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di Federico Primosig1

er la riflessione che vorrei


P articolare farò una distin-
2
zione iniziale ripresa da Todd May , un filosofo americano, il
cui tipo di categorizzazioni risente di un impianto anglosas-
sone ma è utile comprendere fin da subito il terreno su cui si
proverà a ricostruire l’idea di potere in Foucault. Todd May
distingue tre tipi di filosofia politica: formale, strategica e tat-
tica. Quella formale evita di inserirsi in quella tensione sem-
pre esistente tra l’essere e il dover essere, tra lo status quo
così come si da’ nella realtà e come invece i soggetti che par-
lano di filosofia politica vorrebbero che si delineasse. Si carat-
terizza per schierarsi sempre con uno dei due poli, non
tenendo per rilevante la tensione tra i due. Un esponente di
quest’orientamento è Rawls, che nel suo scritto più rappre-
sentativo, Una teoria della giustizia3, si limita a fornire i princi-
pi che ogni essere razionale sceglierebbe come preliminari
per la costruzione di una società.
Il secondo tipo di filosofia politica è quella strategica,
caratterizzata da un’analisi unitaria mirante ad un unico fine.
Figurativamente questo tipo di visione della politica potreb-
be essere rappresentata come una serie di cerchi concentrici
in cui il nucleo centrale (che potrebbe essere l’economia o la
politica) è circondato dai problemi ad esso relativi. I due filo-
sofi più rappresentativi di questo tipo di categoria sono
Machiavelli e Lenin. Machiavelli poneva al centro della que-

1 Questa testo è la trascrizione rivista e corretta di un intervento svolto


nel ciclo seminariale Genealogie del dominio.
2 T. May, Anarchismo e post-strutturalismo, Elèuthera, Milano, 1998.
3 J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano, 1982.

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stione politica il governo dell’Italia, Lenin invece le strutture
economiche.
Il terzo tipo di filosofia politica, di maggior interesse a mio
avviso, è la filosofia politica di tipo tattico, che, in una battu-
ta, potrebbe dirsi basata sull’idea che non esiste un centro di
emanazione del potere ma esistono vari luoghi indifferenti
che emanano potere contemporaneamente. Un’immagine
adatta a riassumere tale punto di vista potrebbe essere quella
di una fitta rete di linee che s’intersecano. Rappresentanti di
una filosofia politica di tipo tattico potrebbero essere l’anar-
chismo, sia storico, sia in rapporto al dibattito contempora-
neo, e quella corrente noto sotto il nome di post-strutturali-
smo4, su cui eviterò di dilungarmi ma nella quale possono
essere inseriti Michel Foucault, Gilles Deleuze e Jean Francois
Lyotard. Sia gli anarchici sia i post-strutturalisti vedono
opportunità d’intervento politico in una molteplicità di luo-
ghi di conflitto, senza stabilire la priorità di una lotta rispetto
le altre. Fedele all’esposizione di Todd May a questo punto,
tenterò di tracciare un breve percorso filosofico politico che
consenta di mettere a fuoco le differenze e le similitudini esi-
stenti tra Michel Foucault e gli altri filosofi politici a lui vicini.
Partiamo dall’analisi della filosofia politica strategica, da
Lenin. Il testo fondamentale di Lenin, il Che fare5, fu scritto
nel 1905 per dare indicazioni ai comunisti russi appunto sul
da farsi nella fase delicata che si trovavano a dover affronta-
re. Sinteticamente possiamo delineare il leninismo come una
filosofia caratterizzata da tre elementi: un’unica lotta, un’u-
nica teoria, un’unica leadership. Un’unica lotta perché la
lotta di classe è per Lenin la lotta centrale, su cui bisogna con-
centrarsi, non è una lotta tra le altre ma è la lotta determi-
nante; un’unica teoria perché una teoria o è a favore della
rivoluzione oppure aiuta la borghesia a prevenirla. Un’unica
leadership poiché in quella fase storica, a parere di Lenin, i
proletari non potevano cogliere immediatamente la necessità
di compiere una rivoluzione perché la gestione riformistica,
sindacalista, era in grado far fronte ai bisogni immediati del

4 Non è questa la sede per sondare l’efficacia di tale definizione che ci


limitiamo ad utilizzare per convenzione.
5 V. I. Lenin, Che fare?, in Opere scelte, vol. 1, Editori Riuniti, Roma, 1975.

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proletariato, rendendo difficile cogliere come immediata la
necessità di compiere la rivoluzione. Il tema dell’avanguar-
dia rivoluzionaria è un problema intrinseco alla filosofia
politica di tipo strategico. Infatti, se il potere ha un unico cen-
tro di emanazione, esisteranno anche dei soggetti, dei seg-
menti sociali, più vicini ad esso ed inevitabilmente il compi-
to rivoluzionario sarà, in una simile dinamica, loro appan-
naggio. Ciò ad ovvio discapito di tutti gli altri attori sociali, il
cui ruolo dovrebbe limitarsi a seguire i vertici del processo
rivoluzionario. Una forte critica a tale modello, in linea con
l’analisi prodotta da Foucault sullo stesso tema, è quella di
Rosa Luxemburg. Essa sostiene che l’imposizione della disci-
plina per raggiungere il socialismo, a spese della spontaneità
delle masse, costituisce in germe la riproposizione di una
struttura di tipo capitalistico. La storia darà ragione alla
Luxemburg, ma, in sede di esposizione di teorie politiche,
preferisco non dare cenni storici, i quali meriterebbero ben
più attenzione che una citazione a margine.
Una prima variazione di questo modello viene compiuta
dalla scuola di Francoforte, principalmente da Adorno e
Horkheimer, i quali fondamentalmente dissolvono il centro
del potere: il potere non è più identificato nel dominio capi-
talistico inteso in termini economici, nei rapporti di produ-
zione, nei rapporti di classe, bensì viene esteso a tutta lo spa-
zio sociale. Una delle parole chiave nella loro elaborazione è
industria culturale, con cui s’intende una sorta di dispositivo
di persuasione che attraverso il cinema, la letteratura, produ-
ce una cultura diffusa che è finalizzata a cooptare il poten-
ziale soggetto rivoluzionario, in altre parole il proletariato.
Quindi la classe che dovrebbe fare la rivoluzione, nella visio-
ne piuttosto pessimista di Adorno e Horkeimer è stata coop-
tata dalla classe dominante e qualsiasi forma di risposta posi-
tiva è suscettibile di essere o recuperata dai parametri del
capitalismo o di essere comunque immediatamente emargi-
nata. Su questa linea, ma con una visione meno negativa, si
può inserire Herbert Marcuse. Chi rivedrà questo modello è
un discepolo della scuola di Francoforte, Jurgen Habermas,
che in realtà andrebbe inserito tra i filosofi politici di tipo for-
male. A suo parere lo strumento di resistenza alla cooptazio-
ne è la possibilità di ritrovare una comunicazione libera dalle

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distorsioni culturali della così detta cultura borghese. Ci sem-
bra però che in Habermas il passaggio all’intervento pratico
non sia ben chiaro: innanzi tutto questo agire comunicativo
presupporrebbe una situazione linguistica ideale che nei fatti
è, a nostro avviso, difficilmente riscontrabile e si presenta
come una struttura quasi trascendentale che non tiene pre-
sente una serie di fattori, come l’impossibilità di separare
l’ambito della produzione materiale da quello comunicativo.
Una corrente che ha sicuramente qualcosa di affine all’a-
nalisi della scuola di Francoforte e che si situa a cavallo tra il
marxismo e l’anarchismo, è quella che fa capo all’internazio-
nale situazionista che attraverso i suoi bollettini e i suoi due
testi fondamentali, La società dello spettacolo6 di Guy Debord e
Trattato sul saper vivere ad uso delle giovani generazioni7 di Roul
Vaneigem, elaborano quella che è forse la migliore descrizio-
ne del passaggio di assorbimento del potere su tutta la sfera
sociale. La loro proposta politica consiste nell’inserirsi nel
flusso spettacolare del capitale per sovvertirlo attraverso pra-
tiche come quella del détournement cioè di risignificazione
dell’estetica del capitale.
Un altro filosofo marxista che sicuramente aggiunge molto
al pensiero di Lenin è Althusser. Althusser sostiene che non
esiste un’unica teoria ma che al contrario essa dev’essere sen-
sibile al riscontro pratico e soprattutto che la sua scrittura e
messa a punto non può essere separata da chi poi dovrà pra-
ticarla. Comunque egli, come tutti i pensatori finora conside-
rati, considera il proletariato come l’unico soggetto politico e
alla base di tutto i rapporti di produzione e di classe. Simile
a quella di Althusser, ma ancora più radicale, è la posizione
dell’Autonomia Operaia, movimento nato dalle ceneri di
Potere Operaio negli anni ’70. Il suo principale teorico italia-
no è Toni Negri e negli Stati Uniti Harry Cleaver. Questa teo-
ria prevede una sorta di ricompattazione del proletariato
come soggettività autonoma portatrice dei propri interessi,
sganciata da qualsiasi forma di avanguardia (emblematico in

6 G. Debord, La società dello spettacolo, in Commentari sulla società dello spet-


tacolo, Sugarco, Milano, 1990.
7 R. Vaneigem, Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni,
Malatempora, Roma, 1999.

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questo senso l’attacco frontale al PCI da parte
dell’Autonomia negli anni ’70). Si nega l’opportunità di un’a-
vanguardia che s’impadronisce del potere dall’alto, affer-
mando una riappropriazione da subito della propria vita
quotidiana e di un comunismo da subito.
Cornelius Castoriadis, ultimo pensatore della tradizione
marxista che citiamo in questo excursus, è una sorta di post-
trockijsta, fondatore della rivista Socialismo o Barbarie, centra-
le nel dibattito filosofico francese, sulla quale scrisse anche
Michel Foucault. Castoriadis vede nel potere, sia di natura
capitalista sia di natura sovietica, un elemento in comune: la
burocrazia. La sua proposta pratica per sconfiggere la buro-
crazia è legata ad un’assunzione di responsabilità generaliz-
zata nella società in cui si elimina la distinzione tra dirigenti
ed esecutori: tutti devono divenire dirigenti, da un punto di
vista economico politico e personale. Castoriadis negli ultimi
anni della sua vita simpatizzerà per posizioni molto vicine
all’anarchismo e per una visione simile a quella di Kropotkin.
L’altra grande tradizione di filosofia politica con cui biso-
gna confrontarsi è l’anarchismo, la cui figura chiave, almeno
per una certa fase è Bakunin. Vale la pena di ricordare i ter-
mini di una polemica molto conosciuta tra lui e Marx. Marx
sosteneva che il proletariato avrebbe dovuto prendere il
potere, impossessarsi dell’istituzione statale per procedere,
attraverso una fase di transizione, alla sua estinzione.
Bakunin fece da subito notare che occupati i vertici del pote-
re statale, questa fase si sarebbe fossilizzata e automatica-
mente l’avanguardia del proletariato sarebbe divenuta la
nuova classe dominante.
L’anarchismo storico ha una tradizione molto lunga e com-
plessa, ciò che ci interessa sottolineare, è il modo costante di
concepire il potere non come proveniente da un centro ma di
riconoscerlo in segmenti diffusi sul tessuto sociale. La critica
più grossa che si può fare a gran parte dell’anarchismo tradi-
zionale è di vedere come fondamento della distruzione del
potere l’assunto che la natura dell’uomo è essenzialmente
buona. Il percorso del seminario “Genealogie del dominio” è
partito invece da un autore che viene tradizionalmente inseri-
to nell’anarchismo storico ma che parte da un presupposto
opposto. Parliamo ovviamente di Max Stirner, il quale ritiene

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che la natura dell’uomo sia tutt’altro che buona, bensì egoista.
Tra i pensatori anarchici contemporanei vale la pena di
citare almeno Colin Ward e Murray Bookchin.
Ward propone qualcosa di molto vicino a quello che dirà
Foucault. La sua idea di politica implica la costruzione di
strutture reticolari e non di gerarchie piramidali. Per Ward
non è interessante cambiare l’etichetta al vertice della pirami-
de ma bisogna sradicare il sistema gerarchico, perché tutte le
istituzioni oppressive sono strutturate in maniera gerarchica:
lo stato, l’esercito, la scuola, l’università e così via, quindi è
proprio la struttura gerarchica che va eliminata alla radice.
Bookchin sostiene l’opportunità di una pressione continua
sulla società alla ricerca dei suoi punti deboli, per cercare di
aprire spazi di possibilità realmente rivoluzionari. Si potreb-
be confondere questa posizione con una specie di riformi-
smo, ma è Bookchin stesso a dire che questo tatticismo non
equivale al riformismo perché un felice intervento politico in
un punto nodale della società in cui si accentra il potere può
avere effetti di riverbero su tutto il tessuto sociale. Esiste
comunque un paradosso in questo pensiero che è uno degli
scogli su cui la teoria anarchica tende in parte ad infrangersi.
Parliamo di quello che potrebbe essere definito il paradosso
federalista. La soluzione politica suggerita da questi pensa-
tori è una sorta di federalismo conclusivo, il problema quin-
di è se alla fine questo federalismo sia un nuovo obiettivo
strategico come il comunismo per l’ideologia del marxismo
oppure no. Su questo si può citare un interessante dialogo
che si è tenuto negli Stati Uniti tra Michel Foucault e Noam
Chomsky8. Chomsky sosteneva la tradizione anarcosindaca-
lista classica e Foucault gli contesta proprio il fatto che cerca-
re di immaginare una società ideale ha comunque il difetto
che quest’immagine verrebbe forgiata attraverso gli stru-
menti e le categorie della società attuale. In questo Foucault
si dimostra a nostro parere ancora più tattico di Chomsky su
questa prospettiva.
L’altro limite, che differenzia fortemente i pensatori anar-
chici dal pensiero di Michel Foucault, è l’idea che il potere sia

8 Cfr. N. Chomsky - M. Foucault, Giustizia e natura umana, Ida Palma e


edizioni associate, Palermo, 1994.

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essenzialmente una forza repressiva, il potere come qualche
cosa che agisce in maniera negativa sul tessuto sociale. E da
qui potremmo far partire effettivamente la riflessione sul
potere di Michel Foucault.
Foucault distingue una concezione economicista del pote-
re e una concezione non economicista. Nella concezione eco-
nomicista del potere rientrano sia la tradizione così detta giu-
ridica (per indicare la quale spesso utilizza termini diversi)
che quella marxista. Il primo dei tre modelli su cui si è anda-
ta a costruire storicamente quest’idea del potere è la società
schiavistica, dove il potere è visto come censura, come impe-
dimento del libero sviluppo della libertà degli individui
attraverso una strategia di repressione. Il secondo modello
affonda le sue radici nella società feudale, dove il potere è
visto come prelevamento e trasferimento attraverso la coerci-
zione da una casta meno privilegiata a una più privilegiata,
cioè la sottrazione della ricchezza da una casta all’altra.
Il terzo modello, il più importante, è quello così detto giuri-
dico discorsivo, improntato sul modello politico della monar-
chia amministrativa e che ha per protagonisti fondamental-
mente tre concetti: quello del sovrano, quello della legge, e
quello dell’interdizione. La prospettiva di Foucault era invece
proprio quella di trovare una filosofia politica non costruita
attorno alla figura del sovrano: “Bisogna tagliare la testa al re:
non lo si è ancora fatto nella teoria politica”9. I referenti sono
ovviamente Machiavelli e Hobbes, ed è a partire dalla critica
che Foucault muove loro che si può capire quale sarà la sua
interpretazione del potere. Foucault sostiene che non bisogna
partire dall’idea del sovrano come fonte del potere ma pren-
dere in considerazione i soggetti nelle loro relazioni recipro-
che. La teoria della sovranità presuppone un soggetto da
assoggettare, un’essenziale unità del potere da fondare e la
legge da rispettare. Foucault parte invece dalle relazioni stesse
e non dai soggetti perché a suo avviso la costituzione del sog-
getto avviene attraverso delle relazioni di potere. Foucault non
prende in considerazione l’unità del potere ma considera le

9 Intervista a Michel Foucault, in M. Foucault, Microfisica del potere,


Einaudi, Torino, 1977, p. 15.

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strutture di potere come strategie globali che attraversano e
utilizzano delle tattiche locali di dominazione.
Quindi la tradizione che è più vicina a quella di Foucault è
quella non economicista che vede il potere non come un bene
di scambio, economico appunto, che qualcuno possiede, che
si può dare, che si può prendere, si può strappare, si può
cedere, bensì vede il potere come qualcosa che è costante-
mente in atto. Chi, prima di lui, ha descritto il potere in que-
sto modo gli ha attribuito un ruolo fondamentalmente
repressivo. I referenti potrebbero essere Georg W. F. Hegel,
Sigmund Freud, Wilhelm Reich e Herbert Marcuse.
In questa così detta ipotesi repressiva, il potere ha essen-
zialmente solo la funzione di reprimere, si presenterebbe
quindi come censura, come sbarramento, come esclusione,
rimozione, praticamente come un enorme super-io. Se così
fosse il potere sarebbe molto fragile, mentre per Foucault il
potere è qualche cosa di essenzialmente produttivo: produce
desiderio, produce sapere, produce delle pratiche. La griglia
interpretativa proposta dal filosofo francese per analizzare il
potere è quella della guerra, concezione che ricava, a suo
stesso dire, da Nietzsche. Se gli altri riferimenti erano Marx,
i “philosophes” del XVIII secolo, come Rousseau, per la
visione economicista, che vede appunto il potere come bene
di scambio; Marx e il marxismo per la visione che vede il
potere come fondamentale per mantenere i rapporti di classe
e conservare i processi economici; Freud e Wilhelm Reich
come referenti per l’idea di potere in atto, però inteso solo
come repressivo, il paradigma della guerra sarebbe stato teo-
rizzato per la prima volta da Friedrich Nietzsche. I due auto-
ri su cui Foucault opererà una sorta di lettura critica per deli-
neare questo paradigma sono Thomas Hobbes e il barone
Von Clausewitz. Perché la guerra come griglia interpretativa
del potere? Come dicevamo, per Foucault il potere non è
qualcosa che cade dall’alto ma il potere è sempre sinonimo di
rapporti di potere. Questa rete di rapporti è una guerra
costante che si maschera da pace. Clausewitz afferma che la
guerra è il proseguimento della politica con altri mezzi,
Foucault rovescia questo paradigma sostenendo che in realtà
la politica è il proseguimento della guerra con altri mezzi. A
suo avviso già quello di Clausewitz era un paradigma che

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tendeva a rovesciare una visione precedente. Si riferisce a
Hobbes e Machiavelli, i pensatori che inaugurano l’idea
moderna del potere come leviatano, formato da vari corpi che
trovavano nel sovrano l’anima, e in cui la testa del leviatano è
il centro di emanazione del potere. Proprio riferendosi a que-
sto modello Foucault sostiene l’opportunità di tagliare la testa
al leviatano e di sottrarre il principe ai rapporti di potere.
Tutto il discorso di Hobbes si fonda sulla così detta guerra
di tutti contro tutti, che a parere di Foucault è una guerra
delle somiglianze; non è una guerra delle differenze, non è
una guerra del più forte sul più debole, ma è una guerra che
si compie in una sorta di uguaglianza diffusa. Se infatti esi-
stesse un soggetto evidentemente prevalente rispetto ad un
altro soggetto, o non ci sarebbe guerra, perché il soggetto più
debole prende atto della potenza superiore di colui che ha di
fronte, oppure verrebbe combattuta un’unica guerra che
sarebbe vinta una volta per tutte dal soggetto più forte.
Questa originaria guerra di tutti contro tutti, non è un qual-
cosa di teorico, non è un’immagine pura fornita dai filosofi.
Foucault è bensì convinto che questo tipo di filosofia politica
sia nata nelle vicende storiche, nel sangue, nella lotta. La
legge, la società civile non nascono da un’idea astratta per cui
un filosofo può dire: “Costituiamo un patto civile per poter
andare avanti” la legge invece nasce da massacri reali.
Foucault lo dice chiaramente:

L’organizzazione, struttura giuridica del potere, degli stati,


delle monarchie, delle società, non trova il suo principio là dove
tace il clamore delle armi. La guerra non è mai scongiurata perché,
innanzitutto ha presieduto alla nascita dagli stati: il diritto, la pace
e le leggi sono nate nel sangue e nel fango delle battaglie. E si trat-
ta di battaglie e di rivalità che non erano affatto – come immagi-
navano filosofi e giuristi – battaglie e rivalità ideali. Non si tratta,
insomma, di una sorta di selvatichezza teorica. La legge non nasce
dalla natura, presso le sorgenti a cui si recano i primi pastori. La
legge nasce da battaglie reali: dalle vittorie, dai massacri, dalle
conquiste che hanno le loro date e i loro orrifici eroi; la legge nasce
dalle città incendiate, dalle terre devastate; la legge nasce con quei
celebri innocenti che agonizzano nell’alba che sorge10.

10 M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit. p. 49.


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La situazione che si svilupperà dopo questa guerra fonda-
tiva, sarà in realtà, una situazione di guerra permanente
nascosta dalla pace, Hobbes stesso porta come esempio il
fatto che il viaggiatore prima di partire chiude con il chiavi-
stello la propria casa perché sa che esiste una guerra perma-
nente tra i ladri e coloro che possono essere derubati così
come questa guerra esiste tra gli stati, che sono come dei
guerrieri che stanno uno di fronte all’altro fissandosi pronti
ad estrarre le spade. È all’interno di quest’orizzonte di guer-
ra nascosta dalla pace che bisognerà calibrare l’agire politico.
È all’interno di questo paradigma che si formerà l’idea di
microfisica del potere di Michel Foucault.
Questa rielaborazione di Clausewitz, Hobbes e Nietzsche
costituisce il terreno su cui l’analitica del potere di Michel
Foucault prenderà corpo, essa non vedrà il potere come iden-
tificato nello stato ma come un insieme di rapporti, come un
potere che passa attraverso i corpi, attraverso le relazioni
sociali, attraverso gli atteggiamenti, attraverso i rapporti di
genere, quindi uomo-donna ma anche donna-uomo, attra-
verso l’istruzione, attraverso la famiglia, attraverso quelle
che possono essere nominate pratiche e su cui presto ci sof-
fermeremo. Il fatto che il potere non possa essere identificato
nello stato ha trovato il suo esempio pratico nella storia
dell’Unione Sovietica. Prendere il possesso del potere statua-
le senza cambiare le strutture che sottostanno a questo pote-
re cioè le gerarchie sociali, la famiglia, la sessualità, il modo
di vivere, di concepire il corpo, riprodurrà comunque una
situazione di dominio. Il potere passa attraverso e ricopre
tutta la sfera sociale, ma per sfera sociale non si intende uno
spazio vuoto che queste relazioni dovrebbero andare a riem-
pire, la sfera sociale è composta dalle relazioni stesse. Il ter-
mine che potrebbe aiutare a comprendere quest’idea di sfera
sociale è una parola deleuzeiana: rizoma. Il rizoma è una
radice aerea che si ramifica da ogni parte si lega ad altre radi-
ci senza un’origine o un centro riconoscibile. Il cercare una
sfera sociale indipendente che le relazioni andrebbero a riem-
pire, sarebbe come la ricerca di un fondamento, e per
Deleuze questo tipo di attitudine fa parte di un pensiero
arborescente, ben diverso dal pensiero rizomatico (il rizoma
per l’appunto è diverso dall’albero, visto come simbolo della

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produttività verticale e normativa, ma anche dalla radice
simbolo di origine o fondamento). L’analisi di Foucault del
potere procede a partire dalle sue determinazioni periferiche
ultime, non dal suo luogo d’origine; Foucault non si doman-
da da dove parte il potere ma dove esso si applica, quali sono
i punti in cui questo potere agisce effettivamente sugli indi-
vidui. Quindi lo stato, a suo parere, con tutti i suoi apparati,
e tutta la sua potenza, è ben lontano dal ricoprire il campo
reale degli effetti di potere. Nella società ci sono migliaia e
migliaia di relazioni di potere e quindi ci sono migliaia e
migliaia di lotte, di resistenze. Il fatto che Foucault veda il
potere ovunque non vuol dire che non c’è possibilità di resi-
stenza, ma al contrario che ovunque si presenta il potere si
presenta la resistenza, che le relazioni di potere sono sempre
reversibili, e tanto più questa resistenza sarà forte, tanto più
il soggetto dominante tenderà a far valere il proprio potere,
la propria forza con più insistenza; e solo nei momenti più
estremi in cui la resistenza si fa più forte, il potere svela quel-
lo che potrebbe essere chiamato il suo volto cinico che di soli-
to non viene allo scoperto perché altrimenti, se il potere
mostrasse solo il suo volto cinico la sua forza repressiva, il
suo dire di no, nessuno lo asseconderebbe così facilmente. Al
contrario il potere va pensato come una rete produttiva, che
produce pratiche che produce discorsi, che produce sapere, e
sul nesso tra potere e sapere non mi dilungo11.
Abbiamo detto che la struttura dello stato non riuscirebbe
a controllare in modo continuo e indolore la totalità degli
individui se non si radicasse al loro interno sfruttando come
in una strategia globale tutte le tattiche locali ed individuali
che rinserrano ciascuno di noi. Esistono poi quelle che
Foucault chiama le tecniche di potere in altre parole ciò che
effettivamente queste determinazioni periferiche del potere
sono di preciso. Per una certa fase del suo pensiero si soffer-
ma su quelle tecniche di potere comprese nel concetto di
disciplina. Il libro che prende in analisi questo tipo di tecniche

11 A questo proposito rimando all’intervento Potere e sapere: l’analisi di


Michel Foucault e la figura dell’intellettuale di Alessandro Palmieri all’in-
terno di questo stesso volume.

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è “Sorvegliare e punire”12. Le discipline sono dei metodi di
addestramento dell’impiego del tempo e del corpo finalizza-
te ad aumentare l’efficienza degli individui per coinvolgerli
in un processo di assoggettamento totale e costante. Le disci-
pline si caratterizzano per essere un tipo di potere indivi-
dualizzante che funziona attraverso una sorta di setaccio che
trattiene ogni singolo individuo, attraverso appunto dei mec-
canismi di disciplina sul corpo. L’analisi di Foucault si foca-
lizzerà su alcuni campi d’applicazione del potere tra cui la
sessualità e le prigioni.
L’idea di tecnica del potere come disciplina sta dentro un
orizzonte definibile anatomo-politica cioè di politica dell’a-
natomia del corpo, distinto da quella che sarà una fase suc-
cessiva, un’individuazione successiva delle tecniche di pote-
re per Foucault, la biopolitica. La biopolitica non prende in
esame il corpo e l’individuo come singolo ma la popolazione
in quanto tale, in quanto entità biologica. La biopolitica
segna appunto quel passaggio in cui il potere comincia ad
assumere l’intera popolazione come elemento da formare,
studiandone i flussi di natalità, mortalità e morbilità, cioè di
diffusione delle malattie. Il campo che fa da legame tra l’a-
natomo-politica e la biopolitica è ovviamente la sessualità su
cui Foucault si concentrerà negli ultimi anni della sua rifles-
sione. Questo tipo di tecniche è differente dalle tecniche dif-
fuse nei modelli precedenti di potere, cioè sono differenti
dalla schiavitù che implicava non un’educazione del corpo
ma un’appropriazione vera e propria del corpo, così come è
diversa dal vassallaggio, in cui il potere si esercita innanzi
tutto sui prodotti del lavoro e non sul corpo. L’ultimo oriz-
zonte del pensiero di Foucault è rappresentato dal concetto
di governamentalità su cui si stava concentrando nell’ultimo
periodo della sua vita. La governamentalità si presenta quasi
come il risultato di una somma, in essa si uniscono sia i suoi
studi sulla ragion di stato che quelli sul potere pastorale, cioè
sul potere ancora individualizzante del cristianesimo o
comunque di tutte le pratiche di confessione.

12 Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1976.

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Vorrei fare una precisazione sull’idea di pratiche. Abbiamo
detto che il potere si manifesta non attraverso un centro di
emanazione ma che esso attraversa delle pratiche, delle costi-
tuzioni di saperi e delle formazioni, appunto, di pratiche. Le
pratiche sono le opportune unità di analisi del potere per
Michel Foucault. Una pratica è una regolarità sociale intesa
ad uno scopo. Ciò che la caratterizza è una discordanza tra
gli obiettivi che si prefiggono gli attori di queste pratiche e gli
eventuali effetti che queste pratiche otterranno. Questo per-
ché? Perché queste pratiche non sono necessariamente tra-
sparenti agli attori che ne prendono parte e le costituiscono?
Innanzi tutto ogni pratica si incrocia a sua volta con altre pra-
tiche e la combinazione stessa è, in sé stessa, una pratica; l’e-
sito di questi incroci non è per forza prevedibile e non è
necessariamente preso in considerazione preliminarmente
dal protagonista della pratica. Le pratiche, poi, sono spesso
indotte da altre pratiche ignote agli attori che vi si muovono
dentro. Le pratiche sono inseparabili dal potere, cioè dagli
effetti che ha ognuna sulle altre, dai vincoli che ogni pratica
crea su un’altra pratica. In più lo scontro di forze che abbia-
mo visto essere sottinteso in questo discorso che è sotteso
quindi anche alle pratiche implica un certo grado di deter-
minazione inconscia che va ad occultare agli attori i veri
obiettivi. Teniamo inoltre conto che parlare di pratiche vuole
dire formare un sapere sulle pratiche ma il sapere stesso è
una pratica quindi vincolato dai punti di cui sopra.
Ancora una volta Deleuze ci viene in aiuto per spiegare
meglio questo concetto. Per Deleuze noi e le nostre pratiche
siamo composti di linee che si intersecano, linee che lui
distingue in segmentarie, molecolari e di fuga. Utilizzando
nuovamente il vocabolario di Deleuze possiamo capire anco-
ra meglio: Deleuze rifiuta la ricerca di un oggetto totale pre-
diligendo invece il così detto oggetto parziale perché le con-
nessioni macchiniche avvengono sempre tramite oggetti par-
ziali. Per analizzare questo tipo di situazione così poco uni-
taria ci sarà bisogno di un metodo opportuno. Il metodo che
Foucault suggerisce è la genealogia che rappresenta a suo
avviso una vera e propria insurrezione dei saperi. La genea-
logia si caratterizza per non cercare l’origine, l’essenza esatta
della cosa, l’identità originaria. Si parte invece dalla convin-

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zione che l’unità di un oggetto è il prodotto di una dispersio-
ne di eventi singolari di cui cercare la provenienza e l’emer-
genza, il momento della nascita, da ricercare nel gioco alea-
torio delle dominazioni, la genealogia è “riscoperta meticolo-
sa delle lotte e insieme memoria bruta degli scontri”13.
Le relazioni di potere sono ovunque e non sono qualcosa
di negativo, il problema non è quindi eliminare le relazioni di
potere bensì darsi quell’ethos che consentirà all’interno dei
giochi di potere di avere a che fare con il minimo possibile di
dominio. Per Foucault il termine dominio rappresenta quel-
lo stato di cose in cui i rapporti di potere raggiungono un
livello di irreversibilità per cui le relazioni non sono più
mobili ma bloccate e fisse. Etica coincide nel pensiero del filo-
sofo francese con la cura di se, come per i greci, l’uomo che
ha un bell’etos è l’uomo che può essere ammirato e preso
come esempio, quindi cura di se vuole dire non rimanere
schiavi di se stessi e dei propri desideri ed è inscindibile dalla
cura per gli altri.
La politica che deriverà dai tratti del pensiero di Foucault
delineati in quest’intervento sarà una politica di diffusione e
molteplicità che si scontra con il potere in una varietà di luo-
ghi spesso sorprendenti. Non implicherà un soggetto politi-
co predefinito perché per Foucault il concetto di soggetto è
inscindibile da quello di assoggettamento. Il soggetto non si
da a priori ma si costituisce attraverso alcune pratiche, giochi
di verità, pratiche di potere. La politica deve essere affidata
ad una desoggettivazione della volontà di potenza. Per con-
cludere si tratta di una proposta di sperimentazione politica
sociale e individuale. Si sperimenta costruendo pratiche che
si è pronti ad abbandonare se gli effetti sono intollerabili:
pratiche emancipanti possono avere esiti diversi da quelli
previsti all’inizio per interazioni impreviste o per sviluppi di
altre pratiche, non esiste nessuna progettualità della pratica.
Il suo effetto non è la rivoluzione ma l’allargamento di spazi
locali di libertà situate. Inoltre Foucault opera una sorta di
riorientamento della figura dell’intellettuale visto non più
come osservatore ma come protagonista. Quindi il lavoro

13 M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit. p. 17.

116 DALLA RIVOLUZIONE ALLA MICROFISICA


dell’intellettuale, il lavoro che Michel Foucault s’è prefissato
è quello di forgiare degli strumenti d’analisi e d’intervento
politico sulla realtà. In poche parole, la politica di Foucault
coincide con una sorta di attivismo radicale postrivoluziona-
rio che approvava le lotte specifiche contro il potere localiz-
zato e particolarizzato, di donne, prigionieri, pazienti ospe-
dalieri, omosessuali e così via. In tutto ciò non c’era nulla di
riformista, in un dialogo tra Deleuze e Foucault si dice che il
riformismo è un concetto stupido ed ipocrita.
Chiudo con una citazione di Foucault molto esplicativa di
tutto il suo pensiero: “Vorrei che i miei libri fossero bottiglie
molotov, oppure campi minati, vorrei che si autodistrugges-
sero dopo l’uso come fuochi d’artificio”14.

14 Intervista con J. L. Ezine in Nouvelles littéraires, 17-23, marzo 1975, p.


277.

FEDERICO PRIMOSIG 117

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