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INDICE

INTRODUZIONE.............................................................................................................2

CAPITOLO I
PRIME TRACCE DI UTOPIA NEL DIBATTITO POLITICO

1. Il topos dell’Utopia..............................................................................................
2. L’Utopia rinascimentale......................................................................................
3. Il primo dei riformatori: Thomas More...............................................................

CAPITOLO II
ANTON FRANCESCO DONI

1. Vita……………numero della pagina in cui inizia il paragrafo]


2. Opere………………numero della pagina in cui inizia il paragrafo]
3. [Titolo paragrafo].........................[numero della pagina in cui inizia il paragrafo]
4. [Titolo paragrafo].........................[numero della pagina in cui inizia il paragrafo]
5. [Titolo paragrafo].........................[numero della pagina in cui inizia il paragrafo]

CAPITOLO III
LA CITTÀ IDEALE DI ANTON FRANCESCO DONI

1. I mondi celesti, terrestri, infernali degli Accademici Pellegrini .........................


[numero della pagina in cui inizia il paragrafo]
2. [Titolo paragrafo].........................[numero della pagina in cui inizia il paragrafo]
3. [Titolo paragrafo].........................[numero della pagina in cui inizia il paragrafo]
4. [Titolo paragrafo].........................[numero della pagina in cui inizia il paragrafo

1
Introduzione

2
1. Prime tracce di utopia nel dibattito politico

1.1 Il topos dell’Utopia

Il tentativo di definizione dell’Utopia è complicato dalla molteplicità di approcci


possibili.
Il neologismo è composto dal greco οὐ («non») e τόπος («luogo») e significa
“non-luogo”, con il significato di “non luogo”; o, in alternativa, inteso anche
come contrazione di εὖ («buono o bene») e τόπος («luogo») per indicare un
“ottimo-luogo”. Entrambi i significati possono essere attribuiti alla parola non
solo alternativamente, ma anche congiuntamente, frutto di un gioco di parole:
ottimo luogo che non è in alcun luogo, volto a segnare «l’oscillazione fra la
rivelazione di una realtà alternativa, comunque positiva, e l’epifania di un’alterità
confinata nell’astrazione dell’irrealtà»1.
La paternità del termine viene affidata a Tommaso Moro che, umanista e scrittore
vissuto a cavallo tra il XV e il XVI secolo, dà vita in Utopia all’utopia moderna,
genere basato sull’edificazione di un luogo altro rispetto al mondano o già
esistente, il che emerge non solo dal titolo del libellus, ma anche nella sestina
d’Anemolio in cui porterà avanti la dialettica dei controsensi unendo i significati
dell’inesistente e del felice: «Utopia priscis dicta [...], Eutopia merito sum
vocanda nomine»2.
È certo che la nascita di tale entità linguistica - così come la consapevole
ricerca del luogo politico perfetto - accompagni dalla sua fase germinale l’arco
umanistico borghese, non esistendo prima del 1516, ma servendo
successivamente ad individuare atteggiamenti di gran lunga precedenti 3. Per
quanto sia stato congeniale dargli una forma letteraria perfettamente riuscita,
l’opera sorse in un clima socioculturale dal quale trasse profondo fervore 4, non

1
Fra realtà e utopia. Dialoghi e trattati del Cinquecento sulla città ideale, in I mondi possibili: l’utopia,
a cura di G. Barberi Squarotti, Torino, Tirrenia Stampatori, 1990, pp. 111-138: 112
2
A. Maffey, voce Utopia, in Dizionario di politica, diretto da N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino,
Torino, 1983
3
A. Tenenti, L’utopia Nel Rinascimento (1450-1550). Studi Storici, vol. 7, no. 4, 1966, p. 689
4
Ivi, p. 690

3
occorrendo un vero e proprio sforzo per distinguere l’utopia rinascimentale
dall’idealizzazione politica e dall’escatologia religiosa dello stesso periodo, forte
degli impulsi di rinnovamento verso una riforma ecclesiastica, scavalcata
dall’attesa di un assetto conforme a principi evangelici. Del resto, «la storia delle
utopie è una storia di un settore profondamente morale e polemico del pensiero
umano; e benché gli utopisti, da un punto di vista realistico e politico, possano
aver scelto i mezzi discutibili per formulare le loro convinzioni, sono tuttavia
riusciti a trasmettere alla loro epoca le preoccupazioni per i difetti e le ingiustizie
delle situazioni e dei valori esistenti»5.
L’utopia come genere letterario nasce in Grecia, in cui si individuano tra i
primi utopisti, Ippodamo di Mileto, che «fu il primo di quelli che, pur non
occupandosi di politica, tentarono di dire qualcosa sulla costituzione migliore.
Egli progettava uno Stato con una popolazione di diecimila uomini, diviso in tre
classi: faceva una classe di artigiani, un’altra di agricoltori, la terza, poi, di
difensori forniti di armi»6; e Platone, che inaugurò un genere letterario, ma stabilì
«un cattivo precedente per tutti gli utopisti che sarebbero seguiti» 7. In quegli
stessi secoli, i sentieri dell’utopia furono percorsi anche da Evemero di Messenia,
da Giambulo e da Zenone di Cizio8.
Tuttavia, nel 1981, lo studioso polacco B. Baczko raccomandava di non
proseguire oltre nella definizione del concetto di utopia, piuttosto, invitando a far
luce sul dibattito circa le definizioni già allora disponibili ed assai eterogenee;
dunque, l’aggiunta di una definizione nuova avrebbe complicato l’uno ed
accresciuto le altre inutilmente9; da mezzo secolo, la letteratura sull’Utopia deve
fare i conti con la sua definizione: essendo divenuto un passaggio obbligato, vi è
chi, come G. Sartori, che si libera con fastidio ed insofferenza da quella che
possa risultare una gabbia soltanto per chi voglia entrarci dentro; affermando che
5
R. Dahrendorf, Uscire dall’utopia, Bologna, 1971, pp. 211-212 in T. More, L’Utopia a cura di M.
Baldini, p. 14
6
Aristotele, Politica, II, 8, 1267b
7
L. Mumford, Storia dell’utopia, trad. it., Bologna, 1969, p. 3
8
T. More, L’Utopia a cura di M. Baldini “Le utopie del Rinascimento. L’Utopia di Tommaso Moro”, cit.,
pp. 10-12
9
A. Andreatta, Utopia: Storia del concetto, Alla ricerca della politica di B. Boringhieri, 1995, p. 101

4
«il Mannheim riduce il concetto di Utopia sul terreno di quello di ideologia, per
poi operare una spartizione interna tra ideologie rivoluzionarie (dette utopie) e
ideologie conservatrici (ideologie propriamente dette). A parte l’artificiosità ed
arbitrarietà di questa contrapposizione, il risultato netto delle operazioni
definitorie del Mannheim è semplicemente che non possediamo più vocabolo per
indicare l’inattuabile»10. Inoltre, al di là della questione del genere letterario, e
circa l’attitudine psicologica dell’utopista, si sostiene che «non tutti gli scrittori di
utopie sono degli utopisti, poiché per esserlo occorre che abbiano fede nella loro
immaginazione politica, ritendendo non solo che il migliore dei mondi sia
pensabile, ma anche certo, ineluttabile, in quanto spinti dalla forza delle cose»11.
Volendo restringere il campo d’indagine alla dimensione filosofico-politico della
utopia, G. M. Chiodi si propone di parlare della «sua definizione più specifica ed
esclusiva. Altrimenti la suggestione della tematica potrebbe indurre ad estenderne
i confini, fino a comprendere tutto ciò che non sia tangibile realtà, non
concretezza, ma, in genere, pensiero, desiderio, ipotesi, fantasia»12.
Condizione generale dell’utopico è un momento di perdita-ricerca di un centro di
valori, che porta alla ricostruzione immaginaria, in cui si ricompongono delle
identità simboliche dissociate o sconosciute, con l’impossibilità della loro
realizzazione completa. Difatti, l’utopia nasce da una condizione specifica di
indifferenza rispetto al mondo mondano/esistente ed è un luogo delle identità
simboliche disconosciute dal mondo reale, che hanno qui la possibilità di
ricomporsi. Ad essa si somma la coscienza dell’impossibilità della loro
realizzazione completa: al suo interno si istaura sia una sensazione di
privatizzazione di ciò che si è perso e dissociato dal mondo reale; sia un
sentimento di desiderio affinché in qualche luogo del pensiero politico queste
volontà siano ricomposte. Inoltre, questi luoghi sono parte di un immaginario, un
impossibile: «Per lungo tempo utopia è stato un altro nome per definire l’irreale e
l’impossibile. Noi l’abbiamo posta in antitesi al mondo; in realtà sono le nostre
10
G. Sartori, Democrazia e definizioni, Bologna, 1957, p. 54, n. 2
11
A. Maffey, voce Utopia, in Dizionario di politica, cit.
12
G. M. Chiodi, Tacito Dissenso, Giappichelli, Torino, 1989, pp. 61-99.

5
utopie che ci rendono il mondo tollerabile [...] Più gli uomini reagiscono alla
propria condizione e la trasformano secondo modelli umani, tanto più
intensamente vivono nell’utopia. [...] L’uomo cammina con i piedi in terra e la
testa in aria; e la storia di ciò che è accaduto sulla terra...è solo una metà della
storia dell’uomo»13. Per cui, è sbagliato ritenere che l’ideale armonico sia
irraggiungibile e dimenticarlo, tanto da porsi come uno dei gravi errori della
contemporaneità: cioè pensare ad un immanentismo in cui è possibile solo ciò
che è già stato perseguito, rendendo l’umana civiltà inadatta. L’utopia, con la sua
posizione di una armonia che può essere raggiunta, rappresenta lo stimolo critico
per il potere e per la vita del singolo.
L’utopia si pone dunque, nella sua dimensione genotipica, come un luogo del
pensiero politico squisitamente liminale, ultramondano ma non celeste, un poter-
essere-altrove che è al contempo un dover-essere-altrove, appropriandosi di
quell’unica intersezione del pensiero, capace di garantire una programmatica
distanza dall’esistente ed una inespugnabile sovranità sui propri territori.
Se, da una parte si vedono strutture armoniche, ideali, e più vicine alla miglior vita per l’essere umano; è presente una impossibile

combinazione tra vita e idee, il che costruisce il quadro politico-filosofico in cui si riflette l’ harmonia mundi come reale mancato. Di qui,

l’umore dell’utopista è malinconico, in quanto ci si trova nell’impossibilità di una combinazione sul piano reale di interessi e desideri,

impedendo all’intelletto di rinunciare a sé stesso di fronte a limiti imposti dalle dure necessità della convivenza.

G. M. Chiodi chiarisce che nel suo significato storico più costante l’utopia debba essere ectopia, ossia «una posizione coscientemente e

volutamente eccentrica rispetto a quelle realmente esistenti ed operanti. È proprio quando si identifica un centro unificatore ed esauriente che

ci si separa da tutto il resto; e da qui l’ectopia, frutto dell’accentramento dogmatico che ispira la visione utopica”14.

L’utopia ruota attorno al potere e non può fare a meno del reale, né è la fantasia che potrebbe andare ben oltre il potere; né un contro-potere

che si avvicina alla massa del reale e lo sfida nel suo spazio di dominio; ma è un ruolo esterno allo spazio del potere, che pur non

avvicinandosi mai al reale, ne deve tener conto.

Questo immaginario si pone su un piano extra-storico e porta la sua dimensione eccentrica a qualificarsi come moto sapienziale permanente,

attorno ad un asse epistemico, costituito a sua volta dal volume politico del reale. Il risultato è un volontario esilio della ragione, in quanto si

13
L. Mumford, Storia dell’Utopia, cit., pp. 9-10.
14
G. M. Chiodi, Tacito Dissenso, cit., pp. 61-99.

6
auto-costruisce ed è lucidamente cosciente della propria costituzione. È la dimensione esterna ed eccentrica dell’immaginario politico e

sociale, con un pensiero figurato/composto.

Sulla base di ciò si collocano i dubbi di G.M. Chiodi sul fatto che l’antichità classica abbia prodotto utopie: Platone - il più famoso tra i

discepoli di Socrate - non presenta esempi di utopia politica, andando ben oltre, dando un luogo materiale al logos in modo da porre in essere

il logos come luogo utopico per eccellenza15. Nonostante la possibilità di immaginare attraverso il logos, la Πολιτεία non appartiene alla

dimensione utopistica-reale, in quanto non vi sono coordinate del potere tali da aver permesso l’elaborazione delle utopie nel mondo classico.

Inoltre, un’interpretazione della repubblica platonica in chiave utopica sarebbe del tutto riduttiva, in quanto non riuscirebbe a cogliere la

complessità del rapporto tra paradigma ideale e realtà. Semmai, tali spunti utopistici sarebbero riscontrabili nelle Νόμοι e in Luciano, in

riferimento ai Seleniti.

Per cui, in questa sua caratterizzazione specifica, l’utopia non può essere individuata nell’epoca classica, e neanche in una cultura

teleologico-cristiana: le utopie cristiane dei millenaristi o predicatori di fine secolo ricadono nelle prime posizioni ideologiche (di supremazia

del sapere o potere) o arrivano alla quarta dimensione ectopica.

In questo caso si tratta solamente di utopie a carattere religioso, in quanto, nel pensiero religioso lo spazio dell’utopico è già occupato da una

dimensione celeste, paradisiaca, di vita eterna, non tenendo conto della natura sostanzialmente laica dell’utopia, che razionalmente critica a

distanza il potere. Se la provvisorietà del mondano da una parte non consente la costruzione di una utopia sul piano del reale, dall’altra è

proprio il laico a permettere la ricerca di spazi liberi dal potere eterno.

Per cui, la divinità creatrice non può essere sostituita da delle costruzioni immaginarie dell’utopico, in quanto qualsiasi spazio disponibile

all’utopia è in realtà già occupato da concezioni che vertono sulla trascendenza.

15“L’utopista greco fa leva su un particolare problema sociale, variabile secondo le condizioni storiche, e su questo costruisce un modello di società perfetta in cui le
contraddizioni della realtà vengono armonicamente conciliate in un quadro di rapporti razionali” (L. Bertelli, 1976, p.185)

7
1.2 L’Utopia rinascimentale

Per tutto il Medioevo non si trovano opere utopiche nel senso proprio del termine, nonostante «molte eresie, che apparentemente sono

soprattutto di ordine speculativo, celano un fondo di aspirazioni sociali utopiche»16.

Non senza parvenza di ragione, una moltitudine di filosofi e sociologi si sono susseguiti nel fissare i caratteri fondamentali del fenomeno

dell’utopia, sperimentando una certa ostilità da parte degli storici, per quanto si siano ancor meno impegnati a dimostrare l’irriducibilità dei

differenti gruppi di utopie.

Un problema fra gli altri avrebbe potuto stimolare la loro curiosità: l’addensarsi nella cultura italiana di utopie, di città ideali, di miti politici

induce ad individuare il sorgere - o risorgere - del genere utopico17, con la tendenza ad incentrare l’elaborazione delle utopie tra il ‘500 -

secolo di presa di coscienza della sconfitta dell’ordine medievale, fondato sul potere secolare e spirituale di derivazione divina - e ‘600, con

una presa di posizione laicizzante e mondana dei sovrani che si costruiscono edificano da soli la loro fortuna.

Sotto questo aspetto, non vengono meno i legami con l’Umanesimo quattrocentesco, che ha avuto il merito di definire la cornice ideale entro

cui l’individuo potesse affermare la propria vocazione all’autoaffermazione: l’utopia umanistica del Quattrocento non mette direttamente in

discussione l’assetto ecclesiastico o politico; mentre le costruzioni utopiche del Cinquecento ignorano, o quasi, le lotte confessionali,

risultando laiche in un senso assai ristretto18.

La letteratura utopica del Rinascimento maturo riafferma all’interno di una variegata produzione la medesima realtà, avvertita come dolorosa

e inadeguata. L’utopia acquisisce un suo luogo storico-ideale, come genere laico-moderno e non rivedibile all’interno del pensiero teologico,

sfociando una tipica risultanza culturale, riflesso intellettuale di situazioni psicologico-sociali collettive; al contempo s’incarna in una forma

di elaborazione teorica creativa del tutto funzionale, matrice di fecondi e notevoli sviluppi.

Una prefigurazione pittorica dell’utopico è già rinvenibile nella fine del secolo precedente con la Primavera di Botticelli, opera pittorica già

insaziabilmente commentata, in cui gli elementi terrestri ed acquatici sono fusi insieme in una eloquente sintesi in un principio immanente,

ma idealizzato, che si rifà all’hortus conclusus platonico, comportando la progressiva emersione del problema della bellezza nell’ambito del

reale, rendendolo però utopisticamente il più armonico e perfetto possibile.

Le elaborazioni utopiche vengono pensate come esistenti ma, sottraendo il corpo politico allo spazio e al tempo diacronico, si rivelano

lontane e irraggiungibili, con coordinate indefinite, frutto delle insufficienti conoscenze geografiche che si avevano nel mondo del tempo. Il

tempo riesce ad essere talmente armonico da poter essere scandito ritmicamente, non è quindi né mondano, né diacronico, né storico. Ciò che

16
R. Ruyer, L’utopie et les utopies, Presses universitaires de France, Parigi, 1950, p. 147 in T. More,
L’Utopia a cura di M. Baldini, 1996, p. 13
17
A. Tenenti, “L’utopia Nel Rinascimento (1450-1550).” Studi Storici, cit., p. 689
18
Ivi, p. 691

8
preme mettere in luce è che l’utopia abbraccia l’ucronia secondo l’immagine di un tempo concreto e spazio ideale: la città ideale è

immaginata magari nel presente, ma eretta in una terra lontanissima, pressoché irraggiungibile19. Solo con l'avvento dell’illuminismo, nel

momento in cui il mondo è stato completamente conosciuto non è possibile ricorrere all’espediente della fictio letteraria, e all’utopia resta un

quadro di possibile verità. Per cui, non si parlerà più di sincronia distopica, ma di sintopia discronica, cioè uno spazio reale dislocato in un

altro tempo.

I luoghi dell’utopia rimandano a scenari onirici, ad isole remote: la Città del Sole campanelliana sorge nell’isola di Taprobana, nel lontano

oceano Indiano; Utopia, viene descritta come un’isola immaginata nel tempo di Tommaso Moro, ma in uno spazio distante geograficamente;

contrariamente, quando tutte le terre furono conosciute, l’utopia finì per posizionarsi in maniera diversa nello stesso luogo, ma messa in un

altro tempo. Il suo tempo è a sua volta un tempo paradossale, che richiama lo stadio finale di un’evoluzione (solitamente presunta, talora

vagamente rievocata) e il presupposto generatore di una nuova origine; un tempo assieme primordiale, ultimo e unico, una sorta di

escatologia laterale che, negando le sorti del divenire fenomenico, le rifonda al di fuori e alla fine della storia 20. L’utopista rinascimentale

dipingerà il suo mondo fuori lo spazio, in contrapposizione simmetrica al principe, il signore dello spazio, e allo stesso tempo farà in modo

che sarà anche al di fuori della sua possibilità di misurare il tempo. In quanto luogo immaginario dell’intellettuale contrapposto a quello del

principe - il che scaturisce nella dicotomia sapere-potere - l’utopia supporta l’affermazione della imitatio principis a scapito della laudatio

principis tanto acclamata dalla figura del cortigiano. Tuttavia, alla luce della considerazione secondo cui il potere del sovrano sia a sua volta

capace di scandire anche il tempo, nulla del reale concorre a minacciare l’armonia del tempo interno delle città utopiche, cioè di un tempo

strappato alla storicità, in quanto l’intellettuale vuole immaginare un luogo che sia immune dalla volontà di storicizzare il suo pensiero da

parte del sovrano, disponendolo in maniera libera e non venendo a patti con la volontà di quest’ultimo. Per cui, si pone come signore di un

tempo utopico, che si disfa del tempo mondano, in modo che all’interno di questo progetto utopico tutto sembri essere sospeso ed eterno,

oltre il tempo diacronico, non potendosi riconoscere come sincronia pura (perché distopica), né acronia pura, perché ritmo, reiterazione di un

identico21.

Il passaggio da un’utopia celeste a una terrena22 avvenne durante il periodo di crisi e cambiamenti che definì il declino del Medioevo, di cui

fu espressione l’Utopia di Tommaso Moro.

19
G. M. Chiodi, Tacito Dissenso, cit.
20
G. M. Ambrosio, L’Utopia e i suoi volumi: profili simbolico-politici dell’architettura medioevale e
rinascimentale, RIVISTA INTERNAZIONALE DI FILOSOFIA ONLINE, 2021
21
G. M. Chiodi, Tacito Dissenso, cit.
22
L. Mumford, Storia dell’Utopia, cit., p. 66

9
1.3 Il primo dei riformatori: Thomas More

Umanista insigne amico di Erasmo da Rotterdam; brillante ed influente avvocato – suo malgrado, poiché concepito come un Brotberuf,

essendo il «suo cuore rivolto più alle scienze umane che alle leggi»23– e critico severo del malcostume clericale, nonostante il suo saldissimo

fondo religioso e cattolico del suo animo fino all’estremo sacrificio di sé; Thomas More si presenta con il suo volto enigmatico, tanto da

parer «sdoppiarsi di continuo ed eluderci infaticabilmente»24.

Grande cancelliere di Enrico VIII ed esponente della delegazione inviata in Olanda, progettò per poi pubblicare a Lovanio il Libellus vere

aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia, nel 1516, data in cui il manoscritto

completo fu inviato al grande umanista olandese e suo amico, Erasmo da Rotterdam 25, a cui seguirà la traduzione inglese di Robinson

solamente nel 155126.

Tracciando accuratamente un esame più interno partendo da una suggestiva proposta di Nobile, si evince dalla lettera inviata che il titolo

originale fosse Nusquama, dal latino nusquam (in nessun luogo), poi sostituito dal neologismo greco Utopia, «passando forse per un

23
H. Maier, Der Humanist etc., p.43
24
L. Firpo, Introduzione a T. More, Utopia, Torino, Utet, 1970, p. 15
25
J. H. Hexter, L’Utopia di Moro. Biografia di un’idea, Guida, Napoli, 1975, p. 23
26
T. More, Utopia, tr. R. Robinson, London, 1551

10
intermedio Udepotia - calco greco di Nusquama, dall’avverbio oudepothi»27; così come, partendo dall’avverbio utinam che chiude l’opera,

si apre a una sorta di futuro anteriore «che dischiude lo spazio a un desiderio, a speranza sempre e necessariamente aperta»28.

È di Erasmo anche la testimonianza che il Libro Secondo fosse stato scritto in Olanda, prima del Libro Primo che Moro avrebbe aggiunto

una volta tornato in Inghilterra29.

Al momento della pubblicazione dello scritto – anno innanzi all’insorgere di Lutero contro Roma, e cinque anni innanzi all’apparire degli

Anabattisti – More era un uomo politico di considerevole spessore alla corte d’Inghilterra e conosceva per diretta esperienza i mali del

potere30: nonostante non avesse conoscenze appropriate per l’esercizio della suprema carica, More era addentro ai meccanismi della vita

politica dell’Inghilterra dei Tudor a cui guarda prudentemente.

Precocissimo, per la sua celebrità come umanista e la sua attività come giureconsulto e mercante della City, che gli aveva procurato ingenti

ricchezze, viene chiamato controvoglia a ricoprire le cariche politiche di cancelliere e di ambasciatore delle Corti francese e imperiale31.

Avendo però rifiutato, nel 1534, di prestare il giuramento che comportava il disconoscimento dell’autorità spirituale del pontefice di

pronunciarsi in favore del divorzio di Enrico VIII da Caterina d’Aragona, venne imprigionato nella Torre di Londra, processati per alto

tradimento e successivamente decapitato in nome della Chiesa cattolica32.

Ciò lo rende non solo un utopista, ma anche realista, in nome della giustizia e dell’autonoma ragione da cui sente il dovere di prospettare un

mondo alter et idem migliore del presente, riconoscendo però l’immediata irreformabilità della costituzione politica vigente33.

L’Utopia è un «piccolo libro smagliante di umanistiche raffinatezze linguistiche»34 scritto a due riprese – il secondo libro nel 1510 o 1515,

mentre il primo nel 1516 – ben distinte, anche se complementari in qualche modo.

Nel racconto di un viaggio immaginario – scritto in dottissimo latino, con l’uso di un linguaggio fitto di neologismi, costruiti attraverso la

combinazione di termini greci tra loro uniti –, la scelta del genere letterario non sembra essere dettata dal desiderio di catturale un vasto

pubblico di lettori, quanto l’uso criptico della lingua rende intelligibile l’opera solo alla stretta élite di dotti umanisti del tempo.

Allo stesso modo, l’opera testimonia la cauta presa di distanza dell’autore rispetto alla realizzabilità del suo progetto: in quanto «primo dei

riformatori impotenti, chiusi in un mondo troppo sordo e troppo ostile per ascoltarli»35, More getta le basi dell’utopia moderna come atto di

27
M. Nobile, Riflessioni sull’Utopia di Thomas More, 2017
28
G. Gisondi, Thomas More e la sua Utopia, Rivista di filosofia “logos”, 2020
29
J. H. Hexter, L’Utopia di Moro. Biografia di un’idea, cit., p. 23
30
Moro amaramente constata che il governo inglese, dopo aver incamerato i beni dei comuni per i favoriti
del re, ha tolto la terra ai contadini e vi ha messo pecore, costringendoli al banditismo per vivere: «le
pecore che di solito sono così docili e si nutrono di così poco (…) cominciano ad essere così voraci ed
indomabili da mangiarsi financo gli uomini, da devastare facendone stragi campi, case, città» (L. Firpo,
Introduzione a T. More, Utopia)
31
T. More, Utopia a cura di U. Dotti, 2016, Introduzione
32
Ibidem.
33
A. Andreatta, Utopia: Storia del concetto, Alla ricerca della politica di B. Boringhieri, 1995, cit., p. 106
34
L. Firpo, Introduzione a T. More, Utopia, Torino, Utet, 1970, cit.
35
Ivi, pp. 17-18.

11
“lucido realismo”36: dal punto di vista geografico, l’isola di Utopia non esiste, se non nell’immaginazione di Moro, seppur riprenda la

struttura delle cinquantaquattro contee dell’Inghilterra e del Galles ai tempi di More (con l’aggiunta della città di Londra), tracciata a forma

di mezzaluna è dotata di cinquecentomila passi di circuito, in modo tale la presentare i massimi vantaggi alla navigazione e alla difesa del

paese.

Il protagonista Raffele Itlodeo, immaginario erudito portoghese conoscitore del greco – attraverso cui era entrato in possesso delle nuove idee

risalenti a Platone – aveva lasciato ai suoi parenti le sue proprietà familiari ed era andato alla ventura alla ricerca di nuovi continenti con

Amerigo Vespucci, tanto che dopo essere stato nelle Americhe e nelle Indie, è pronto a raccontare a chiunque dello strano paese nell’altra

parte del globo dove – come Sterne disse della Francia «si fanno le cose meglio»37.

Inoltre, il suo nome rimanda al greco ithlos, “ciarla”, e daíein “dare, spargere”, con il significato di “colui che parla in maniera bugiarda” o

“contafrottole”. Vi è quindi una difficoltà di comprensione tra parole e verità, un non comprendere la posizione veritativa di chi racconta la

cosa.

Nel primo libro viene sviluppato sotto forma di dialogo tra More, Pietro Gilles e Itlodeo, un’aspra polemica contro gli ordinamenti politici

europei e, soprattutto, contro quello inglese, per bocca di Itlodeo ammette che tormenti e rovine sono ormai troppo avanti per ammettere un

qualsiasi rimedio, poiché «fintanto che vi saranno proprietà e fintanto che il danaro sarà la misura di tutte le cose, io non posso pensare che

una nazione possa essere governata secondo giustizia e felicemente [...] perché tutte le cose saranno divise fra pochi mentre gli altri saranno

lasciati nella più assoluta miseria»38.

Si dice molto poco delle abitudini, dei costumi, delle leggi e degli ordinamenti degli Utopiani, il taglio scientifico di indagine sociologica si

sofferma sulle leggi di tre «comunità che vivono secondo un governo civile e un buon ordinamento», cioè i Polileriti, gli Acori e i Macarii, le

cui «leggi e istituzioni» sono esempio «mediante il quale i nostri regni possano emendare le loro colpe, malvagità ed errori»39.

Nel secondo libro, animato dalla convinzione della bontà naturale dell’uomo e dalla fede nella religione, descrive attraverso un monologo la

scoperta dell’isola e di Amauroto – dal greco “ἀμαυρός”, riassumibile in “oscuro” o “sonosciuto” – una “città che non si vede” e che ben si

adatta alla città di un’isola che si trova in nessun luogo, anticipando una sorta di anti-Londra, di cui conserva solo una nebbiosità spettrale,

ma distaccandosi, presentando una società razionale e felice, priva delle ingiustizie e violenze che la caratterizzavano.

Se l’Utopia era il ponte attraverso il quale More tentava di colmare la distanza tra vecchio ordine del Medioevo ed interessi nuovi del

Rinascimento40, A. Sudre denota la generale tendenza verso quattro fini: la censura dello stato dell’Inghilterra e della politica dei principi

contemporanei; alla censura del principio della proprietà privata secondo il concetto platonico della proprietà di Stato; al disegno di una

36
Ivi, p. 10
37
L. Mumford, Storia dell’Utopia, cit., pp. 66-67
38
Ivi, p. 69
39
J. H. Hexter, L’Utopia di Moro. Biografia di un’idea, cit., pp. 27-28
40
L. Mumford, Storia dell’utopia, cit.

12
società fondata sul principio di comunanza; all’esposizione di un sistema di politica esterna, applicabile all’Inghilterra indicata sotto al nome

trasparente di Utopia41.

Il regime economico e sociale presente nell’opera si basa sull’obbligatorietà del lavoro e sulla giornata lavorativa di sei ore, purché rimanga

all’operaio il tempo per coltivare la mente; gli intellettuali sono considerati improduttivi e ristretti a cerchia elitaria; la vita economica si

svolge secondo scambi di merci depositate in grandi magazzini pubblici; i metalli preziosi sono disprezzati e l’oro declassato a mero

accessorio che adorna i colli dei condannati.

Quanto all’organizzazione militare, il More stabilisce delle condizioni che sono ben lungi dall’essere ideali o umane, istituendo la coscrizione

obbligatoria in difesa del paese – non al perseguimento della stessa – e come più alto scopo politico dell’uomo di stato, in quanto «non vi è

cosa più biasimevole della gloria acquistata con le armi»42. Quando la guerra è necessaria, gli Utopiensi assoldano una tribù di mercenari, gli

Zapoleti, assegnando loro il posto più pericoloso, destinati al combattimento al di fuori del territorio, in modo che i pochi sopravvissuti

realizzano economie sui forti premi promessi a questi mercenari e insieme compiono, a loro criterio, opera morale, purgando l’umanità da

genti malvage.

La costituzione politica è una sorta di federazione democratica governata dal principe Utopus, fondatore delle esigue leggi dello Stato, «che

da conquistatore ha dato nome all’isola» e da mitico fondatore «seppe condurre quella gente rusticana e rozza a un tal grado di civiltà e

costumatezza da superare quasi ogni altro mortale»43.

Al di là delle ipostasi che puntualmente si colgono nella sua storia, la figura del detentore del potere può essere sempre individuata nei

differenti attori che hanno detenuto questo ruolo, dal principe rinascimentale fino al sistema attuale dei partiti come detentori del kratos44,

poste da G. M. Chiodi come figure modali «come figure indicanti gli spazi dinamici del potere […] intese come espressioni qualificanti il

rispettivo spazio e non come designazioni di individui singoli che rivestono un ruolo, e nemmeno di categorie di tipo dialettico, indicanti le

linee di condotta più elementari e generali di fronte al potere»45.

L’incompiutezza delle istituzioni pre-utopiane trova conferma in linguaggio iniziatico nella parola Abraxa, senza la s finale. L’aveva

adoperata correttamente Erasmo invitando Moro a replicare all’elogio della follia con quello della saggezza. Ma la saggezza prima della

venuta di Utopo è a metà e la s rimasta nella penna dimezza il significato di conoscenza perfetta che gli gnostici assegnavano alla parola le

cui lettere davano 36546.

41
T. Moro, L’Utopia ovvero la Repubblica Introvabile, G. Daelli e Comp. Editori, Milano, 1863, p. 11
42
T. More, Utopia a cura di L. Firpo, traduzione di O. Lando, Unione Tipografico-Editrice Torinese,
Torino 1971, De la guerra
43
A. Andreatta, Utopia: Storia del concetto, Alla ricerca della politica di B. Boringhieri, 1995, cit., p. 106
44
P. Pissavino, “UTOPIA E ARCO STORICO: Linee Preliminari per Un’analisi Differenziale.” Il Politico, vol.
50, no. 1, 1985, p. 50
45
G. M. Chiodi, La menzogna del potere. La struttura elementare del potere nel sistema politico, Milano, 1979,
p. 180
46
A. Maffey, voce Utopia, in Dizionario di politica, diretto da N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino,
Torino, 1983, cit.

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Tale calcolato scambio tra saggezza e follia – evocato all’interno della cornice che Raffaele Itlodeo si propone di presentare ai propri scettici

interlocutori – stravolge il punto di vista del lettore nel guardare alla realtà, con la possibilità di immaginarsi in una società diversa e vederla

funzionare mentalmente, capovolgimento a cui si lega l’immaginaria estensione ad un intero mondo di modi di vivere che, stigmatizzati

come “folli” nel mondo reale, trovano riparo all’interno di Utopia come “saggi”.

L’uso sapiente della fictio letteraria acquisisce un ruolo fondamentale nella logica della moderna utopia, assurgendo a novità assoluta

introdotta da More, di cui A. F. Doni successivamente coglierà prontamente la forza47.

Per cui, ponendo al centro della genesi del capolavoro moreano il topos del nuovo-altro mondo rispetto all’Europa, egli guarda ai resoconti

geografici con gli occhi dell’umanista, restando però fedele al mondo antico, in cui si è manifestata la produzione di un’utopia come atto

inaugurale della riflessione sulla politica ad opera di Platone, precursore all’invenzione del termine. Considerando che il più grande

rappresentante dell’umanesimo inglese del tempo era cresciuto nell’atmosfera culturale della casa del cardinale Morton, apprendendo

rapidamente il greco da Linacre, le sue traduzioni in latino di Luciano e dell’Antologia greca e gli studi da lui compiuti su Platone, mostrano

come fosse in lui radicata la conoscenza della cultura greca48.

More comprese le misure più radicali della Πολιτεία come un progetto che dovesse riguardare tutta l’antipolis e non solo il suo gruppo

dirigente - il che è un fraintendimento comune nei lettori di Platone fino all’800. Altri rimandi presenti nell’opera sono all’utopia ellenistica

di Giambulo, per l’atmosfera di felice naturalismo; all’ideale umanistico di ascendenza stoico-ciceroniana, di leggi naturali o eterne; il

lucianeo morosophos (mezzo saggio – mezzo matto) e l’impegno profuso nella traduzione in latino degli Opuscula lucianei, che non

sfuggono alla ricezione della prima edizione giuntina del 1519, accompagnata da quattro dialoghi dello scrittore greco ( Cynicus, Menippus,

Philopseudes, Tyrannicida), ripresi dall’edizione veneziana del 1516.

Se emerge chiaramente che l’opera moreana evada dalla dimensione politica per istallarsi in quella dell’utopia, però, bisogna prendere in

considerazione che fin verso la metà del Cinquecento non fosse ancora concepibile, nemmeno tra gli intellettuali più arditi, arrogarsi la

prerogativa di mettere in discussione l’assetto politico di un singolo paese - per non parlar di quello della società intera 49: il porsi dell’opera

moreana come punto di cesura fra due differenti epoche, nel passaggio tra profezia e utopia, predispone Prodi a constatare l’inutilità del

disputare sulla continuità o meno del pensiero utopico di Tommaso Moro, seppure la separazione dalla profezia permette di tracciare uno

spartiacque che divide due epoche e due mondi non soltanto per i suoi contenuti (la nuova etica pubblica e privata, l’abolizione della

proprietà privata e la comunione dei beni ecc.), ma anche per il suo proporsi come distinto da ogni messianismo millenaristico50.

47
C. Rivoletti, Le metamorfosi dell’Utopia. Anton Francesco Doni e l’immaginario utopico di metà
Cinquecento, Pacini Fazzi Editore, Lucca, 2003
48
G. R. Potter, Storia del Mondo Moderno. Volume Primo: Il Rinascimento (1493-1520), Cambridge
University
49
A. Tenenti, L’utopia Nel Rinascimento (1450-1550), Studi Storici, 1966, cit., p. 693
50
P. Prodi, Occidente senza utopie, p. 28

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Difatti, More si poneva realmente come uno dei tipici rappresentanti dell’alta cultura inglese dei primi decenni del XVI secolo , a pieno

contatto con il Rinascimento italiano, posta specialmente sotto l’influsso dei platonici fiorentini, che «in continuità di pensiero con la

tradizione platonica, aristotelica e patristica, ammetteva la priorità degli interessi pubblici e dell’ideale irenico come fondamento del pensiero

e della prassi politica, aperti verso l’avvenire e partendo da un’ampia visione storica che in Moro raggiungeva proporzioni solo oggi appieno

valutabili»51.

Tali scritti mostrano una piena fiducia nella possibilità di migliorare le condizioni del popolo mediante opportune riforme, di una profonda

speranza nell’avvento della pace universale52, considerando che gli Oxford Reformers «traevano le norme per una convivenza operosa tra i

popoli da quanto di meglio lo spirito e la cultura dell’umanità avevano fino allora prodotto»53.

Quanto offerto da tali ideali diventa centro di interesse di due poligrafi, Anton Francesco Doni e Ortensio Lando: il primo fiorentino, il

secondo milanese e di diversa formazione, che si occuparono non solo dell’allestimento della traduzione, ma anche in modo significativo

nella loro produzione di testi utopici.

Sebbene la prima edizione italiana risalga al 1519, l’opera raggiungerà l’apice della sua radicale diffusione per iniziativa di Doni.

Nonostante fosse promotore del volgarizzamento dell’opera, quest’ulta vede la sua paternità landiana accettata dalla maggioranza della

critica, sulla base della testimonianza offerta da Sansovino, il quale pubblicò il II libro del volgarizzamento nel suo Del governo de’ regni e

delle repubbliche così antiche come moderne libri XVIII, attribuendolo appunto al poligrafo milanese54.

L’opera, seguendo l’impostazione data dagli umanisti, non venne mai considerata puro “gioco letterario”55 : nel frontespizio della prima

versione italiana, si espone la presenza nell’opera di More di «nuovi modi di governare Stati, reggier Popoli, dar Leggi à i senatori, con molta

profondità di sapienza»56, a cui segue una «Storia non meno utile che necessaria»57, che rivela come l’uso sostitutivo dei termini «Storia» a

«libellus» e «necessario» a «festivus» rispondano meglio alla serietà del contenuto dell’opera58: A.F. Doni, nella sua lettera dedicatoria a M.

Gieronimo Fava, affermava che nella Repubblica descritta da More di trovano «ottimi costumi, ordini buoni, reggimenti santi, governo

sincero, e uomini reali, poi ben composte città, gli offici, la giustizia, e la misericordia»59.

Per cui, erge con More la presenza della morale regolatrice di ogni azione umana, sia pur quella che pare esplicarsi nei campi apparentemente

lontani dalla coscienza. Precursore di sistemi esclusivisti, quali l’Illuminismo deistico e il marxismo, potendo essere ritenuto soltanto nel

51
V. Abbundo, Tommaso Moro, Napoli, 1962, p. CXVII
52
C. Quarta, Tommaso Moro. Una reinterpretazione dell’«Utopia», edizioni Dedalo, 1991, p. 19
53
V. Abbundo, Tommaso Moro, cit.
54
Firpo in Thomas More e la sua fortuna in Italia, pp. 48-52, tratteggia come Lando fosse venuto a
conoscenza dell’opera di Buonvisi (intimo amico di More), con cui soggiornò nella villa di Forci; invece,
viene riconosciuto a Doni il ruolo di fautore dell’edizione, sulla base della lettera previamente indirizzata
a Fava.
55
C. Quarta, Tommaso Moro. Una reinterpretazione dell’«Utopia», cit., p. 20
56
L. Firpo, Introduzione a T. More, Utopia, Torino, Utet, 1970, cit., p. 129
57
Ibidem
58
C. Quarta, Tommaso Moro. Una reinterpretazione dell’«Utopia», cit., pp. 21-22
59
L. Firpo, Introduzione a T. More, Utopia, Torino, Utet, 1970, cit., p. 133

15
senso che alcune opere di Michelangelo, imitate e studiate da artisti di uno spirito inferiore, si sono dimostrate fatali al corso ulteriore

dell’arte60.

60
A. Castelli, Rivista Di Filosofia Neo-Scolastica, vol. 41, no. 4, 1949, p. 481

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