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CIRCUITI DELLA POLITICA

CONTEMPORANEA
1 I PROCESSI DELLA RAPPRESENTANZA DEMOCRATICA
Le rivoluzioni liberali dell’Ottocento e la massificazione della politica hanno portato alla
sostituzione della visione verticale della politica per una visione orizzontale.
Se la visione verticale coglie l’elemento di strutturazione gerarchica, cioè l’elemento del
regime, del governo e dello Stato. Con l’ubiquità orizzontale viene a galla la varietà dei processi
politici che non possono più essere ricompresi nell’ambito dello Stato e delle sue istituzioni ma
vanno ricondotti a una complessa serie di relazioni iterative, che tendono a ripetersi, e
di relazioni circolari, che ritornano al punto di partenza (processo sistemico di input-output-
feedback). Questo sistema ha poi anche un’immagine normativa: la centralità che nelle società
democratiche hanno le donne e gli uomini che costituiscono la comunità politica.
Questi legami variegati possono essere riassunti con il termine di rappresentanza politica.

Rappresentanza politica: rapporto che lega assieme cittadini e «autorità», attraverso


un continuo flusso di comunicazioni, atteggiamenti e comportamenti diretti a trasmettere
le domande dei cittadini e a influenzare le risposte dei governanti.

Il rapporto di rappresentanza ha avuto due principali configurazioni storiche:


1. Il governo rappresentativo: è quel tipo di governo parlamentare che basa la propria
legittimità sul fatto di riflettere, nella sua composizione e nelle sue scelte di policy, le
indicazioni dell'elettorato. Per intenderci un governo tecnico, formatosi in tempi di crisi
per risolvere problemi politici, non è un governo rappresentativo;
2. La democrazia rappresentativa è un concetto più ampio, perché indica un modello di
democrazia che si differenzia da altri per il fatto di basare la sua legittimità sul rapporto
di rappresentanza che si esprime soprattutto nel momento elettorale. La democrazia
rappresentativa comprende una pluralità di meccanismi che assicurano che le decisioni
politiche vengano prese in modo da conformarsi alla volontà dei cittadini
I canali di influenza tramite cui i cittadini possono influenzare le decisioni politiche sono
individuati da Rokkan, e sono:
1. Il canale elettorale-territoriale: tipico delle competizione elettorale tra partiti
2. Il canale corporativo-funzionale: dove prevalgono i gruppi di interesse e altri attori
economici
Tra i due canali si hanno inevitabili connessioni; tant’è che Rokkan nel suo saggio “i voti contano
ma le risorse decidono” per indicare che lo squilibrio tra i due canali in un sistema capitalistico a
favore dell’economia. Oltre a questi due canali Rokkan aveva individuato un terzo “canale
tradizionale” dove prevalevano i legami clientelari o di tipo locale e un sistema di mezzi di
comunicazione di massa. Nello specifico si individuano quattro circuiti di rappresentanza
democratica: partecipativo, elettorale, della democrazia diretta, dei media.
2 LA PARTECIPAZIONE TRA LEGITTIMAZIONE E PROTESTA
La partecipazione politica è un sottoinsieme per quanto rilevante della più ampia partecipazione
sociale, cioè dell’insieme delle attività e delle relazioni che gli individui svolgono nei diversi
ambiti sociali, prodotto del processo di differenziazione sociale, dove sono inseriti.
Per quanto riguarda la vita politica la partecipazione è definita come:

il «coinvolgimento dell’individuo nel sistema politico a vari livelli di attività, dal disinteresse
totale alla titolarità delle cariche politiche»-- Rush

Implicita nella definizione è una vera e propria piramide del coinvolgimento e della
partecipazione politica. La definizione di Rush risulta però troppo ampia e rischia di sovrapporre
il concetto di partecipazione politica con ogni tipo di azione politica. Per questo motivo viene
proposta una nuova definizione:

partecipazione politica quando, nell’ambito di un certo contesto (Stato, collettività o


associazione) del quale si fa parte (dove), donne e uomini, singolarmente o in gruppo (chi),
fanno uso di un certo repertorio di azioni, convenzionale o non convenzionale, legale o
illegale, pacifico o violento (come), per cercare di influenzare la selezione e le decisioni di
chi ricopre le cariche pubbliche siano esse rappresentative e ancor di più di governo (che
cosa), al fine di modificare o conservare il sistema di interessi e di valori dominante
(perché).
Altre proposte analitiche hanno messo in risalto la distinzione tra «convenzionale» e «non
convenzionale», «formale» e «informale», cioè il come ma anche il dove si partecipa –
nella piazza o nelle urne – tra i due aspetti c’è ovviamente una significativa correlazione.
Quanto più la partecipazione avviene in contesti non istituzionali, tanto più facile è che
queste azioni siano di protesta, cioè volte a perturbare il sistema politico

2.1 PARTECIPAZIONE CONVENZIONALE E NON CONVENZIONALE


 Partecipazione convenzionale: andare a votare, iscriversi a un partito, assistere a un
comizio, informarsi leggendo un giornale e magari discuterne con gli amici; oppure
Scrivere ai propri rappresentati o ad un giornale; partecipare ad un raduno organizzato
dal proprio partito
 Partecipazione non convenzionale: protestare, occupare un edificio, boicottare certi
prodotti, praticare il net-attivismo. In generale è definita partecipazione non
convenzionale Quando una forma di partecipazione disturba l'ordine pubblico fino alle
forme di violenza
La protesta politica presuppone che si abbia a che fare con attività svolte da chi non ricopre
ruoli istituzionali, che tali azioni siano dirette a contestare certe decisioni o politiche pubbliche,
a chiederne la modifica o la soppressione, oppure magari a sostenere un certo intervento.
La partecipazione non convenzionale inoltre varia nelle modalità in cui viene espressa:
eterodosse, perturbative, plateali, spesso anche violente.
Le società occidentali, dal momento della loro modernizzazione, sono state attraversate con una
certa regolarità da ondate di protesta. Alcune hanno dato il via a rivoluzioni, altre hanno
prodotto innovazioni significative e spinto verso la realizzazione di sistemi politici più liberi e
inclusivi. Tale «potenziale di protesta» sarebbe stato accumulato e attivato da grandi
trasformazioni economiche e tecnologiche, da guerre, da profondi cambiamenti culturali. In
tempi più recenti lo scoppio delle guerre nel Golfo persico a partire dai primi anni Novanta e,
soprattutto, la Grande Recessione del 2008 hanno favorito la comparsa e la diffusione di azioni
dirette e non convenzionali un po’ in tutte le democrazie.

Molte di queste forme di partecipazione non convenzionale hanno avuto effetti positivi di
sensibilizzazione dell’opinione pubblica su temi rilevanti. Talvolta le proteste sono state
caratterizzate dal ricorso alla violenza. Talvolta, la violenza è l’intento principale delle azioni di
protesta in quanto rende visibili e può essere favorita dalla spettacolarizzazione. Spesso, però, è
semplicemente l’esito imprevisto di azioni politiche le cui intenzioni erano pacifiche.
La violenza politica, nello specifico, consiste nell’uso deliberato per ragioni politiche (perché)
della forza fisica diretta a danneggiare cose o persone.

Mediatizzazione, esiti imprevisti e intenti strategici sono strettamente legati a certe forme di
partecipazione non convenzionale. Inoltre, la violenza può essere il prodotto della
radicalizzazione del conflitto politico.
Nelle democrazie mature il ricorso alla violenza dovrebbe essere episodico. Tuttavia, la sfiducia
dei cittadini nei confronti delle istituzioni rappresentative, e il peggioramento delle condizioni
di vita di ampie fasce sociali, generazionali e territoriali hanno reso la protesta un aspetto
ricorrente nella vita delle democrazie mature.
Accanto alla violenza politica sociale o dal basso (protesta), nelle società si manifesta anche una
violenza istituzionale, dall’alto, esercitata dagli apparati statali contro i dimostranti, si parla
dunque di repressione.
Le forme assunte dalla partecipazione politica in un dato sistema politico dipendono
dall’interdipendenza di tre fattori:
1. Il potenziale di protesta, cioè la propensione degli individui a far ricorso a forme di
partecipazione non convenzionale e la maggiore tolleranza e giustificazione che essa
incontra nelle opinioni pubbliche. Tale potenzialità che è sensibilmente cresciuta dopo il
1968, ma anche di recente dopo la crisi economica del 2008 e ora, forse, a causa della
pandemia;
2. il grado di efficacia, credibilità e legittimazione della partecipazione convenzionale  e
dei suoi protagonisti (partiti, sindacati, assemblee rappresentative, classe politica
elettiva);
3. il potenziale di repressione presente in un dato sistema politico, la sua tolleranza in
ampi segmenti dell’opinione pubblica, la cultura politica delle forze dell’ordine, i margini
di controllo democratico degli apparati speciali di repressione e dei servizi segreti.
La partecipazione politica appare però come un miracolo. I benefici che le persone ricavano
dall’azione diretta sembrano di gran lunga inferiori ai costi sopportati in termini di energie,
tempo, risorse impegnate e, talvolta, nei regimi autoritari, anche di rischio che la
partecipazione porta con sé.
In genere, ci si riferisce a tale squilibrio tra benefici e costi della partecipazione come
al dilemma di Hirschman.
Per Hirschman, invece, quando le persone si impegnano lo fanno perché considerano gli sforzi
sostenuti non come costi, ma, piuttosto, come parte dei benefici.
I costi vengono considerati come guadagni in quanto prendere parte alle sue attività si ricavano
non solo dei benefici estrinseci (strumentali), vale a dire associati agli esiti ottenuti dalle
attività di influenza, ma anche, e forse soprattutto, dei benefici intrinseci riconducibili alla
dimensione espressiva o simbolica della partecipazione ( semplice appartenenza, costruzione
reale o immaginaria di un nemico dal quale difendersi, agli obiettivi che si condividono e si
intendono perseguire, al sistema ideologico).

2.2 SPIEGARE LA NON PARTECIPAZIONE


La non partecipazione si ricollega principalmente a tre ragioni: a) non possono (livello macro), a
causa di fattori strutturali che impediscono o ostacolano la partecipazione; b) non
vogliono (livello micro), in conseguenza degli atteggiamenti e orientamenti individuali che
spingono o meno alla partecipazione; c) infine, nessuno glielo chiede (livello meso), a causa dei
fattori organizzativi o associativi che supportano la partecipazione.
o Non possono. Ha a che fare con la capacità dei cittadini e la quantità e qualità
di risorse – tempo, denaro, competenze, informazioni – disponibili. Si tratta di fattori
e vincoli non soltanto contingenti, ma anche di contesto che derivano dal sistema
delle disuguaglianze sociali e politiche degli individui e dei gruppi. Si pensi, ad
esempio, a variabili socioeconomiche quali la distribuzione della ricchezza o il grado
di sviluppo economico, il livello di istruzione e l’esposizione ai fattori della
modernizzazione sociale… È facile riscontrare come in presenza di condizioni sociali
deprivate si possa assistere a processi di spoliticizzazione e di alienazione degli
individui e dei gruppi. Proprio a tali aspetti si riferisce la teoria dello status
socioeconomico (o modello SSE), per cui chi ricopre una posizione socioeconomica
più elevata o centrale – principalmente in termini di reddito e di istruzione, ma anche
per tipo di occupazione (manuale o direttiva), tempo libero e appartenenza ai settori
linguistici, religiosi ed etnici dominanti è maggiormente interessato alla politica e,
pertanto, partecipa di più.
Altri vincoli strutturali alla partecipazione politica hanno, invece, carattere
istituzionale e riguardano l’esistenza di una «struttura delle opportunità» più o meno
chiusa (o repressiva) o aperta (pluralista). Il fenomeno probabilmente più semplice da
considerare riguarda l’affluenza alle urne nei paesi democratici. Anche in questo caso
è possibile individuare svariati dispositivi istituzionali e regole che condizionano la
propensione a recarsi al voto. Innanzitutto, anche nelle democrazie mature si
pongono ancora problemi di inclusione, cioè di riconoscimento della cittadinanza
politica. Altre materie politicamente rilevanti sono quella del diritto di voto per gli
immigrati residenti o nati nei paesi ospiti, strettamente collegata ai criteri di
riconoscimento della cittadinanza (sulla base della nascita o della discendenza
biologica), e quella della pur modesta «tassa» imposta da alcune democrazie (ad es.,
gli Stati Uniti) per registrarsi come elettori.
o Non vogliono. La seconda risposta rimanda alle motivazioni, cioè al coinvolgimento
psicologico, al grado di interesse e di informazione dei partecipanti. Si parla di
“efficacia politica”, ovvero gli individui hanno la sensazione che la loro
partecipazione possa avere un impatto sul processo politico e, quindi, valga la pena di
compierla. Con riferimento a questi svariati aspetti psicologici, si è parlato di
«partecipazione invisibile» o partecipazione latente. La costellazione di
orientamenti soggettivi e atteggiamenti che le donne e gli uomini hanno nei confronti
di specifici oggetti politici è ciò che Almond e Powell chiamano cultura politica.
o Nessuno glielo chiede. In sostanza, la partecipazione è anche, se non soprattutto, il
riflesso del coinvolgimento degli individui in networks di reclutamento e associativi
verso i quali vengono sollecitate, mediate, attivate le richieste di partecipazione.
- In queste reti si produce e si capitalizzano le competenze civili (civil skills);
ovvero quelle capacità organizzative e comunicative che sono essenziali per
prenderne parte attivamente
- Queste competenze possono essere acquisite nelle istituzioni sociali secondarie e
prepolitiche
Questi elementi sono alla base del cosiddetto modello del volontariato civico, per
cui a fondamento della partecipazione troviamo la vecchia concezione
di Tocqueville delle associazioni e delle istituzioni della società civile come scuola di
democrazia. La partecipazione sarebbe, così, il prodotto di attività quali l’educazione
e la socializzazione, l’organizzazione e la mobilitazione, il coinvolgimento in azioni
dimostrative oppure in campagne, ecc… tra partecipazione sociale e partecipazione
politica ci fosse un effetto di propagazione: partecipando si impara a partecipare.
Se negli ultimi decenni la partecipazione convenzionale è calata e la disaffezione alla politica è
aumentata, sono però emerse altre forme di partecipazione che è forse difficile classificare
come «immediatamente politiche», ma che, ciononostante, fanno bene alla democrazia.
In America Tocqueville ha la possibilità di rilevare il diffuso associazionismo e la partecipazione
dei cittadini alle decisioni pubbliche, soprattutto a livello locale, anche con modalità negative e
reattive.

3 ELEZIONI, SISTEMI ELETTORALI E SCELTE DEI CITTADINI


i circuiti della rappresentanza funzionano certo perché gli attori, individuali e collettivi, hanno
atteggiamenti (cultura politica) e si impegnano in corsi di azione (strategie) congruenti con le
finalità della rappresentanza. Funzionano soprattutto perché sono circuiti e processi
istituzionalizzati, stabili nel tempo, che hanno valore in sé e, quindi, sono accettati
(legittimati). Sono sistemi di regole e norme, apparati serventi e sistemi di valori. La
rappresentanza è soprattutto un problema di istituzioni. Istituzioni, procedure e regole sono le
infrastrutture della canalizzazione( riprendendo il linguaggio di Rokkan e dei canali di influenza
e trasmissione delle domande), Almond e Powell direbbero della conversione delle domande in
risposte.

3.1 SCEGLIERE TRAMITE ELEZIONI


Le elezioni sono quindi dei procedimenti selettivi, uno dei tanti modi per far sì che qualcuno
ricopra una certa carica. Insomma, il processo e l’insieme delle regole (regime) attraverso cui
una comunità politica si dota delle autorità dalle quali dipenderà la produzione delle decisioni
vincolanti.
Altri criteri di reclutamento o di selezione delle autorità sono:
1. l’eredità, si vedano le storie delle monarchie
2. la cooptazione: è un capo dello stato che da incarica a membri della propria cerchia di
amici-parenti. Oggi incontra favore crescente il riferimento alle competenze come
criterio selettivo, sistema sovente definito meritocrazia
3. ricorso alla forza, come in un colpo di Stato
4. sorteggio: estrazione a sorte
5. nomina, quando un’istituzione di livello superiore designa qualcuno a ricoprire un certo
ruolo
Oggi tali modalità di reclutamento delle autorità politiche non sono centrali nelle nostre società,
appunto, democratiche.
Sistema elettorale, cioè una serie di leggi e di regole di partito che disciplinano la
competizione elettorale tra e all’interno dei partiti.

Dalla definizione possiamo intuire che:


a) sono i sistemi elettorali a fissare le regole che definiscono i vincoli e le opportunità per
gli elettori, partiti, candidati, leader;
b) tali regole possono essere sia poste dalla legislazione, nazionale o regionale, ma anche
dai regolamenti interni ai partiti stessi
Da un punto di vista tecnico, regole e meccanismi elettorali consentono la traduzione o
conversione dei voti (le preferenze degli elettori) in seggi (cariche pubbliche); questi sono
aspetti che fanno riferimento alla formula politica.
Douglas Rae propone una distinzione tra:

 election law, cioè «legislazione sulle elezioni» (elettorato attivo e passivo, procedimento


elettorale, campagna elettorale, finanziamento ai partiti: sistema elettorale in senso
lato)
  electoral law, cioè «legge elettorale» (formula elettorale, ampiezza della
circoscrizione, soglie di sbarramento, premio in seggi, tipo di scheda, ecc.: sistema
elettorale in senso stretto).

3.2 SISTEMI MAGGIORITARI, PROPORZIONALI E MISTI


La distinzione classica è quella che, prendendo spunto dalla formula elettorale adottata,
distingue tra sistemi elettorali «maggioritari», «proporzionali» e «misti».
1. Sistemi maggioritari. non parliamo di circoscrizioni ma di collegi, essi possono esse
uninominale o plurinominali, in base a quanti candidati si propone; uninominale= un solo
candidato; plurinominale=in un collegio possono essere assegnati più seggi ( come in
quello australiano). In questi sistemi vale la regola elementare che il partito più forte nel
singolo collegio vince il seggio in palio. I sistemi maggioritari si possono distinguere sulla
base della regola che utilizzano per definire la maggioranza vincente.
 numero di voti più alto senza altri requisiti, possiamo parlare di sistemi «a
maggioranza relativa», definito di plurality. Il candidato che ottiene anche un
solo voto in più degli altri è eletto immediatamente (first past the post). Non è
sempre detto però che a vincere il seggio sia un candidato rappresentativo,
questo dipende anche dai gradi di astensionismo del collegio e dai candidati
concorrenti.
 il sistema majority stabilisce che per ottenere il seggio in palio occorre
conseguire la maggioranza assoluta dei voti (50% + 1). Possiamo stare certi che
con questa regola non si avranno candidati poco rappresentativi, poiché almeno la
metà più uno degli elettori iscritti nel collegio avrà votato per il vincente
cosa succederebbe nel caso in cui dopo che gli elettori hanno votato e nessuno dei
candidati raggiunge la soglia richiesta della maggioranza assoluta? Nel tempo sono state
date due soluzioni:
1. gli elettori vengono chiamati a votare nuovamente (dopo una o due settimane), e
questa volta per vincere il seggio basta la maggioranza relativa. Per tale ragione si
parla di sistema a doppio turno. Al secondo turno verranno ridotti il numero di
candidati che l’elettore può votare (i primi tre o quattro più votati, solo quando sono
i primi due si parla di ballottaggio). Per contro si può anche decidere di fissare
una soglia percentuale di voti per passare al secondo turno. Più il filtro per accedere
al secondo turno è selettivo (pochi candidati o alte soglie di voti) più lo scrutinio a
doppio turno ha un impatto costrittivo sulla competizione e produce effetti
disrappresentativi.
2. Quella più complessa chiede all’elettore, invece di ritornare a votare dopo qualche
settimana, di esprimere un voto ordinale, ovvero di graduare (ordinare) per
preferenza tutti i candidati presenti nel collegio. si parla di sistema del voto
alternativo vigente, ad esempio, in Australia. Se nessuno ottiene la maggioranza
assoluta delle prime preferenze, il candidato meno votato (con le prime preferenze)
viene eliminato e si procede a distribuire tra i candidati «sopravvissuti» i suoi voti
sulla base delle seconde preferenze indicate nella scheda.

2. Sistemi proporzionali. I seggi in palio nelle circoscrizioni (plurinominali) sono suddivisi


tra i partiti in proporzione alle quote di voti ottenute. Nella situazione di maggiore
equità il rapporto tra voti e seggi è pari a uno (1 voto= 1 seggio). i sistemi proporzionali
variano molto tra loro e si possono distinguere in base al grado di disproporzionalità
introdotto dai diversi meccanismi che li caratterizzano. Alla distorsione della
proporzionalità può dipendere da: formula elettorale, ampiezza della circoscrizione,
soglie legali, premi in seggi, ampiezza dell’assemblea da eleggere. Si può arrivare alla
situazione di un sistema elettorale nominalmente proporzionale che di fatto produce
effetti maggioritari e, talvolta, ancora più disrappresentativi dei sistemi maggioritari
Da quanto detto fin qui si ricava che esistono sistemi elettorali proiettivi, che favoriscono la
rappresentatività (quanto più si approssimano alla proporzionale pura), e sistemi elettorali
selettivi, che agevolano la governabilità (quelli maggioritari in entrambe le
varianti, plurality e majority, e i proporzionali corretti da meccanismi disproporzionali).
3. Sistemi elettorali misti. Sistemi che vorrebbero in qualche modo contemperare le
esigenze della rappresentanza e quelle della governabilità/stabilità. Ecco perché vengono
istituite regole elettorali ibride: una parte dei seggi è attribuita con regole maggioritarie,
l’altra con lo scrutinio proporzionale.
- sistemi misti indipendenti o «sistemi paralleli», in cui i due tipi di regole
(maggioritarie e proporzionali) coesistono in autonomia e non interferiscono, o il
loro utilizzo avviene a livelli elettorali diversi
- sistemi misti dipendenti, la distribuzione dei seggi a un livello (ad es.,
proporzionale) dipende da quanto accade nell’altro livello (maggioritario);

3.3 EFFETTI VERI E PRESUNTI DEI SISTEMI ELETTORALI


(Domenico Fisichella) l’individuazione dei sistemi elettorali rilevante per le conseguenze che
essi hanno:
a) sulla manipolazione delle scelte dell’elettore, è più o meno libero nell’atto di esprimere
la propria preferenza?
b)  sulla sotto e sovrarappresentazione dei partiti, alcuni partiti vengono avvantaggiati o
meno rispetto ad altri? 
c) sull’influenza sul numero dei partiti, cioè quanto più un sistema è proporzionale tanto
più è facile che nuovi partiti riescano a nascere e ad affermarsi.
Il primo a trattare di questi temi in maniera scientifica è Duverger, dalle cui analisi
discendono le leggi di Duverger o, meglio, una legge e un’ipotesi, che postulano delle
relazioni causali fra tipo di scrutinio (formula elettorale) e numero dei partiti:
1. legge di Duverger: il sistema maggioritario a turno unico (plurality) tende al dualismo dei
partiti (bipartitismo);
2. ipotesi di Duverger: i sistemi a doppio turno (majority) o a rappresentanza proporzionale
tendono al multipartitismo.

Un chiarimento della legge di Duverger si ha con la proposizione di Rae/Riker, per cui lo


scrutinio plurality è sempre associato alla competizione bipartitica, eccetto quando esistono
partiti che rappresentano minoranze politiche forti e radicate nel territorio.
Giovanni Sartori ha preferito parlare di «leggi di tendenza» e ha precisato che il formato
bipartitico è associato all’esistenza di due condizioni necessarie: 
I. la dispersione o concentrazione territoriale delle preferenze degli elettori; 
II. la strutturazione su scala nazionale del sistema dei partiti
Secondo il politologo fiorentino le leggi di Duverger aumentano la loro efficacia in relazione al
grado di strutturazione del sistema partitico. Il che dipende sia dall’esistenza di partiti
minimamente organizzati e stabili su scala nazionale, sia dal consolidamento di comportamenti
fedeli degli elettori.
Più queste condizioni si allentano (i partiti sono destrutturati e gli elettori volatili), più i sistemi
elettorali perdono di efficacia nei tre ambiti che aveva richiamato Fisichella e, in particolare,
nel terzo (sub c). Il ragionamento di Sartori è presentato nella tabella 4.1, dalla quale si ricava,
appunto, che i sistemi elettorali forti, maggioritari o altamente disproporzionali, hanno un
effetto riduttivo del numero dei partiti ma solo se il sistema partitico è strutturato su base
nazionale e, comunque, con eccezioni relative alla distribuzione territoriale degli
elettori (democrazie maggioritarie dell’Europa occidentale). Se il sistema partitico è organizzato
solo a livello locale, gli effetti riduttivi si avranno solo a livello di collegio, da qui l’anomalia di
un sistema plurality che alimenta la frammentazione partitica (questo è il caso dell’India o
dell’Italia tra
il 1993 e il
2005). Se, per
contro, il
sistema
partitico è
fortemente
strutturato e
il sistema
elettorale
debole
(proporzionale) si possono avere ancora esiti bloccanti o controbilancianti che derivano dalla
logica di funzionamento del sistema partitico (Malta, Austria 1966-1983; Irlanda). A differenza di
Duverger, per Sartori il punto da precisare è che nessun sistema «moltiplica» il numero dei
partiti; al massimo un sistema proporzionale puro «fotografa» la realtà. L’ultimo riquadro
riguarda il caso in cui non si abbia alcuna influenza (America Latina ed Europa dell’Est
postcomunista). Il caso italiano degli anni 1994-2013 rientrerebbe proprio nelle situazioni di
destrutturazione stabile del sistema partitico (quadrante in basso a sinistra): da qui gli effetti
delle leggi elettorali introdotte prima nel 1993 (Mattarellum) e poi nel 2005 (Porcellum).

In realtà, la valutazione della legge e dell’ipotesi di Duverger, fino alla critica di Sartori,
richiede un passaggio ulteriore. In particolare, occorre distinguere tra effetti meccanici o
«effetti diretti» del sistema elettorale, prodotti dalla semplice applicazione delle regole di
trasformazione dei voti in seggi, ed effetti psicologici o «effetti indiretti», che Cox [1997]
definisce come effetti di «coordinamento strategico» degli elettori e dei candidati (si veda
anche Duverger [1951]). Cioè, proprio per evitare o attutire gli effetti diretti, ad esempio il
superamento di una certa soglia legale o di sbarramento (per cui vincono seggi solo i partiti che
superano una certa percentuale di voti, per es. 3 o 5%), gli elettori sono indotti a ricorrere
al voto strategico, cioè scelgono non il partito al quale si sentono più affini (e per il quale
esprimerebbero un voto sincero) e che, se piccolo, correrebbe il rischio di non avere successo,
ma il partito più prossimo alle loro preferenze originarie che magari ha più realistiche possibilità
di vittoria. Un’alternativa al voto strategico è l’astensionismo strategico: se il mio partito non ha
possibilità di vincere tanto vale che non mi rechi alle urne, favorendo in questo modo
l’avversario.
In questo modo, però, ci siamo spostati su un altro livello di analisi relativo alle modalità che
può assumere la scelta elettorale (o tipi di voto). Se per un attimo prendiamo in prestito il
linguaggio dell’economia potremmo dire che il mercato elettorale, come ogni mercato,
funziona sulla base dell’incontro tra l’offerta politica e la domanda elettorale, con la
mediazione delle regole del gioco. Ora, queste ultime sono i sistemi elettorali, tanto nella loro
definizione stretta che ampia (▲); l’offerta politica è costituita dal coordinamento strategico
fatto da partiti, leader e candidati, ma anche dalla qualità della classe politica, delle candidate
e dei candidati, che si presentano agli elettori; la domanda elettorale, infine, attiene ai modelli
di scelta e di mobilitazione degli elettori (come nel caso del voto sincero vs voto utile o
strategico). Tuttavia, prima di soffermarci sui modelli di scelta elettorale e sulla loro stabilità
nel tempo, occorre considerare un aspetto propedeutico che attiene all’ingresso degli elettori e
delle elettrici nel mercato elettorale, ovvero alla decisione se recarsi o meno alle urne il giorno
delle elezioni. Quando l’opzione è per il non voto ci troviamo davanti al fenomeno
dell’astensionismo. Tale fenomeno è cresciuto sensibilmente in tutte le democrazie
specialmente a partire dalla fine degli anni Settanta nella sua dimensione volontaria, cioè di
scelta intenzionale, che ormai arriva a coinvolgere nelle elezioni politiche in diversi paesi
europei oltre il 30% degli elettori, mentre in altri (si pensi agli Stati Uniti, alla Svizzera o ai paesi
dell’Europa dell’Est) anche il 50% degli elettori e oltre. Il quadro del cosiddetto voto
inespresso si fa ancora più saliente se alla non partecipazione al voto si aggiungono anche le
schede bianche e i voti nulli.
Relativamente a coloro che sono entrati nel mercato elettorale come, appunto, elettori,
acquista rilevanza la distinzione tra elettorato fluido o volatile, cioè incline a cambiare scelta
tra un’elezione e l’altra, ed elettorato identificato, le cui preferenze sono stabili nel tempo
fino al punto di trasmettersi da padri a figli.
Guardando alle motivazioni che legano le elettrici e gli elettori ai partiti e ai loro leader (Parisi,
Pasquino), con riferimento al caso italiano, si distingue tra il «voto di appartenenza», il «voto di
scambio» e il «voto di opinione»

 Il voto di appartenenza si presenta come stabile nel tempo, gli elettori non sono
disponibili a cambiare le proprie preferenze, testimonia una fede politica,
un’appartenenza
 Il voto di scambio rappresenta una scelta basata sugli interessi più o meno
immediati degli elettori e dei gruppi, lo possiamo quindi definire razionale in un
certo senso. Questo tipo di voto tende a rivolgersi ai partiti e i candidati che
controllano il governo e, quindi, in grado di alimentare tali aspettative di do ut
des, di «sostegno specifico». Il clientelismo è un’espressione tipica del voto di
scambio. Anche lo scambio politico tra partiti al governo e interessi di gruppi
economici potrebbe rientrare in questo tipo di voto
 il voto di opinione è fortemente influenzato dai temi salienti al centro
dell’agenda politica e pubblica, dei programmi di partito, e dalla situazione
contingente che può rendere saliente un problema di policy. Negli ultimi tempi il
voto di opinione sarebbe sempre più condizionato anche dall’immagine dei
leader, tuttavia in questo caso si potrebbe considerare che la componente
emotiva o affettiva, per citare Max Weber, della scelta prevale nei confronti di
argomentazioni di tipo razionale rispetto allo scopo.

4 PARTECIPARE PER DECIDERE


da che cosa deriva la disaffezione per la politica e la disillusione nei confronti della democrazia
stessa?
1. Una prima spiegazione si può forse cercare nel ribaltamento dell’eccessivo ottimismo, e
quindi nella successiva disillusione, nella capacità della politica di ottenere livelli sempre
più elevati di benessere materiale
2. la sensazione che la democrazia sia una costruzione troppo fragile e inevitabilmente
tendente a degenerare nel suo contrario
3. la democrazia come una finzione che nasconde una realtà di privilegio e disuguaglianza.
Passiamo ora a fissare la distinzione in termini di logica e di sviluppo storico tra «democrazia
rappresentativa» e «democrazia diretta». Secondo Sartori:

 nelle democrazie rappresentative il demos manifesta un potere di influenzamento, o di


pressione, che si manifesta come un complesso di limiti, di condizioni, di veti posti a chi
governa. la democrazia indiretta, vale a dire la democrazia rappresentativa; è un
sistema di controllo e di limitazione del potere. Il regime democratico è affidato ai
meccanismi rappresentativi di trasmissione del potere, e più esattamente a dei sistemi
elettorali connessi con determinate strutture costituzionali: e gli Stati democratici
moderni sono tutti di tipo rappresentativo

 Nelle democrazie dirette invece la partecipazione sta ad indicare l’esercizio di un potere


governante. La democrazia diretta vale a dire la democrazia come partecipazione; è un
esercizio in proprio e in questo senso diretto del potere. Il reggimento democratico
fondato sulla personale partecipazione dei cittadini al governo della loro città: è la
democrazia della polis e delle imitazioni medioevali.
Con «partecipazione diretta» nelle democrazie rappresentative odierne possiamo intendere
l’introduzione o la richiesta di introduzione in un dato ordinamento politico di alcuni istituti
quali il referendum, l’iniziativa legislativa popolare, petizioni e forme varie di azione popolare
ecc. Negli ultimi anni, poi, con la rivoluzione digitale o delle tecnologie dell’informazione e
della comunicazione si parla sempre più di e-democracy, della cyber-democracy (modelli di
partecipazione online).
La rappresentanza nasconde una contraddizione interna, costituita dalla «distanza tra il
principio politico – l’affermazione della supremazia della volontà generale – e la realtà
sociologica»; sempre più vi è una divisione tra il popolo e il governo, in vige una «divisione dei
compiti che fa della politica un settore specializzato gestito da esperti». Questo concetto era già
stato anticipato da Robert Michels e la sua legge ferrea dell’oligarchia, in base alla quale la
dirigenza, tende a distaccarsi sempre più dall’esperienza vissuta dai membri fino ad avere più
cose in comune con le dirigenze degli altri partiti che con la propria base.
In questo contesto si sviluppa anche l’analisi delle scale di partecipazione di Arnstein, che vede
tre diversi livelli qualitativi di partecipazione:
1. la non partecipazione. Si riferisce al ricorso a forme di manipolazione delle preferenze e
delle azioni dei cittadini o anche di tipi di terapia attivate dalle élite per suscitare forme
di coinvolgimento dei cittadini di fatto vuote;
2. la partecipazione fantoccio (tokenism, nei termini della Arnstein). Qui ritroviamo le
tradizionali attività di informazione, di consultazione e di pacificazione (soluzione dei
conflitti) che comunque non cambiano i rapporti di potere interni alla società;
3. la partecipazione decidente, che individua dei veri e propri gradi di potere reale
dei cittadini, in termini di partenariato, delega del potere e controllo delle decisioni.
Ciò che caratterizza questa scala è che la partecipazione acquisisce significato se comporta
un’effettiva ridistribuzione del potere. E ciò avviene quando la democrazia funziona per quello
che promette realmente: cioè conferisce potere al demos.
Lo stesso pensiero ritorna in era Carole Pateman, la quale sosteneva la rilevanza politica della
partecipazione diretta. Per la Pateman il modello partecipativo di democrazia comporta che i
cittadini, dando il massimo input (partecipazione diretta), ottengono non solo il massimo output
(decisioni autonome), «ma anche lo sviluppo delle capacità sociali e politiche di ogni individuo.
Un’ulteriore «evoluzione», per così dire, della democrazia partecipativa è rappresentata
dalla democrazia deliberativa. La partecipazione implica il coinvolgimento, un prendere parte
e un essere/sentirsi parte, di individui che agiscono attivamente e direttamente nel processo
politico nel tentativo di influenzare, se non proprio determinare, le scelte politiche significative
per la collettività.
Habermas studia molto attentamente questo tipo di democrazia; a livello locale ci sono molti
esempi di intervento diretto dei cittadini su come allocare le risorse. I cittadini sono messi nella
condizione di deliberazione ma devono esserci cinque Caratteristiche fondamentali:
1. volontà di cambiare le proprie idee.
2. volontà di ascoltare l'altro
3. volontà di essere onesti
4. volontà di supportare le proprie preferenze su dati empirici
5. chi prende parte a momenti deliberativi deve essere rappresentativo della società
esistono poi dei facilitatori che garantiscono che il dibattito avvenga in queste decisioni, alla
fine si dovrebbe convergere verso un consenso.
Per far sì che questo modello di democrazia funzioni c’è bisogno:

 l’inclusione nel (o rappresentatività del) processo decisionale di tutte le «partiti


interessate»,
 le regole decisionali che implicano la discussione tra pari volta a fare emergere i pro e i
contro di ogni questione sulla quale decidere e, quindi, a produrre decisioni accettabili
perché ragionevoli.

5 COMUNICAZIONE E MEDIATIZZAZIONE DELLA POLITICA


La comunicazione implica un flusso più o meno costante di informazioni, messaggi, discorsi che
investe gli attori del processo politico (autorità e cittadini).
Nella politica la comunicazione è una necessità alla quale è difficile sottrarsi e, del resto, anche
la non comunicazione veicola significati. Secondo Almond e Powell a comunicazione politica
costituirebbe una terza funzione sistemica, accanto alla funzione di socializzazione e di
reclutamento; sarebbe il prerequisito necessario per lo svolgimento delle altre due.
Lasswell circoscrive l’ambito della comunicazione politica ad alcuni elementi definitori: chi dice
cosa (la fonte o emittente del messaggio), attraverso quale canale o medium (più esattamente
i canali o mezzi fisici attraverso i quali il messaggio è trasmesso), nei confronti di chi (i
destinatari del messaggio) e, quindi, il feedback (la reazione del ricevente).
Una prima specificazione è relativa alla stessa nozione di «media», cioè qualunque mezzo o,
meglio, agenzia di intermediazione che rende possibile la comunicazione. Possiamo in questo
caso distinguere quattro fasi principali:
 fase premoderna: fogli, comunicazioni verbali dense, incontri persona a persona. dove il
rapporto era molto vicino e incentrato sui contenuti piuttosto che sul pacchetto
 fase moderna: avvento della televisione ( kennedy e Nixon→ primo dibattito tra due
candidati presidenti ad essere ripreso; le due apparenze hanno influenzato gli spettatori)
si tratta di un medium tra candidato e pubblico ma monodirezionale
 post-moderna: media che permettono una comunicazione bidirezionale ( messaggi,
email); servono delle persone che rispondono a tutti i messaggi.
 nella quarta fase non solo c’è un dialogo bidirezionale ma c’è anche una capacità di
mobilitarsi da parte del pubblico che influenza molto la posizione del politico stesso ( mi
piace, meme, gif) si crea una pressione ancora maggiore per i candidati ma essi mettono
poi in moto delle macchine di pubbliche relazioni che influenzano reciprocamente il
pubblico. Il leader avrà poi degli spin-doctor che riflettono quello che pensano gli
elettori. Ciò che si comunica nei blog diviene anche materia di lavoro per i politici→
rischio di echocenters per gli informatori, groupthink.
Nel caso di internet la rilevanza per la politica è sensibilmente cresciuta via via che si
sono susseguite alcune fasi: Web 1.0, che implica un uso passivo della tecnologia del
web; Web 2.0, che implica lo sviluppo di una maggiore interazione nell’uso dei contenuti
della rete con una maggiore capacità di feedback; la terza fase è caratterizzata dalla
diffusione dei blogs (web logs) e dei social network.
D’altra parte, come si diceva, esiste un modo complementare di concettualizzare la
comunicazione politica ed è quello di spostare l’attenzione sulla sua specificità, ovvero su che
cosa la rende «politica» distinguendola da altri tipi di. A tal fine, si può affermare che:
La comunicazione politica riguarda gli scambi e le interazioni che hanno a che fare con
l’interesse generale, anche se talvolta si tratta di temi rispetto ai quali c’è un accordo di
fondo, talaltra sono controversi e allora diventano fonte di mobilitazione di schieramenti
pro e contro.

Nello scambio di comunicazione con gli altri non trasmettiamo solo informazioni e messaggi, ma
definiamo e ridefiniamo continuamente le stesse relazioni in termini di potere, cioè di capacità
di influenza. Dal punto di vista delle élite, governare una società comporta un costante ricorso
alla comunicazione per informare i cittadini, per consentire la trasmissione e l’applicazione
delle decisioni vincolanti, così come, la trasparenza delle istituzioni e la capacità di risposta dei
governi.
La comunicazione politica si pone l’obiettivo di persuadere i cittadini per conseguire fini di parte
(propaganda).
Un’ulteriore precisazione deriva dai soggetti coinvolti nel processo comunicativo (emittenti e
destinatari dei messaggi) e dal sistema di interdipendenze che ne consegue. Da questo punto di
vista, la comunicazione politica si risolve nell’insieme di scambi (informazioni e comandi) o
interazioni che si realizzano nel triangolo costituito dagli attori politici, dai mass media e
dal pubblico dei cittadini . In generale, tutti e tre gli attori
sono coinvolti, anche se non necessariamente allo stesso tempo
e con la stessa intensità, in ogni attività comunicativa.

In realtà, le ricerche sul campo hanno mostrato che il peso dei


tre attori [o sfere] nelle concrete situazioni dei diversi contesti
politici è di fatto sbilanciato, risultando assai più forte quello
dei mass media. La politica trova sempre più espressione
all’interno dell’arena dei mass media, ne ha introiettato la
logica di fondo diventando dipendente in misura rilevante dalla
sua stessa dinamica. Questo modello più realistico, delle
relazioni tra attori politico-istituzionali, mass media e pubblico
è stato chiamato: modello mediatico della comunicazione
politica (si adatta meglio alle tendenze strutturali in atto nella
società)

In questo senso, si parla di mediatizzazione della politica, il che rinvia alla centralità dei mass
media e dei professionisti dell’informazioni alla luce di due parametri:
1. il parametro sistemico che si costituisce di quattro dimensioni:
- la struttura proprietaria del sistema dei media; ovvero il grado di controllo dei
mass media
- il grado di partisanship dei mass media è tanto maggiore quanto più i media sono
di proprietà delle forze politiche e dei loro leader o dei governi (parallelismo
politico)
- il grado di integrazione delle élite politico-mediali: tra i due gruppi c’è
separatezza o simbiosi dei processi di formazione, carriera e reclutamento
- il grado in cui la professione di giornalista è percepita come indipendente da
pressioni e viene riconosciuta la sua funzione sociale che in democrazia si risolve
principalmente nell’advocacy, promozione e difesa di diritti, e nel watchdog,
controllo dei potenti.
2. Il parametro massmediale, che si riferisce alla cultura professionale. Prevede
un continuum che a un polo vede l’orientamento pragmatico, «in questo caso,
i newsmedia sono portati a dare copertura informativa a quegli aspetti ed elementi della
vita politica che essi ritengono corrispondere innanzitutto alla domanda del loro
pubblico». Al polo opposto troviamo invece l’orientamento sacerdotale o partigiano
tipico di «un giornalismo sensibile alle esigenze del sistema politico, pronto a officiare il
rito dell’informazione al servizio di parte.
Oltre che alla ricostruzione delle modalità di relazione tra politica e media i principali filoni di
ricerca nel campo della comunicazione politica si possono ricondurre ai seguenti ambiti:
il processo di comunicazione, le tendenze strutturali e la costruzione e diffusione delle notizie.
Farrell e Webb [2000] hanno parlato dell’esistenza di tre mondi o fasi della comunicazione
politica che caratterizzerebbero le democrazie occidentali. Più esattamente, la prima fase è
quella «premoderna», che coincide con l’egemonia dei partiti di massa, alla quale hanno fatto
seguito quella della «rivoluzione televisiva» e quella della «rivoluzione delle telecomunicazioni»,
entrambe contraddistinte dalla crisi della democrazia dei partiti e dall’avvento della
«democrazia del pubblico”.
Pippa Norris [2000] ha parlato di “campagne” premoderne, moderne e postmoderne, mentre
Blumer e Kavanagh [1999] rivendicano l’esistenza di 3 età della comunicazione politica. La prima
è contraddistinta dal dominio delle partiti di massa e dall’influenza indiretta del sistema dei
media, le due più recenti sono caratterizzate dalla mediatizzazione della politica. Tali sviluppo
riguardano una serie di caratteristiche strutturali e processuali della politica:
1. Importanza del marketing politico, volto a valorizzare le potenzialità del candidato
rispetto a un certo mercato di elettori, e della sua evoluzione nelle campagne
comunicative negative, in cui si cerca di demolire la credibilità degli avversari e si ricorre
a messaggi che sollecitano reazione emotive del pubblico
2. Tendenza alla personalizzazione della politica, che può assumere 2 forme distinte:
- la leaderizzazione dei vertici dei partiti; la centralità data nelle campagne
elettorali all’immagine dei candidati e dei leader amplificate dai media
- la presidenzializzazione dei sistemi di governo con l’acquisita rilevanza dei vertici
degli esecutivi
Infine, con l’avvento del XXI secolo si registra una tendenza strutturale all’egemonia dei nuovi
media, della media logic. La comunicazione digitale favorisce flussi e scambi in rete non mediati
(o apparentemente tali), i cui aspetti cruciali sarebbero: l’ubiquità e l’accesso diffuso alla Ict
(Information and Communication Technology) anche a rischio della polverizzazione dei pubblici.
Anche in queste trasformazioni c’è, però, un rischio: il fatto che la proliferazione e la
diversificazione dei canali mediali alimentino la frammentazione dei pubblici, con il conseguente
aumento della competitività tra politici e partiti e della volatilità degli elettorati.
Vi sono modi virtuosi e meno virtuosi di stabilire la propria credibilità ma, a meno che non
intrattenga rapporti diretti con il proprio elettorato, il candidato dovrà far ricorso ad altre
tecniche per accertare la consistenza del proprio seguito. Sarà pertanto tentato di consultare
frequentemente i sondaggi di opinione sia per scoprire le preferenze e le domande degli
elettori, sia per monitorare il proprio gradimento. Ecco che i sondaggisti e gli esperti
d’immagine e di comunicazione (spin doctors) diventano figure imprescindibili per costruire il
nuovo rapporto di «rappresentanza».

In tempi ancora più recenti la centralità dei mass media e dei social media nel coltivare un
seguito personale, insomma la mediaticità del candidato, diventa più importante della sua
preparazione politica o della sua dedizione all’elettorato. Nello stesso tempo, così come diventa
apparentemente più semplice acquistare un seguito personale, è anche più facile perderlo a
causa di scandali, campagne negative e passi falsi di qualsiasi tipo.
La politica diventa professione: ogni velleità di dilettantismo svanisce e l’imprenditore politico
deve saper ben dosare le proprie forze e le proprie finanze per garantirsi una carriera lunga e
variegata, spesso passando da ruoli rappresentativi a ruoli di gestione oppure rinverdendo la
propria carriera elettorale a diversi livelli di governo.
Secondo Manin nasce un nuovo modello di democrazia: audience democracy (democrazia del
pubblico), una democrazia per lo più reattiva: il rapporto di rappresentanza si completa in
seguito a una serie di «tentativi ed errori». La domanda politica si rivela quindi ex post, come
reazione all’offerta politica. La conclusione di Manin è che il governo rappresentativo rimane ciò
che è stato dall’inizio, cioè un governo di élite distinte dalla massa dei cittadini dalla loro
posizione sociale, stile di vita e istruzione.

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