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CONTEMPORANEA
1 I PROCESSI DELLA RAPPRESENTANZA DEMOCRATICA
Le rivoluzioni liberali dell’Ottocento e la massificazione della politica hanno portato alla
sostituzione della visione verticale della politica per una visione orizzontale.
Se la visione verticale coglie l’elemento di strutturazione gerarchica, cioè l’elemento del
regime, del governo e dello Stato. Con l’ubiquità orizzontale viene a galla la varietà dei processi
politici che non possono più essere ricompresi nell’ambito dello Stato e delle sue istituzioni ma
vanno ricondotti a una complessa serie di relazioni iterative, che tendono a ripetersi, e
di relazioni circolari, che ritornano al punto di partenza (processo sistemico di input-output-
feedback). Questo sistema ha poi anche un’immagine normativa: la centralità che nelle società
democratiche hanno le donne e gli uomini che costituiscono la comunità politica.
Questi legami variegati possono essere riassunti con il termine di rappresentanza politica.
il «coinvolgimento dell’individuo nel sistema politico a vari livelli di attività, dal disinteresse
totale alla titolarità delle cariche politiche»-- Rush
Implicita nella definizione è una vera e propria piramide del coinvolgimento e della
partecipazione politica. La definizione di Rush risulta però troppo ampia e rischia di sovrapporre
il concetto di partecipazione politica con ogni tipo di azione politica. Per questo motivo viene
proposta una nuova definizione:
Molte di queste forme di partecipazione non convenzionale hanno avuto effetti positivi di
sensibilizzazione dell’opinione pubblica su temi rilevanti. Talvolta le proteste sono state
caratterizzate dal ricorso alla violenza. Talvolta, la violenza è l’intento principale delle azioni di
protesta in quanto rende visibili e può essere favorita dalla spettacolarizzazione. Spesso, però, è
semplicemente l’esito imprevisto di azioni politiche le cui intenzioni erano pacifiche.
La violenza politica, nello specifico, consiste nell’uso deliberato per ragioni politiche (perché)
della forza fisica diretta a danneggiare cose o persone.
Mediatizzazione, esiti imprevisti e intenti strategici sono strettamente legati a certe forme di
partecipazione non convenzionale. Inoltre, la violenza può essere il prodotto della
radicalizzazione del conflitto politico.
Nelle democrazie mature il ricorso alla violenza dovrebbe essere episodico. Tuttavia, la sfiducia
dei cittadini nei confronti delle istituzioni rappresentative, e il peggioramento delle condizioni
di vita di ampie fasce sociali, generazionali e territoriali hanno reso la protesta un aspetto
ricorrente nella vita delle democrazie mature.
Accanto alla violenza politica sociale o dal basso (protesta), nelle società si manifesta anche una
violenza istituzionale, dall’alto, esercitata dagli apparati statali contro i dimostranti, si parla
dunque di repressione.
Le forme assunte dalla partecipazione politica in un dato sistema politico dipendono
dall’interdipendenza di tre fattori:
1. Il potenziale di protesta, cioè la propensione degli individui a far ricorso a forme di
partecipazione non convenzionale e la maggiore tolleranza e giustificazione che essa
incontra nelle opinioni pubbliche. Tale potenzialità che è sensibilmente cresciuta dopo il
1968, ma anche di recente dopo la crisi economica del 2008 e ora, forse, a causa della
pandemia;
2. il grado di efficacia, credibilità e legittimazione della partecipazione convenzionale e
dei suoi protagonisti (partiti, sindacati, assemblee rappresentative, classe politica
elettiva);
3. il potenziale di repressione presente in un dato sistema politico, la sua tolleranza in
ampi segmenti dell’opinione pubblica, la cultura politica delle forze dell’ordine, i margini
di controllo democratico degli apparati speciali di repressione e dei servizi segreti.
La partecipazione politica appare però come un miracolo. I benefici che le persone ricavano
dall’azione diretta sembrano di gran lunga inferiori ai costi sopportati in termini di energie,
tempo, risorse impegnate e, talvolta, nei regimi autoritari, anche di rischio che la
partecipazione porta con sé.
In genere, ci si riferisce a tale squilibrio tra benefici e costi della partecipazione come
al dilemma di Hirschman.
Per Hirschman, invece, quando le persone si impegnano lo fanno perché considerano gli sforzi
sostenuti non come costi, ma, piuttosto, come parte dei benefici.
I costi vengono considerati come guadagni in quanto prendere parte alle sue attività si ricavano
non solo dei benefici estrinseci (strumentali), vale a dire associati agli esiti ottenuti dalle
attività di influenza, ma anche, e forse soprattutto, dei benefici intrinseci riconducibili alla
dimensione espressiva o simbolica della partecipazione ( semplice appartenenza, costruzione
reale o immaginaria di un nemico dal quale difendersi, agli obiettivi che si condividono e si
intendono perseguire, al sistema ideologico).
In realtà, la valutazione della legge e dell’ipotesi di Duverger, fino alla critica di Sartori,
richiede un passaggio ulteriore. In particolare, occorre distinguere tra effetti meccanici o
«effetti diretti» del sistema elettorale, prodotti dalla semplice applicazione delle regole di
trasformazione dei voti in seggi, ed effetti psicologici o «effetti indiretti», che Cox [1997]
definisce come effetti di «coordinamento strategico» degli elettori e dei candidati (si veda
anche Duverger [1951]). Cioè, proprio per evitare o attutire gli effetti diretti, ad esempio il
superamento di una certa soglia legale o di sbarramento (per cui vincono seggi solo i partiti che
superano una certa percentuale di voti, per es. 3 o 5%), gli elettori sono indotti a ricorrere
al voto strategico, cioè scelgono non il partito al quale si sentono più affini (e per il quale
esprimerebbero un voto sincero) e che, se piccolo, correrebbe il rischio di non avere successo,
ma il partito più prossimo alle loro preferenze originarie che magari ha più realistiche possibilità
di vittoria. Un’alternativa al voto strategico è l’astensionismo strategico: se il mio partito non ha
possibilità di vincere tanto vale che non mi rechi alle urne, favorendo in questo modo
l’avversario.
In questo modo, però, ci siamo spostati su un altro livello di analisi relativo alle modalità che
può assumere la scelta elettorale (o tipi di voto). Se per un attimo prendiamo in prestito il
linguaggio dell’economia potremmo dire che il mercato elettorale, come ogni mercato,
funziona sulla base dell’incontro tra l’offerta politica e la domanda elettorale, con la
mediazione delle regole del gioco. Ora, queste ultime sono i sistemi elettorali, tanto nella loro
definizione stretta che ampia (▲); l’offerta politica è costituita dal coordinamento strategico
fatto da partiti, leader e candidati, ma anche dalla qualità della classe politica, delle candidate
e dei candidati, che si presentano agli elettori; la domanda elettorale, infine, attiene ai modelli
di scelta e di mobilitazione degli elettori (come nel caso del voto sincero vs voto utile o
strategico). Tuttavia, prima di soffermarci sui modelli di scelta elettorale e sulla loro stabilità
nel tempo, occorre considerare un aspetto propedeutico che attiene all’ingresso degli elettori e
delle elettrici nel mercato elettorale, ovvero alla decisione se recarsi o meno alle urne il giorno
delle elezioni. Quando l’opzione è per il non voto ci troviamo davanti al fenomeno
dell’astensionismo. Tale fenomeno è cresciuto sensibilmente in tutte le democrazie
specialmente a partire dalla fine degli anni Settanta nella sua dimensione volontaria, cioè di
scelta intenzionale, che ormai arriva a coinvolgere nelle elezioni politiche in diversi paesi
europei oltre il 30% degli elettori, mentre in altri (si pensi agli Stati Uniti, alla Svizzera o ai paesi
dell’Europa dell’Est) anche il 50% degli elettori e oltre. Il quadro del cosiddetto voto
inespresso si fa ancora più saliente se alla non partecipazione al voto si aggiungono anche le
schede bianche e i voti nulli.
Relativamente a coloro che sono entrati nel mercato elettorale come, appunto, elettori,
acquista rilevanza la distinzione tra elettorato fluido o volatile, cioè incline a cambiare scelta
tra un’elezione e l’altra, ed elettorato identificato, le cui preferenze sono stabili nel tempo
fino al punto di trasmettersi da padri a figli.
Guardando alle motivazioni che legano le elettrici e gli elettori ai partiti e ai loro leader (Parisi,
Pasquino), con riferimento al caso italiano, si distingue tra il «voto di appartenenza», il «voto di
scambio» e il «voto di opinione»
Il voto di appartenenza si presenta come stabile nel tempo, gli elettori non sono
disponibili a cambiare le proprie preferenze, testimonia una fede politica,
un’appartenenza
Il voto di scambio rappresenta una scelta basata sugli interessi più o meno
immediati degli elettori e dei gruppi, lo possiamo quindi definire razionale in un
certo senso. Questo tipo di voto tende a rivolgersi ai partiti e i candidati che
controllano il governo e, quindi, in grado di alimentare tali aspettative di do ut
des, di «sostegno specifico». Il clientelismo è un’espressione tipica del voto di
scambio. Anche lo scambio politico tra partiti al governo e interessi di gruppi
economici potrebbe rientrare in questo tipo di voto
il voto di opinione è fortemente influenzato dai temi salienti al centro
dell’agenda politica e pubblica, dei programmi di partito, e dalla situazione
contingente che può rendere saliente un problema di policy. Negli ultimi tempi il
voto di opinione sarebbe sempre più condizionato anche dall’immagine dei
leader, tuttavia in questo caso si potrebbe considerare che la componente
emotiva o affettiva, per citare Max Weber, della scelta prevale nei confronti di
argomentazioni di tipo razionale rispetto allo scopo.
Nello scambio di comunicazione con gli altri non trasmettiamo solo informazioni e messaggi, ma
definiamo e ridefiniamo continuamente le stesse relazioni in termini di potere, cioè di capacità
di influenza. Dal punto di vista delle élite, governare una società comporta un costante ricorso
alla comunicazione per informare i cittadini, per consentire la trasmissione e l’applicazione
delle decisioni vincolanti, così come, la trasparenza delle istituzioni e la capacità di risposta dei
governi.
La comunicazione politica si pone l’obiettivo di persuadere i cittadini per conseguire fini di parte
(propaganda).
Un’ulteriore precisazione deriva dai soggetti coinvolti nel processo comunicativo (emittenti e
destinatari dei messaggi) e dal sistema di interdipendenze che ne consegue. Da questo punto di
vista, la comunicazione politica si risolve nell’insieme di scambi (informazioni e comandi) o
interazioni che si realizzano nel triangolo costituito dagli attori politici, dai mass media e
dal pubblico dei cittadini . In generale, tutti e tre gli attori
sono coinvolti, anche se non necessariamente allo stesso tempo
e con la stessa intensità, in ogni attività comunicativa.
In questo senso, si parla di mediatizzazione della politica, il che rinvia alla centralità dei mass
media e dei professionisti dell’informazioni alla luce di due parametri:
1. il parametro sistemico che si costituisce di quattro dimensioni:
- la struttura proprietaria del sistema dei media; ovvero il grado di controllo dei
mass media
- il grado di partisanship dei mass media è tanto maggiore quanto più i media sono
di proprietà delle forze politiche e dei loro leader o dei governi (parallelismo
politico)
- il grado di integrazione delle élite politico-mediali: tra i due gruppi c’è
separatezza o simbiosi dei processi di formazione, carriera e reclutamento
- il grado in cui la professione di giornalista è percepita come indipendente da
pressioni e viene riconosciuta la sua funzione sociale che in democrazia si risolve
principalmente nell’advocacy, promozione e difesa di diritti, e nel watchdog,
controllo dei potenti.
2. Il parametro massmediale, che si riferisce alla cultura professionale. Prevede
un continuum che a un polo vede l’orientamento pragmatico, «in questo caso,
i newsmedia sono portati a dare copertura informativa a quegli aspetti ed elementi della
vita politica che essi ritengono corrispondere innanzitutto alla domanda del loro
pubblico». Al polo opposto troviamo invece l’orientamento sacerdotale o partigiano
tipico di «un giornalismo sensibile alle esigenze del sistema politico, pronto a officiare il
rito dell’informazione al servizio di parte.
Oltre che alla ricostruzione delle modalità di relazione tra politica e media i principali filoni di
ricerca nel campo della comunicazione politica si possono ricondurre ai seguenti ambiti:
il processo di comunicazione, le tendenze strutturali e la costruzione e diffusione delle notizie.
Farrell e Webb [2000] hanno parlato dell’esistenza di tre mondi o fasi della comunicazione
politica che caratterizzerebbero le democrazie occidentali. Più esattamente, la prima fase è
quella «premoderna», che coincide con l’egemonia dei partiti di massa, alla quale hanno fatto
seguito quella della «rivoluzione televisiva» e quella della «rivoluzione delle telecomunicazioni»,
entrambe contraddistinte dalla crisi della democrazia dei partiti e dall’avvento della
«democrazia del pubblico”.
Pippa Norris [2000] ha parlato di “campagne” premoderne, moderne e postmoderne, mentre
Blumer e Kavanagh [1999] rivendicano l’esistenza di 3 età della comunicazione politica. La prima
è contraddistinta dal dominio delle partiti di massa e dall’influenza indiretta del sistema dei
media, le due più recenti sono caratterizzate dalla mediatizzazione della politica. Tali sviluppo
riguardano una serie di caratteristiche strutturali e processuali della politica:
1. Importanza del marketing politico, volto a valorizzare le potenzialità del candidato
rispetto a un certo mercato di elettori, e della sua evoluzione nelle campagne
comunicative negative, in cui si cerca di demolire la credibilità degli avversari e si ricorre
a messaggi che sollecitano reazione emotive del pubblico
2. Tendenza alla personalizzazione della politica, che può assumere 2 forme distinte:
- la leaderizzazione dei vertici dei partiti; la centralità data nelle campagne
elettorali all’immagine dei candidati e dei leader amplificate dai media
- la presidenzializzazione dei sistemi di governo con l’acquisita rilevanza dei vertici
degli esecutivi
Infine, con l’avvento del XXI secolo si registra una tendenza strutturale all’egemonia dei nuovi
media, della media logic. La comunicazione digitale favorisce flussi e scambi in rete non mediati
(o apparentemente tali), i cui aspetti cruciali sarebbero: l’ubiquità e l’accesso diffuso alla Ict
(Information and Communication Technology) anche a rischio della polverizzazione dei pubblici.
Anche in queste trasformazioni c’è, però, un rischio: il fatto che la proliferazione e la
diversificazione dei canali mediali alimentino la frammentazione dei pubblici, con il conseguente
aumento della competitività tra politici e partiti e della volatilità degli elettorati.
Vi sono modi virtuosi e meno virtuosi di stabilire la propria credibilità ma, a meno che non
intrattenga rapporti diretti con il proprio elettorato, il candidato dovrà far ricorso ad altre
tecniche per accertare la consistenza del proprio seguito. Sarà pertanto tentato di consultare
frequentemente i sondaggi di opinione sia per scoprire le preferenze e le domande degli
elettori, sia per monitorare il proprio gradimento. Ecco che i sondaggisti e gli esperti
d’immagine e di comunicazione (spin doctors) diventano figure imprescindibili per costruire il
nuovo rapporto di «rappresentanza».
In tempi ancora più recenti la centralità dei mass media e dei social media nel coltivare un
seguito personale, insomma la mediaticità del candidato, diventa più importante della sua
preparazione politica o della sua dedizione all’elettorato. Nello stesso tempo, così come diventa
apparentemente più semplice acquistare un seguito personale, è anche più facile perderlo a
causa di scandali, campagne negative e passi falsi di qualsiasi tipo.
La politica diventa professione: ogni velleità di dilettantismo svanisce e l’imprenditore politico
deve saper ben dosare le proprie forze e le proprie finanze per garantirsi una carriera lunga e
variegata, spesso passando da ruoli rappresentativi a ruoli di gestione oppure rinverdendo la
propria carriera elettorale a diversi livelli di governo.
Secondo Manin nasce un nuovo modello di democrazia: audience democracy (democrazia del
pubblico), una democrazia per lo più reattiva: il rapporto di rappresentanza si completa in
seguito a una serie di «tentativi ed errori». La domanda politica si rivela quindi ex post, come
reazione all’offerta politica. La conclusione di Manin è che il governo rappresentativo rimane ciò
che è stato dall’inizio, cioè un governo di élite distinte dalla massa dei cittadini dalla loro
posizione sociale, stile di vita e istruzione.