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Michael Rush
POLITICA E SOCIETA’
Introduzione alla sociologia politica
PRESENTAZIONE
Rush, oggi professore emerito presso l’università di Exeter in Gran Bretagna, in questo volume ha
citato sapientemente le principali teorie (stato, potere, autorità, legittimità ..) e ricerche nell’ambito
della sociologia politica; per questo è considerato uno dei pochi strumenti didattici che si
confrontano con i concetti di base della disciplina
Nel 1957 R. Bendix e S. M. Lipset, due tra i principali fondatori della sociologia politica,
tracciarono il primo importante quadro di definizione della disciplina, differenziandola dalla scienza
politica, per cui:
La scienza politica parte dallo stato ed esamina come esso influenzi la società;
La sociologia politica parte invece dalla società ed esamina come essa eserciti influenza
sullo stato.
Sartori, dieci anni dopo, parafrasò questa definizione prestando attenzione alle variabili, per cui:
Le variabili indipendenti (cause, determinanti, fattori ..) del sociologo sono
fondamentalmente le strutture sociali;
Quelle dello scienziato politico, invece, sono fondamentalmente le strutture politiche.
Sartori inoltre aggiunse che la sociologia politica è un ibrido interdisciplinare che utilizza
contestualmente variabili esplicative sociologiche e variabili esplicative politologiche. Da ciò
emerge che per fare una buona sociologia politica occorre dunque uno sguardo interdisciplinare e
dunque un’analisi della prospettiva del sociologo, del politologo, dell’antropologo, del filosofo
politico ..
In Francia, la sociologia politica è ancora oggi intesa come la componente empirica della scienza
politica, per questo tanto in voga.
“La SOCIOLOGIA è lo studio dei comportamenti umani all’interno di un contesto sociale, per cui
ad essere analizzata è essenzialmente la società.”
“La SOCIETÀ è un raggruppamento distinto e coerente di esseri umani che vivono entro certi
margini di contiguità, il cui comportamento è caratterizzato dalla condivisione di pratiche, norme e
valori che lo differenziano da altri raggruppamenti con pratiche, norme e valori diversi.”
A coniare il termine sociologia fu August Comte (1798-1857), uno dei padri fondatori della
disciplina, che insieme ad Herbert Spencer (1820-1903) ha definito la società come unità di base
dell’analisi sociologica.
Anche Karl Marx (1864-1920), Max Weber (1864-1920) ed Emile Durkheim (1858-1917) hanno
dato un importate contributo teorico ed empirico alla disciplina (alcuni studiosi li considerano tra i
padri fondatori). Le teorie di Marx (storico, filosofo politico, economista) riguardano i rapporti tra
politica, economia e società; quelle di Weber, critico di Marx, riguardano lo stato, il potere,
l’autorità, la legittimità, il ruolo delle idee o dei sistemi di valore nello sviluppo e nei cambiamenti
della società; e quelle di Durkheim sulla divisione del lavoro (cioè sulla specializzazione dei ruoli
sociali); sula religione e sul suicidio.
La sociologia sta a fondamento della scienza politica perché la politica ha luogo all’interno di un
contesto sociale (la società), che è appunto oggetto di studio della sociologia.
Le definizioni della politica sono innumerevoli e nessuna è mai stata accettata universalmente.
“La POLITICA è:
- La risoluzione dei conflitti fra gli esseri umani;
- il processo attraverso cui si prendono decisioni o si modificano i programmi politici e le
strategie di azione;
- l’esercizio del potere e dell’influenza”.
Poiché l’ordine è fondamentale per regolare la relazione tra individui ed è compito del governo
mantenerlo, la scienza politica può essere definita come lo studio della funzione del governo nella
società. (B. Crick)
Oltre all’analisi delle istituzioni politiche (governi, parlamenti, partiti politici, burocrazie,
amministrazioni centrali e locali, la sociologia politica si occupa anche dei processi elettorali e
legislativi, delle scelte politiche, dei processi organizzativi ed amministrativi, dei gruppi di
pressione…).
D. Easton sottolinea l’importanza delle relazioni tra sistema politico e ambiente, sviluppando così
l’analisi “input-output”, secondo la quale: l’ambiente indirizza degli input al sistema politico sotto
forma di domande, di atteggiamenti e azioni da parte di individui e gruppi e il sistema politico, a sua
volta, elabora questi input producendo output sotto forma di decisioni e di azioni che, operando in
un circuito di feedback, producono ulteriori domande.
La CULTURA POLITICA è intesa come il complesso delle idee e atteggiamenti che sono alla base
di un dato sistema politico.
La teoria sistemica è stata criticata per la carenza di supporti empirici e perché non è stata in grado
di fornire un’adeguata spiegazione teorica ai più importanti cambiamenti della società.
Per quanto la moderna sociologia politica fa leva sulle teorie di questi studiosi, le radici della
sociologia politica sono molto più antiche e molto più disparate.
G. Sartori parla della sociologia politica come un ibrido inter-disciplinare poiché cerca di ricoprire
gli ambiti di due scienze. In sostanza si occupa di:
esaminare i legami tra politica e società;
collocare la politica all’interno del suo contesto sociale analizzando le relazioni fra strutture
sociali e strutture politiche e tra comportamenti sociali e comportamenti politici.
I due padri fondatori della sociologia politica furono: Marx e Weber (che considerarono la politica
incorporata nella società).
Marx
Marx sosteneva che “la natura di tutte le società è definita dal modo di produzione dominante che
determina le relazioni tra gli individui e i gruppi, le idee e i valori dominanti”; e che “i cambiamenti
fondamentali in una società dipendono dai cambiamenti che si verificano nel modo di produzione”.
Il fondamento della sua principale teoria sociologica è la LOTTA DI CLASSE elaborata a partire
dalla teoria del valore-lavoro di D. Hume, e dalle teorie sul plusvalore e sullo sfruttamento del
lavoro.
Marx sviluppò anche una teoria sull’alienazione, secondo la quale la classe o le classi subalterne
nella società finiscono per rifiutare le idee e i valori della classe dominante ed elaborano idee e
valori alternativi che finiscono col diventare rivoluzionari, e che sono alla base della lotta di classe.
Secondo Marx, ciò doveva essere preceduto dallo sviluppo della COSCIENZA DI CLASSE,
(importante concetto marxiano), cioè la consapevolezza da parte delle classi subalterne della propria
reale posizione all’interno dei mezzi di produzione e quindi nella società.
Per quanto le teorie di Marx abbiano ricevuto delle critiche, non si può sminuire il suo contributo
alla sociologia politica.
Un altro suo importante contributo riguarda il “socialismo scientifico”, in quanto ha fornito gli
elementi (dati empirici esaminati in modo sistematico e rigoroso) per l’elaborazione dei modelli e
dei metodi della disciplina, con i quali i successivi scienziati sociali dovettero confrontarsi.
Weber
Fu uno dei maggiori critici di Marx e compì un considerevole numero di studi di grande importanza
per la sociologia politica.
Nei suoi studi ha cercato di dimostrare che i fattori non economici, in particolare le IDEE, sono
importanti fattori sociologici; inoltre esaminando le stratificazioni sociali in svariate società
sostenne che gli strati sociali potevano basarsi non solo su una posizione individuale di “classe” o
economica, come asseriva Marx, ma anche sullo status o sulla posizione sociale, nonché sul ruolo di
un individuo nella struttura di potere.
Classe, potere e status possono sovrapporsi ma non sono la stessa cosa.
Weber evidenziò anche l’importanza del POTERE all’interno del contesto sociale e il suo esercizio
autoritativo o legittimazione. Gli idealtipi (modelli di riferimento osservabili che si possono
Marx e Weber sostenevano che la politica può essere spiegata e compresa solo in un contesto
sociale (caratterizzato dalla propria storia).
Il compito della sociologia politica è quello di analizzare e spiegare le relazioni esistenti tra politica
e società, tra istituzioni sociali e istituzioni politiche e tra comportamenti sociali e comportamenti
politici.
Per analizzare una società deve essere analizzata anche la sua politica.
La sociologia politica analizza la struttura sociale e i comportamenti che contribuiscono alla politica
e 4 temi principali:
il ruolo dello stato e l’esercizio del potere;
le relazioni che esistono tra comportamento politico e contesto sociale;
il rapporto tra i valori e la politica;
come cambiano le società.
Weber ha definito lo STATO come “quella comunità umana la quale, nell’ambito di un determinato
territorio.. pretende per se il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica”.
Per Weber dunque, le caratteristiche essenziali dello Stato sono:
- La forza
- E il suo uso legittimo.
A questi si associano altri 3 concetti:
Il POTERE cioè la capacità da parte di qualcuno di imporre la propria volontà. Questo può
essere esercitato sia tra stati che all’interno di uno stato.
Il potere è uno concetto chiave nello studio della politica, tant’è vero che Weber ha definito
la POLITICA come “l’aspirazione a una partecipazione al potere o ad un’influenza sulla
distribuzione del potere, sia tra stati che nell’ambito di uno stato, tra i gruppi di uomini che
esso comprende”.
Ad occuparsi dell’esercizio e della distribuzione del potere all’interno di un contesto statale
è la sociologia politica.
L’AUTORITÀ cioè il diritto di esercitare il potere e il diritto di essere obbediti.
LEGITTIMITÀ: l’autorità è considerata legittima quando la pretesa di essere obbediti è
accettata dai destinatari.
Una delle questioni cardini della politica è la DISTRIBUZIONE DEL POTERE: chi esercita il
potere nella società? Il potere può essere concentrato nelle mani di un piccolo gruppo (ÈLITE) o
disperso tra molti gruppi (teoria PLURALISTA).
2. LO STATO E LA SOCIETÀ
1. Introduzione
Weber: “Per STATO si deve intendere un’impresa istituzionale di carattere politico nella quale
l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica
legittima, in vista dell’attuazione degli ordinamenti” (Weber).
Per Weber dunque, lo stato moderno si caratterizza per il potere, per il suo uso legittimo ed anche
per la presenza di un’organizzazione amministrativa.
Poiché il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica è associato al concetto di stato e a quello di
legittimità, il collasso dei regimi dell’Europa dell’Est nel 1989 è stato interpretato da Weber come
un’evidente perdita di legittimità; tuttavia l’accettazione dello stato da parte dei cittadini
(LEGITTIMITÀ) può basarsi anche su altri fattori diversi dalla legittimità:
- Non si vogliono affrontare le conseguenze che derivano dalla disobbedienza alla legge o alle
politiche promosse dallo stato (sanzioni, incarcerazione, discriminazione o stigma sociale..);
- Si accettano le politiche semplicemente per ottenere dei vantaggi materiali.
Gli organismi sovranazionali come l’UE, hanno messo in discussione la tradizionale definizione di
stato (una comunità umana delimitata da precisi confini territoriali, con un apparato politico e
burocratico che definisce le politiche e ne promuove l’attuazione), proprio perché non hanno il
monopolo dell’uso legittimo della forza fisica, infatti non si avvalgono di un apparato coercitivo per
realizzare le proprie politiche all’interno del territorio dei propri stati membri, ma si basano solo
sulla volontà politica di questi ultimi e, in alcuni casi, sull’autorità giudiziaria della Corte di
giustizia europea.
Queste organizzazioni inoltre si differenziano dallo stato (al quale non si appartiene per libera
scelta, come sottolinea Weber) perché sono associazioni volontarie.
Marx: La concezione marxista sullo stato, sul potere, sull’autorità e sulla legittimità differisce in
modo significativo da quello di Weber e degli altri studiosi non marxisti.
Secondo i non marxisti, lo stato è l’apparato necessario attraverso il quale una società mantiene
l’ordine, controlla i conflitti interni e persegue i propri obiettivi economici e sociali.
La teoria marxista, invece, assegna allo stato il ruolo cruciale di rappresentare gli interessi della
classe dominante di una società e di operare in modo conforme ad essi. Lo stato dunque è il
prodotto delle lotte di classe, la sua autorità e la sua legittimità esistono solo nella mente della classe
dominante, inoltre è destinato a cessare di esistere in una società senza classi come quella
comunista.
Secondo Engels lo stato è “lo strumento della classe più potente, economicamente dominante, che,
per mezzo suo, diventa anche politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per
tenere sottomessa e per sfruttare la classe oppressa”.
Lenin definì lo stato come “un organo di oppressione di una classe da parte di un’altra”.
Proprio per queste differenti posizioni, lo stato è uno dei principali campi di interesse della
sociologia politica.
(Il capitale fisico si riferisce invece agli oggetti fisici es. un cacciavite; mentre quello umano alle
caratteristiche degli individui es. istruzione).
L’antropologo Radcliffe-Brown sosteneva che nelle società primitive il ruolo della politica era
quello di:
- mantenere o stabilire l’ordine sociale;
- controllare e regolamentare l’uso della forza.
Si parla di politica minimale poiché si svilupparono delle norme su specifici casi in cui poteva
essere usata legittimamente la forza fisica, per cui vennero riconosciuti e accettati mezzi per
redimere le controversie. Si passò al governo minimale dove emersero dei leader con autorità più
generali e dove piccoli gruppi vivevano a livello di sussistenza. Per poter andare oltre la
sopravvivenza e l’autosufficienza occorreva un “surplus” di produzione, di modo che la società
potesse occuparsi di qualcosa di diverso: nacquero così ruoli sociali diversi. Questo secondo stadio
di sviluppo fu definito da Spencer “specializzazione” e da Durkheim “divisione del lavoro” ed ha
permesso non solo un modo di produzione più efficiente ma anche lo sviluppo di un’attività
politica, la nascita di istituzioni nonché la possibilità di un’espansione territoriale.
Politica e territorio si intrecciano sempre più.
Anche secondo la teoria marxista lo stato è il prodotto di una lotta di classe per il controllo
dei mezzi di produzione (potere come strumento per controllare i mezzi di produzione).
Nessuna di queste due teorie del conflitto intra-societario costituiscono la principale
spiegazione della nascita dello stato.
Secondo la teoria del “contratto”, che invece riguarda i conflitti fra individui, lo stato è il
prodotto del bisogno individuale di protezione degli inevitabili conflitti che si verificano
nella società, es. durante il feudalesimo si realizzò il rapporto contrattuale di vassallaggio
per ottenere una protezione a fronte di servizi.
Un’altra teoria del conflitto fra individui si basa sul “darwinismo sociale”, secondo il quale
gli individui più forti nella società prevalgono sugli altri e formano uno stato per rafforzare e
mantenere il proprio dominio.
Ciò che fornisce una spiegazione accettabile sulla formazione dello stato sono sicuramente i
conflitti INTER-societari di tipo economico, leadership, ideologico e geografici.
Limite alla teoria del conflitto: pensare che l’origine dello stato debba basarsi solo sul
conflitto e non sulla cooperazione o sul consenso.
Le teorie sulla formazione dello stato sono difficilmente dimostrabili, soprattutto per quegli stati di
cui non esistono testimonianze scritte e si basano solo sulla storia orale inficiata da mitologia.
La formazione degli stati più recenti è invece avvenuta per 2 principali fattori:
La conquista;
Il matrimonio tra membri di gruppi differenti es. matrimonio tra re Giacomo IV di Svezia e
la figlia del re inglese Enrico VII.
(la capacità di molti sovrani di imporre con la forza la propria autorità all’interno del proprio
territorio, o di estenderlo con la conquista, era un fenomeno molto diffuso nell’Europa
medievale, così come il consolidamento territoriale e l’espansione per mezzo dei matrimoni tra
gruppi differenti).
Lo sviluppo dello stato moderno (che ha portato alla divisione del mondo in stati) è dovuto a tre
passaggi/processi:
La nascita del capitalismo:
F. Braudel nella sua opera “Civiltà materiale, economia e capitalismo” sostiene che il
capitalismo è preceduto dallo sviluppo dell’economia di mercato (si basa su un sistema
regolare e diffuso di scambio, circolazione e distribuzione dei beni) e dell’economia
monetaria (attività economica che si basa sullo scambio tra beni e denaro e non sul baratto
ed ha facilitato l’accumulazione di ricchezza da profitto e dunque la creazione di capitale).
Non è detto che l’economia di mercato e l’economia monetaria portano necessariamente alla
nascita del capitalismo, infatti pur essendosi sviluppati in diverse parti del mondo, il
capitalismo è sorto solo in Europa, e non in stati bensì in piccole e grandi città definite
“avamposti di modernità”).
Secondo J. Hall il capitalismo non è nato in alcune civiltà come quella cinese, islamica e
indiana perché queste hanno sviluppato un “potere di stallo” in cui i differenti tipi di potere
(politico, economico e ideologico) confliggevano tra loro, anziché puntare allo stesso
obiettivo, ostacolando o frenando così i mutamenti sociali es. per quanto la Cina abbia
prodotto una serie di innovazioni in agricoltura, non ha ma avuto un mercato autonomo e
non si è mai misurata con sfide esterne perché il suo sistema politico era debole e mancava
di potere “stato di pietra”.
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- una società stratificata con un certo grado di mobilità sociale che permetta la ricostruzione
(il ricambio) degli strati superiori esistenti e stimoli gli strati più bassi della società;
- lo sviluppo del commercio mondiale per aumentare il profitto.
L’incremento della produttività agricola favorì la crescita della popolazione e poiché i nuovi
metodi agricoli (rivoluzione agricola) richiedevano meno lavoro, si determinò un surplus di
manodopera che poté prestare la propria opera nell’industria; da qui lo sviluppo
dell’industrializzazione, grazie anche alla presenza e lo sfruttamento delle risorse naturali
(ferro, lana, argilla, cotone, carbone e acqua), allo sviluppo di un’economia di mercato e ad
un potenziamento delle infrastrutture (canali, strade, ferrovie, telegrafo, istruzione,
politiche..). L’Inghilterra sotto il profilo materiale, ideologico, e in quanto potenza navale e
commerciale risultò pronta per avviare la rivoluzione, un processo relativamente lungo che
cominciò nel periodo delle scoperte (XV sec.) e della Riforma. Lo sviluppo degli altri Paesi
come l’Italia e la Germania avvenne invece in ritardo.
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Molti stati si formarono in seguito alla prima guerra mondiale e al trattato di Versailles:
tracciare i confini fu in alcuni casi un’impresa ardua poiché alcune minoranze etniche
andarono nella parte sbagliata, per questo sorsero degli stati frutto di un compromesso come
la Cecoslovacchia e la Jugoslavia che col tempo mostrarono la loro fragilità crollando con la
caduta del comunismo.
Il concetto tipicamente europeo dello stato-nazione divenne così il modello per lo stato
moderno; tuttavia la prima nuova nazione fu gli Stati Uniti, dove la creazione di un’identità
nazionale avvenne grazie alla rivoluzione avviata dai coloni per ottenere l’indipendenza.
Con le successive ondate migratorie, gli immigrati dovettero confrontarsi con identità
nazionali costituite per cui dovettero adeguarsi “melting pot” (convivenza/mescolanza di
gruppi etnici).
Molti stati che hanno ottenuto l’indipendenza dopo il 1945 hanno dei confini arbitrari e
furono conseguenza della capacità di ciascuna delle potenze coloniali di imporre la propria
volontà su altre potenze coloniali; di conseguenza molti dei nuovi stati non hanno una
cultura, una lingua e una storia comuni, dunque divisi dal punto di vista etnico. Da qui parte
il processo di costruzione della nazione volto a ristabilire il senso di identità nazionale, così
dov’era possibile fu adottata una lingua, una storia, un’ideologia e una cultura comune (la
più potente ideologia è sempre stato il nazionalismo, ovvero la rivendicazione della propria
esistenza come nazione e l’identificazione degli interessi dello stato con quelli della
nazione).
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Un ruolo chiave nel processo di costruzione di una nazione è giocato dai leader politici che
in quanto rappresentanti della nazione, lottano per l’indipendenza (simbolo del nuovo
nazionalismo).
Es. Gramsci sosteneva che la borghesia manteneva il proprio domino grazie alle concessioni che
faceva alle classi lavoratrici (lo stato fa concessioni alle classi subalterne che consentono di
preservare la posizione della classe dominante); Althusser invece evidenzia la capacità dello stato
borghese di garantire l’accettazione dei suoi valori mediante gli “apparati ideologici di stato”, cioè
mediante il sistema scolastico, la chiesa, i sindacati..
Con il crollo dei regimi comunisti dell’Europa dell’Est e dell’Unione Sovietica dovuto alle
difficoltà economiche e alla perdita da parte del partito comunista del ruolo di dirigenza nella
società e di gestione dello stato, si avviò un processo di cambiamento che portò alla creazione di
una miriade di nuovi stati moderni con nuove strutture amministrative.
6. Conclusioni
Lo stato europeo ha rappresentato il “modello” per lo sviluppo degli stati in tutto il mondo.
Secondo B. Russell, il potere è la capacità di realizzare effetti desiderati; oggi, vista la continua
alleanza tra gli stati, viene purtroppo misurato in termini di capacità/forza militare (un esempio
estremamente chiaro è dato dall’uso che Bismarck fece della forza militare per conseguire
l’unificazione della Germania e per creare l’impero tedesco).
Russell definisce il potere anche come un processo o un’attività (piuttosto che un bene o una
risorsa) e viene di solio misurato prima di essere usato, considerandolo sia come potenziale in
termini di truppe, armi, missili, cingolati, navi, aerei, strategie, tattiche…che come esercizio.
Secondo Weber, “il potere (Macht) designa qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione
sociale, anche di fronte ad un’opposizione, la propria volontà, quale che sia la base di questa
possibilità”. Weber dunque utilizza il potere in termini “potenziali” piuttosto che nelle sue
manifestazioni in atto; per cui respinge l’idea che il potere si basa unicamente sull’uso o sulla
minaccia della forza fisica e insiste sull’esistenza di altri fattori che possono determinare il
prevalere della volontà di un individuo o di un gruppo di individui su quella di un altro
individuo o gruppo di individui.
È perciò importante considerare il potere sia come risorsa che come processo.
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Il potere viene considerato come forza motrice della società e dunque utilizzato per
conseguire determinati obiettivi (egoistici, altruistici, materiali, spiritali); per mantenere lo
status quo; per l’acquisizione di ricchezza, controllo su persone o su territori; per
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Lukes parla invece di “concezione bidimensionale del potere” sostenendo che si ricorre al
potere per trattare interessi reali (cioè conflitti manifesti e osservabili) e interessi potenziali
(cioè i conflitti osservabili ma nascosti/latenti).
Weber più che di potere parla di dominio cioè la possibilità di trovare obbedienza, presso
certe persone, ad un comando che abbia uno specifico contenuto.
Per Marx il potere è nelle mani della classe dominante “i capitalisti” che dominano la
società; si parla a tal fine di imperialismo (sfruttamento delle aree meno sviluppate del
mondo da parte delle società industriali economicamente sviluppate). Nel 1845/46 Marx ed
Engels scrivevano che “le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee
dominanti”.
Gramsci nei suoi scritti dal carcere sosteneva che il dominio borghese sulla società derivava
più dal consenso ottenuto per mezzo delle istituzioni culturali (“apparati ideologici” come li
definisce Althusser: sistema scolastico, sindacati, partiti politici, chiese, famiiglia..), che
dall’uso della forza; inoltre con il termine “egemonia” intendeva il fatto che la classe
dominante era capace di presentare i suoi interessi come gli interessi dell’intera società (ciò
si ricollega alla definizione che Poulantzas dà di potere, ovvero la capacità di una classe
sociale di realizzare i suoi interessi).
Il controllo delle idee, i pregiudizi e l’egemonia possono essere collegati alla teoria della
socializzazione, secondo la quale i valori e le norme di comportamento si trasmettono di
generazione in generazione tramite un processo di apprendimento (sia consapevole che
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Il termine POTERE ha diverse facce: inizialmente è stato concepito come una capacità di
agire o imporre la volontà di qualcuno, ma in seguito è stato inteso come dominio su altri da
parte di un individuo o di un gruppo di individui.
L’esercizio del potere può essere manifesto o occulto, consapevole o inconscio, e oltre ad
ottenere gli effetti voluti, si ottengono anche quelli non intenzionali e non previsti.
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2. Autorità e legittimità
Riguardo a 2 importanti questioni:
- Perché la gente obbedisce?
- Perché dovrebbe obbedire?
I filosofi politici rispondono così:
Rousseau nel “Contratto sociale” sosteneva che “la volontà generale o bene comune può
essere raggiunta solo attraverso una democrazia diretta, con la partecipazione di tutti, e
che le leggi che esprimono la volontà generale devono essere rispettate”.
Rousseau puntava dunque alla realizzazione di piccole città-stato fondate su una
democrazia diretta, dove le leggi sarebbero state attuate da un piccolo gruppo di
individui e, il potere condiviso da tutti.
Hobbes e Locke sostenevano che è nell’interesse degli individui accettare il dominio di
un governo per la propria protezione. La sottomissione ad un governo con poteri
autoritari e assoluti o “LEVIATANO” era l’unico modo per evitare lo stato di cose
caotico, anarchico e di lotta.
Locke inoltre sottolinea che a limitare l’azione del governo (un mezzo che fornisce
protezione all’individuo) è il consenso del popolo: se fallisce in compiti quali: l’ordine,
la protezione, il rispetto dei diritti (civili, di libertà, la proprietà..) ecc, il consenso viene
meno e dunque anche il suo potere. Nella società feudale, infatti, i vassalli offrivano i
propri servigi al signore feudale in cambio di protezione.
Questi filosofi politici, seppur in modo differente, mirano ad evidenziare che l’autorità e
la legittimità di uno stato dipendono dalla volontà e dal CONSENSO dei governati.
Hobbes risponde alla domanda “perché la gente obbedisce?” in questo modo: “lo fa per il
proprio bene!”. È perciò il timore del ritorno ad uno stato di natura e dunque di caos a spingere
la gente all’obbedienza (sottoponendosi ad un potere, intravede altri vantaggi). A tal proposito
D. Hume sottolinea “non c’è altro principio che l’interesse; e se è primariamente l’interesse a
produrre l’obbligo di obbedienza al governo, tale obbligo deve cessare ogni volta viene meno
l’interesse”.
I teorici moderni considerano l’AUTORITÀ come l’accettazione dell’esercizio del potere, sia da
parte di coloro che lo esercitano che di coloro sui quali esso viene esercitato. Vi è una
distinzione tra:
Autorità de facto: quando un individuo o un gruppo di individui accettano che un
potere venga esercitato su di loro ed obbediscono agli ordini o ai comandi di coloro che
detengono quel potere;
Autorità de jure: quando l’esercizio del potere è accettato come giusto e viene
giustificato da coloro nei cui confronti viene esercitato.
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Spesso i termini autorità e legittimità sono usati come sinonimi, ma è più appropriato parlare di
legittimità. Weber nell’analisi su potere legittimo distingue tre tipi di legittimità:
o Di carattere tradizionale: “quando poggia sulla credenza quotidiana nel carattere sacro delle
tradizioni valide da sempre, e nella legittimità di coloro che sono chiamati a rivestire una
autorità” es. la gerontocrazia (governo esercitato dai più anziani) e il potere patriarcale
(basato sull’eredità);
o Di carattere carismatico: “quando poggia sulla dedizione straordinaria al carattere sacro o
alla forza eroica o al valore esemplare di una persona, e degli ordinamenti rivelati o creati da
essa” es. Alessandro Magno, Giulio Cesare, Hitler, Gandhi; Gheddafi;
o Di carattere legale-razionale: “quando poggia sulla credenza nella legalità di ordinamenti
statuiti, e del diritto di comando di coloro che sono chiamati ad esercitare il potere (potere
legale) in base ad essi” es. il moderno stato burocratico.
Weber propone questi 3 principi come idealtipi, tuttavia spesso la legittimità di regimi particolari
deriva dalla combinazione di tutti e tre.
Per capire l’esercizio del potere e le relazioni tra politica e società, il concetto di LEGITTIMITÀ
(ambito in cui sono accettate le norme sociali e politiche in una data società, specialmente quelle
che si riferiscono all’esercizio del potere o al dominio di alcuni individui o gruppi di individui da
parte di altri) è di fondamentale importanza.
I teorici struttural-funzionalisti come Parsons e Almond, e gli esponenti della teoria sistemica come
Easton, considerano la legittimità come essenziale per il mantenimento di un sistema sociale
(modelli, norme e valori condivisi) e politico (Almond considera la socializzazione politica come
una delle tre funzioni di input nel sistema politico).
(Per la maggior parte dei teorici marxisti, la legittimità era considerata parte integrante
dell’ideologia della classe dominante; successivamente fu considerata importante per la
sopravvivenza del sistema capitalistico, che per sfuggire alla crisi economica doveva ricorrere
all’intervento statale. Secondo Poulantzas, il crescente intervento dello stato porta lo stato stesso ad
identificarsi con gli interessi del capitale, minacciando così quella legittimità popolare che esso
pretende di assicurarsi attraverso elezioni periodiche. Per Habermas ciò determina una serie di crisi:
economica, della razionalità, di motivazioni e di legittimazione…
C. Offe sostiene invece che lo stato ha un proprio interesse istituzionale nel salvaguardare le
strutture della società capitalistica, piuttosto che gli interessi della classe dominante, in quanto per
sopravvivere deve essere “strutturalmente selettivo”).
Ciò significa che lo stato cerca di mantenere la sua legittimità attraverso dei compromessi tra le
forze del lavoro organizzato e quelle del capitale monopolistico.
3. Legittimità e obbedienza
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La legittimità risiede nella mente sia di chi esercita il potere sia di chi è sottomesso. Rousseau
sosteneva che: “il più forte non sarebbe mai abbastanza forte per essere sempre il padrone, se non
trasformasse la sua forza in diritto e l’obbedienza in dovere”.
La legittimità spiega perché la gente obbedisce a coloro che sono al potere e rivendicano l’autorità.
D. Held nella tabella qui di seguito spiega perché la gente obbedisce a coloro che rivendicano
l’autorità: dalla percezione/convinzione di non avere possibilità di scelta in quel campo, al
convincimento che è giusto ed appropriato comportarsi in quel modo.
La sottomissione politica e sociale in qualsiasi società è il frutto della miscela di alcune categorie
quali: accordo normativo, accordo ideal-normativo, accettazione strumentale e ambigua.
Held spiega l’obbedienza sociale e politica in questo modo: “l’ordine politico non si consegue
attraverso sistemi di valori, con il rispetto per l’autorità dello stato, la legittimità o con la forza
bruta, ma è il risultato di un complesso intreccio di interdipendenze tra istituzioni politiche,
economiche e sociali ed attività che dividono i centri di potere e che creano molteplici pressioni ad
obbedire. Il potere dello stato è un aspetto centrale ma non l’unico in quanto vi è anche la
socializzazione politica, l’ideologia..”.
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Entrambi gli autori ritengono che l’esistenza dell’élite e il suo dominio sulla società si fondino sulla
sua posizione e sulle sue capacità organizzative; la minoranza organizzata sarà sempre capace di
sopraffare la maggioranza della società che è meno organizzata.
MOSCA: divide l’élite in uno stato superiore (consistente in un piccolo gruppo di soggetti che
prendono le decisioni politiche) e in uno strato inferiore (che svolge funzioni di leadership meno
importanti; questo è più numeroso e costituisce la principale fonte di reclutamento per lo strato
superiore).
Le relazioni tra l’élite e il resto della società si misurano in termini di autorità (tale rapporto può
basarsi sul principio autocratico in cui l’autorità fluisce dall’élite verso le masse o su quello
liberale secondo cui essa fluisce dalle masse verso l’élite) e reclutamento dell’élite (con tendenza
aristocratica secondo cui il movimento è ristretto all’interno dell’élite con spostamenti dallo strato
inferiore a quello superiore; e con la tendenza democratica in cui i movimenti vanno dalle masse
verso l’élite).
Egli era antidemocratico ma in seguito ha cambiato posizione ed ha accettato l’idea che un governo
rappresentativo è il sistema migliore per articolare gli interessi a cui l’élite dovrebbero rispondere,
e per controllare l’autorità autocratica della burocrazia attraverso l’autorità liberale di un’assemblea
rappresentativa.
MICHELS: concentra il suo lavoro sui partiti politici, tuttavia la sua «legge ferrea» dell’oligarchia
ha implicazioni molto vaste; egli ha cercato di comprovare la sua teoria dell’oligarchia (il dominio
21
Per poter funzionare con successo nelle condizioni moderne di un elettorato di massa, il partito
politico ha bisogno di un sostegno di massa per raccogliere fondi, propagandare le proprie politiche
e per vincere le elezioni. Sostenendo che i partiti sono essenzialmente macchine per conquistare e
conservare il potere, l’autore sostiene che per conseguire questo scopo essi devono moderare le
proprie ideologie e le proprie politiche per ottenere un consenso che vada oltre l’ambito dei
militanti di partito. Quindi l’iniziativa sta nelle mani della leadership del partito che, assieme ai
funzionari e alla rappresentanza parlamentare, ha un netto vantaggio organizzativo sui semplici
militanti; tale vantaggio è reso più consistente da un fattore psicologico: l’apatia della maggioranza
della popolazione che è ignorante e non si interessa alla politica, tranne quando questa tocca
direttamente i suoi interessi.
È ovvio che l’autore considera la manipolazione della non-élite da parte dell’élite come il normale
stato delle cose che si verifica in una società.
Come MOSCA, Pareto sostiene che l’élite è composta da 2 distinte parti: l’élite di governo (sono
quelle che influenzano direttamente o indirettamente le decisioni politiche) e l’élite non di governo
(che detengono posizioni di leadership nella società, ma non influenzano le decisioni politiche).
L’autore rifiuta l’idea marxista secondo la quale il gruppo dominante nella società è il risultato delle
forze economiche o sociali, e sostiene che l’élite ha origine dagli attributi umani, dalle capacità
individuali e dagli istinti; gli individui non agiscono secondo logica, ma cercano di giustificare le
proprie azioni in modo logico attraverso ideologie o valori, quest’ultimi producono istinti o stati
della mente che l’autore chiama residui e sono di 2 tipi: istinti di combinazione (comprendono
l’uso delle idee e l’immaginazione; chi agisce sulla solo base è detto VOLPE) e persistenza degli
aggregati (con cui si pone l’accento su continuità, stabilità e ordine; chi agisce sulla loro base è
detto LEONE) (per l’autore l’élite ideale è una combinazione di volpi e leoni).
L’élite ideale composta da volpi e leoni si concretizza raramente e l’equilibrio tra i 2 tipi cambia
continuamente e si verifica la circolazione delle élite; il reclutamento o la rigenerazione possono
avvenire per evoluzione o rivoluzione, ma comunque la caduta dell’élite può essere determinata da
fattori intrinseci: le volpi divengono troppo manipolatrici o scendono a compromessi troppo spesso;
i leoni diventano troppo accentratori e spesso manifestano una durezza inaccettabile.
22
L’autore non condivide che vi siano fini comuni e coerenti tra l’élite, poiché gli individui agiscono
in quanto individui e per ciò non sono in grado di prevedere le conseguenze né delle proprie azioni
né di quelle degli altri.
L’autore condivide con Marx l’idea che il potere risiede nelle mani di coloro che controllano i
mezzi di produzione e sostiene che (mentre durante la Rivoluzione Industriale essi erano i
capitalisti) nelle società industriali avanzate tale controllo è passato a coloro che hanno competenze
manageriali e tecniche (compresi i dirigenti della burocrazia, che costituiscono la nuova élite); lo
stato viene subordinato alle esigenze dell’élite manageriale e le società industriali divengono
sempre più centralizzate e soggette al controllo burocratico.
Sostiene che l’élite americana è radicata nelle strutture della società e che il potere è dunque
istituzionalizzato; gli Stati Uniti sono dominati da un complesso industriale-politico-militare di élite
che in parte si sovrappongono, con spostamenti da un’élite all’altra.
L’élite può basarsi su una cospirazione consapevole o su valori condivisi, ma il suo potere deriva
dalla sua posizione, piuttosto che da attributi come statua, ricchezza, classe sociale o capacità.
BOX “Mills a confronto con Pareto e Mosca” . . . a differenza di Pareto, Mills ritiene che la
composizione di un’élite non può essere definita in termini di successo o di capacità dei suoi
membri, ma deve essere analizzata nel contesto della struttura economica e sociale; le posizioni di
potere sono legate (no alle qualità degli individui ma) ai ruoli che essi svolgono nelle grandi
istituzioni in cui si articola la società.
Il POTERE è istituzionalizzato e certe istituzioni occupano (per la loro elevata burocratizzazione e
per il grado di accentramento decisionale) posizioni strategiche nella struttura sociale.
L’ÉLITE è unificata e costituisce un raggruppamento coerente e coloro che ne fanno parte formano
un’entità psicologica e sociale compatta; tale unitarietà dipende da 3 ordini di fattori: permeabilità
sociale dei suoi membri; rapporti reciproci e punti d’interesse comuni; coordinazione esplicita. Ciò
non significa che l’élite del potere sia monolitica e stabile, poiché i membri non solo non
costituiscono un gruppo permanente dai confini fissi, ma sono sottoposti a un’intensa circolazione,
la quale risulta attenuata . . . sia dall’omogeneità sociale dei requisiti necessari per essere selezionati
ed occupare le posizioni di vertice; sia dall’interscambiabilità realizzata mediante cooptazione (che
si verifica tra i titolari delle gerarchie istituzionali).
23
Quali persone vengono scelte per occupare determinate posizioni nella società?
Il tentativo più forte di confutare le teorie elitiste risiede nell’approccio decisionale di Dahl (uno dei
maggiori sostenitori della teoria pluralista).
DAHL ha cercato di confutare le teorie elitiste affermando che, affinché l’élite esista devono
verificarsi 3 condizioni:
o L’élite è un gruppo ben definito;
o In molti casi si determinano situazioni politiche in cui le preferenze dell’élite di governo sono
contrarie a quelle che qualsiasi altro gruppo può suggerire;
Nell’opera “chi detiene il potere?” (1961), in cui si indagano i processi decisionali nella città di
New Haven, l’autore esamina specifiche questioni in 3 ambiti politici:
o Riassetto urbano,
o Istruzione pubblica,
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Il punto di vista pluralista ha avuto origine dal concetto di gruppo di pressione o di interesse
(un’organizzazione che cerca di influenzare le decisioni politiche che riguardano le proprie
posizioni o i propri interessi); secondo la teoria dei gruppi d’interesse la società è composta da una
grande varietà di interessi, molti dei quali si organizzano per fare pressioni sul governo affinché
risponda alle loro richieste.
I pluralisti sostengono che quando un interesse esiste, organizza una sua propria rappresentanza
(essendo l’unico modo per far sentire la propria presenza)
Le posizioni pluraliste si sono adattate alla «tesi della fine delle ideologie», cioè l’idea che nelle
società liberal-democratiche esiste un accordo di base sulle mete e il disaccordo verte sui mezzi per
realizzarle.
Il PLURALISMO è la principale sfida non marxista ai teorici elitisti.
La critica mossa a Dahl è che il suo studio tratta di casi atipici, poiché non ci sono motivi per
dubitare dei risultati, ma essi non sono validi per altre città e neanche per la politica americana in
genere (il governo locale americano non è uniforme ma in esso operano sistemi diversi da stato a
stato).
2° dimensione: Bachrach e Baratz affermano che il pluralismo si preoccupa solo delle decisioni
osservabili, cioè istanze che di fatto sono nell’agenda politica, ignorando quelle che ne sono tenute
fuori.
3° dimensione: Lukes sostiene l’esistenza del conflitto latente che deriva dagli interessi reali dei
membri della società; tale tesi fa riferimento al concetto marxista di ideologia come falsa
coscienza, secondo cui gli individui sono ignari dei propri interessi reali poiché i valori sociali
prevalenti li portano a fraintendere la realtà (perciò le percezioni degli individui influenzano il loro
comportamento politico, inducendoli all’inerzia invece che all’azione).
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4..Il Totalitarismo
FENOMENOLOGICA
L’autore mette in evidenza il grado in cui la società è penetrata e controllata da coloro che
detengono il potere politico;
ESSENZIALISTA
HANNAH HARENDT afferma che “il terrore è l’essenza del regime totalitario”.
Tale tipo di definizione cerca di isolare le essenze/attributi chiave che spiegano il tipo di
caratteristiche delineate da Friedrich;
Entrambi i tipi di definizione sottolineano i rapporti tra politica e società, quindi una definizione
appropriata potrebbe essere . . un sistema sociale che implica il controllo politico e l’intervento
in tutti gli aspetti della vita pubblica e privata.
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Origine STORICO-SOCIALE
oLa rapida concessione del diritto di voto alle masse in assenza di un’adeguata cultura politica
liberale, che le ha lasciate in balia di manipolazioni da parte di leader demagogici;
oLa creazione di un movimento di massa nella forma del Partito nazionalsocialista con cui gli
individui potevano identificarsi;
oUna popolazione numerosa contro cui esistevano considerevoli pregiudizi e che poteva fungere da
capro espiatorio per i mali della società.
Spiegazione IDEOLOGICA
TALMON fa risalire il totalitarismo: alle credenze messianiche del 18° sec.; al concetto
rousseauiano della volontà generale; alle idee giacobine della Francia rivoluzionaria (tutte basate
sulla convinzione che ci sia una sola ed esclusiva verità in politica).
Base PSICOLOGICA
Molti psicologi sostengono che alcuni individui mostrano particolari tendenze psicologiche
(aggressività, intolleranza verso gruppi sociali diversi, …) che li attraggono verso organizzazioni
fortemente disciplinate la quali (in particolari condizioni sociali) possono arrivare ad impadronirsi
del potere politico.
oLa più conosciuta di tali teorie è quella proposta da ADORNO in “La personalità autoritaria” in cui
si cerca di misurare vari aspetti della personalità che rendono inclini gli individui a prendere ordini,
ad essere intolleranti nei confronti delle opposizioni e ad avere una visione gerarchizzata del
mondo.
L’autore, con i suoi collaboratori, hanno elaborato alcune scale, delle quali la più famosa è la scala
F, la quale sostiene che gli individui alienati dal mondo moderno cercano rifugio in società
autoritarie o gerarchizzate.
La maggior parte delle ricerche sul totalitarismo è stata condotta alla fine degli anni 40 e inizi degli
anni 50.
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Gli studi sulla personalità autoritaria sono stati orientati all’esperienza nazista, per spiegare come
Hitler abbia potuto soggiogare il popolo tedesco (assicurandosi la sua obbedienza incondizionata) e
persuadere un rilevante numero di persone a compiere ciò che altri avrebbero definito atrocità.
Il ruolo del leader è stato cruciale insieme all’uso del potere.
È consuetudine definire come totalitari l’Italia fascista e la Germania nazista, poiché caratterizzati
da un’unica ideologia che si proclama onnipervasiva nella sua applicazione.
Ciascuno di questi paesi è stato dominato da un partito unico (portatore dell’ideologia ufficiale) in
cui lo stato è soggetto al suo controllo.
L’uso del terrore, l’incitamento alla delazione, la creazione di uno stato di paura e sospetto erano
caratteristiche comuni a tali società;
i poteri di polizia erano enormi cosicché nessuno si sentiva al sicuro e la giustizia era concepita
come lealtà all’ideologia, al partito e all’leader;
il controllo dei mezzi di comunicazione era determinante: l’indottrinamento avveniva attraverso il
sistema scolastico e la diffusione dell’informazione era rigidamente controllata.
Il termine totalitario implica uno stato di cose assoluto; esso si sofferma sul ruolo dell’ideologia e
dei valori; dovrebbe essere riconosciuto il fatto che tutte le società sono pervase da gruppi definiti di
valori, ma che la caratteristica peculiare delle società totalitarie è che non sono permessi conflitti tra
gruppi di valori rivali o alternativi.
5.L’autoritarismo
L’autore definisce le caratteristiche dei regimi autoritari individuandone 6 differenti tipi ...
oRegimi autoritari burocratico-militari: sono la tipologia più diffusa (maggior parte dei paesi
dell’America latina);
oRegimi a statalismo organico: sono una variante del 1° tipo, prevedono un maggior grado di
controllo della partecipazione e mobilitazione della società attraverso strutture organiche, di
carattere cooperativo;
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oRegimi autoritari di mobilitazione dopo l’indipendenza: tipici dei paesi in lotta per
l’indipendenza dal dominio coloniale;
oRegimi autoritari post-totalitari: paesi ex comunisti nei quali alcune strutture totalitarie
rimangono parzialmente in vita dopo la caduta delle vecchie oligarchie di potere.
Tali tipologie permettono di classificare le caratteristiche della distribuzione del potere nelle società
contemporanee, visto che gli stati democratici non costituiscono ancor ala maggioranza rispetto aa
quelli autoritari o totalitari.
6.La democrazia
Con l’eccezione di pochi casi (come Italia fascista e Germania nazista) tutti i regimi moderni si
proclamano democratici.
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È opinione diffusa che i diritti (compresi quelli di voto e di libertà di parola e d’associazione) sono
poco utili se ci sono individui che vivono in condizioni di diseguaglianza socio-economica; tali
individui hanno poco interesse per i loro diritti e sono più interessati ai loro bisogni materiali.
Lipset ha insistito sull’esistenza di una relazione causale tra sviluppo economico e democrazia ed
(utilizzando come indicatori i livelli di reddito, industrializzazione, urbanizzazione, istruzione) ha
dimostrato che i regimi democratici si sono sviluppati ed alimentati in quelle società che hanno
soddisfatto i bisogni materiali dei membri
7.Rassegna sulla distribuzione del potere
Solo le teorie elitiste (mostrano disprezzo per la democrazia ma alcuni la considerano un mezzo per
ringiovanire l’élite e responsabilizzare circa i bisogni della non-élite ) e marxiste (disprezzano la
democrazia, in particolare quella “borghese”) descrivono e spiegano la distribuzione del potere, il
totalitarismo (riconosce che lo stato sviluppa i propri interessi) e la democrazia (ideale del
centralismo democratico di Lenin, basato sul principio “libertà di discussione, unità d’azione”: il
partito ha deciso una linea d’azione politica e tutti i membri devono operare per realizzarla)
descrivono e spiegano solo specifiche società;
Kornhauser tenta di collegare tali 4 punti di vista elaborando 4 idealtipi di società (ognuno dei
quali dipende da rapporti tra élite e non-élite); egli afferma che la forma di una società è
caratterizzata da 2 elementi: grado di accessibilità dell’élite (disponibilità ad essere influenzate
dalle idee delle non-élite) e il grado in cui le non-élite sono disponibili ad essere manipolate
dall’élite; ne derivano 4 tipi di società . . .
oComunale: società tradizionale con una élite chiusa e non-élite molto vicine, legate da rapporti di
parentela e comunità, quindi non disposte ad essere manipolate;
oPluralista: élite concorrenti (aperte ad idee e influenza) e non-élite con interessi differenti e non
disponibili ad essere manipolate;
oTotalitaria: élite non aperta alle idee e all’influenza da parte delle non-élite;
oDi massa: mancanza di legami comunitari che consente all’élite di manipolare le non-élite e
viceversa.
Tale analisi permette di osservare la distribuzione del potere in diverse condizioni; l’autore sostiene
che la maggior parte delle società mostra una mescolanza di 2 o più idealtipi.
30
White definisce la socializzazione come un lungo e complicato processo per imparare a vivere nella
società, definizione che cela una contrapposizione tra 2 concezioni della socializzazione: 1 secondo
la quale si tratta di un processo deterministico, 2 che pone l’accento sui suoi aspetti di adattamento;
il punto di vista deterministico è stato criticato per 2 motivi: 1 è ovvio che gli individui non sono
cloni dei loro genitori o insegnanti e hanno capacità di innovazione e cambiamento in misura
variabile, 2 la socializzazione può essere un fattore importante per spiegare la persistenza delle
società, ma per queste possono cambiare e di fatto mutano per motivi endogeni ed esogeni.
La socializzazione è considerata un fattore importante per determinare la conoscenza, i valori e gli
atteggiamenti degli individui, e di conseguenza il loro comportamento.
La conoscenza è definita essenzialmente come informazione fattuale sulla società, sugli individui e
sui gruppi, e sul mondo che ci circonda. Non sempre si tratta di informazioni corrette, poiché gli
individui possono essere male informati e considerare le conoscenze di cui dispongono come vere.
I valori sono definiti come opinioni di fondo sulla natura della società, sugli individui e i gruppi e il
mondo; si tratta di credenze morali, religiose, sociali o politiche che servono a caratterizzare e
consolidare gli atteggiamenti e le opinioni degli individui su altri individui, su questioni e problemi
specifici, e sugli eventi.
Quindi la socializzazione deve essere considerata come dinamica e non statica, un processo che
persiste per tutta la vita . . .
Variabile 1) la personalità individuale, oggetto di molte discussioni circa il fatto se essa sia il
prodotto di tratti ereditari o influenze ambientali (NATURA vs EDUCAZIONE);
Variabile 2) l’esperienza individuale, che può rafforzare saperi, valori ed atteggiamenti
preesistenti, oppure modificarli.
La politica, in tutte le società, è un’attività che coinvolge una minoranza della popolazione, e gli
individui più attivi (titolari di cariche politiche, amministrative, …) sono un numero esiguo.
5. LA SOCIALIZZAZIONE POLITICA
Cap. 5: La socializzazione politica
1. Introduzione
La socializzazione politica è il processo attraverso il quale gli individui in una data società
familiarizzano il sistema politico e che determina la loro percezione della politica e le loro
reazioni ai fenomeni politici.
HERBERT HYMAN è stato il 1° politologo ad analizzare la socializzazione politica; egli si
è basato su lavori condotti da antropologi e psicologi, da cui emergono 2 tipi di definizioni:
o1 (limitata) consiste nell’operazione tramite la quale agenti politici istituzionali formalmente
incaricati a tal fine inculcano in maniera deliberata valori, pratiche ed informazioni politiche
((tale definizione è ben illustrata dai tentativi delle società totalitarie di inculcare particolari
valori attraverso il sistema scolastico));
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o2 (ampia) consiste in tutto il sapere politico, formale ed informale, compreso non solo il
sapere esplicitamente politico ma anche quello formalmente non politico con caratteristiche
politiche rilevanti ((Tale definizione effettua una distinzione tra socializzazione
consapevole-deliberata e socializzazione inconscia-ambientale)).
Tale concetto (2° definizione) si avvicina molto a quello di cultura politica, definito da Adorno
eVerba in “The Civic Culture” come il sistema politico così com’è stato interiorizzato nelle
cognizioni, nei sentimenti e nelle valutazioni della popolazione; e successivamente da Adorno e
Powell come il tipo di atteggiamenti e orientamenti nei confronti della politica dei membri di un
sistema politico.
In “The Civic Culture” gli autori hanno individuato 3 tipi di cultura politica:
oParrocchiale: caratterizzata da una bassa consapevolezza e basse aspettative nei confronti del
governo, da uno scarso livello di partecipazione politica;
oDi sudditanza: livelli più elevati di consapevolezza e di aspettative, ma un basso livello di
partecipazione;
oDi partecipazione: elevati livelli di consapevolezza, aspettative e partecipazione.
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Gli individui acquisiscono diversi livelli di conoscenze sulla politica; tali conoscenze
costituiscono la base di valori sui fenomeni e sulle idee politiche e al contempo sono uno
strumento per la loro interpretazione, inoltre costituiscono una base per atteggiamenti ed
opinioni.
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Sarebbe sbagliato non ammettere che la socializzazione prosegue anche nell’età adulta ed
opera durante tutto il corso della vita;è probabile che questa socializzazione in buona parte
consolidi le esperienze precedenti e non cambi radicalmente i valori e gli atteggiamenti
acquisiti in precedenza, ma non per questo è meno importante.
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Molte ricerche sulla socializzazione (in generale e politica) sono state dedicate al periodo
dell’infanzia, sottolineando il ruolo della famiglia e della scuola come agenti di
socializzazione, ma si sostiene l’esistenza di altri agenti importanti: gruppo di pari e di
lavoro, religioso,…
Se i parametri fondamentali del comportamento sono stati elaborati durante l’infanzia e in
misura minore durante l’adolescenza,allora la famiglia e la scuola sono stati i più importanti
agenti di socializzazione nella maggior parte delle società moderne.
La questione della persistenza sociale è importante per la teoria della socializzazione, visto
che si può ritenere che un fattore che spiega la capacità di un sistema politico di
sopravvivere tramite la sua diffusa accettazione nella società e di acquisire e mantenere la
legittimità, consiste nel trasferimento di conoscenze, valori ed atteggiamenti da una
generazione ad un’altra. C’è il pericolo di considerare il legame tra socializzazione politica
e legittimità in termini deterministici, senza spiegare il mutamento sociale; una risposta
consiste nel considerare i cambiamenti di fondo in una società come il risultato di una crisi
della socializzazione politica,che può essere realistica in alcune società (soprattutto in
quelle totalitarie).
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Affermando che la socializzazione è un processo che dura tutta la vita e che la personalità e
l’esperienza ne sono variabili chiave, è possibile affermare anche che la socializzazione
politica può avere un ruolo importante nella trasformazione della società così come nella
sua conservazione.
Se lo scarto tra il processo di socializzazione e la realtà non viene mai superato o diventa
troppo grande, il sistema politico viene sottoposto a crescenti tensioni ed è probabile che si
avvii al collasso o è comunque destinato a subire profonde trasformazioni.
Un’importante critica della socializzazione politica è che la maggior parte delle ricerche si è
basata sull’esperienza americana e quindi è etnocentrica; tale critica conduce ad un’altra più
importante . . . dal momento che gran parte dell’esperienza americana è caratterizzata da una
vasta omogeneità, non c’è spazio sufficiente perché possa nascere una socializzazione politica
variabile o frammentata che produca una cultura politica conflittuale e non omogenea (quindi
essa presenta difficoltà nel mettere in relazione la socializzazione politica con il cambiamento
sociale).
Una critica più severa è quella di David Marsh secondo cui la maggior parte delle ricerche
sulla socializzazione politica si è concentrata sul processo piuttosto che sul risultato; l’autore
sostiene che si tende a dare per scontato che i valori e gli atteggiamenti degli adulti sono per
lo più il prodotto della socializzazione infantile e che le opinioni individuali hanno un impatto
collettivo sulla politica (sostiene che poco peso è dato ai fattori personali o situazionali
presenti in quel momento).
Ciò che serve è una teoria della socializzazione politica che si riferisca anche ad altri aspetti
del comportamento politico: partecipazione e reclutamento.
6. LA PARTECIPAZIONE POLITICA
1. Introduzione
La partecipazione politica è il coinvolgimento dell’individuo nel sistema politico a vari livelli di
attività, dal disinteresse totale alla titolarità di una carica politica. Essa è collegata alla
socializzazione politica, ma non come una sua estensione o un suo prodotto, ed è rilevante per
alcune importanti teorie della sociologia politica.
Secondo la teoria elitista la partecipazione politica che ha realmente significato è limitata all’élite,
mentre le masse sono inattive o manipolate dall’élite.
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Per i pluralisti, invece, la partecipazione politica è la chiave del comportamento politico in quanto
costituisce un fattore fondamentale per spiegare la distribuzione del potere e i processi decisionali.
La partecipazione politica è fondamentale anche per la teoria marxista: la coscienza di classe spinge
all’azione in forma rivoluzionaria, mentre i neo-marxisti, spiegano la sopravvivenza del capitalismo
con la sua capacità di controllare la partecipazione tramite l’egemonia.
La teoria leninista, pone l’accento sul ruolo di partecipazione del Partito comunista come
“avanguardia del proletariato”.
A meno che non venga definita come sinonimo di democrazia, la partecipazione politica è un
fenomeno universale, non nel senso che tutti gli uomini si impegnano nell’attività politica, ma nel
senso che si riscontra in tutte le società. Parry (1969) sostiene che è necessario esaminare tre
aspetti della partecipazione politica: il modo di partecipazione, l’intensità e la qualità.
Per modo di partecipazione egli intende l’aspetto, sia formale che informale, che essa assume, e
sostiene che il mondo varia in relazione alle opportunità, ai livelli di interesse, all’ammontare di
risorse a disposizione dell’individuo e ai principali atteggiamenti nei confronti della partecipazione
in ogni società. Con il termine intensità si cerca di misurare quanti individui partecipano a
particolari attività politiche e quanto spesso lo fanno; anche l’intensità varia in relazione ad
opportunità e risorse. Per qualità si intende il grado di efficacia conseguito dalla partecipazione,
cioè il suo impatto su coloro che detengono il potere e sulla formulazione delle politiche. Anch’essa
varia da società a società, secondo opportunità e risorse.
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inclusi i titolari di cariche politiche e membri della burocrazia. Questi soggetti sono caratterizzati
dall’esercizio di un potere politico formale, ciò non implica che altri individui o gruppi non
esercitino di fatto il potere; esso può anche non risiedere tra i titolari delle cariche, ma restano
comunque importanti perché ne sono di norma i depositari formali.
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o quote di iscrizione. Attraverso l’adesione esiste un coinvolgimento che può avere un significato
politico, sia per l’organizzazione che per l’individuo, rafforzando la posizione contrattuale della
prima e influenzando il comportamento politico del secondo.
Sono molte le ragioni per la quale gli individui non fanno parte di organizzazioni politiche o semi-
politiche, ma possono essere convinti a partecipare in modo spontaneo o attraverso una
partecipazione organizzata dai partiti politici o dai gruppi di pressione come espressione della
propria attività politica. Tali attività sono saltuarie e non hanno la natura continua e di impegno che
può dare una iscrizione ad un partito o ad un gruppo pressione. Un’altra forma saltuaria di
partecipazione politica consiste nelle discussioni politiche informali che si tengono in famiglia o tra
amici che hanno luogo durante le campagne elettorali o nei momenti di crisi politica. C’è gente che
non discute mai di politica ma che può avere un certo interesse per argomenti politici e coltivarlo
attraverso i mass media. La votazione può essere considerata come la forma meno attiva di
partecipazione politica, in quanto richiede un impegno minimo. Nel considerare la partecipazione
politica, bisogna tener conto anche di coloro che non partecipano per niente, prestando attenzione
nel vedere se questo atteggiamento deriva da una scelta precisa o da fattori al di là del controllo
individuale. Due questioni sono state escluse dalla gerarchia della figura 6.1 e cioè: l’alienazione e
la violenza. La prima può sfociare sia in partecipazione che in non partecipazione: un individuo che
prova ostilità nei confronti della società o del sistema politico può rifiutare ogni tipo di
partecipazione e lasciarsi andare ad una totale apatia, oppure può partecipare attivamente a vari
livelli. La seconda può manifestarsi a vari livelli nella scala gerarchica, in forma di dimostrazioni o
moti violenti, ma anche attraverso organizzazioni politiche o semi-politiche che considerano la
violenza come mezzo efficace per raggiungere i propri scopi.
QUADRO 6.1
I PARTITI POLITICI
I partiti sono stati considerati a lungo come gli attori fondamentali delle democrazie rappresentative.
Partito: Weber: i partiti si caratterizzano per essere formalmente organizzati, basati su una
partecipazione volontaria, e orientati ad influenzare il potere. Essi sono “associazioni fondate su
un’adesione libera, costituite al fine di attribuire ai propri capi una posizione di potenza all’interno
di un gruppo sociale e ai propri militanti attivi possibilità (ideali o materiali) per il perseguimento di
fini oggettivi o per il perseguimento di vantaggi personali.
Due principali approcci: un approccio razionale, che ha visto il rapporto tra elettori e partiti in
analogia al mercato economico; un approccio identitario, che ha sottolineato invece il ruolo dei
partiti nella costruzione di identità collettive.
Le strutture e le funzioni dei partiti si sono andate trasformando in funzione dei mutamenti
intervenuti nella politica e nella società. Pur trasformandosi i partiti hanno comunque mantenuto le
caratteristiche ideologiche che avevano alle loro origini.
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Si sono spesso distinte le caratteristiche dei partiti contemporanei a partire dalla loro base sociale e
ideologia. A come sono nati questi partiti e al perché alcuni tipi sono presenti in alcuni paesi e non
in altri rispondono le analisi che guardano alla evoluzione di alcuni conflitti o fratture (clavages)
sociali in ciascun paese.
Le quattro fratture fondamentali
I partiti politici presenti nei diversi paesi riflettono fratture sociali storicamente presenti in essi.
Due fratture si sono sviluppate durante il processo di costruzione dello stato nazionale (Rivoluzione
nazionale) e sono: il conflitto tra la cultura centrale della costruzione della nazione e la crescente
resistenza delle popolazioni sottomesse nelle provincie nelle periferie; il conflitto tra lo stato-
nazione centralizzante e i privilegi corporativi storicamente consolidatisi della chiesa.
Altre due fratture si sviluppate durante il processo di costruzione del capitalismo industriale
(Rivoluzione industriale) e sono: il conflitto tra gli interessi agrari e la classe nascente degli
imprenditori industriali; il conflitto tra proprietari e datori di lavoro da un lato e affittuari, braccianti
e operai dall’altro.
La prima frattura si sviluppa quindi tra centro e periferia, e si riferisce ai conflitti tra un centro
politico, culturale ed economico, ed aree periferiche, che vengono a poco a poco incorporate nel
governo centrale. In questo conflitto si esprime l’opposizione all’accentramento territoriale del
potere politico, economico e culturale simbolizzato attraverso l’affermazione di un’unica lingua
ufficiale.
Una dinamica simile assume la seconda frattura, quella tra Stato e Chiesa. La costruzione dello
Stato-nazione passò infatti attraverso un aspro scontro tra la Chiesa di Roma in campi delicati.
Anche se il conflitto ebbe anche una dimensione economica, che riguardavano lo status delle
proprietà della chiesa e il finanziamento delle attività religiose, il nodo centrale fu comunque il
controllo della morale e delle norme della comunità. Il conflitto più acceso riguardò il controllo
dell’istruzione. Infatti, la chiesa, sia cattolico romana sia luterana, aveva proclamato il suo diritto di
rappresentare la condizione spirituale dell’uomo e di controllare l’educazione dei bambini nella fede
religiosa. Con la formazione dello stato-nazione, il potere temporale cominciò ad avocare a sé
questo diritto.
La terza frattura emerse, a seguito della Rivoluzione industriale, tra città e campagna. Mentre il
potere politico si spostava nelle città, la rivoluzione industriale creava interessi contrastanti con
quelli del mondo agricolo. In particolare, sul tema delle barriere doganali e dei prezzi dei prodotti
agricoli si generarono conflitti che a volte sfociarono nella creazione di specifici partiti a difesa
degli interessi delle campagne. Solitamente, in Europa gli interessi contrastanti tra aree urbane e
rurali si esprimevano, sin dal Medioevo, nella rappresentanza separata per stati o ceti dei parlamenti
pre-moderni. Con la Rivoluzione questi contrasti si approfondirono, dando luogo a schieramenti
urbano-agrari espressi nei parlamenti dai conflitti tra partiti conservatori-agrari e partiti liberali-
radicali.
La quarta frattura riguarda un conflitto all’interno al mondo dell’industria ed è quella tra
imprenditori industriali e classe operaia (capitalisti e salariati). In tutte le democrazie europee, i
lavoratori cercarono di superare il loro svantaggio nel mercato del lavoro fondando partiti che
chiedevano maggiore uguaglianza. Proprio attorno al tema dell’intervento dello stato per ridurre le
disuguaglianze sociali si è articolato il principale asse di conflitto tra i partiti: l’asse destra-sinistra,
dove la destra si caratterizza per una richiesta di minore intervento dello stato e minore tassazione e
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la sinistra per domande di maggior intervento dello stato in tema di servizi sociali e miglioramento
delle condizioni di lavoro. In tutti i paesi europei, infatti, le prime fasi dell’industrializzazione
videro nascere partiti della classe operaia. L’evoluzione di questi partiti venne comunque
influenzata dalle reazioni dell’élite verso le rivendicazioni operaie. Una tendenza delle classi
dirigenti ad integrare le domande della classe operaia portò a partiti di sinistra più pragmatici e
moderati; viceversa, un atteggiamenti repressivo portò nella sinistra a una prevalenza delle
ideologie più radicali.
dei neri di un’azione politica per ottenere un’uguaglianza sociale e politica si sono accentuate sotto
la leadership di Martin Luther King, anche con violente proteste ma la partecipazione politica dei
neri si è in generale intensificata. Analogamente, la crescita della popolazione asiatica e nera in
Gran Bretagna (dagli anni ’50) ha portato a una maggiore attività politica in alcune zone del paese.
Il quadro che emerge negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, mostra livelli di partecipazione
generalmente più bassi nelle popolazioni di colore, se comparati con quelli dei bianchi; ma si
registrano anche una partecipazione e un crescente numero di attivisti politici tra le popolazioni di
colore.
QUADRO 6.3
LA RAPPRESENTANZA FEMMINILE
Negli ultimi anni si è cercato di colmare il gap tra uomini e donne nei ruoli della politica. Alcuni
paesi hanno istituito norme volte a favorire la rappresentanza femminile riservando alle donne una
quota di posti nelle liste elettorali. In Spagna dopo le elezioni del 2004, metà dei ministri del
governo socialista Zapatero sono donne. Le democrazie nord-europee presentano storicamente un
livello maggiore di presenza femminile nei loro parlamenti.
QUADRO 6.4
I MOVIMENTI SOCIALI
Il concetto di movimento sociale si riferisce alla presenza di reti di interazioni prevalentemente
informali, basate su credenze condivise e solidarietà, che si mobilitano su tematiche conflittuali
attraverso un uso frequente di varie forme di protesta. I movimenti sociali globali dovrebbero
dunque essere attori organizzati attorno a reticoli estesi al di là dello stato nazionale, dotati di
identità globali, che definiscono le loro cause come sovranazionali, organizzando campagne di
proteste che coinvolgono più stati. Caratteristica fondamentale di un movimento sociale è
l’elaborazione di una comune interpretazione della realtà, capace di nutrire solidarietà e
identificazioni collettive. Uscendo dalla routine, i movimenti elaborano nuove visioni del mondo e
sistemi di valori alternativi rispetto a quelli dominanti. I valori emergenti sono alla base della
definizione dei conflitti attorno ai quali gli attori si mobilitano. Se le analisi marxiane avevano
sostenuto la centralità della lotta tra capitale e lavoro, le trasformazioni del secondo dopoguerra
hanno invece accresciuto la rilevanza di criteri di stratificazione sociale non fondati sulla
collocazione di classe. Nelle società contemporanee i nuovi movimenti sociali tenterebbero di
opporsi alla penetrazione dello stato e del mercato nella vita quotidiana, rivendicando il diritto di
realizzare la propria vita privata e affettiva contro la manipolazione del sistema. Differenza di
genere, difesa dell’ambiente naturale, convivenza tra le diverse culture sono alcuni dei temi attorno
ai quali si sono costituiti, di recente, i movimenti sociali. La creazione di un movimento globale
comporta l’elaborazione di un discorso che individui a livello sovranazionale sia l’identità comune
(il noi), che il bersaglio della protesta (l’altro). L’eterogeneità sociale, generazionale, ideologica, è
secondo alcuni un nuovo elemento di forza della mobilitazione, capace di mettere in rete identità
differenti, secondo altri un segno di frammentazione, indizio di debolezza. I movimenti sociali si
42
caratterizzano, inoltre, per adottare forme “inusuali” di partecipazione politica; infatti, a differenza
degli altri attori politici, utilizzano la protesta per fare pressione sulle istituzioni. Se con la
creazione dello stato nazionale, le azioni di protesta si sono concentrate su quel livello, ci si può
aspettare che la globalizzazione produca protesta organizzata a livello transnazionale contro attori
internazionali. Infine, i movimenti sociali sono reti di relazioni informali tra una pluralità di
individui e gruppi. Se i partiti e i gruppi di pressione hanno confini organizzativi abbastanza precisi
(attraverso la tessera di appartenenza ed iscrizione), i movimenti sociali sono invece composti da
reticoli dispersi. Sebbene esistano organizzazioni che fanno riferimento ai movimenti, essi non sono
organizzazioni, ma piuttosto reti di relazioni tra attori diversi. Un tratto peculiare dei movimenti è
infatti il poterne far parte senza dover aderire a una specifica organizzazione. Un movimento
globale dovrebbe coinvolgere reticoli organizzativi di diversi paesi, infatti il termine
“transnazionale” sottolinea la presenza di attori sovranazionali diversi dai governi nazionali. La
globalizzazione ha accentuato il potere id alcuni di questi attori, ma ha anche facilitato l’emergere
di una “società civile globale”. Il numero di organizzazioni transnazionali collegate ai movimenti
sociali sarebbe cresciuto da 110 nel 1963 a 631 nel 1993. Per quanto riguarda la misura in cui questi
attori sono stati capaci di mettersi in rete, c’è chi la vede come una scelta vincente di adattamento
alla società globale, chi, invece, come segno di una incapacità di dotarsi di strutture durature.
43
l’attivismo e che i valori hanno un ruolo anche più importante. Essi hanno previsto una crescita dei
livelli di partecipazione dovuta alla diffusione delle capacità legate ai livelli di istruzione e della
crescente tendenza ad usare metodi meno convenzionali per influenzare coloro che detengono il
potere politico. Una tendenza a usare questi nuovi metodi è manifestata sotto forma di quelli che
sono stati chiamati “nuovi movimenti sociali”. Una sorta di gruppi di pressione o di interesse che
esprimono impegni differenti e operano in modo diverso da quelli associati ai gruppi di pressione.
Offe, identifica quattro criteri per distinguere i nuovi movimenti sociali: istanze, valori, modi di
azione e attori.
Per quanto riguarda le istanze, i nuovi movimenti sociali sono coinvolti in questioni come il corpo,
la salute e l’identità sessuale; il quartiere, la città e l’ambiente fisico; le tradizioni e l’identità
culturali, etniche, nazionali e linguistiche; le condizioni fisiche di vita.
I loro valori tendono ad essere universalistici più che socio-economici come l’autonomia e
opposizione a manipolazione, controlli dipendenza, burocratizzazione, regolamentazione.
La gestione interna dei nuovi movimenti sociali è caratterizzata da un’organizzazione informale,
una scarsa distinzione dei membri e leader, ed un’enfatizzazione dell’attività volontaria diffusa e
della raccolta di fondi.
Gli attori dei nuovi movimenti sociali provengono dalla nuova classe media costituita da quelle che
Offe chiama “professioni di servizio umano”, colletti bianchi, lavoratori del settore pubblico e
gruppi socialmente e politicamente periferici come casalinghe, studenti, disoccupati…
Secondo Inglehart, i nuovi movimenti sociali sono l’espressione più tipica della “nuova politica”,
non più basata sui tradizionali conflitti di classe o sulla contrapposizione tra stato e chiesa. Qui gli
obietti principali sono post-materialisti, come la protezione dell’ambiente e la garanzia della libera
espressione delle individualità. Lo sviluppo dei nuovi movimenti sociali richiama anche l’attenzione
della motivazione. Parry, distingue due tipi di spiegazioni della partecipazione politica: quella
strumentale e quella evolutiva.
Le teorie strumentali considerano la partecipazione come un mezzo per conseguire un fine. Di
conseguenza, gli strumentalisti sostengono che gli individui sono i miglior giudici dei propri
interessi, che il governo che coinvolge i propri governati è più efficace e che la legittimità del
governo si fonda sulla partecipazione. In definitiva gli eredi della teoria strumentale sono gli
utilitaristi e i pluralisti.
Secondo le teorie evolutive, il cittadino ideale è colui che partecipa e di conseguenza la
partecipazione viene considerata come un esercizio della responsabilità sociale. Si tratta di
un’esperienza di apprendimento che produce un cittadino consapevole non solo dei diritti, ma anche
dei doveri e delle responsabilità. Tale punto di vista costituisce un elemento importante secondo le
idee conservatrici e socialiste. Mentre per i conservatori l’accento viene posto sul singolo cittadino
responsabile e quindi sull’azione individuale, per i socialisti invece l’accento viene posto sulla
responsabilità della società nei confronti dell’individuo e quindi sull’azione collettiva.
Un altro motivo di partecipazione è di natura socio-economica: la teoria di Downs. Egli ipotizza che
gli individui siano esseri razionali e calcolatori che cercano di minimizzare i costi e massimizzare i
benefici. È possibile illustrare una sua modalità di funzionamento esaminando la partecipazione
elettorale. Un elettorato ampio, elezioni frequenti e votazioni lunghe producono di solito una bassa
44
affluenza alle urne, perché gli individui trovano più difficile percepire i propri reali interessi dato
che il risultato è più difficile da prevedere. Viceversa, elezioni più combattute, più importanti o
dove le questioni in gioco sono più chiaramente identificate, l’affluenza è più ampia, perché
influenza il risultato e questioni politiche chiaramente definite consentono all’individuo di percepire
in maniera più agevole i propri interessi. Però, in questa teoria, l’accento viene posto sulle
percezioni che possono essere esatte o sbagliate. Ci sono forti correlazioni statistiche tra livelli di
partecipazione politica e livelli di efficacia politica, cioè la percezione individuale, la sensazione di
essere in grado di influenzare la politica e le scelte politiche. Livelli di elevata efficacia politica
sono correlati con altre variabili, come un più elevato status socio-economico e più alti livelli di
istruzione, ed è stato anche sostenuto che la partecipazione politica può soddisfare i bisogni
psicologici individuali. Tali punti di vista sono stati per molto tempo associati al concetto di
personalità autoritaria, e in maniera più ampia con il concetto di soddisfazione dell’ego, di
autostima e di riconoscimento sociale.
Weber elabora 4 idealtipi per spiegare azioni e comportamenti sociali, e quindi politici, come la
partecipazione. Due sono di tipo razionale: “razionale rispetto allo scopo” e “razionale rispetto al
valore”; e due non razionali (ma non irrazionali): “l’azione affettiva” e “l’azione tradizionale”.
Il comportamento razionale rispetto allo scopo è quello in cui l’individuo valuta un’azione in
termini di costi e benefici dei mezzi e dei fini (come per esempio il comportamento razionale di tipo
economico che permette di massimizzare i benefici e minimizzare i costi per conseguire un
obiettivo prefissato); mentre il comportamento razionale rispetto al valore non mette in
discussione i fini ma valuta i costi e benefici di determinati mezzi (ad esempio avere come scopo un
ideale religioso o ideologico e darsi da fare per individuare i mezzi più efficaci per conseguirlo
significa essere costretti ad accettare le costrizioni imposte dall’ideale stesso).
L’azione affettiva è governata dalle emozioni e l’azione tradizionale dagli usi e costumi.
Robert Lane ha sintetizzato il ruolo che la partecipazione politica può avere per l’individuo. Si
tratta di un mezzo per soddisfare i bisogni economici, di uno strumento utile per rispondere alle
necessità di aggiustamento sociale, di un modo per conseguire determinati valori e infine un mezzo
per soddisfare bisogni inconsci di natura psicologica. In questo contesto bisogna considerare non
solo coloro che partecipano ma anche coloro che non partecipano. L’assenza di partecipazione è
stata imputata ad apatia, cinismo, alienazione e anomia. L’apatia consiste nella mancanza di
interessi, il cinismo nel disincantamento e nel disprezzo del mondo, mentre l’alienazione e
l’anomia è caratterizzata da indifferenza. Queste caratteristiche possono essere presenti anche tra
coloro che sono impegnati in attività politiche, per esempio la mancata partecipazione ai livelli più
alti della partecipazione politica; tranne per l’alienazione che invece si esprime in un’attività
politica violenta.
È importante considerare la partecipazione politica come parte di un più ampio comportamento
sociale. Le ricerche hanno bisogno di collegarsi in misura maggiore con gli studi psicologici e di
ricorrere ad un uso più estensivo di indagini longitudinali.
7. IL RECLUTAMENTO POLITICO
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1. Introduzione
Il reclutamento politico è il processo attraverso il quale gli individui vengono arruolati come
titolari di cariche proprie del sistema politico, in particolare incarichi politici e amministrativi, ma in
certi casi anche in altri tipi di ufficio, nella magistratura, nella polizia e nell’esercito. La maggior
parte degli studi sul reclutamento politico si concentra sui titolari di cariche politiche: presidenti,
primi ministri, ministri, deputati, senatori e si pone l’accento sull’elettività della carica. Si tratta di
un orientamento comprensibile, ma inopportuno per due motivi. In primo luogo, alcune delle
cariche più importanti sopra menzionate non sono elettive (ad esempio nella maggior parte dei
sistemi parlamentari il primo ministro detiene l’incarico per il fatto che è il leader del partito con
maggior numero di rappresentanti in parlamento; inoltre nella maggior parte dei sistemi politici i
ministri o i responsabili politici dei dipartimenti di governo sono nominati, non eletti). Una seconda
critica sta nel fatto che, nonostante le cariche politiche ed amministrative siano sempre separate
sotto il profilo istituzionale, i livelli più elevati degli uffici amministrativi sono di un’importanza
politica cruciale.
Il ruolo della burocrazia, consiste nel fornire pareri e consulenze circa le politiche e nel rendere
possibile la loro attuazione e l’efficienza dei gradi più bassi della burocrazia ha un ruolo vitale nella
sopravvivenza dello stato. Inoltre, in alcuni sistemi politici la burocrazia è completamente
politicizzata (negli ex stati comunisti dell’Europa dell’Est e dell’Unione Sovietica, la Repubblica
Popolare cinese e il Vietnam del nord, dove la pervasività del partito e il controllo sulla burocrazia
rimangono molto ampi). In altri casi esiste un significativo grado di politicizzazione, come è messo
in evidenzia dallo “spoils system” americano, dove le nomine ai posti di responsabilità del servizio
pubblico federale sono soggette a diretto controllo politico
Anche il sistema giudiziario è parte dell’apparato dello stato moderno, in quanto garantisce il
rispetto delle leggi, la legittimità dell’agire dello stato e fornisce un sostegno alla sua egemonia.
Inoltre, il sistema giudiziario è interconnesso con la politica quotidiana, poiché la sua attività
consiste nel far rispettare e nell’interpretare le leggi, spesso a vantaggio dello stato e di coloro che
ricoprono incarichi politici. Il potere d’intervento della magistratura è più temibile in quei casi in
cui l’azione politica è soggetta a giudizio di costituzionalità. Quando vi sono delle costituzioni
scritte le leggi approvate dall’assemblea legislativa e i provvedimenti dell’esecutivo possono essere
posti in discussione sulla base della loro incostituzionalità. Di conseguenza tali leggi possono venire
invalidate e i provvedimenti ad asse associati annullati. L’ambito del reclutamento politico può
essere ulteriormente ampliato fino a ricomprendere le forze di polizia e l’esercito, infatti anche
questi corpi possono giocare importanti ruoli politici. L’importanza e l’estensione di questi ruoli
variano da un sistema politico all’altro, ma in tutti gli stati moderni la polizia e l’esercito, come la
burocrazia e il sistema giudiziario, sono parti cruciali degli apparati dello stato. Secondo la
definizione di stato di Weber, nel controllo della polizia e dell’esercito consiste la suprema
rivendicazione di legittimità da parte dello stato.
altre figure per essere in grado di far emergere un candidato). Questo metodo può essere considerato
come una versione informale delle pratiche formali di designazione, nomina e cooptazione (ad
esempio, i ministri dei governi inglese e americano sono nominati, rispettivamente dal primo
ministro e dal presidente). La cooptazione è una pratica comune nei governi locali in Gran
Bretagna, compresi i casi in cui sono cooptati individui che non sono riusciti a vincere le elezioni
per diventare consigliere, al fine di sfruttare le loro conoscenze e la loro esperienza.
Comunque il processo di reclutamento politico più comune è quello che si verifica durante le
elezioni, con la scelta tra candidati ad una carica per mezzo del voto. Le elezioni sono uno
strumento per scegliere i soggetti che ricoprono incarichi politici, come membri del governo e del
parlamento, ma possono essere utilizzate anche per occupare altri uffici, come le cariche del sistema
giudiziario o di altri ambiti legali negli Stati Uniti.
Nell’esaminare il ruolo delle elezioni come strumento di reclutamento politico è necessario tener
conto di un certo numero di fattori che influiscono sulla loro natura e sulle loro modalità di
funzionamento. Per lo più le elezioni sono dirette, nel senso che il numero dei voti determina
direttamente il risultato, ma in alcuni casi sono indirette, nel senso che attraverso la votazione si
scelgono dei rappresentanti che si presume siano più competenti dell’elettore comune, e alla fine
compiono la scelta finale. (ad esempio i padri fondatori degli Stati Uniti avevano istituito un
collegio di elettori per scegliere il presidente e il vicepresidente, piuttosto che ricorrere alle elezioni
dirette. Il collegio di elettori resta ancora valido resta ancora valido a livello costituzionale, ma
coloro che attualmente vengono eletti al collegio rappresentano la maggioranza che in ciascuno
stato ha vinto le elezioni, e sono obbligati ad appoggiare i candidati di partito di quella
maggioranza.
Un secondo fattore importante è la natura del corpo elettorale, cioè chi ha diritto di voto (che può
variare dal suffragio universale adulto a liste elettorali molto limitate).
Il sistema elettorale, riguarda il metodo di conteggio dei voti, di distribuzione dei seggi e di
delimitazione dei collegi elettorali. Il sistema di rappresentanza proporzionale, ha quasi sempre
un’importanza significativa e la definizione dei confini dei collegi elettorali può avere forti
conseguenze, avvantaggiando uno o più partiti a spese di altri. Di fatto è possibile che vengano
introdotti sistemi elettorali particolari per raggiungere determinati scopi, come ad esempio l’uso del
secondo turno di ballottaggio. È anche possibile che un determinato sistema elettorale venga
mantenuto perché favorisce uno o più partiti, come nel caso del sistema britannico del first past the
post, che avvantaggia i due maggiori partiti a spese dei più piccoli. Si può ricorrere ad elezioni
pubbliche anche all’interno dei partiti, per scegliere i candidati; per esempio nella forma di elezioni
primarie, adottate negli Stati Uniti e in Belgio. Un ultimo metodo tra i più diffusi per il
reclutamento politico è quello della selezione, un modo regolare e sistematico per scegliere i
candidati all’interno di un partito attraverso commissioni selezionatrici o i burocratici attraverso
esami pubblici. In uno studio sulla selezione dei candidati britannici per le prime elezioni del
parlamento europeo nel 1979, Martin Holland (1986) ha messo a punto un modello che distingue in
primo luogo tra il gruppo di candidati, cioè gli “eleggibili”, e coloro che cercano di arrivare alla
candidatura, gli “aspiranti”; in seguito tra gli aspiranti scelti come candidati tra i partiti politici e
coloro che non saranno stati scelti; infine tra i vincitori delle elezioni al Parlamento europeo e
coloro che non avevano vinto. È possibile mettere a punto un modello di reclutamento più
generalizzato usando i concetti di “eleggibilità”, cioè tutti coloro che possiedono i requisiti
48
fondamentali e le caratteristiche richieste per coprire una determinata carica (non solo qualificazioni
formali, ma anche caratteristiche socio-economiche), e di “aspirazione”, coloro che sono eleggibili
e che aspirano attivamente alla carica. i fattori di “domanda”, cioè i criteri applicati da coloro che
hanno la responsabilità di scegliere che andrà ad occupare i posti, sono di vitale importanza, ma è
anche chiaro che, anche i fattori di “offerta” hanno una grande importanza. Un modello di
domanda-offerta è dunque un modo utile per osservare il reclutamento politico specialmente se si
combina con l’idea di una successione di “strutture di opportunità” che divengono sempre più
importanti quando i fattori di domanda prendono il sopravvento.
(figura 7.1)La quasi totalità della popolazione adulta è disponibile ad assumere la titolarità di una
determinata carica; ma questo gruppo si riduce a causa di un struttura primaria delle opportunità
rappresentata da criteri socio-economici, dal processo di socializzazione e dai requisiti formali
necessari per accedere a determinate cariche. Inoltre la maggior parte della popolazione adulta non
ha desideri, né ambizione, né motivazione egli eleggibili si riduco a un gruppo piccolo. A questo
livello i criteri predominano sul controllo, che è debole perché l’offerta è più importante della
domanda.
Per passare da “eleggibili” a “aspiranti” gli individui devono riuscire ad entrare in una struttura
secondaria delle opportunità, e trarne vantaggio, quindi possedere motivazioni ed ambizioni.
Alcuni individui sono in posizione migliore di altri in termini di età, istruzione ed occupazione, e le
donne e le minoranze etniche sono svantaggiate. Sono importanti risorse come i saperi, i tipi di
esperienza; capacità come l’essere in grado di parlare in pubblico, o abilità amministrative e
organizzative, la disponibilità di tempo e di denaro; i valoro e gli atteggiamenti individuali; e infine
il milieu sociale degli individui, il loro status economico e sociale, l’appartenenza a organizzazioni
sociale, le amicizie e i contatti personali. Quanto più i criteri divengono specifici, tanto più cresce la
rilevanza del controllo rispetto ai primi livelli del meccanismo di reclutamento.
Tuttavia il controllo diventa cruciale e si esprime al suo apice allo stadio della struttura terziaria
delle opportunità, nel quale una certa percentuale di aspiranti viene trasformata in titolari di
cariche. La struttura terziaria delle opportunità opera attraverso gli stessi fattori, ma con maggiore
specificità. Motivazioni ed ambizioni devono essere forti, l’esperienza particolarmente appropriata,
le capacità ben sviluppate, i valori e gli atteggiamenti solidi e il milieu sociale deve essere in grado
di fornire un sostegno adeguatamente forte.
QUADRO 7.1
LA SPINTA ALLA DEMOCRATIZZAZIONE NEL RECLUTAMENTO POLITICO: LA
DOMANDA DI PRIMARIE
Negli ultimi anni, nelle democrazie occidentali si può osservare un trend abbastanza netto nella
scelta dei leader, così come nella scelta dei candidati parlamentari: la democratizzazione crescente
dei processi di selezione. La parola d’ordine è primarie ed è un modo efficace per esprimere
un’esigenza di partecipazione dal basso, di trasparenza, di democrazia nella selezione delle
candidature. Le ragioni di fondo stanno nelle trasformazioni della politica contemporanea, sempre
più focalizzata sulla personalità dei candidati. Il partito s’identifica sempre più strettamente con il
suo leader. La presenza dei mass media, e in particolare della televisione, favorisce il fenomeno
49
come mai nel passato. Troppo spesso la classe politica-partitica è, oligarchica, privilegiata,
autoreferente. Cresce la voglia dei cittadini di contare di più, partecipando direttamente alle
decisioni. L’idea della democrazia diretta si diffonde in sempre più ambiti, compreso quello
partitico. Anche se si registrano casi di reversibilità del processo, lo spirito del tempo sembra andare
in direzione della democrazia diretta o del “direttismo”. Rinnovare l’organizzazione, ampliare la
partecipazione, diventa un imperativo, pena il rischio dell’emarginazione e dell’insignificanza. Le
primarie sono uno strumento e un percorso di questo rinnovamento. Esse nascono dal bisogno di
attrarre nuovi membri, di incentivare la mobilitazione di nuovi gruppi o di gruppi sottorappresentati,
di migliorare l’immagine del partito e di accrescere la sua legittimità, di comunicare all’opinione
pubblica la democraticità delle nuove procedure.
50
molti altri paesi la scelta dei candidati è una questione interna al partito, no sottoposta a norme di
legge (a differenza delle primarie), e condotta in gran parte in privato e non pubblicamente. I metodi
utilizzati consistono di solito in un mix di selezione da parte di gruppi ristretti e di elezioni interne a
cui partecipa un organismo di partito più ampio. La differenza consiste nel grado e nell’estensione
del controllo sul processo elettorale e da parte della leadership nazionale del partito.
Nel caso americano, la leadership nazionale del partito ha un controllo debole o addirittura
inesistente, in quanto la gestione quotidiana del partito avviene quasi interamente a livello locale o
dei singoli stati. Gli aspiranti candidati hanno a disposizione gli apparati statali e le macchine di
partito a livello locale come strutture di opportunità. Il processo iniziale di reclutamento si avvia di
frequente a livello statale o locale quando certe persone vengono incoraggiate a considerarsi come
possibili candidati. Le candidature presidenziali sono più complicate, dal momento che gli
aspiranti devono condurre una lunga campagna elettorale in ciascuno stato, e un numero sempre
crescente di elezioni primarie, che hanno il loro culmine nelle convenzioni nazionali del partito. In
questo caso il controllo si riscontra quasi completamente a livello dello stato o del governo locale,
ed è diffuso e non concentrato.
In Gran Bretagna la situazione è simile, in quanto esiste una diffusa autonomia locale nel modo in
cui i partiti scelgono i loro candidati sia per le elezioni amministrative che politiche. Di fatto i partiti
nazionali esercitano un piccolo “controllo di qualità” di modo che la leadership nazionale può
impedire la scelta di certi individui, ma non può assicurare che un uomo di suo gradimento venga
selezionato. C’è, tuttavia, un’uniformità procedurale all’interno di ciascun partito, e l’accettazione
del fatto che la direzione nazionale del partito può esercitare un veto, anche se solo in casi
eccezionali. Una parziale eccezione è rappresentata dal fatto che il Partito laburista inglese ha una
norma statuaria che permette alla leadership nazionale di imporre un candidato a livello locale
quando il candidato viene scelto per superare un’elezione suppletiva.
In alcuni sistemi politici, opera quello che viene definito come sistema di liste di partito, e il
controllo è concentrato a livello nazionale. In questo sistema la leadership nazionale del partito
decide chi deve essere inserito in una lista definita dal partito stesso.
In Italia il processo di selezione delle candidature all’interno dei partiti ha subito alcune modifiche a
seguito della trasformazione del sistema partitico. In passato la selezione era svolta secondo
modalità che prevedevano, nel caso dei partiti maggiori, un controllo da parte degli organi dirigenti
sulle iniziative periferiche, dalle quali partivano solitamente le proposte per le candidature. In
generale si poteva parlare di “coinvolgimento locale con controllo centrale” anche se le modalità
variavano da partito a partito, pur condividendo, le regole del sistema elettorale proporzionale a
scrutinio di lista. Il controllo dei candidati comunque raggiunge il suo apice nei sistemi totalitari, in
cui la leadership di partito detiene un controllo più o meno assoluto. Il controllo è inversamente
proporzionale all’importanza della carica, cioè che maggiore è il grado di controllo meno
importante è la carica in termini di esercizio del potere. I membri degli organismi rappresentativi o
legislativi nei sistemi comunisti non avevano un grande potere e dovevano legittimare le decisioni
del governo, cioè quelle del Partito comunista. Al contrario, i membri del Congresso e i senatori
americani sono importanti attori sulla scena politica. I membri del parlamento britannico si
collocano a metà strada tra i due sistemi, da un lato con una forte disciplina di partito e un’alta
coesione, ma dall’altro con la capacità di non dare per scontato il proprio sostegno.
51
I criteri che possono essere applicati al reclutamento alle cariche politiche variano secondo il tipo e
l’intensità. Alcuni sono formali (cittadinanza, residenza, l’età), ma sono i criteri informali a
determinare i risultati del processo di reclutamento. Nella struttura primaria delle opportunità è
probabile che tali criteri siano costituiti da fattori come l’appartenenza di genere, etnia, l’istruzione
e l’occupazione, che agiscono sia dal lato dell’offerta che della domanda. Le donne possono essere
convinte che esista un pregiudizio nei loro confronti per quanto riguarda la capacità di ricoprire
cariche politiche ed è possibile che sia vero in determinati gruppi etnici. Questi sono fattori di
offerta, ma possono costituire anche fattori negativi di domanda se tali sensazioni sono riflesso della
realtà. Certe occupazioni si prestano più facilmente a favorire una carriera politica in termini di
capacità, tempo e denaro. Coloro che si occupano del reclutamento di titolari di incarichi politici
sono di solito orientati ad applicare criteri relativi alla disposizione psicologica degli aspiranti (per
esempio valutando quanto siano forti le motivazioni individuali), all’estensione delle risorse
rilevanti di cui necessitano e alla loro disposizione ideologica (ad esempio quanto siano radicali o
moderati). Man mano che si raggiunge uno stadio successivo nel processo di reclutamento,
l’applicazione di questi criteri diventa più rigida ed è probabile che venga data sempre più
importanza all’esperienza. A seconda dei posti da occupare diventano rilevanti diversi tipi di
esperienza. Una carriera di successo è considerata un vantaggio, ma un particolare tipo di
esperienza, ad esempio nel campo governativo, legislativo o amministrativo può essere ancora più
utile. Ad esempio negli Stati Uniti, escludendo quei presidenti che sono arrivati alla carica dalla
vicepresidenza per morte del presidente in carica, 23 su 37 eletti dal 1789 al 2006 avevano avuto
esperienze di governo e legislative prima di essere eletti, mentre 11 avevano avuto solo esperienze
di governo e 3 solo esperienze legislative. Tuttavia è necessario sottolineare che, sebbene
l’esperienza ricomprenda anche l’aver ricoperto una carica di ministro o di governatore di uno stato,
essa include anche l’aver avuto un comando militare o l’essere stato vicepresidente. I candidati
presidenziali possono provenire da diversi campi e la loro esperienza politica, può essere limitata.
Questo è ancora più evidente nel caso dei ministri, che possono provenire da diversi ambiti e la cui
esperienza politica può essere del tutto inesistente. Al contrario la maggior parte dei ministri del
governo britannico ha avuto in precedenza un apprendistato parlamentale e ministeriale. I
parlamentari hanno di frequento sperimentato una partecipazione infruttuosa alle elezioni prima di
essere eletti. E possono anche aver avuto esperienze di governo locale. I membri dell’Assemblea
nazionale francese ad esempio di solito hanno basi di governo locale anche dopo essere stati eletti a
livello nazionale. In Italia la crisi del sistema politico dei primi anni novanta ha portato alla novità
della formazione di alcuni governi tecnici. Nel governo Ciampi del 1993, il primo a essere
capeggiato da un non parlamentare, figuravano diversi ministri tecnici non membri del parlamento.
Nel governo Dini in carica nel 1995 il carattere tecnico dell’esecutivo viene addirittura
formalizzato, con la clausola della assenza di precedenti esperienze parlamentari per l’accesso a
cariche ministeriali, e con un solo ministro che aveva già ricoperto tale ruolo in precedenza.
dalla natura dei posti da ricoprire, che possono essere suddivisi in modo orizzontale, in termini di
livelli di capacità e di competenze richieste, o verticalmente, a seconda dei compiti specifici e delle
professionalità necessarie. Le cariche amministrative sono dunque soggette ad un notevole controllo
e in larga misura a criteri chiaramente definiti. La pubblica amministrazione britannica, ad esempio,
per lungo tempo ha reclutato i nuovi assunti in base ai risultati ottenuti a livello di istruzione
universitaria e di scuola secondaria per gli incarichi non specializzati di livello elevato, medio e
basso, definendo il grado di iniziativa richiesto e la responsabilità che l’ufficio comporta; invece ha
reclutato in modo separato coloro che dovevano svolgere compiti specifici, come lavoro legale,
scientifico o medico. Per quanto riguarda il meccanismo di reclutamento amministrativo
riscontriamo alcune importanti differenze tra sistemi politici diversi. La Francia, ad esempio, ha un
programma specifico di training e un’agenzia di reclutamento per amministratori, cioè l’Ecole
nationale d’administration (ENA), ma la differenza più importante è il grado in cui le nomine nella
burocrazia sono soggette al controllo politico. Abbiamo già accennato allo “spoils system”
americano, cioè la copertura di importanti cariche amministrative per la nomina politica. Al
contrario, la Gran Bretagna e la Francia hanno amministrazioni pubbliche politicamente neutrali in
quanto, nonostante i governi vadano e vengano e il potere venga conquistato da partiti politici
diversi, i burocrati restano in carica e ci si aspetta che lavorino per i politici di qualsiasi partito con
la stessa lealtà. Nel caso britannico vengono elaborati programmi ministeriali d’emergenza nei
periodi immediatamente precedenti ad elezioni politiche generali, per far fronte all’eventualità che
il governo in carica venga sconfitto e il principale partito di opposizione salga al potere. Nei paesi
comunisti e in non pochi stati del Terzo mondo, la lealtà al regime è somma, e l’intero processo di
reclutamento amministrativo, nonché la susseguente carriera, sono soggetti a rigido controllo
politico.
MODELLI DI RECLUTAMENTO
Sistemi politici differenti sono caratterizzati da differenti modelli di reclutamento. I sistemi liberal-
democratici tendono ad essere più aperti, mentre gli altri, in particolare i sistemi totalitari, sono più
chiusi. Altre differenze si evidenziano a seconda dei tipi di posti da ricoprire, in particolare nel caso
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di cariche politiche e amministrative e vengono applicati criteri differenti. Ci sono anche forti
similitudini: i titolari degli uffici generalmente tendono a provenire da gruppi analoghi in termini di
caratteristiche socio-economiche, da gruppi di status in genere abbastanza alti, da professioni che
richiedono un elevato grado di istruzione e una specializzazione superiore, e in genere sono uomini
piuttosto che donne. Tab 7.3. A fronte della percentuale di laureati e diplomati che si riscontra tra i
membri del parlamento, solo il 5% della popolazione britannica adulta è laureata e la percentuale di
coloro che hanno frequentato la scuola pubblica è più o meno uguale; ma l’elemento che salta di più
agli occhi è lo schiacciante predominio maschile alla Camera dei comuni. I dati sui parlamentari
italiani eletti nel 1996 evidenziano notevoli scostamenti tra i vari partiti soprattutto riguardo
all’origine professionale (tab.7.4). L correlazione tra titolarità degli uffici e caratteristiche socio-
economiche dei titolari è più forte di quella che si registra a livelli inferiori di partecipazione, e
quindi costituisce un fondamento di rilievo per sostenere la tesi dell’esistenza di un’élite politica. In
apparenza il reclutamento politico si presta dunque a confortare le teorie elitiste, ma le prove in
questo senso restano per lo più inferenziali. Inoltre, c’è anche un’altra importanza carenza sia nelle
teorie elitiste che nella teoria sul reclutamento: in entrambe non si indaga sull’esistenza di un
rapporto tra le caratteristiche socio-economiche di coloro che hanno la titolarità delle cariche e il
loro comportamento di voto. Anche se esiste un numero limitato di studi in cui vengono esplorati i
rapporti tra il comportamento dei titolari degli uffici e le loro caratteristiche socio-economiche. Le
caratteristiche socioeconomiche caratterizzano un indicatore grezzo ma efficace del comportamento
individuale, ma la loro rilevanza causale resta da approfondire.
meccanismi del reclutamento. Per approfondire la teoria del reclutamento politico è necessario
collegarla con lo studio dei modelli di carriera. Un numero eccessivo di ricerche si ferma al
reclutamento e non procede all’analisi del comportamento dei titolari degli uffici una volta che
siano entrati i carriera. Si dovrebbe condurre quest’analisi fino a quello che è stato definito “il
dereclutamento”: come si concludono le carriere, in particolare se esse finiscono volontariamente o
involontariamente. Un approccio del genere presenterebbe il vantaggio di consentire una
valutazione della natura della carica che deve essere ricoperta e del ruolo da giocare, e quindi di
capire se certi tipi di individui sono più adatti di altri per tali cariche e per i ruoli ad esse connessi.
55
8. LA COMUNICAZIONE POLITICA
1. Introduzione
Harold Lasswell identifica cinque elementi che si ritrovano in qualsiasi modello di comunicazione:
la fonte di un messaggio, il messaggio stesso, il canale con cui il messaggio è trasmesso, e coloro
che ricevono il messaggio.
Tuttavia, affinché il processo di comunicazione sia dinamico, cioè che vada al di là della
trasmissione di un singolo messaggio, è opportuno introdurre un quinto elemento, il feedback,
ovvero la reazione o la risposta di coloro che hanno ricevuto il messaggio. Facendo un esempio, in
un modello del genere, la fonte potrebbe essere un candidato alle elezioni, il cui messaggio potrebbe
consistere in un certo numero di proposte politiche, il canale potrebbe essere un intervista televisiva
e il destinatario (audience) potrebbero essere tutti gli elettori che seguono la trasmissione. Il
feedback consiste nell’approvazione/disapprovazione delle proposte o del candidato.
Il canale usato per il feedback può assumere diverse forme: quella che ha più probabilità di
verificarsi consiste nel comportamento di voto di coloro che hanno assistito a quella trasmissione,
ma può darsi che alcuni prendano contatto con il candidato per esprimere il proprio punto di vista.
Questo esempio evidenzia una serie di problemi: in esso non viene operata alcuna distinzione tra
comunicazione interpersonale e comunicazione di massa. Lasswell da per scontato che la
comunicazione è un processo di persuasione, e che i comunicatori intendono influenzare l’audience,
anche se la propaganda può anche non raggiungere il suo scopo. Anche negando la natura
propagandistica di tutti i messaggi politici, molti intendono influenzare la propria audience.
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Un’ulteriore problema è costituito dal fatto che non ci sono definizioni convenzionalmente accettate
di molti termini comunemente utilizzati, come per esempio l’uso dei termini tra “canale” e
“medium”…alcuni li utilizzano in maniera intercambiabile ,altri li considerano nettamente distinti.
Ovviamente la comunicazione può manifestarsi in diversi modi.
John Fiske divide i media in tre categorie: presentazionali , rappresentazionali e meccanici.
I media presentazionali comprendono la voce dell’individuo, la faccia e il corpo nell’uso della
parola, e il comunicatore e il medium. I media rappresentazionali comprendono tutti i testi scritti e
stampati, fotografie, ecc.. che hanno una loro esistenza indipendente dal comunicatore. I media
meccanici comprendono telefono, radio, film, televisione, ecc..
Altri due studiosi, Shannon e Weaver, sottolineano che il processo di comunicazione è soggetto a
quello che definiscono “rumore”, cioè un’interferenza nel processo di comunicazione che
influenza/distorce il messaggio. Essi distinguono tra “rumore meccanico” e “rumore semantico”; il
primo ha solitamente un’origine fisica, e non è intenzionalmente emesso dalla fonte con lo scopo di
influenzare il messaggio ( per es. ricezione debole dei segnali radio, interferenze telefoniche). Il
rumore semantico si riferisce invece ai problemi della lingua, agli accenti, a differenze socio-
culturali. In entrambi i casi il messaggio non è ricevuto esattamente nella forma in cui è stato
inviato, e dunque può essere travisato.
La possibilità che il messaggio venga frainteso mette in luce altre variabili importanti nella
comunicazione: codifica, decodifica e percezione. Tutti i messaggi devono essere messi in un
codice adattabile al canale/medium usato; affinché il messaggio sia compreso, il codice deve essere
comprensibile sia per colui che invia il messaggio sia per il destinatario. Ovviamente la forma di
codice più comune è il linguaggio, ma ce ne sono molte altre (gesti, tono di voce, uso degli occhi e
dei simboli,..). I messaggi non devono solo essere messi in codice, ma hanno bisogno di essere
decodificati e questo dipende dalla capacità di comprendere il codice originale da parte degli
individui destinatari. Questo pone in evidenza anche la questione della percezione, sia di chi
trasmette un messaggio sia del destinatario, poiché influenzano la codifica e la decodifica, nel senso
che il trasmittente interpreta l’informazione prima di comporre un messaggio e colui che lo riceve
interpreterà l’informazione del messaggio nel momento in cui la riceve.
Un importante teoria a riguardo della comunicazione politica è stata introdotta da Katz e
Lazarsfeld denominata la TEORIA DEL FLUSSO. Secondo quest’ultima i messaggi inviati
attraverso i mass media non hanno un impatto diretto, ma mediato attraverso degli opinion leader al
cui giudizio si affidano gli individui in quanto appartengono a gruppi socio-economici simili. In
questa maniera viene a stabilirsi un legame tra comunicazione interpersonale e comunicazione di
massa . Uno sviluppo logico di questa teoria è rappresentato dal MODELLO MULTIFASE,
secondo il quale esiste una serie di relazioni tra media, individui e gruppi. L’importanza di entrambi
i modelli sta nel fatto che essi mettono in luce il contesto sociale della comunicazione e non
considerano l’audience (destinatari) quali soggetti passivi e destinati soltanto a ricevere i messaggi
dei media.
La maggior parte della comunicazione politica viene effettuata attraverso canali sociali, e i
messaggi politici non sempre sono differenziati dagli altri messaggi. La comunicazione politica,
57
come nel caso della comunicazione negli altri contesti, agisce sia verticalmente che
orizzontalmente, cioè, in maniera gerarchica tra governanti e governati e lateralmente tra individui e
gruppi. Ne consegue che individui e gruppi diversi avranno network e modelli di comunicazione
differenti. Per esempio, i titolari di cariche politiche hanno dei network di comunicazione estesi e
molto sensibili ai fenomeni politici(colleghi, membri della burocrazia, propri sostenitori politichi od
oppositori, leader di pressione, oltre che un pubblico indistinto). Al contrario, coloro che fanno parte
del pubblico in generale avranno, per ciò che riguarda la comunicazione politica, network molto più
limitati, più dipendenti dai mass media.
Quali sono dunque i canali della comunicazione politica? Sono 3 i principali: mass media, gruppi
di pressione e partiti politici. I MASS MEDIA sono molto importanti per la diffusione capillare
dell’informazione politica, soprattutto attraverso la televisione. I media giocano un ruolo importante
anche nella formazione dell’opinione pubblica, portando a conoscenza del pubblico i punti di vista
di individui e gruppi. I GRUPPI DI PRESSIONE e i PARTITI POLITICI rivestono molta
importanza nei rapporti tra politici e burocrati, tra tipi diversi di attivisti politici e tra quest’ultimi e
settori specializzati dell’opinione pubblica. Anche i contatti tra individui e gruppi sono importanti,
specialmente se si applica la teoria del flusso a due fasi, secondo cui gli opinion leaders agiscono
come canali di informazione, fonti di pressione sociale per favorire l’adesione a determinate norme.
La comunicazione politica viene influenzata da una serie di fattori – fisici, tecnologici, economici,
socio-culturali, politici. Le barriere fisiche sono sempre state significative (montagne, deserti, mari,
distanze incolmabili) . Questo è stato vero soprattutto in passato, quando la tecnologia limitata e le
poche strade significavano che la mobilità geografica era ristretta e che nelle società le varie
comunità erano isolate l’una dall’altra. Lo sviluppo tecnologico ha sicuramente ridotto molti di
questi problemi fisici. Le moderne tecnologie hanno facilitato lo sviluppo dei mass media, così che
l’informazione può essere trasmessa a poco prezzo, a grandi distanze e a grande velocità.
Nonostante ciò, importanti fattori fisici permangono tutt’oggi; per esempio, molte comunità (anche
nei Paesi capitalistici avanzati) restano relativamente isolate a causa del problema dei fusi orari.
Paesi come Stati Uniti, il Canada (con 4, 5 se non di più fusi orari), hanno network di
comunicazione frammentati, che influenzano la radio e la televisione, nonché la distribuzione dei
quotidiani. La trasmissione simultanea, per ovvi motivi, attraverso tutto il paese NON è possibile e
questo fenomeno ha favorito la crescita di network radiofonici e televisivi frammentati sia negli
Stati Uniti che in Canada.
I modelli di comunicazione sono influenzati anche dallo sviluppo economico: società meno
sviluppate tendono ad avere network di comunicazione più frammentati (nei paesi del terzo mondo
magari). Anche i fattori politici influenzano la comunicazione politica, in particolare dal grado in
cui il network di comunicazione è soggetto a controllo politico, da parte del governo. In molte
società i mass media sono sottoposti a vari livelli di censura, in modo più evidente nei sistemi
totalitari o autoritari. La Germania nazista , ad esempio, esercitava uno stretto controllo sui mass
media e sui mezzi di riproduzione delle informazioni (stampa). Ad ogni modo, il controllo
dell’informazione è rilevante in tutte le società, la censura esiste quasi dappertutto, anche se in
forme diverse e limitato a ciò che viene considerato osceno: sono POCHI i governi che cercano di
controllare il meno possibile le informazioni circolanti.
58
Negli ultimi 15 anni, in Italia e nelle altre democrazie occidentali, si è sviluppato un importante
dibattito sui cambiamenti della comunicazione politica. Sintetizzeremo alcuni punti del
cambiamento delle forme di comunicazione politica nel lungo periodo, e della trasformazione delle
campagne elettorali.
[tab.8.1] LE TRE ETA’ DELLA COMUNICAZIONE POLITICA
Kavanagh e Blumler (in un loro articolo) analizzano e propongono di guardare ai cambiamenti
delle forme di comunicazione politica secondo una prospettiva temporale, individuando 3 grandi
fasi, dal secondo dopo-guerra fino ai nostri giorni: anche se la loro analisi si rifà al contesto anglo-
americano, queste tre fasi possono essere applicate anche all’esperienza europea:
La prima fase (dal dopo-guerra fino agli anni ’50). Negli anni subito a seguire il conflitto, a
dominare la scena politica erano soprattutto i partiti la cui azione nasceva sulle fratture e
dinamiche sociali tipiche degli anni della ricostruzione. La comunicazione politica era
subordinata ad un sistema di istituzioni molto SALDE, in cui i partiti svolgevano le
principali funzioni di trasmissione tra il sistema politico e i cittadini. La risposta di questi
ultimi alle comunicazioni di natura politica era caratterizzata da selettività e da
rafforzamento delle opinioni e atteggiamenti che già manifestavano attraverso una forte
adesione di “appartenenza”.
La seconda fase (dagli anni ‘60 agli anni ‘80). È la stagione della diffusione del nuovo
mezzo televisivo e il periodo del progressivo allentamento delle tradizionali fedeltà
partitiche fondate sulle fratture subculturali. Alcuni cambiamenti caratterizzano questa fase:
1. Pervasività della televisione che rende possibile il raggiungimento di segmenti
dell’elettorato che tradizionalmente erano scarsi consumatori dei vecchi media e quindi si
sottraevano alla comunicazione dei partiti; 2. Informazione televisiva che esercita un grande
impatto sui TEMPI della politica. Per far fronte alla necessità di parlare ad un pubblico più
ampio di quello formato dai propri sostenitori vengono adottate “tecniche” per sfruttare al
meglio il mezzo televisivo. Un’altra conseguenza è l’organizzazione più “scientifica” delle
campagne elettorali: i candidati vengono scoraggiati dall’esprimere ciò che pensano
direttamente agli elettori senza prima sottoporsi ad una verifica di efficacia comunicativa da
parte di esperti.
La terza fase (dagli anni ’90 ad oggi). È caratterizzata dall’abbondanza dei mezzi di
comunicazione, la loro pervasività in ogni momento della vita sociale ed individuale, la
velocità tra telecomunicazioni e vecchi media. La televisione come veicolo di informazione
politica, oggetto da sempre del desiderio dei politici, si è inoltre moltiplicata in mille canali;
accanto alla televisione e i media tradizionali, stanno conquistando una funzione di
informazione altri media (internet).
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6. Conclusioni
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Sarebbe troppo facile affermare che l’opinione pubblica è semplicemente la somma dell’opinione
dei singoli. C’è una tendenza a considerare l’opinione pubblica come un’entità unica; ma se
l’opinione su particolari argomenti può essere unanime, nella maggior parte dei casi non lo è poiché
su parecchie questioni, alcune persone non hanno nessuna opinione. E’ possibile trovare riscontro
su quanto detto nei vari sondaggi che vengono effettuati periodicamente, in cui viene chiesto agli
intervistati il loro grado di soddisfazione con riferimento ad una gamma di politiche del governo (ad
es. relative all’inflazione, disoccupazione, sistema scolastico, etc). [generalmente rispondono con
un “non so].
L’ignoranza relativa o la disinformazione non sono necessariamente un ostacolo alla formazione di
un’opinione su qualcosa; vi sono ricerche che dimostrano anche che l’opinione CAMBIA quando
agli intervistati vengono fornite informazioni più dettagliate.
L’opinione può anche essere distinta nei suoi aspetti, come la stessa opinione pubblica può essere
suddivisa in QUATTRO CATEGORIE:
1. Opinione specializzata, di coloro che sono considerati quali specialisti nella materia cui
l’opinione si riferisce;
2. Opinione informata, di coloro che hanno sufficiente conoscenza con la materia oggetto
dell’opinione;
3. Opinione influenzata , di coloro che sono direttamente influenzati dall’argomento cui si
riferisce l’opinione;
4. Opinione pubblica in senso lato, di tutti coloro che NON rientrano in nessuna delle
categorie precedenti.
“Le opinioni sono ciò che sono perché gli atteggiamenti personali sono quel che sono, e questi
ultimi hanno origine dalla natura della personalità” [Childs].
Analizzando il punto di vista di Childs secondo il quale l’opinione è il frutto dell’interazione tra gli
individui e il loro ambiente, è necessario collegare la formazione dell’opinione al concetto di
socializzazione politica, attraverso la relazione tra 3 variabili: la conoscenza, i valori e le
inclinazioni. La prima (la conoscenza)è definita quale informazione su una serie di fenomeni (fatti e
dati di fatto) nella quale la percezione costituisce un fattore determinante. I valori vengono definiti
come le credenze di base, ovvero la gamma dei punti di vista dell’individuo su argomenti come la
libertà, il libero mercato, socialismo, comunismo, etc.. e possono essere connessi con l’ideologia.
Gli atteggiamenti possono essere invece definiti come opinioni su argomenti specifici (per es. su
una proposta politica, su un candidato). Queste stesse variabili devono essere messe in relazione con
altri fattori-chiave, quali la personalità e l’esperienza individuale, le quali richiedono ulteriori
ricerche in merito. Una particolare attenzione è stata rivolta al ruolo della personalità in politica,
poiché non ci sono ragioni per dubitare che qualche rapporto possa esistere, specialmente con
riferimento alla formazione dei valori. Un lavoro simile è necessario per esplorare i rapporti tra
esperienza e formazione dell’opinione, non soltanto perché l’esperienza fornisce un terreno di prova
per i valori, ma affinché l’individuo possa valutare i vari elementi nel processo di comunicazione. È
dunque necessario chiedersi a proposito delle fonti, dei canali e dell’audience: sono affidabili
oppure no? L’individuo crede ai messaggi che riceve da una determinata fonte? Ad esempio, è
probabile che i messaggi che provengono da personaggi politici cui l’individuo dà il suo consenso,
vengano considerati veritieri, mentre quelli che vengono da politici che l’individuo non apprezza è
più probabile che vengano rifiutati o trattati con scetticismo (è possibile che siamo pervenuti nei
confronti dei media). Secondo il modello della formazione delle opinioni, atteggiamenti e opinioni
sono il prodotto del processo di socializzazione della personalità e dell’esperienza individuale: di
conseguenza, socializzazione- esperienza – personalità creano un ambiente che fa si che l’individuo
sia in grado di reagire a questioni particolari e di formarsi atteggiamenti e opinioni. Tuttavia il
“reagire alle questioni” dipende da 3 FATTORI:
Se la questione viene portata all’attenzione dell’individuo
Se l’individuo ne è interessato (grado di interesse)
Di quanta informazione ne è in possesso l’individuo a quel riguardo
Il primo di questi fattori è conosciuto come il problema della definizione dell’agenda politica, e i
suoi attori principali sono i partiti politici, attraverso i programmi elettorali, sollevando le questioni
di fronte al pubblico e cercando di tratte beneficio da questa loro azione. I partiti formano agende
anche più ampie, mettendo insieme una serie di problematiche in un programma coerente (più o
meno), mentre altri attori dell’agenda politica ( i gruppi di pressione, per esempio) si concentrano
invece su questioni specifiche, o spesso su una singola istanza politica. Anche i media giocano un
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ruolo importante nella determinazione di un’agenda, pubblicizzando da una parte le attività di partiti
e gruppi di pressione, dall’altra di propria iniziativa, individuano alcune questioni importanti
forzando i partiti/gruppi di pressione a rispondere su tali argomenti.
Per quanto riguarda il secondo fattore – il grado di interessamento dell’individuo nei confronti
di un determinato problema – abbiamo già sottolineato che su alcune questioni le percentuali di
“non so” sono molto alte, ma quando gli interessi di un individuo sono toccati da una questione,
diminuiscono le probabilità che egli appartenga alla categoria dei “non so”. Allo stesso modo, più
un individuo conosce un problema, più probabilmente avrà un opinione. È provato che i più
informati e i più istruiti hanno maggiori probabilità di avere opinioni rispetto a coloro che sono
meno informati e meno istruiti. Questo non significa che l’ignoranza costituisce una barriera
all’acquisizione di un’opinione.
Qual è il ruolo dei mass media nella formazione dell’opinione pubblica? Fondamentale!
Denis McQuail ha elaborato uno schema contenente le tipologie degli effetti dei media [tab.9.2
pag 205], nella quale traccia una distinzione importante tra effetti a breve termine e a lungo termine,
e tra effetti intenzionali ed effetti non intenzionali. L’autore sostiene che è difficile misurare
l’impatto dei diversi effetti, poiché è soggetto a cambiare nel tempo, da un settore della società ad
un altro.
Abbiamo detto che senza comunicazione non soltanto non può sussistere la politica, ma nemmeno
la società, e tuttavia esistono seri problemi sullo stato delle conoscenze a proposito della
comunicazione politica in generale e dell’opinione pubblica in particolare.
Il primo problema, nonché il più grave, è l’assenza di un modello adeguato, ovvero l’inadeguatezza
delle teorie sulla comunicazione politica: nel dettaglio, alcuni modelli si dedicano alla
comunicazione individuale/interpersonale, altri invece alla comunicazione di massa.. mentre
dovrebbero essere in qualche maniera combinati insieme adeguatamente. Collegato a questo
problema, se ne pone un altro riposto sempre sull’inadeguatezza delle teorie sugli atteggiamenti o
sulla formazione delle opinioni, poiché un conto è identificare le caratteristiche dell’opinione
(intensità, coerenza, rilevanza), un altro è misurarle [è sbagliato quindi separare anche in questo
caso gli atteggiamenti politici dalla sfera più ampia degli atteggiamenti sociali].
Alla fine del 1600 le idee divulgate dalla Riforma si traducevano in filosofie liberali le quali affermavano che
“gli individui dovrebbero essere liberi di seguire le loro predilezioni in tutti gli aspetti della vita (economico,
religioso, politico). Habermas sostenne che queste tendenze storiche sfociarono infine in una sfera pubblica:
tra la fine del 1600 e l’inizio del 1700, nacquero nuove istituzioni sociali quali i caffè in Inghilterra, i salotti di
Parigi, le società conviviali in Germania. Questi rappresentavano luoghi di riunione, dove la letteratura e
l’arte della conversazione erano molto importanti, luoghi dove l'autorità dell'argomento metteva a parte
l’autorità di titolo. Secondo Habermas nel 1700 il pubblico che si occupava di letteratura guadagnò forza
politica attraverso la circolazione della letteratura politica e la sua diffusa discussione nei salotti e caffè
(libero scambio di informazioni e libertà di critica nelle questioni politiche). Con lo svilupparsi di una sfera
pubblica politicamente attiva, l’opinione pubblica emerse con una nova forma di autorità politica, con la
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quale la borghesia poteva sfidare il governo assoluto. Elementi caratterizzanti l’Illuminismo, secondo
Habermas, erano la razionalità e l’egualitarismo propri dell’opinione pubblica: discussioni “pubbliche” nel
senso che la partecipazione aperta è auspicata.
Secondo la definizione di Marx ed Engels l’ideologia è una “falsa coscienza” ovvero una
deformazione della realtà: e poiché la realtà è la lotta di classe, la deformazione consiste nella
prevalenza delle idee della propria classe dominante.
Parsons considera l’ideologia come “il sistema di credenze condiviso dai membri di una
collettività” e quale schema interpretativo usato dai gruppi sociali per rendere intelligibile il mondo.
Si può trattare anche questa di deformazione della realtà, ma non nel senso marxista, poiché questa
deformazione non è per forza il riflesso delle idee della classe dominante, ma può ad esempio essere
costituita da credenze religiose. Per quanto riguarda l’ideologia si contrappongono una visione
marxista e una non marxista: secondo la prima si tratta delle idee prevalenti della classe
dominante, per la seconda di una gamma infinita di concezioni del mondo. In questo secondo caso,
l’ideologia non bisogna fraintenderla con la filosofia, poiché ne differisce su due aspetti: in primis
la filosofia è più generale, in quanto si occupa delle riflessioni sul pensiero, comprende la teoria
della conoscenza, lo studio di ciò che esiste; in secondo luogo l’ideologia differisce dalla filosofia
poiché è strettamente connessa all’azione, in quanto costituisce una base dell’azione o del desiderio
di azione.
L’ideologia presenta quattro importanti caratteristiche correlate tra loro. In primo luogo, l’avere
particolari idee è correlato con l’avere altre idee associate alla prima. In secondo luogo queste
credenze hanno, in maniera maggiore o minore, chiarezza - armonia - coerenza interna: quindi
anche se le idee/credenze che stanno alla base di un’ideologia poggiano su false promesse, i loro
rapporti interni sono logici e coerenti, nella mente di colui che ci crede. In terzo luogo queste idee e
credenze riflettono le valutazioni sul genere umano , ed infine queste credenze sono di solito
associate ad una particolare situazione sociale per cui lottare, da raggiungere o da mantenere.
Ci sono due scuole di pensiero a proposito delle funzioni dell’ideologia nella società. La prima
ritiene che l’ideologia è considerata come un riflesso della personalità, come una risposta ai bisogni
psicologici individuali; per la seconda si tratta di una risposta di gruppo, del modo in cui un gruppo
spiega e da ragione a se stesso della propria posizione/situazione nella società. L’ideologia può
svolgere anche entrambe queste funzioni, e dunque, si può ritenere che l’ideologia serva a realizzare
una serie di funzioni, tra loro collegate:
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Mette a disposizione dell’individuo una visione del mondo (modo in cui l’individuo vede il
mondo)
Fornisce all’individuo la sua visione preferita (modo in cui l’individuo vorrebbe che il
mondo fosse o diventasse)
Costituisce uno strumento di identità per l’individuo nei confronti del mondo (permette
all’individuo di avere una propria collocazione all’interno della società)
Da all’individuo i mezzi necessari per reagire ai fenomeni (consente all’individuo di
rispondere a quanto avviene e a quanto viene affermato)
Fornisce all’individuo una guida all’azione per mantenere il mondo nel suo stato preferito o
per cambiarlo a seconda le sue preferenze
In breve L’IDEOLOGIA è uno strumento attraverso cui gli individui possono adattarsi al mondo e
trovare in esso un posto adatto per se stessi.
Marx ed Engels sostengono nell’Ideologia tedesca che le “idee della classe dominante sono in ogni
epoca le idee dominanti”. Cosi, una volta che la classe ha raggiunto il dominio, essa “presenterà i
propri interessi come gli interessi comuni a tutti i membri della società, esprimendoli in forma
idealizzata; la classe dominante deve dare alle proprie idee una forma universale e presentarle come
le uniche e sole universalmente valide”. Questa è la tesi DELL’IDEOLOGIA DOMINANTE.
Ma la posizione marxista non si limita soltanto a considerare l’ideologia come falsa coscienza;
l’approccio marxista all’ideologia è quello di chiedersi essenzialmente il PERCHE’ la gente vuole
quello che vuole: viene respinta la tesi secondo cui la gente è il miglior giudice dei propri
interessi/desideri, tesi sostenuta anche da Marcuse ma aggiungendo che questo accade nel momento
che gli individui sono liberi di dare una risposta, ovvero quando non sono indottrinati. È importante
sottolineare che i marxisti concepiscono l’interesse come un “vantaggio”, nel senso di avere un utile
in qualcosa. Il testo Ideologia tedesca non fu pubblicata prima del 1927, e dunque non poteva essere
letta dai primi marxisti, compreso Lenin.
La concezione di ideologia di Marx & Engels è NEGATIVA, mentre Lenin ha dato al concetto di
ideologia una connotazione positiva, ammettendo che inizialmente l’ideologia ha origine dagli
interessi della classe dominante, ma sostenendo che ogni critica dell’ideologia deve provenire dagli
interessi della classa dominata (si può parlare dunque di idologia della classe borghese e ideologia
della classe proletaria).
Per molti aspetti i marxisti hanno una concezione dell’ideologia non molto diversa da quella dei
non-marxisti, tranne sulla questione di considerare lo stesso marxismo quale ideologia, come fanno
i non-marxisti. La differenza tra concezione marxista e non marxista dell’ideologia, non è cosi
grande come potrebbe sembrare a prima vista, dal momento che viene riconosciuto che l’ideologia è
una visione limitata o distorta della società. In ultima analisi, il conflitto tra concetto marxista e
quello non marxista di ideologia si riferisce al RUOLO da essa giocato: l’ideologia costituisce un
fattore fondamentale per il mantenimento del potere da parte della classe dominante, come ha
sostenuto Marx e i neo marxisti? Oppure si tratta, come ritengono la maggior parte dei non marxisti,
di un insieme di idee sul mondo, caratterizzato da differenti livelli di deformazione della realtà? La
maggior parte della gente ha un’ideologia o pensa in termini ideologici?
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Una delle definizioni di cultura politica può essere utile anche per definire l’ideologia:
“orientamenti politici, atteggiamenti verso il sistema politico e le sue componenti e nei confronti
del proprio ruolo nel sistema”. Le teorie marxiste e quelle sulla cultura politica presentano un
elemento comune: entrambe considerano il comportamento politico come il risultato di insieme di
idee prevalenti, ma differiscono in quanto i teorici della cultura politica sostengono che qualsiasi
complesso di idee può essere socialmente disponibile o possibile, mentre per i marxisti solo una
classe di idee è importante: quella della classe dominante. In questa maniera il marxismo non vien e
considerato un insieme di idee, ma come la verità .
[differenze fra ideologia e cultura politica] la cultura politica non può essere considerata come
sinonimo di ideologia, in primis perché la prima viene solitamente interpretata come qualcosa di più
“ampio” dell’ideologia; in secondo luogo, la cultura politica, a differenza dell’ideologia, non è
caratterizzata al suo interno da un maggiore o minore grado di coerenza, chiarezza e compattezza,
ma può avere elementi conflittuali, come dimostra l’esistenza di tradizioni sociali e politiche
differenti.
Alcune delle idee che hanno condotto allo sviluppo della teroria della cultura politica, hanno anche
contribuito ad una tesi che è diventata famosa, “la fine dell’ideologia”, che vede tra i suoi massimi
sostenitori Lipset e Bell.
Non vi è dubbio che le ideologie esistono: negarlo significherebbe negare che liberalismo, fascismo,
comunismo, non abbiano influenzato i comportamenti sociali e politici.
Ricerche sulla partecipazione politica mettono in luce l’esistenza di DUE principali punti di vista a
proposito del ruolo dell’ideologia: quello minimalista e quello massimalista. In base al primo si
sostiene che gli individui sono caratterizzati da bassi livelli di conoscenza politica, che nono usano e
talvolta nemmeno capiscono le idee politiche, che hanno preferenze politiche instabili, incoerenti
l’una con l’altra. Secondo i massimalisti invece, gli individui hanno insiemi coerenti di opinioni, e
uno o più di questi insiemi costituiscono un’ideologia. È più realistico sostenere che un numero
elevato di persone (forse la maggior parte delle gente) è più vicina alla posizione minimalista
piuttosto che a quella massimalista, ma entrambe sono comunque valide e dovrebbero essere
considerate come poli estremi di un continuum.
Sniderman e Tetlock considerano che i valori e le credenze della gente vengono espressi nelle loro
preferenze verso gli individui, le organizzazioni, le politiche. In molti casi queste preferenze non
sono articolate in termini ideologici, ma riflettono a volte quella che può essere definita come una
posizione ideologica
6.Ideologia e società
Il rapporto tra ideologia e società è complesso; la ragione più importante è che raramente
l’ideologia e la realtà sono totalmente in accordo tra loro. Si può sostenere che l’ideologia opera a
più livelli: a livello superiore e più manifesto esso informa il comportamento di coloro che sono
politicamente più attivi, dove questa è coerente al massimo.
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11. LA RIVOLUZIONE
1. Introduzione
Il termine “RIVOLUZIONE” è oggi comunemente usato nel vocabolario politico e viene utilizzato
anche in associazione con altri termini quali “ribellione”, “colpo di stato” e “insurrezione”, spesso
senza operare adeguate distinzioni concettuali tra questi. Sono i cambiamenti significativi avvenuti
in una società che normalmente distinguono le rivoluzioni da ribellioni, colpi di stato e insurrezioni.
Esiste anche un particolare uso retorico del termine “rivoluzione” a cui bisognerebbe prestare
attenzione: la rivoluzione come mito necessario nella cultura politica o nella storia di una società.
L'idea della rivoluzione come mito può essere usata per spiegare e giustificare le azioni politiche in
un senso positivo o per legittimare il proprio potere, inoltre, la sua “assenza” serve a spiegare altri
fenomeni. Ad esempio è stato affermato che in Canada, a differenza che negli Stati Uniti, non si è
sviluppato un forte senso di identità nazionale precisamente a causa della mancanza di una
rivoluzione. Da una rassegna della letteratura condotta da Al S. Cohan, risulta un generale consenso
sula fatto che la RIVOLUZIONE è caratterizzata dai seguenti sei punti:
1. l'alterazione di valori o miti della società;
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Marx ed Engels sostengono che la rivoluzione è l'inevitabile conseguenza del conflitto tra differenti
modi di produzione e le classi che ne sono il risultato. Secondo Marx il modo di produzione
determina la struttura dei rapporti tra le classi. In ogni società esistono due classi: una CLASSE
DOMINANTE e una CLASSE SFRUTTATA. Il modo di produzione cambia sotto la spinta dello
sviluppo tecnologico e della crescente divisione o specializzazione del lavoro, ma lo sfruttamento
messo in atto dalla classe dominante conduce la classe sfruttata all'alienazione da quel modo di
produzione. L'ALIENAZIONE fa si che la classe subalterna prenda coscienza del proprio
sfruttamento e dunque della propria posizione di classe, il che porta inevitabilmente alla rivoluzione
da parte della classe sfruttata. Questo modo di produzione capitalistico crea una nuova classe
sfruttata, la classe operaia o proletariato, che diventerà a sua volta alienata e assumerà coscienza di
classe e, a tempo debito, rovescerà la classe dominante borghese con mezzi rivoluzionari. Dunque la
rivoluzione fa parte dell'ordine naturale delle cose. Marx sostiene che la rivoluzione avrà luogo solo
quando si saranno raggiunte le “condizioni materiali”, quando la classe sfruttata sarà cosciente del
suo sfruttamento e la classe dominante sarà incapace di mantenere la sua posizione dominante.
Dunque ci sarà una rivoluzione comunista solo quando la massa del proletariato sarà pronta per
affrontarla. IL MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA, scritto da Marx ed Engels, è stato
pubblicato nel 1848 a metà “dell'anno delle rivoluzioni”, ma quegli eventi costituirono una
delusione per gli autori del Manifesto e li disgustarono a tal punto da indurre Marx a pensare che la
rivoluzione comunista avrebbe assunto la forma di una lotta lunga, non di un evento improvviso.
Sia Marx che Engels si aspettavano che la rivoluzione avrebbe avuto luogo prima di tutto nelle
società industrialmente più avanzate. La logica di fondo del modello marxista di rivoluzione era:
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L'ESPANSIONE del governo rivoluzionario all'estero. Krejci sostiene che l'espansione determina
delle tensioni che si riflettono sulle risorse disponibili per il regime rivoluzionario, con il risultato
che in parte ci si allontana dagli ideali rivoluzionari, si ha cioè UN'INVERSIONE. Questa
inversione può poi trasformarsi in quello che Krejci definisce COMPROMESSO DI
RESTAURAZIONE, in cui si assiste ad una parziale restaurazione del regime pre-rivoluzionario,
ma dato che un tale compromesso di solito non è facile da ottenere, può darsi che i
controrivoluzionari possano solo sperare o cercare di ottenere qualche concessione, creando così
PRESSIONI DI RESTAURAZIONE. Il culmine del processo rivoluzionario è definito
CONSOLIDAMENTO, in cui i cambiamenti portati avanti dalla rivoluzione vengono confermati e
si sono verificate nette modifiche nell'ideologia, nel regime politico e nelle strutture socio-
economiche. Krejci sostiene che non tutte le rivoluzioni seguono esattamente lo stesso processo e
che possono verificarsi ricorrenze di alcune fasi, che prolungano il processo rivoluzionario per un
considerevole periodo di tempo. Krejci sostiene che il processo rivoluzionario lascia
inevitabilmente un segno e che nessuna società tornerà completamente alle sue condizioni pre-
rivoluzionarie, in quanto saranno trasformate ideologicamente, politicamente, economicamente e
nelle loro strutture sociali. All'inizio del suo lavoro Krejci traccia, inoltre, una distinzione tra
“RIVOLUZIONI VERTICALI” e “RIVOLUZIONI ORIZZONTALI”. Le prime sono rivoluzioni
che si verificano come risultato di FORZE INTERNE ad una determinata società, mentre le altre
sono rivoluzioni che si verificano a causa di FORZE ESTERNE alla società. Perciò le sei
rivoluzioni analizzate da Krejci, comprese le rivoluzioni inglese, francese e russa, sono rivoluzioni
verticali, ma la rivolta dell'Olanda contro il potere spagnolo, la rivoluzione americana e la maggior
parte delle rivoluzioni latino-americane del diciannovesimo secolo sono rivoluzioni orizzontali. Lo
stesso può dirsi per la maggior parte delle rivoluzioni del Terzo mondo, in quanto sia esse che le
rivolte che le hanno storicamente precedute si fondano sulla lotta contro il potere coloniale straniero
e il fattore causale determinante nella rivoluzione è la presenza del potere straniero.
E' possibile tracciare sulla base di differenti ricerche e studi sulla rivoluzione, un elenco di cause
generali, o di lungo periodo, e di cause specifiche, o immediate della rivoluzione. Tra le cause
generali:
1)Economiche: un cambiamento nel potere economico che comporta insoddisfazione
economica.
2)Socio-culturali: insoddisfazione su base etnica, linguistica, religiosa o regionalista.
3) Ideologiche: l'ideologia prevalente è minacciata e messa in discussione e sorgono
ideologie antagoniste.
4)Politiche: perdita di efficienza, capacità di controllo e legittimità da parte del regime.
Tutto ciò tende a minacciare la capacità del regime o dell'élite dominante di continuare a governare
in modo efficace, e in particolare di mantenere l'ordine e far rispettare la legge. E' a questo punto
che entrano in gioco delle cause specifiche di rivoluzione, tra le quali:
1)Pressanti richieste di una parte ben organizzata della società che un settore dell'élite
dominante non è in grado di accogliere.
2)Dissenso visibile all'interno della classe dominante tra chi vuole resistere e chi invece è
favorevole alle concessioni.
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3)La credibilità dell'ideologia del regime è minacciata dalla sua risposta alle domande.
4)Diffusa crisi di legittimità da parte dell'élite dominante.
5)Perdita diffusa di controllo politico da parte del regime.
Com'è ormai assodato, il punto di vista marxista è che la rivoluzione è inevitabile, ma naturalmente
la rivoluzione intesa in termini marxisti. I teorici della società di massa ritengono che la rivoluzione
si verifica quando le strutture sociali si indeboliscono, o laddove esisteste uno squilibrio tra
differenti settori della società. Questo, implicitamente, è anche il punto di vista funzionalista, ma i
funzionalisti considerano la rivoluzione come L'ECCEZIONE alla regola generale secondo la quale
il mutamento sociale è determinato da meccanismi di auto-aggiustamento della società. Johnson è il
maggior sostenitore di un approccio funzionalista all'analisi della rivoluzione. Egli afferma che il
cambiamento rivoluzionario è il risultato di una discordanza tra i valori di una società e il suo
ambiente, che produce una “disfunzione multipla”. Tali mutamenti nei valori e nell'ambiente
possono essere originati da fattori interno o esterni come l'introduzione di una nuova ideologia, la
crescita di fervore religioso, un'invasione, o un consistente incremento demografico. La posizione
dell'élite comincia ad essere minacciata e, nel caso di una reazione intransigente, viene esposta ad
una minaccia diretta e violenta. Altri autori hanno adottato un punto di vista sostanzialmente
psicologico, sostenendo che una causa primaria della rivoluzione è costituita dal rapporto tra le
aspettative della gente, specialmente quelle di tipo economico, e la realtà. Si tratta della TEORIA
DELLE ASPETTATIVE CRESCENTI, avanzata per la prima volta da Tocqueville nel suo studio
sulla rivoluzione francese, in cui sostiene che la rivoluzione si è verificata quando la situazione
economica stava migliorando, ma non abbastanza da soddisfare le aspettative della popolazione. Un
concetto analogo è quello della PRIVAZIONE RELATIVA, ma in questo caso gli individui e i
gruppi misurano la propria situazione confrontandola con quella di altri individui o gruppi nella
società. Questo concetto è importante per la teoria marxista della rivoluzione proletaria, in quanto
una privazione crescente è un fattore determinante affinché la classe lavoratrice prenda coscienza
della sua subalternità e del suo sfruttamento da parte della classe dominante. La TEORIA DELLA
PRIVAZIONE RELATIVA ha inoltre implicazioni molto più ampie che non la spiegazione delle
rivoluzioni, ed è usata anche per spiegare la violenza politica in generale. Le teorie delle aspettative
crescenti e della privazione relativa sono state soggette a varie critiche. La prima è di tipo
metodologico: i dati aggregati e macro vengono usati per spiegare il comportamento individuale.
Ma ancor più importante è la critica secondo la quale questa teoria non riesce ad identificare in
modo chiaro il momento in cui “la gente ne ha avuto abbastanza” e ricorre alla violenza, né perché
questo momento varia da società a società. E' inoltre importante, sottolineare che la Leadership,
come in altri aspetti della politica, è un fattore chiave nella rivoluzione, specialmente in termini di
capacità organizzativa e ispiratrice sia del rovesciamento iniziale del vecchio regime, sia nel dare
alla rivoluzione una capacità di direzione in grado di comportare una trasformazione della società.
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Dopo la seconda guerra mondiale si sono sviluppate importanti teorie del mutamento sociale, in
larga misura a seguito dell'interesse per le conseguenze della decolonizzazione e per la nascita di
nuovi stati. Gli studi politici tradizionali erano stati per lo più dedicati alle liberal-democrazie, con
qualche attenzione per i regimi totalitari che erano sorti in Italia, Germania e Unione Sovietica e
poco interesse era stato prestato per quelle società che oggi sono descritte come “terzo mondo”, “in
via di sviluppo”, o “sottosviluppate”. Inoltre l'approccio era per lo più di tipo istituzionale, e gli
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2. Lo sviluppo politico
Il principio chiave della scuola dello sviluppo politico è che tutte le società attraversano una serie di
stadi in cui le società primitive e tradizionali finiscono col diventare moderne società industriali. Un
particolare accento viene posto su una serie di fattori: la crescente specializzazione dei ruoli sociali,
cioè la divisione del lavoro; il cambiamento da lealtà e identificazioni locali o tribali di tipo
universalistico; in cambiamento da status tradizionali e ascritti a status basati sul merito e
conseguiti; e infine lo sviluppo di processi e istituzioni adeguati a gestire questi cambiamenti.
Alcuni fra i più importanti studiosi dello sviluppo politico come Binder et al., hanno elaborato una
sindrome di sviluppo basata su tre variabili, i cui reciproci cambiamenti danno luogo a cinque tipi di
crisi dello sviluppo. VARIABILI:
- 1) DIFFERENZIAZIONE: la progressiva separazione e specializzazione di ruoli, sfere
istituzionali e associazioni;
- 2) UGUAGLIANZA: lo sviluppo di una cittadinanza nazionale, di un ordine legale
universalistico e di norme acquisitive;
- 3) CAPACITA': la capacità del sistema politico di stimolare le trasformazioni e di gestire le
tensioni che ne risultano.
CRISI:
1) IDENTITA': conflitti tra sentimenti nazionalisti delle masse e l'élite, tra lealtà etniche e
regionali e lealtà nazionali;
2) LEGITTIMITA': rivendicazioni contrastanti di potere o rifiuto di riconoscere le
rivendicazioni di potere di un sovrano o di un gruppo dominante;
3) PARTECIPAZIONE: conflitto tra le richieste di partecipazione politica delle masse e le
élite, che vi si oppongono;
4) PENETRAZIONE: pressione sull'élite perché operi cambiamenti politici di tipo
istituzionale, strutturale o di altra natura;
5) DISTRIBUZIONE: conflitti che vertono sulle risorse, sull'ideologia o sulle
trasformazioni dell'ambiente.
Le teorie dello sviluppo politico ci mettono a disposizione un utile metodo per isolare variabili e
fattori significativi ai fini dell'analisi del mutamento sociale. Queste variabili si riferiscono ad un
certo numero di problemi che nascono quando le società vanno incontro a cambiamenti rilevanti. Le
teorie dello sviluppo politico sono state fortemente criticate in quanto influenzate da un pregiudizio
favorevole ai valori liberal-democratici, nel senso che lo sviluppo politico dovrebbe condurre
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4. La modernizzazione
Le teorie della modernizzazione, come quelle sullo sviluppo politico, sono basate sul principio che
il mutamento sociale sia un processo lineare che implica la trasformazione delle società tradizionali
agrarie in moderne società industriali. Rostow e Organski sostengono che lo sviluppo o
modernizzazione consistono in una serie di stadi.
Secondo Rostow gli stadi della crescita economica sono:
- 1) società tradizionale;
- 2) precondizioni per il take-off;
- 3) take-off;
- 4) percorso verso la maturità;
- 5)età di elevati consumi di massa.
L'approccio di Rostow è dichiaratamente anticomunista e costituisce un'alternativa alla teoria di
Karl Marx. Secondo Rostow, la crescita economica è un processo automatico se si assume che la
società sia in grado di rispondere attivamente ed efficacemente ai potenziali di crescita disponibili.
Dunque, una società si può definire tradizionale quando non vuole o è incapace di trarre vantaggio
dallo sviluppo tecnologico. Una crescita economica significativa non avviene senza che ci sia stato
un periodo di trasformazioni, o prima che esso si sia verificato. Sono queste le precondizioni per il
take-off. Queste trasformazioni comprendono cambiamenti nei valori, nelle istituzioni economiche,
nello sfruttamento delle materie prime, nello sviluppo di infrastrutture di trasporto e comunicazione
e di un'autorità politica efficiente e centralizzata. Solo allora si può dire che la società ha conseguito
il take-off, cioè l'intervallo in cui le vecchie remore e resistenze a un deciso sviluppo sono
definitivamente superate. Il take-off comporta un percorso verso la maturità in cui l'economia
diventa sempre più efficiente, adattandosi rapidamente alle continue innovazioni tecnologiche.
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Rostow, pur ammettendo che il suo approccio è deliberatamente arbitrario e limitato, sostiene che è
in grado di dimostrare gli elementi di un'uniformità nel processo di modernizzazione. Inoltre, egli
sostiene che la maturità può essere raggiunta circa sessant'anni dopo il take-off. Rostow, però,
trascura di analizzare i rapporti tra società industriali avanzate e società in via di sviluppo.
Organski sottolinea il ruolo dei governi nello sviluppo, definendo lo sviluppo politico come un
costante aumento della capacità dello stato di utilizzare le risorse umane e materiali del paese a
servizio degli obiettivi nazionali e proponendo quattro stadi di modernizzazione:
- 1) unificazione primitiva;
- 2)industrializzazione;
- 3) walfare nazionale;
- 4) abbondanza.
Lo stadio dell' UNIFICAZIONE PRIMITIVA, implica la costituzione e il mantenimento di un
governo politico centrale, che favorisce l'unificazione economica, portando a ciò che Rostow
chiama take-off. Il secondo stadio è quello dell' INDUSTRIALIZZAZIONE, che trasforma
l'economia, conduce ad una rapida urbanizzazione, alla formazione di una nuova élite economica e
politica e al consolidamento di una identità nazionale. Questo pone le basi per il terzo stadio, quello
del WELFARE, dal quale si passa allo stadio dell' ABBONDANZA in cui ci potrebbe essere
un'enorme concentrazione di potere economico e politico che minaccia l'esistenza dello stato-
nazione e che può avere come risultato la sua sostituzione con blocchi di regioni o di continenti
come principali forme di organizzazione politica.
Huntington ha definito in modo più specifico lo sviluppo come la capacità di un paese di far fronte
alle trasformazioni causate dalla modernizzazione, sostenendo che è necessario creare delle
istituzioni capaci di controllare il processo di modernizzazione e, che in determinate circostanze tali
istituzioni possono assumere la forma di regimi autoritari o totalitari. Le teorie della
modernizzazione sono in gran parte basate sull'assunzione che il modello capitalistico sia
universalmente applicabile e considerano il modello comunista come un'abberazione temporanea
del modello capitalistico. David Apter ha adottato un approccio struttural-funzionalista cercando di
inglobare i sistemi comunisti in uno dei due modelli di modernizzazione. Egli ha elaborato due
modelli di modernizzazione:
A) IL SISTEMA LIBERTARIO O DELLA RICONCILIAZIONE, caratterizzato da una
distribuzione pluralistica e diversificata del potere e della leadership, da partiti pragmatici e
negoziatori e da un'enfasi sul compromesso (esempi: Stati Uniti, Europa occidentale e altre
liberal-democrazie);
B) IL SISTEMA DELLA COLLETTIVITA' SACRA O DELLA MOBILITAZIONE,
caratterizzato da una religiosità politica, da una leadership personalistica o carismatica e da
un unico partito di massa (esempi: i sistemi comunisti e la maggior parte dei paesi del Terzo
mondo).
Quando vengono proposte in forma universalistica le teorie dello sviluppo e della modernizzazione
peccano di etnocentrismo, basandosi in maniera eccessiva sull'esperienza degli Stati Uniti e
guardando al resto del mondo da un punto di vista americano.
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Il principio fondamentale su cui si basa la teoria dello sviluppo è che non si tratta di uno stadio nel
processo in direzione di una società capitalistica, bensì di una condizione o di un sintomo del
dominio capitalistico, per cui le società industriali avanzate sono responsabili del sottosviluppo
economico e politico del Terzo mondo. Wallerstein sostiene che il mondo intero costituisce
un'economia capitalista nel senso marxista del termine e dunque si svilupperà secondo quanto
previsto dalla teoria marxista. Il mondo, dal punto di vista dell'autore è diviso in tre parti, secondo
una divisione mondiale del lavoro: un nucleo di società industrializzate, le società periferiche (le cui
economie si basano sui prodotti del settore primario), e le società parzialmente industrializzate
semi-periferiche che sono sia sfruttatrici che sfruttate. Nel mondo di Wallerstein lo Stato è in larga
misura irrilevante e la differenza tra stati capitalisti e socialisti è più apparente che reale. Frank,
sostiene che le società capitalistiche avanzate erano, prima dell'avvio del processo di sviluppo, non
sviluppate economicamente, ma non sono mai state sottosviluppate. L'argomentazione di Frank è
nota come teoria centro-periferia, il dominio della periferia (il Terzo mondo) da parte del centro (le
società capitalistiche avanzate). Amin si muove sulla scia di Wallerstein, e sostiene che il sistema
capitalistico mondiale comporta una divisione internazionale del lavoro; al centro si trova la
borghesia mondiale, alla periferia il proletariato mondiale e il surplus mondiale viene estratto in
periferia da parte del centro. Questa visione marxista è comunemente nota come TEORIA DELLA
DIPENDENZA. Uno dei principali teorici di tale teoria è Dos Santos che definisce la
DIPENDENZA come una situazione in cui le economie di alcuni paesi sono condizionate dallo
sviluppo e dall'espansione di altre aree alle quali le prime sono soggette. Dos Santos sostiene che ci
sono tre liveli di dipendenza, e precisamente:
1) LA DIPENDENZA COLONIALE, consistente nel monopolio commerciale, della terra e
della forza lavoro da parte del potere coloniale;
2) LA DIPENDENZA FINANZIARIO-INDUSTRIALE, le società capitalistiche investono
in materie prime e in agricoltura nelle società sottosviluppate per sostenere il proprio
sviluppo industriale;
3) LA NUOVA DIPENDENZA, le società sottosviluppate diventano mercati per le società
capitalistiche.
I teorici marxisti del sottosviluppo, sostengono che l'unica possibilità per le società del Terzo
mondo di rompere il cerchio del sottosviluppo consiste nel perseguire una politica di sostituzione
delle importazioni come strumento di sviluppo capitalistico autonomo. I teorici marxisti della
dipendenza hanno rifiutato, invece, l'idea di una politica del genere, sostenendo che solo la
rivoluzione può rompere il cerchio del sottosviluppo. I marxisti ortodossi sostengono che le società
sottosviluppate, come parte di un sistema capitalistico mondiale, diverranno al pari del proletariato
mondiale, alienate, e quindi acquisiranno coscienza di classe dando vita ad una rivoluzione
proletaria. Le teorie dello sviluppo e della dipendenza dicono poco o niente sulla posizione delle
società comuniste, tranne che esse sono generalmente parte del sistema capitalistico mondiale. Tali
teorie, inoltre non spiegano neppure i rapporti economici tra paesi avanzati o metropolitani, o tra
membri più ricchi o più poveri dell'Unione Europea. La teoria della dipendenza in particolare
implica un rapporto a senso unico, ma è più appropriato definire i rapporti tra centro e periferia
come rapporti di interdipendenza ineguale. E' indubbio che le società del Terzo mondo sono in gran
parte economicamente dipendenti dalle società industriali, ma resta da discutere se tutta l'attività
economica possa essere definita nei termini di un'unica economia mondiale, di un unico modello.
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6.Modernizzazione e sviluppo
Il modello sovietico
Nel 1917, immediatamente prima della rivoluzione di febbraio che portò al rovesciamento del
regime zarista, l'80% della popolazione russa viveva in aree rurali e il 75% era occupato in
agricoltura. Ciò nonostante la Russia nel 1917 era economicamente più avanzata di quanto non lo
fosse stata l'Europa nel 1800. La Russia possedeva grandi risorse in materie prime e manodopera,
del personale tecnicamente preparato ed era in grado di trarre vantaggio dalle innovazioni
tecnologiche dell'Europa occidentale per costruire impianti moderni ed attrarre gli investimenti
europei. Anche se la prima guerra mondiale aveva avuto un impatto disastroso sullo sviluppo
economico russo, lo stato sovietico era in posizione più florida di quanto non lo fossero i paesi del
Terzo mondo dopo la seconda guerra mondiale. Lenin aveva fatto concessioni all'impresa privata
con l'adozione del Nuovo Piano Economico, e nonostante le enormi difficoltà la produzione già nel
1926 era considerevolmente elevata. Poco dopo Stalin decise di forzare lo sviluppo economico,
dando la priorità all'industria pesante. L'agricoltura fu collettivizzata, l'economia venne ricondotta
sotto una direzione centralizzata ed ogni problema affrontato con la forza. Una forte e coerente
ideologia, caratterizzò l'industrializzazione sovietica. Sotto Stalin l'obiettivo dell'industrializzazione
fu raggiunto riducendo i consumi e i livelli dei salari reali, e minimizzando gli investimenti in tutti i
settori dell'economia tranne che nell'industria pesante e nell'istruzione tecnica. Il costo in termini
umani è stato enorme, ma secondo i dati sovietici la produzione nazionale è cresciuta
significativamente; in seguito però, gravi problemi sono sorti nell'economia sovietica, in particolare
nel soddisfare la domanda di beni di consumo, e grandi sforzi sono stati effettuati per ristrutturare
l'economia. Intanto però IL MODELO SOVIETICO, era stato applicato in varie forme nei paesi
dell'Europa dell'est e in un modo estremamente modificato nella Repubblica Popolare Cinese. In
nessun paese, tuttavia, esso ha avuto un successo completo, e il fallimento economico è stato uno
dei fattori determinanti nel crollo dei regimi comunisti dell'Europa dell'est e dell'Unione Sovietica e
nelle difficoltà della Repubblica Popolare Cinese.
Il modello giapponese
A metà del diciannovesimo secolo il Giappone non si presentava come un candidato promettente
all'industrializzazione; aveva poche risorse minerarie, poca terra da poter mettere a coltura, poco
surplus di capitale e nessun tipo di personale tecnico specializzato. Inoltre una sia pur limitata ma
significativa penetrazione dell'Occidente aveva costretto il Giappone a sottoscrivere dei trattati
commerciali e il paese non era in grado di opporre una resistenza militare; si trovava quindi di
fronte ad una scelta: o accettare il dominio occidentale o resistere come meglio poteva. Ma il
Giappone aveva alcuni vantaggi che fecero sì che la resistenza all'Occidente diventasse
un'alternativa credibile. C'era infatti un piccolo gruppo di persone proveniente dalla tradizionale
élite samurai che era fortemente determinato a modernizzare il Giappone e a trasformarlo in una
grande potenza militare. Questa piccola élite ha dunque adottato una politica allo stesso tempo di
adattamento e di resistenza e si è dimostrata capace di volere e di assumere un ruolo imprenditoriale
trasformando il Giappone prima della fine del diciannovesimo secolo in un paese esportatore di
derrate alimentari. Il prodotto Giapponese di maggiore esportazione restava comunque la seta. Il
surplus agricolo, produsse un surplus di capitale che venne investito nello sviluppo tecnologico. La
prima guerra mondiale produsse un boom economico e diede al Giappone la possibilità di
consolidare la sua posizione come potenza economica e militare dominante in Asia. Questo
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sviluppo economico venne utilizzato per costruire la grande potenza militare giapponese, ma il
fattore determinante di tale sviluppo, è costituito forse dall'originale fusione tra la modernizzazione
e le basi tradizionali della società giapponese. Il ruolo innovativo di molti membri dell'élite samurai
riassume in sé infatti, questa combinazione del tradizionale e del moderno. furono costituite
moderne strutture politiche sotto forma di sistema parlamentare, una forma di governo basata su
ministeri e una burocrazia moderna, ma quest'ultima era pesantemente impregnata di valori
tradizionali. Queste strutture politiche non operavano in modo occidentale, in termini di esercizio
del potere. Le basi culturali e ideologiche dell'industrializzazione giapponese sono state una parte
vitale di quel processo. L'esempio del Giappone fa sorgere un interrogativo, e cioè se il sistema di
valori di alcune società del Terzo mondo possa giocare un ruolo significativo nell'indutrializzazione
di quei paesi.
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potere in cinque paesi, in Iran, in Sudan, in Turchia, in Afghanistan e in India. E ancor più spesso
movimenti fondamentalisti sono penetrati nei parlamenti, nelle assemblee rappresentative e nei
partiti politici di paesi come la Giordania, Israele, Egitto, Marocco, Pakistan e Stati Uniti. Altri
movimenti fondamentalisti hanno creato gruppi di opposizione potenti e letali, come Hamas, il
movimento islamista della resistenza palestinese. Al Qaeda, la rete terroristica organizzata da
Osama bin Laden, i guerriglieri del gruppo islamico armato in Algeria “Gia”, i rivoluzionari
islamici in Cecenia e nel Daghestan , gli estremisti cristiani negli Stati Uniti che perseguitano le
femministe e sparano ai medici che praticano l'aborto, etc. i media usano il termine
fondamentalismo per descrivere tutti questi attori che si ispirano alla religione. Nell'autunno del
2001 il fenomeno del fondamentalismo globale ha assunto un'importanza senza precedenti per
milioni di persone. Più di 2800 esseri umani appartenenti a quattro dozzine di nazioni sono morti
negli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001, per mano di bin Laden come atto di jihad o guerra
santa contro gli Stati Uniti e i loro alleati. In conseguenza degli attacchi gli Stati Uniti, la Gnan
Bretagna e le altre nazioni occidentali hanno preso definitivamente coscienza del fenomeno della
violenza religiosa di tipo fondamentalista.
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proposto all’attenzione degli scienziati politici questo aspetto. Purtroppo il suo contributo è
scarsamente seguito.
- Anche i temi dell’opinione pubblica e dell’ideologia hanno ricevuto poca attenzione da parte dei
sociologi, sebbene anche in questo caso la letteratura sia alquanto estesa. Esiste una grande mole di
lavoro sull’opinione pubblica, soprattutto sotto forma di sondaggi di opinione e survery, ma la loro
analisi è poco soddisfacente in quanto non si tiene conto di caratteristiche come intensità, rilevanza,
coerenza. L’ideologia ha per lungo tempo attirato l’attenzione degli studiosi di molte discipline ma
anche in questo caso, le ricerche sono state non complete quanto frammentate e soprattutto, restano
da approfondire i rapporti tra ideologia ed opinione pubblica ed il loro ruolo nel comportamento
politico.
- Infine, il mutamento sociale che però non è stato per niente trascurato dalla sociologia politica: le
teorie della rivoluzione sono molto numerose e quelle del sottosviluppo e della dipendenza, hanno
stimolato molte discussioni e molte opere. La rivoluzione è spesso associata ad un improvvisto e
catastrofico sconvolgimento, alcune società sono state improvvisamente distrutte ed altre si sono
trasformate così rapidamente. La necessità di una teoria generale del mutamento della società, si è
fatta ancora più urgente dopo il crollo dei regimi comunisti nell’Europa dell’Est ed in Unione
Sovietica.
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