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Il lettore che ha esaminato con pazienza ed apertura di spirito le tre appendici precedenti,

dedicate rispettivamente al trotzkismo, al maoismo ed al bordighismo, si sarà fatto un'idea sulla


dinamica delle eresie minoritarie del comunismo storico novecentesco in Europa (1917-1991).
Ho parlato di dinamica delle eresie minoritarie perché ogni eresia è una risposta determinata ad
una ortodossia, e non può essere separata metodologicamente da essa. Quando l'ortodossia
tramonta, l'eresia generalmente non la sostituisce (come in genere sperano soggettivamente gli
eretici), ma entra in crisi anche lei. Ad esempio, con la fragorosa e vergognosa caduta dei sistemi
politici e teorici di Giuseppe Stalin e di Palmiro Togliatti il trotzkismo ed il bordighismo, che si
erano storicamente costruiti in polemica con questi sistemi politici e teorici, non riescono affatto
a sostituirli, ma continuano a scorrere parallelamente al flusso degli eventi storici. Fuori della
Cina, il maoismo certo sopravvive come rivoluzione contadina anti-feudale ed anti-imperialista,
ma in Europa e negli USA è condannato a diventare spesso una corrente del marxismo
universitario (Charles Bettelheim, Gianfranco La Grassa, eccetera).

2. In questa quarta appendice parleremo però di qualcosa di qualitativamente diverso, ed a mio


avviso di molto peggiore. Parleremo di una corrente che ha invece buone prospettive di essere
"maggioritaria" per un bel pezzo, anni e forse decenni, e che già ora sta marginalizzando nel
cosiddetto "movimento" ogni variante residua del marxismo. Tutto questo non avviene
certamente a caso. Si tratta appunto di una nuova fortissima variante post-moderna
dell'anarchismo, molto diversa però da quella classica, ottocentesca e primonovecentesca. Il
vecchio anarchismo era un anarchismo della produzione, un nobile anarchismo di artigiani, un
anarchismo che comprendeva una teoria ed una pratica dell'autogoverno politico e
dell'autogestione economica. Nei suoi esponenti migliori esso non rifiutava assolutamente la
politica come metodo e come terreno. Rifiutava certamente lo stato, e su questo non vi sono
dubbi, ma non rifiutava però la politica nel senso di Aristotele e di Karl Marx, se ovviamente
questo termine è ricostruito correttamente. Questo nuovo anarchismo è invece un anarchismo
parassitario del consumo, ed adotta non a caso una filosofia antropologica, quella di Foucault e
di Deleuze, che è incompatibile con ogni regolazione della politica e dell'economia, perché si
riferisce ad una sorta di "io" desiderante integralmente deresponsabilizzato e privo di capacità
normativa.

3. Bisogna che il lettore abbia subito ben chiaro il quadro fin dal principio: questo nuovo
anarchismo parassitario del consumo della classe media globale, che vuole delle Posse e non dei
Partiti, e che ha perciò in testa come culmine antropologico delle bande di giamaicani drogati, è
in prospettiva molto forte. È già ora molto forte. Ma constato che non ci sono le condizioni
minime perché si capisca perché. E non ci sono perché il metodo marxista, ben applicato, che
dovrebbe servire a capire qualcosa, si trova oggi calpestato sotto i piedi di ogni cretino che
passa.

In estrema sintesi, ci sono oggi in Italia tre tipi di marxisti, o cosiddetti tali. Primo, coloro che
naturalmente parlano di rinnovamento, ma hanno in testa sempre e solo il comunismo storico
novecentesco, Stalin, Togliatti, Secchia, eccetera. Secondo, i seguaci autoreferenziali delle grandi
eresie ideologiche organizzate del comunismo storico novecentesco (e cioè i trotzkisti, i maoisti
europei ed i bordighisti). Terzo, e chi scrive si mette in questa terza categoria, chi ritiene che
senza una vera e propria riforma radicale e dolorosa del modello marxista classico non ci sia
alternativa all'esodo integrale dal marxismo. Dunque, o riforma radicale del marxismo o esodo
integrale dal marxismo.

La terza categoria è disprezzata ed insultata dalle prime due. Su questo non mi faccio la benché
minima illusione. Ma in tutta questa farsa l'elemento grottesco sta in ciò, che mentre le prime
due correnti (ortodossa ed eretica) concentrano il loro disprezzo su coloro che propongono una
riforma radicale del marxismo il terzo gode, ed il terzo è proprio l'anarchismo post-moderno del
consumo parassitario della nuova classe media globale prodotta dall'imperialismo. Il successo
del libro sull'Impero di Negri-Hardt, da me criticato nel terzo capitolo di questo stesso libro, ne è
un segnale inquietante ma anche significativo.

Ed allora, che fare? cerchiamo di fare un discorso chiaro e comprensibile.

Organizzerò il mio discorso secondo la seguente successione di argomenti, con alcuni richiami
bibliografici quando lo riterrò utile e necessario per stimolare l'autonoma ricerca del lettore.

In primo luogo, bisogna subito cogliere il punto essenziale, e cioè il passaggio dalla Rivoluzione
alla Disobbedienza. La Disobbedienza non è affatto una variante depotenziata di Rivoluzione, ma
è il suo contrario. Il terreno della Rivoluzione è quello di una organizzazione alternativa della
produzione sociale, e si porta dietro ovviamente anche proposte radicalmente alternative di tipo
politico e culturale. Il terreno della Disobbedienza è un povero e subalterno terreno mediatico,
già perfettamente descritto in modo profetico negli anni Sessanta dai Situazionisti, ed è un
terreno su cui si consuma una sorta di gestualità virtuale ininterrotta, del tutto funzionale (anche
se stavolta fastidiosa per i commercianti) all'integrazione nel sistema di "ghetti" autogestiti di
stravolti che ascoltano musica a pieno volume.
Se non si coglie la natura storica e teorica del passaggio dalla Rivoluzione alla Disobbedienza è
assolutamente inutile andare avanti. Ma se la si è colta, si può passare al secondo punto.

In secondo luogo, è bene ritornare sulla differenza fra il vecchio ed il nuovo anarchismo. Vietato
confonderli. E vietato ripetere pappagallescamente i vecchi insulti infami contro l'anarchismo
fatti secondo un'ottica che prima sputa sull'anarchismo e poi giustifica e loda lo stalinismo. Mai
dimenticare che il vecchio anarchismo fu un movimento di spiriti liberi, di produttori e di
lavoratori.

In terzo luogo, e qui viene il difficile, bisogna brevemente ricostruire i due fondamentali
elementi, almeno in Europa, di questo nuovo anarchismo post-moderno della disobbedienza e
del consumo parassitario. Veramente sarebbero più di due, e scrivendo due si semplifica. Ma
senza semplificare un po' è difficile fare cogliere l'essenziale. In breve, ci sono due elementi, un
elemento sociale e politico, ed un elemento psicologico ed antropologico, fusi insieme.
L'elemento sociale e politico viene dal cosiddetto operaismo italiano, e sarò allora costretto a
ricostruirne almeno la dinamica di fondo. La figura di Toni Negri è in proposito importante, anche
se provo un certo fastidio nel doverci tornare sempre sopra. L'elemento psicologico ed
antropologico, invece, viene dalla cosiddetta scuola francese del desiderio e della differenza,
scuola che in realtà comprende molti esponenti, che qui per brevità verranno ridotti a due, Gilles
Deleuze e Michel Foucault.

Il punto essenziale sta nel comprendere la fusione fra le due convergenti tradizioni, l'operaismo
italiano e la scuola francese del desiderio e della differenza. Storicamente, questa fusione
comincia ad effettuarsi a metà degli anni Settanta del Novecento. È già passato più di un quarto
di secolo, ma questo non deve stupire. Ci vuole almeno un quarto di secolo nella storia perché
una corrente possa costituirsi, consolidarsi, dotarsi di un linguaggio di riconoscimento, e per
usare un termine di Antonio Gramsci aspirare alla "egemonia".

E infatti stiamo arrivando, dopo un quarto di secolo, ad una sua possibile e probabile egemonia.
Vi sono certo elementi strutturali, la formazione di una nuova classe media globale legata alla
comunicazione che è il destinatario sociale privilegiato di questa nuova variante post-moderna
dell'anarchismo del consumo opulento. Ma questa vittoria non sarebbe stata tanto facile senza
la tradizionale stupidità settaria dei marxisti di ogni colore, impegnati ad odiarsi fra di loro ed a
sostituire il dibattito con velenose battute da ubriaconi.
In quarto luogo, infine, terminerò questo breve testo con un "che fare" sommario. Il vantaggio
preso dalla scuola Negri-Foucault è già tale che a mio avviso sarà una storia lunga. Facciamo
almeno il primo passo.

5. Il filosofo tedesco Koselleck è forse colui che ha saputo meglio disegnare la genesi del
concetto moderno di Rivoluzione. Nel pensiero politico degli antichi greci questo concetto
semplicemente non esisteva, ed il suo pallido corrispondente, stasis, significa solo rivolta,
ribellione, tumulto, non certo rivoluzione. In greco moderno, la lingua che deriva direttamente
dal greco antico, il termine "rivoluzione" (epanastasis) ha dovuto essere creato su di un modello
posteriore, latino ed europeo. Come è noto, il termine ha dovuto passare dall'ambito
astronomico (revolutio, rivoluzione degli astri) ad un ambito politico.

Tutto questo non è casuale. Il termine di rivoluzione nasce in un ambito direttamente utopico. Si
tratta del ristabilimento, per definizione utopico, di una situazione originaria ottimale nel
frattempo perduta. Come in tutte le utopie precapitalistiche, si ha un concetto naturalistico dei
bisogni da soddisfare in modo possibilmente giusto ed egualitario, e non si ha assolutamente in
mente il quadro economico della produzione capitalistica, in cui i bisogni vengono artificialmente
sollecitati con la pubblicità e con la diversificazione dell'offerta. In proposito, per quanto
concerne il "comunismo" di Marx è possibile pensare sia che esso sia appunto "scientifico" (il
socialismo scientifico di Engels, il comunismo critico di Labriola), sia che invece esso sia di fatto
"utopistico". Questa è per esempio la mia personale opinione. Per essere più esatti, ritengo che
la teoria di Marx del modo di produzione capitalistico e delle sue dinamiche strutturali sia
scientifica (ed ovviamente modificabile come avviene in tutte le teorie scientifiche), mentre la
sua concezione del comunismo sia di fatto intrisa di utopismo. Ma per me "utopismo" non è una
parolaccia, o una parola dispregiativa. Essa connota soltanto un ideale naturalistico dei veri
bisogni dell'uomo.

Ho aperto questa parentesi perché voglio far subito notare che la teoria dei desideri di Deleuze e
Negri non è una teoria dei bisogni (cfr. M. Bianchi, I bisogni e la teoria economica, Loescher,
Torino 1980). Il motivo per cui generalmente i marxisti dicono che è impossibile realizzare una
rivoluzione comunista dentro il modo di produzione capitalistico sta appunto nel fatto che essi
ritengono che il capitalismo sviluppa falsi bisogni. Se invece partiamo dal "desiderio", come lo
interpretano Deleuze e Negri, effettivamente non c'è più nessun bisogno di una rivoluzione,
perché il soddisfacimento dei flussi desideranti delle moltitudini può tranquillamente essere
esaudito dentro il quadro della produzione capitalistica stessa. Si ha così una tipica rivoluzione
senza rivoluzione, ed è esattamente per questo che Negri piace ai due poli opposti delle
oligarchie capitalistiche al potere e dei centri sociali autoghettizzati di consumo detto
"alternativo".

Ma torniamo all'idea di Rivoluzione. A suo tempo Karl Löwith aveva interpretato il marxismo e la
rivoluzione comunista come una semplice secolarizzazione dell'escatologia giudaico-cristiana nel
linguaggio moderno dell'economia politica inglese e della filosofia hegeliana della storia. Ma
questo significa ridurre la rivoluzione comunista ad una semplice riproposizione atea del
messianesimo. Koselleck è in proposito più acuto, perché sa bene che la rivoluzione, nonostante
la sua componente utopica, ha bisogno di una nozione di Storia come "concetto trascendentale
riflessivo". E questo concetto trascendentale riflessivo, per cui l'umanità intera è pensata come
un unico soggetto che prende coscienza di sé nel tempo, nasce solo a metà Settecento.

6. I marxisti sanno bene che il concetto di Rivoluzione nasce a metà Settecento per ragioni ben
precise. E la ragione è appunto che lo sviluppo della produzione borghese-capitalistica di merci
non è alla lunga compatibile con le strutture politiche e religiose feudali e signorili. La rivoluzione
borghese è infatti una rivoluzione "seria", una vera rivoluzione. Non si è trattato di soddisfare
flussi desideranti di moltitudini di Deleuze e di Negri del tempo con il codino incipriato e con le
calze di seta, ma di organizzare in modo alternativo la produzione sociale.

Questa produzione sociale deve essere pensata in modo omogeneo, e questo comporta
filosoficamente il pensarla sotto tre coordinate assolutamente astratte: l'Umanità, la Storia e la
Materia. Non a caso l'umanesimo, lo storicismo ed il materialismo moderno nascono tutti e tre
nel Settecento. L'Umanità è una astrazione, pensata attraverso l'unificazione simbolica di tutte le
diverse etnie, stirpi, nazioni, religioni, eccetera, in una sola soggettività razionale che si scambia
legalmente merci prodotte da un lavoro umano reso astratto dall'egualitarismo giuridico e
politico. La Storia è una astrazione, pensata attraverso una concezione unitaria dei flussi
temporali che consentono all'umanità di progredire. La Materia e un'astrazione, pensata
attraverso l'edificazione di uno spazio omogeneo e pieno in cui le merci possono dirigersi di qua
e di là senza ostacoli, e soprattutto senza l'interferenza di un Dio che abita in un altro spazio ed in
un altro tempo.

Una parentesi. Se i marxisti fossero all'altezza del loro padre spirituale Marx, avrebbero capito da
tempo che l'Umanesimo, lo Storicismo ed il Materialismo non sono elementi di una nuova
filosofia comunista anti-borghese e post-borghese, ma sono elementi strutturali della visione del
mondo integralmente borghese-capitalistica. È il mondo borghese-capitalistico che deve
astrattizzare ed omogeneizzare simbolicamente (e fittiziamente) il Soggetto (l'umanità), il Tempo
(la storia) e lo Spazio (la materia). Se un giorno avremo qualcosa di simile ad una specie di
comunismo, questi universali astratti saranno indubbiamente modificati, e non si avrà più né
umanesimo, né storicismo, né materialismo.

Lo capiscono questo i marxisti? Ma non scherziamo. Ma neppure per sogno. Ma neanche per
sbaglio.

L'idea moderna di rivoluzione comporta due aspetti. Un aspetto è teorico e filosofico, e concerne
le varie teorie della rivoluzione (cfr. K. Lenk, Teorie della rivoluzione, Laterza, Bari 1976). Il
secondo aspetto è sociologico, e comporta l'analisi delle classi e dei gruppi sociali coinvolti in una
rivoluzione (cfr. S. Scamuzzi, L'analisi sociologica delle rivoluzioni, Loescher, Torino 1985). In
genere i filosofi si occupano solo dell'idea di rivoluzione, gli economisti delle crisi economiche di
sistema, i sociologi dei gruppi sociali, i giuristi delle violazioni di legalità costituzionale, gli
psicologi del disorientamento, eccetera. Se Marx avesse dovuto partecipare ad un concorso per
una cattedra universitaria, è matematicamente sicuro che il marxismo non sarebbe mai nato,
perché lo avrebbero spietatamente bocciato non appena avesse infranto lo steccato disciplinare.

8. La teoria della rivoluzione di Marx, in estrema sintesi, comporta due aspetti interconnessi,
l'uno oggettivo e l'uno soggettivo. L'aspetto oggettivo è la crisi complessiva del modo di
produzione, attraverso la contraddizione dialettica fra sviluppo delle forze produttive e natura
dei rapporti sociali di produzione. l'aspetto soggettivo è la formazione del soggetto
rivoluzionario, che dopo il 1858 non è assolutamente la classe operaia e proletaria, ma è il
lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all'ultimo manovale, alleato
con le potenze mentali della produzione capitalistica, da Marx connotate con la paroletta inglese
di general intellect.

9. La teoria della rivoluzione in Lenin, a mio avviso, non è solo un'applicazione specifica in
ambiente russo della teoria originaria di Marx, ma è una teoria qualitativamente diversa. Essa
infatti non ha come terreno il modo di produzione, ma la formazione economico-sociale. Si tratta
di presupposti in via di principio diversi. Il modo di produzione implica una bipolarità strutturale,
quella di Borghesia e Proletariato. In questo quadro, il soggetto si costituisce per "ondate di
proletarizzazione", e lo stesso lavoratore collettivo cooperativo associato può essere concepito in
termini di progressiva proletarizzazione dall'alto (medi e piccoli borghesi, artigiani, eccetera) sia
dal basso (contadini poveri, eccetera). La formazione economico-sociale, invece, non comporta
proletarizzazione, ma un processo politico di alleanze di classe.

Su questo tema il cosiddetto "marxista medio" è generalmente in preda alle più pittoresche
confusioni terminologiche e soprattutto concettuali, con conseguenze tragicomiche sul piano
della militanza politica.

10. Una piccola parentesi. Il nuovo anarchismo post-moderno della classe media globale, di cui
Toni Negri è l'indiscusso Bakunin, non sa ovviamente neanche per scherzo che cos'è una
formazione economico-sociale, con la conseguente necessità di costruire sul piano politico
un'alleanza di classe, che non è mai "data" spontaneamente. Questo curioso "spontaneismo"
riproduce infatti "spontaneamente" il processo capitalistico di addensamento sociologico di un
"livello medio" dei redditi e dei consumi. La differenza fra il liberale normale e l'anarchico
disobbediente è che il liberale è disposto a pagare per consumare, mentre l'anarchico
disobbediente vorrebbe consumare senza pagare, e chiama questo comunismo.

11. Santa pazienza. Torniamo al nostro concetto serio di Rivoluzione. Come è noto, vi sono teorie
diverse sulla nascita del capitalismo, da chi ha dato importanza ai processi nell'agricoltura
(Maurice Dobb) a chi ha dato importanza al commercio internazionale (Paul Sweezy), da chi ha
enfatizzato il ruolo degli ebrei (Werner Sombart) a chi invece ha insistito sull'ascesi calvinistica
della predestinazione (Max Weber). Ma comunque sono sempre stati tutti d'accordo che le
rivoluzioni borghesi sono state cose serissime, proprio perché strutturavano una forma
alternativa di produzione sociale di beni e di servizi.

In definitiva, si trattava di Rivoluzione, non di semplice Disobbedienza.

12. La borghesia ed il capitalismo (concetti da tenere ben distinti, per carità, se no


l'economicismo riduzionistico ammazzerà ogni capacità critica di distinzione fra Goethe e
Berlusconi) hanno fatto almeno tre rivoluzioni serie. Si tratta della rivoluzione inglese del 1640,
della rivoluzione francese del 1789 ed infine della prima rivoluzione industriale (1760-1820). I
marxisti sono stati affascinati da queste rivoluzioni, al punto da restarne spesso ipnotizzati. Con
questo termine intendo l'abitudine a pensare la rivoluzione socialista attraverso la stretta
analogia storica con le precedenti rivoluzioni borghesi. Ora, non intendo affatto negare che
l'analogia storica sia uno dei pochi strumenti che abbiamo per pensare il presente, che è sempre
troppo "vicino" per poterlo distanziare criticamente, per cui dobbiamo necessariamente
ricorrere al passato. Ma spesso l'analogia storica ha una funzione narcotizzante ed ipnotizzante.
Ad esempio Trotzky vedeva se stesso come un giacobino rivoluzionario, e Stalin come un
termidoriano. In questo modo, non si vedono mai di fatto gli elementi differenziali. E nella storia
gli elementi differenziali e specifici sono il 90% del problema.

13. Le rivoluzioni operaie, proletarie, socialiste e comuniste sono indubbiamente cose serie. Ma
per poterne adeguatamente "pensare la serietà" bisogna innanzitutto pensare l'elemento
differenziale fra il soggetto sociale chiamato "borghesia" ed il soggetto sociale chiamato "classe
operaia". La tradizione marxista in proposito non ha nulla in comune con Marx. Si tratta di uno
stupido e rozzo storicismo economicistico, per cui prima la borghesia era capace di sviluppare le
forze produttive, poi perde questa capacità e diventa parassitaria ed allora la classe operaia la
sostituisce. In principio ci fu l'imprenditore capitalistico calvinista efficiente, poi arrivò Cecchi
Gori. E questo sarebbe il "marxismo".

Idiozie. Vergognose idiozie. Per chiarirci leggermente le idee, richiamo un libro fondamentale di
Bauman (cfr. Z. Bauman, Memorie di classe, Einaudi, Torino 1987). Attenzione, questo è un libro
di serie A, non è un articolo di Micromega sui girotondi.

In breve, Bauman sostiene tre tesi, e riesce anche ad argomentarle. Primo, la classe operaia non
ha costituito storicamente la propria identità differenziale guardando ad un futuro progressista
(l'ideologia del progresso è borghese, e solo borghese), ma guardando indietro alla propria
precedente identità comunitaria prevalentemente contadina ed artigiana. Secondo, questa
identità comunitaria, che era comunque alternativa alla borghesia, è stata gradatamente
abbandonata (in Inghilterra già negli anni Venti e Trenta dell'Ottocento) per quella che Baumann
correttamente chiama "l'economicizzazione del conflitto", cioè per la lotta per una più equa
spartizione delle merci prodotte capitalisticamente. Terzo, questa economicizzazione del
conflitto può portare facilmente a forme di neocorporativismo salariale, di per sé non negative,
ma certamente prive di qualunque possibilità di universalizzazione alternativa, cioè
anticapitalistica e postcapitalistica.

A mio avviso qui Bauman coglie il centro della questione. Ma i marxisti pensano che Marx ed
Engels abbiano già detto tutto, e sia sufficiente chiosarli all'infinito. Ma chi non capisce niente di
quanto sta avvenendo è già predisposto a passare dalla Rivoluzione alla Disobbedienza. La
disobbedienza infatti è facile. Basta disobbedire. Ma qui il discorso appunto non solo non finisce,
ma comincia soltanto. Prestiamo attenzione.

14. Più tardi criticherò l'ideologia francese della differenza, e cioè Deleuze e Foucault. ma colgo
l'occasione per dire subito solennemente che mentre il loro uso politico alla Negri è demenziale,
questi pensatori sono stati bravissimi. Io li stimo e continuo a stimarli. Fra le molte cose
intelligenti che hanno detto, c'è anche il chiarimento del modo particolare con cui il capitalismo
riesce a costruire la sua "obbedienza". Questo modo non assomiglia a quelli in uso nelle società
precapitalistiche.

Nelle società precapitalistiche l'obbedienza era ottenuta con l'ostentazione crudele e terrificante
della forza del potere militare e religioso. Ai contadini ribelli veniva tagliato in pezzi il corpo con
tenaglie roventi. Gli schiavi ribelli erano appesi vivi alla croce, in modo che soffrissero le pene
dell'inferno prima di morire. In modo molto intelligente Foucault spiega che questo avveniva non
perché il potere fosse forte, ma appunto perché era molto debole. Il potere era infatti esterno al
processo di produzione agricolo ed artigianale, e doveva limitarsi a prelevare una parte di quanto
veniva prodotto, e quindi doveva terrorizzare chiunque disobbedisse, perché si levasse dalla
testa la tentazione di riprovarci. Ma nel capitalismo il potere entra dentro il processo di
produzione, ed allora non deve più terrorizzare, ma deve invece "addomesticare" i corpi e le
menti per adattarli alla divisione capitaliastica del lavoro. Quindi, basta ufficialmente con la
tortura e con la pena di morte per squartamento. Sì alle prigioni, alla disciplina di fabbrica, alla
manipolazione mediatica. Dal potere rigido si passa ad un potere flessibile.

Bravo Foucault. È proprio come dice lui. Ma allora bisogna capire cha al nuovo potere
capitalistico non serve un io forte da sottomettere e da terrorizzare, ma un io debole e flessibile
da manipolare. Dalla strategia di repressione delle rivoluzioni si passa ad una strategia di
prevenzione di esse. Per prevenirle bisogna che l'io rivoluzionario diventi prima un io solo ribelle,
e poi un io solo disobbediente. Le strategie del dominio cambiano, anche se questo resta del
tutto incomprensibile ai Negri, agli Agnoletto e soprattutto ai Casarini.
Qui Deleuze e Foucault, che pure avevano capito benissimo la dinamica che ho riassunto nel
paragrafo precedente, cadono improvvisamente in un errore veramente madornale. La genesi di
questo errore, come chiarirò più avanti, è probabilmente la somma di polemica contro il
razionalismo cartesiano francese e di abbandono del cattivo marxismo autoritario del
comunismo francese dopo il 1945. Ma ciò che conta è ciò che dicono. In altre parole, proprio
quando lo stesso capitalismo vuole indebolire l'io individuale per renderlo manipolabile e
flessibile, e quindi adatto ad assorbire sempre nuovi consumi e comportamenti, ebbene Deleuze
e Foucault propongono una strategia di indebolimento dell'io, convinti di star facendo una cosa
molto rivoluzionaria ed anti-autoritaria. Gilles Deleuze (cfr. G. Deleuze - C. Parnet, Conversazioni,
Feltrinelli, Milano 1980) si chiede addirittura: "Che cosa vi fa supporre che perdendo le
coordinate di soggetto e di oggetto voi venite a mancare di qualcosa?".

Bene, io suppongo proprio questo. Senza un io psicologicamente strutturato, infatti, nessun


progetto rivoluzionario è possibile. Ma non è possibile neppure un dialogo politico e filosofico,
perché da Socrate in poi il dialogo consiste nel "far passare la ragione" (dia-logos) fra identità
strutturate. Ed infatti (op. cit. p. 18) Deleuze afferma che la storia della filosofia è sempre e solo
stata "l'agente del potere", e così pure la geometria euclidea (p. 102) in rapporto alla polis greca.

Avete capito? Sicuramente no. Pensate che io stia solo scherzando. Ebbene, lo ripeto: se sparisce
l'io soggettivo non si perde niente; la storia della filosofia è un'arma normalizzatrice del potere;
la geometria euclidea è una forma di potere politico degli antichi greci.

Ma Deleuze è scusabile. Egli confonde la genesi sociologica di un processo culturale con la sua
posteriore validità universalistica. È infatti vero che la geometria pitagorica (non euclidea, please)
era una forma di potere delle oligarchie aristocratiche di Elea e di Crotone. Ma è anche vero che,
una volta inventata, diventa potenzialmente un bene universalistico per l'intera umanità. Anche
ammesso che la pennicillina sia stata scoperta su committenza di un gruppo di vampiri pedofili,
una volta scoperta può comunque curarci dalla polmonite.

Mentre Deleuze è scusabile, il Negri che parla di fine della differenza fra esseri umani, animali ed
organismi cibernetici (cfr. Impero, Rizzoli, Milano 2002, p. 98) invece no. Si tratta di coglionaggine
purissima, che però è anche particolarmente affine alla visione del mondo di una nuova classe
media globale che vive nella virtualità, e che ha sostituito l'esperienza materiale, corporea e
mentale con una rete di simulazioni. Effettivamente, fare l'amore con una donna, con una cavalla
e con un robot non è eguale, se ci si mette da un punto di vista psicologico e corporeo. Ma in
sede di simulazione, perché no? Everything goes, tutto va bene.

16. A questo punto il lettore sveglio mi chiederà se c'è stato qualcuno nell'alta cultura
internazionale che ha capito che l'indebolimento dell'io non è una forma di resistenza al
conformismo capitalistico che vuole dispotismo ed obbedienza, ma al contrario è una strategia
proprio della cultura capitalistica per creare un io che faccia da recipiente flessibile al
riempimento degli stimoli al consumo capitalistico.

Beh, per esempio io l'ho capito da tempo. Ma siccome non faccio parte dell'alta cultura
internazionale, rimando il lettore sveglio al saggista americano Christopher Lasch (cfr. L'io
minimo, Feltrinelli, Milano 1985). Lasch mostra di capire tutti i termini teorici essenziali del
problema. Precedentemente aveva scritto un libro sul narcisismo ed il tipo umano narcisista, che
descrive perfettamente con due decenni di anticipo Nanni Moretti e soprattutto l'adorazione
prestatagli dai girotondari rincoglioniti. Il nesso fra narcisismo e fase attuale del capitalismo è
descritto con stupefacente realismo, anche se Lasch non si dichiara affatto marxista, ed anzi il
mondo radical americano politicamente corretto lo isolò sempre fino alla morte, per il semplice
fatto che lo descriveva in modo michelangiolesco.

Ma torniamo all'io minimo. Lasch chiarisce come l'io minimo sia una strategia di difesa
dell'individuo di fronte alla banalizzazione del passato e della memoria storica e soprattutto di
fronte all'incertezza del futuro. Ma la banalizzazione del passato e l'incertezza del futuro sono
proprio due caratteristiche culturali del capitalismo contemporaneo. La sovranità assoluta del
consumo banalizza la morte, che diventa solo l'interruzione di ogni possibile consumo, dopo
l'ultimo consumo che sono i funerali. Banalizza il passato, che anzi potrebbe scoraggiare la
continua obsolescenza dei prodotti da cambiare continuamente. Banalizza il futuro, perché il
futuro è solo un contenitore storico vuoto di possibili consumi futuri.

Ha capito Deleuze che l'indebolimento dell'io è una strategia ultracapitalistica, e non un passo
verso la libertà? Non credo. Se lo avesse capito, data la statura del personaggio, avrebbe preso
delle misure filosofiche. Ci possiamo chiedere se Toni Negri lo capisca. Sicuramente no. Il
personaggio è troppo arrogante ed anguillesco per accettare il principio base di ogni etica
filosofica.
Ammettere di aver sbagliato.

17. Possiamo ora terminare sul punto del passaggio dalla rivoluzione alla disobbedienza. Il
rivoluzionario fa qualcosa di reale, che tocca sia la produzione che la distribuzione sociale. Il
disobbediente si muove in un mondo virtuale, e soprattutto contempla narcisisticamente se
stesso mentre disobbedisce. Per questo il disobbediente ha l'ossessione dei media e della
copertura mediatica. Se i media non mostrassero la sua disobbedienza, essa finirebbe con il non
esistere più. Fra reale e virtuale non c'è infatti nessuna differenza.

Due parole adesso sull'anarchismo, più esattamente sul passaggio dal vecchio anarchismo
artigiano al nuovo anarchismo virtuale. Alcune cose le ho già dette, ma conviene sempre
ripeterle.

Prima di tutto, bisogna abbandonare la vergognosa concezione dell'anarchismo che era corrente
fino al 1989-1991. In questa concezione l'intera storia del movimento operaio era vista come una
progressiva liberazione da una precedente "immaturità". La storia dei movimenti di
contestazione al capitalismo era vista come una sorta di razzo a tre stadi, di cui solo il terzo
avrebbe veramente compiuto l'"assalto al cielo". Il primo stadio era l'anarchismo, movimento
immaturo di braccianti ignoranti e di artigiani destinati ad essere spazzati via dalla grande
produzione di serie. Il secondo stadio era il socialismo della Seconda Internazionale, la cui
vittoria contro l'anarchismo era considerata progressiva e provvidenziale, perché finalmente
metteva al centro la classe operaia di fabbrica, il sindacato ed il partito. Il terzo stadio, quello
definitivo e conclusivo, era il comunismo, che si trattava certo di riformare e di migliorare, ma
che comunque rappresentava il coronamento della storia delle classi oppresse.

Questa grande narrazione è stata falsificata nel triennio 1989-1991. Il fatto che essa continui ad
essere agitata, in una metafisica storicistica le cui tre tappe sono Bakunin, Kautsky (considerato
migliore di Bakunin) ed infine Togliatti (considerato il migliore dei tre), mostra solo a che punto di
arretratezza siamo, e spiega anche indirettamente il successo di Toni Negri, che almeno rompe
con questa assurda litania.

Cerchiamo di essere chiari, a costo di offendere qualcuno. Dopo il 1991 le carte devono essere
redistribuite. In linguaggio informatico c'è stato un reset. Noi dobbiamo mettere sullo stesso
piano, ed esaminare in modo paritario ed omogeneo, sia il vecchio anarchismo sia il comunismo
storico novecentesco (scaduto il 1991). Fino al 1991 potevamo pensare che il buon Gramsci
avesse definitivamente spazzato via il cattivo Bordiga, inaugurando la serie virtuosa di Togliatti -
Longo - Berlinguer - Natta. Chi pensava questo, e gridava questi demenziali slogan nei cortei, ha
l'onere della spiegazione, cui peraltro sistematicamente si sottrae, di spiegare perché dopo
questa serie virtuosa sono arrivati Achille Occhetto e Massimo D'Alema, il trafelato ulivista in
cerca disperata di visibilità ed il cinico baffetto della guerra del Kosovo del 1999 fotografato
ghignante accanto al generale americano e bombardatore Clark.

Sia chiaro. Io rispetto Gramsci, l'ho letto e studiato, e continuerò a leggerlo e studiarlo. Ma dopo
il 1991 egli diventa esattamente eguale ad Amadeo Bordiga. Questo vale per gli eretici del
comunismo (trotzkisti, maoisti e bordighisti), ma vale ancora di più per gli anarchici.

19. Quando uno si accosta agli scritti degli anarchici della vecchia scuola, non può che provare un
senso di rispetto. Faccio qui l'esempio del vecchio anarchico americano Murray Bookchin (di cui
consiglio caldamente al lettore almeno due libri, L'ecologia della libertà, pubblicato dalle edizioni
Antistato, e Democrazia Diretta, pubblicato dalla Eleuthera di Milano). Bene, leggendo Bookchin
ci si rende conto della cultura, dell'apertura mentale, ed addirittura della "concretezza" della
vecchia cultura anarchica. Ma questo avviene perché in Bookchin ed in quelli come lui respira
ancora il vecchio anarchismo della produzione, più esattamente dell'organizzazione alternativa
della produzione. Bookchin capisce perfettamente quello che peraltro anche altri anarchici come
Chomsky capiscono, e cioè che ci vuole un'antropologia filosofica che "democratizzi" l'io, non
che lo faccia sparire.

20. Il nuovo anarchismo post-moderno non c'entra niente con gente in gamba come Bookchin.
Esso si è formato, secondo l'interpretazione che esporrò a partire da questo paragrafo, attraverso
la fusione di due tradizioni diverse, quella politica dell'operaismo italiano e quella antropologica
dell'ideologia francese della differenza. Esporrò brevemente queste due tradizioni, ma prima mi
porrò una domanda preliminare: come è successo che a partire dagli anni Sessanta sia sorto in
Italia l'operaismo e nello stesso periodo sia sorta in Francia quella scuola filosofica?

Discutiamo entrambe le ipotesi.


21. Come è possibile che l'operaismo, a partire dai primi anni Sessanta, diventi in Italia l'unica
"formazione ideologica" (uso il termine nel senso di Charles Bettelheim) che è stata
concretamente in grado di contrapporsi al togliattismo del PCI, mentre tutte le altre eresie
marxiste (il trotzkismo, il maoismo, il bordighismo, eccetera) sono sempre rimaste minoritarie e
marginali?

Tentiamo una risposta. Il 1958 è il primo anno del boom economico italiano e dell'espansione dei
consumi. È l'anno in cui secondo Pasolini cominciano a "morire le lucciole". Secondo Fortini,
sono appena finiti i "dieci inverni" del dopoguerra. L'Italia comincia a modernizzarsi. Nel 1958 io
avevo 15 anni, e mi ricordo benissimo come stavano le cose prima. Andavo a prendere il latte
fresco in un bidone in bilico sulla bicicletta. Ricordo mia madre che si alzava per scaldare l'acqua
in un pentolone in modo che potessi lavarmi prima di andare a scuola. Ricordo i miei coetanei
che dopo la quinta elementare andavano a lavorare e dovevo aspettarli la sera per giocare.
Ricordo i bambini rapati perché c'erano i pidocchi. Ricordo il gelato la domenica mattina come
incredibile consumo lussuoso. Potrei farla più lunga, ma il succo è questo: dopo il 1958 l'Italia si
modernizza.

Dal 1945 al 1958 Togliatti aveva strutturato ideologicamente il partito comunista sulla base della
teoria per cui il capitalismo era incapace di sviluppare le forze produttive e di modernizzare il
paese. Ed ecco adesso, dopo il 1958, che i capitalisti si dimostrano capaci di modernizzare (a loro
modo, ovviamente) il paese e di sviluppare le forze produttive. È questa la base materiale,
concreta, per cui il togliattismo può cominciare ad essere contestato. Al primato della storia si
sostituisce il primato della sociologia. Al posto del mito del progresso, arriva la "composizione di
classe".

22. Come è possibile che l'ideologia francese del desiderio, della differenza, della
frammentazione dell'io, eccetera, cominci a diventare egemone a Parigi a partire dagli anni
Sessanta?

Tentiamo una risposta. La Francia è sempre stata il paese del razionalismo e della tradizione
razionalista. Il massimo divulgatore francese di filosofia popolare, Alain, era un laico razionalista
assoluto. Negli anni Trenta il principale divulgatore francese del marxismo, Georges Politzer, lo
espose come una forma di razionalismo popolare. La tradizione di Cartesio in Francia era
fortissima. Cartesio contava di più di Kant e di Hegel, me lo ricordo benissimo dai tempi dei miei
studi di filosofia in Francia.

Questa egemonia del razionalismo era effettivamente soffocante. Chi oggi studia la storia del
marxismo francese dopo il 1945 ricorderà soprattutto Sartre e Althusser, ma le cose allora non
stavano in questo modo. Il principale filosofo comunista francese era considerato Lucien Sève, un
razionalista assoluto. Sève scrisse un interessante libro di psicologia (cfr. Marxismo e teoria della
personalità, Einaudi, Torino 1973), che è il libro di psicologia più razionalistico che io abbia mai
letto. Nel 1980 Sève pubblicò un'introduzione alla filosofia marxista, mai tradotta in italiano, e
molto ammirata da Ludovico Geymonat, che nel suo genere era comunque migliore dei manuali
sovietici e cinesi del periodo.

Apro una parentesi. Vorrei dichiarare, e sottolineare, e se necessario gridarlo, che io non credo
assolutamente che la filosofia e la scienza siano qualcosa di appartenente ad una Classe e
tantomeno (orrore fra gli orrori!) ad un Partito. La filosofia e la scienza appartengono
esclusivamente al genere umano indiviso. È l'ideologia, invece che ha un carattere classista, e
l'ideologia incorpora ovviamente elementi manipolati della produzione filosofica e scientifica per
inserirli in modo coerente (coerente, ma paranoico) nella propria funzione identitaria. I marxisti
più rozzi generalmente identificano scienza, filosofia ed ideologia. I marxisti più sofisticati invece
arrivano a capire che la scienza (teoria dell'evoluzione, genetica, meccanica quantistica, teoria
della relatività, teorie dell'inconscio, eccetera) non ha un carattere classista, ma credono però
che invece la filosofia ce l'abbia: ad esempio l'idealismo è borghese, il materialismo è proletario.

Deve essere chiaro, e tatuato a lettere di fuoco sul tenero culo di ogni lettore, che io non
condivido queste sciocchezze. Solo l'ideologia è classista, la scienza e la filosofia non lo sono.
Fine della digressione.

Per tornare a Sève, che pure era ancora uno dei migliori, ed infinitamente più serio e sistematico
della maggioranza dei marxisti italiani cresciuti all'ombra di Togliatti, è evidente che questo
razionalismo avrebbe prima o poi provocato una reazione. E la reazione venne. La reazione si
chiamava Lacan, Deleuze, Guattari, Foucault. Chi vuole leggere una esposizione scolastica, ma
sistematica, può utilmente rivolgersi a questo libro italiano (cfr. F. A. Cappelletti, Differenza e
Potere, Franco Angeli, Milano 1984). Cento diligenti paginette, in cui ci sono però tutte le
informazioni necessarie per capire le fonti di Toni Negri.
23. Fatte queste premesse metodologiche, possiamo ora esaminare prima la dinamica
dell'operaismo italiano e poi quella dell'ideologia francese della differenza e del desiderio. Ci
vuole memoria storica, e so perfettamente che essa manca. D'altronde, se essa non mancasse,
non regnerebbe la grottesca confusione che regna oggi.

Iniziamo dall'operaismo italiano. C'è qui subito una questione da chiarire in via preliminare.
Molti affermano che il fondatore dell'operaismo è stato il fondatore della rivista Quaderni Rossi,
Raniero Panzieri, un militante socialista (e quindi PSI, non PCI) morto prematuramente nel 1964,
di cui a suo tempo Cesare Cases scrisse un necrologio bellissimo.

Ebbene, non è così. Su questo punto decisivo consiglio un libretto in cui i termini del problema
sono esposti con grande chiarezza (cfr. S. Mancini, Socialismo e democrazia diretta. Introduzione
a Raniero Panieri, Dedalo, Bari 1977, con un'importante introduzione di Stefano Merli).

Riassumo in breve i termini delle tesi di Mancini e di Merli. L'operaismo italiano non nasce con
Panzieri, ma nasce nel 1963, anno della rottura politica fra Raniero Panzieri e Mario Tronti.
Panzieri fa piuttosto parte della tradizione socialista italiana, politicamente unitaria con i
comunisti (Rodolfo Morandi), ma soprattutto autogestionaria, libertaria e basata sulla
democrazia diretta in fabbrica. I temi di Panzieri sono la critica al carattere presunto "neutrale"
del progresso tecnico, la critica allo stalinismo ed a ogni tipo di "partitocentrismo", la
rivendicazione della libertà culturale, la proposta del controllo operaio sulla produzione. Tutta
roba che con il cosiddetto "operaismo" non c'entra molto. È bene averlo sempre bene in mente.

25. Mario Tronti, romano, iscritto al vecchio PCI, è stato dunque secondo Merli il vero fondatore
dell'operaismo italiano. Sono d'accordo. Il modello operaistico è semplicissimo, perché si basa su
di un solo fondamento teorico elementare: il rapporto di produzione capitalistico è fondato
dall'attività contestativa della classe operaia, che ne determina i successivi mutamenti
tecnologici con la propria attività, cui il capitale risponde con ondate di innovazione. Come si
vede, la concorrenza inter-capitalistica è di fatto respinta nello sfondo. Da una parte il Capitale,
dall'altra gli Operai. Ma sono gli operai a porre il capitale, non viceversa.

Per chi vuole cercare a ogni costo una fonte filosofica a questa follia, è consigliabile il rimando al
libro su Marx di Giovanni Gentile del 1899 (cfr. C. Vigna, , Città Nuova, Roma 1977). E chi vuole
approfondire questo aspetto gentiliano del pensiero di Tronti può rivolgersi ad una rivista oggi
ingiustamente dimenticata pubblicata fra gli ultimi anni Settanta ed i primi anni Ottanta, Unità
Proletaria, in cui Raffaele Sbardella analizzava dettagliatamente tutte le ascendenze gentiliane di
Tronti. In modo sintetico, ma correttissimo, il commentatore delle pagine filosofiche de
L'Espresso degli anni Sessanta, Vittorio Saltini, parlò di Tronti come di "Nietzsche travestito da
operaio".

Esattamente così. Nietzsche travestito da operaio. Gli operai concreti, ovviamente, non
c'entravano niente con l'operaismo. L'operaio-massa fordista della grande immigrazione
meridionale degli anni Sessanta voleva soprattutto integrazione sociale, consumi, riformismo.
Quando arrivò Berlinguer, l'operaio-massa lo amò, perché Berlinguer gli dava quello che voleva,
una sorta di socialdemocrazia all'italiana un po' pretesca e corporativa, ma adatta al paese
cattolico delle processioni dei santi meridionali. A costo di andare contro corrente, devo dire che
quando Mario Tronti cominciò a parlare di "autonomia del politico" ed a scrivere su noiosissime
riviste fiancheggiatrici del PCI come Laboratorio Politico (la cui lettura oggi, sapendo come è
andata a finire, dà un effetto di ilarità addirittura eccessivo), ebbene egli colse a modo suo quello
che gli operai volevano. E cioè una sorta di keynesismo infinito a bassa intensità, un voto
plebiscitario al PCI, un neocorporativismo totale. Personalmente, non mi sono mai stupito del
fatto che gli operai si affacciassero per qualche settimana nei gruppetti di sinistra, e poi
ripiegassero sistematicamente nel sindacato e nel PCI. Rimando il lettore al paragrafo 13 ed alle
tesi di Bauman. Gli operai tendono irresistibilmente alla economicizzazione del conflitto, ed è per
questo che non sono e non possono essere un soggetto rivoluzionario. Solo chi vive nelle
montagne del Molise può fantasticarlo. Chi come me ha vissuto a Torino lo capisce con la
chiarezza del cristallo.

In quanto ho appena scritto non c'è una sola ombra di critica e tantomeno di condanna. Gli
operai sono come sono, e non sono affatto obbligati ad una "missione storica" che non hanno
affatto scelto, e che gli hanno attribuito in modo frettoloso. Lo stesso Marx si aspettava un
lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all'ultimo manovale, non
un'operaio incazzato con la coppola alla Gasparazzo. Gli operai meritano buoni salari, sicurezza
del posto di lavoro, ritmi ragionevoli e non ossessivi, ambiente di fabbrica sano e non inquinato,
eccetera. Chi scrive ha fatto per un certo periodo di tempo l'operaio in Germania, e non ha mai
pensato che in quel modo era più "rivoluzionario" di quando studiava Kant, Hegel o Platone.

Tronti finì come notabile del PCI-PDS-DS, per usare l'espressione di berlusconi (peraltro
involontariamente esatta). Parlamentare, professore universitario, barcate di soldi per la
pensione. Anche Marinetti fu da giovane futurista, da vecchio accademico con la feluca. Una
delle solite storie italiane, in quello che è il nicciano eterno ritorno della sempre eguale furberia
cattolica.

26. Guido Viale, di gran lunga il più dotato e onesto dirigente di Lotta Continua, ha scritto nel
1978 dieci stupende paginette sull'operaismo, che consiglio al lettore (cfr. G. Viale, Il Sessantotto,
Mazzotta, Milano 1978, pp. 181-193). Viale parla sobriamente di "miseria dell'operaismo". Scrive
in modo lapidario: "Io gli operaisti, di stato e di movimento, li ho letti tutti. E come Voltaire di
fronte ai padri della chiesa ho un solo commento da fare: me la pagheranno!". Viale capisce
perfettamente (e non era facile per un allievo di Abbagnano) che la Classe Operaia degli operaisti
è solo una astrazione vuota che viene poi riempita con il cinismo nichilistico. Il marxismo diventa
linguaggio sociologico-amministrativo della manipolazione, il famoso e famigerato "sinistrese".
La politica diventa integralmente "mediazione", e la cultura politica culturale. Si tratta di un
orrore senza grandezza, ed io non ho mai letto nessuno che l'abbia capito come Guido Viale.

27. Le dieci paginette di Guido Viale, scritte nel 1978, sono oggi pressoché introvabili, e
dovrebbero essere ripubblicate. Esse non sono però sufficienti per capire la dinamica
dell'operaismo come fenomeno complessivo. Per poterlo fare occorre essere dialettici, cioè
praticare la divisione dialettica di una precedente unità. In questo modo l'operaismo si spezza in
tre parti, e cioè un operaismo di destra, un operaismo di centro ed un operaismo di sinistra.

28. L'operaismo di destra è appunto quello di Mario Tronti. Esso è sfociato, e con questo si è
suicidato, nella ridicola teoria dell'"autonomia del politico". La chiamo ridicola per il semplice
fatto che essa fu coniata proprio quando la crisi fiscale dello stato keynesiano, l'aumento dei
prezzi petroliferi ed infine l'avvento strategico delle politiche neoliberali finivano con lo svuotare
integralmente proprio quella sovranità monetaria e riformistica che avrebbero dovuto fare da
supporto all'autonomia del politico. la teoria di Tronti assomiglia così ai vaneggiamenti di un tizio
che parla da un balcone di una casa costruita sulla sabbia ed ipotizza l'elevamento di un piano di
questa casa, proprio mentre la sabbia frana e l'intera casa sprofonda. Una persona normale si
sarebbe azzittita dalla vergogna e sarebbe passata al giardinaggio o alla vendita porta a porta di
enciclopedie. Ma siamo in Italia, e Tronti è stato invece premiato con il laticlavio da senatore. Si
tratta della "lunga durata" gesuitica della storia italiana che già Antonio Gramsci seppe
diagnosticare correttamente.
L'operaismo di centro è quello di Massimo Cacciari. Lo esamineremo nel prossimo paragrafo. Si
tratta tutto sommato di un fenomeno sano di sganciamento progressivo da un paradigma
insostenibile, attuato con metodi filosofici. La mia valutazione è dunque cautamente positiva.

L'operaismo di sinistra è ovviamente quello del gruppo Potere Operaio e di Toni Negri. Si tratta
originariamente della costruzione del partito dell'insurrezione non per costruire il socialismo,
dichiarato obsoleto a causa della estinzione della legge del valore anticipata dal frammento
marxiano sulle macchine, ma per realizzare il comunismo dei bisogni. Questo modello, amputato
del suo originario elemento "leninista", è esattamente quello che viene tuttora proposto da
Negri, e la cui critica radicale è appunto l'oggetto di questo mio saggio. È il modello
dell'anarchismo post-moderno, non certo dell'anarchismo sano di Murray Bookchin.

Personalmente non ho un cattivo giudizio di Massimo Cacciari. Cacciari ama e rispetta la filosofia,
cerca di tenerla distinta dall'ideologia, e questo a me basta. Chi fa così non può essere del tutto
cattivo, ed in ogni caso è un interlocutore, mentre Tronti è solo un curioso fenomeno ideologico
da segnalare.

A suo tempo, Franco Fortini scrisse cose molto dure su Cacciari e sul cosiddetto "pensiero
negativo". Dal momento che conoscevo personalmente Fortini, ricordo i suoi durissimi giudizi. A
quel tempo li condividevo, ma oggi ritengo che sia necessario collocarli in un'ottica più ampia.

Torniamo agli otto anni che vanno dal 1976 al 1984. Sono gli anni dell'effimero e pletorico
gonfiamento elettorale del PCI, del movimento detto del Settantasette, della lotta armata e
dell'assassinio di Moro, dell'arresto di Toni Negri accusato di essere il capo dei terroristi, della
sconfitta strategica della classe operaia FIAT, del consociativismo politico e dell'avvento dell'avido
personale PCI nei posti superpagati del terzo canale televisivo. Sono gli anni che vedono anche
l'avvento di Craxi e del craxismo, fenomeno politico sistematicamente interpretato alla luce del
moralismo giudiziario di Mani Pulite, e quindi tuttora di fatto sconosciuto.

Da un punto di vista ideologico (attenzione, ideologico e non scientifico e filosofico) gli anni
1976-1984 sono gli anni della crisi e del sostanziale smantellamento non tanto del marxismo,
come fu detto dagli apparati mediatici filosoficamente analfabeti, ma di quel modello di
storicismo progressistico che in Italia era identificato con il marxismo in quanto tale, e che
Palmiro Togliatti aveva imposto come l'unica forma di "politicamente corretto" nei ceti
fiancheggiatori universitari, quelli che la destra definiva "utili idioti" e che in realtà non erano
idioti per nulla, ma solo totalmente ignoranti in particolare su Marx, che confondevano con
Togliatti, Amendola, Spriano ed Alicata.

È assurdo rimpiangere quello storicismo progressistico, ed è allora assurdo criticare chi lo


smantellò fra il 1976 ed il 1984. Certo, ci fu da noi anche una componente ideologica grottesca
dovuta alla tradizione della Commedia dell'Arte. Per esempio, si andò a scomodare una epocale
"crisi dei sistemi centrati", peraltro risalente ai primi del Novecento (crisi delle scienze, eccetera),
per indicare il fatto che duecento professori universitari che votavano PCI (e poi PDS e DS)
avevano smesso di "credere" nello storicismo progressistico.

È anche opportuno distinguere fra il cosiddetto "pensiero negativo" (Cacciari) ed il cosiddetto


"pensiero debole" (Vattimo). Non son affatto la stessa cosa, anche se erano sostenuti da elettori
dello stesso PCI di allora. Cercherò di distinguerli concettualmente, perché senza questa
opportuna distinzione la confusione e l'amalgama sono assicurati.

Il "pensiero negativo", di cui a mio avviso Cacciari fu uno dei migliori esponenti, si limita a
segnalare che una lettura critica di Nietzsche e di Heidegger (ma non solo) effettivamente mette
in crisi lo storicismo progressistico. È la pura verità. Veramente lo avevano già detto a suo tempo
Walter Benjamin ed Ernst Bloch, ma non se ne era accorto nessuno, anche perché Bloch ci aveva
aggiunto del suo un ottimismo utopico del tutto fuori luogo. Cacciari compie in Italia grosso
modo la stessa operazione che negli stessi anni Lyotard compie in Francia. Si tratta del
sacrosanto ed ineludibile smantellamento delle cosiddette "grandi narrazioni". In proposito, la
subalterna indignazione dei veri credenti, dei militanti di base, dei settari fondamentalisti,
eccetera, è del tutto comprensibile sul piano psicologico, ma sul piano filosofico e scientifico vale
zero. Se la terra non è piatta, ma è rotonda, è bene prenderne atto, anche se è inevitabile che
subentri un senso di nausea e di spaesamento. Il pensiero negativo non è un alimento nutriente,
ma una purga necessaria per chi si era riempito il ventre con una vergognosa abbuffata di
illusioni storicistiche.

Il "pensiero debole" di Vattimo è un'altra cosa. Si tratta della versione tranquillizzante e


perbenista del pensiero negativo. Il pensiero debole chiude immediatamente una crisi appena
aperta tranquillizzando i lettori. Vedete, Dio è morto, Marx è morto, e non siamo mai stati tanto
bene!
Nietzsche è cucinato come un annunciatore di Vattimo, cioè di colui che accetta il capitalismo e
nello stesso tempo liberalizza in modo radicale (nel senso di Pannella e della Bonino) la morale
repressiva borghese. Heidegger è cucinato come il secondo annunciatore dello stesso Vattimo,
cioè come colui che certifica la sopravvenuta consumazione integrale dell'Essere, sostituito da
una interminabile ermeneutica o meglio da una civile conversazione fra scettici liberali (per usare
il corretto termine di Richard Rorty).

Vattimo, così come Abbagnano e Bobbio, interpreta così lo storico moderatismo perbenista della
borghesia colta di Torino, che avendo già i Savoia e la FIAT effettivamente non ha più bisogno di
altre divinità mondane.

E passiamo ora finalmente all'operaismo di sinistra ed a Toni Negri. In proposito, il presupposto


metodologico fondamentale dell'approccio a Negri deve essere il seguente: Negri non è affatto
uno scemo. La mia non è una battuta, ma un'indicazione metodologica essenziale. La prosa di
Negri è infatti talvolta tanto irritante, la sua arroganza tanto insopportabile, eccetera, da
provocare a volte una reazione di rifiuto viscerale. Bisogna resistere a questa tentazione. In
proposito, farò subito tre considerazioni preliminari utili per l'ulteriore comprensione.

In primo luogo, non bisogna dimenticare mai che Negri è un pensatore creativo. Io preferisco
sempre chi crea idiozie a chi ripete solo banalità ricevute. Bisogna criticare l'anarchismo post-
moderno di Negri, ed io lo sto facendo, ma deve essere chiaro che se la critica a Negri viene fatta
sulla base della riproposizione di Stalin e di Togliatti allora non ci siamo. Il diritto all'innovazione è
indiscutibile. Negri a modo suo è un innovatore. Egli cerca ovviamente di imporci il suo terreno,
ma questo lo fanno tutti gli innovatori. Bisogna rifiutare radicalmente questa sua richiesta, ma
bisogna però entrare anche nel merito. Il tema del general intellect esiste. Certo, chi lo
sostituisce semplicemente alla vecchia classe operaia di fabbrica e lo erige in soggetto politico
compie un'operazione mistica, che deve essere rifiutata. Ma per rifiutare qualcosa bisogna prima
capirlo, e per capirlo bisogna mettere a fuoco anche le premesse filosofiche ed antropologiche. I
critici di Negri non lo fanno, e si limitano a ribadire che c'è ancora l'imperialismo. Giustissimo,
ma insufficiente.

In secondo luogo, è giusto dire che Negri fa parte di una tradizione "sovversiva" molto più che di
una tradizione rivoluzionaria. Questo fu anche detto a suo tempo da Alberto Asor Rosa (cfr.
l'Unità;, 11-9-1983), che voleva così difendere Negri dall'accusa di essere il capo delle Brigate
Rosse. Asor Rosa distingue fra "sovversivismo" e "terrorismo", e sostanzialmente dice che Negri
non è un terrorista, ma solo un sovversivo, e dunque bisogna smettere di perseguitarlo.

In terzo luogo, segnalo un interessante giudizio di Lucio Colletti (cfr. La Repubblica, 7-4-1998):
"Una volta, a Parigi, mi pare fosse il 1975, Louis Althusser mi portò in un ristorantino vietnamita
e mi parlò di Negri come del più grande marxista vivente. Roba da non crederci, se non fosse che
già lì il povero Althusser stava dando i primi segni di squilibrio". Questa frase rivelatrice ci dice
molto sia su Colletti sia su Althusser. Alla luce del razionalismo di Colletti solo un pazzo può dire
una cosa tanto irragionevole. Colletti capisce correttamente che l'ideologia di Potere Operaio è
"un prodotto tardivo del leninismo con una forte matrice operaista", e che gli operaisti usano i
Grundrisse di Marx e soprattutto il noto frammento sulle macchine (quello che giustificherebbe
la famosa estinzione del valore-lavoro) come un "testo esoterico", cioè un testo di tipo
identitario e settario, mistico e religioso. Giustissimo. Althusser nel 1975 è in pieno sbandamento
ed in crisi di paradigma totale. Comprende perfettamente che la riduzione del marxismo ad
epistemologia (primo Althusser) ed a lotta di classe nella teoria (secondo Althusser) non
funziona più. Dal momento che come Marx non è mai stato marxista analogamente Althusser
non è mai stato althusseriano, perché non gli interessava nulla il canone epistemologico delle
scienze sociali ma gli interessava lo statuto del marxismo come scienza rivoluzionaria
complessiva (cosa che gli althusseriani universitari neppure sospettano, come se Althusser
anziché in francese avesse scritto in armeno ed in turco), non è affatto strano o folle che
Althusser riponesse tante speranze in Negri. In estrema sintesi, Althusser vedeva in Negri la
possibile sopravvivenza del marxismo dopo il crollo della teoria del valore, da lui definita in un
convegno a Venezia del 1977 la "concezione contabile della teoria del valore". Althusser era
anche giunto ad odiare il socialismo, da lui identificato con il PCF e con i regimi dell'Est europeo,
ed allora Negri gli piaceva perché voleva subito il comunismo senza passare per il socialismo.
Nelle sue ultime ieratiche uscite pubbliche, sempre incomprese dall'althusserismo universitario,
Althusser sosteneva che il comunismo stava nella felicità dei bambini che giocavano a pallone. A
mio avviso, non era affatto pazzo, come sostiene Colletti, ma stava cominciando a diventare
saggio, nel senso del materialismo aleatorio. Detto questo, tengo a dire che personalmente non
sono assolutamente nella stessa lunghezza d'onda di Althusser, di Negri, dei mistici del general
intellect, degli esegeti interminabili del frammento delle macchine alla "Luogo Comune", Virno,
Castellano, Illuminati, eccetera. Ma essi possono sembrare pazzi solo a due categorie di persone,
e cioè ai razionalisti positivisti disincantati alla Colletti, oppure agli ultimi giapponesi dello
stalinismo, del trotzkismo e del bordighismo (non ci metto dentro il maoismo, che per me è più
razionale).

31. La ricostruzione delle vicende dell'operaismo di sinistra deve passare ovviamente per la
storia del gruppo di Potere Operaio (1969-1973). Una recente ricostruzione è stata fatta dal
visionario informatico bolognese Bifo (cfr. F. Berardi, La nefasta utopia di Potere Operaio,
Castelvecchi, Milano 1998). Ovviamente Bifo dà la sua interpretazione, come è giusto. Potere
Operaio avrebbe incarnato la presenzialità assoluta, il rifiuto della prigionia della memoria
storica del passato e del rimando utopico ad un futuro indeterminato. Insomma, il comunismo
qui ed ora. Ma comunismo qui ed ora non c'entra proprio niente con Marx, perché è
semplicemente il modo di chiamare l'estasi del godimento. È interessante notare che lo stesso
Negri ha scritto un interessante commento al libro di Bifo (cfr. Il Manifesto, 20-5-1998). Qui Negri
dice letteralmente: "Dentro l'esperienza di Potere Operaio siamo riusciti ad intuire che la
proposta di comunismo non veniva ormai più dalla fabbrica ma dall'autonomia di un nuovo
proletariato sociale, immateriale e produttivo". E Negri parla di "commilitoni americani che
cominciarono a fare gli imprenditori di software a Silicon Valley, alleando la spontaneità del
rifiuto del lavoro con un certo leninismo imprenditoriale".

Rifiuto del lavoro per gente che lavora nell'informatica per dodici ore al giorno. Leninismo
imprenditoriale. Caro lettore, ho citato senza inventarmi niente. A questo punto forse dirai che
Colletti aveva ragione, e Negri ed Althusser erano pazzi. Ma vediamo meglio per capire quello
che diceva a suo tempo Shakespeare, e cioè che c'è del metodo in questa pazzia.

Il testo teorico più significativo del pensiero di Negri è a mio avviso un libro intitolato 33 Lezioni
su Lenin, e pubblicato da una casa editrice universitaria. A suo tempo feci l'idiozia di prestarlo, e
naturalmente non mi fu più restituito, perché già allora i militanti, senza aver ancora letto
Deleuze, praticavano già il rifiuto materialistico della morale borghese. Ma ricordo bene il suo
contenuto. Lenin era ridotto a genio aleatorio del partito dell'insurrezione, un Machiavelli che
parlava russo. Naturalmente, il partito dell'insurrezione avrebbe preso il potere del non-potere,
cioè il potere per realizzare da subito un comunismo anarchico dell'appropriazione lasciando alle
macchine la produzione. Come il latte fresco, simili utopie sono a scadenza ravvicinata ed a
falsificabilità velocissima. Ciò spiega perché Potere Operaio si sciolse già nel 1973, mentre Lotta
Continua, più lenta di comprendonio, si sciolse solo nel 1976. Questo non è un caso. Negri aveva
fornito a Potere Operaio una teoria folle, ma pur sempre una teoria comunicabile in modo
razionale ed universalistico. Sofri aveva invece sempre volutamente mantenuto Lotta Continua in
uno stato di emotività esistenziale del tutto prerazionale, per poterla manipolare meglio ed
imporre le svolte più demenziali (cfr. L. Bobbio, Storia di Lotta Continua, Feltrinelli, Milano 1988,
ma già edito nel 1979). Solo all'interno di una illusione esistenziale autoreferenziale si poteva
pensare che dal 1974 al 1976 il PCI fosse "ostaggio delle masse", che lo avrebbero costretto a
fare il comunismo dei bisogni popolari. Chi allora pensava queste follie (da Gad Lerner a Luigi
Manconi, da Enrico Deaglio a Giovanni De Luna, eccetera) si è poi velocemente riciclato negli
apparati ideologici mediatici ed universitari senza fare alcuna riflessione critica ed autocritica.
Quando poi scoppiò il caso Calabresi - Marino - Sofri - Pietrostefani - Bompressi (su cui non
voglio qui esprimere la mia personale opinione, che pure è fermissima e nutrita di testimonianze
di diversa provenienza) tutti questi intellettuali riciclati si misero a gridare che da una parte c'era
un grande intellettuale difensore dei diritti umani, e dall'altra un lumpenproletario rancoroso e
ricattabile, e che perciò era impossibile che il primo avesse torto ed il secondo ragione.

Furono così ristabiliti i noti parametri di classe. Gli Intellettuali Umanisti sono di serie A. Gli
Operai Rancorosi sono di serie B. Di fronte a tutto questo magari Negri non sarà il più grande
marxista vivente, ma ci fa pur sempre la sua figura. E questo lo dico, lo si noti bene, in un'ottica
del tutto favorevole alla Più Piena Amnistia. Il fatto che la classe politica intercambiabile
poloulivo ed ulivopolo non sia capace di fare una cosa tanto elementare come chiudere il
contenzioso degli Anni di Piombo ce la racconta lunga sul clima di ricatti incrociati dei poloulivisti
e degli ulivopolisti. Solo i girotondari ulivisti ed i commercianti polisti possono differenziare in
proposito Polobuono e Polocattivo. Così Oreste Scalzone continua ad aggirarsi per le vie di Parigi
con l'abitudine meridionale di arrivare agli appuntamenti con due ore di ritardo senza poter
tornare al suo paese.

Cosa dire di tutto questo? È triste dover dare ragione a Francesco Cossiga. Eppure ce l'ha. Ma in
questo paese non solo non si è fatto il comunismo del godimento immediato, ma neppure si è
fatta una normale amnistia liberale.

33. Nel 1979 Toni Negri fu arrestato sulla base del cosiddetto "teorema Calogero" (a sua volta
elaborato in forma sistematica dallo storico Ventura) come Capo Supremo del Terrorismo
Italiano. I magistrati dovrebbero occuparsi solo di fattispecie di reato, e quello è appunto il loro
mestiere. Quando invece i magistrati vogliono riscrivere la storia, dal caso Negri fino al caso Craxi
ed infine al caso Berlusconi, siamo di fronte ad un'orgia di ignoranza ad un tempo pittoresca ed
impressionante.

Chi avesse avuto anche solo una minima infarinatura sulle formazioni ideologiche marxiste, si
sarebbe accorto subito che la Brigate Rosse di Curcio e Potere Operaio di Negri erano diverse
come diversi sono i profili di uno svedese di Stoccolma ed un mongolo di Ulan Bator. Certo, in
entrambi i casi c'erano riferimenti ideologici al comunismo ed al partito dell'insurrezione. Ma
l'ideologia di Curcio, espressa nel noto L'ape e il comunista pubblicato da "Corrispondenza
Internazionale", rappresentava una specifica fusione di operaismo di fabbrica e di ideologia
marxista-leninista, così com'era filtrata dal maoismo teorico europeo di Gianfranco La Grassa e
degli allievi italiani di Charles Bettelheim. Il pensiero di Negri era assolutamente estraneo a
questa formazione ideologica. C'erano, è vero, elementi vagamente comuni nel pensare che il
capitalismo possa essere diretto da un unico capitale mondiale unificato (il SIM, stato
imperialista delle multinazionali nelle Brigate Rosse, l'Impero in Negri), e che il capitale sia una
sorta di unico comando dispotico capitalistico, anziché essere quello che è, e cioè una rete
plurale di capitali in conflitto reciproco. Ma si tratta di somiglianze superficiali, dovute come
sempre al fatto che l'operaismo fu il solo paradigma teorico alternativo al togliattismo prodotto
in alcuni decenni di storia del marxismo italiano.

34. In carcere Negri fu selvaggiamente massacrato di botte durante una rivolta di detenuti. Credo
che questo debba essere ricordato. L'uomo ha pagato per le sue idee. Poi fu scarcerato
provvisoriamente, e Pannella lo fece eleggere deputato radicale per garantirgli l'immunità
parlamentare. Ma il mefistofelico sionista dallo sguardo perennemente allucinato lo voleva in
galera, e quando i deputati gli revocarono l'immunità parlamentare prese come un affronto
personale il fatto che Negri, anziché accettare di tornare in galera a farsi massacrare ancora una
volta di botte da secondini fuori controllo, scappasse a Parigi.

L'aver fregato il sionista allucinato Pannella resta a mio avviso il maggiore capolavoro umano di
Negri. A Parigi Negri fu accolto con grande generosità dalla comunità intellettuale francese. Pur
non condividendo assolutamente le sue posizioni il grande intellettuale francese Jean-Marie
Vincent accettò di gestire con lui la rivista Futur Antérieur. Ma Negri non poteva seguire la via
razionalistica classica di Vincent. Egli trovò invece a Parigi il quadro teorico che più gli era affine
per dare una antropologia generale al suo modello sociologico. A questo quadro teorico egli era
già arrivato negli anni Settanta. Ma ora si trovava nel cuore geografico di questa ideologia
francese. Lo sfondo teorico di Impero era già completamente presente.

35. Possiamo allora passare alla seconda componente del modello di questa ideologia del nuovo
anarchismo della classe media globale, il cui modello sono appunto i nuovi ingegneri informatici
di Silicon valley che Negri stesso ed il suo sagrestano bolognese Bifo hanno esplicitamente
indicato come nuovo soggetto rivoluzionario portatore di bisogni e di desideri comunisti. In
proposito, consiglio a chi vuole veramente approfondire filosoficamente la tematica del
desiderio una lettura che ne parli espressamente (cfr. C. Dumoulié, Il desiderio, Einaudi, Torino
2002). Ma la novità non sta tanto nel chiarimento della nozione di "desiderio", che pure è
preliminare ad ogni indagine seria su questa scuola di pensiero, quanto nel fatto che forse per la
prima volta nella storia del pensiero occidentale moderno il desiderio è messo a fondamento
della politica. La politica non è più una politica della democrazia diretta, secondo il modello degli
antichi greci e dei vecchi anarchici alla Bookchin, e neppure una politica della rappresentanza,
come nella tradizione liberale ed in quella del comunismo togliattiano italiano, ma è una politica
del desiderio.

Un'osservazione preliminare. È possibile una politica del desiderio? Rispondo decisamente: no,
non è possibile. E non è possibile per il fatto che la politica è per definizione l'arte del limite e
della finitezza, mentre il desiderio è per sua stessa natura illimitato, indeterminato ed infinito, e
quindi per definizione politicamente non regolabile. Spero che il lettore riesca a cogliere
concettualmente questo punto fondamentale, perché in caso contrario è inutile proseguire il
ragionamento.

37. Foucault, Deleuze, Guattari, eccetera, si sono limitati ad auspicare una politica del desiderio,
e solo Negri ha fatto il vero salto dall'auspicio alla proposta vera e propria. Ma una proposta
impossibile dà luogo ad una pratica inesistente. Quella di Negri non è allora una politica, ma una
vera e propria anti-politica. L'anti-politica, per sua stessa natura, lascia un vuoto, ed in questo
vuoto possono entrare tutte le politiche opportunistiche del cosiddetto movimento No Global.
Questo è il segreto del favore con cui i vertici No Global considerano questa filosofia. Essa non è
una loro rivale, poiché si pone su di un altro terreno, puramente virtuale e fantasmatico. La
lunghezza d'onda del desiderio non incontra mai la politica, e per questo può essere lodata e
raccomandata. Come nella cosiddetta dottrina sociale della Chiesa, l'annuncio di salvezza di Gesù
di Nazareth non è traducibile in termini politici, ed appunto per questo non dà nessun fastidio
agli apparati ecclesiastici e sacerdotali, che non se ne sentono in alcun modo minacciati. Se
infatti si sfoglia l'ultimo libro di Hardt-Negri, Impero, questa dimensione religiosa è
ossessivamente presente, appunto perché nasconde la sua totale inapplicabilità politica: la
teleologia della moltitudine è teurgica (p. 366); il comunismo è amore e innocenza (p. 382); il
povero è la condizione di qualsiasi possibilità dell'umanità (p. 152); S. Francesco di Assisi è il
nuovo modello di annuncio rivoluzionario (pp. 382-383).

38. Se i marxisti non fossero ridotti ad una manica di specialisti rissosi rinchiusi in centinaia di
workshops accuratamente separati l'uno dall'altro, in modo che filosofi, storici, economisti,
sociologi, politologi, eccetera, non possano mai incontrarsi per verificare se per caso si
riferiscono oppure no ad un unico paradigma comune, si sarebbe già dovuto aprire da tempo
una discussione seria su questo nuovo paradigma frutto del matrimonio fra Padova e Parigi,
operaismo ed antropologia del desiderio.
Ovviamente questo non è avvenuto. A suo tempo uscì un rabbioso libello scritto con stile
staliniano (cfr. M. Clouscard, I tartufi della rivoluzione, Editori Riuniti, Roma 1975) in cui Deleuze
e Guattari, ed indirettamente Foucault, erano definiti neo-fascisti, in nome ovviamente del
marxismo-leninismo. In questo modo cavernicolo gli stessi argomenti di Clouscard (alcuni dei
quali non privi di plausibilità) diventano inutili e vuoti. Chi accusa Negri di "fascismo" si
autoesclude di fatto da qualsiasi discussione razionale. È bene non dimenticarlo mai.

39. A mia conoscenza, le uniche critiche "civili" al modello Negri-Deleuze sono venute da
pensatori moderati di orientamento politicamente liberale e filosoficamente kantiano. Gente,
cioè, che difende il soggetto come titolare di scelte morali alternative responsabili. Si tratta del
presupposto psicologico ed antropologico di ogni agire politico. Farò qui solo due esempi, e li
faccio con tristezza, perché queste cose avrebbero dovuto essere dette da persone che
continuano a criticare radicalmente il capitalismo, e non essere lasciate a dei liberali neo-
kantiani.

Il primo esempio. Nel suo libro dedicato alle scuole filosofiche contemporanee (cfr. Il discorso
filosofico della modernità, Laterza, Bari 1987) Jürgen Habermas critica esplicitamente la teoria
politica che deriverebbe inevitabilmente da Foucault (op. cit. pp. 241-270). Questa critica è a mio
avviso molto intelligente. Habermas capisce bene che Foucault fa diventare il Potere un concetto
trascendentale a priori, ed in questo modo qualunque agire politico, compreso il più
democratico, diventa una specificazione del Potere, che è a sua volta considerato come
assiologicamente negativo. Foucault (e di riflesso il suo allievo padovano Negri) non fonda così
una nuova politica, ma ribadisce semplicemente l'impossibilità di ogni politica.

Il secondo esempio. Due liberali francesi, di cui uno è oggi diventato un politico chiracchiano di
alto livello (cfr. L. Ferry - A. Renaut, Il 68 Pensiero, Rizzoli, Milano 1987) inseriscono
correttamente la filosofia del desiderio in un più ampio movimento anti-umanistico di critica
della soggettività. Si tratta appunto del Sessantotto-Pensiero. Io non sono d'accordo con tutto
quello che dicono, in particolare quando sostengono che tutto il cosiddetto anti-umanesimo
francese è solo una ripetizione della filosofia tedesca novecentesca. Sciocchezze. E Adorno, per
esempio, dove lo mettiamo? Ma si tratta di dettagli. La tesi di fondo, a mio avviso, è giusta
nell'essenziale. La distruzione del soggetto è la distruzione di ogni etica, non solo di ogni morale,
e senza la scelta etica a mio avviso non ci può essere comunismo di qualsiasi tipo. Poi sulla
fondazione dell'etica è possibile discutere ancora. Ad esempio, io considero impossibile un'etica
universalistica dell'amore, e mi basta un'etica universalistica della solidarietà (in buona
compagnia peraltro con Leopardi). Ma tutto questo presuppone una teoria dell'io che non sia
certamente schizofrenico o paranoico, ma neppure minimo e frammentato.

Posso ora avviarmi alla conclusione. Vorrei essere chiaro e soprattutto onesto con il lettore. Non
vorrei raccontar(gli) e raccontar(mi) delle storie, secondo l'inveterata abitudine dei cosiddetti
intellettuali di sinistra, di cui non faccio parte. Essi non ragionano come studiosi, ma come
cappellani militari, che devono galvanizzare la truppa, consolarla per le perdite della prossima
battaglia, ed andare poi a rapporto dai generali.

Per quanto riguarda la dinamica ideologica probabile dei prossimi anni (il lungo termine per
definizione nessuno lo conosce) sono molto pessimista. Credo che prevarranno proprio quei
vicoli ciechi teorici e culturali che ho segnalato. Le ragioni per cui questo avverrà sono molte, ma
per comodità del lettore le riassumerò in quattro distinte parolette: Soggetto, Marxismo,
Desiderio, Potere.

41. Iniziamo da Soggetto. Do per scontato che il lettore abbia capito il mio punto di vista, per cui
la classe operaia e proletaria di fabbrica, sia pure "mondializzata", non può più essere ancora
decentemente considerata la classe rivoluzionaria per eccellenza. Rimando alle tesi di Bauman,
che condivido nell'essenziale. In breve, la classe operaia di fabbrica presenta due tendenze
strutturali costanti nella storia e nella geografia, l'economicizzazione del conflitto dopo un primo
periodo di nostalgia contadina ed artigiana, e la delega a ceti politici professionali di
rappresentanza, la cui integrazione fatale nel sistema è stata descritta per la prima volta da
Roberto Michels in modo assolutamente newtoniano e darwiniano, cioè pressoché definitivo. Il
fatto che in questo momento nel mondo il lavoro salariato sia in espansione, a causa
dell'abbandono della terra da parte dei contadini poveri che emigrano, è per ora un fatto solo
statistico, non culturale e politico, e chi confonde la statistica con la politica (cfr. Lotta Comunista,
eccetera) inganna solo se stesso ed i pochissimi che lo stanno a sentire. La statistica non è mai
politica senza passare per la cultura. E chi pensa che l'economicismo veteromarxista sia cultura
perderà sempre non solo contro i supermercati, ma persino contro Allah, Brahma, Siva e Visnù.
L'uomo non vive di solo pane, specialmente quando non ce l'ha. L'uomo è un animale simbolico,
non un animale utilitaristico come credono i veteromarxisti.

La frammentazione dei soggetti è dunque un fatto oggettivo. Io non credo alla cosiddetta "fine
del lavoro" di Jeremy Rifkin, ma è certo che ormai non possiamo più contare sulle grandi
aggregazioni di fabbrica del tempo della Seconda e della Terza Internazionale (con cui tutte le
molteplici varianti della Quarta condividono il paradigma teorico di fondo). Quando Negri parla
di "moltitudini" non si può onestamente dire che se le sia inventate, mentre è evidente che si
inventa la loro capacità rivoluzionaria definendola addirittura "teurgica", cioè costruttrice del
nuovo Dio. Storicamente, queste sciocchezze si sono già presentate una volta con Lunaciarsky in
Russia all'inizio del Novecento. Lenin considerava Lunaciarsky un simpatico matto tranquillo,
mentre oggi si può parlare di "teurgia" senza che nessuno se ne accorga neppure.

È allora chiaro che se i soggetti non si presentano in modo diretto costituiti dall'economia (ma
questo non è mai avvenuto), essi devono essere costruiti con la politica e con la cultura. Possono
farlo oggi come oggi i cosiddetti "marxisti"? Assolutamente no. Per essi la politica o è militanza
(variante di sinistra) o è rappresentanza (variante di destra). Ma la politica o è democrazia diretta
o non è. In quanto alla cultura, i marxisti pensano che essa si identifichi con l'ideologia. Errore
strategico. Riduzionismo grottesco.

Passiamo al Marxismo. La sua situazione oggi è catastrofica e comatosa, ed i medici continuano a


litigare presso il malato scambiandosi insulti, botte e calci nelle palle. Io non vedo per ora
nessuna via di uscita, per un fatto assolutamente "strutturale", e cioè che le sorti del marxismo
sono in mano a due categorie assolutamente incorreggibili, i professori universitari ed i militanti
politici. Cercherò di spiegare perché, anche se so perfettamente di stare scrivendo in turco ed in
armeno. Sia chiaro, ed il lettore non si senta per caso insultato se appartiene (come è probabile)
ad una delle due categorie. Il mio discorso non è diffamatorio, ma è strutturale, e come
strutturale deve essere inteso.

I professori universitari frammentati in migliaia di workshops in cui ognuno parla solo ai propri
colleghi di specializzazione non possono strutturalmente favorire una rivoluzione scientifica del
marxismo (nel senso di Kuhn) per il fatto che il loro oggetto ed il loro metodo vengono
direttamente ricavati dallo statuto della loro disciplina accademica. È qualcosa che va molto al di
là dell'opportunismo individuale, del bisogno di produrre materiali che la propria comunità
scientifica possa utilizzare per far vincere una cattedra universitaria, eccetera. Si tratta di un fatto
inevitabile. Il sapere universitario è una forma sofisticata e formalizzata della divisione
capitalistica del lavoro. Chi crede di poter produrre un sapere rivoluzionario anticapitalistico sulla
base dell'accettazione della divisione capitalistica del lavoro intellettuale assomiglia a chi,
qualche secolo fa, avesse pensato di produrre un sapere antifeudale ed antisignorile sulla base
della teologia scolastica e della sintesi di platonismo e di aristotelismo cristiani.
I militanti politici, anche quando fanno distratti omaggi alla ricerca marxista non possono
strutturalmente favorire veramente un mutamento di paradigma per una ragione semplicissima.
La loro priorità non è mai, e non può essere, l'innovazione teorica, ma è la coesione ed il
compattamento del gruppo militante di riferimento. Prendiamo il caso di duecento (200)
militanti reclutati in base alla teoria della terra piatta e dell'astronomia geocentrica, e facciamo
l'ipotesi di una irruzione traumatica di una nuova teoria eliocentrica che sostiene che la terra è
rotonda. Facciamo l'ipotesi che di questi duecento (200) militanti almeno cento (100),
traumatizzati da questo terremoto copernicano, cadano nel pessimismo e si ritirino a vita
privata, oppure passino ad altre più rassicuranti organizzazioni geocentriche. Ebbene,
l'organizzazione passerebbe da duecento (200) a cento (100) militanti. In questo caso possiamo
essere sicuri che i dirigenti politici ad un futuro incerto preferirebbero un presente certo. Essi
espellerebbero immediatamente l'innovazione. Nel caso peggiore, direbbero che l'innovatore è
un frocio piccolo-borghese narcisista pagato dal padrone. Nel caso migliore, cercherebbero di
neutralizzare l'innovazione riducendola ad interessante ipotesi intellettuale non dimostrata,
oggetto di educate tavole rotonde.

Mi sono espresso in modo forse un po' provocatorio, ma pro-vocare significa chiamare fuori, e
per dialogare bisogna prima chiamare fuori i possibili dialoganti. Vorrei che il lettore mi capisca
bene. Io ho amici fraterni e stimatissimi sia fra i professori universitari sia fra i militanti politici.
Considero, e sia ben chiaro, la militanza politica una delle più alte forme di vita sociale nel
capitalismo. Il consueto disprezzo dei militanti come "poveri illusi" mi è estraneo nel profondo.
Chi mi conosce lo sa benissimo, e non mi stimerebbe se non lo sapesse. Ma qui si parla di
innovazione, ed il mio discorso è strutturale.

43. Passiamo al Desiderio. Io sono un estimatore personale di Gilles Deleuze, e so perfettamente


che egli era animato dalle migliori intenzioni, e cioè riteneva di lottare contro i due massimi
autoritarismi repressivi del suo tempo, quello capitalistico e quello staliniano. Ma le buone
intenzioni di per sé fanno solo i gattini ciechi. Cerchiamo di capire il perché, stringendo all'osso
l'argomentazione.

La nozione di Comunismo in Marx è costruita su quella di Bisogno. Il comunismo è quella società


in cui ognuno riceverà secondo i suoi bisogni. Ovviamente, tutti sanno che ci sono bisogni
primari (mangiare, bere, vestirsi, abitare), bisogni secondari (mangiare, bere, vestirsi, abitare in
modo confortevole) ed infine bisogni terziari (leggere un libro, andare in Madagascar a vedere le
proscimmie, eccetera). Il comunismo non parte, come Rousseau, da un concetto naturalistico dei
bisogni, ma da quello dei "bisogni ricchi", che possono essere cioè soddisfatti sulla base dello
sviluppo delle forze produttive e del general intellect. Io ho conosciuto molti "miserabilisti"
ascetici ed invidiosi che si ritenevano erroneamente "marxisti", so bene che Marx li avrebbe
presi a calci nel sedere per le rampe delle sue scale, ma non sono mai riuscito a fargli capire che
la semplice "invidia per i ricchi" non era un fattore della coscienza comunista. Il comunismo è la
società dei bisogni ricchi. Ma per parlare di Bisogni è necessario rivolgersi agli antichi greci, terra
sconosciuta per i marxisti. I greci, e non solo Epicuro, si erano già occupati moltissimo dei
bisogni, in modo generalmente non repressivo (come fecero poi i cristiani, noti autocastratori,
mangiatori di cavallette e residenti su colonne). Il bisogno arricchisce l'uomo, purché l'uomo sia
sempre il padrone. Tutto qui. Ma è un tutto qui che implica una rivoluzione mentale gigantesca.

Il Desiderio, invece, proprio quello che Deleuze e Negri ritengono essere la fonte del comunismo,
è proprio l'elemento riproduttore strutturale del consumo capitalistico. Il capitalismo vive di
desideri, non di bisogni. I bisogni possono essere soddisfatti, ma in questo modo si avrebbe
subito una crisi di sovrapproduzione e di sottoconsumo. I desideri invece sono infiniti, illimitati
ed indeterminati per loro stessa natura. È questo il segreto della produzione capitalistica, la sua
nevrotica infinitezza. Psicologi heideggeriani come Umberto Galimberti lo capiscono vagamente,
anche se hanno scelto l'interiorità all'ombra dell'Inserto Donna de La Repubblica. I cosiddetti
negriani invece non lo capiscono assolutamente, e ci si potrebbe aspettare da loro solo un
risolino nevrotico di compatimento. Ma tutta la banda variopinta dei loro seguaci continuerà ad
andargli dietro, ed anzi si ingrosserà, perché in questo modo possono avere la quadratura del
circolo da loro agognata, l'idea di rivoluzione astratta ed il consumo capitalistico concreto. È per
questo che sono pessimista.

44. Concludiamo infine con il Potere. Io sono un estimatore personale di Michel Foucault, e so
perfettamente che egli era animato dalle migliori intenzioni, e cioè riteneva di lottare contro i
due massimi autoritarismi repressivi del suo tempo, quello capitalistico e quello staliniano. Ma le
buone intenzioni di per sé fanno solo i gattini ciechi. Cerchiamo di capire il perché, stringendo
all'osso le argomentazioni.

Ai suoi inizi, che definiremo protoborghesi, il potere capitalistico era patriarcale, in particolare
verso le donne, i figli, i servitori ed i lavoranti. Essendo patriarcale, era ad un tempo
paternalistico e repressivo. La psicoanalisi di Sigmund Freud è stata ad un tempo il punto più alto
ed il coronamento finale di questa necessità protoborghese di far introiettare in modo
autoritario le regole riproduttive del comportamento sociale patriarcale (teoria del Super-Io,
eccetera).

Ma solo gli inizi del capitalismo sono stati protoborghesi. Poi lo stesso capitalismo, a partire dalla
produzione di massa fordista e poi con la personalizzazione del prodotto, ha dovuto
"liberalizzare" la sua stessa morale. Una società dei consumi non può essere veramente
repressiva. Il represso non consuma, o consuma poco. Il potere capitalistico, passata la prima
fase protoborghese del paternalismo repressivo, diventa più flessibile. Chi ha soldi deve poter
ormai comprare tutto, dai bambini cambogiani e thailandesi fino ai prodotti pornografici di élite
e di massa. Dio è morto, e la sua morte non comporta assolutamente l'avvento dell'Oltreuomo,
come credono i nicciani ingenui, ma l'avvento del Consumatore Indifferenziato. Se la morale
protoborghese si basava sul potere patriarcale, la morale postborghese (e l'attuale capitalismo è
postborghese, anche se i marxisti non se ne sono ancora accorti, e continuano a pigliarsela con
un ormai inesistente "potere borghese") non si basa più sul potere patriarcale, ma su di un self-
service di consumi individuali facilitati da Internet.

Il Sessantotto è stata una svolta storica cruciale di questo passaggio da una morale
protoborghese, paternalistica e repressiva, ad una morale postborghese del consumo
indifferenziato e liberalizzato. In Francia se ne sono accorti alcuni intelligenti pensatori, come
Debray e Lipovetsky, in Italia ovviamente nessuno.

Ma torniamo al Potere. I foucaultiani di oggi continuano a comportarsi come se la questione del


Potere autoritario fosse la questione principale. Essi sono come sempre in ritardo di un giro, cioè
di un'epoca storica, e fanno sempre la guerra con le mappe militari della guerra precedente.
Sono, e sempre saranno, la linea Maginot della sinistra. E pensare che lo stesso Foucault avrebbe
dovuto in teoria avvertirli, spiegando che oggi le strategie del potere sono orizzontali e non
verticali, molecolari e non molari (cioè grosse, nel suo curioso linguaggio). Ma il fucoltismo dei
centri sociali è più lontano dal vero Foucault di quanto lo è stato Stalin da Marx.

45. E con questo concludiamo. Telegraficamente, una diagnosi, una prognosi ed una terapia.

La diagnosi è pessima. Non è infausta, cioè mortale, solamente perché sono gli uomini e le
generazioni che muoiono, mentre gli esseri umani non muoiono mai, sempre che non ci sia un
grande meteorite annientatore di dinosauri e di confusionari. Per quanto riguarda questi uomini
di questa generazione, se non cambiano gli scenari storici in modo imprevedibile, mi aspetto
l'egemonia provvisoria di Agnoletto, Naomi Klein e Toni Negri. Hanno dietro anche il sistema
mediatico ed il sistema politico.

Una prognosi. La loro egemonia è forte nell'immediato, ma è debole anche solo nel medio
periodo, per una ragione semplicissima. Essi si basano sul fatto che non c'è più l'imperialismo, e
che in questo quadro post-imperialista possono promuovere la Tobin Tax, l'accesso all'acqua, il
basso prezzo delle medicine. Sia chiaro che io non disprezzo affatto questo programma
riformistico, ed anzi lo sostengo. Ma c'è l'imperialismo, e questo dato ineludibile gli porterà via lo
sgabello da sotto il loro mediatico sedere.

Una terapia. La terapia è razionalità, razionalità ed ancora razionalità. In proposito, le dosi di


marxismo, anche rinnovato radicalmente, non bastano. Ci vuole un nuovo orientamento
culturale. Marx non basta assolutamente. Ci vogliono Platone e Kant, Aristotele ed Hegel. Ma per
il momento, non ne vedo neppure l'ombra. Chi vivrà vedrà.

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