eterogeneità etnico - culturale non sono mai stati tanto profondi e rilevanti
da portare alla formazione di partiti politici. Le differenze si sono sempre affievolite di fronte alla
condivisione di valori, a una forte identificazione con i principi costituzionali e a un profondo senso di
appartenenza alla comunità nazionale. L'unico conflitto rilevante che ha poi condotto ad una guerra è stata
la contrapposizione tra Sud agricolo e schiavista e Nord industriale e antischiavista verso la metà dell'800,
producendo la secessione di 11 stati. Gli Stati Uniti sono nati come una nazione di immigrati (Padri
Pellegrini erano irlandesi) e continua ad essere un Paese d'immigrazione.
La loro storia ha conosciuto periodicamente fori ondate migratorie:
1. nel 1840-50 con l'arrivo di irlandesi e cattolici tedeschi,
2. nel 1861-65 con l'arrivo di inglesi e scandinavi,
3. nel 1890-1910 con l'arrivo di italiani, polacchi, ebrei, russi,
4. dal 1960 con l'arrivo di ispanici e asiatici.
Ogni ondata migratoria ha portato con sé un aumento della diversità culturale, religiosa, etnica e razziale,
insieme a nuove barriere linguistiche da superare. Dai tempi del New Deal gli afroamericani hanno
individuato nei democratici il partito dei diritti civili. Le differenze tra gli ispanici si traducono in diversi tassi
di partecipazione, appartenenza politica e ideologia, pur essendoci tra loro un esteso consenso su politiche
progressiste come l’incremento dei fondi pubblici per la sanità, il controllo del crimine e della droga,
l’ambiente, i servizi per i bambini e l’istruzione bilingue. Se gli afroamericani votano per il Partito
democratico con un margine di 9 a 1 rispetto ai repubblicani, fra gli ispanici il rapporto scende a 2 a 1. Le
statistiche dimostrano che sopravvive il tradizionale legame che ha unito gli asiatici ai democratici. Le
elezioni del 2004 hanno mostrato un'inversione di tendenza, dove ispanici e afroamericani di un'età
compresa tra i 26 e i 35 anni votavano per i Repubblicani. Le elezioni del 2008 e del 2012 hanno confermato
il trend tradizionale, secondo cui ispanici, afroamericani e asiatici preferiscono i democratici (favoriti anche

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dalla candidatura di Barack Obama). In ogni modo i diversi orientamenti e preferenze politiche tra le
comunità culturali negli Usa non ostacolano la condivisione di valori, come il rispetto per la Costituzione,
per la libertà individuale, per l'uguaglianza politica e per l'uguaglianza delle opportunità. Nonostante tutti
questi valori siano i capisaldi nella cultura politica americana, è stata negata l'eguaglianza politica agli
afroamericani, ai nativi e alle donne e permangono ancora discriminazioni riguardo alla razza, al sesso e
all'appartenenza etnica. Anche lo stato indigente di molte famiglie, la malnutrizione di molti bambini e la
negazione di accesso all'istruzione rendono gli Stati Uniti uno dei Paesi più disuguali al mondo. Gli
americani sono però orgogliosi delle loro istituzioni politiche anche se l'affluenza alle urne è molto più
bassa che in altri Paesi. C'è da dire che il tasso dell'affluenza alle urne dipende da molti fattori:
1) il diritto di voto non è concesso a persone condannate per reati gravi, internate in ospedali psichiatrici,
detenute o prive di cittadinanza;
2) l'iscrizione alle liste elettorali è volontaria;
3) il voto è di martedì e questo disincentiva perché recarsi alle urne costa un giorno di lavoro;
4) i cittadini sono chiamati alle urne molto spesso (elezioni nazionali, statali, locali, primarie e referendum).
Abbiamo detto che i partiti politici non si sono radicati in modo profondo come in Europa, Ma questo non
impedisce i cittadini americani di fare volontariato o di finanziare le campagne elettorali dei due principali
partiti. Da più tempo e più intensamente che in Europa, in America gli elettori compiono le proprie scelte
sulla base della personalità dei singoli candidati. I Repubblicani si dividono in due filoni: conservatori e
tradizionali, favorevoli al minimo intervento dello Stato nell'economia, e i neoconservatori, favorevoli
all'istituzionalizzazione dei loro valori morali e religiosi, a limitare l'accesso all'aborto, a promuovere le
preghiere nelle scuole e a controllare la pornografia. Generalmente i repubblicani raccolgono consensi tra i
ceti più elevati e più istruiti e negli Stati dell'Arizona, Utah e Kansas. I Democratici sono stati il punto di
riferimento per i ceti più svantaggiati e discriminati. Sono favorevoli all'intervento dello Stato
nell'economia, nel settore sociale, all'introduzione di regole che disciplinano l'attività dell'industria e che
tutelano l'ambiente. Raccolgono consensi tra gli americani più poveri, tra le minoranze religiose, tra coloro
che hanno più bassi di livelli di istruzione. Generalmente entrambi i partiti propongono politiche moderate
e hanno leader moderati MA sono organizzazioni deboli a causa dell'erosione del clientelismo, dell'uso
spregiudicato delle assunzioni nelle pubbliche amministrazioni e della concessione di appalti ai loro
sostenitori. Hanno operato in un sistema di separazione di poteri di pesi e contrappesi che ha fortemente
limitato la loro capacità di impadronirsi e dominare le istituzioni. Le decisioni importanti vengono prese
direttamente dagli elettori nelle primarie o dalle assemblee degli attivisti di partito.

12.3 La competizione elettorale: bipartitismo e personalizzazione


La politica americana si è sempre distinta per il suo bipartitismo e l'alternanza. I teorici del riallineamento –
la mutazione del sistema politico innescata da trasformazioni sociali o da una crisi – dividono la storia
americana in una serie di distinte fasi elettorali o, per meglio dire, di diversi “sistemi partitici". L'evoluzione
politica del Sud costituisce un esempio: per più di un secolo la guerra civile aveva fatto dei democratici il
partito del Sud, con i repubblicani dominanti al Nord. Dal 1968 tutto è cambiato, prima a livello
presidenziale, poi sul piano statale e locale. La perdita del Sud come bastione del Partito democratico è
stata uno degli sviluppi più significativi nella moderna politica americana. Il riallineamento si è verificato
quando gli afroamericani hanno fatto registrare progressi nei diritti civili e sono diventati prevalentemente
democratici. Di fronte al sostegno democratico per le politiche antirazziali, molti bianchi del Sud
diventarono repubblicani. Il bipartitismo americano si spiega con l'impiego di sistemi elettorali con una
logica plurality (maggioranza semplice) in collegi uninominali. È un sistema adoperato sia nelle cariche
monocratiche di governo (Presidente, sindaci, governatori) sia per i componenti dell'assemblea legislativa
(a livello federale e nei singoli stati). L'unica differenza è che i componenti dell'assemblea legislativa

50
possono svolgere mandati a tempo indeterminato I primi non possono ricoprire il loro ruolo per di più di
due mandati consecutivi. La logica bipartitica è favorita anche dalla revisione dei collegi elettorali della
camera e dall'aggiornamento della ripartizione dei seggi; operazioni che sono di competenza dei singoli
Stati e che spesso sono oggetto di abusi di discrezionalità per favorire i candidati democratici o repubblicani
(gerrymandering). I partiti minori non hanno mai rappresentato una minaccia per il bipartitismo, pur
avendo in alcuni casi influito indirettamente sugli esiti della competizione. Le elezioni sono regolari; non
importa se il Paese è in guerra o nel pieno di una crisi interna: la Camera viene eletta ogni due anni, un
terzo del Senato ogni due anni e la Presidenza ogni 4 anni. Le elezioni americane sono precedute dalle più
lunghe e costose campagne elettorali di qualsiasi altra democrazia liberale.
La scelta dei candidati avviene attraverso delle elezioni primarie regolate con leggi statali, che possono
essere:
• chiuse, votano solo gli elettori registrati per quel partito (si tratta di un registro pubblico) • aperte,
nessuna registrazione, il voto è aperto a tutti i cittadini
• semi-chiuse, come sopra, ma gli elettori indipendenti (non registrati) possono decidere di
partecipare per un partito
L'evento che domina il calendario elettorale è la corsa per la presidenza che si compone di quattro fasi:
1. La stagione informale precedente alle primarie, detta anche “messa in mostra".
2. La vera e propria stagione delle primarie che inizia da febbraio, prima dalle elezioni con il voto di
New Hampshire e Iowa, e dura fino a giugno che si conclude con le convenzioni nazionali dove
viene nominato il vincitore e candidato alla presidenza per ogni partito,
3. La terza fase è la campagna elettorale testa a testa tra i candidati alla presidenza da settembre fino
al momento delle elezioni (novembre), in questa fase cessano le spese elettorali dei candidati, il
costo delle campagne viene finanziato attraverso fondi pubblici.
4. L'ultima fase è costituita dalle elezioni. Gli elettori non votano direttamente per i candidati in lizza,
scelti indirettamente attraverso un collegio elettorale. Uno degli effetti del collegio consiste nel
fatto che i candidati concentrano attenzione e risorse sugli stati più grandi, trascurando quelli più
piccoli dato che i voti vengono distribuiti tra gli stati in rapporto alla popolazione.
Ogni due anni si rinnovano i membri della Camera dei rappresentanti e un terzo dei membri del Senato.
Come per l'elezione presidenziale, anche i deputati possono essere scelti attraverso le primarie. Le elezioni
legislative non riscuotono un interesse mediatico come per quelle presidenziali, ma i costi sono comunque
alti per le campagne elettorali legislative dal momento che ogni deputato vuole conquistare un seggio. Il
finanziamento della politica è uno dei temi più controversi della vita pubblica. I tentativi di riforma fin qui
esperiti, anche a seguito di scandali, hanno seguito tre strategie: imposizione di limitazioni al denaro
corrisposto, ricevuto e speso; obbligo di pubblicità della fonte e dell'uso del denaro; corresponsione di
sussidi pubblici ai candidati, alle organizzazioni elettorali e ai partiti in lizza per la presidenza. Il Congresso
ha approvato numerosi provvedimenti in materia, ma il problema del soft money resta irrisolto. Si dice soft
perché la legge non richiede la pubblicità di finanziamenti di cui usufruiscono le strutture statali e locali dei
partiti. Accanto al denaro, i media sono uno dei fattori strategici nell'equazione elettorale americana. Le
spese pubblicitarie per tv e radio rappresentano la voce più consistente del bilancio di una campagna
elettorale. Il ruolo sempre più determinante dei media ha creato un nuovo soggetto politico: il media
consultant, un consulente d'immagine che consiglia il proprio cliente su come trarre il massimo vantaggio
dall'uso dei mezzi d'informazione. Secondo una teoria sul voto, gli elettori sanno poco delle posizioni dei
candidati sui singoli problemi. La maggior parte usa la performance come criterio discriminante piuttosto
che le differenze sui singoli temi.

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12.4 Il governo: presidente e presidenza
Il presidente degli Stati Uniti è spesso descritto come la figura politica più influente al mondo. Però, in
confronto ad altre democrazie, il presidente può sembrare spesso menomato. Deve fare i conti con il limite
dei mandati imposto dalla Costituzione e con i limiti imposti dal Congresso. In effetti, il potere della Casa
Bianca coincide con la capacità di persuasione e con la costituzione di coalizioni che sostengano il
presidente dentro e fuori il Congresso. Per evitare che il Presidente diventasse un tiranno, i costituenti
trovarono il modo di controbilanciare esecutivo e legislativo dando rilevanza al Congresso. Fino alla fine
dell’800 il Congresso fu l’elemento dominante e pochi presidenti furono in grado di esercitare la propria
leadership. La situazione cambiò con Roosevelt, il primo a esercitare in pieno i propri poteri piuttosto che
rispondere semplicemente al Congresso. La Costituzione prevede che il Presidente sia cittadino americano
dalla nascita, abbia 35 anni e risieda nel Paese da almeno 14 anni. In realtà, ogni presidente eletto fino al
2008 è stato maschio bianco, ha avuto in prevalenza una lontana origine inglese, tedesca o scandinava, è
venuto dagli stati più popolosi. Il Presidente può: concedere la grazia; stipulare trattati; nominare
ambasciatori e giudici della Corte suprema; porre il veto sulle leggi del Congresso. Ma le dimensioni della
presidenza si sono accresciute, fino a comprendere nuove diverse sfere di responsabilità. Nell’esercizio
delle proprie funzioni, i presidenti dipendono da un gruppo di individui e istituzioni che insieme
rappresentano la presidenza personale; quest’ultima comprende il capo di gabinetto, l’addetto stampa, lo
staff per i rapporti con il Congresso e una serie di consiglieri. Il Presidente è coadiuvato da un consiglio di
gabinetto: il vicepresidente e 15 ministri a capo di diversi compartimenti chiave, tra cui gli esteri e la difesa.
Il presidente nomina i capi dei dicasteri, che devono essere confermati dal Senato. A differenza del sistema
parlamentare, dove il Consiglio dei ministri è un organo di governo, prende decisioni politiche e si riunisce
almeno una volta a settimana, negli Stati Uniti il consiglio di gabinetto è un organo consultivo e di
coordinamento. Il presidente ha la facoltà di nomina e revoca dei membri dei capi dei vari dipartimenti.
Normalmente l’intero consiglio di gabinetto appartiene allo stesso partito del presidente, ma talvolta sono
stati nominati esponenti del partito avversario. Il Presidente si avvale della collaborazione di un
vicepresidente, la cui posizione è considerata fra le meno importanti all’interno dell’esecutivo (il suo ruolo
dipende quasi del tutto dal presidente). La Casa Bianca contribuisce a determinare l'agenda delle due
Camere. La Costituzione inoltre affida al presidente il potere di apporre il veto su leggi del Congresso. Una
volta che le camere abbiano approvato un disegno di legge, il presidente può: firmarlo, promulgando la
legge; apporre il veto e rimandarlo al Congresso con le motivazioni del rifiuto; non fare nulla e lasciarlo
entrare in vigore dopo 10 giorni. Un caso a parte è il pocket veto: si verifica quando il Congresso è
aggiornato sin die, in attesa dell’avvio della nuova legislatura; quando la programmazione dei lavori
prevede una pausa di più di tre giorni all’interno della sessione; quando la sessione scade alla fine dell’anno
solare di attività, a partire dal 3 gennaio. In questi tre casi, entro 10 giorni dalla data in cui il Congresso lo
sottopone alla Casa Bianca, un disegno di legge viene lasciato morire dal presidente semplicemente
ignorando, senza alcun bisogno di firmare o apporre veti. Per superare il veto, la Costituzione richiede che
una maggioranza qualificata dei due terzi confermi il disegno di legge originario in entrambe le camere. Il
Presidente deve occuparsi di politica estera, in stretta collaborazione con il ministro degli Esteri (segretario
di stato). Solo il presidente parla a nome dell’intero paese. Gli avvenimenti più recenti hanno illustrato
l’importanza di una maggioranza in Congresso favorevole al presidente. Nei suoi primi due anni di mandato,
Barack Obama ebbe il sostegno di una maggioranza democratica in entrambi i rami dell’esecutivo. In quel
periodo, furono approvate importanti proposte presidenziali, fra cui spiccano la riforma sanitaria del 2010.
Dalla fine del 2010, quando i democratici persero le elezioni legislative di metà mandato, Obama non riuscì
a far approvare nessun altro punto del suo programma originario. Al contrario, fu obbligato a porre il veto
su alcune proposte dei repubblicani. Fu un caso tipico del cosiddetto “divided government”: quando il
partito del presidente non dispone della maggioranza in una camera o in entrambe. Ticket slipping: dalle

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elezioni del presidente Nixon 1968, gli elettori hanno mostrato una crescente propensione a scegliere
candidati per incarichi diversi indipendentemente dal gruppo di appartenenza e un minore attaccamento a
ciascuno dei partiti maggiori. Il Presidente sceglie e nomina i giudici federali e li sottopone al voto di
conferma del Senato. Fatta eccezione per la Corte Suprema, i cui componenti sono accuratamente
selezionati dalla Casa Bianca, i nomi dei potenziali candidati alle corti di giustizia sono di norma
raccomandati al presidente dai senatori e, talvolta, dai deputati del suo partito. Successivamente alla
formalizzazione della nomina, la Commissione giustizia del Senato tiene audizioni per ciascun nominato
prima di sottoporre l’approvazione finale al giudizio dell’aula. La Costituzione stabilisce che la durata del
mandato dei giudici federali è a vita.

12.5 Il Congresso: dalla supremazia all’equilibrio


Il Congresso è l’istituzione più vicina alla gente, a anche il meno amato fra i poteri dello Stato. Une delle
principali ragioni per questa scarsa fiducia è che il suo lavoro è più visibile. La Costituzione ha dato al
Congresso molti poteri, In pratica, però, i poteri del Congresso si esercitano in 4 settori: formazione delle
leggi; attraverso il potere di sorveglianza, controlla il lavoro della burocrazia federale, assicurando che
esegua fedelmente l’intento originario del Congresso; ha l'ultima parola sul bilancio federale; confermare
tutte le principali nomine presidenziali, fatta eccezione per coloro che lavorano direttamente con il
presidente alla Casa Bianca. Per 150 anni il Congresso fu l'istituzione più forte tanto che pochi Presidenti
sono stati in grado di contrastare il potere del Congresso. Ma con l'aumento del potere presidenziale, è
avvenuto un sostanziale equilibrio fra Congresso e Casa Bianca, ciascuno dei quali ha bisogno dell'altro per
governare. Il Senato è nato per rappresentare gli stati. Dal 1913 i senatori vengono eletti con un'elezione
popolare. In termini di presentazione, esame e approvazione dei disegni di legge, il Senato ha gli stessi
poteri della Camera dei rappresentanti con l'eccezione del suo potere esclusivo di approvazione delle
nomine presidenziali dei membri del consiglio di gabinetto, della Corte suprema, delle corti federali
inferiori, delle principali agenzie governative, degli ambasciatori. Il vicepresidente degli Stati Uniti può
presiedere le sessioni del Senato anche se, di norma, è il senatore anziano del partito di maggioranza
(Senate majority leader), che organizza e mette in calendario le sedute, assegna i disegni di legge alle
commissioni permanenti, coordina la linea politica del suo partito, nomina i membri delle commissioni
speciali e sovrintende al funzionamento del Senato in modo da corrispondere alle attese e agli obiettivi del
suo partito. La Camera dei rappresentanti era stata pensata come camera di rappresentanza popolare. Le
differenze con il Senatori riguardano poteri costituzionali, numero di membri, durata del mandato, diverso
livelli di centralizzazione del potere e leadership, specializzazione, ricambio, importanza dell'anzianità,
procedure. Secondo la Costituzione, tutti i distretti elettorali devono essere ridisegnati ogni 10 anni per
riflettere i cambiamenti nella popolazione. La posizione più importante è quella di “speaker della Camera”,
eletto dai ranghi del partito di maggioranza. All'opposto del ruolo di presidente o speaker nei sistemi
parlamentari, il cui compito consiste nell'assicurare un ordinato sconvolgimento ai dibattiti e il cui ruolo
deve essere super partes, lo speaker della Camera è un dirigente politico investito di una carica istituzionale
dotata di poteri considerevoli. I disegni di legge possono essere presentati indifferentemente in una delle
due camere, con l'eccezione delle leggi tributarie e di spesa, che devono sempre essere presentate, in
prima istanza, alla Camera. Tutti i disegni di legge sono immediatamente assegnati alle commissioni
competenti, quindi il testo della Commissione viene portato in aula per la discussione plenaria, al termine
della quale viene espresso un voto dell'intera assemblea. L'iter prosegue con la trasmissione all'altro ramo
del Congresso, che segue le stesse fasi e cadenze. Se un disegno di legge è approvato nella medesima
versione da entrambe le camere, viene inviato alla Casa Bianca. Se i testi sono stati emendati da una delle
camere, si forma una commissione mista di deputati e senatori il cui compito sarà “riconciliare” i testi
difformi. Una volta raggiunto l'accordo, la versione di compromesso viene rimandata a entrambe le camere

53
per il voto finale. Entro 10 giorni il presidente potrà firmare il disegno di legge e promulgare la legge oppure
potrà apporre il veto. Nonostante lo scarso rilievo dei partiti, i gruppi parlamentari hanno un ruolo molto
rilevante. Le commissioni si occupano della maggior parte del lavoro. Il leader di ciascun partito in
Congresso assegna gli incarichi nelle commissioni secondo anzianità, preferenza del parlamentare,
discrezionalità. L’appartenenza alle commissioni deve poi essere ratificata dall’intero gruppo parlamentare.
Sia i senatori che i deputati prediligono le commissioni che coprono importanti temi pubblici e danno una
certa notorietà, o offrono l’occasione per esercitare il potere reale in Congresso. In larga parte, le
commissioni permanenti sono unità funzionali che corrispondono alle diverse burocrazie dell’esecutivo e
funzionano come “piccoli legislativi”. Dopo la presentazione, i disegni di legge sono assegnati alle
commissioni secondo le materie e le funzioni. La maggior parte non sopravvive all’esame della
commissione. Se non si raggiunge un accordo fra i capi di maggioranza e opposizione, in assemblea plenaria
può determinarsi una discussione senza limiti temporali, nota come filibuster. I senatori contrari a un
disegno di legge possono ricorrere a questa tattica dilatoria per ottenere concessioni degli sponsor della
legge. Il filibuster può essere interrotto con il voto di cloture, una specie di ghigliottina che tronca la
discussione, deliberata con la maggioranza dei tre quinti. Nell’ambito delle sue funzioni di controllo e di
contrappeso della presidenza, il Congresso dispone dello strumento estremo: la rimozione dall’incarico
attraverso il procedimento di messa in stato di accusa previsto dalla Costituzione (impeachment). L’articolo
2 attribuisce al Congresso il potere di rimuovere il presidente, il vicepresidente, i giudici e altre figure ai
vertici delle istituzioni federali attraverso la messa in stato di accusa e la condanna per “tradimento,
concussione o altri reati gravi”.

12.6 Le istituzioni politiche territoriali: dalla doppia sovranità al federalismo cooperativo


Gli Stati Uniti sono una federazione. All’interno degli stati il potere è ulteriormente suddiviso, con organi
elettivi per il governo delle città e delle contee. Le istituzioni federali sono responsabili della maggior parte
delle questioni riguardanti l’economia, la politica estera e la difesa; le amministrazioni statali e locali si
occupano della gestione della maggior parte del welfare, del mantenimento di strade e autostrade, della
disciplina dell’impiego della terra, dell’esecuzione di molte leggi e regolamenti federali, della supervisione
di pubblica sicurezza e istruzione. Il federalismo aiuta ad affrontare le questioni delle dimensioni e della
diversità del paese, però crea anche numerosi problemi. Rallenta il processo decisionale, fa sì che la gente
si concentri su obiettivi e valori ristretti piuttosto che guardare a più ampi interessi nazionali e attenua la
capacità del governo nazionale di ridurre il divario economico e sociale. Al giorno d’oggi, la preminenza del
potere federale sugli stati è fuori discussione. Gli estensori della Costituzione furono molto attenti a
definire i poteri degli stati e del governo nazionale. Erano a favore di un forte governo centrale, ma fecero
degli stati un elemento vitale della macchina del governo. L'articolo 4 affronta la questione di chi dovrebbe
prevalere in un eventuale conflitto di poteri. La risposta dei fondatori stabilisce che sono tre le fonti del
diritto del paese: 1. la Costituzione; 2. le leggi federali, quando sono conformi alla Costituzione; 3. i trattati,
che possono essere sottoscritti solo dal governo nazionale. I giudici furono istruiti a obbedire alla
Costituzione, anche quando la Costituzione o le leggi degli stati la contraddicevano. Il governo nazionale,
però, deve operare all'interno delle aree delimitate dalla Costituzione e non può usurpare i diritti degli stati.
Naturalmente, il fatto che il federalismo investa i rapporti fra il governo nazionale e gli stati non significa
che questi ultimi non possano avere rapporti fra loro. Anzi, è ancora la Costituzione a fissare alcuni obblighi
reciproci, primo fra tutti la full faith and credit clause (la clausola che dà “piena fiducia e credito” al di fuori
del proprio stato di residenza). Una licenza matrimoniale, un divorzio, un patente di guida, un certificato di
nascita sono validi in tutti gli stati. Per quanto riguarda invece la sanzione di comportamenti criminali, va
osservato che gran parte del diritto penale è statale. La Costituzione stabilisce in questo caso che gli stati
restituiscano una persona accusata di un crimine in un altro stato per il processo o la detenzione, con una

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vera e propria estradizione. Infine, esiste una clausola della Costituzione secondo cui ai cittadini di ciascuno
stato è accordata la maggior parte dei privilegi di cui godono i cittadini degli altri stati. Se un texano visita la
California, pagherà la stessa imposta sulle vendite e riceverà la stessa protezione da parte della polizia dei
residenti californiani. Gli Stati Uniti si sono progressivamente allontanati dal sistema della doppia sovranità
per abbracciare l’idea del federalismo cooperativo, in cui gli organi nazionali e quelli statali condividono la
responsabilità della conduzione politica. Il federalismo fiscale è la pietra angolare delle relazioni fra gli
organi nazionali e gli enti territoriali. Le istituzioni subnazionali possono certamente condizionare
Washington con le elezioni per gli incarichi nazionali, ma il governo nazionale ha un potente strumento da
esercitare sugli stati: il denaro.

12.7 I caratteri del “policy making”: governo diviso, pressione dei gruppi e controllo giurisdizionale
Negli Stati Uniti le politiche sono il prodotto di una combinazione di limiti e opportunità. Come in tutte le
democrazie liberali, c’è un sistema politico in cui numerosi e diversi soggetti trasmettono impulsi al
processo decisionale: eletti, elettori, partiti, gruppi di interesse, medie e imprese private. I gruppi di
interesse sono in particolare numerosi e molto attivi. Le attività dei gruppi di interesse sono
particolarmente efficaci nel condizionare il governo del paese. Il lobbismo di base implica il
condizionamento dei politici attraverso la mobilitazione della loro base elettorale, mentre il lobbismo
tradizionale si traduce nel condizionamento esercitato parlando direttamente con eletti e amministratori. Il
ruolo dei tribunali è ugualmente pertinente e cruciale. La Corte Suprema può determinare se le leggi
federali o statali sono conformi alla Costituzione. In caso contrario può annullarle. In America i tribunali
possono anche modificare o correggere le politiche pubbliche, e possono a loro volta stabilire linee
politiche: il che significa che le corti di giustizia possono fissare norme. Le corti fanno politica su questioni
grandi e piccole.
Dalla Seconda guerra mondiale la Corte Suprema ha dedicato un’attenzione particolare alle libertà, ai diritti
civili e all’eguaglianza sociale. Le corti hanno modellato con le loro decisioni le politiche adottate da
esecutivo e legislativo riguardo all’economia, alla libertà, all’eguaglianza e, più recentemente, all’ecologia. I
giudici hanno condizionato la definizione dell’agenda politica.

12.8 Conclusioni: il governo dell’unica superpotenza


Gli Usa sono ormai l'unica superpotenza militare. Non hanno le più grandi forze armate del mondo, ma
hanno il più impotente arsenale. Con la fine della guerra fredda, la politica estera degli USA aveva
cominciato ad allontanarsi dalle questioni difensive e strategiche per concentrarsi sui temi dell'economia e
del commercio. Poi, con l'attentato dell'11 settembre 2001, si sono presentati nuovi problemi e gli USA si
sono ritrovati coinvolti in una nuova epoca di incertezza, in cui le minacce e le opportunità nascono da una
moltitudine di nuove fonti di instabilità. Gli americani e i loro dirigenti politici spesso descrivono il loro
paese come l’emblema della democrazia e il punto di riferimento dei valori di libertà nel mondo intero.
Eppure, il modello americano è pieno di contraddizioni. Si deve tenere conto di alcuni ulteriori problemi:1.
la quota dei votanti e le procedure di registrazione complesse; 2. nella maggior parte degli stati i confini dei
distretti elettorali sono decisi non da commissioni indipendenti ma dal partito politico di maggioranza, che
di norma designa le circoscrizioni in modo da massimizzare la possibilità di elezione dei propri candidati; 3.
il finanziamento pubblico delle elezioni è relativamente esiguo e i candidati devono raccogliere fondi da
fonti private, le cui preferenze influenzano il comportamento degli eletti. In questi primi anni del nuovo
millennio gli USA affrontano un inedito dibattito circa la natura della politica. Devono anche fronteggiare
numerosi bisogni interni (soprattutto la persistenza della povertà e del razzismo) e ridefinire il loro ruolo
nel mondo, minacciato dal terrorismo globale.

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