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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI SALERNO

FACOLTA’ DI ECONOMIA
CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA E
COMMERCIO

TESI DI LAUREA
IN
STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE

Il Concetto di Totalitarismo in Simone Weil e Hannah


Arendt: una lezione per i contemporanei

RELATORE CANDIDATA:
Prof. Eugenia Parise Denise De Dominicis

ANNO ACCADEMICO 2001/2002


INDICE

Capitolo 1: Il Totalitarismo
1. Il dibattito sul termine ed il suo significato p. 1
2. Le teorie più significative p. 8
3. Nazismo e stalinismo: un breve raffronto p.19

Capitolo 2: Un dramma annunciato


1. Simone Weil e la situazione in Germania negli
anni ’30 p. 26
2. Sradicamento e azione politica p. 36

Capitolo 3: Lo scoppio improvviso del terrore


1. La ricerca delle “origini”: Hannah Arendt p. 46
2. Dove tutto è possibile: il campo di concentramento p. 59

Capitolo 4: Un evento che unisce e divide


1. Simone ed Hannah: condivisioni e distinzioni p. 72
2. Il totalitarismo ai giorni nostri p. 81
3. L’imperativo è: non dimenticare p. 92

Bibliografia p. 99
CAPITOLO 1
IL TOTALITARISMO

1. Il dibattito sul termine ed il suo significato


Il xx sec. è stato definito in modi diversissimi: il secolo breve da
Hobsbawm, il secolo della tecnica, il secolo degli orrori, il
secolo di Hitler e Stalin da Todorov.
Tra queste definizioni c’è anche quella che indica il Novecento
come il secolo che ha creato un nuovo tipo di regime: il
totalitarismo. Parola molto contestata fin dalla sua etimologia,
contestata nella sua capacità esplicativa, nel suo vero
significato.
Quando si cerca di far luce su un termine è scontato far
riferimento ad un’enciclopedia: così nell’ “Enciclopedia delle
scienze sociali” S. Forti scrive: «Con questo termine si
intendono i regimi politici novecenteschi caratterizzati dalla
onnipervasiva presenza del potere politico che domina
incondizionatamente e terroristicamente sugli individui e sulla
società».
Sebbene il primo contributo alla costruzione del concetto
provenga dal dibattito tedesco degli anni ’30, l’aggettivo

1
“totalitario” fa la sua prima comparsa1 negli articoli che Giovanni
Amendola pubblica tra maggio e giugno del 1923 sul “Mondo”,
per descrivere il comportamento del governo Mussolini in
relazione alle elezioni amministrative di quell’anno e cioè la
presentazione contemporanea da parte del partito di liste di
minoranza e maggioranza, comportamento che egli indica
come “sistema totalitario”. In questa prima accezione il termine
indica, quindi, un disprezzo per i diritti della minoranza ed un
dominio assoluto ed incontrollato nella vita politica ed
amministrativa.
Per quanto riguarda, poi, il sostantivo “totalitarismo”, è
probabilmente Lelio Basso ad utilizzarlo inizialmente sulle
pagine della rivista “La rivoluzione liberale” quando, nel 1925,
analizzando la situazione politica, scrive di uno Stato il cui
potere penetra in tutti gli organi istituzionali con l’obiettivo di
instaurare un “totalitarismo indistinto”, un ordine politico che
prevede la soppressione di ogni contrasto e che si fa interprete
di un’unica volontà di partito, unanimamente condivisa dalla
società2.
La coppia di termini totalitario-totalitarismo viene
successivamente utilizzata anche da Gramsci nei suoi
Quaderni quando è ormai chiaro che la politica sta vivendo una
nuova stagione ed è necessario utilizzare delle nuove
definizioni per la sua comprensione. Egli non solo indica come
totalitaria la politica del fascismo ma ne spiega anche il perché:
essa tende ad isolare i membri del partito da ogni altra
organizzazione distruggendo le altre o inglobandole in sé, in

1
S.Forti, Il totalitarismo, Laterza, 2001, pag. 4.
2
Ivi, pag. 6.

2
modo da rimanere l’unica fonte di soddisfazione delle proprie
necessità intellettuali3.
La paternità dell’utilizzo del termine da parte degli antifascisti
italiani è riconosciuta anche dalla voce Totalitarianism della
Encyclopedia of the social science che si rifà all’Oxford English
Dictionary del 1933, dove si citano proprio alcuni articoli di G.
Amendola, P. Godetti ed altri4.
Probabilmente, però, la legittimità all’utilizzo delle “nuove”
parole proviene proprio da Mussolini, quando, al IV Congresso
del Partito Nazionale Fascista nel giugno 1925, indicherà nella
feroce volontà totalitaria, una delle caratteristiche dell’ideologia
del suo movimento e quindi un termine adatto a definire l’enfasi
rivoluzionaria del fascismo; da quel momento, anzi, “totalitario”
acquista agli occhi dei suoi seguaci una connotazione positiva,
come indicativo di forza e di orgoglio.
Una tale connotazione acquistano, sia il sostantivo che
l’aggettivo, negli scritti che Giovanni Gentile dedica alla
formulazione della filosofia del partito; infatti, lo Stato fascista è
totalitario nel senso che «tutto è nello Stato e nulla di umano o
spirituale esiste e tanto meno ha valore al di fuori dello Stato»5.
Poiché l’individuo e la sua libertà coincidono con questo Stato,
esso non può che essere una realtà che domina incontrastata
sia il corpo che la mente dell’uomo: per Gentile è in questo
modo configurato l’aspetto di un potere statale etico e
promotore di vita spirituale.

3
Ivi, pag. 7
4
C. Pavone, Fascismo e dittature: problemi di una definizione, in M. Flores (a
cura di), Nazismo, fascismo, comunismo, Bruno Mondadori 2000, pag 81.
5
S. Forti, Il totalitarismo, cit., pag. 8.

3
Questi scritti confermano a livello internazionale la diffusione
dei termini “totalitario” e “totalitarismo”, anche se nel frattempo il
loro riconoscimento, in accezione assolutamente negativa, era
già avvenuto grazie alla traduzione in lingua inglese del libro di
Sturzo, Italia e fascismo.
Se negli anni ’20 il dibattito si concentra soprattutto sulla genesi
dei termini, se essi possano o meno essere utilizzati in modo
positivo o negativo, successivamente lo scontro intellettuale si
sposterà sul terreno dell’elaborazione del concetto, sulla sua
capacità di indicare questo o quel regime politico.
Dall’Italia e dal fascismo si ci sposta, allora, in Germania dove,
negli anni ’30 si comincia a discutere sulla nuova dimensione
della politica e sul concetto di Stato totale e Stato autoritario.
L’opera che segna l’inizio di questo nuovo interesse è La
mobilitazione totale di Ernst Junger, dove vengono messi in
risalto i caratteri della società contemporanea scaturiti da quella
grande rivoluzione politica e tecnica avutasi con la Grande
Guerra: gli individui si sono trovati ad essere coinvolti in una
“mobilitazione totale” che li ha trasformati in una “massa”
uniforme, li ha ridotti ad essere semplicemente degli ingranaggi
al servizio della tecnica, dei “soldati del lavoro”, li ha costretti in
una vita dove non esistono più differenze tra esistenza, politica
e tecnica.
Questa configurazione dello Stato totale viene ripresa anche da
Carl Schmitt con l’intenzione di sottolinearne, però, la
debolezza; una debolezza dovuta al fatto che l’invadenza della
società lascia liberi di intervenire sulla scena politica partiti che
non rappresentano altro che interessi particolari e corporativi.
E’ a questo punto che interviene la figura del Capo, colui che
combatte la debolezza dello Stato, che si libera di quei partiti

4
con una legittimità che gli deriva dall’essere parte integrante di
un popolo “razzialmente” omogeneo. In questi scritti, e in quelli
dei seguaci di Schmitt, lo Stato totale è una necessità per far
acquistare alla politica quella dignità che secondo costoro essa
aveva perso seguendo il liberalismo e il pluralismo sociale. Si
cominciano a delineare, così, quei principi che diverranno in
seguito il fulcro della propaganda del regime nazista.
In questo periodo non c’è ancora una netta distinzione tra gli
aggettivi “ totale” e “totalitario” ed infatti, dopo la presa del
potere da parte di Hitler, è lo stesso Gobbels a definire
l’avvento del nazionalsocialismo come una “rivoluzione totale”
che ha l’intenzione di instaurare “uno Stato totalitario che
abbracci ogni sfera della vita pubblica”6.
Per avere una collocazione più precisa del concetto bisogna
aspettare la metà degli anni ’30 e il cosiddetto laboratorio di
Parigi dove verrà forgiata non solo una prima interpretazione
del regime totalitario ma si cominceranno anche a sottolineare
le differenze filosofiche tra fascismo e bolscevismo. Questo è
un periodo molto importante perché in un clima aperto a diverse
correnti di pensiero, verranno gettate le basi per tutte le
elaborazioni future sul dominio totalitario.
Per quanto riguarda l’Urss, è proprio Trockij ad aprire il dibattito
sulla degenerazione della rivoluzione bolscevica, sulla
burocrazia diventata “una casta” che, ormai incontrollata,
esercita sulle masse un dominio totale. Per l’autore della
Rivoluzione permanente e della Rivoluzione tradita, Stalin è
stato l’artefice di questo fallimento, avendo lasciato la

6
S. Forti, Il totalitarismo, cit., pag.13.

5
burocrazia libera di acquisire potere politico da sfruttare per i
propri interessi.
Sulla stessa scia di pensiero, si colloca anche Victor Serge che
ha, per la prima volta, utilizzato, per l’Urss, l’aggettivo totalitario.
Si legge infatti nei suoi scritti come l’Unione Sovietica sia
diventata un regime “castocratico”, “burocratico” e soprattutto
“totalitario”: dallo scopo iniziale di promuovere il controllo
razionale sull’uomo e sul suo destino, si è arrivati ad uno Stato
“ubriaco della sua potenza, per il quale l’uomo non conta più”7 e
per il quale è necessario accentrare in sé tutto il potere, politico,
economico e culturale che sia.
Un altro personaggio importante in questa fase del dibattito è
Boris Souvarine che dalle pagine della sua rivista “Critique
Sociale” lancia un durissimo attacco alla politica staliniana:
questa non rappresenta solamente un deviazione dal cammino
rivoluzionario, ma diventa “l’esperienza assoluta” alla quale
rapportare tutte le altre. È infatti proprio Souvarine a formulare
una prima analogia tra la struttura del fascismo e del
comunismo: entrambi, nonostante i presupposti ideologici
differenti, tendono alla costruzione di uno Stato accentratore, al
monopolio su tutte le istituzioni ed entrambi si avvalgono della
personalità forte di un capo carismatico.
Accanto a Serge ed a Souvarine si trovano le posizioni di molti
altri intellettuali che, appurata l’importanza del dibattito,
intervengono in vario modo ampliando l’area di indagine del
concetto, dal suo significato più spiccatamente politico allo
studio dell’ideologia che ne è alla base.

7
Ivi, pag.17.

6
Così, per Raymond Aron è importante lo sviluppo di un
concetto chiaro di totalitarismo che non si accontenti solo di
paragonarlo alle tirannie del passato, ma che mostri la sua
reale novità: il fatto cioè che questi regimi non tendono solo
all’annullamento di ogni pluralismo, ma che siano fondati su
una ideologia che si presenta come una dottrina religiosa,
capace di redimere la società e di salvarla; è questo orizzonte
prospettico, questa lotta fra bene e male che fa accettare ogni
tipo di oppressione violenta e ogni specie di crimine.
Il dibattito a questo punto entra in una ulteriore fase che
coinvolge non solo gli ambienti liberali ma anche la sinistra
eterodossa, interessata a spiegare i legami che il totalitarismo
ha con le radici della cultura occidentale: George Bataille e
Simone Weil sono i rappresentanti di questo tipo di studi che
tentano di rintracciare nel passato i sintomi e le tendenze che
hanno reso possibile lo sviluppo dei regimi totalitari; Jules
Monnerot trova i precedenti di questi regimi nella debolezza
delle democrazie occidentali e Emmanuel Mounier sottolinea
come sia stato il tramonto della spiritualità a dar loro forza, in
quanto essi sono stati capaci di dare delle risposte, sebbene
false, ai bisogni “di trascendenza” dell’animo umano.
È chiaro, a questo punto, che il “totalitarismo” ha acquistato una
rilevanza fondamentale sulla scena intellettuale, dimostrata
anche dal fatto che il dibattito si sposta dall’uso del termine alle
teorie necessarie a spiegarlo: saranno, allora, gli anni ’40 che
vedranno svilupparsi le teorie di base e gli scritti fondamentali
per tutte le indagini successive.

7
2. Le teorie più significative
Se il laboratorio di Parigi aveva, in qualche modo, messo in
evidenza come questo tipo di regime fosse una degenerazione
politica nata dall’interno delle regole costitutive del nuovo Stato
moderno, negli anni ’40, prende corpo l’idea dell’assoluta novità
dello Stato totalitario.
Sono soprattutto gli autori ebrei-tedeschi, emigrati negli Stati
Uniti, a mettere l’accento su questo aspetto, ritenendo non
comparabile a nessun tipo di autoritarismo precedente questa
terribile realtà e sono, soprattutto, i primi a demolire l’immagine
di uno Stato totalitario monolitico nel quale tutto viene
manovrato dall’alto.
L’opera che segna l’inizio di questa nuova stagione è Il doppio
Stato di Fraenkel pubblicato nel 1941: l’autore analizzando la
struttura politica e giuridica della Germania nazista non trova un
predominio di quest’ultima sulla vita sociale, ma piuttosto una
assoluta discrezionalità del settore politico che interviene con
decisioni “su misura” da applicare ad ogni caso singolo.
Il cosiddetto “Stato discrezionale”, quindi, non si avvale della
normale attività giuridica e amministrativa per governare, ma
della polizia che può imporre la propria legge anche sui
tribunali. Si verrebbe così a creare, per Fraenkel, uno stato
d’assedio permanente che vede contrapposti Stato di diritto e
Stato discrezionale, in una lotta che rappresenta la dissoluzione
e non la continuazione della costruzione giuridica europea e
che, soprattutto, metterebbe in luce l’impossibilità di
considerare lo Stato totalitario portatore di un ordine rigoroso.
Una situazione di guerra permanente è la caratteristica del
regime totalitario anche per Sigmund Neuman, il cui lavoro

8
rappresenta un ulteriore sviluppo nel processo di comprensione
del fenomeno, in quanto sposta l’analisi su un terreno diverso e
più sociologico: per l’autore di Permanent Revolution, infatti, c’è
un nuovo soggetto che interviene sulla scena politica e cioè le
masse.
Sono queste gli interlocutori preferiti del dittatore totalitario che
si presenta proprio come uno di loro, capace di capire le loro
necessità,di ristabilire quei valori che sembrano ormai perduti.
La società reduce dalla guerra che avverte la dissoluzione dei
vecchi principi, che non si riconosce nei nuovi Stati-nazione
creati dai trattati di pace, ha bisogno di sicurezza, ha bisogno
dell’ “uomo forte” che la possa guidare, che gli dica dove
andare. È questa società atomizzata che non riconosce più
alcun tipo di solidarietà sociale, alcun tipo di legame di gruppo,
ad essere la più adatta alla manipolazione e all’indottrinamento,
caratteristiche essenziali, secondo Neuman, all’instaurarsi di un
regime totalitario8.
Queste analisi aprono prospettive molto ampie, indagano
aspetti anche psicologici oltre che politici e sociologici e
mostrano che lo studio del fenomeno non può essere racchiuso
in una formula universalmente valida; per la sua comprensione
non è possibile chiudersi in strutture mentali ma è necessario
spingersi oltre le categorie storiografiche fin’ora conosciute.
È proprio questa la sfida che Hannah Arendt lancia con il suo
Le origini del totalitarismo, opera fondamentale che ha
suscitato, e suscita ancora oggi, polemiche e consensi, ma che
rimane una tappa imprescindibile per capire realmente
quest’evento.

8
S. Forti, Il totalitarismo, cit., pag. 30.

9
La Arendt esplora diversi campi, interpreta le tendenze sociali,
sviluppa una sua filosofia, si pone delle domande, anche
scomode, e cerca in questo modo di “capire” come sia potuto
accadere che nel cuore dell’Europa democratica si sia
sviluppato un consenso così ampio verso un regime così
efferato che faceva della violenza e della sopraffazione una sua
peculiarità: la risposta sembra essere che “il totalitarismo non è
caduto dal cielo”9, per tanto sono necessarie indagini sul
passato più o meno recente per rintracciarne le “origini”.
Come gli autori che l’avevano preceduta, la Arendt non crede
che il regime totalitario sia semplicemente un irrigidimento del
cosiddetto Stato forte, anzi, sottolinea con molta energia, le
caratteristiche di assoluta novità dello stesso: un’ideologia che
diventa pratica, l’utilizzo sistematico del terrore e più di ogni
altra cosa, l’istituzione di campi di sterminio; sono questi a
rappresentare la verità ultima del totalitarismo, il luogo dove
l’onnipotenza del regime afferma praticamente la sua volontà
del “tutto è possibile”, anche trasformare la condizione umana.10
Le origini del totalitarismo rappresenta davvero una cesura nel
dibattito sul concetto perché, successivamente alla sua prima
pubblicazione nel 1951, si è avuta una vera e propria
proliferazione di scritti sull’argomento. Questi si possono, in
estrema sintesi, dividere in due grandi gruppi: i primi, interessati
più a sviluppare la tipologia politica che è alla base dei
totalitarismi, lasciano da parte gli aspetti tipicamente filosofici e
si preoccupano di studiare il funzionamento del regime; i
secondi che basandosi sulle considerazioni della Arendt sulla
9
Ivi, pag. 34
10
S. Forti, (a cura di), voce Totalitarismo, Enciclopedia delle scienze sociali,
Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani 1998.

10
novità del sistema totalitario, si dedicano principalmente
all’aspetto ideologico, partendo dalle domande più radicali che
l’autrice si era posta.
Il dibattito del secondo dopoguerra porta ad un’estensione tale
nell’uso del termine da considerare “totalitario” ogni regime che
non sia liberal-democratico: si cerca perciò, soprattutto da parte
di esponenti della politologia anglosassone, di costruire un
modello su basi strettamente empiriche tralasciando quelle
implicazioni filosofiche che erano state le caratteristiche
dell’opera della Arendt.
I sostenitori di quest’approccio sono Carl J. Friedrich e
Zbigniew Brzezinski che con il loro Totalitarian Dictatorship and
Autocracy del 1956 elencano, per la prima volta, un insieme di
elementi distintivi del regime totalitario.
Per questi autori sono sei le peculiarità che lo
contraddistinguono: a) un’ideologia che deve essere fatta
propria da ogni membro della società e che cerca di sovvertire
l’ordine sociale vigente; b) un partito unico di massa, al cui
interno non trova spazio alcuna divergenza con le direttive date
dal vertice e i cui membri devono promuoverne l’ideologia. Alla
guida di questo partito si trova un capo che accentra su di sé
tutto il controllo e la direzione della politica e gestisce l’intero
apparato statale e governativo; c) un controllo totale sui mezzi
di comunicazione di massa; d) un controllo totale sui mezzi di
coercizione e sulla polizia; e) un terrore diffuso tramite
operazioni della polizia segreta non solo contro i nemici del
regime, ma contro intere classi di cittadini; f) una direzione
centralizzata dell’economia11.

11
S. Forti, Il totalitarismo, cit., pag. 43.

11
Come avvertono gli stessi autori, quest’elencazione può essere
applicata per rivelare il ‘grado’ di totalitarismo presente in alcuni
regimi che sebbene non presentino il livello di purezza del
nazismo e dello stalinismo, hanno in sé alcune delle sue
caratteristiche, come le cosiddette “autocrazie del Novecento”
quali il fascismo italiano o i regimi comunisti della Cina e dei
paesi dell’est Europa.
Influenzati da queste teorie saranno anche i lavori di Raymond
Aron degli anni ’50 e ’60, nei quali oltre a riproporre il ruolo
quasi religioso delle aspirazioni ideologiche dei regimi, si cerca
una differenziazione tra gli stessi proprio sulla base della
cosiddetta “sindrome totalitaria” messa a punto da Friedrich e
Brzezinski.
In questi anni, influenzato anche da Tocqueville, Aron vede i
fenomeni totalitari come una deviazione della democrazia, un
tradimento degli ideali che ne rappresentano la base, da parte
di quelle masse che sono il nuovo soggetto della vita politica.
Queste hanno permesso che il potere non fosse più diviso tra
tanti partiti, come ogni sana democrazia dovrebbe assicurare,
ma hanno lasciato che un nuovo sistema s’instaurasse: un
governo monopartitico, che fa leva sui sentimenti di fede e
paura per legittimarsi. Ma, dice Aron, non tutti i sistemi basati
sul partito unico sono totalitari; infatti, guardando soprattutto
all’Est europeo, egli individua una nuova categoria, quella dei
regimi monopartitici non totalitari. Questi hanno, comunque, il
monopolio dell’attività politica, ma non diffondono un’ideologia
che vuole penetrare in ogni aspetto della vita privata.
Queste teorie hanno avuto una diffusione molto ampia, ma
proprio per la loro rappresentatività sono state anche
fortemente criticate, soprattutto negli anni ’60 e soprattutto per il

12
loro carattere ideologico, influenzato dalla necessità di una
costante critica al comunismo e dalla sterile contrapposizione
tra società liberale, quindi Occidentale, e schiavitù totalitaria, e
quindi società Orientale.
I critici di queste impostazioni rilevavano come, la mancanza di
profondità delle indagini e gli studi superficiali avrebbero
rafforzato le idee di quanti cominciavano a negare la verità dei
totalitarismi e a divulgare posizioni negazioniste.
Se, infatti, fino a questo momento, il dibattito aveva visto
confrontarsi posizioni differenti, ma comunque accomunate dal
riconoscimento della categoria, alla fine degli anni Sessanta, si
nota una volontà revisionista del tutto nuova.
Le posizioni più estreme sono quelle di Ernst Nolte, che non
solo nega il totalitarismo come modello interpretativo, ma ne
rifiuta l’accostamento anche con la Germania nazista: per
l’autore di Nazionalsocialismo e Bolscevismo. La guerra civile
europea, il regime hitleriano era piuttosto “una dittatura fascista”
instaurata per combattere la minaccia della rivoluzione
comunista, un’istituzione, quindi, necessaria per la salvaguardia
dell’unicità della cultura europea.
Accanto a queste posizioni così estreme che arrivano a
proporre la cancellazione del termine “totalitarismo”12, ci sono
anche coloro che accettano il concetto, ma manifestano la
necessità di una sua rivalutazione. In particolare, si ridisegnano
i caratteri del leader, spogliandolo delle doti eccezionali che gli
erano state riconosciute, evidenziando, così, il ruolo di tutto il
vertice di partito nell’elaborazione dell’attività politica;
l’importanza dell’ideologia è studiata come espressione della

12
Ivi, pag. 47.

13
volontà del popolo e non più solo nei suoi contenuti specifici; ed
infine si ci interroga sulla reale influenza del partito
nell’economia e nell’amministrazione pubblica.
E’ Juan Linz con il suo Totalitarian and Authoritarian Regimes
del 1975, a rappresentare questa nuova stagione di sintesi del
concetto. Egli riprende tutti gli studi precedenti e le critiche
relative, estrapolando, così, un’insieme di elementi che,
combinati differentemente, possono dar vita non ‘al’
totalitarismo, ma a diversi tipi dello stesso.
Gli elementi individuati sono essenzialmente tre: a) un’ideologia
che possa giustificare tutte le attività del regime; b) un partito
unico di massa che condiziona e mobilita la popolazione; c) la
concentrazione del potere nella mani di pochissime persone
che sono inamovibili dalla posizione acquisita13.
La scienza politica sembra, così, aver definitivamente accettato
il neologismo e, soprattutto, sembra aver trovato un terreno
comune in cui formulare una teoria più compiuta, più omogenea
e più chiara.
Riformulato, quindi, con questi accorgimenti, il totalitarismo
appare come un regime caratteristico del Novecento, scaturito
dagli sconvolgimenti sociali e politici del primo dopoguerra, nato
da quella necessità di razionalizzazione che le nuove scienze e
la tecnica propagandavano.
Questo tipo di governo fa del terrore uno strumento volto, non
solo, alla sottomissione politica, ma a rendere superflue intere
categorie di persone che con la loro presenza disturbano il
progetto totalitario di cambiamento e trasformazione della
società. È, infatti, questa volontà, la base di quell’ideologia che

13
Ivi, pag. 49.

14
rappresenta un elemento distintivo del sistema, che vuole
destrutturate ogni legame precedente tra gli uomini, ed
instaurarne un altro, basato sul principio di costruzione di una
nuova storia, fatta da uomini nuovi.
Ma la novità assoluta, l’istituzione che evidenzia più d’ogni altra
la volontà d’annientamento dell’essere umano in quanto tale, è,
chiaramente, il campo di concentramento: quell’universo creato
dall’ideologia e diventato pratica attraverso un sistematico
processo che parte dalla cancellazione di qualsiasi diritto, ed
arriva all’eliminazione fisica di milioni di uomini.
Coloro che hanno studiato il fenomeno sono giunti alla
conclusione, quasi unanime, anche sulla scia delle
considerazioni di Hannah Arendt, che, se è stato possibile
costruire e portare avanti pratiche così disumane nel cuore
dell’Europa democratica, ciò è stato possibile anche grazie alla
cosiddetta società di massa, una società, che ormai atomizzata,
non avverte più nessun legame tra gli uomini e alla quale
necessitano principi forti ai quali aggrapparsi.
Questi principi sono proprio ciò che propaganda il partito al
potere, il quale, con la loro diffusione, può raggiungere un altro
dei suoi obbiettivi e cioè, l’annullamento di ogni pluralismo
sociale che significa, a sua volta, una società nella quale
esistono solo due categorie: i dominanti, detentori del potere di
vita e di morte, e i dominati che, ovviamente, sono le loro
vittime14.
Accanto ad una più precisa sistemazione del concetto, si è
cercato anche di formulare delle distinzioni, delle
puntualizzazioni: così, la dottrina politica ha sostituito alla

14
Ivi, pag. 52.

15
dicotomia liberal-democrazie/regimi totalitari, quella tra
autoritarismo/totalitarismo.
In prima approssimazione si potrebbe affermare che
l’autoritarismo è un fenomeno precedente, e sicuramente di più
lunga durata, rispetto al totalitarismo che, invece, è quasi
concordemente riconosciuto come tipico del Novecento15.
Per Andrzej Stawar, poi, quest’ultimo aveva la presunzione di
“prendere non solo il corpo, ma anche l’anima dei cittadini”,
laddove l’autoritarismo si limitava a pretendere un’obbedienza
esteriore in una sorta di conformismo politico16.
Un’ulteriore differenza si trova nel modo di affrontare le crisi
sociali, perché se il regime autoritario potrebbe essere
considerato un modo “forte” per risolverle, quello totalitario le
stimola per legittimarsi e per sovvertire l’ordine sociale.
Alcuni critici hanno sottolineato l’insufficienza di queste
argomentazioni, soprattutto quando sono sembrate un implicito
sostegno ad alcuni governi che, in particolar modo in America
latina, erano fautori di politiche di repressione17.
L’autoritarismo è un regime che rimane pericoloso anche se
non arriva all’annientamento d’ogni opposizione, anche se può
sembrare ancora in vita una sorta di libertà privata; queste
caratteristiche non lo rendono più giustificabile perché, in realtà,
può essere considerato tranquillamente come l’anticamera, la

15
C. Pavone, Fascismo e dittature: problemi di una definizione, in M. Flores
(a cura di), Nazismo, fascismo, comunismo, cit., pag. 73.
16
Ivi, pag. 75.
17
Il riferimento è a Janet Kirkpatrick, autrice statunitense, che sosteneva la
differenza tra i governi sudamericani rispetto ai regimi totalitari, in qualche
modo avallando l’operato degli Stati Uniti che di quei governi erano i
favoreggiatori.

16
faccia meno terribile del totalitarismo, il passaggio che lo
precede.
Non bisogna credere che una volta trovato un metodo d’analisi,
le posizioni degli intellettuali si siano livellate ed ormai non ci sia
più nulla da dire riguardo a questo fenomeno, perché, come ha
sottolineato di recente Tzvetan Todorov, forse uno dei più
rappresentativi studiosi del totalitarismo, il concetto è ancora
capace di suscitare resistenze e critiche; ciò nonostante, ha
anche ribadito la sua utilità, la sua attualità e la necessità di
approfondirlo cercando di capirne le dinamiche ancora
nascoste.
Anch’egli ha cercato di schematizzare l’approccio allo studio di
questo sistema, stabilendo, prima di tutto, che il totalitarismo è
un’idealtipo, «un modello destinato a facilitare la comprensione
della realtà, anche se non è sempre possibile rintracciarne
l’incarnazione perfetta nella storia […] L’idealtipo indica una
tendenza»18.
Todorov ha impostato la sua analisi su tre livelli: premesse
filosofiche, struttura, strumento. Prima di tutto, il regime
totalitario è fondato su premesse filosofiche che sembrano in
contrasto tra loro, come determinismo e volontarismo: accettare
la storia nella sua casualità rigorosa ma anche annullare il
passato per costruirne uno totalmente nuovo; oppure tra
modernizzazione e tradizione: come le società tradizionali,
quella totalitaria è gerarchica, ma allo stesso tempo promuove
la globalizzazione e l’industrializzazione, anche se poi queste
due tendenze hanno un terreno comune perché, comunque,

18
T. Todorov, Utilità di un concetto, in M. Flores (a cura di), Nazismo,
fascismo, comunismo, cit., pag. 95.

17
«entrambe si oppongono all’affermazione dell’essere umano
come fine ultimo delle nostre azioni; e i fini devono essere o
sopraindividuali (il popolo, il partito), o infraindividuali (la
tecnica)».19
Il totalitarismo ha, poi, una sua struttura statale tendente
all’unificazione: la forma più evidente è l’instaurazione del
partito unico, l’identificazione tra Stato, partito e polizia.
Questo processo porta a considerare tutto quello che non è
assimilabile, come estraneo, come nemico da annullare: anche
la neutralità è vista con diffidenza, colui che se ne fa portatore
diventa un avversario e, quindi, un nemico.
Inoltre, la capacità del regime di instaurare un clima di guerra,
penetra anche nella vita civile con uno strumento ben preciso: il
terrore. Si insinua,così, nella quotidianità una paura continua,
alimentata da scene di violenza estrema come le deportazioni
di massa, la tortura, l’aggressività incontrollata ed ingiustificata;
se a tutto questo, poi, si aggiunge l’istituzione dei campi di
concentramento, nei quali l’individuo perde ogni diritto e anche
la vita, si capisce come l’esistenza in un tale regime sia
completamente in balia di coloro che detengono il potere.
La storia di questo termine, dei suoi significati anche filosofici, ci
mostra come i grandi avvenimenti, quelli capaci di cambiare il
corso dell’esistenza umana, non siano mai univoci, non si
lascino sempre capire in modo diretto; questo non vuol dire,
però, dimenticarli o lasciare che il dibattito si assopisca, perché
l’analisi, le prospettive, le nuove testimonianze possono
tracciare delle rotte diverse che permettono di individuare
strade, fino a quel momento sconosciute, utili alla

19
Ivi, pag. 94.

18
comprensione del fenomeno: d’altra parte, come scrive Simone
Weil, «se com’è fin troppo possibile, dobbiamo morire, facciamo
in modo di non morire senza essere esistiti. La più grande
sventura sarebbe morire impotenti sia a vincere, sia a
comprendere».

3. Nazismo e stalinismo: un breve raffronto

Come scrive Marcello Flores in un suo articolo, la


comparazione è uno strumento essenziale per lo studioso che
voglia cogliere tutti gli aspetti di due fenomeni storici, ma è,
molto spesso, un mezzo difficile da usare: non per questo,
comunque, va scartato, ma anzi, deve essere continuamente
definito e messo a punto20.
Parlando di totalitarismo non è possibile ignorare i paralleli e le
differenze tra i due fenomeni che hanno dato, in qualche modo,
inizio all’utilizzo del termine: il nazismo in Germania e lo
stalinismo in Russia hanno, senza dubbio, numerose affinità, a
partire dal fatto che non sono, solo, una dittatura politica, ma
hanno voluto stabilire un governo assoluto in tutti i settori e
quindi, nell’economia, nella cultura, nel sociale, cercando di
penetrare in tutti i campi della vita dell’uomo per dominarlo;
hanno, ovviamente, anche numerosi distinguo, a partire sia
dalle premesse, che dal tipo di società su cui si sono imposti,

20
M. Flores, Il secolo di Hitler e Stalin, in “Diario della memoria”, suppl. al n.
3/4 di “Diario della settimana” 25 gennaio 2002.

19
poiché, la Germania era una società ricca e sviluppata, mentre,
la Russia, potrebbe essere definita come un paese in via di
sviluppo.
Si parte, per entrambi, da una situazione di crisi, quella
successiva alla prima guerra mondiale, che fa nascere
movimenti politici che si contrappongono alla società borghese
dell’Occidente, che si fanno portatori di nuovi principi, tentando
di dare una risposta al vuoto di legami sociali, di valori etici che
la società manifesta. Così, da parte dell’estrema destra, si
contrappongono i concetti di origine e di nazionalismo,
dichiarando soggetto della storia non l’individuo, ma il popolo,
secondo una definizione di sangue; da parte dell’estrema
sinistra, si fa leva sul concetto di disuguaglianza sociale e
sull’internazionalismo, ponendo al centro della storia le classi in
genere, e, in quel momento, la classe operaia.21
La forza, che entrambi i movimenti emanavano, è strettamente
collegata alla loro ideologia, infatti, in Russia, la teoria marxista-
leninista, suscitava ammirazione per la capacità di risposta ai
problemi esistenti e per la possibilità di predeterminare le
tendenze del futuro con precisione scientifica; in Germania, il
nazionalsocialismo attirò consensi perché, dapprima, diede
l’idea dell’efficienza operativa e dell’attivismo, senza però
ingessarsi in vincoli programmatici, e, poi, conquistò totalmente
le masse con una nuova teoria storica, secondo cui tutto si
poteva ricondurre ad un modello originario che, non solo,

21
U. Herbert, Nazismo e stalinismo, possibilità e limiti di un confronto, in M.
Flores (a cura di), Nazismo, fascismo e comunismo. Totalitarismi a confronto,
cit., pag. 42.

20
consentiva la spiegazione delle recenti vicende, ma poteva
dare una risposta anche a quelle future22.
La dinamica del consenso è, però, diversa nelle due
esperienze, perché, in Germania, la minoranza che aveva
sostenuto il regime, ben presto potè contare sull’appoggio della
popolazione, diventando maggioranza e, per di più, trovò
approvazione anche nella sua politica di aggressione dei popoli
confinanti e dei ‘nemici interni’; in Russia, invece, la minoranza
al potere non potè contare, neanche nel lungo periodo, su una
volontà concorde di tutta la popolazione, ed è per questo che la
sua dinamica distruttiva si rivolse, essenzialmente, contro il
proprio popolo23.
Anche se si considera l’altra caratteristica, presente nelle
dittature totalitarie, vale a dire la figura del leader, si possono
rilevare delle differenze tra Hitler e Stalin, perché, il primo era
essenzialmente una figura svincolata dalle strutture
burocratiche di partito, incarnava “l’idea”, ma non chi doveva
metterla in pratica; il secondo, invece, proveniva dall’apparato e
ne fece sempre parte, rappresentando la figura dello stato,
simboleggiando il potere dello stesso.
Anche la struttura amministrativa era, in realtà, molto differente
nei due paesi: fino alla fine della guerra, in Germania, funzionò
una burocrazia altamente diversificata e gerarchizzata, esisteva
un corpo di giuristi e di economisti a disposizione dello stato,
l’apparato statale era enormemente differenziato ed efficiente24;

22
Ivi, pagg. 48-49.
23
Ivi, pag. 56.
24
Questo spiegherebbe anche l’enorme mole di documenti redatti, per ogni
operazione effettuata dai funzionari, che, in questo modo, rendevano conto
del loro operato. D’altra parte, come scrive Andrea Bienati, i dati più attendibili

21
in Russia, al contrario, tutto ciò era quasi inesistente, e questo
portò ad una maggiore affermazione del potere centrale, che si
sviluppò senza gradini intermedi; l’unica struttura a presentare
una qualche diversificazione, era il partito, che dovendo
rappresentare la volontà dello stato in tutto il paese, era
necessariamente, più differenziato e sviluppato su più livelli di
responsabilità: si può, quindi, dire che, mentre Stalin
simboleggiava il potere di uno stato, che, in realtà, nella sua
forma di apparato onnipresente, non esisteva; Hitler, al
contrario, si impose su un apparato, che, invece, esisteva ed
era anche molto efficiente.
A questo punto, si potrebbe affermare che, se si guarda alle
due esperienze in modo complessivo, utilizzando principi
generali, allora si possono sottolineare molti paralleli come, la
presenza del partito unico, della polizia segreta, l’utilizzo del
terrore e delle persecuzioni, la figura del capo, la volontà di
controllo totale; ma se poi si rivolge lo sguardo alle modalità di
esecuzione, allora le differenze sono fondamentali.
Ciò vale in maniera ancora più marcata, se si considera
l’istituzione dei campi di concentramento, presenti in entrambe
le esperienze, ma con notevoli divergenze, sia nelle modalità
sia nelle finalità: certo il dolore non si può quantificare, le
umiliazioni non possono essere sottoposte a nessun tipo di
comparazione, il sopravvissuto di un gulag avrebbe molto in
comune con un superstite di un lager, ma si possono
intravedere, anche in questo caso, alcune distinzioni.

sulla Shoah provengono dai nazisti stessi, perché ebbero molta cura nel
documentare la perfetta esecuzione degli ordini ricevuti.
A. Bienati, Colpevoli di esistere per legge, in “Diario della memoria”, cit., pag.
130.

22
L’impostazione, ad esempio, è molto diversa: il gulag era stato
“giustificato” come un sistema di lavoro coatto, utile
all’economia del paese, perché avrebbe fornito infrastrutture
alla parte interna di tutta la nazione; il campo di
concentramento tedesco, invece, non aveva nessuna finalità
economica, in quanto il lavoro che veniva svolto all’interno,
poteva essere fatto meglio, e con minori costi, in qualsiasi altro
posto. La mortalità nei campi russi era un fattore “secondario”,
dovuta all’incuria, alle malattie, alla fame; nei campi tedeschi, al
contrario, era il fine principale, anche se non apertamente
dichiarato.
Su questa sostanziale differenza si è soffermato molto, anche
Primo Levi, che della comprensione del fenomeno totalitario, e
del “fattore Auschwitz” in particolare, ha fatto la sua “droga”:
commentando diversi libri letti25, ha più volte sottolineato come,
nonostante le pessime condizioni di vita, la repressione, le
umiliazioni, il gulag non rappresenta quel disfacimento totale
dell’uomo, che, invece, è il lager.
I sentimenti di paura, di sfiducia, anche nei confronti degli altri
prigionieri, sono molto simili, ma quello che divide,
profondamente, i due mondi è lo scopo: i campi tedeschi sono
istituzioni di morte, sono stati costruiti con questo scopo e, in
essi, veniva capovolta la dinamica del lavoro, in quanto questo,
diventava un sottoprodotto; in Russia il campo serviva
realmente a realizzare un prodotto e, anche se le operazioni

25
Egli cita espressamente Ivan Denisovic di Solzenicyn, I racconti della
Kolyma di Salamov e Prigioniera di Hitler e Stalin di Buber-Neumann.

23
erano svolte in condizioni disumane, che portavano, il più delle
volte, alla morte, questa non era l’obbiettivo26.
Il rendimento del sistema concentrazionario sovietico si
calcolava in chilometri di strada ferrata, che realmente fu
costruita; quello tedesco, sommando il numero dei morti. Il capo
del campo siberiano di Ozerlag, Sergej Evstigneev, poteva
sperperare o economizzare vite umane secondo i suoi bisogni.
Il comandante di Auschwitz, Rudolf Hoess, aveva ricevuto
l’ordine di subordinare ogni considerazione economico-
produttiva all’imperativo dello sterminio.
Il sistema sovietico, inoltre, pur durando molto più a lungo di
quello nazista, fece un numero inferiore di vittime, considerando
che, esse furono due milioni su quindici milioni di deportati:
inoltre, la composizione delle vittime fu diversa, in quanto, i
prigionieri dei gulag erano cittadini sovietici, laddove, nei campi
tedeschi, finirono essenzialmente coloro che non
appartenevano alla comunità “ariana”; infine, si potrebbe dire
che, il genocidio in Russia aveva una sua razionalità, benché
totalitaria, mentre quello perpetrato dai nazisti, contraddiceva
ogni criterio di razionalità economica o militare; il primo, fu
dettato dalla volontà di cambiamento, con metodi autoritari e
violenti, della società russa; il secondo aveva l’incredibile
pretesa di voler modificare biologicamente l’umanità27.
In realtà, quello che si può affermare con sicurezza, è che le
violenze sull’essere umano non possono mai essere

26
F. M. Cataluccio, Lager e gulag in Primo Levi, in M. Flores (a cura di),
Nazismo, fascismo, comunismo, cit., pag. 298.
27
E. Traverso, La singolarità storica di Auschwitz: problemi e derive di un
dibattito, in M Flores (a cura di), Nazismo, fascismo, comunismo, cit., pagg.
307-308.

24
giustificate, da nessun tipo di considerazione, né economica, né
militare, né di qualsiasi altro tipo e se, molto spesso, si è tentati
di evitare paragoni tra esperienze storiche, è perché non è
l’uomo ad essere messo al centro dell’attenzione, ma
valutazioni di ordine politico o preconcetti di ordine ideologico:
ciò è successo anche nel dibattito sulla comparazione tra
nazismo e stalinismo ed è per questo che, per tanto tempo, gli
intellettuali hanno evitato di approfondire l’argomento, provando
una sorta di timore nel cercare di mettere a confronto
l’esperienza di coloro che sono scampati alle camere a gas,
con i sopravvissuti di altre esperienze totalitarie; ma, poiché,
comparare non significa archiviare e gerarchizzare, questo
lavoro sarà sempre, e comunque, lo strumento concettuale più
importante per sondare e capire le fasi storiche della nostra
esistenza.

25
CAPITOLO 2
UN DRAMMA ANNUNCIATO

1. Simone Weil e la situazione in Germania


negli anni ‘30
I periodi storici più importanti sono caratterizzati, non solo, da
avvenimenti, da fatti che diventano cronaca, ma anche da
personaggi che, influenzando il corso di quegli accadimenti, o
semplicemente raccontandoli, diventano degli interlocutori
fondamentali per chi, a quel pezzo di storia, rivolge la propria
attenzione: Simone Weil è senza dubbio uno di questi.
Questa donna, per la quale sarebbe difficile trovare un
aggettivo che riassuma tutti i suoi interessi, tra cui la politica, la
filosofia e la religione, è stata un’acuta osservatrice delle
vicende che hanno portato alla seconda guerra mondiale,
analizzando i mutamenti politici, descrivendo le condizioni
sociali delle popolazioni, proponendo soluzioni o alternative,
criticando anche il partito cui ella stessa apparteneva, quando
questo era necessario.
“Per non essere assente”, ha sempre partecipato attivamente
alle azioni politiche che credeva importanti, sempre in prima
linea, sia sul fronte di guerra, sia sul fronte lavorativo della
fabbrica, provando sulla sua stessa pelle le sensazioni, le

26
frustrazioni e, anche, il dolore fisico di chi è coinvolto in prima
persona.
Per questa sua volontà di vedere tutto da vicino, la troviamo in
Germania negli anni ’30, dalla quale scriverà lettere e articoli
sulla situazione sociale e politica del paese: una situazione
veramente difficile per la popolazione, che dopo la guerra, deve
fare i conti con una disoccupazione elevatissima, con la
disgregazione dei vincoli sociali, con una crisi economica che
non risparmia nessun settore.
“La Germania in attesa”28 appare, quindi, una società allo
sbando, che sente di aver perso la sua dignità a causa delle
sconfitte belliche, che non riesce a trovare stimoli per cambiare
la situazione politica, che si sente in balia di un sistema
assistenziale corrotto, ma ultima speranza di sopravvivenza.
Oltre ad essere un’attenta osservatrice, però, la nostra autrice,
è anche una narratrice tanto sensibile, da farci provare, quasi in
modo tangibile, l’atmosfera di profonda frustrazione presente in
tutte le città: è davvero una tristezza, scrive la Weil, vedere la
«magnifica gioventù operaia […] correre da un’amministrazione
ad un’altra per ottenere dei sussidi»29, oppure notare come
alcuni giovani si abbandonino a questa situazione perché
l’unica conosciuta e perché è per loro, ormai, lo stato normale
delle cose.
L’istituzione di “campi di lavoro volontario”30, dove vige una
disciplina militare e dove si viene pagati pochissimo, sono

28
Titolo di un suo articolo pubblicato in “La Revolution proletarienne” nel 1932
e raccolto in S. Weil, Sulla Germania totalitaria, Adelphi 1990.
29
S. Weil, Sulla Germania totalitaria, cit., pag. 40.
30
Freiwilliger Arbeitsdienst, che diventerà solo Arbeitsdienst, cioè obbligatorio
con l’avvento del governo hitleriano.

27
un’ulteriore prova del terribile momento politico e sociale che si
và configurando: per ora ci vanno i più disperati, ma il loro
numero è in crescita.
In questo contesto la propaganda hitleriana ha vita facile,
raccogliendo sempre più consensi.
Già da queste prime considerazioni si nota come, Simone Weil,
non solo analizzi ciò che sta succedendo sotto i suoi occhi, ma
proietti nel futuro, come una novella Cassandra31, le tensioni e
gli avvenimenti politici, tanto da far dimenticare che la sua
breve vita (morì nel 1943, a soli trentaquattro anni), non le
permise di assistere, fino in fondo, al destino della parabola
hitleriana
Gli stessi spunti, le stesse dinamiche e, anche, le stesse
conclusioni, si trovano nel lavoro di Sergio Bologna, Nazismo e
classe operaia 1933-1993, che, non solo, abbraccia un periodo
più lungo, ma si può avvalere anche della storia nella sua
completezza, laddove, la Weil, osservava solo una parte della
stessa.
Bologna sottolinea come, la società tedesca era già atomizzata
ai tempi della repubblica di Weimar, come il nazismo aveva,
solo, perfezionato tale processo e come la classe operaia era
caratterizzata, già, da un rapporto di lavoro non stabile.
La disoccupazione aveva creato una situazione di forte
tensione, acuita da un sistema di assistenza comunale
fortemente discrezionale, che dispensava sussidi in base a
considerazioni soggettive e che costringeva le masse di
disoccupati a «chiedere la carità ad un funzionario che doveva
31
Così la definisce Domenico Canciani nel suo S. Weil nel dibattito politico e
culturale degli anni ’30 in D. Canciani, G. Fiori, G. Gaeta, A. Marchetti, S.
Weil, la passione della verità, Morcelliana 1985.

28
giudicare i loro bisogni; si formava, così, una massa di persone
ricattabili […] il sistema perse il suo carattere di servizio sociale,
per diventare un sistema poliziesco che divide e seleziona
sempre più, creando ulteriori fattori di degrado ma soprattutto
istituzionalizzando le differenze. È qui che si innesta il sistema
nazista»32.
La soluzione potrebbe essere una rivoluzione, portata avanti da
uomini responsabili che riescano a sfruttare le forze sociali che
ancora rimangono, ma qui, la Weil, assiste ad un altro
paradosso: il partito comunista non reagisce, lo sciopero
generale dovrebbe essere preparato con cura, ma nessuno se
ne occupa e gli operai, che potrebbero mobilitare un ingente
numero di persone, non si reputano abbastanza forti da
prendere l’iniziativa; in questo stato di cose, solo il partito
nazionalsocialista è stato capace di riunire una parte della
società e di accomunarla sotto la stessa ideologia.
La propaganda nazista è stata così abile che, nel movimento,
sono confluiti interessi diversissimi, tutti convinti di aver trovato
una soluzione ai propri problemi: «I disoccupati sono attratti
dall’alloggio, dal cibo e dal denaro che trovano nelle truppe
d’assalto; i contadini dalla promessa di un innalzamento del
prezzo della terra; i giovani sentimentali da prospettiva di lotta,
di dedizione, di sacrificio e i bruti dalla certezza di poter un
giorno massacrare a volontà»33.
In realtà quello che accomuna una tale varietà di persone, è il
desiderio di una nazione di ridiventare grande, di riprendersi
dall’umiliazione inflittale dai trattati di pace che le impedivano,

32
E. Parise, La Politica dopo Auschwitz, Liguori Editore 2000, pagg. 62-63.
33
S. Weil, Sulla Germania totalitaria, cit., pag. 45.

29
anche, di avere un esercito; ad attirarla era la forza che
emanava il movimento nazionalsocialista, una forza che doveva
supplire alla sua debolezza: «oggi, oltre l’adesione senza
riserve ad un sistema totalitario bruno, rosso, o d’altro colore,
non c’è nulla che possa dare, per così dire, una solida illusione
di unità interiore. Per questo è una tentazione così forte per
tante anime smarrite»34.
L’ideologia hitleriana era riuscita a prospettare, per ogni
categoria, il futuro ad essa più confacente: ma «quale
avvenire? Un avvenire che non è descritto, ovvero lo è in più
modi contraddittori, e così per ciascuno può tingersi del colore
dei suoi sogni […] Non sanno che la forza appare tanto potente
perché è quella non di chi prepara l’avvenire, ma di chi regna
sul presente»35.
Nel saggio Riflessioni sulle origini dello hitlerismo36, Simone
Weil interroga il passato per cercare i progenitori di una politica
così totalizzante e trova le tracce di tale volontà in diversi
personaggi storici: in Napoleone, che ha propagandato l’idea di
uno Stato centralizzato, fonte di ogni autorità, inventato da
Richelieu e in Luigi XIV che di quest’idea è diventato il
sostenitore più entusiasta.
Di quest’ultimo, la nostra scrittrice, mette in luce atteggiamenti e
azioni che trovano un riscontro davvero sorprendente, se
riguardate facendo attenzione alle intenzioni di Hitler; entrambi
«conducono una politica estera mossa da uno spirito di orgoglio

34
S. Weil, La Prima Radice, Leonardo 1996, pag. 212.
35
Ivi, pagg. 84-85.
36
Pubblicato parzialmente in “Nouveaux Cahiers” nel 1940, fu bloccato per il
resto dalla censura. Ora è stato raccolto integralmente in S. Weil, Sulla
Germania totalitaria, cit.

30
sfrenato, dalla stessa volontà di umiliare e dalla stessa
malafede»37: ed, infatti, il primo costrinse la Spagna, alla quale
si era appena legato tramite il suo matrimonio, a sottomettersi
al suo dominio, minacciandola con lo spettro di una guerra; il
secondo, prende Praga in piena pace, in disprezzo di un
trattato che era stato appena firmato e che stabiliva frontiere
ritenute definitive. Per la Weil, Luigi XIV ha già «lo stato d’animo
dei dittatori moderni che, partiti da niente, umiliati nella loro
giovinezza, hanno creduto di poter governare il popolo soltanto
domandolo. Il regime da lui stabilito meritava già, per la prima
volta in Europa dopo Roma, l’appellativo moderno di
totalitario»38.
Roma, poi, è l’altra grande protagonista delle riflessioni della
Weil, che vede nelle sue infinite conquiste, nelle distruzioni da
essa inflitte alle popolazioni sottomesse, nelle deportazioni di
migliaia di schiavi l’esempio più lampante di politica
totalizzante: sono i Romani ad essere presi come esempio,
dopo duemila anni, da Hitler e i suoi seguaci.
Il punto di tangenza tra le loro politiche, sembra trovarsi in
quella convinzione di essere una «razza superiore, nata per
comandare con l’impiego meditato, calcolato, metodico della
più spietata crudeltà, della fredda perfidia, della propaganda più
ipocrita […] senza essere mai sensibili né al pericolo, né alla
pietà, né ad alcun rispetto umano; con l’arte di alterare col
terrore l’anima stessa dei loro avversari»39.

37
S. Weil, Sulla Germania totalitaria, cit., pag. 205.
38
Ivi, pag. 204
39
Ivi, pag. 220.

31
L’esempio più lampante di questa volontà di sottomissione si ha
con la storia di Cartagine: Simone Weil si affida alle pagine di
Appiano e delle sue Guerre Puniche per sottolineare come, la
crudeltà dei Romani non si arrestava, neanche, davanti alle
suppliche di un intero popolo che, pur di salvare la propria città,
aveva accettato qualsiasi condizione, anche quella di
consegnare tutti i bambini e tutte le armi; Cartagine, nonostante
le assicurazioni, fu rasa al suolo.
Questa politica accentratrice, che ha come fine quello di
distruggere e ricostruire in base ad una propria visione del
mondo, che non accetta avversari o critiche, che rende il terrore
una via per raggiungere il proprio scopo; questa volontà di
annullare la storia passata per una nuova storia fatta da uomini
nuovi, è la stessa che caratterizza l’avvento al potere di Hitler:
allora come adesso, rileva la Weil, le città erano attraversate da
un terrore incredibile, i parenti si denunciavano a vicenda per
essere risparmiati, il numero dei suicidi era impressionante.
Volendo ricercare le cause, per così dire, più psicologiche di
questo comportamento, è inevitabile pensare che «una nazione
può attingere la forza di agire così, solo dalla convinzione di
essere stata eletta dall’eternità come padrona sovrana delle
altre…i Romani godevano di quella soddisfazione collettiva di
se stessi, opaca, impermeabile, impenetrabile, che consente di
conservare in mezzo ai crimini una coscienza perfettamente
tranquilla»40, la stessa che accompagna anche le azioni dei
nazisti.
Ma il parallelo riguarda anche un’altra “condizione” mentale:
quella di considerare lo Stato come unico oggetto delle

40
Ivi, pag. 236 e 240.

32
aspirazioni individuali, l’unico oggetto di adorazione; uno Stato
e, nel caso di Roma, un Impero, la cui forza è fondata su
un’amministrazione molto centralizzata, su un esercito
disciplinato e fedele, su di un sistema di controllo
onnicomprensivo: è dinanzi a questa macchina perfetta che tutti
si sottomettono.
Si potrebbe obbiettare che l’idea fissa del dominio, la bassezza
d’animo e la crudeltà rendano il “totalitarismo” dell’antica Roma
imperfetto, perché carente di quell’istituzione annientatrice che
sono i campi di concentramento e sterminio; ma anche in
questo caso, Simone Weil, mostra come le deportazioni in
massa dei contadini del Sud-Tirolo, non sono così diverse dalle
deportazioni degli schiavi greci «verso l’Africa piena di sete»41,
perché in realtà è un provvedimento del tutto simile, in quanto
«le masse umane furono rimescolate altrettanto brutalmente, le
fibre che legano l’uomo alla propria esistenza furono strappate
altrettanto spietatamente»42; gli stessi giochi dei gladiatori e le
sofferenze degli schiavi non furono un mezzo meno efficace per
distruggere le virtù dell’umanità di quanto non abbiano fatto
quei campi.
È proprio quest’ultima barbarie, la distruzione della dignità
umana, che viene considerata come fine ultimo delle politiche
totalizzanti, questo è il risultato delle conquiste e delle
distruzioni: ma la base di questo comportamento, l’origine di
questo principio, certo non in maniera così violenta, si ritrova,
anche, nei trattati di pace post-1918, che hanno riscritto l’ordine
internazionale, hanno umiliato le nazioni perdenti, hanno

41
Cfr., Virgilio, Bucoliche.
42
S. Weil, Sulla Germania totalitaria, cit., pag. 255

33
imposto nuovi confini, senza assolutamente considerare che,
così facendo, si sarebbero create tensioni e scontri, si stavano
gettando i semi dell’odio razziale, si stava impostando una
politica “del più forte” che prima o poi, inevitabilmente, sarebbe
esplosa.
Questa politica, infatti, è stata la carta vincente usata dai nazisti
per impostare la propria propaganda, rifacendosi a quelle
umiliazioni, hanno saputo far crescere l’orgoglio nazionale,
hanno giustificato le loro azioni sulla base di un torto subito:
tutto ciò, poi, è stato possibile perché il criterio usato in quei
trattati era imperfetto, in quanto si imponevano delle limitazioni
o si prescrivevano degli obblighi, mantenendo salvo, però, il
principio di sovranità nazionale; non si creava nessuna autorità
capace di giudicare le azioni degli Stati, che rimanevano
sovrani, appunto, sul proprio territorio.
L’unica limitazione era la forza del popolo confinante, l’unico
modo di contrastare il potere era la minaccia di una guerra,
l’unica barriera, all’interno di uno Stato, erano i diritti degli
individui: una volta annullati questi, “per motivi di sicurezza”,
niente contrasta più il dominio assoluto che, così, è libero di
espandersi all’interno e all’esterno; «ogni Stato centralizzato e
sovrano è in potenza conquistatore e dittatoriale, e lo diventa, di
fatto, se crede di averne la forza»43.
Presente e passato, allora, si intrecciano nell’analisi weiliana,
che sente di dover andare alle origini di quella storia, alla quale
dicono di ispirarsi gli stessi fautori dei moderni Stati totalitari;
interrogare quel tempo per capire l’attuale, e attuali sono i
racconti degli storici antichi, che se «letti in modo da penetrare

43
Ivi, pag. 276.

34
l’essenza del racconto, spiegavano anche i meccanismi e le
dinamiche politico-psicologiche, sia interne che internazionali,
attraverso le quali la conquista romana si era realizzata»;
importanti sono quelle pagine, proprio perché «le mosse
politico-militari di Hitler, rilevano una logica del tutto analoga a
quella che aveva ispirato le mosse romane»44.

Lucidità e coraggio, quindi, negli scritti di Simone Weil, la cui


sensibilità le ha permesso di andare oltre il contemporaneo, di
essere una voce acuta, a volte criticata, purtroppo inascoltata,
del dibattito intellettuale e politico degli anni ’30: le sue
impressioni, le paure di un avvenire che, con lungimiranza,
sente come una minaccia per tutte le libertà, non le
impediscono di mantenere la freddezza d’animo necessaria alla
comprensione di un fenomeno che, sebbene vissuto, da milioni
di persone, come un incubo contingente, non ne ha affatto le
caratteristiche, ma anzi «si iscrive profondamente e
coerentemente nella cultura politica dell’Occidente, da Roma ai
nostri giorni»45
“La situazione in Germania negli anni ‘30” non è una novità; la
storia deve essere considerata come uno scrigno di
conoscenze, di esempi, di avvertimenti; l’analisi deve andare
oltre le idee preconcette, le indicazioni di partito, l’ortodossia:
Simone Weil ci dice tutto questo con i suoi scritti, ci ammonisce
dal considerare l’animo umano, l’essere umano, solo come una
macchina dalle reazioni controllabili; accusa tutte quelle

44
P. Desideri, Il modello romano, in A. Marchetti (a cura di) Politeia e
sapienza. In questione con Simone Weil, Patron Bologna 1993.
45
G. Gaeta, La rivoluzione impossibile e lo spettro del totalitarismo, in S. Weil,
Sulla Germania totalitaria, cit.

35
politiche, che agendo solo in funzione di interessi materiali,
hanno provocato le più terribili disgregazioni sociali, causando
quella che può essere considerata la malattia del secolo: lo
“sradicamento”, un male che ha provocato milioni di vittime, che
ha lasciato la vita umana, così indebolita, in balia di coloro che
propagandavano una cura infallibile.

2. Sradicamento e azione politica.


Il totalitarismo, per Simone Weil, è, quindi, annullamento delle
differenze, scomparsa dei vincoli sociali, mancato
riconoscimento dei diritti individuali, terrore diffuso, violenza
gratuita: in breve, l’opposto di una società libera.
L’analisi weiliana, però, non si limita all’osservazione della
realtà contemporanea, ad ammonire o a mettere in guardia sui
suoi possibili sviluppi; non vuole solo capire come si sia
sviluppato il regime e quali siano le sue caratteristiche:
l’interesse è per l’essere umano e per il suo destino, perché il
processo, ideologico, di decostruzione di ciò che esiste e di
costruzione di un mondo finto, priva gli uomini della realtà e
porta a quel processo di sradicamento che è il fine ultimo della
macchina totalitaria46.
Laura Boella ha, opportunamente, rilevato, nel suo Invito alla
lettura (prefazione a La Prima Radice) come nella politica, nei
46
R. Esposito, L’origine della politica. Hannah Arendt o Simone Weil?,
Donzelli Editore 1996.

36
rapporti sociali, in tutte le contrapposizioni tra un “noi” ed un
“loro”, la Weil non veda altro che un vuoto: un vuoto inteso,
però, come un posto lasciato libero, che dovrebbe essere
occupato dalla politica, dall’agire comune e che, invece, rischia
di essere occupato da miti funesti.
Questo spazio, che si forma in una società che fonda i propri
rapporti sulla violenza, che si fa rappresentare da uomini che
inneggiano alla guerra, è, appunto, lo “sradicamento”, concepito
come «perdita del legame comunitario inteso come fitta e
molteplice trama di relazioni tra gli esseri umani e il mondo
storico e naturale che li circonda»47.
La perdita di questo legame tra l’uomo e il mondo naturale e
“sociale” rappresenta, per Simone Weil, il risultato,
profondamente negativo, delle filosofie moderne, che
auspicando il trionfo della razionalità sulla sensibilità, hanno
ridotto le relazioni umane a rapporti utilitaristici.
Se è vero che il “razionale” è la capacità di elaborazione logico-
matamatica dei dati che si acquisiscono con l’esperienza, e che
la “sensibilità” o empatia è la facoltà che permette di trovarsi in
sintonia con i ritmi della natura e di intuire ciò che non può
essere razionalmente spiegato, l’intelligenza è la combinazione
ottimale tra questi due elementi: ma le scienze moderne,
alterando questo equilibrio, hanno elevato a rango di guida
dell’attività umana la razionalità, causando una serie di
conseguenze negative.
Prima di tutto, bisogna ricordare che razionalizzare significa,
essenzialmente, semplificare, quindi, vivere e pensare in
termini di razionale è riduttivo: vuol dire, appunto, ridurre

47
L. Boella, Invito alla lettura, in S. Weil, La Prima Radice, cit., pag. 8.

37
l’infinita complessità della vita ad una serie di dati manipolabili.
Il primato della razionalità sull’intelligenza, ha comportato che
l’individuo perdesse la visione comunitaria del vivere, a favore
di una sua percezione più individualistica: ciò ha significato,
conseguentemente, incapacità di realizzarsi. E’ questo che
Simone Weil chiama “sradicamento” interiore ed esteriore,
l’impossibilità di sentirsi parte di un’universalità e il trionfo
dell’utilitarismo, concepito come filosofia dell’avere.48
Quando un insieme di individui imposta la propria vita sul
concetto di “vantaggio immediato”, nasce una società di massa,
una società dello scambio, in cui la razionalità è crescente:
essa tende, allora, quasi spontaneamente, verso il totalitarismo,
perché la famiglia, il vicinato, le associazioni, il senso, più
generale, di universalità, sono sostituiti dalla logica dei confini,
architettonici e mentali, dalla burocrazia, dalla contrapposizione
e scontro tra culture; a questo punto, «la macchina sociale è
diventata una macchina per infrangere cuori, per schiacciare gli
spiriti, una macchina per fabbricare incoscienza, stupidità,
corruzione, ignavia»49.
Lo sradicamento, quindi, è la condizione del presente, una
condizione che nasce, però, da situazioni oggettive, da
un’insoddisfazione latente nel tessuto sociale: tutto, per la Weil,
si può collegare ai mutamenti avvenuti nel mondo del lavoro,
che abbracciando la filosofia della tecnica e del profitto, ha
relegato l’operaio ad un ruolo secondario, ha distrutto il
concetto di dignità del lavoratore; questi non svolge più la sua
opera, con «la coscienza orgogliosa di essere utile, ma con il
48
Piccoli orizzonti significativi, http:// www.estovest.org.
49
S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale,
Adelphi 1983, pag. 108.

38
sentimento umiliante e angosciante di possedere un privilegio
concesso da un favore passeggero della sorte»50.
Un privilegio, perché la disoccupazione è altissima, perché le
imprese non hanno più bisogno di operai specializzati che con
la loro esperienza, con la loro bravura risolvano loro i problemi:
le macchine si sono impadronite di tutto, il denaro è l’unico
movente che conti, «un’impresa non è giudicata secondo l’utilità
reale delle funzioni sociali cui essa assolve, ma secondo le
dimensioni che ha assunto e la rapidità con cui si sviluppa»51.
In questo modo, la sensazione più diffusa è quella di non
essere necessari, di avere un ruolo passivo, di non essere, in
alcun modo, in relazione con un risultato finale che sia
costruttivo, che possa rendere l’idea di collettività: lo
sradicamento, a questo punto, ha raggiunto il massimo di
gravità.
La situazione, allora, è pericolosissima, è come una malattia
che si diffonde, le persone che ne sono affette non hanno che
due comportamenti: o si abbandonano all’inerzia, all’oblio,
all’inazione, oppure si gettano in un’attività che, il più delle
volte, tende a sradicare con metodi, molto spesso, violenti;
infatti, scrive la Weil, «chi è sradicato, sradica»52.
Questo è quello che è successo ai tedeschi, quando Hitler si è
“impadronito di loro”, ma, in realtà, è quello che succede ogni
volta che si ha una conquista militare e i conquistatori
impongono la propria legge e le proprie abitudini, annullando,
brutalmente, tutte le tradizioni locali: lo sradicamento, poi,
raggiunge il massimo livello con le deportazioni di massa.
50
Ivi, pag. 11.
51
Ivi, pag. 114.
52
S. Weil, La Prima Radice, cit., pag. 53.

39
Le origini di questo comportamento, allora, sono da ricercare in
una carenza, in un “bisogno dell’animo umano” che non viene
soddisfatto: l’uomo, infatti, per poter vivere un’esistenza reale,
attiva, naturale, ha bisogno di “radici multiple”, necessita di far
parte di una collettività da cui ricevere e a cui dare,
naturalmente; che sia depositaria dei “tesori del passato e di
certi presentimenti del futuro”, che riceva influenze dall’esterno
per essere stimolata e per rendere la propria vita più intensa.
Nella società contemporanea, invece, rileva la Weil, si assiste
ad una disarmonia tra l’uomo e l’ambiente circostante, si
osserva uno squilibrio, divenuto ormai patologico, del vivere
associato; in ogni tipo di rapporto, anche dell’uomo con la
natura, vige il principio della forza.
Il Novecento senza radici, ha fatto di questa l’unica reggitrice di
tutti i fenomeni naturali; d’altra parte questa credenza era insita
in tutte le teorie, da Galileo, a Newton, a Darwin ed è, quindi,
arrivata fino ai nostri giorni per regolare anche i rapporti umani;
la diffusione, poi, del concetto di scienza come la sola in grado
di risolvere tutti i problemi53, ha dato un’ulteriore spinta a queste
concezioni: si è arrivati ad un’ «idolatria della scienza: scienza
come figura della forza»54.
Non c’è da stupirsi, allora, avverte la Weil, se i nazionalsocialisti
hanno messo in pratica tutto questo, estendendo l’impero della
53
Nel Mein Kampf di Hitler si può leggere: «L’uomo non deve mai cadere
nell’errore di credersi signore e padrone della natura … Sentirà allora che, in
un mondo dove i pianeti e i soli seguono traiettorie circolari, dove le lune
girano intorno ai pianeti, dove la forza regna ovunque ed è la sola dominatrice
della debolezza, costringendola a servire docilmente o a spezzarsi, l’uomo
non può richiamarsi a leggi speciali».
54
F. Brotto, Simone Weil: il Novecento senza radici,
http://www.bibliosophia.com.

40
forza alla società e allo Stato; quest’ultimo è diventato, così, il
centro della vita economica e sociale con la conseguente
subordinazione dell’economico al militare, con l’idea fissa della
preparazione della guerra: «un po’ ovunque, l’umanità
contemporanea tende a una forma totalitaria di organizzazione
sociale, tende ad un regime in cui il potere dello Stato
deciderebbe sovranamente in tutti gli ambiti, anche e
soprattutto nell’ambito del pensiero»55.
Ecco, allora, un’altra preoccupante realtà: il pensiero, non solo,
sembra imbrigliato in una rete di falsità, ma, in alcuni casi,
sembra addirittura bloccato, l’attività del pensare, la “facoltà di
attenzione”, è del tutto assente: «La propaganda non mira a
suscitare un’ispirazione; essa chiude invece, condanna ogni
fessura attraverso la quale possa penetrare un’ispirazione»56.
La strategia totalitaria non risparmia neanche la parte più intima
dell’uomo, procede nella sua volontà annientatrice verso lo
scopo finale, che è, poi, quello di trattare gli uomini come cose,
di renderli superflui.
Questa tensione, questa voglia di annullare la capacità critica di
ogni essere umano, è più semplice da raggiungere nelle
condizioni di profonda crisi sociale ed economica, perché
«l’infelicità è un brodo di coltura per falsi problemi. Fa nascere
ossessioni»57.
Ma allora, se questa è la situazione attuale, se tutti i legami
umani sono caratterizzati da queste sensazioni, non c’è più
possibilità di cambiamento, non c’è via d’uscita?

55
S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, cit.,
pag. 119.
56
S. Weil, La Prima Radice, cit., pag. 165.
57
Ivi, pag. 63.

41
Sarebbe un grosso errore credere che il pessimismo o la
rassegnazione siano le soluzioni proposte dalla Weil; per una
donna che ha sempre creduto nell’uomo, nella sua capacità di
affrancarsi da ogni schiavitù, che ha sempre proposto
alternative, ha sempre combattuto per la verità, la soluzione
non può che essere un ritorno al “pensiero”, un pensiero che,
però, si fa azione e, azione, vuol dire politica: come scrive Luisa
Muraro nel suo articolo Weil: se la politica vince sulla guerra58,
politica è ciò che interrompe il meccanismo dei rapporti di forza
in questo mondo come nelle nostre anime, è una breccia di
libertà nei meccanismi ciechi del potere.
Le risposte ad una politica di sradicamento, di annullamento
dell’essere umano come essere pensante, Simone Weil le
rintraccia, quindi, nell’azione politica, ma un’azione che sia
slegata dai partiti politici e dalla forza e sia, invece, legata agli
individui, non considerati più come macchine produttrici di beni
di consumi, ma nella loro umanità, nella loro tensione al bene,
alla giustizia, alla libertà: una politica che sia rispettosa delle
loro esigenze sociali, che dia la possibilità al pensiero di
espandersi liberamente59.
L’azione politica che intende la Weil, è un ritorno al significato
più profondo del termine, perché se è vero che «si è presa
l’abitudine, da secoli, di considerarla solo e prevalentemente
come la tecnica per l’acquisto e la conservazione del potere»,
essa è in realtà «un’azione diretta ad un bene»60; la politica è
quindi il luogo del radicamento, il luogo, comunitario, degli

58
L. Muraro, Weil: se la politica vince sulla guerra, in “L’Unità”, 04.06.1999.
59
G. Gaeta, Individuo e società nel pensiero di Simone Weil, in A. Marchetti
(a cura di) Politeia e sapienza. In questione con Simone Weil, cit., pag. 246.
60
S. Weil, La Prima Radice, cit., pag. 175.

42
interessi; è la partecipazione intesa, non solo, come prender
parte, ma anche un esser parte, un sentirsi parte; Simone Weil
pensa, quindi, ad un’organizzazione che catturi le esigenze di
tutti e che le traduca in azioni, le traduca in soluzioni che siano
capaci di soddisfare esigenze reali della comunità, che, a sua
volta, rappresenta «un ambiente vivo, pieno di calore, di
intimità, di fraternità, di affetto»61.
La costruzione di questa organizzazione significa abbandono
della concezione di politica come mezzo per il raggiungimento
del potere, e formulazione di una nuova concezione che
consideri la politica un’arte: questo vuol dire, a sua volta,
utilizzare il metodo di “composizione simultanea” tipica della
creazione artistica, significa avere una visione simultanea di più
necessità, non dimenticare che l’uomo ha bisogno di vedere
soddisfatti, sia i bisogni “materiali” sia, se non soprattutto, i
bisogni dell’anima.
Non è certamente semplice, ma dovrebbe essere il principio
ispiratore di chiunque abbia responsabilità politiche; «non
bisogna chiedersi se si è capaci o no di applicarlo […] Bisogna
concepirlo in modo assolutamente chiaro; affissarlo a lungo e
spesso; affondarlo per sempre in quella parte dell’anima dove i
pensieri si radicano, e tenerlo presente in ogni decisione»62.
Per la filosofa francese, quindi, “l’uomo non ha un potere, ma
una responsabilità”, verso se stesso e verso gli altri esseri
umani, che è quello di lasciare aperte le porte della propria
anima per poter realizzare quella universalizzazzione dei

61
Ivi, p. 187.
62
Ivi, pag. 189.

43
rapporti tra tutti gli individui, necessaria a curare la malattia
dello sradicamento.
L’osservazione della realtà contemporanea lascia chiaramente
vedere che le condizioni sono del tutto diverse: i regimi totalitari
hanno preso il posto di qualsiasi idea di società giusta, l’uomo
ha elevato a regolatore della propria vita la forza, l’interesse
personale, il denaro, dimenticando l’altro, dimenticando che
l’altro non è che una proiezione di se stesso in un’altra
condizione, e che qualsiasi cosa si faccia contro di lui è come
se la si facesse contro la propria vita.
Simone Weil, allora, dopo aver analizzato la malattia, ne cerca
anche la cura e quello che propone è un quadro teorico di una
società libera63: questa società, la cui costruzione, poi,
dovrebbe rappresentare lo scopo di ogni azione politica, è
costituita da uomini “pensanti”, da uomini attenti, perché la
libertà autentica non «è definita da un rapporto tra il desiderio e
la soddisfazione, ma da un rapporto tra il pensiero e l’azione»64.
L’azione così considerata è collettiva, deriva da riflessioni
congiunte tra gli uomini, che accomunati da simili problemi, ne
cercano la soluzione insieme: è come assistere ad una riunione
di operai che, arrestati da una difficoltà e riflettuto per proprio
conto, propongono diversi mezzi per superarla e si affidano,
poi, a quella che ritengono migliore, senza considerazioni
sull’autorità di colui che l’ha suggerita.
A questo punto, sembra che le riflessioni della Weil abbiano
formato un cerchio che, partendo dall’analisi della situazione
contemporanea, di cui la condizione lavorativa è quella più
63
Titolo di un capitolo del saggio Riflessioni sulle cause della libertà e
dell’oppressione sociale.
64
Ivi, pag. 77

44
preoccupante, passando per gli esiti deleteri di una crisi che
sfocia nei fenomeni totalitari, cercando i motivi e le soluzioni,
arrivi di nuovo al punto di partenza e cioè al lavoro, alle sue
dinamiche e soprattutto alla capacità insita nel concetto di
“spiritualità del lavoro” di liberare l’uomo dalla morsa
dell’utilitarismo.

La lettura delle riflessioni di Simone Weil è, per certi versi,


sorprendente: scrive in un periodo di tensioni altissime, affronta
temi angoscianti, vive, in prima persona, la guerra, il dolore
fisico, la solitudine eppure, alla fine dei suoi innumerevoli scritti,
si resta come consolati, perché se è vero che le sue parole
spalancano l’abisso delle ingiustizie, se è vero che si viene
proiettati in buie atmosfere di frustrazioni, non viene mai
dimenticata la “via d’uscita”, il pessimismo può esserci, ma è
temporaneo e, soprattutto, non è mai fine a se stesso, ma è
uno stimolo per un’ulteriore ricerca, un ulteriore sforzo di
comprensione.
Simone Weil ha saputo cogliere, all’interno dell’orrore totalitario,
anche i semi della liberazione, è riuscita a vedere, nella società
atomizzata, un barlume di speranza e su questa ha fondato il
suo incitamento a non lasciarsi prendere dalla disperazione: la
cura dalla “malattia del secolo” è lunga e difficile, ma finché ci
saranno uomini che faranno di tutto per “risvegliare il pensiero
ovunque possono”, finché sarà possibile pensare una politica
orientata al bene comune, allora l’umanità non si potrà dire
vinta.

45
CAPITOLO 3
LO SCOPPIO IMPROVVISO DEL
TERRORE

1. La ricerca delle “origini”: Hannah Arendt


Lo studio del fenomeno totalitario non si può considerare valido
se non ci si rivolge ad un personaggio tra i più letti, ma anche
tra i più criticati tra coloro che hanno affrontato l’argomento:
parlare di Hannah Arendt è una tappa obbligata, fondamentale
se si è interessati a scoprire verità, anche piuttosto scomode,
sul totalitarismo.
Anche la Arendt, come Simone Weil, ha fatto della
comprensione della realtà a lei contemporanea, una prerogativa
indispensabile per la sua vita; vivendo, poi, in un periodo in cui
si sono concentrate immani tragedie umane, la sua riflessione
non poteva non portarla a porsi domande su ciò che stava
accadendo: e le risposte sono quelle di una pensatrice libera da
preconcetti, ma profondamente turbata da una umanità in
disfacimento.
Tutta l’opera della Arendt, i suoi scritti più marcatamente
filosofici come i suoi interventi giornalistici, è attraversata dalla
necessità di ricercare delle spiegazioni che possano, in qualche
modo, dare un orientamento al vortice di prove che l’esistenza

46
impone; e per quanto riguarda il totalitarismo, poi, narrare è
fondamentale, perché rappresenta l’unico modo di superare
l’angoscia e di affrontare di nuovo la vita; perché bisogna
trovare un posto all’evento e cristallizzarlo, di modo che non
possa sfuggire all’analisi, in quanto «ciò che non è stato
raccontato a nessuno e non ha colpito nessuno, che non è
penetrato per nessuna via nella coscienza dei tempi, è
condannato alla ripetizione; si ripete perché, anche se accaduto
realmente non ha trovato nella realtà un luogo dove fermarsi»65.
La ricerca del punto di partenza, quindi, come una necessità,
prima di tutto, vitale e non come esercizio filosofico, come
viaggio nell’animo umano e nei suoi sconvolgimenti e non solo
racconto storico: è questo quello che si trova nell’opera che, più
d’ogni altra, ha suscitato ammirazioni e critiche e cioè, Le origini
del totalitarismo.
Un libro molto complesso, che cerca, partendo dal presente, di
rapportarsi con il passato di modo che questo diventi un luogo
per «pensare la modernità dal di fuori»66 e possa rappresentare
una leva critica per comprendere l’unicità dell’evento totalitario.
La tesi di fondo dell’opera è che il totalitarismo sia una forma di
dominio assolutamente nuova nella storia, che si differenzi da
ogni altro tipo di regime perché, per la prima volta, un’ideologia,
tendente a costruire un presente annullando il passato, è
diventata prassi, si è trasformata in azione, ha, realmente,
messo in moto un procedimento di decostruzione e
ricostruzione dell’essere umano, per far nascere un “uomo
nuovo”.
65
E. Parise, La politica dopo Auschwitz, cit., pag. 33.
66
R. Ansani, H. Arendt e S. Weil: due letture dell’antico, in “La città dei
filosofi”, n. 12/2-1997, pag. 61.

47
Attraverso l’antisemitismo e l’imperialismo di fine ‘800 e inizio
‘900, la Arendt spiega il totalitarismo come un fenomeno
scaturente dalle situazioni storico-politiche di quel periodo,
senza, comunque, affermarne l’inevitabilità: per la filosofa,
infatti, niente è inevitabile nella storia, «il passato non
determina l’avvenire poiché questo è sempre indeterminato e
libero. Tuttavia la luce che viene dal presente può aiutare a
capire il passato»67, ci sono avvenimenti che possono
influenzare l’andamento dei fatti storici.
Tali furono, ad esempio, i comportamenti degli ebrei durante
l’Ottocento, che, disinteressati alla politica, costruirono il loro
ruolo solo sull’aspetto finanziario, diventando banchieri potenti
e finanziatori di alcuni Stati: emblematico l’esempio della
famiglia dei Rothschild, che contando fra i propri membri
cittadini di cinque paesi diversi, divenne il simbolo della
pericolosità di un intero popolo, gli ebrei appunto, capaci,
secondo l’assurda idea propagandata nel periodo, di un
dominio assoluto.
Riprendendo uno schema già usato da Tocqueville per
spiegare la caduta dell’aristocrazia francese, Hannah Arendt
mostra come, l’odio verso costoro, scoppiò proprio nel
momento in cui essi erano meno forti e, soprattutto, meno
capaci di influire nella vita politica: la stessa cosa era accaduta
in Francia, quando la nobiltà, adottando la logica mercantile
della borghesia, aveva perso, agli occhi del popolo la sua
diversità, insita proprio nel concetto di aristocrazia, di classe al
di sopra della società; non vennero, allora, più giustificati alcuni
privilegi, come l’esenzione fiscale, di cui essa aveva sempre

67
M. Cedronio, La democrazia in pericolo, Il Mulino 1994, pag. 111.

48
goduto, e si diffuse, in compenso, un odio sempre più feroce
per una classe che non aveva più, ormai, nessun ruolo sociale;
finché essa aveva avuto un potere giurisdizionale, quindi, le
erano stati tollerati qualsiasi tipo di sopraffazioni ed era stata, in
un certo senso, anche rispettata, ma quando, poi, questi diritti
le erano stati tolti non venne tollerata più alcuna prerogativa.
Il meccanismo, secondo la Arendt, si è rinnovato agli inizi del
XX secolo, quando gli ebrei, perso il loro ruolo di finanziatori del
potere politico, furono considerati solo una razza parassitaria,
che non aveva nessuna collocazione specifica, che non
possedeva nient’altro che la propria ricchezza e che, in realtà,
non era mai stata veramente assimilata nella società.68
Questa specificazione è importante perché serve a sfatare il
mito secondo cui, gli ebrei, erano detentori di un potere capace
di influire sulle sorti dei popoli, quando l’intolleranza nei loro
confronti raggiunse il livello di una persecuzione: fu, invece,
proprio la loro “superfluità” a condannarli; il potere, per essere
giustificato deve essere visibile, perché attiene alla funzione
pubblica, quando, invece, si diffonde l’idea che esistano gruppi
occulti, allora cresce il senso di ribellione verso costoro.
Questo “fastidio” ha le sue radici anche in un altro fenomeno
che, a cavallo fra i due secoli, era diventato centrale nelle
politiche di quasi tutti gli stati europei: l’imperialismo «che minò
le basi dello stato nazionale introducendo nella comunità delle
nazioni europee lo spirito competitivo degli affari»69.
Le analisi, a questo proposito, partono da considerazioni di tipo
economico e spaziano fino ai margini della sociologia, piuttosto

68
E. Parise, La politica dopo Auschwitz, cit., pag. 41.
69
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità 1999, pag. 23.

49
“involontariamente”, vista l’avversione che la Arendt ha, più
volte, manifestato per questa scienza.
L’imperialismo, allora, è considerato quasi una tappa obbligata,
nello sviluppo economico dei paesi europei, perché
l’espansione del commercio era frenata da mercati ormai saturi,
che non riuscivano più ad assorbire la produzione, sempre
crescente, di beni di consumo: con le conquiste di nuovi territori
si sarebbero aperte nuove fonti, sia di approvvigionamento, di
materie prime, sia di guadagno, per una borghesia, ormai,
sempre più in grado di indirizzare le strategie politiche dei
governi.
Sottoponendo la politica alle necessità dell’economia,
s’instaurava, in questo modo, una politica di potenza che non si
limitava a trarre il massimo dalle colonie, come il vecchio
colonialismo aveva fatto, ma dava inizio ad una vera e propria
esportazione di uomini “superflui”70.
Nelle terre conquistate, infatti, cercarono fortuna, non solo,
ricchi banchieri o mercanti interessati a maggiori guadagni, ma
anche persone che, fallite o annoiate in patria, volevano
sfuggire ad una vita non soddisfacente e senza scopi: costoro
cominciarono a considerare gli abitanti dei luoghi occupati,
come persone di razza inferiore, come schiavi al loro servizio.
Le occupazioni nei territori africani, così, avevano creato una
sensazione di supremazia anche in coloro che, nel paese di
origine, erano considerati dei mediocri, con poche possibilità di
migliorarsi: costoro si sentivano superiori per il solo fatto di
appartenere ad una nazione europea, e non concepivano la
possibilità che, nelle colonie, si potesse instaurare un governo

70
Ivi, pag. 276

50
che prevedeva l’uguaglianza giuridica per tutti gli abitanti.
Questa, d’altra parte, era la convinzione anche delle classi, per
così dire, istruite, dei banchieri e dei finanzieri che volevano che
“l’africano restasse africano” perché, così, era più facilmente
sfruttabile: con lo sviluppo di queste concezioni, l’imperialismo,
antidemocratico e razzista, diventò il terreno fertile, rappresentò
la base, per il successivo trionfo delle teorie totalitarie71.
Le ragioni di questa voglia di sopraffazione, di questa necessità
di imporre una propria volontà, sono da ricercare, anche, nella
disgregazione dei vincoli comunitari, nei cambiamenti avvenuti
nella fisionomia geografica e politica dell’Europa di inizio
Novecento, quando, in seguito ai trattati di pace successivi alla
Prima Guerra Mondiale, vennero ridisegnati confini e imposti
obblighi ai paesi sconfitti, creando nuovi popoli e nuovi stati, nei
quali non tutti riuscirono ad identificarsi: quando, poi, il concetto
di Stato, come garante dei diritti di tutti e quello di nazione
come una comunità che accetta solo coloro che dividono
“sangue, lingua e suolo”, diventarono inconciliabili, si creò un
insieme di “senza patria”, di apolidi, che non avendo più alcuna
collocazione politica, si trovò completamente allo sbando,
diventando, così, il sostegno e il materiale di base per la
propaganda totalitaria72.
Questi individui si ritrovarono nell’avventura imperialista, proprio
perché, non essendo stati accettati dalla società “occidentale”,
che li aveva messi al margine, che li aveva privati della loro
identità, erano pronti a tutto per ricreare una sorta di corpo

71
M. Cedronio, La democrazia in pericolo, cit., pag. 76
72
S. Forti, Il totalitarismo, cit., pag. 35

51
sociale nel quale fossero, finalmente, non solo protagonisti, ma
padroni assoluti.
Il razzismo, la concezione di una razza destinata a comandare
sulle altre, il disprezzo dell’altro inteso come inferiore, non fu
una caratteristica presente solo nelle colonie, ma fu, anche, il
carattere distintivo di quello che la Arendt chiama “imperialismo
continentale”: infatti, come l’imperialismo coloniale era stato
alimentato da personaggi in cerca di una realizzazione negata
in patria, così quello continentale, «derivò dalle ambizioni
frustrate dei paesi che non avevano ottenuto la loro parte
nell’improvvisa espansione degli anni ottanta» e che ora
vedevano il proprio popolo, unico ed eccezionale, come
circondato da un mondo di nemici, che minacciavano la sua
esistenza73.
A queste convinzioni si aggiunse, poi, il darwinismo sociale:
nonostante l’opera di Darwin non contenesse alcun riferimento
alla società, si trasportarono le teorie di sopravvivenza del più
forte, di selezione naturale, di lotta per la vita, anche nel
linguaggio politico e «nessuno più si meravigliava se uno
zoologo scriveva un articolo su Una visione biologica della
nostra politica estera, con la pretesa di aver scoperto una guida
infallibile per gli statisti […] era di moda esporre nuovi metodi
per la selezione dei più validi in conformità agli interessi
nazionali»74.
I nazisti si avvalsero proprio di queste teorie per propagandare
la necessità di rendere la nazione pura da ogni difetto, di
eliminazione degli individui più deboli, tra cui gli inabili, i malati

73
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pag. 317.
74
Ivi, pag. 251.

52
inguaribili e i pazzi75; una necessità dettata dalla convinzione di
dover rendere la propria patria più forte, abitata solo da individui
capaci di difenderla da quelle confinanti, considerate come
nemici da combattere e da dominare: «Il nazionalismo col suo
concetto di “missione nazionale” ha trasformato l’idea
dell’umanità come famiglia di nazioni in una struttura gerarchica
in cui le differenze storiche ed organizzative sono attribuite a
differenze naturali tra gli uomini […] il razzismo ha introdotto il
concetto di un unico popolo eletto su tutti gli altri»76.
Le popolazioni europee, disgregate e impaurite da politiche che
prevedevano l’inclusione nel corpo sociale di elementi estranei
alla loro tradizione, come gli apolidi o i rifugiati, “avvertirono un
senso di terrore”, quando si resero conto che avrebbero dovuto
far parte, non solo, della propria nazione, ma, in generale, di
una più vasta famiglia umana77 con cui condividere qualsiasi
responsabilità: «Il razzismo era un modo realistico, anche se
distruttivo, di sfuggire a questo fardello della responsabilità
comune. L’insistenza sulla comunità di sangue si addiceva allo
sradicamento territoriale delle popolazioni dell’Europa orientale
e meridionale, ma anche, e altrettanto bene, ai bisogni delle

75
Ricorda la Arendt che Ernst Haeckel, sostenitore dell’eugenetica applicata,
aveva affermato che l’eliminazione di queste categorie di persone avrebbe
fatto risparmiare «spese assurde alla famiglia e al lo stato».
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pag. 250.
76
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pag. 327.
77
Hannah Arendt, a questo proposito, cita un brano di Frymann, nel quale
viene sottolineato come non sia possibile, da parte dei popoli germanici,
considerarsi parte di una umanità in cui sia presente anche «il semibestiale
contadino russo del mir, il negro dell’Africa orientale, o l’insopportabile ebreo
della Galizia o della Romania».
H. Arendt, Le origini.., cit., pag. 328 (in nota).

53
masse cittadine, prive di qualsiasi legame con l’ambiente in cui
vivevano, e venne subito fatta propria dai movimenti
totalitari»78.
L’antisemitismo e l’imperialismo continentale furono, quindi,
sostenuti dalle masse perché offrivano sia un compenso alle
proprie frustrazioni, sia perché erano propagandati da un
partito, quello nazionalsocialista, che si autodefiniva “al di sopra
dei partiti” e che prevedeva l’ascesa al potere di un uomo forte,
di un dittatore: anche questa fu una condizione fondamentale
per la riuscita del progetto nazista, perché la folla, non
riconoscendosi più nel sistema parlamentare, verso cui provava
intolleranza a causa delle continue accuse di corruzioni ed
inefficienze, esprimeva la necessità di un cambiamento che,
però, non poteva essere portato avanti dai vecchi partiti politici.
Come ha sottolineato anche E. Young-Bruehl, per la Arendt, il
successo delle teorie totalitarie fu dovuto, quindi, alla
convinzione diffusa che esse erano capaci di dare una risposta
a tutti i problemi del momento, che fossero in grado di
affrontare tutte le sfide che la nuova epoca preparava79 .
Certo non vengono dimenticate le altre circostanze storiche che
prepararono l’ascesa del nazismo, circostanze scaturite dalla
prima guerra mondiale come la disfatta tedesca e lo
smembramento della Germania, la crisi economica e
l’elevatissima disoccupazione, il senso di disorientamento delle
masse e la sensazione, condivisa da molti, di essere sopraffatti,
trascurati e indesiderati: quando tutti questi elementi si
incontrano nello stesso momento, allora, la società non è più un
78
Ivi, pag. 329.
79
M. Salvati, H. Arendt e la storia del Novecento, in M. Flores (a cura di),
Nazismo, fascismo, comunismo. Totalitarismi a confronto, cit., pag. 231.

54
corpo unito, ma si sfalda, diviene atomizzata, non sono più
presenti, al suo interno, legami che la tengono insieme; quando
ciò accade, si avverte la necessità di qualcosa che possa, in
qualche modo, riunire questi atomi all’interno di una comunità
sostanziale; in questo istante, è più facile essere preda di
coloro che si autoproclamano detentori di verità eterne sulla
Storia e sulla Natura80.
Come si è detto, la Arendt non ha intenzione di affermare una
inevitabilità del fenomeno totalitario, non vuole indicare, cioè,
degli elementi che, combinati insieme, portano
necessariamente a questo risultato, ma il presente deve,
inevitabilmente, avere dei legami col passato, ed è per questo
che bisogna analizzare tutti gli avvenimenti precedenti, per
trovare i fili che hanno prodotto quel “groviglio inestricabile”:
importante, perciò, il declino dello stato nazionale,
l’emancipazione politica della borghesia con l’imperialismo,
l’antisemitismo.
Ma le riflessioni non riguardano, solo, gli accadimenti storici,
perché, nella terza parte del Le origini, sono esaminati anche i
meccanismi di funzionamento dello stato totalitario, come
l’ideologia, il terrore, l’organizzazione del partito unico.
Il punto di partenza è l’analisi della società di massa, è cercare
di capire come è stato possibile che un numero così elevato di
persone si siano lasciate infervorare da una propaganda così
distruttiva, così annientatrice: non si deve credere, avverte la
Arendt, che nel partito nazista siano confluiti solo individui con
volontà di sopraffazione, o personaggi che reclamavano un
potere sui propri simili, perché, invece, il successo della politica

80
S. Forti, Il totalitarismo, cit., pag. 36.

55
hitleriana è stato costruito, soprattutto, reclutando membri
appartenenti a gruppi sociali apatici che non si erano mai
interessati di politica, prima di allora81.
D’altra parte, questa caratteristica è importante perché, il
regime necessita di fedeltà incondizionata e di dedizione,
elementi, a loro volta, che possono essere presenti solo in
persone che hanno perso ogni facoltà di giudizio personale, che
sono isolati e che devono la loro importanza solo
all’appartenenza al partito.
La possibilità dell’alleanza tra élite e plebe, nelle fila del partito
nazista, deve la sua ragione al fatto che entrambi questi strati,
sentivano di essere stati eliminati dalla struttura dello stato
nazionale e dalla società classista e si trovavano d’accordo nel
considerarsi portatori di una nuova rivoluzione che avrebbe
trascinato con sé la maggioranza dei popoli europei82.
Se, per questi due gruppi, l’adesione al regime è stata, in
qualche modo, spontanea, il resto della società aveva bisogno
di essere conquistata: è qui, allora, che si innesta la
propaganda, quell’insieme di “menzogne” sia di tipo politico-
economico (come l’affermazione di Stalin che in Russia non
c’era più disoccupazione), sia di tipo socio-psicologico (come la
necessità di “purificare” la razza per renderla perfetta).
La propaganda totalitaria, però, non è costituita, solo, da parole,
ma viene seguita anche da fatti, come l’abolizione dei sussidi di
disoccupazione per la popolazione russa, perché non più
necessari, vista la “scomparsa” della disoccupazione, o il
“trasferimento” dei bambini polacchi, di stirpe tedesca, presso

81
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pag. 431.
82
Ivi, pag. 467.

56
famiglie in Germania, per farli crescere in un ambiente a loro
più consono.
A tutto questo si aggiunge uno strumento ancora più potente: il
terrore, quella specie di guerra psicologica che non lascia
nessuno spazio alla razionalità o alla capacità di pensiero; tutti
possono essere considerati dei nemici, la libertà di opinione,
come tutte le altre libertà, viene annullata e si diffonde una
sensazione di sospetto verso chiunque, che non risparmia
neanche i propri familiari. La propaganda terroristica, quindi,
non diffonde solamente idee assurde, ma le trasforma in azioni
che, a loro volta, servono da ammonimento per tutti coloro che
non sono “allineati”: l’assassinio degli oppositori politici, non
basta, è necessario trovare nuovi nemici da combattere, perché
è di questa sensazione di “guerra totale” che si ciba il
totalitarismo.
Gli individui che compongono la società sono come paralizzati
di fronte a questa violenza, la capacità di pensiero ne rimane
segnata al punto, da non produrre più pensieri personali, si
perde la responsabilità delle proprie azioni e si cade vittima di
una sorta di rassegnazione, giustificata, anche al cospetto della
propria coscienza, con ragioni inerenti alla difesa della razza o
del popolo: «In nome di un futuro migliore si giustificavano le
atrocità del presente», questo era il dramma che vivevano le
società moderne83.

C’è un punto fondamentale, nell’opera della Arendt, dove


confluiscono tutte le sue riflessioni, come l’arrivo dopo una
lunga corsa, un evento che diventa essenziale, che funge da

83
M. Cedronio, La democrazia in pericolo, cit., pag. 157.

57
discriminante di tutta la sua opera: l’ideologia nazista, il terrore
totalitario rappresentano delle novità assolute, non perché non
ci sono state nella storia altre politiche accentratrici, o altre
volontà di onnipotenza, ma perché, per la prima volta quelle
volontà, così ferocemente propagandate, sono diventate realtà;
per la prima volta, l’ideologia, con la sua pretesa di costruire il
presente, in base a propri criteri e di spiegare totalmente la
storia, a dispetto di ogni esperienza positiva, ha abbandonato la
forma verbale e si è fatta prassi.
Si arriva, così, a pensare che il mondo sia un pezzo di creta
che, determinate élite, possono plasmare a piacimento; si crede
in una manipolazione della realtà che, parte dalla concezione
nichilistica di negazione radicale dei sistemi di valori
preesistenti, e arriva al delirio del “tutto è possibile”, che rifiuta
qualsiasi cosa così com’è: si riscrivono le leggi della storia, si
cambiano i principi della natura, si modifica l’umanità.
Il nazismo ha reso tutto ciò reale con quell’istituzione che, per
Hannah Arendt, rappresenta la vera cesura epocale, il turning
point, l’evento a partire dal quale si deve guardare indietro alla
ricerca delle premesse, delle origini84: il lager, il campo di
concentramento e sterminio.

84
M. Salvati, Hannah Arendt e la storia del Novecento, in M. Flores (a cura
di), Nazismo, fascismo, comunismo.Totalitarismi a confronto, cit., pag. 227.

58
2. Dove tutto è possibile: il campo di
concentramento
Hannh Arendt, nel suo La banalità del male, ha scritto: i nazisti
hanno voluto «decidere chi dovesse e chi non dovesse abitare
questo pianeta»85, hanno voluto rimodellare biologicamente
l’umanità.
Tutto lo studio sul totalitarismo porta, secondo la filosofa, a
questa verità; l’unicità dell’evento è misurata su questo assunto;
la promessa illuministica della società perfetta, di un universo
esteticamente soddisfacente, ripulito di ogni carattere arretrato,
non educabile e intoccabile, diventa realtà nei campi, dove
viene sperimentato l’esercizio del potere umano sulla natura e
si esibisce l’infinita potenzialità umana.
La visione nazista del mondo, prevedeva di imporre all’Europa,
nuove strutture politiche, economiche, sociali, e se, per caso, la
posizione delle nazioni, le caratteristiche dei popoli, non si
addicevano a tale progetto, allora, alcuni, venivano ammassati
o trasferiti altrove, altri, venivano “eliminati fisicamente”, in
modo da non intralciare il piano generale86.
Il regime totalitario, poi, non si accontenta di eliminare gli
oppositori politici, perché se fossero solo costoro le sue vittime,
il terrore e le azioni della polizia segreta non avrebbero più
senso, dopo averli soppressi tutti; in realtà, anche l’amicizia e la
neutralità sono considerate pericolose, perché posseggono

85
H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli 1992,
pag. 283.
86
Z. Bauman, I campi: Oriente, Occidente, Modernità, in M. Flores (a cura di),
Nazismo, fascismo, comunismo, cit., pag. 20-25.

59
ancora quel grado di spontaneità, d’incalcolabilità, giudicato
potenzialmente rischioso e, quindi, un ostacolo al dominio totale
sull’uomo87.
Quello che, l’istituzione dei campi, vuole raggiungere è
l’annullamento dell’utilità umana, intesa come capacità
dell’uomo di “creare il nuovo”, di essere la fonte del pensiero; la
vita nei campi è una “non vita”, è come se gli internati fossero
già morti, ma «uno spirito maligno impazzito si divertisse a
trattenerli per un po’ tra la vita e la morte prima di ammetterli
alla pace eterna»88.
La sinistra razionalità di questi luoghi, risiede nel fatto che essi
dovevano servire sia a sperimentare le nuove e inaudite
capacità di controllo sull’essere umano, una specie di
addestramento a commettere atrocità, sia a dimostrare che,
non solo, il dissenso non sarebbe stato tollerato, ma che, in
realtà, non era neanche richiesto, non era la condizione
necessaria a far scattare l’internamento: chiunque, al di là del
filo spinato, poteva essere il prossimo ad attraversare il
reticolato89.
Questo era potuto accadere, scrive la Arendt, perché i diritti
umani non essendo, in alcun modo, garantiti, avevano perso la
loro validità: la preparazione “in massa di cadaveri”, era stata
preceduta da un processo di annullamento del complesso delle
leggi vigenti, che investì ogni aspetto della vita umana.
La prima caratteristica ad essere attaccata fu la personalità
giuridica: si posero migliaia di individui al di fuori della legge,
privandoli della cittadinanza, dei diritti di proprietà, di tutto
87
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pag. 625.
88
Ivi, pag. 610.
89
Z. Bauman, I campi: Oriente, Occidente, Modernità, cit., pag. 26.

60
quello che poteva essere identificativo di un singolo; in questo
modo si poteva giustificare la deportazione come “custodia
preventiva”, come una misura di polizia.
Successivamente, venne intaccata, fino a ucciderla, la
personalità morale, «la struttura relazionale degli esseri umani
che presiede alla costituzione di un senso morale»90: si può
ancora opporre una propria coscienza, quando ci sono
alternative che la mente umana può scegliere; ma quando
queste sono assolutamente “problematiche e ambigue”, allora
l’alternativa non esiste; come scegliere, si chiede la Arendt, tra
il tradimento degli amici, sapendo di condannarli a morte, e la
salvezza della propria famiglia, che neanche il proprio suicidio,
può assicurare?
Con questa complicità, organizzata deliberatamente dal regime,
si ottiene, così, un coinvolgimento totale degli stessi
perseguitati, nei delitti dei loro assassini, «si annulla la
distinzione tra persecutore e perseguitato, tra carnefice e
vittima»91.
Infine, il processo di trasformazione degli uomini in cadaveri
viventi, avvenne mediante la distruzione della personalità
individuale, della peculiare identità di ogni individuo.
A partire dalle condizioni del trasporto nei Lager, durante il
quale centinaia di persone erano ammassate in un carro per il
bestiame, per giorni e giorni, senza spazi vitali; continuando
con le umiliazioni dell’arrivo, la rasatura e la divisa, fino ad
arrivare alle torture, tutto serviva a manipolare il corpo umano,
a calpestare la dignità, a sterminare la libertà, a distruggere la

90
E. Parise, La politica dopo Auschwitz, cit., pag. 27.
91
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pag. 620.

61
personalità: quello che rimaneva, alla fine di questo
procedimento, erano ombre senza vivente92.
Questi esseri, che hanno perso persino le sembianze umane,
sono, ormai, totalmente superflui, non possiedono l’utilità dei
lavoratori forzati che, in ogni caso, hanno un loro ruolo nella
costruzione di un “qualcosa” e non sono torturati né dominati;
non sono paragonabili neppure agli schiavi, perché questi
mantengono un proprio valore, sono richiesti, sono utili, sono
considerati degli strumenti del lavoro: l’ulteriore differenza tra gli
internati e queste due categorie è che, i primi, sono esclusi
totalmente alla visione del mondo, non fanno parte più di alcun
“consorzio umano”, laddove, invece, i secondi continuano ad
avere dei rapporti, dei contatti con i propri simili93.
Il controllo totale sull’uomo è completo, anche perché nessuno,
tra coloro che venivano condotti alla morte, ha mai cercato di
portare con sé qualcuno dei suoi aguzzini, non ci sono state
ribellioni, nessuna reazione alle continue vessazioni; qualche
legge psicologica, scrive la Arendt, un giorno chiarirà che intere
masse di persone si sono lasciate condurre, senza protestare,
alle camere a gas, perché era stata completamente annullata la
loro individualità, era scomparsa in loro qualsiasi spontaneità; la
capacità di dare “inizio con i propri mezzi a qualcosa di nuovo”
era stata compromessa a tal punto da non lasciar pensare
neanche più al suicidio; e tutto questo non è a caso, in quanto,
il regime sa che «il sistema che riesce a distruggere la vittima
prima che salga al patibolo […] è incomparabilmente il migliore
per tenere tutto il popolo in schiavitù»94.
92
E. Parise, La politica dopo Auschwitz, cit., pag. 28.
93
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pag. 608.
94
Ivi, pag. 624.

62
Il regime, quindi, non vuole soltanto un governo dispotico
sull’uomo ma il potere totale, e, per averlo e mantenerlo, deve
annullare tutte le grandi risorse che l’essere umano ha, deve
ricacciarlo nella sua condizione primitiva di “specie animale
uomo”, deve farlo diventare una “marionetta senza la minima
traccia di spontaneità”.
Gli internati hanno sperimentato quello che mai, prima di allora,
era stato conosciuto dagli esseri umani, il “male radicale”,
quella malvagità, fine a sé stessa, che non sembra avere
alcuna giustificazione: d’altra parte, era lo scopo degli stessi
aguzzini, fare in modo che non si potesse credere a ciò che era
stato compiuto, e questo era possibile solo se, le torture, le
sevizie, erano tali da superare qualsiasi immaginazione; i
nazisti si vantavano di aver “vinto la guerra” contro gli ebrei a
prescindere da ogni altra considerazione, perché se anche
fossero state lasciate delle testimonianze, se anche qualcuno si
fosse salvato, il mondo non sarebbe stato disposto a credere
alle sue parole, la storia dei Lager l’avrebbero, in ogni caso,
scritta loro: in pratica, «non sarete creduti: questo era il
messaggio dei nazisti»95.
In realtà, l’incredulità per tutto quello che accadeva era
presente anche in coloro che vivevano l’esperienza dei campi:
una situazione così inimmaginabile da togliere la parola, da
sentirsi emarginati a tal punto da essere abbandonati anche da
se stessi; l’esperimento totalitario ha raggiunto il suo successo
quando ormai l’uomo, allontanato dagli occhi del mondo, privato
di ogni sua caratteristica umanità, non è più, soltanto isolato,
ma vive la più atroce delle prove che è quella dell’estraniazione,

95
E. Parise, La politica dopo Auschwitz, cit. pag. 31.

63
quella condizione per cui «si trova circondato da altri con cui
non può stabilire un contatto […] quel che rende l’estraniazione
così insopportabile è la perdita del proprio io, che può essere
realizzato nella solitudine, ma confermato nella sua identità
soltanto dalla compagnia fidata e fiduciosa dei propri simili. In
tale situazione l’uomo perde la fede in se stesso come partner
dei suoi pensieri e quella fiducia elementare nel mondo che è
necessaria per fare delle esperienze»96.
Per la Arendt, quindi, è l’istituzione concentrazionaria in se
stessa ad essere l’espressione più evidente del dominio
totalitario, la novità assoluta e terribile di questo regime che
arriva dove nessuno è mai riuscito ad andare, che penetra
nell’intimo di ogni uomo, lo rende totalmente esposto alle più
atroci crudeltà, gli fa rinnegare tutte le certezze sulla propria
umanità e, alla fine di questo processo di distruzione, lo fa
sentire superfluo persino a se stesso.
La “novità” del campo di concentramento non è solo l’orribile
esperimento condotto sugli internati, ma, in misura diversa,
anche se non meno importante, è quello che è successo a
coloro la cui vita, in qualche modo, ruotava attorno a quella
tremenda realtà: chi erano, si interroga la Arendt, quelli che
quei campi li avevano progettati, come vivevano quelli addetti
alla loro sorveglianza, cosa provavano gli esecutori di quegli
ordini che prevedevano l’annullamento di centinaia di persone?
Le risposte a tutte queste domande, furono trovate a
Gerusalemme, durante il processo Eichmann, dove Hannah
Arendt fu corrispondente del New Yorker nel 1961: gli articoli da
lei scritti furono, poi, raccolti nel suo contestatissimo La banalità

96
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pag. 652, 653.

64
del male, che dimostra, ancora una volta, come, la nostra
scrittrice, sia capace di analisi oggettive e libere da
condizionamenti di qualsiasi tipo.
L’osservazione del comportamento del gerarca nazista, lascia
perplessi, in quanto ci si aspetta di vedere un uomo perfido, un
assassino, con una personalità forte, capace di imporre una
propria, anche se totalmente assurda, idea; e invece si ha di
fronte un uomo borghese, ripetitivo nelle sue affermazioni, che
non sa formulare un discorso proprio e si affida, perciò, a frasi
fatte, a luoghi comuni, a concetti da propaganda imparati a
memoria: «Eichmann era convintissimo di non essere nel fondo
dell’anima un individuo sordido e indegno; e quanto alla
consapevolezza, disse che sicuramente non si sarebbe sentito
la coscienza a posto se non avesse fatto ciò che gli veniva
ordinato – trasportare milioni di uomini, donne e bambini verso
la morte – con grande zelo e cronometrica precisione»97.
D’altra parte, egli è un prodotto di quella società tedesca che si
era allontanata dalla realtà, che aveva scaricato ogni
responsabilità e che era andata avanti credendo alle menzogne
che il regime propagandava: un uomo che non sapeva come
condurre la propria vita, se non obbedendo agli ordini di un
capo, se non consultando regolamenti98.
Il processo, che avrebbe dovuto essere l’occasione per
guardare negli occhi “il male radicale”, di dargli un volto e una
voce, si rivela, invece, il luogo di una rivelazione del tutto
inaspettata: l’imputato non è un essere eccezionalmente
cattivo, crudele o paranoico, è, invece, “normale” (come

97
H. Arendt, La banalità del male, cit., pag. 33.
98
Ivi, pag. 40.

65
numerosi psicologi avevano affermato); ed è su questa
considerazione che, la Arendt, formula l’idea del male come
mancanza di pensiero: il male non è più qualcosa di
eccezionale, ma fa parte di noi e delle persone che ci sono
vicine; il male è l’assenza, è il rifiuto del pensiero.
In alcune lettere scritte a Gershom Scholem, ella dirà che il
male non è più radicale, non è demoniaco e non ha una sua
profondità, ma è «una sfida al pensiero, perché il pensiero
vuole andare in fondo, tenta di andare alle radici delle cose, e
nel momento che si interessa al male, viene frustrato perché
non c’è nulla. Questa è la banalità»99.
L’intenzione della Arendt, ovviamente, non è quella di
scagionare il nazista dalle sue responsabilità, ma è quella di far
notare come, per fare il male, non è necessario essere malvagi:
un buon padre di famiglia, un burocrate ordinato e meticoloso,
una persona normale, “banale”, può fare il male, e lo fa, se si
trova in un meccanismo politico-sociale o fa parte di un
apparato amministrativo e poliziesco che lo spingano ad agire
“senza pensare”100.
Questa assenza di pensiero è, d’altra parte, una delle
caratteristiche che, l’autrice de La banalità del male, riconosce
in tutte le società che si sono lasciate affascinare dagli ideali
totalitari, un’assenza che vuol dire incapacità di distinguere ciò
che è giusto da quello che non lo è: non si potrebbero spiegare
altrimenti i comportamenti di tante persone comuni, provenienti
da ogni strato sociale, impeccabili lavoratori e ottimi padri di

99
C. Giussani (a cura di), Hannah Arendt: la filosofia di fronte all’estremo,
disponibile sul sito http://wwwcsbno.net
100
Ibidem.

66
famiglia che si trasformarono in esecutori solerti delle più atroci
violenze.
Il processo di deresponsabilizzazione fu voluto dallo Stato
nazista con una serie di leggi che consentì di dare allo
sterminio una parvenza di legalità, favorendo, in questo modo,
le tecniche di neutralizzazione degli aspetti negativi devianti
delle proprie azioni: la possibilità di far ricadere le colpe su un
vasto strato di persone, il compenso finale per le malefatte
compiute, la gerarchizzazione dei rapporti sono tecniche
individuate dalla criminologia per neutralizzare il concetto di
crimine; in questo modo il criminale annienta le differenze tra
giusto e ingiusto, fino a renderle parole prive di significato.
Per la riuscita di tale procedimento è necessaria la presenza di
solide basi giustificative che permettano, a soggetti “normali”, di
compiere atti che possano essere ritenuti immorali: queste
furono le leggi sulla conservazione della razza e della stirpe,
ma, anche, il modo di concepire i campi, creati inserendo
elementi di finzione che ingannavano sulla loro vera funzione.
Ed infatti, la costruzione di finte docce per la gassazione nei
campi in Polonia, le selezioni dei deportati operate dai medici,
la numerazione dei Strucke (pezzi), sopravvissuti alle selezioni
e destinati al lavoro, erano tutti modi per rendere normale una
orrenda realtà di morte.
Le parole stesse, usate per indicare le attività di sterminio, non
facevano mai riferimento alle persone, ma alle cose, a soggetti
inanimati: così i deportati erano “pezzi”, le azioni di
rastrellamento servivano per “mietere il grano”, e anche il
campo veniva chiamato lager, che, poi, in tedesco vuol dire
magazzino.

67
Questo modo di considerare “il problema” rendeva sempre più
facile allontanare il rimorso per le azioni compiute e faceva
crescere la sensazione di indifferenza dinanzi al dolore altrui;
inoltre, per la prima volta, venivano offerte dallo Stato tante e
tali giustificazioni da far risultare, quelle azioni, socialmente utili
e lodevoli: gli slogan nazisti, in ogni caso, rassicuravano che
“ciò che fai per il popolo e la patria è sempre fatto bene”101.
Il metodo di superamento della propria responsabilità, quindi,
era quello di capovolgere la prospettiva: non si consideravano
più le crudeltà commesse come qualcosa che rendeva
colpevoli, ma si considerava il sacrificio di “vedere” tante
atrocità, come un “dovere” verso la patria: «il problema era
quello di soffocare non tanto la voce della propria coscienza,
quanto la pietà istintiva, animale, che ogni individuo normale
prova di fronte alla sofferenza fisica degli altri […] Il trucco
usato era molto semplice ed efficace, consisteva nel deviare
questi istinti, per così dire, verso l’io. E così invece di pensare:
che cose orribili faccio al prossimo! Gli assassini pensavano:
che cose orribili devo vedere nell’adempimento dei miei doveri,
che compito terribile grava sulle mie spalle!»102.
Quando si raggiunge questo stadio, quando l’uomo non ha più
una propria visione del mondo, ma si lascia coinvolgere anche
nelle più meschine violenze, allora il processo di annullamento
di ogni spazio vitale, di massificazione, intesa, proprio, come
l’attività che rende tutti gli uomini una “massa” uniforme, senza
alcuna diversità, è completo e, il regime totalitario, può
celebrare la propria vittoria.
101
A. Bienati, Colpevoli di esistere per legge, in “Diario della memoria”, supp.
al n.3/ 4 di “Diario della settimana”, 25 gennaio 2002.
102
H. Arendt, La banalità del male, cit., pag. 113.

68
La lezione di Gerusalemme, scrive la Arendt, fu che la
lontananza dalla realtà e la mancanza di idee possono essere
più pericolose degli istinti malvagi presenti negli uomini, e il
guaio maggiore era che di uomini come Eichmann, non stupidi,
ma senza idee, appunto, ce n’erano tanti e tutti terribilmente
normali103.
Se la figura tramite la quale il totalitarismo trionfa è questa, cioè
il tipo attonito e tranquillizzato, anestetizzato, che cerca solo di
far carriera tramite la burocrazia, che è sottomesso e incapace
di resistenza e che compie il male come se fosse la cosa più
banale; la vittoria sul totalitarismo, invece, è nell’uomo che
“pensa”, immagina, si rapporta con gli altri in uno spazio
condiviso, dove si mostra agli altri e questi si mostrano a lui: è
questo il messaggio finale che ci lascia la Arendt, un messaggio
comunque ottimista, che pervade le pagine finali de Le origini
del totalitarismo, dove vengono citate le parole di Agostino
«affinché ci fosse un inizio, è stato creato l’uomo».
Il nuovo inizio, infatti, è la nascita di ogni essere umano che,
con questa capacità si assicura sempre uno spazio di libertà: «Il
fatto che l’uomo sia capace di azione, significa che da lui ci si
può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è
infinitamente improbabile. E ciò è possibile solo perché ogni
uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo
qualcosa di nuovo nella sua unicità»104.
D’altra parte, questa qualità, era riconosciuta anche da coloro
che instaurarono il regime nazista, ed è per questo che

103
C. Giussani (a cura di), Hannah Arendt: la filosofia di fronte all’estremo,
disponibile sul sito http://wwwcsbno.net
104
H. Arendt, Vita activa: la condizione umana, Bompiani 1989, pagg. 128-
129.

69
cercarono in tutti i modi di annullare lo spazio vitale tra gli
uomini, che li estraniarono, che li rinchiusero nei campi, proprio
perché non fossero più capaci di “creare il nuovo”, di pensare,
di rapportarsi in modo costruttivo con gli altri, di evitare che con
“le parole e l’agire” rimanessero nel mondo umano e
realizzassero “una seconda nascita”, che, poi, avrebbe
rappresentato la libertà.
Quello che la Arendt auspica, quindi, dopo aver analizzato le
dinamiche totalitarie, è un ritorno alla politica, intesa come
spazio della presenza, «entro il quale i nuovi venuti e le nuove
venute si rendono visibili attraverso l’azione concertata in
comune e attraverso il discorso che […] rivela agli altri chi
siamo e ci espone al rischio di questa rivelazione»105: lo spazio
politico, però, non deve essere un posto dove opera il principio
della sovranità, ma piuttosto, il luogo dove è presente un potere
condiviso e, quindi, il riconoscimento della condizione plurale
degli uomini.
Il riferimento è, così, all’esempio della polis greca, dove gli
uomini, abbandonavano la muta violenza e riponevano la
fiducia nella forza persuasiva del discorso; dove i cittadini erano
gli artefici diretti della vita pubblica e dove veniva esaltata
l’interazione comunicativa tra i singoli: per i greci, la sola cosa
che poteva riscattare la vita dall’orrore, era l’esperienza della
cittadinanza, il discorso appassionato fra uguali che, a turno,
parlano e ascoltano, per il raggiungimento o la conservazione
del bene comune106.

105
E. Parise, La politica dopo Aushwitz, cit., pag. 15, 16.
106
G. Kateb, H. Arendt - Le origini del totalitarismo (intervista),
http://www.filosofia.rai.it

70
Se, comunque, non ci si può affidare più nel cittadino modello,
nell’individuo eroico, ci si può comunque affidare all’autonomia
della riflessione, al quel pensiero che, per la Arendt, così come
per i grandi pensatori che hanno sperimentato il fallimento dei
soggetti collettivi, rimane sempre, come scrive J. F. Lyotard «la
resistenza minima a tutti i totalitarismi»107.

107
S. Forti, Il totalitarismo, cit., pag. 114.

71
CAPITOLO 4
UN EVENTO CHE UNISCE E DIVIDE

1. Simone e Hannah: condivisioni e distinzioni


La prima cosa che si nota, quando si leggono le biografie di
queste due grandi pensatrici, è la vicinanza della loro data di
nascita: il 1909 per Simone Weil, il 1906 per Hannah Arendt;
poi ci si rende conto della comune origine ebraica ed, infine, si
rimane perplessi, quando si viene a conoscenza del fatto che,
nonostante i temi trattati da entrambe, nonostante esperienze,
per alcuni versi simili, non si siano mai incontrate.
Sarebbe stato importante, il loro incontro, avrebbe lasciato un
segno profondo in tutta la comunità degli intellettuali e avrebbe,
probabilmente, scatenato reazioni contrastanti, come, d’altra
parte, scatenarono i loro interventi e i loro scritti.
Due personalità forti, quindi, capaci di imporre un modo nuovo
di guardare ai fatti contemporanei, alla storia, all’essere umano:
l’attenzione a ciò che accadeva era quasi profetica per Simone
Weil, che non seppe mai dei campi di sterminio, e per Hannah
Arendt, era una necessità perché in quei campi perse amici,
parenti e, lei stessa, era stata sul punto di viverli in prima
persona.

72
Quando si ha una sensibilità spiccata, quando si sente che il
mondo, che fino a quel momento è sembrato una comunità, si
spezza per dare vita a sentimenti di odio, di intolleranza, di
annullamento dell’altro, allora, si avverte il dovere morale di
analizzare, di capire, di cercare un rimedio a tutte le schegge
impazzite che, fendendo l’aria, fanno milioni di vittime: è questo
che hanno cercato di fare queste due donne, a volte, l’una, in
modi contrastanti rispetto all’altra, ed è da questa necessità che
parte il loro studio sul totalitarismo.
Gli scritti che, maggiormente, sembrano avere delle affinità
sono, ovviamente, Le origini del totalitarismo e il saggio
Riflessioni sulle origini dello hitlerismo: la prima analogia
sembra evidente ed è racchiusa nel termine “origini” che
entrambe utilizzano, ma che non deve essere confuso con
qualcosa di deterministico, che ha un inizio preciso da collocare
in qualche punto della storia, perché per la Weil, esso
rappresenta un gioco di “permanenza e di trasformazioni”
storiche, insito nelle vicende delle nazioni, che non hanno
affatto la vocazione ad una pace duratura; mentre, per la
Arendt, ricerca delle origini, significa cogliere la “corrente
sotterranea della storia” che è venuta in superficie con i regimi
totalitari108.
Non credere nel determinismo storico, nel “tutto è già scritto”, è
una componente importante delle loro analisi, l’inevitabilità non
consente approfondimenti, rende sterile l’osservazione della
realtà ed è per questo che entrambe la scartano, affermando,

108
L. Boella, Dialoghi a distanza: Ingeborg Bachmann, Simone Weil, Hannah
Arendt, in A. Marchetti (a cura di), Politeia e sapienza. In questione con
Simone Weil, Patron Editore, Bologna 1993, pagg. 177-178.

73
anzi, che “niente è inevitabile nella storia” (Arendt)109, e che,
comunque, “l’avvenire resta per noi celato” (Weil)110:
concentrarsi sul presente, senza, però, dimenticare il passato,
che, anzi, diventa una bussola per orientarsi o appare più
chiaro, alla luce degli avvenimenti più recenti.
Il discorso sul totalitarismo parte, per entrambe, dalla
consapevolezza che, questo regime, «tende ad un
annientamento della presenza umana», attraverso un
procedimento di demolizione di quello che è, e costruzione di
un mondo fittizio, dove gli uomini, perdendo il senso della
realtà, sono pronti «a quel processo di sradicamento – e poi di
deportazione – in cui il totalitarismo raggiunge infine il suo
scopo ultimo: quello di trattarli come cose e di renderli
superflui»111.
Tutto si può ricondurre ad una diminuzione della capacità
cognitiva, ad un impoverimento spirituale, di cui, sia la Arendt
che la Weil, cercano le cause nella storia delle nazioni europee.
Viene sottolineato, nei loro scritti, come il colonialismo e
l’imperialismo hanno rappresentato il primo passo verso
quell’annullamento della dignità umana che, poi, il regime
totalitario ha pienamente sviluppato: il cuore del problema sono
i diritti dell’uomo e della loro violazione da parte della società
moderna, anche se, la Weil si riferisce maggiormente agli
abitanti delle colonie, mentre la Arendt rivolge la propria
attenzione alle minoranze etniche, agli apolidi ed ai rifugiati.

109
M. Cedroni, La democrazia in pericolo, cit., pag. 111.
110
S. Weil, Sulla Germania Totalitaria, cit., pag. 201.
111
R. Esposito, L’origine della politica. Hannah Arendt o Simone Weil?,
Donzelli Editore 1996, pag. 13.

74
In ogni caso, per tutte queste categorie, si è avuta una
diminuzione delle garanzie sociali e politiche, con la
conseguente riduzione della libertà e il mancato riconoscimento
dei loro diritti, sviluppando quell’attività di sradicamento che
priva gli uomini della propria identità.
Per Simone Weil, quindi, le pratiche dei paesi colonizzatori non
sono tanto diverse dalle politiche hitleriane, perché entrambe
annullano le diversità dei popoli e riducono lo spazio politico:
Hannah Arendt, da parte sua, annovera tra le origini del
totalitarismo, proprio le politiche imperialistiche, che hanno
posto su due piani differenti gli autoctoni delle colonie e i
conquistatori, non riconoscendo più l’uguaglianza di tutti davanti
alla legge112.
In una società dove valgono questi principi di sopraffazione,
allora, l’individuo può facilmente trasformarsi in uomo di massa,
a causa della disgregazione dei valori sociali, delle condizioni di
vita alienate e dell’esclusione dalla vita parlamentare: si
formano, così, folle di irresponsabili, che sono facile preda della
propaganda e si lasciano conquistare dalla dittatura113.
Un discorso molto simile, quindi, per le due pensatrici, anche se
c’è un punto dove le loro strade sembrano divergere
nettamente, perché se per la Weil, il totalitarismo, nonostante le
caratteristiche e le intenzione inedite, nasce da una logica di
sopraffazione già conosciuta, con le conquiste e le distruzioni di
massa dell’imperialismo francese e dell’antica Roma; per la
Arendt, esso possiede le caratteristiche dell’assoluta novità,
dell’eccezionalità, perché non vuole solo ridurre gli uomini
112
M. Cedronio (a cura di), Modernité, democratie et totalitarisme. Simone
Weil et Hannah Arendt, Klincksieck 1996, pagg. 18-19.
113
Ivi, pag. 10.

75
all’obbedienza, come altre tirannidi hanno tentato di fare nel
corso della storia, ma sperimenta un procedimento del tutto
nuovo che mira all’annientamento totale di tutte le
caratteristiche di umanità presenti negli individui, fino a renderli
“totalmente superflui”114.
Inoltre, non va dimenticato che, centrale nell’opera della
tedesca, è la riflessione sul campo di concentramento, dove si
realizza tutta la logica perversa dell’ideologia nazista, mentre, la
francese, parla, solo, di deportazioni, senza conoscerne gli
ulteriori, macabri, sviluppi.
Nonostante queste differenze, dovute anche al fatto che
Simone Weil ebbe vita breve e non assistette al completo
dispiegamento della macchina di morte nazista, le affinità tra le
due sono evidenti anche nel modo di “raccontare”: entrambe,
infatti, si affidano ad associazioni, analogie, accostamenti,
puntano l’attenzione su avvenimenti che sembrano banali o
estranei, ma che, poi, si rivelano importanti in tutto il contesto:
se ne ricava una rappresentazione del tutto nuova, perché
bisogna guardare agli avvenimenti in modo diverso, per riuscire
a capirli nel loro più profondo significato, che è, poi, dismisura,
squilibrio, insensatezza; si arriva, così, a comprendere che la
politica è diventata “ideologia e terrore” (Arendt); o terrore e
violenza, finalizzati al prestigio e alla distruzione di ogni altra
cultura e tradizione (Weil)115.
A volte, la lettura dell’opera dell’una, rimanda immediatamente
alle pagine dell’altra; ad esempio, quando Simone Weil
descrive la condizione degli avversari dei romani, la loro

114
R. Esposito, L’origine della politica, cit., pag. 15.
115
L. Boella, Dialoghi a distanza, cit., pag. 181.

76
impotenza, la distruzione delle loro città, l’indifferenza dei
soldati dinanzi alle richieste di pietà o di supplica, è spontaneo
accostare le sue immagini alle rappresentazioni che Hannah
Arendt fa delle masse soggette al potere totalitario; oppure,
quando viene spiegata l’organizzazione e l’amministrazione
militare dei romani, il loro metodo, la loro disciplina e la loro
attitudine servile, è difficile non accostarla all’apparato
burocratico-amministrativo del regime, con i suoi funzionari,
ottusi esecutori di ordini, come Eichmann116.
Quando, poi, si considerano i comportamenti delle vittime di
fronte alla forza bruta, allora, la vicinanza, anche lessicale, tra
le due studiose, è ancora più evidente: se per la Arendt, coloro
che devono subire l’onta del terrore sono come paralizzati,
sperimentando l’incapacità dell’agire, anche quando sono
condotti alle camere a gas117; per la Weil, il terrore suscitato
dalle invasioni, dalle distruzioni, dalle annessioni di popoli
inermi, ne gela l’animo per lo stupore, perché «una volta
suscitata una paura diffusa […] quando l’animo è abbattuto dal
rigore del destino, il potere di previsione è il primo a sparire»118.
Certo non bisogna dimenticare la sostanziale, differente
considerazione dell’impero romano e delle sue pratiche
legislative, perché se, per la Arendt, esso è da prendere ad
esempio, in quanto esportava nelle colonie, tutti i principi che
vigevano a Roma, trasformando i popoli conquistati in cittadini
con pieni diritti civici e politici; la Weil sottolinea, invece, il
carattere brutale delle dominazioni romane che avevano

116
Ivi, pag. 182.
117
H. Arendt, Le origine del totalitarismo, cit., pag 623
118
S. Weil, Sulla Germania totalitaria, cit., pag. 244.

77
solamente condotto una dominazione imperiale e imposto lo
sfruttamento e la violenza, diventando precorritrici delle pratiche
totalitarie119.
Ma nelle loro pagine, è molto più facile trovare similitudini,
soprattutto per i concetti più generali, così, ad esempio, lo
sradicamento, insieme alla perdita del mondo comune, è l’altro
termine che ricorre di frequente negli scritti di entrambe: una
malattia dovuta alle crisi economiche, alla disoccupazione, alle
conquiste militari, che privano gli uomini della loro patria, per la
Weil120; un mancato riconoscimento da parte degli altri delle
proprie tradizioni sociali, per la Arendt121: per l’una e l’altra è la
patologia del presente, la base su cui ha fatto leva la
propaganda totalitaria, che ha ridotto gli uomini in una massa
indistinta e che li ha resi ciechi di fronte a ciò che accadeva.
La filosofa tedesca parla di «radicale alienazione dal mondo»,
per descrivere la condizione di «un’umanità che, priva di un
mondo comune che insieme metta in relazione e separi gli
uomini, li fa vivere o in una disperata solitudine o pigiati insieme
in una massa»; mentre la Weil, sottolinea come, la negatività
del presente, risiede nella riduzione del giudizio alla razionalità
illusoria delle procedure, lasciando l’individuo «completamente
abbandonato ad una collettività cieca» ed, in molti casi, non
consentendo l’esercizio libero del pensiero122.
Questo perché sono venuti a mancare quei bisogni
fondamentali dell’animo umano, che sono i legami sociali, i
vincoli comunitari che si stabiliscono con la lingua, i rapporti di

119
M. Cedronio, La democrazia in pericolo, cit., pag. 72, 73.
120
S. Weil, La prima radice, cit., pag. 49
121
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pag. 651.
122
R. Ansani, H. Arendt e S. Weil, due letture dell’antico, cit., pag. 65.

78
lavoro: quando questi si sfaldano, allora il presente è uno
spazio vuoto e l’isolamento, la condizione preliminare
dell’estraniazione, è la nuova situazione della modernità; uno
stato che, però, urta l’umanità di ogni individuo che, invece, ha
bisogno di «appartenere al mondo»123, di essere radicato, di
avere «radici multiple»124.
Se, in estrema sintesi, si può affermare che, sia per Hannah
Arendt che per Simone Weil, il totalitarismo è una malattia
caratterizzata da una diminuzione della capacità cognitiva
dell’essere umano, di un impoverimento spirituale, di
un’assenza di pensiero, allora, i rimedi sono da ricercare nel
passato, senza però dimenticare il carattere di unicità, di
specificità, soprattutto per la Arendt, delle questioni affrontate:
per quest’ultima, sarà la comprensione dell’evento a segnare i
passi successivi, che porteranno alla costituzione di una nuova
politeia, intesa come spazio del vivere pubblico e dell’agire
comunicativo, nel quale si afferma la comunicabilità e la
dialogicità dell’essere umano125.
Per la Weil, il ritorno al passato è, piuttosto, un ritorno alla
verità, alla condizione originaria della scienza greca, alla
proiezione verso il mondo naturale, ad una condizione che
consenta di esercitare il pensiero, perché «ciò che noi
sappiamo fin d’ora è che la vita sarà tanto meno inumana
quanto più grande sarà la capacità individuale di pensare e di
agire» e «che cosa possono fare coloro che si ostinano a
rispettare la dignità umana di se stessi e degli altri? Niente, se
non sforzarsi di allentare un poco gli ingranaggi della macchina
123
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pag. 651.
124
S. Weil, La prima radice, cit., pag. 49.
125
R. Ansani, H. Arendt e S. Weil: due letture dell’antico, cit., pag. 66

79
che ci stritola; cogliere tutte le occasioni per risvegliare un poco
il pensiero, ovunque possono»126.
Le opere di queste due grandi donne portano ad affrontare temi
difficili, obbligano a pensare in modo anticonformistico, fanno
vivere le pagine più buie della nostra epoca, mostrano la
meschinità umana, a volte, fanno assistere, quasi realmente, ad
episodi tragici; eppure, dalla loro lettura, si ricava, comunque,
un senso di positività, un ottimismo che può sembrare quasi
utopistico, ma che è necessario per sopravvivere, per non
abbandonarsi al terrore di considerare la condizione
dell’umanità, senza via d’uscita: la Arendt parla di “natalità”,
come il processo che può rimettere tutto in gioco, come l’eterna
possibilità dell’uomo di superare i momenti bui, come
l’occasione di immettere nel mondo nuova linfa vitale, nuovi nati
e quindi nuovo spazio per l’agire; la Weil parla di “porta stretta”
che mette in contatto con il trascendente e con l’ispirazione,
che rappresentano, poi, il modo di ricostruzione del legame tra
gli uomini e di questi con il proprio passato, l’unica
manifestazione terrena che lega “il transitorio all’eterno”127; la
cura è lunga e difficile, ma la guarigione è indispensabile e sarà
il cambiamento di prospettiva, di sensibilità a portare, nella vita
di tutti, la sola guida assolutamente necessaria al genere
umano e cioè: l’aspirazione al bene128.

126
S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, cit.
pag. 126.
127
L. Boella, Dialoghi a distanza, cit., pag. 184.
128
G. Fiori, S. Weil: singolarità di una vita e di un’opera di donna, in D.
Canciani, G. Fiori, G. Gaeta, A. Marchetti , S. Weil, la passione della verità,
cit., pag. 24.

80
2. Il totalitarismo ai giorni nostri
Per moltissimi anni il dibattito sul totalitarismo si è concentrato
sull’ammissione o meno del concetto nelle categorie storiche,
se, cioè, avesse ragione di esistere un idealtipo che potesse
spiegare determinate situazioni, oppure bisognava ammettere
che questa categoria non fosse utile all’analisi: oggi, si può
affermare che questa fase è stata senz’altro superata, e questa
categoria interpretativa è entrata a far parte del vocabolario
comune per indicare le principali dittature del Novecento.
Questo, però, non vuol dire che l’attenzione al fenomeno deve
essere accantonata, perché, una volta stabilita la sua utilità,
essa deve essere continuamente affinata, comparata, messa a
confronto con esperienze diverse.
Questo è ancora più importante, oggi perché, se per certi versi,
si può affermare che determinate sue caratteristiche non sono
più riproponibili, dall’altro si deve costatare, con un certo
sbigottimento, che alcune “dinamiche totalitarie” non sono certo
scomparse, ma, anzi, sembrano tornare con vigore.
Qualcuno potrebbe affermare che, negli ultimi cinquanta anni,
la democrazia ha senza dubbio affermato il suo primato e che,
quindi, l’ipotesi di derive dittatoriali è lontana o, almeno,
improbabile; ma un’analisi più attenta della situazione del
nostro pianeta sembra dare dei risultati differenti.
Hiroshima e Nagasaki, il Ruanda, la Bosnia, la Cambogia,
Timor est, le dittature sudamericane, solo per citare le
esperienze più conosciute, sono tutti esempi di come modalità
di sterminio, volontà di eliminazione degli oppositori, desiderio
di affermazione di una razza ritenuta superiore, non sono
affatto morte con la sconfitta del nazismo e dello stalinismo.

81
Allora, se il mondo, dopo la malattia del secolo, sembrava,
ormai, vaccinato contro di essa, come è possibile che alcune
sue parti ne rivivano i sintomi? Com’è possibile permettere,
ancora, che concetti funesti prendano il sopravvento e si
sviluppino fino ai più macabri risultati?
Quello che bisogna, prima di tutto, ricordare è che, il
totalitarismo, si è affermato in società che esprimevano un
bisogno di «semplificazione sociale e culturale a fronte di una
complessificazione delle società contemporanee»129, non è,
quindi, solo un sistema coercitivo che comanda e crea
consenso, ma è, anche, la risposta ad una domanda di
sicurezza.
Per questo, si può sostenere che, per la sua affermazione è
necessario una base, una condizione già esistente: questa è
quella che viene chiamata “mentalità totalitaria”, quella
sensibilità «che produce un immaginario di desiderabilità
dell’ordinamento sociale fortemente controllato, caratterizzato
da aggressività e caricato di vittimismo persecutorio […] la
domanda di un ordinamento trasparente della società»130.
Questo “reticolo mentale” è una premessa, ma, comunque, non
costituisce un passaggio obbligato al totalitarismo, aiuta a
comprendere, però, un altro aspetto, non meno importante, e
cioè che, con il crollo dei totalitarismi, non cessa di essere
attiva la mentalità totalitaria.
È per questo che nella storia più recente, si possono trovare
casi di dittature che hanno molto in comune con le
caratteristiche totalitarie più “classiche”, ed è per questo che

129
D. Bidussa, La mentalità totalitaria, Morcelliana 2001, pag.19.
130
Ivi, pag. 25, 26.

82
non bisogna considerare il totalitarismo come un mostro che
rappresenta l’opposto della democrazia, ma piuttosto
considerare che, esso, «è, invece, l’indesiderato ospite che
bussa di continuo alla sua porta. Esso è una risposta estrema
alle questioni che la modernità politica pone e non può
risolvere. Non solo allora il totalitarismo è, e può unicamente
essere, un’esperienza moderna, ma è, e continua ad essere, un
possibile sbocco della democrazia. Una forma di società che
reagisce alla debolezza costitutiva dell’ “invenzione
democratica”, alla sua indeterminatezza, alla sua apertura
verso il vuoto…in una parola alla libertà»131.
Echi totalizzanti si sentono anche oggi, quindi, con le
apparentemente innocue, richieste di un mondo dinamico,
trasparente, adeguato alla felicità umana, e quindi alla
necessità di “più polizia”, di prigioni perfettamente
automatizzate, sentenze più pesanti e regimi carcerari più duri;
maggiore sicurezza nelle strade, che, a sua volta vuol dire,
rimpatrio degli immigrati, criminalizzazione dei problemi sociali
e incarcerazione degli elementi “socialmente indesiderabili”.
Ma nelle versioni più estreme, queste richieste sfociano nella
pulizia etnica in Bosnia, in Ruanda, «nelle paludi dell’Iraq e
nelle foreste pluviali di Timor est»132, nei genocidi dei curdi in
Iraq, delle popolazioni del Sudan meridionale, degli hutu in
Burundi; e non bisogna credere che i motivi o le “giustificazioni”
siano diverse da quelle sentite in Germania o in Russia perché,
anche in quei casi, le popolazioni sono state cancellate in nome
di un progetto di “ricostruzione” di un popolo, di un’idea di
131
S. Forti, Il totalitarismo, cit., pag. 102.
132
Z. Bauman, I campi: Oriente, Occidente, Modernità, in M. Flores (a cura
di), Nazismo, fascismo, comunismo, cit., pag. 18.

83
nazione, nella quale esse non rientravano: sono state eliminate
«non per quello che hanno fatto, ma per ciò che esse sono»133.
Hannah Arendt l’aveva previsto, aveva ammonito sulla
possibilità che le soluzioni totalitarie potevano sopravvivere alla
caduta dei regimi, perché esse sono una tentazione molto forte
quando si vive in condizioni di «miseria politica, sociale o
economica»134, ed è per questo che Simone Weil sottolineava
l’importanza della dignità del lavoratore, l’importanza di avere,
di sentirsi parte, di una comunità umana che rafforzi l’esistenza
di ciascuno, con scambi di influenze diverse, che dia «vita
morale, intellettuale, spirituale»135.
Se, quindi, per certi versi e soprattutto in Europa, il trauma
causato dal nazismo e dallo stalinismo è stato troppo forte
perché se ne possa vedere un ritorno, non bisogna dimenticare
che, le minacce di un riflusso, non sono mai scomparse
totalmente: non è solo alle strutture statali che bisogna
guardare, perché è possibile anche che si instauri «una
soluzione totalitaria senza uno stato totalitario»136, come può
essere la tendenza contemporanea all’incarcerazione,
all’interdizione politica, alla privazione dei diritti civili, ed anche,
l’egoismo collettivo, il “noi” contro il “loro”, il ritorno del
nazionalismo e la xenofobia137.
D’altra parte, come afferma Tzvetan Todorov, il nuovo secolo si
è aperto con gli stessi presupposti di quello passato, con la

133
Ivi, pag. 30.
134
Ivi, pag. 32.
135
S. Weil, La prima radice, cit., pag. 49.
136
Z. Bauman, I campi: Oriente, Occidente, Modernità, cit. pag.34.
137
T. Todorov, Utilità di un concetto, in M. Flores (a cura di), Nazismo,
fascismo, comunismo, cit., pag. 102.

84
stessa fiducia smisurata nella scienza, come cura per tutti i
mali, tra cui, anche, quelli sociali: oggi, come allora, non è il
progresso il nemico, ma l’uso che l’uomo ne fa, perché, anche
lo stalinismo pretese di creare un mondo nuovo, attraverso il
controllo della società, della politica, dell’economia; senza
dimenticare che il nazismo si spinse fino all’eugenetica, per
plasmare, realmente, l’uomo nuovo. Oggi si crede che le
biotecnologie siano in grado di realizzare quest’uomo nuovo,
con pezzi di ricambio sostituibili, e che, le leggi dell’economia e
del mercato, siano l’unico parametro del progresso138.
Sono concetti pericolosi, perché i totalitarismi del Novecento
hanno sterminato, proprio, con la scusa di imporre un mondo
perfetto, con la pretesa di diffondere il “bene”, con l’ambizione
di possedere la giusta visione del mondo: bisogna, però,
rendersi conto che il male in nome del bene non è una
specialità dei regimi totalitari; lo ha dimostrato la “patria della
democrazia”, l’America, con la bomba atomica sulle città
giapponesi e lo ha dimostrato l’Europa, con la guerra in
Kosovo, dove l’intervento armato era stato portato avanti per
bloccare la pulizia etnica, ed, invece, ha creato solo comunità
omogenee tra loro, con l’espulsione di turchi, serbi e tzigani dai
territori kosovari e una Serbia in cui vivono, appunto, solo
serbi139.
Ma non bisogna andare tanto lontani per rendersi conto che
preoccupanti “degenerazioni” democratiche sono in atto,
proprio in questi giorni: dopo l’attacco alle torri gemelle di New

138
M. Nava, Todorov: anche la democrazia nasconde il virus della violenza, in
“Corriere della Sera”, 24 gennaio 2002.
139
F. Gambero, Todorov, un bilancio del Novecento, secolo dei totalitarismi,
in “La Repubblica”, 08 settembre 2001.

85
York, i concetti di “lotta al male”, di superiorità di una cultura
rispetto ad un’altra, di liberazione del mondo dal nemico, sono
venuti prepotentemente alla ribalta.
Ancora una volta si sta diffondendo il principio di un “noi” e di
un “loro”, di uno scontro tra culture; sta prendendo piede il
principio secondo cui, chiunque si sente ispirato dalla verità, si
pone non in termini di dialogo, ma di comando della verità,
come se questa potesse essere ricondotta ad uno schema
preciso, come se si potesse affermare che esiste solo un’unica,
valida, verità.
Ancora Todorov ammonisce sul fatto che, il totalitarismo, può
assumere altre forme e altre idee e mette in guardia circa,
quelle che lui chiama, le tre derive della democrazia: la
moralizzatrice, la strumentale, l’identitaria.
La prima è ravvisabile nella posizione dei paesi che, come gli
Stati Uniti in questi giorni, si pongono come l’incarnazione del
bene, in una netta contrapposizione tra “un bene e un male”; la
strumentale si è verificata nel momento in cui si è preferito
delegare la soluzione dei problemi, all’esercito, ai militari ed ai
loro strumenti di morte; e la deriva identitaria si è avuta quando
sono stati considerati universali le ragioni di difesa della propria
“tribù”140.
Si assiste, inoltre, ad un fenomeno che, già la Arendt
denunciava come un pericoloso antecedente per i regimi
totalitari, e cioè la restrizione dei diritti civili e politici per ampie
fasce di popolazione: il varo della legislazione antiterrorismo ha
permesso, ai governi centrali, di accentrare in sé ancora più

140
R. Minore, Il totalitarismo? Cambia faccia, in “Il Messaggero”, 23 gennaio
2002.

86
potere, con il risultato di rappresentare una seria minaccia,
anche, per i comuni cittadini.
Oggi, infatti, si possono eseguire intercettazioni senza mandato
giudiziario, deportare residenti legittimi, turisti e immigrati senza
permesso, evitando di rispettare le procedure di legge: il
pericolo maggiore, come afferma lo scrittore Gore Vidal, è che,
una volta alienato, un diritto inalienabile, può essere perduto
per sempre141.
Ma oggi, si potrebbe obbiettare, c’è maggiore informazione, non
si può più operare di nascosto, i governi devono rendere conto
del loro operato, all’opinione pubblica e questa, si sa, si forma
trascorrendo ore ed ore dinanzi al televisore che, ormai, offre
una “copertura delle notizie, in maniera capillare” … ma chi
controlla le notizie che ci vengono fornite, chi decide di dare
risalto a questo o a quel comunicato?
Lo spazio pubblico, purtroppo, è sempre stato manipolato, se
consideriamo che, già, nel diciannovesimo secolo e fino al
nostro secolo, la manipolazione degli elettori avveniva ad opera
dei potenti del posto, che erano proprietari terrieri capaci di
decidere il tenore di vita di intere famiglie; oggi, nella nostra
civiltà dell’informazione, la manipolazione avviene ad opera dei
mass media142, o meglio, dei pochi proprietari dei media, che
stabiliscono, non solo, la priorità delle notizie, ma anche la loro
rilevanza; così, quanti di noi hanno saputo che tra il 1960 e il
1979 ci sono stati almeno una dozzina di genocidi e di massacri

141
Dopo le torri, libertà zero, in “L’Espresso”, 29 novembre 2001.
142
R. Dahrendorf, Il futuro della democrazia, disponibile all’indirizzo
http://www.emsf.rai.it/Aforismi/aforismi.asp?d=58

87
etnici di cinesi in Indonesia, di bengalesi nel Pakistan orientale,
degli ache in Paraguay e di molti popoli dell’Uganda?143.
E, in questi giorni, chi può sapere con certezza cosa sia
successo, e cosa stia succedendo, realmente, in Afghanistan, o
cosa sia realmente accaduto nel campo profughi di Jenin,
durante l’occupazione israeliana dei territori palestinesi?
Un’altra preoccupante tendenza è quella messa in atto dagli
Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e, per certi versi anche
dall’Italia, di isolare e reprimere il dissenso: un caso
emblematico è quello di Aaron McGruder che, con il suo
fumetto afro-americano “Boondocks (“le Periferie”), aveva
sottolineato il legame storico tra Bin Laden e G. Bush (padre
dell’attuale presidente degli USA); all’uscita della striscia che
conteneva questi riferimenti, è scattata immediatamente la
censura che, ovviamente l’autore non ha accettato, dovendosi
accontentare, comunque, di vedere pubblicata la sua vignetta
su un numero minore di quotidiani144.
Ma il caso più indicativo è stata la richiesta, da parte di Colin
Powell, segretario di stato americano, all’emiro del Qatar di
mettere a tacere l’emittente Al Jazeera, l’unica televisione del
Medio Oriente libera e che conserva un rispetto totale per la
libertà di informazione; senza dimenticare che è stata l’unica a
poter operare liberamente in Afghanistan, durante la guerra ai
talebani.
La giustificazione a questa richiesta, è stata quella della
sicurezza, perché, ammonivano gli strateghi militari, i filmati dei
discorsi di Osama Bin Laden, potevano contenere messaggi in
143
Z. Bauman, I campi: Oriente, Occidente, Modernità, cit. pag. 30.
144
S. Baraldini, USA, guerra alla costituzione,
http://www.mercatiesplosivi.com

88
codice per nuovi attentati. Al Jazeera, ovviamente continua il
suo lavoro, ma il risultato di queste richieste è stato quello di
vedere ridotti, nei nostri notiziari, gli spazi per le notizie sulle
operazioni belliche, e di non essere informati su quello che,
realmente, accade145.
Ma anche in Europa il problema dell’informazione è al centro
dei dibattiti politici: in diversi paesi si assiste ad una
concentrazione della proprietà dei media, nelle mani di pochi
soggetti, con la conseguente “selezione” delle notizie in base
alle proprie preferenze politiche; le istituzioni europee, poi, non
sono ancora riuscite a tenere lontani gli interessi economici dal
mondo della cultura, con il risultato di vedere pubblicizzata
questa notizia, piuttosto che quella, con una evidente, anche se
molto spesso non compresa, riduzione, del nostro diritto ad
un’informazione oggettiva.
La situazione europea è, poi, ancora più preoccupante, se si
rivolge l’attenzione a quei gruppi politici estremisti che vengono,
sempre più spesso alla ribalta; i loro messaggi politici, con il
richiamo al nazionalismo e alla sicurezza dei cittadini
minacciata dagli immigrati, hanno molto in comune con quelli
ascoltati negli anni ’30 e ’40.
La demagogia populista, il richiamo al popolo come l’unica
entità che ha diritto di decidere, era già utilizzata dai vari regimi
dittatoriali dell’Ottocento e fu, poi, ripresa dai totalitarismi del
Novecento; la figura del “capo carismatico” e l’idea del
complotto, delle istituzioni sovranazionali che non sarebbero più
attente agli interessi dei singoli paesi, sono tutti esempi di come

145
G. Monbiot, Il nuovo maccartismo, in “The Guardian”, 16 ottobre 2001.

89
sia possibile, ancora oggi, fare proseliti con slogan datati, ma
non per questo meno efficaci e, quindi, pericolosi.
Con la propaganda di simili principi abbiamo assistito, proprio in
questi giorni, all’affermazione, in Francia, del partito di estrema
destra, xenofobo e razzista, di J. M. Le Pen che è arrivato al
ballottaggio per la poltrona presidenziale: è significativo che in
un paese che, forse tra i primi, ha aperto un’inchiesta sulle
requisizioni dei beni ai cittadini ebrei, che ha indagato le
violenze nei territori d’oltremare, che si è battuto affinché
l’Europa non fosse, solo, una questione di sangue e suolo, ma
soprattutto di identità, si sia lasciata trascinare da questo tipo di
ideologie146.
Tutto questo vuol dire che, nonostante la società civile
contemporanea sia più attenta, nonostante si possano ricercare
le informazioni per formare una propria, e non manipolata,
opinione con mezzi che cinquanta anni fa non erano
immaginabili, nonostante la sensibilità alle altre culture sia
aumentata; il pericolo di pericolose prese di posizione, di “voti di
protesta”, di reazioni estremiste alle crisi, è ancora vivo e
potrebbe, comunque, portare a situazioni rischiose per la
democrazia.
In realtà, secondo il filosofo J. F. Lyotard, la comunità
cosiddetta occidentale, sta continuando a vivere in un
totalitarismo, per così dire, post-moderno, post-democratico,
che è retto dall’incontrastato dominio economico e
massmediatico: per lo studioso, infatti, è possibile individuare
due forme di regime totalitario, quello politico, in senso stretto,

146
D. Bidussa, Au revoir les Jospins, in “Diario della settimana”, 26 Aprile
2002.

90
che ha raggiunto la sua configurazione istituzionale con lo
stalinismo ed il nazismo; e quello attuale, una sorta di
totalitarismo di tipo “soft”, che opera attraverso la riduzione
dell’altro «allo stesso, disattiva l’alterità tramite un continuo
processo di inclusione ed esclusione, di omologazione e di
rifiuto»147. Questo tipo di dominazione è senza terrore e senza
un’ideologia conclamata ed ha tempo soltanto per il profitto, per
la vendita e per il consumo148.
Quello che si guarda, quando si rivolge l’attenzione alle
esperienze totalitarie, che siano quelle passate, o quelle più
vicini a noi, come possono essere le situazioni dei torturati e dei
“dispersi” in Argentina, dei fuggitivi delle foreste dello Zaire, dei
poveri costretti alla clandestinità nei nostri paesi europei, è il
perpetuarsi di un fallimento della modernità come civiltà, tesa,
com’è, alla produzione incessante di una vita, che vuole essere
sempre più innovativa, ma che, in fondo, non è che una vita
nuda e desolata149.
Certo, il continente europeo, difficilmente cadrà preda delle
vecchie ideologie e del terrore di stato, il secolo che è appena
cominciato potrebbe sfuggire alle influenze delle ideocrazie, ma
ancora una volta ci si accorge che non basta una democrazia
consolidata per evitare il ritorno di alcuni concetti, che la
“mentalità totalitaria” è sempre presente, ha solo bisogno
dell’occasione giusta per venire allo scoperto.
Il problema è, ancora una volta, la paura, insita nell’uomo, di
perdere la propria identità, la sensazione di non essere

147
S. Forti, Il totalitarismo, cit., pag. 94.
148
Cfr., J. F. Lyotard, Il dissidio, Feltrinelli, Milano 1989
149
A. Brossat, Il posto del sopravvissuto, in M. Flores, Nazismo, fascismo,
comunismo, cit., pag. 206.

91
necessari, di essere solo numeri nel bilancio dello Stato; di non
avere una precisa collocazione in questo mondo che, se da un
lato è sempre più piccolo, dall’altro sembra tanto grande da
schiacciare l’uomo nelle sue dinamiche convulse.
Così si guardano “gli altri” come potenziali nemici, come coloro
che possono togliere quel poco di sicurezza che rimane, ci si
aggrappa ai concetti di patria, di conservazione, di
sopravvivenza e, questo rifiuto della diversità, mette in pericolo
la democrazia stessa, perché annulla le basi del rispetto
dell’altro; si rischia, così, che questo secolo si possa
trasformare nel regno del pensiero strumentale, della
preferenza dei “nostri” bisogni a detrimento di quelli degli “altri”,
del volere, a tutti i costi, vedere soddisfatti i propri interessi; se
questi concetti arriveranno alla loro destinazione finale (e le
premesse ci sono tutte), allora, paragonato al secolo appena
trascorso, «il risultato non sarà necessariamente migliore»150.

3. L’imperativo è: non dimenticare.


Quale valore ha la lettura di Simone Weil ed Hannah Arendt,
oggi? Cosa ci può insegnare lo studio del totalitarismo e delle
sue diverse sfumature?
Per la Arendt la comprensione del fenomeno totalitario era
fondamentale, non perché significava, in qualche modo,

150
T. Todorov, Utilità di un concetto, cit., pag. 102.

92
perdonare, ma perché voleva dire riconciliarsi con un mondo in
cui, tali avvenimenti erano possibili151; per la Weil il discorso è
molto simile, perché interrogarsi e cercare di comprendere,
significa esercitare il pensiero e questo, affermava la studiosa,
rappresenta, a sua volta, resistere all’omologazione,
conservare la propria libertà152.
Entrambe hanno capito che gli estremismi, gli accadimenti più
sconvolgenti non “cadono dal cielo”, ma hanno sempre delle
situazioni alle spalle che, se non vengono analizzate e
comprese, possono sfociare, facilmente, in catastrofi.
Perciò l’imperativo è: non dimenticare; non dimenticare, ad
esempio, che la democrazia non è un valore assoluto, ma una
tecnica, un insieme di regole che rende possibile la vita politica;
non dimenticare che, proprio la sua pretesa di rendere effettiva
l’uguaglianza assoluta, può far dimenticare la necessità di dare
valore anche alle differenze; l’ideale della società perfetta di
Marx, della società in cui non c’è conflitto, è sfociato, come
sappiamo, nell’opposto di una società libera, cioè nello
stalinismo153; e, non bisogna dimenticare il fatto che, elezioni
“democratiche”, hanno permesso ad Hitler di salire al potere.
Il ricordo di questi avvenimenti, la considerazione della storia
come una fonte essenziale per la nostra vita, sono concetti da
rivalutare: la memoria è l’unica qualità dell’essere umano che lo
possa salvare, anche da se stesso.
Per questo la Weil riteneva il passato tanto fondamentale; il
futuro è un tempo incompiuto che noi possiamo costruire, «ma

151
M. Cedronio, La democrazia in pericolo, cit.
152
S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, cit.
153
P. Fabbri, Pubblicità una fiaba d’oggi, disponibile all’indirizzo
http://www.emsf.rai.it/aforismi

93
per dare bisogna possedere, e noi non possediamo altra vita,
altra linfa che i tesori ereditati dal passato e digeriti, assimilati,
ricreati da noi»154; questa “lezione di vita” dovrebbe essere
sempre presente nelle nostre scelte, perché è solo voltandoci
indietro che possiamo evitare di cadere nelle trappole che
hanno catturato i nostri padri; come sosteneva la Arendt, niente
è inevitabile nella storia, e quindi, possiamo cambiare in ogni
momento la direzione dei nostri giudizi.
Per chi, come noi, vivrà nel nuovo millennio, può essere
fondamentale quello che queste due pensatrici ci hanno
lasciato in eredità: lo studio del totalitarismo, per Simone e
Hannah, non era solo una necessità di tipo “intellettuale”, ma
anche un modo per permettere all’evento di non ripresentarsi;
smascherandone i meccanismi, forse, le generazioni future non
si sarebbero lasciate coinvolgere in dinamiche della stessa
natura.
Ma, entrambe, fanno riflettere anche su un altro aspetto, che
attiene, più specificamente, all’uomo in quanto essere
imperfetto: la nostra capacità di creare il bello, ha la stessa
forza di quella che può generare l’orrore; l’uomo non è stato
creato perfetto e, quindi, è pieno di debolezze e difetti; ma, se
davvero fossimo consapevoli di questo, nessun popolo,
nessuna nazione, potrebbe arrogarsi il diritto di voler affermare
la propria visione del mondo, ognuno rispetterebbe il prossimo
perché lo vedrebbe come la proiezione di “un altro se stesso,
collocato in un altro posto”155.

154
S. Weil, la prima radice, cit., pag. 55.
155
S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, cit.,
pag. 96.

94
Purtroppo, le infinite potenzialità dell’essere umano, molto
spesso, sono la sua rovina, infatti, «poiché l’uomo può
immaginarsi tutto, è capace di tutto. Poiché non è guidato dagli
istinti, poiché è un essere dotato di intelletto, è in grado di
comportarsi peggio della più malvagia delle bestie. Poiché è un
essere culturale che crea da sé la sua violenza, può accrescere
le sue forze distruttive all’infinito. Poiché non è vincolato a nulla,
è capace di qualsiasi crimine. Poiché le forme culturali limitano
la sua libertà, è costantemente impegnato a distruggerle»156.
Se tutto questo è vero, è, in ogni caso, possibile mitigare un
quadro così fosco?
Ancora una volta, le pagine della Arendt possono servire da
lezione: per la filosofa, una verità contiene, inevitabilmente,
anche il suo opposto, ed è questo che rimane, alla fine della
storia; la fine «contiene necessariamente un nuovo inizio […]
questo inizio è la libertà umana, [che] è garantita da ogni nuova
nascita, è in verità ogni uomo»157.
Se il seme della violenza e della sopraffazione è radicato nei
nostri geni, lo è, però, anche quello dell’uguaglianza e del
rispetto altrui; quello che è importante, è trovare il modo si
esercitare il pensiero, di trovare degli spazi dove poter stare in
contatto con gli altri e mettere a confronto le esperienze
diverse: questo spazio è la politica, la spazio pubblico, la
partecipazione ai problemi collettivi; «l’iniziativa e la
responsabilità, il senso di essere utili e perfino indispensabili,
sono bisogni vitali dell’anima umana […] occorre che un uomo
prenda decisioni anche su problemi che gli sono estranei, ma

156
W. Sofsky, Saggio sulla violenza, Einaudi 1998, pag. 194.
157
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit. pag. 656.

95
verso i quali si senta impegnato. Infine [bisogna] chiedergli il
suo interessamento […] e fargli comprendere la parte che egli
ha nell’opera della collettività»158; quando queste responsabilità
mancano, l’uomo non si sente parte di una comunità, si sente
isolato e incompreso, sente crescere la frustrazione, l’invidia e
l’ira: tutti sentimenti che rappresentano la base per ogni
fondamentalismo e violenza.
La politica come “spazio della presenza”, in cui non c’è dominio,
ma un potere condiviso, in cui si possa realizzare la condizione
plurale degli esseri umani159, è, quindi, il solo antidoto contro
tutti i totalitarismi; lo sterminio, che essi prescrivono, comporta
la distruzione di una parte del mondo collettivo, perché, più la
politica provoca la fine di qualche mondo, più annienta se
stessa; viceversa, scrive la Arendt, «più vi sono nel mondo
popoli che intrattengono una qualche relazione reciproca, più
tra di essi verrà a crearsi del mondo, e quel mondo sarà grande
e ricco. Più punti di vista esistono in un popolo, dai quali
esaminare il mondo […] più la nazione sarà grande e
aperta»160.
Questi incitamenti ad una politica che sia «un’azione diretta ad
un bene»161, sembrano ancora più calzanti oggi, perché si
osserva la sua degenerazione verso forme violente e
annientatrici, in sempre più occasioni: questo è dovuto anche
alla continua disaffezione nei suoi confronti, in quanto, essa,
non è più considerata un modo comune per risolvere i problemi,
ma è vista come il luogo degli interessi economici, un luogo che

158
S. Weil, La prima radice, cit., pag. 25.
159
E. Parise, La politica dopo Auschwitz, cit., pag. 16.
160
D. Bidussa, La mentalità totalitaria, cit., pag. 109.
161
S. Weil, La prima radice, cit., pag. 175.

96
viene, letteralmente, comprato dai ricchi162, e che, quindi, non è
più utile alla risoluzione delle problematiche sociali; il posto
lasciato vuoto dalla politica, allora viene occupato dalla
religione o dalla presunta, giustizia, facendo crescere gli
estremismi. Di nuovo l’individuo si sente incompreso, di nuovo
reclama l’uomo che sia capace di cambiare una situazione che
vede corrotta, di nuovo si lascia conquistare da idee di
supremazia … e il cerchio, così, si stringe ancora una volta.
Dovremmo sempre ricordare che, in realtà, noi siamo «solo una
maglia nella tela della vita e che, qualsiasi cosa facciamo a
quella rete, la facciamo a noi stessi»163, che il destino di
chiunque, in qualsiasi parte del mondo, in qualsiasi epoca è il
nostro destino; per questo ricordare è fondamentale, per
questo, continuare ad interrogare la storia può essere
un’ancora di salvezza.
Affrontare questi temi, allora, significa imboccare tante strade,
significa, non solo, scontrarsi con una parte del nostro passato
che, molti, vorrebbero dimenticare, ma significa, anche,
analizzare noi stessi, porci domande sulla nostra capacità di
critica, di resistenza a quella “zona grigia” di cui parlava Primo
Levi.
I temi, tanto dibattuti, dei regimi totalitari, dei genocidi sono
sempre attuali perché, in fondo, parlano di noi, delle nostre
reazioni ed è per questo che, tanto spesso, si sentono proposte
revisioniste; questi argomenti sono come uno specchio che ci
rimanda, continuamente, immagini su di noi, su quella parte di

162
Basti considerare il finanziamento delle campagne elettorali, soprattutto
negli USA, da parte delle varie lobbies di industriali, che una volta spinto al
governo il proprio candidato, reclamano leggi su misura per i loro interessi.
163
Proverbio degli Indiani Seattle, del 1854.

97
noi che, forse, vorremo dimenticare perché orribile a vedersi.
Una specie di Ritratto di Dorian Grey da chiudere in qualche
stanza isolata da non aprire mai: il problema siamo “solo” noi e
le nostre insicurezze.
La cosa peggiore, però, è che queste paure vengono fuori, in
forme spaventosamente pericolose, anche da quelle persone
che dovrebbero, invece, essere un punto di riferimento nella
politica, nella società, nell’economia; quelle persone che
dovrebbero costituire il ponte tra noi e le istituzioni capaci di
placare queste tensioni: quando ciò accade, allora, c’è solo da
sperare che persone sensibili e intelligenti facciano sentire
anche la loro voce, così da placare quelle urla impazzite che
sempre più spesso si sentono provenire dagli ambienti della
politica; c’è solo da sperare che quelle persone, come Hannah
Arendt e Simone Weil, continuino a parlarci e ad indicarci la
strada verso una convivenza possibile.

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