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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO - BICOCCA

Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale


Corso di Laurea in Sociologia

L’IDEOLOGIA E LA TECNOSCIENZA

Relatore
Prof. ROBERTO MARCHISIO

Relazione finale di
DIEGO DE NARDI
Matr. Nr. 870899

Anno Accademico 2022-2023

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Abstract. Il seguente testo si focalizza sul rapporto tra la tecnoscienza e la categoria filosofica e
sociologica che prende il termine di “ideologia”, in particolare con riferimento all’opera marcusiana e alla
Teoria Critica della Società. L’obiettivo è quello di sviluppare una critica verso gli attuali dibattiti sul
mutamento sociale e sulle ideologie contemporanee; pertanto, saranno sviluppati dei legami tra la dottrina
politico-economica del neoliberismo e le tecnologie implementate dal finanzcapitalismo. Luciano Gallino
sarà l’altro autore di riferimento per cercare di attualizzare il pensiero della società uni-dimensionale di
Marcuse. In particolare, la tecnoscienza verrà analizzata con le categorie di “reificazione”, “ideologia” ed
“egemonia” e “razionalità strumentale” al fine di negare la neutralità della tecnoscienza e di negare anche
l’assunto della “fine delle ideologie”. Il capitolo finale offre spunti di riflessione per sviluppare la
questione rimasta aperta da Marcuse sul Soggetto storico del mutamento sociale, in rapporto con il ruolo
della tecnoscienza.

Introduzione

Pubblicato nel 1964, L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse è oggi conosciuto per
essere il libro guida del movimento del ’68. Da un lato, si può dire che tale collegamento
avvolge il libro con la potente aura del “Classico” o comunque della sua rilevanza storica.
Dall’altro, lo fa soccombere sotto ai mutamenti della storia stessa dopo il fallimento del
’68, e di conseguenza lo apre all’accusa di utopismo o anacronismo. Se comunque non è
possibile slegare un’opera dal suo contesto storico, è opportuno tuttavia ricordare che la
percezione degli scritti di un autore è sempre determinata storicamente, e che un
“Classico” è tale poiché è sempre possibile interrogarlo per confrontare le sue previsioni
del mondo con le narrazioni dominanti sull’attualità. E soprattutto, quando viene
evidenziato un legame teorico-pratico tra un’opera intellettuale e un movimento storico,
va ricordato che esso è sempre parziale: alcuni aspetti possono vengono usati per scopi di
potere, altri vengono tralasciati – (forse per gli stessi scopi, forse per altro). Quando poi
non esiste alcun programma politico in tale opera, anzi, quando questo viene sviluppato
ex post da altri soggetti diversi dall’autore stesso, il risultato può essere devastante: il
rischio è quello che la visione di un soggetto parziale non autorizzato dalla teoria si
consideri come il soggetto privilegiato e centrale di essa, che successivamente ne
riconfigura l’intera chiave di lettura. Per ironia della sorte, al best-seller del francofortese
è stata riservata una lettura “a una dimensione” (cioè meramente come il “libro della
Rivoluzione del ’68”), non meno che distorta, di esso. Sebbene su alcuni aspetti il libro
possa risultare datato, su molti altri, la maggior parte, invece, la sua attualità e
chiaroveggenza rivela la drammaticità della realtà. Il pensiero ideologico-culturale
neoliberale, ben rappresentato dallo “slogan” thatcheriano “There Is No Alternative”, non

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appare come l’inquietante realizzazione politica della “società senza opposizione” molto
più del pensiero politico della realtà in cui scriveva il filosofo? Alla luce di ciò, c’è chi ha
pensato che il post-modernismo non sia altro che la logica culturale del tardo capitalismo
(Jameson 1989). Ancor più beffarda, è la lettura delle reazioni populiste come
opposizione all’assunto della “fine di ogni ideologia”, senza riconoscere come molti dei
movimenti coinvolti, soprattutto quelli di sinistra, mostrano, alla fin fine, una “cattiva
immediatezza” capace sì di mostrare come la civiltà contemporanea non sia più nemmeno
una “levigata” non-libertà, ma sono incapaci di formulare un apparato estetico, politico,
organizzativo e soprattutto ideologico in grado di generare una concreta visione del
futuro. Questa incapacità va infatti cercata nei lasciti dell’ideologia egemonica che ha
dominato e plasmato per quasi 40 anni l’intero sistema occidentale e nella difficoltà della
critica populista di scendere in profondità (Galli 2022) e di presentarsi come veramente
universale. Del resto, molti dei movimenti della sinistra attuale sono figli dei movimenti
sociali del ’68, e il fallimento di questi ultimi potrebbe almeno far riflettere sui primi e, di
nuovo, su cosa è stato tralasciato, soprattutto dalla sociologia italiana del pensiero della
Teoria Critica della società e che oggi potrebbe valer la pena di riprendere. Questo testo
ha l’intenzione di provarci, guardando soprattutto al pensiero di Marcuse sul ruolo della
tecnologia e della scienza, che è centrale in tutti i membri della Scuola di Francorte.
L’aspetto tecnico del perpetuarsi del dominio, dove l’irrazionalità del sistema appare
sempre più evidente nella crisi climatica, è non meno importante degli altri, e se poi si
pensa che la cosiddetta Rivoluzione informatica è stata la grande alleata di un intero
assetto egemonico economico-sociale (quello neoliberale), allora il mancato studio di
essa è da considerarsi come coautore di tale perpetuarsi. La relazione stretta fra ideologia
e tecnoscienza può essere la chiave per dischiudere le dinamiche della contemporaneità e
per cercare di uscire dalla sua impasse. Che l’“ideologia neoliberale” sia ancora presente,
anzi, che sia l’unica ideologia presente è una delle tesi di questo testo, a patto che si
estenda il concetto di ideologia, intendendola come il sovvertimento della razionalità in
irrazionalità che storicamente assume sempre forme nuove, senza tuttavia riuscire a
tradursi nella razionalità oggettiva di cui parlava Horkheimer (1947); pertanto, una
rassegna del concetto di ideologia sarà effettuata nel capitolo 1. Per quanto concerne la
tecnologia e la scienza, invece, si potrebbe iniziare enunciando i principali approcci
sociologici per questi temi.

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Termine coniato da Thorstein Veblen, il “determinismo tecnologico” è il primo approccio
che affronta la relazione tra società e tecnologia e secondo il quale il mutamento sociale
deriva dalle innovazioni tecnologiche da parte “del genio spontaneo dell’inventore o
dell’attività infaticabile dell’industria, o ancora, come la conseguenza del caso”
(Chandler 2000). Spiega ancora Chandler (ibidem): “secondo il determinismo
tecnologico, particolari sviluppi tecnici, tecnologie della comunicazione o media, o, più
genericamente, la tecnologia in generale, sono le uniche o antecedenti cause dei
cambiamenti nella società, e la tecnologia è vista come la condizione fondamentale che
soggiace ai modelli di organizzazione sociale”. Questo approccio si è sviluppato
soprattutto con l’analisi dei nuovi mezzi di comunicazioni ed è arrivato, nelle sue derive
più estreme, ad affermare che tutti gli aspetti della società, il sistema culturale e il sistema
filosofico, siano determinati dal sistema tecnologico (White 1949). Per cui, i media, la
stampa, la tv e il computer avrebbero determinato le trasformazioni dei rapporti umani e
delle istituzioni. La celebre formula di Marshall McLuhan “il medium è il messaggio” sta
infatti ad indicare che “il ‘messaggio’ di un medium o di una tecnologia è nel mutamento
di proporzioni, di ritmo o di schemi che introduce nei rapporti umani” (McLuhan 1964,
16). Sempre all’interno dello stesso approccio c’è anche chi ha visto tale determinismo
tecnologico come una minaccia per la democrazia (Virilio 1990; Ellul 1954; Postman
1992) oppure come un potenziale emancipatore (Pool 1983). Ciò che tuttavia accomuna
questi due schieramenti è che “piuttosto che un prodotto della società e una parte
integrale di essa, la tecnologia viene presentata come forza indipendente, in grado di
autocontrollarsi, auto-determinarsi, auto-generarsi, auto-attivarsi, auto-perpetuarsi e auto-
espandersi” (Chandler 2000). Una variante del determinismo tecnologico è quella dello
storico della tecnologia Thomas Hughes (1983) che, considerando anche la dimensione
temporale, afferma che opposto al determinismo tecnologico non c’è il determinismo
sociologico (cioè l’idea per cui il mutamento dei rapporti sociali determina lo sviluppo
della tecnologia) ma c’è invece un rapporto reciproco e dipendente dal tempo così che
società e tecnologia si influenzano a vicenda. Approfondendo questa variante si scopre la
presenza di due momenti: il primo è di determinismo sociologico, che si ha quando una
nuova tecnologia viene creata, mentre, con il passare del tempo si arriva al “technological
momentum”, in cui la stessa tecnologia creata ora influenza maggiormente la società.

Il secondo approccio riguardo alla relazione tra scienza, tecnologia e società si distingue
in realtà in molte varianti, ma potrebbero essere tutte inserite nel paradigma del

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costruzionismo sociale. Il primo sotto-approccio è il cosiddetto “Programma Forte” della
“scuola di Edimburgo”, che mira a dischiudere la “black-box” della scienza, compresa la
matematica, per far emergere una rete di attori e relazioni che costruiscono una data
tecnologia o fatto scientifico. Barry Barnes, David Bloor, Donald Mackenzie, Steven
Shapin ed Andrew Pickering sono tra i maggiori esponenti di questo approccio con la loro
“sociologia della conoscenza scientifica” (Sociology of scientific knowledge o “Ssk”).
Sono tuttavia nati altri approcci rispetto a questo, ritenuto troppo rigido. Tra questi,
troviamo quello denominato SCOT, ovvero, in italiano, “costruzione sociale della
tecnologia”, secondo cui “il tecnologico è sociale” (dove “sociale” non si riferisce a
sociologico) (Bijker e Law 1992). Quindi, questo approccio considera sociologicamente
interessanti anche i “fallimenti” tecnologici oltre ai “successi”. Tra gli obiettivi della
teoria di Bijker (e altri, tra cui vari esponenti della scuola di Edimburgo come Mackenzie
e Wajcman), chiamata “Social Shaping of Technology” (SST) vi è certamente quello di
uscire dal determinismo tecnologico e di considerare gli aspetti tecnici, economici e
politici come indistinti dallo sviluppo tecnologico (Mackenzie e Wajcman 1999).

Infine, sempre all’interno del costruzionismo, si può trovare la “Actor-Network-Theory”


(ANT) di Bruno Latour e Michel Callon (e altri) secondo cui “la costruzione di fatti e
macchine è un processo collettivo” (Latour in Bucchi 2002, 89). Le importanti novità di
questa teoria sono una serie di messa in discussione di alcune distinzioni tradizionali della
sociologia della conoscenza scientifica. La prima è la distinzione fra scienza e tecnologia,
che Latour sostituisce con il termine “tecnoscienza” e riprendendo il concetto di “black
box” come accomunante sia un fatto scientifico che un oggetto tecnologico, i quali
vengono usati e citati senza esser messi in discussione. Un'altra distinzione da far crollare
è quella tra umani e non umani, in quanto entrambe queste categorie contribuiscono a
trasformare una serie di risultati sperimentali o un prototipo tecnologico in una “black
box” (Bucchi 2002). Ma tale “black box” non può essere utilizzata per spiegare il
processo collettivo, fatto di una complessa rete di alleanze e traduzioni, di composizione
di un fatto scientifico o di un oggetto tecnologico. Per Latour, infatti la modernità è
incentrata su una contraddizione: da un lato crea costantemente “ibridi” mescolando
natura e cultura (Aids, buco dell’ozono, mucca pazza e altri sono tutti oggetti in cui si
combinano elementi tecnico-scientifici e sociopolitici), dall’altro la modernità teorizza la
separazione e la depurazione della dimensione naturale dalla componente umana. Le
scienze naturali servono allora per criticare le false pretese del potere e le scienze umane

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per criticare quelle naturali. È questo il “doppio gioco” della modernità, a cui molta
sociologia della scienza ha abboccato, secondo Latour, usando la società per spiegare la
scienza senza riconoscere che tale separazione è essa stessa un ibrido di natura e cultura
(ibidem). È su questo punto che, secondo Latour, la sociologia della scienza ha
conosciuto la sua impasse.

Un attento lettore non troverà affatto curioso come leggendo questa minirassegna
sociologica sul rapporto scienza-tecnologia-società si è arrivati sempre più a mettere in
luce l’elemento politico della tecnoscienza e l’elemento tecnoscientifico del politico, che
sono esattamente i caratteri della modernità che si vuol evidenziare in questo testo e
motivo per cui si riprenderà un pensatore che nella tecnologia ha visto, con largo
anticipo, il nuovo sistema del dominio ma anche un potenziale di liberazione: Herbert
Marcuse. Successivamente, nel capitolo 3 si riprenderà l’analisi della società nel
finanzcapitalismo descritta da Luciano Gallino (2011) cercando di attualizzare la teoria
marcusiana e soprattutto il ruolo delle nuove tecnologie informatiche e della
comunicazione (o “ict”). L’ultimo capitolo è dedicato alla critica delle “ideologie”
contemporanee, del populismo come strategia “discorsiva” per il mutamento sociale e al
ruolo ideologico che la tecnologia può invece svolgere per trasformare la realtà sociale.
Di fronte a ciò si può allora concludere con una citazione di una delle più recenti voci sul
tema: “l’unica cosa che non possiamo fare in risposta ai significati e alle pratiche che
interpellano il corpo e la mente è rimanere neutrali” (Haraway in Bucchi 2002, 168).

CAPITOLO 1 – IDEOLOGIA

1.1. Ideologia, reificazione e alienazione: una breve rassegna

Prima di immettersi nel lavoro di Marcuse, è necessario cercare di riassumere il dibattito


filosofico su due concetti che sono oggi o in forte disuso dalla sociologia oppure ab-usati
e dati per scontati: ideologia e reificazione.
Si deve quindi iniziare con il pensiero Marx ed Engels, e in realtà con un altro termine
chiave: alienazione. Termine hegeliano, Marx lo ribalta, evidenziando che l’alienazione,
che per Hegel coincide con quel “farsi altro” del soggetto in un oggetto che lo nega - cioè
l’oggettivazione, frutto del lavoro umano-, è da ricercarsi nelle condizioni concrete e
storicamente contingenti in cui gli uomini vivono. L’uomo è quindi alienato non a causa

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del suo lavoro, ma a causa del suo lavoro per un altro uomo, per cui la “riappropriazione”
del suo oggetto può risolversi solo con un atto pratico, con una rivoluzione. Questo è il
materialismo storico, che presuppone che esista una struttura della società data dai modi
concreti in cui il lavoro viene diviso, insieme con i modi in cui viene divisa la proprietà, e
insieme con le tecniche e i mezzi di produzione che di volta in volta sono storicamente
disponibili, ed una sovrastruttura, che è determinata, in ultima istanza, dalla prima, e che
concerne tutte le rappresentazioni religiose, politiche, filosofiche, giuridico-istituzionali e
morali prodotte dagli uomini entro una data struttura e che trasformano la condizione
storica degli uomini in uno specchio deformato che la rende universale, cioè eterna
(Jedlowski 1998). Approfondendo ed estendendo ancora questo concetto, si arriva a
quello di ideologia, che è un “insieme di proposizioni che rappresentano il mondo in
modo parzialmente falsificato: una rappresentazione del mondo che descrive e insieme
occulta le sue condizioni reali” (ibidem, 46). Potremmo quindi definire l’ideologia come
una forma di pensiero che ipostatizza lo status quo di una data società, e che ha luogo
nella sovrastruttura ed è, tipicamente, prodotta dalla classe dominante, la quale vuole
mantenere la forma esistente di società e il cui pensiero è, quindi, ideologico. Per
esempio, l’economista che afferma che il valore (di scambio) è proprietà delle cose è
ideologia, perché mentre “eternizza” e “naturalizza”, con il suo pensiero, una determinata
modalità di interazione interumana, in questo modo, e in virtù del potere scientifico di
stabilire cosa è obiettivo, sta legittimando e riproducendo lo status quo reificato. Nel
mercato, i rapporti tra uomini diventano rapporti tra cose: questa è la reificazione
marxiana, che “è in primo luogo una destoricizzazione e una naturalizzazione di qualcosa
che è invece il portato di un certo tipo (storicamente generatosi) di relazione sociale”
(Petrucciani. In altre parole, una specifica forma storica (contingente, determinata, non
eterna, modificabile), come il mercato, viene fatta collassare su un contenuto astorico,
come la produzione e distribuzione dei mezzi di sussistenza, e in questo modo
eternizzata: “il pensiero reificante identifica quella che è solo una specifica forma con il
contenuto e in tal modo la eternizza” (Petrucciani 2012, 327). Il pensiero ideologico è
anche pensiero reificante. È bene ricordare però che anche i dominati, dice Marx,
possono condividere la stessa ideologia, incapaci di riconoscere il loro interesse, per cui
l’ideologia è per loro “falsa coscienza”. Per dare una definizione più generale
dell’ideologia per Marx ed Engels, la si potrebbe descrivere come il punto di vista di un
soggetto parziale che si pretende universale, dimenticando appunto l’origine parziale –
soggettiva – del suo pensiero. Il punto di vista del proletariato, quando ha piena coscienza

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di sé, non merita di essere definito ideologia in quanto è l’unica parte che può conoscere
il tutto.
Per Lùkacs invece l’ideologia è un’arma per esprimere la propria volontà politica, il
marxismo (criticato come ideologia da Pareto e Mosca, ma anche da Mannheim) è
“l’espressione ideologica del proletariato” (Galli 2022, 35). Lukàcs parla anche di
reificazione in Storia e coscienza di classe del 1923, secondo il quale essa sarebbe
l’oggettivarsi del mondo prodotto dagli uomini in una realtà che li domina. Il problema
della teoria della reificazione di Lukàcs del 1923 era quello di non aver distinto fra
estraniazione (Entfremdung; o alienazione) e reificazione, e di questo si accorse pure lui
molti anni dopo. Tuttavia, Andrew Feenberg (2011) sostiene che tale rivisitazione ha
conseguenze molto più grandi. Cominciando con ordine, Lukàcs sostiene che la falsa
coscienza non è una mera illusione, e che la strutturazione reificata della società dipende
dalla reificazione della coscienza. Feenberg reinterpreta Lukàcs, accusato di idealismo o
comunque di anacronismo da Honneth e Habermas, trovando nella sua teoria della
reificazione una possibilità per sviluppare una nuova forma di “razionalità sociale”.
Lukàcs, infatti, chiama questo tipo di percezione/struttura una “forma di oggettività”: “il
capitalismo ha una forma di oggettività reificata che è percepita e agita su di una
disposizione reificata, e ciò chiude il cerchio della costruzione sociale” (ibidem, 6).
Quando questa forma di oggettività si rompe, il sistema è minacciato. Formalmente, la
reificazione è totale nel senso che essa dà una “forma di oggettività” sia agli oggetti che
ai soggetti nella società capitalista, ma forma e contenuto non sono identici. Il contenuto
supera la forma di oggettività e ha il potere di modificarla. Il proletariato avrebbe la
capacità di trasformare il quantitativo in qualitativo. La rivoluzione consiste soprattutto in
questo processo di modificazione.
Per Lukàcs, infatti, il problema, ciò che sta alla base della “forma di oggettività” che
domina gli uomini, sta nella razionalità dei sottosistemi, fortemente organizzati e nella
irrazionalità dell’insieme di questi sistemi, che non sono organizzati. Ciò fa sprofondare
gli uomini ad uno stato “contemplativo” verso il mondo che hanno creato e che non
riescono a modificare, ma solo a manipolare sottostando, e questo è decisivo, alle sue
leggi. Secondo Feenberg, ciò permette a Lukàcs di spostare la sua attenzione alla
dinamica della realtà sottodeterminata che è stata reificata.
Per Lukàcs quindi il “male” risiede in una specifica oggettività e “distaccamento” che lui
attribuisce al pensiero reificato, che è quello della scienza moderna che vede il mondo
come dominato da leggi oggettive e universali e nell’imitazione di tale scienza da parte

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delle scienze sociali ed economiche della borghesia. Lukàcs critica una specifica “forma
di oggettività” causata dalla razionalità strumentale e che fa assomigliare il mondo
sociale sempre più, a causa dello sviluppo del processo di razionalizzazione (che tuttavia
è sempre stata strumentale) a una “seconda natura”. Il feticismo delle merci (cioè il tipo
storico di reificazione nel capitalismo) di Marx, allora, ha due aspetti:
il dominio della cosa sull’uomo (Entfremdung) e l’apparenza (“necessaria”) per cui la
relazione tra uomini si occulta dietro il rapporto tra cose (Verdinglichung)” (Petrucciani
2012).
Un tipo specifico di reificazione (cioè la mercificazione delle cose) permette, legittima e
occulta l’alienazione, cioè lo sfruttamento o in generale il dominio dell’uomo sull’uomo,
che nasce da una specifica relazione sociale. L’ideologia è allora un pensiero reificante
che insieme permette, occulta, e legittima una specifica forma di relazione sociale: la
forma di dominio dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura.
Secondo Luckmann e Berger (1966), la reificazione può essere presente in tutte le
società, essa è una “modalità della coscienza” per cui si ha una estremizzazione
dell’oggettivazione in cui i fenomeni umani vengono visti come una fatticità non-umana.
Questo per loro può produrre il paradosso di generare una realtà che nega gli stessi autori.
Questo paradosso può essere ricondotto all’alienazione, anche se gli autori si sono
rifiutati di utilizzare questo termine. Durkheim potrebbe pertanto aver ipostatizzato tale
oggettivazione estrema identificandola con l’estraniazione degli uomini rispetto alla
società che rimane un prodotto umano.
I due riprendono allora Marx e la denuncia della reificazione della società mercantile, ma
aggiungono che altre società possono sperimentare altri tipi di reificazione (Petrucciani
2012). La reificazione, inoltre, può esserci sia a livello pre-teoretico che teoretico (cioè a
livello scientifico), in questo caso si tratterebbe di una falsa e reificante ipostatizzazione,
o pensiero reificante (Berger e Luckmann 1966).
Ma se la reificazione si può superare con una maggior conoscenza della dialettica fra
cosa gli uomini pensano e cosa fanno, come si supera invece l’estraniazione? Scrive
Petrucciani: “superare la reificazione significa cambiare un modo di vedere le cose (non
privo di appigli nel modo in cui le cose stesse stanno); superare la Entfremdung significa
cambiare le cose stesse” (Petrucciani 2012, 340). La razionalità del piano, la burocrazia
socialista, estrania gli uomini così come la “anarchia del piano” li estrania.
L’interpretazione di Lukàcs da parte di Feenberg sembra già rispondere a questa
domanda: attraverso la dinamica dialettica della sottodeterminazione della vita. Secondo

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Feenberg, le tre principali basi della società moderna, cioè l’economia, la tecnologia e
l’amministrazione, sono reificate nel senso che l’individuo non può alterarne le leggi, ma
solo apprenderle e usarle per scopi personali. Il capitalista, per esempio, non vuole
controllare i flussi finanziari, ma sottostare a essi per estrarre più valore.
Feenberg a proposito parla della sottoderminazione dei sistemi in opposizione ad
Habermas, secondo cui la reificazione starebbe nella colonizzazione della razionalità
strumentale in sfere non appropriate, cioè nel mondo della vita che dovrebbe riprodursi
con un altro tipo di agire: l’agire comunicativo. Anche Honneth rivolge questa accusa ad
Habermas: “Technical rules incompletely prescribe the respective form of their
transposition into concrete actions. Possibilities of action are closed not by a repeated
recourse to purposive-rational considerations but only through the application of
normative or political viewpoints” (Honneth in Feenberg 2011). Secondo Feenberg, ciò
che Honneth dice qui dei sistemi può essere applicato egualmente alla tecnologia. Di qui,
l’azione politica formerebbe i sistemi alterandone le regole sotto le quali essi operano
senza per questo distruggere la loro forma razionale. Questo significa che i sistemi
devono essere valutati politicamente. Secondo Feenberg, il concetto di reificazione di
Lukàcs, che ha colto questa sottodeterminazione, permette un uso più esteso di quello di
Honneth, che non vede in questa sottoderminazione la reificazione (che anzi delega alla
sola sfera intersoggettiva quando si ha “l’oblio del riconoscimento originario”) e
suggerisce un percorso verso una generale trasformazione della modernità e l’emergenza
di una nuova forma di razionalità sociale. A partire da questa interpretazione di Lukàcs si
vedrà nel capitolo successivo come Marcuse aveva già sviluppato questo ultimo punto in
relazione alla tecnologia e allo sviluppo di una nuova scienza che dovrebbe emergere (o
essere sottodeterminata) da una Lebenswelt estetica invece che da una Lebenswelt di
dominio. Ciò che c’è di importante in tutto questo è il legame tra un tipo specifico di
pensiero reificante, quello della scienza moderna che vede la natura seguire delle ferree
leggi universali, e che finisce per dominare la natura e di conseguenza l’uomo, il quale
entra di conseguenza in uno stato “contemplativo” e passivo verso un mondo di cui non
solo si è scordato di essere autore (reificazione) ma che lo opprime pure (alienazione).
La rivisitazione del pensiero di Lukàcs da parte di Feenberg permette di comprendere
ulteriormente come la politica, l’agire degli uomini per far valere il loro punto di vista -
dialetticamente mediato - sul mondo contro un altro, lotti primariamente contro la
reificazione, contro la necessità delle cose per cercare, poi, di cambiarle. Esistono però
delle società dove la reificazione tende a divenire totale, e dove la politica deve sottostare

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a tale reificazione, non deve cioè far capire che le relazioni tra uomini sono relazioni
sociali ma anzi che il loro rapporto è governato da leggi naturali, e quindi i problemi
politici vanno affrontati in modo tecnico, poiché così si presentano alle coscienze
reificate. Non è un caso che in una siffatta società, che è quella del capitalismo
neoliberale e che nasconde dietro alla razionalità tecnologica - cioè alla pura razionalità
formale che valuta i mezzi solo in relazione alla loro efficacia per il fine da perseguire
(che rimane un fine di profitto, quindi di dominio) - la sua “forma di oggettiva”, possa
generare lo slogan: “There is No Alternative”. Tale situazione merita una
riconsiderazione del concetto di ideologia. Questa è già stata fornita da diversi autori
come Gramsci, Adorno e la Scuola di Francoforte. Gramsci introduce il celebre termine
di “egemonia culturale”, che sarebbe la capacità di diffondere all’interno di tutta la
società una cultura, un “senso comune”, congruente con i propri valori ed i propri
interessi al fine di ottenere un consenso, attivo o passivo che sia (Jedlowski 1998).
Adorno e Horkheimer invece sostengono che nella società industriale avanzata le nozioni
marxiane di ideologia e di proletariato non reggano più. Per loro si è affermata una
“civiltà permeata di una narrazione compatta e autogiustificante in cui la lotta di valori e
interessi è neutralizzata in una mediazione universale (il ‘sistema’) che è pura
immediatezza” (Galli 2022, 58). La cultura non sembra più trascendere la realtà, pertanto
non ci sarebbero più ideologie, ma soltanto l’industria culturale o propaganda fascista e
comunista. Così, “esiste un’unica mega-ideologia strutturale che coincide col reale: ‘la
realtà data diventa ideologia di sé medesima’” (ibidem, 59). Ciò significa che tutta la
realtà è sussunta dentro una idea oppure (ma ciò non cambia il significato) è totalmente
schiacciata nell’immanenza. L’ideologia è un’intera struttura di dominio, una reificazione
specifica che aliena gli uomini, che ha caratterizzato tutte le società della storia fino ad
ora: è il ribaltarsi della razionalità in irrazionalità. La teoria che svela la presenza
dell’irrazionalità nella razionalità, che svela che essa è stata sempre razionalità
strumentale, è la teoria critica, che implica nel suo metodo un giudizio di valore, una
visione di quale dovrebbe essere il giusto mondo sociale, che è esattamente ciò che
manca alla razionalità strumentale. Per Marcuse, infatti, il capitalismo americano non è
meno totalitario rispetto al nazismo o al comunismo sovietico, l’unica differenza è che il
primo governa con il desiderio, mentre i secondi con il terrore. La democrazia è
totalitaria, e l’ideologia è esattamente la “monodimensionalità” della società, la
mancanza di ideologia (di un pensiero alternativo nella sua stessa struttura, nella sua

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teoria come nel suo metodo), o il collasso della sovrastruttura nella struttura. L’ideologia
è, come per Lukàcs, una “apparenza socialmente necessaria”.
Si cercherà di utilizzare questo concetto applicandolo alla ideologia politica
contemporanea, quella neoliberale, e il suo collegamento con la tecnologia e la scienza,
che secondo Marcuse (1964, 175) è “il maggior veicolo di reificazione”. Inoltre, sarà
necessario riprendere ed estendere il concetto di “egemonia” di Gramsci anche alla
tecnologia e alle infrastrutture materiali per definire come è stata creato il consenso,
attivo e passivo, di tutti verso lo status quo per almeno 40 anni. Il concetto di “forma di
obiettività” di Lukàcs, rielaborato da Feenberg, sarà infine ripreso per cercare di capire
come possa avvenire il mutamento sociale.

CAPITOLO 2 – HERBERT MARCUSE: LA TECNOLOGIA TRA


DOMINIO E UTOPIA

2.1. L’intreccio fra tecnologia e scienza

La Teoria Critica analizza la società a partire da due giudizi di valore: il primo è che “la
vita umana è degna di essere vissuta” mentre il secondo è che “in una data società
esistono possibilità specifiche per migliorare la vita umana e modi e mezzi specifici per
realizzare codeste possibilità” (Marcuse 1964, 4). Soprattutto quest’ultimo gioca un ruolo
chiave per la critica della società industriale avanzata: per Marcuse il progresso tecnico,
che avviene sia all’interno della produzione sia all’esterno, contiene il mutamento sociale
e amplifica la repressione mentre aumenta anche l’efficienza produttiva e il benessere,
per cui il proletariato non può essere più il soggetto privilegiato della rivoluzione. Essi
possono fare questa solo se avvertono il bisogno di mutare il loro modo di vita, di
convertire il loro interesse immediato in un interesse reale, che la società costituita cerca
di reprimere attraverso la “conquista scientifica dell’uomo” (ibidem, 8). L’apparato
produttivo del sistema (dato dall’integrazione delle diverse sfere istituzionali), per
Marcuse, “tende a diventare totalitario nella misura in cui determina non soltanto le

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occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le
aspirazioni individuali” (ibidem, 9), eliminando così differenze tra esistenza privata ed
esistenza pubblica. In tutto questo, la tecnologia “serve per istituire nuove forme di
controllo sociale e di coesione sociale, più efficaci e più piacevoli” (ibidem, 9). Di
conseguenza, Marcuse sostiene che:

“la nozione tradizionale della ‘neutralità’ della tecnologia non può essere sostenuta.
La tecnologia come tale non può essere isolata dall’uso cui è adibita; la società
tecnologica è un sistema di dominio che prende ad operare sin dal momento in cui
le tecniche sono concepite ed elaborate. Il modo in cui una società organizza la vita
dei suoi membri comporta una scelta iniziale tra alternative storiche che sono
determinate dal livello preesistente della cultura materiale ed intellettuale. La scelta
stessa deriva dal gioco degli interessi dominanti. Essa prefigura modi specifici di
trasformare e utilizzare l'uomo e la natura e respinge gli altri modi. E’ un ‘progetto’
di realizzazione tra altri. Ma una volta che il progetto è diventato operativo nelle
istituzioni e relazioni di base, esso tende a diventare esclusivo e a determinare lo
sviluppo della società come un tutto. Come universo tecnologico, la società
industriale avanzata è un universo politico, l'ultimo stadio della realizzazione di un
progetto storico specifico, vale a dire l'esperienza, la trasformazione,
l'organizzazione della natura come un mero oggetto di dominio. Via via che il
progetto si dispiega, esso plasma l'intero universo del discorso e dell'azione, della
cultura intellettuale e di quella materiale. Entro il medium costituito dalla
tecnologia, la cultura, la politica e l'economia si fondono in un sistema
onnipresente che assorbe o respinge tutte le alternative. La produttività e il
potenziale di sviluppo di questo sistema stabilizzano la società e limitano il
progresso tecnico mantenendolo entro il quadro del dominio. La razionalità
tecnologica è divenuta razionalità politica.” (ibidem, 10).

Questo passaggio segna diversi elementi che verranno trattati in questo testo: la non-neutralità
della tecnologia, l’intreccio, entro il medium della tecnologia, tra la politica e l’economia e la
cultura, che conduce alla costruzione di un universo tecnologico totalitario che è nientedimeno
che l’universo politico del dominio dell’uomo sull’uomo e che ha, da sempre, legato la
razionalità pretecnologica con quella tecnologica. Ciò significa che la Ragione è sempre stata
razionalità strumentale e, ben più importante, che tale razionalità è sempre stata irrazionale (è in
fondo una delle tesi fondamentali di Adorno e Horkeheimer, 1947), poiché produce esiti contrari
alla vita dell’uomo. È ovviamente un giudizio di valore sostenere ciò, e si scontra con
l’avalutatività di Weber, a cui Marcuse ha specificamente mosso una critica e mostrato come il

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sociologo tedesco abbia ipostatizzato l’industrializzazione e la burocrazia come destino del
mondo moderno. In Weber, infatti, l’analisi formale del capitalismo diviene, attraverso
l’identificazione della ragione tecnica con quella capitalistico-borghese, una analisi che è già
valutativa: nella razionalità formale della tecnica vi si possono trovare i valori specifici del
capitalismo. Scrive Marcuse (1968, 22) che: “il concetto di ragione tecnica è forse esso stesso
ideologia. Non soltanto la sua applicazione, ma anche la tecnica è dominio (sulla natura e sugli
uomini), dominio metodico, scientifico, calcolato e calcolante. I fini e gli interessi determinati
non sono ‘addizionali’ e imposti dall’esterno, ma sono già compresi nella costruzione
dell’apparato tecnico; la tecnica è un progetto storico-sociale; in essa è proiettato ciò che una
società, e gli interessi che la dominano, pensano di fare degli uomini e delle cose. Un tale
‘scopo’ del dominio è ‘materiale’ e appartiene alla forma stessa della ragione tecnica”. Tuttavia,
da questa materia sociale irriducibile, Weber ha fatto astrazione, poiché non ha denunciato
l’astrazione che il capitalismo stesso fa dell’uomo e ha descritto come necessità tecnica la
separazione dai mezzi di produzione e l’impossibilità di uscire dalla “gabbia d’acciaio” del
capitalismo. Infatti:

“la razionalità formale del capitalismo celebra il suo trionfo nei calcolatori
elettronici del tutto indifferenti allo scopo per il quale operano, introdotti come
potenti strumenti di una politica di manipolazione […]. Ma se la ragione tecnica si
rivela come ragione politica, ciò avviene soltanto perché fin dall’inizio essa era
questa ragione tecnica e questa ragione politica: determinata e limitata dal preciso
interesse del dominio. In quanto ragione politica, la ragione tecnica è storica. Se la
separazione dai mezzi di produzione è una necessità tecnica, non lo è
l'asservimento organizzato attraverso di essa. Sulla base delle proprie conquiste - la
meccanizzazione produttiva e calcolabile, essa contiene la possibilità di una
ragione qualitativamente diversa, in cui la separazione dai mezzi di produzione
diventa la scissione degli uomini dal lavoro socialmente necessario, ma
disumanizzante. Nello stadio della produzione automatica, amministrata da uomini
ormai in tal modo liberati, le finalità formali e materiali non sarebbero piú
necessariamente ‘antinomiche’ - né la ragione formale si imporrebbe
‘indifferentemente’ al di sopra e al di sotto degli uomini. La macchina come
‘spirito concretizzato’ non è neutrale; la ragione tecnica è la ragione di volta in
volta socialmente dominante: essa può essere cambiata nella sua stessa struttura.
Come ragione tecnica essa può essere trasformata in tecnica della liberazione. Per
Max Weber, questa possibilità era utopia” (ibidem, 23).

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L’indifferenza che sovrasta gli uomini, di cui parlava Weber con i termini di “burocrazia” e
“gabbia d’acciaio”, è l’estraniazione che secondo lui non può essere superata. Tali elementi
incrementano il loro dominio attraverso la trasformazione tecnologica della natura che a sua
volta trasforma la base del dominio, sostituendo la dipendenza personale a quella dall’ordine
oggettivo delle cose (come il mercato), che nella società industriale avanzata è smisuratamente
più efficace. Nella citazione poco sopra è stato anticipato come i risultati poco scientifici (su
tutti, lo sviluppo della bomba atomica) della razionalità scientifico-tecnologica non derivano da
una specifica applicazione della scienza da parte della società e che al contrario sono frutto della
stessa origine metodologica della scienza pura. Marcuse segna l’intreccio tra scienza e tecnologia
con i seguenti elementi del metodo scientifico: la quantificazione della natura e la successiva
spiegazione matematica di essa, che ha separato la scienza dall’etica e che implica che la
razionalità scientifica è divenuta neutrale e che “ciò che la natura (incluso l’uomo) può
prefiggersi di ottenere è scientificamente razionale soltanto nei termini delle leggi generali del
moto – fisiche, chimiche, biologiche” (Marcuse 1964, 155). Al di fuori di questa razionalità si
vive nel mondo dei valori, dice Marcuse, che sono soggettivi poiché separati dalla realtà
oggettiva; anche l’a priori formale della scienza (sia pura sia applicata) e l’operazionismo delle
scienze naturali sono elementi che segnano tale intreccio e fanno dipendere il mondo oggettivo,
paradossalmente, dal soggetto, nel senso che “la realtà scientifica appare essere una realtà creata
dall’intelletto” (ibidem, 157). La natura insomma viene concepita dalla scienza come strumento
e tale concezione “si comporta come un a priori – predetermina l’esperienza, anticipa la
direzione in cui trasformare la natura, organizza l’insieme” (ibidem, 159). Ciò significa che “la
scienza della natura si sviluppa sotto la spinta di un a priori tecnologico che scorge nella natura
null’altro che uno strumento potenziale, materia di controllo e di organizzazione” (ibidem, 159).
Per Marcuse la concezione che la scienza e la società siano due entità, in ultima analisi, separate
l’una dall’altra è inadeguata: pensiero scientifico e sua applicazione, universo del discorso
scientifico e quello del discorso e comportamento ordinari, sono tutti elementi sussunti
all’interno della medesima logica e razionalità del dominio. Infatti, il processo che ha dato
origine al metodo scientifico sopra descritto perviene ad una concezione dell’oggettività che è
del tutto intellettuale e non pratica. Ciò sta a significare che “[…] la scienza è diventata in sé un
fatto tecnologico” (ibidem, 163), e la razionalità tecnologica è allora definibile come la nuova
razionalità della scienza, che è un “mezzo che si presta a tutti gli usi e a tutti i fini – strumento
per sé, ‘in sé’” (ibidem, 163). La scienza che manipola tecnicamente la materia risponde e crea
una “realtà tecnologica”: la fisica matematica, la scienza pura e i suoi concetti non hanno
ovviamente fini in sé, ma si muovono entro un “orizzonte strumentalista” dal quale astraggono.

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È quindi proprio la “neutralità” della materia e della scienza a costituire la tragedia della
tecnologia: “è precisamente il suo carattere neutrale che rapporta l’oggettività ad uno specifico
Soggetto storico, cioè alla coscienza che prevale nella società dalla quale e per la quale la
neutralità è stabilita” (ibidem, 164). E mentre la scienza liberava la natura da ogni fine intrinseco
e riduceva le qualità secondarie della materia a primarie (quantificabili), la società faceva lo
stesso ponendo “gli uomini in rapporto tra loro in riferimento a qualità quantificabili, come unità
di una astratta forza lavoro, calcolabile in unità di tempo” (ibidem, 164). Tra questi due processi
di quantificazione, e quindi anche di reificazione, esiste un rapporto causale? Marcuse risponde
evidenziando il “carattere strumentale interno della razionalità scientifica, in virtù della quale
essa si pone come una tecnologia a priori, e come l’a priori di una tecnologia specifica – ovvero
la tecnologia come forma di controllo e di dominio sociali” (ibidem, 166). Vale a dire che la
ragione teorica della scienza, rimanendo pura e neutrale, è entrata al servizio della ragione
pratica del dominio: “oggi, il dominio si perpetua e si estende non soltanto attraverso la
tecnologia ma come tecnologia, e quest’ultima fornisce una superiore legittimazione al potere
politico che si espande sino ad assorbire tutte le sfere della cultura” (ibidem, 166). Ma il legame
tra la ragione teorica e quella pratica è ancora più forte secondo Marcuse, che riprende Husserl.
Secondo quest’ultimo, infatti, il “successo scientifico rimandava ad una pratica pre-scientifica,
che costituiva il fondamento originale (Sinnesfundament) della scienza galileiana” (ibidem, 169),
che tuttavia ha messo in ombra, nel suo sviluppo, tale pratica prescientifica che avviene nella
Lebenswelt (mondo-della-vita). La Lebenswelt è la realtà empirica quotidiana come è data
nell’esperienza immediata, pratica, pre-teoretica, in cui vivono gli uomini. Per Husserl, la
ragione è l’idea che ha guidato tutte le società occidentali a partire da quella greca, e trova nella
razionalità scientifica il suo compimento finale in cui verità e validità contengono in sé illusione
e repressione. La ragione teoretica e pratica è intesa allora come progetto, “nel senso che questa
idea della razionalità e la sua applicazione è un modo specifico di sperimentare, interpretare,
organizzare e cambiare il mondo, uno specifico progetto storico fra gli altri possibili, non l’unico
progetto necessario” (ibidem, 171). Questo progetto ha trovato compimento “con la fondazione
della scienza moderna, vale a dire nell’interpretazione matematica della natura di Galileo”
(Marcuse 1968, 60), che per Husserl è anche la sua caduta, poiché si è separata dalle idee
originali della ragione, che dovevano fornire i fini, gli obiettivi e il significato della scienza. Ora,
questo carattere strumentale della razionalità -cioè separato dai fini – diventa quello della
Lebenswelt stessa da cui è sorto e “ciò che accade nello sviluppo della relazione fra la scienza e
la realtà empirica è l’abolizione della trascendenza della ragione” (ibidem, 61). Il metodo
scientifico è infatti caratterizzato da 2 processi: la riduzione dell’oggettività al soggetto

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(l’operazionismo), premessa per la quantificazione scientifica e la concomitante riduzione delle
qualità secondarie in qualità primarie (quantificabili), ovvero la “svalutazione dell’esperienza
sensibile rigidamente individuale come non razionale” (ibidem, 61). Come risultato di questo
duplice processo, la realtà è ora idealizzata in una “copia matematica”: tutto ciò che è dimostrato
matematicamente appartiene ora alla vera realtà della natura. Così, e questo segna la differenza
della scienza moderna, “il regno delle idee della scienza galileiana non include più le forme
morali, estetiche e politiche, le idee di Platone” (ibidem, 62). Di conseguenza il fondamento
della validità della scienza moderna rimase occulto. La relazione fra scienza e realtà empirica per
Husserl investe effettivamente la struttura e il significato dei concetti scientifici. Il fondamento
prescientifico della scienza si trova originariamente nella geometria, come arte della
“misurazione” della realtà empirica, che ha “promesso e in realtà raggiunto la calcolabilità
progressiva, sottomettendo la natura ad una ‘previsione’ sempre più esatta nel dominio e nell’uso
della natura”. Così ora la geometria (e la matematica, che è la sua estensione), “può fornire e di
fatto fornisce […] metodi ed approssimazioni sempre più esatte, sempre più calcolabili per la
trasformazione e l’estensione della Lebenswelt data, ma rimane per sempre incapace di definire,
anticipare o cambiare, con i suoi concetti, i fini e gli obiettivi di questa trasformazione” (ibidem,
62). Quindi, la scienza non può trascendere la Lebenwswelt da cui è nata, pertanto la scienza (ed
anche la tecnologia), rimangono così nello stato “contemplativo” di cui parlava Lukàcs, soggette
alle leggi stesse che sono emerse da una specifica relazione tra uomini e dagli interessi del
dominio. La scienza contiene i fini e i valori della pratica specifica da cui è nata, ma astrae da
essi, occultandoli tramite l’idealizzazione di essi. In questa specifica astrazione, “le forme ideali
quantificate sono astratte dalle qualità concrete della realtà empirica, ma quest’ultima rimane
operativa nei concetti stessi e nella direzione in cui si muove l’astrazione scientifica” (ibidem,
63). “In questo modo, la realtà empirica, prescientifica entra essa stessa nell’impresa scientifica e
ne fa un progetto specifico all’interno del progetto generale prestabilito della realtà empirica.
Comunque, la forma astratta, ideale, matematica in cu la scienza trasforma l’empirico, nasconde
questa relazione storica” (ibidem, 64). Esiste quindi uno scopo prescientifico nella struttura
concettuale della scienza, che è la misurazione: essa viene fatta propria dal metodo scientifico
che così mantiene la sua struttura prescientifica e tecnica, e dove l’aumento della prima maschera
lo sviluppo della seconda. Ciò significa, per esempio, che “la geometria classica ‘idealizza’ la
pratica dell’agrimensura e della rilevazione del terreno […]” (Marcuse 1964, 170). E l’algebra, a
sua volta, è la teoria e la tecnica per “idealizzare” la nuova Lebenswelt, che costituisce un
particolare “modo di vedere” il mondo, che anticipa e progetta. La scienza galileiana è la scienza
che anticipa e progetta con metodo scientifico ma soprattutto è la tecnologia di questa nuova

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Lebenswelt: “[di] questo progetto, la quantificabilità universale è una premessa necessaria per il
dominio della natura. Le qualità individuali non quantificabili ostacolano il cammino ad
un'organizzazione di uomini e cose impostata secondo la forza, misurabile, che si può estrarre da
essi. Ma questo è un progetto specifico, sociale e storico, e la coscienza che lo intraprende è il
soggetto occulto della scienza galileiana; è la tecnica, l'arte dell'anticipare estesa all'infinito”
(ibidem, 171). Ora, è necessario sostenere, come fa Marcuse, che la scienza moderna possiede
una validità obiettiva immensa, ma “la scienza, in virtú del suo metodo e dei suoi concetti, ha
progettato e promosso un universo in cui il dominio della natura è rimasto legato al dominio
dell'uomo - legame che rischia di essere fatale a questo universo intero. La Natura,
scientificamente compresa e dominata, ricompare nell'apparato tecnico di produzione e
distruzione che sostiene e migliora la vita degli individui nel mentre li assoggetta ai padroni
dell'apparato. Così la gerarchia razionale si fonde con quella sociale” (ibidem, 173). Marcuse
critica quindi Husserl sul metodo per poter far rientrare la filosofia nella scienza - che consiste in
una duplice sospensione la prima è l’epoche, la seconda è la sospensione della doxa -
giudicandolo ideologico. Ritiene infatti che a questo metodo vada affiancata l’analisi critica della
reificazione, che avviene sia a livello teoretico che preteoretico. Nel fondare l’analisi sulla
relazione costitutiva soggetto-oggetto, la duplice epochè husserliana maschera la reificazione, in
quanto cerca di risolvere il problema della scienza moderna in modo solamente filosofico,
studiando i modi con cui gli uomini formano il loro mondo e la scienza stessa. Marcuse invece
rifiuta di arrivare a una teoria della conoscenza, o di fare una analisi sociologica, in quanto
ritiene che se la scienza occulta e rafforza la Lebenswelt da cui è nata, per cui ciò non può essere
risolto a partire dallo studio dell’interpretazione che l’uomo fa del mondo. L’interesse di
Marcuse di non accettare completamente Husserl è sia una questione politica - la volontà
rivoluzionaria di Marcuse -, sia una questione teoretica, l’impossibilità di risolvere la forma
specifica della reificazione a partire dallo studio dell’interpretazione che gli uomini hanno del
mondo. Il problema non è che la scienza si “dimentica” della sua origine preteoretica, sociale,
umana, è invece che essa “preclude” qualsiasi interpretazione alternativa a causa di
un’oggettivazione specifica che aliena gli uomini. La soluzione per Marcuse avverrà dalla
nascita di un Soggetto storico alternativo capace di fare richieste qualitativamente diverse alla
tecnoscienza, in quanto essa nelle sue conquiste (su tutte, la possibilità concreta di una completa
automazione del lavoro) potrebbe permettere la nascita di bisogni qualitativamente diversi da
quelli indotti dal capitalismo. La scienza moderna è allora indistinguibile dalla tecnica, e tale
tecnica è una tecnologia per poter trasformare e dominare la natura: in questo senso, alla luce di

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questo supporto filosofico, si parlerà nel testo di tecnoscienza. Ora è necessario sviluppare
meglio il secondo intreccio che avviene tra la tecnoscienza e le altre sfere della società.

2.2. L’intreccio fra la tecnoscienza, la politica e la cultura.

È stato detto nel paragrafo precedente che la tecnologia è l’a priori della scienza, ora è
importante aggiungere che anche “l’a priori tecnologico è un a priori politico in quanto la
trasformazione della natura implica quella dell'uomo, e in quanto le ‘creazioni dell'uomo’ escono
da un insieme sociale e in esso rientrano” (Marcuse 1964, 161). Certamente è il modo sociale di
produzione, e non la tecnica, ad essere il motore del mutamento sociale. Tuttavia, come
suggerisce Marcuse: “quando la tecnica diventa la forma universale della produzione materiale,
ciò delimita un’intiera cultura; configura una totalità storica – un ‘mondo’”. La tecnica, si è già
visto, non è definibile come neutrale sebbene possa apparire tale, oppure la sua neutralità, la sua
oggettività, è anche la sua “politicità”. Per chiarire meglio: “soltanto nel medium della tecnologia
l’uomo e la natura diventano oggetti fungibili di un’organizzazione” (ibidem, 175). L’importanza
di questa affermazione è seguita da una altra, ancor più importante: “la tecnologia è diventata il
maggior veicolo di reificazione” (ibidem, 175). Significa che non soltanto la posizione degli
individui nella società e le loro relazioni appaiono determinate da leggi oggettive ed esterne, ma
queste appaiono pure come manifestazioni calcolabili della razionalità scientifica. In queste
condizioni, “il pensiero scientifico […] assume, al di fuori delle scienze fisiche, la veste di un
formalismo puro e in sé conchiuso (simbolismo) da un lato, e dall’altro lato quella di un
empirismo totale” (ibidem, 175). Questo contrasto non è un conflitto, come suggerisce Marcuse
proprio l’elettronica applica empiricamente la matematica e la logica simbolica. E non soltanto la
tecnoscienza è indissolubilmente legata con la politica del dominio: se essa dà vita ad un intero
mondo, essa invade pure la sfera della cultura. Marcuse però distingue fra cultura, che è la
dimensione più elevata dell’autonomia e della realizzazione umana, e civiltà, che è “il regno
della necessità, del lavoro e del comportamento socialmente necessario, dove l’uomo non è
realmente sé stesso nel suo proprio elemento, ma è soggetto all’eteronomia, alle condizioni e ai
bisogni esterni” (Marcuse 1968, 26). La civiltà rappresenta la forma alienata della società e della
vita: è questo il “disagio della civiltà” di cui parlava Freud, che Marcuse riprende, ma che, a
differenza dello psicanalista, ritiene che si possa ridurre proprio grazie al progresso tecnico. Il
principio di realtà è un principio storicamente determinato, nel capitalismo prende la forma di

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principio di prestazione, cioè di produzione fine a sé stessa, o di repressione addizionale.
Possono esistere cioè forme di civiltà non repressive, o meglio, forme che impongono solamente
la repressione di base, quella che assicura la perpetuazione della razza umana nella civiltà. Se
Freud ha ipostatizzato la repressione della civiltà è perché ogni civiltà è stata retta da una
struttura di dominio e non dal fatto bruto della penuria in sé, o dalla scarsità dei beni, che
distribuisce in modo ineguale la penuria stessa e lo sforzo (il lavoro) per superarla. Se in passato
ciò veniva fatto con la violenza pura, nel capitalismo industriale avanzato viene fatto con una
utilizzazione più razionale del potere, e proprio grazie alla tecnologia. Come la tecnologia può
ridurre e alleviare l’ananke (il regno della penuria), essa può anche aumentare la fatica, qualora il
progresso sia limitato rispetto alle sue possibilità e qualora la vita venga inglobata in un sistema
organizzato fino al punto da eliminare la distinzione stessa fra cultura e civiltà, in cui i mezzi
diventano i fini e in cui la cultura non è in grado di far fronte alle tendenze distruttive della
civiltà. Scrive Marcuse che “con questa integrazione della cultura nella società, la società tende a
diventare totalitaria anche quando vengono conservate forme e istituzioni democratiche”
(Marcuse in Rusconi 1967, 319). È un punto su cui si tornerà più avanti. Per ora è bene
sottolineare un altro punto: l’alta cultura ottocentesca ha sempre svolto un ruolo ideologico nella
società, era la sovrastruttura di essa poiché era separata dalla miseria di coloro che alimentavano
la società cui questa cultura apparteneva, ma proprio il suo carattere ideologico-sovrastrutturale
la distingueva dalla società costituendosi già come una critica. La critica alla cultura capitalistica
è la grande critica dell’industria culturale di Adorno e Horkheimer, che “cancella l’alienazione
della cultura dalla civiltà, appiattendo così la tensione fra il […] potenziale e l’effettivo, il futuro
e il presente, la libertà e la necessità” (Marcuse 1968, 31). La cultura diventa veicolo di
integrazione poiché essa è organizzata, venduta, prodotta e consumata scientificamente. La
scienza è stata quindi assunta come valore che orienta l’organizzazione degli uomini, il cui
risultato è la civiltà, e tale valore è stato determinante nel rapporto tra scienza e società. Questa
distruzione della cultura per mezzo della tecnoscienza genera così quello che si può definire un
universo tecnologico totalitario: “il termine ‘totalitario’, infatti, non si applica soltanto ad una
organizzazione politica terroristica della società, ma anche ad una organizzazione economico-
tecnica, non terroristica, che opera mediante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi
costituiti. Essa preclude per tal via l'emergere di una opposizione efficace contro l’insieme del
sistema” (Marcuse 1964, 17). E’ la celebre distinzione fra bisogni veri e bisogni falsi, indotti, in
quanti prodotti storici: “i ‘bisogni falsi’ sono quelli che vengono sovrimposti all'individuo da
parte di interessi sociali particolari cui preme la sua repressione: sono i bisogni che perpetuano la
fatica, l'aggressività, la miseria e l’ingiustizia. […] Tali bisogni hanno un contenuto e una

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funzione sociali che sono determinati da potenze esterne, sulle quali l'individuo non ha alcun
controllo; lo sviluppo e la soddisfazione di essi hanno carattere eteronomo” (ibidem, 19). I
bisogni veri sono invece i bisogni vitali come “il cibo, il vestire, un’abitazione adeguata al livello
di cultura che è possibile raggiungere” (ibidem, 19). L’individuo potrebbe allora riconoscere i
suoi veri bisogni nello spazio privato della sua “mente” ma “oggi questo spazio privato è stato
invaso e sminuzzato dalla realtà tecnologica. La produzione e la distribuzione di massa
reclamano l'individuo intero, e la psicologia industriale ha smesso da tempo di essere confinata
alla fabbrica” (ibidem, 24). Il problema è che “se gli individui si ritrovano nelle cose che
plasmano la loro vita, essi lo fanno non formulando la legge delle cose, ma accettandola - non la
legge della fisica, ma la legge della loro società” (ibidem, 25). Questa identificazione degli
individui nelle loro cose non è illusione ma realtà: si tratta della reificazione della coscienza di
cui parlava Lukàcs. Marcuse chiarisce tutto questo, e pure la questione della “fine delle
ideologie”, in queste righe del 1964:

“la realtà, d'altra parte, costituisce uno stadio piú avanzato di alienazione.
Quest'ultima è diventata completamente oggettiva; il soggetto dell'alienazione
viene inghiottito dalla sua esistenza alienata. V'è soltanto una dimensione, che si
ritrova dappertutto e prende ogni forma. Le realizzazioni del progresso si
sottraggono sia all'accusa che alla giustificazione ideologica; dinanzi al loro
tribunale, la ‘falsa coscienza’ della loro razionalità diventa la coscienza autentica.
Questo assorbimento dell'ideologia nella realtà non significa d'altra parte che si
approssimi la ‘fine dell'ideologia’. Al contrario, la cultura industriale avanzata è, in
senso specifico, più ideologica della precedente, in quanto al presente l'ideologia è
inserita nello stesso processo di produzione'. In forma provocatoria, questa
proposizione rivela gli aspetti politici della razionalità tecnologica che oggi
predomina. L'apparato produttivo, i beni ed i servizi che esso produce ‘vendono’ o
impongono il sistema sociale come un tutto. I mezzi di trasporto e di
comunicazione di massa, le merci che si usano per abitare, nutrirsi e vestirsi, il
flusso irresistibile dell'industria del divertimento e dell'informazione, recano con sé
atteggiamenti ed abiti prescritti, determinate reazioni intellettuali ed emotive che
legano i consumatori, piú o meno piacevolmente, ai produttori, e, tramite questi,
all'insieme. I prodotti indottrinano e manipolano; promuovono una falsa coscienza
che è immune dalla propria falsità. E a mano a mano che questi prodotti benefici
sono messi alla portata di un numero crescente di individui in un maggior numero
di classi sociali, l'indottrinamento di cui essi sono veicolo cessa di essere

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pubblicità: diventa un modo di vivere”. “[…][Pertanto], a seconda del grado in cui
corrispondono alla realtà data, pensiero e comportamento esprimono una falsa
coscienza. Che si adatta e contribuisce a mantenere un ordine di fatti inautentico.
Questa falsa coscienza è ormai incorporata nell’apparato tecnico dominante, che a
sua volta la riproduce” (Marcuse 1964, 25).

Marcuse sta dicendo che l’abilità di vivere in un mondo a due dimensioni, cioè un mondo in cui
esiste ancora il “raddoppiamento del mondo”, l’ideologia come forza rivoluzionaria, era una
delle caratteristiche degli uomini nella civiltà pretecnologica: la capacità della realtà di
trascendere la “fatticità” del mondo con un cambiamento qualitativo era ben diversa dalla
trascendenza religiosa e ancor più diversa dalla trascendenza scientifica che trasforma solamente
il “fattuale” in termini quantitativi. Oggi, questa abilità di trascendenza storica è seriamente
atrofizzata dal mondo tecnologico, in cui la sua “forma” tecnologica è diventata anche il suo
“contenuto”, la sua unica essenza. (Marcuse in Bronner e Kellner, 1990).
Come dice Adorno: ‘dell'ideologia non resta nient'altro se non il riconoscimento di ciò che è, un
modello di comportamento che si sottomette al potere schiacciante dello stato di cose stabilito’
(Adorno in Marcuse 1964, 130). Ciò significa che i discorsi apparentemente ideologici dei
politici non sono altro che “ipotesi autovalidantesi”, profezie che si autoavverano e che non
hanno la potenza di sovvertire lo status quo. Ciò conduce ad una importante cambiamento del
luogo dove si manifesta l’ideologia: non più nella cultura-sovrastruttura, ma nella struttura, nella
produzione capitalistica stessa, in cui anche l’inconscio degli individui è integrato: “il successo
tecnico della società industriale avanzata, e l'efficace manipolazione della produttività mentale e
materiale ha prodotto uno spostamento del luogo in cui si attua la mistificazione. Se ha un senso
dire che l'ideologia viene ad essere incorporata nel processo medesimo della produzione, può
anche aver senso suggerire che in questa società è il razionale, piuttosto dell'irrazionale, che
diventa il più efficace veicolo di mistificazione. L'idea che l'aumento della repressione nella
società contemporanea si manifestasse anzitutto, nella sfera ideologica, con l'avvento di
pseudofilosofie irrazionali fu confutata dal fascismo e dal nazionalsocialismo” (ibidem, 195). Il
problema di una concettualizzazione politica della tecnoscienza è quello di separare il suo uso
dalla struttura entro la quale nasce e quindi dalla sua costruzione. La tesi di Marcuse è che una
rivoluzione soltanto politica non è sufficiente ad eliminare il dominio della tecnoscienza: “Un
calcolatore elettronico può servire allo stesso modo un'amministrazione capitalista o una
socialista” (ibidem, 195). Tutto questo, dice Marcuse, è un riflesso della trasformazione del
mondo naturale in un mondo tecnico, in cui la tecnologia ha rimpiazzato l’ontologia (Marcuse in

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Bronner e Kellner, 1990). Ciò che è necessario è invece una rivoluzione totale che interessi
proprio la tecnoscienza e che la porti ad essere di un tipo qualitativamente molto differente.
Infatti, è la scienza stessa ad aprire “la possibilità reale di abolire la miseria, la fatica e
l’ingiustizia in tutto il mondo – la possibilità di pacificare la lotta per l’esistenza” (Marcuse
1968, 40).

2.3. La tecnoscienza come strumento di liberazione?

La neutralità della tecnoscienza è il suo carattere strumentale che la apre a qualsiasi


utilizzo e scopo. Questo requisito di neutralità ha origine, tuttavia, dalla lotta della
scienza moderna contro ogni potere repressivo. Se è questo il suo carattere esistenziale,
allora si potrebbe parlare di un Telos della tecnoscienza. Il carattere neutrale della scienza
moderna è infatti da vedere come un concetto politico e la società industriale avanzata ha
sviluppato una nozione di tecnologia che preclude il suo carattere esistenziale, che, in
quanto progetto storico, è quello di liberare l’uomo dal lavoro e dall’ansia, cioè di
pacificare la lotta per l’esistenza. Tuttavia, sviluppata come “puro” strumento, la
tecnoscienza ha astratto da questo scopo concreto, che ha cessato così di essere il fine
dello sviluppo tecnologico, ed è diventata di conseguenza uno mezzo universale di
dominio. Inoltre, attraverso la tecnica la società ha aumentato la repressione primitiva
dell’uomo sull’uomo, sacrificando la felicità al “principio di prestazione” (Marcuse
1966). Questa repressione, tuttavia, è minacciata dal progresso tecnico stesso, infatti,
secondo Marcuse, l’industrializzazione diminuisce il bisogno della repressione ma
confrontata con la reale possibilità dell’abolizione del lavoro la civiltà industriale appare
ancor più irrazionale. La società richiede allora che la tecnologia diventi più efficiente e
repressiva al fine di mantenere il dominio, e si viene a creare così una “repressione
addizionale”. Ma la totale automazione del lavoro potrebbe davvero liberare gli uomini
da esso e ridurre il divario esistente fra i bisogni “veri” e la loro soddisfazione. La
struttura di dominio che ha interessato tutte le società finora esistenti prevede il dominio
della natura per il fine del dominio dell’uomo sull’uomo. Uomo e natura stanno in un
rapporto dialettico, e non può esserci una liberazione dell’uomo se non ve ne è una della
natura. Come la tecnologia potrebbe liberare l’uomo, potrebbe anche liberare la natura
controllando la sua miseria e riducendo la sua ferocia. Il dominio della società industriale

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avanzata ha semplicemente trasferito il dominio dalla dipendenza personale a quello sulle
macchine, sulla tecnologia, e le ha dirette contro la natura: “The machine is only a means;
the end is the conquest of nature, the domestication of the natural forces through
subjugation: the machine becomes a slave which produces other slaves. Such an
inspiration can meet man’s desire for liberty. But it is difficult to liberate oneself while
transferring servitude to other beings, men, animals, or machines; to rule over an empire
of machines which subjugate the entire world is still to rule, and any system of rule
presupposes the acceptance of a schema of subjugation” (Simondon in Marcuse 1964,
166). La tecnologia non è da intendersi come uno strumento di liberazione, ma va al
contrario liberata, ripensandola e riprogettandola in una direzione che non preveda la sua
“neutralità”, ma che invece sia capace di tradurre i valori stessi in tecniche. Se le cose
stanno veramente cosí, allora un cambiamento in direzione progressista, tale da poter
tagliare questo vincolo fatale, influirebbe anche sulla struttura propria della scienza, sul
progetto scientifico. Le sue ipotesi, senza perdere nulla del loro carattere razionale, si
svilupperebbero in un contesto sperimentale essenzialmente diverso (quello di un mondo
pacificato, o di una Lebenswelt “estetica”); di conseguenza, la scienza giungerebbe a
formulare concetti di natura essenzialmente diversi e a stabilire fatti essenzialmente
differenti. La fonte da cui potrebbe derivare lo sviluppo di quella che si potrebbe definire
una “gaya ciencia” è la Ragione dell’arte, la quale è stata tuttavia integrata nel sistema di
dominio e le sue possibilità di trascendenza sono state razionalizzate. La scienza si è
baloccata della ricerca della verità dell’arte, trovando in questo elemento una forza per
potersi sviluppare. La differenza fra la scienza matematica e le idee metafisiche, infatti,
sono differenze non solo epistemologiche, ma anche storiche: le astrazioni scientifiche
provano la loro verità trasformando e dominando la natura, mentre le astrazioni
filosofiche non possono farlo. Tuttavia, con lo svilupparsi della tecnologia e della scienza,
“la metafisica tende a diventare fisica” (ibidem, 234), cioè “le speculazioni sulla Buona
Vita, la Buona Società, la Pace Permanente acquistano un contenuto via via più
realistico" (ibidem, 234). La conclusione è quindi che la razionalità tecnologica è oramai
il fattore decisivo nello sviluppo di alternative storiche. Un salto qualitativo di questa
renderebbe lo stesso progetto scientifico “libero per fini transutilitari, libero per ‘l’arte di
vivere’ al di là delle necessità e dei lussi del dominio”. La tecnoscienza è quindi essa
stessa il requisito per poter compiere la realtà tecnologica non repressiva. Ciò
significherebbe cambiare la relazione tradizionale fra scienza e metafisica, in modo tale
che “i concetti scientifici progetterebbero e definirebbero le realtà possibili di

24
un’esistenza libera e pacifica” (ibidem, 235). Il mutamento qualitativo va quindi cercato
nella ricostruzione della base tecnica, ossia nel suo sviluppo in vista di fini differenti. È
infatti il “successo storico della scienza e delle tecnologia [che] ha reso possibile la
traduzione dei valori in compiti tecnici – la materializzazione dei valori” (ibidem, 235).
Continua Marcuse che: “quel che è in gioco è dunque una nuova definizione dei valori in
termini tecnici, come elementi del processo tecnologico. I nuovi fini, come fini tecnici,
opererebbero così nel progetto e nella costruzione dell’apparato tecnologico, non solo
nella sua utilizzazione. I nuovi fini, inoltre, potrebbero affermarsi persino nella
costruzione di ipotesi scientifiche, nella teoria scientifica pura. Dalla quantificazione
delle qualità secondarie la scienza passerebbe alla quantificazione dei valori. […] Gli
ostacoli che si frappongono alla materializzazione sono ostacoli politici chiaramente
definibili” (ibidem, 235-236). Le idee di liberazione, i valori che oggi vengono limitati
alla sfera religiosa o etica, possono diventare, a causa dello sviluppo tecnoscientifico
stesso, gli oggetti propri della scienza, qualora questa si riconosca come politica. Una
siffatta tecnoscienza andrebbe al di là della sua condizione “neutrale”, ma per
raggiungere tale nuovo stato è necessaria una rivoluzione culturale che successivamente e
necessariamente, e questo è importante, interessi la base strutturale della società e che si
concluda, quindi, con una ricostruzione dell’apparato tecnoscientifico.

La conclusione più importante che trae Marcuse da questo discorso è che giungendo a
piena consumazione, la razionalità tecnologica tradurrebbe l’ideologia in realtà, i valori in
compiti tecnici e quindi in bisogni. Tale traduzione implica la materializzazione della
libertà e il libero sviluppo dei bisogni sulla base della soddisfazione. L’”esistenza
pacificata” è il fine represso del progetto tecnoscientifico, che se materializzato aprirebbe
ad un rapporto uomo-Natura qualitativamente diverso dalla relazione di dominio che vi è
ora. Infatti, la civiltà “produce i mezzi per liberare la Natura dalla sua brutalità, dalla sua
insufficienza, dalla sua cecità, in virtù del potere conoscitivo e trasformatore della
Ragione”. In questo modo, la funzione della Ragione coincide con la funzione dell’Arte.
Si potrebbe dire che “la razionalità dell’arte, la sua abilità di ‘progettare’ l’esistenza, di
definire possibilità non ancora realizzate, sono rese valide e operanti nella trasformazione
scientifico-tecnologica del mondo” (ibidem, 242). Tuttavia, il lato meschino della fusione
tra la razionalità tecnoscientifica e l’immaginazione dell’arte è la razionalizzazione di
quest’ultima e la realizzazione dell’immaginario ancora succube della struttura del
dominio. Ciò significa che anche l’immaginazione non è sfuggita al processo di

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reificazione e che anche essa va quindi riorientata in vista di fini differenti: essa deve
essere liberata a livello politico. Qui si ferma il pensiero di Marcuse, incapace di definire
con precisione un Soggetto storico che riesca a fare questo rovesciamento politico,
indicandolo al di fuori della società stessa, e non più all’interno di essa. Sebbene manchi
un Soggetto storico capace di rivoluzionare la società, Marcuse ha però almeno
identificato un elemento centrale da cui partire: l’automazione del lavoro, che sembra
essere il “grande catalizzatore della società industriale avanzata” (ibidem, 50) e che, se
operasse un mutamento qualitativo nella base materiale, permetterebbe il salto dalla
quantità alla qualità. L’automazione è quindi una tendenza centrifuga della società, ed è
attraversata da una dialettica: proprio perché essa trasmuta la forza lavoro in un oggettto
separato dall’individuo e quindi indipendente ed autonomo, se portata alla perfezione e se
fatta diventare il principale processo di produzione materiale, essa rivoluzionerebbe la
società intera. Infatti, più cresce il progresso tecnico, più cresce il dominio delle cose
sull’uomo, la reificazione e l’estraniazione, ma portata al limite la stessa automazione
“spezzerebbe la forma reificata della forza lavoro, tagliando la catena che lega l’individuo
alla macchina, al meccanismo per mezzo del quale il suo stesso lavoro lo rende schiavo”.
Per fare in modo che ciò si realizzi è necessario modificare la base tecnica; infatti “il
passaggio dal momento del ‘a ciascuno secondo il suo lavoro’ a quello del ‘a ciascuno
secondo i suoi bisogni’ è determinato dalla prima fase, ossia non soltanto dalla creazione
della base tecnologica e materiale, ma anche (e questo è decisivo!) dal modo in cui questa
viene creata” (ibidem, 55). Alla luce di quanto affermato, si cercherà nel successivo
paragrafo di attualizzare la critica di Marcuse alla tecnoscienza per far notare come gli
intrecci avvenuti negli ultimi 40 anni sono stati veicolati dallo sviluppo delle nuove
tecnologie informatiche e della comunicazione, partendo dall’analisi del nuovo modo di
produzione della ricchezza economica: la finanziarizzazione dell’economia. È bene
ricordare che per Marcuse la società capitalistica di cui parlava non era da intendersi
come una “società dei consumi”, e che l’elemento centrale in tutto il suo discorso rimane
comunque la sfera della produzione, che ha invaso anche quella del consumo.

CAPITOLO 3 – IL FINANZCAPITALISMO: L’INTRECCIO TRA


POLITICA, ECONOMIA E TECNOSCIENZA

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3.1. La nuova economia

Luciano Gallino è uno dei pochi sociologi italiani ad aver considerato seriamente le tesi
della prima Scuola di Francoforte. Nella sua analisi della realtà sociale, economica e
politica segnata dal neoliberismo e dal finanzcapitalismo si possono trovare vari nessi per
confrontare questa analisi con la teoria marcusiana. La civiltà-mondo del
finanzcapitalismo è descritta come una megamacchina sociale sviluppatasi nel corso di
decenni per massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e insieme di potere, il
valore estraibile dal maggior numero di umani e ecosistemi. Estrarre valore non equivale
a produrre: qui il denaro è usato per produrre maggior denaro (D-D’) senza la fase
intermedia della produzione di merci: è questa la grande variazione rispetto al capitalismo
industriale, ma che non cancella comunque la struttura di tale società, semmai ne
amplifica la pervasività.

Il finanzcapitalismo ha 3 elementi strutturali: un sistema bancocentrico, formato da entità


visibili che sono le banche ma che hanno poteri e funzioni molto maggiori rispetto alle
vecchie banche; un sistema di “finanza ombra”, composto da una montagna di derivati
(originariamente sono titoli il cui valore dipende da una entità sottostante, ma come si
vedrà essi costituiscono un nuovo tipo di denaro) che una banca detiene ma non segnati in
bilancio. È un mondo di intermediari con transazioni nascoste che agiscono al di fuori
della regolazione pubblica; e infine, un sistema di investitori istituzionali: fondi pensione,
compagnie di assicurazione, hedge funds. Si muovono a cavallo delle due componenti
precedenti. Usano le banche per farsi prestare più denaro del capitale che effettivamente
posseggono per acquistare azioni di imprese e le banche ci ricavano sugli interessi: le
banche non sono solo depositi ma veri fondi di investimento. Secondo Gallino (2011) il
finanzcapitalismo ha svuotato di senso il processo democratico diventando il sistema
politico dominante e costituendo una unica civiltà-mondo formata da un’economia
strettamente intrecciata con la politica, l’assenza di confini di alcun genere e
un’interconnessione tra economie, culture e mercato di lavoro di tutte le società. Con la
crisi finanziaria dei mutui subprime del 2008, tuttavia, tale civiltà ha conosciuto una crisi,
che in realtà era già visibile dall’11 settembre 2001: a livello geopolitico la
globalizzazione non ha integrato tutte le culture come si pensava. Gallino allora ricerca le
cause della crisi, che sono da trovarsi nella costituzione di una economia finanziaria
virtuale che ha dominato l’economia reale: il denaro è una promessa di valore, esiste solo

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come segno sui computer, e il denaro creato da questi supera di 4 volte il PIL mondiale. Il
secondo fattore è intrinseco alla struttura della civiltà-mondo e consiste nella distruzione
della politica: questa si è limitata ad adattare la società all’economia. Come diceva
Polanyi (1954), l’economia di mercato non è più embedded, incorporata nelle pratiche
sociali, ma ha fatto diventare la società una sua appendice. A partire dagli anni ’80 non ci
sono più confini tra economia e politica e ciò è avvenuto anche per via del meccanismo
delle “porte girevoli”: alti dirigenti della finanza sono diventati ministri ed ex-ministri
sono diventati dirigenti. Le forza di questo intreccio sarà analizzata nel seguente
paragrafo.

3.2. L’intreccio fra economia e politica: l’egemonia neoliberale

Le porte girevoli indicano che esiste una comunanza di linguaggi, scopi e significati tra i
politici e gli economisti, i tecnici. Questo intreccio tra economia e politica è avvenuto
tramite la diffusione universale di una dottrina che è al tempo stesso economica, politica e
sociale postasi infatti come “teoria del tutto” e che impone categoricamente, secondo
Gallino, che la società tende spontaneamente verso un ordine naturale. Pertanto, lo stato
non deve ostacolare tale ordine. È una teoria economica che prevede che per mantenere il
benessere sia necessario un aumento annuo dei consumi e crede in 3 processi: la perfetta
capacità dei mercati di autoregolarsi, l’affluenza senza ritardi del capitale laddove la sua
utilità risulta massima, la perfetta calcolabilità dei rischi (caduta dei prezzi, variazione dei
tassi d’interesse, ecc.). Propone anche una teoria dell’occupazione, della distribuzione del
reddito e della persona di fronte al lavoro e una teoria dell’istruzione. Il neoliberismo
appare quindi come l’esempio perfetto di un pensiero reificante. Secondo Gallino
l’intreccio che è avvenuto tra politici ed economisti non sarebbe mai potuto accadere
“senza l’apporto sostanziale di una ideologia la quale, dopo esser giunta a pervadere
l’intero sistema culturale, ha promosso e legittimato tale processo, e lo ha praticato essa
stessa in forze riguardo ai suoi confini con tutti gli altri sottosistemi. Questa ideologia è il
neoliberismo”. Questo testo presenta una tesi differente sul neoliberismo a partire dal
lavoro di Nick Srnicek e Alex Williams in Inventare il futuro (2015). Secondo loro, il
neoliberismo -a differenza del liberalismo classico - sostiene che di “naturale” i mercati

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non hanno proprio nulla e attribuisce, al contrario di ciò che si crede comunemente, un
ruolo centrale allo Stato:

“mentre cioè il liberalismo classico si erge a favore di una sfera naturale che esula
dal controllo statale (le leggi naturali dell’uomo e del mercato), i neoliberali
capiscono che di “naturale” i mercati hanno poco o nulla. Detta in altri termini, i
mercati non emergono spontaneamente nello spazio lasciato libero dallo Stato, ma
devono essere costruiti scientemente, a volte partendo da zero. Per esempio, per il
neoliberismo non c’è nessun mercato naturale per i beni comuni (acqua, aria fresca,
terra), per l’assistenza sanitaria o per l’istruzione: questi mercati (così come altri)
devono quindi essere fabbricati tramite un elaborato sistema di costrutti materiali,
tecnici e legali. Ci sono voluti anni prima che i mercati energetici prendessero
forma; i mercati volatili esistono in gran parte solo in funzione di modelli finanziari
astratti; persino i mercati più elementari richiedono architetture intricatissime per
poter funzionare correttamente. Sotto il dominio del neoliberismo, nella creazione
dei mercati ‘naturali’ un ruolo fondamentale è giocato proprio dallo Stato: il
neoliberismo esige cioè che sia lo Stato a difendere i diritti di proprietà privata, che
sempre lo Stato faccia rispettare i contratti, che imponga una legislazione antitrust,
che reprima il dissenso sociale, e che mantenga sempre e comunque la stabilità dei
prezzi” (Srnicek e Williams 2015).

Quella che oggi viene chiamata ideologia neoliberale è stata una costruzione elitaria per
modificare il senso comune politico: “contrariamente a quanto si tende a credere,
all’inizio i capitalisti non intravidero nel neoliberismo una proposta invitante; tra le
missioni principali della MPS ci fu dunque quella di convincerli che le idee neoliberali
facevano al caso loro” (ibidem, 85). Il termine “ideologia neoliberale” non è corretto, è
corretto invece dire che la teoria politico-economica sviluppata da un’elite (la Mont
Pelerin Society, e quindi Hayek, Friedman, Von Mises, teorici ordoliberisti tedeschi e
altri) è diventata ideologia capitalista: cioè di una specifica classe sociale, che poi ha
manipolato la opinione delle altre elite, e ha inserito membri della MPS in posizioni
governative. Il risultato è la creazione della “forma della nostra esistenza: il modo in cui
siamo portati a comportarci, a relazionarci agli altri e a noi stessi” (ibidem, 97). Quindi
non più la creazione di un “soggetto produttivo”, ma un “soggetto competitivo”. Questo
dovrebbe indicare il cambiamento storico del principio di realtà: da “principio di
prestazione” del capitalismo industriale a “principio di competizione” del capitalismo
finanziario. L’individuo è allora guidato non dall’esigenza del produrre, ma da quella di

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massimizzare il profitto estraibile dalla sua vita o minimizzare i costi, dai beni che
soddisfano i suoi bisogni primari, come la casa in cui vive concessa con un mutuo il cui
tasso di interesse può essere minimizzato sottoscrivendo con il creditore un tasso di
interesse variabile, il più proposto nel periodo che va dal 2000 al 2007 (ovviamente del
tutto ignaro di come verranno gestiti e usati i derivati che hanno come sottostante la sua
casa). In particolare, gli autori riprendono ed estendono il concetto di egemonia di
Gramsci: “dobbiamo riconoscere come questa produzione di soggettività non sia
semplicemente un’imposizione esterna: l’egemonia, in tutte le sue forme, non opera solo
come un’illusione, ma come una costruzione fondata sui desideri più autentici della
popolazione. L’egemonia neoliberale ha giocato su idee, appetiti e impulsi sociali già
esistenti, mobilitando la volontà degli individui e promettendo di esaudire quei desideri in
linea coi suoi progetti” (ibidem, 98). Continuando il loro discorso Srnicek e Williams
affermano che l’egemonia non è solo un dibattito immateriale fatto di idee e valori, ma è
anche una forza connaturata “alla mente umana, alle organizzazioni sociali e politiche,
alla tecnologia, e all’ambiente materiale che costituisce il nostro mondo di tutti i giorni”
(ibidem, 206). Riprendendo il concetto di Technological Momentum affermano che
“mentre le forze sociali dell’egemonia devono essere continuamente rinnovate, gli aspetti
materiali dell’egemonia esercitano un effetto che, dopo la creazione iniziale, dura
estremamente a lungo: una volta al loro posto, le infrastrutture sono difficili da rimuovere
o da alterare, anche nonostante i cambiamenti delle politiche. Basti pensare al problema
che stiamo affrontando oggi con le infrastrutture basate sui combustibili fossili: le nostre
economie sono organizzate attorno a produzione, distribuzione e consumo di carbone,
petrolio e gas, il che rende molto difficile decarbonizzare l’economia” (ibidem, 207). Un
altro importante aspetto è il ruolo dello Stato nel richiedere, finanziare e indirizzare “le
più significative rivoluzioni tecnologiche, da internet alle tecnologie verdi, dalla
nanotecnologia agli algoritmi che guidano il motore di ricerca di Google, fino a tutti i
principali componenti elettronici all’interno dei prodotti Apple, come iPhone e iPad. Il
microprocessore, il touch screen, il GPS, le batterie, gli hard drive e SIRI sono tutte
innovazioni che vengono da investimenti governativi” (ibidem, 223). Tuttavia, essi
affermano anche che molti progetti socialmente utili sono stati limitati o impediti a causa
della poca profittabilità (per esempio il vaccino per l’Ebola). La soluzione proposta è
quella di un “riorientamento tecnologico” verso fini diversi da quelli capitalistici, ma non
sempre è possibile farlo: l’esempio riportato è quello dei sovietici che “credevano di poter
semplicemente cooptare e convertire a fini comunisti le tecnologie e le tecniche

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capitaliste, ma queste tecnologie erano state progettate con in mente la massima
efficienza e un rigoroso controllo da parte del management. […] L’ambizioso progetto di
conquistare i mezzi di produzione capitalisti si scontrò con la realtà del fatto che le
relazioni di potere sono intrinseche a queste tecnologie, e che dunque queste ultime non
possono essere piegate a scopi che sono diametralmente opposti al loro funzionamento
previsto. Le tecnologie di controllo numerico sono per esempio state usate per gestire i
ritmi di produzione, costringendo i lavoratori a tenere il ritmo di una macchina e
rendendo il potere della dirigenza più indiretto e invisibile: in questo modo, le macchine
possono occultare le relazioni di potere facendole apparire come inevitabili processi
meccanici” (ibidem, 230). In definitiva, per gli autori, il consenso egemonico va costruito
anche tramite la “costruzione di tecnologie e di infrastrutture tali da porre limiti invisibili
al conflitto sociale (altro esempio: strade più larghe al fine di rendere difficoltosa
l’erezione di barricate)” (ibidem, 202). Ha senso affermare che la razionalità tecnologica
ha finito per coincidere con la razionalità economica, infatti, senza i computer, senza la
loro smisurata capacità di calcolo, senza la rete che permette lo scambio immediato di
flussi di denaro e informazioni, difficilmente l’economia finanziaria si sarebbe realizzata,
anzi, giunti fino a questo punto, è legittimo attribuire alla rivoluzione informatica dei ’90
un ruolo centrale nella costruzione della civiltà-mondo e nella sua crisi. Infatti, esistono 3
aspetti (Gallino 2011) che si legano con la crisi economica del 2008 e sono riconducibili
al ruolo della tecnologia: il primo è lo squilibrio tra le potenzialità tecnologiche ed
economiche e le effettive condizioni di vita della popolazione del pianeta; il secondo è il
genere di esistenza umana che la civiltà in questione è orientata a produrre, in cui i
bisogni reali sono stati superati dai bisogni fittizi che hanno infantilizzato gli adulti e
corrotto i bambini nei loro desideri, e dove la libertà è solamente una libertà di scelta
individuale ma che mai si costituisce come libertà collettiva estesa all’intera società; il
terzo, infine, è l’insostenibilità del modello economico in questione, che si manifesta
terribilmente con la crisi ecologica. Innanzitutto, una considerazione da muovere al
secondo aspetto è quella sui bisogni fittizi: è stato già affermato come un bisogno reale
come l’abitazione è divenuto il principale oggetto di speculazione. Se il capitalismo
industriale richiedeva la produzione dei bisogni fittizi, quello industriale aggiunge la
necessarietà di dover guadagnare anche sulla vita e sui bisogni inalienabili degli
individui. Il ruolo delle nuove tecnologie della comunicazione (ICT) e la loro mancata
regolazione e comprensione da parte dei tecnici stessi sono uno dei 4 modelli esplicativi
delle cause della crisi finanziaria. A differenza di Gallino, che ritiene secondario il ruolo

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delle ICT nella causa della crisi, e che conferisce un maggior ruolo alle politiche, pure
della sinistra, che hanno aperto la strada alla deregolazione dei flussi di denaro e di
informazioni, in questo testo si cercherà di evidenziare come le tecnologie prodotte
nascono da una concezione reificante dell’individuo, dell’economia, e di tutti i
sottosistemi e istituzioni della società. Un altro modello esplicativo ritiene che i modelli
economici dell’economia finanziaria abbiano causato la crisi adattando i modelli delle
scienze naturali all’economia.

3.3. Teorie economiche che imitano le scienze naturali: la sussunzione della realtà in un
modello, e la creazione di una “seconda natura”

Tra i fattori della crisi vi sono anche le teorie economiche che hanno acriticamente
importato i modelli scientifici delle scienze naturali, della matematica e della fisica, e che
inoltre hanno portato alla creazione di nuove realtà economiche, grazie alla loro efficacia
predittiva. Sono stati sviluppati 2 modelli scientifici nel corso degli anni: il primo
rappresenta il mercato come sistema che si autoregola, il secondo rappresenta il rapporto
tra rischio e prezzo, in modo che qualunque sia il livello di rischio si trova qualcuno
disposto a pagare il prezzo che lo copre. I presupposti di questi modelli di gestione del
rischio, tuttavia, hanno perso ogni contatto con la realtà. Un gruppo di fisici, biologi e
operatori finanziari hanno così riassunto i principali presupposti delle teorie economiche
dominanti e le loro inadeguatezze: l’economia è un sistema fisico composto da flussi di
beni, informazioni ed energia, per cui la si può modellizzare come un sistema, come fa la
fisica. Ma ai mercati non si può applicare la nozione di equilibrio (come invece fa
l’economia neoclassica) dei sistemi fisici, che sono sistemi chiusi. Le conclusioni
dell’economia neoclassica semplificano la complessità riducendo gli aspetti qualitativi
dei comportamenti delle persone. Inoltre, le teorie economiche presuppongono che ogni
attore disponga delle medesime informazioni di ogni altro, sebbene il mondo reale
presenti molte differenze, e ciò rende difficile la valutazione del rischio degli strumenti
finanziari. La soluzione a questi problemi data da questo gruppo di scienziati è di
introdurre più scienza naturale nelle scienze economiche, ma in modo più consapevole e
corretto. Il problema, tuttavia, è un altro: è la matematizzazione stessa dell’economia, che
è iniziata ad espandersi soprattutto dal 1980. Attualmente, gli articoli con formule

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matematiche sfiorano il 90%, secondo Gallino (2011). Milton Friedman, del resto,
considerava l’economia una scienza “positiva”, oggettiva come lo erano le scienze fisiche
e che si poteva quindi giudicare “sul terreno della precisione, portata e conformità delle
sue predizioni con l’esperienza” (Friedman in Gallino 2011, 96). “Un ponte tra le scienze
fisiche e matematiche da un lato, e le scienze economiche dall’altro, è stato fornito negli
anni ’50 e ’60 dall’informatica e da una sua stretta parente, la ricerca operativa (RO)”,
dice Gallino (ibidem, 96), sostenendo che le porte girevoli riguardano anche gli studiosi
di diversi campi e non solo le idee di questi campi: “contributi rilevanti alla teoria della
finanza sono infatti provenuti a quei tempi e in seguito, non da economisti impegnatisi a
studiare un campo a loro alieno come la RO, o i fondamenti logico-matematici
dell’informatica, bensì da specialisti di RO e di informatica che ne hanno applicato i
risultati alla finanza”. I modelli di gestione del rischio menzionati poc’anzi si sono
ibridati soprattutto con la teoria del moto di Brown, il cui modello matematico è stato
adattato “per descrivere e prevedere il movimento dei prezzi delle azioni sui mercati
borsistici” (ibidem, 98). Il più noto adattamento è quello elaborato da Fischer Black,
Myron Scholes e Robert C. Merton (da qui in poi, BSM). Pubblicato nel ’73, il BSM è
stato uno strumento per attribuire il giusto prezzo alle opzioni sulle azioni. Tuttavia, con
le dovute modificazioni, è ancora oggi usato per prevedere l’andamento dei derivati e di
altri prodotti finanziari. Il problema del BSM sorto con molto ritardo è l’elevatissimo
rischio per chi lo usa. Questo modello, come molti altri, ha conosciuti diversi successi,
dovuti però alla sua performatività. Le teorie economiche sono performative quando i
loro modelli finiscono per modificare la struttura stessa dell’elemento che dovrebbero
rappresentare oppure quando tali modelli creano essi stessi il processo che idealmente
sono supposti rappresentare. Il BSM ebbe successo perché “i trader utilizzavano le
previsioni del modello BSM prima di impegnarsi negli scambi, offrendo e acquistando
contratti che fossero i più vicini possibili a quelli che il modello indicava si sarebbero
determinati dopo che gli scambi erano avvenuti” (ibidem, 100). Perciò la teoria si verificò
perché i trader, credendola vera, l’avevano resa vera. “Il modello non aveva descritto la
realtà di un mercato: l’aveva creata” (ibidem, 100), come una profezia che si autoavvera.
La prima conclusione da trarre è allora che bisogna vedere il modello BSM e i derivati
come tecnologie. La scienza economica è allora diventata anche essa la “scienza
dell’anticipare e del progettare”, cioè la tecnologia per ridurre l’uomo ad un oggetto
prevedibile e manipolabile, e di conseguenza per dominarlo.

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Lo stesso Robert C. Merton (per ironia della sorte, figlio del noto sociologo che coniò il
termine “profezia che si autoadempie”) disse che l’influenza della teoria del modello
BSM andò ben al di là della creazione del mercato dei derivati: “l'influenza della teoria
del prezzo delle opzioni sulla pratica finanziaria non è stata limitata alle opzioni
finanziarie scambiate sui mercati e nemmeno ai titoli derivati in generale... La tecnologia
per la determinazione del prezzo delle opzioni ha svolto un ruolo fondamentale nel
sostenere la creazione di nuovi prodotti finanziari e mercati in tutto il globo. Al presente e
nel vicino futuro, quel ruolo continuerà a espandersi per sostenere il disegno di istituzioni
finanziarie, strategie decisionali del top management, e la formulazione di politiche
pubbliche relative al sistema finanziario totalmente nuove” (Merton in Gallino 2011,
101). I dieci anni successivi hanno in effetti rispettato le previsioni di Merton circa
l’espansione in molti ambiti del sistema finanziario. In queste previsioni, tuttavia, non
rientravano i disastri che tale espansione ha contribuito a provocare proprio a causa della
performatività delle teorie economiche. Il problema di esse è la loro contro-
performatività: se gli attori smettono di credere alla attendibilità della teoria, la realtà da
questa creata andrà in frantumi. Tuttavia, quello che si vuol evidenziare, è la validità del
pensiero di Lukàcs: la forma di obiettività creata, la “seconda natura”, si spezza poiché
quelli che sono visti dal sistema finanziario come elementi quantificabili degli uomini
con la finalità della speculazione, cioè il bisogno primario di un’abitazione visto come un
fonte inesauribile di profitto, una merce già data, sono invece vissuti e tradotti dai
“debitori”, gli uomini in carne e ossa, nella tragedia umana di trovarsi senza una casa, a
causa dell’aumento annuo del tasso di interesse variabile sul mutuo, concesso loro
tramite una illusione e non per benevolenza delle banche, ma poiché era un principio
cardine (l’aumento annuo dei consumi) della dottrina economica neoliberale -
indistinguibile dal sistema finanziario creato - al fine di ottenere maggiori profitti. Il
sistema era quindi dipendente dal corretto comportamento degli uomini-oggetto - o servo-
unità, ma si vuol cercare di non rendere questo termine solo una metafora descrittiva,
bensì l’esito di quel progetto politico che è la tecnoscienza e in cui, citando Marcuse, “il
mondo tende a diventare materia di amministrazione totale, che assorbe in sé anche gli
amministratori” (Marcuse 1964, 175). La seconda conclusione è quindi la conferma della
tesi dei francofortesi della “apparenza socialmente necessaria”, senza di essa, senza
l’idealizzazione della realtà e degli uomini secondo un ben precisa “visione del mondo”,
la realtà stessa crollerebbe. È il caso della crisi del 2007-2008. Una causa del problema è
stata infatti l’incapacità dei tecnici e degli economisti di capire quale era la “mappa” e

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quale il “territorio”, cosa era inerente al modello e cosa invece era inerente alla realtà, e le
soluzioni per ovviare a questa sovrapposizione sono state quelle di introdurre più
consapevolmente le scienze naturali in quelle economiche. Gallino critica questo tipo di
soluzioni ricordando che tali modelli finanziari hanno risposto a particolari interessi di
determinati attori politici, che hanno cercato di estrarre valore, o meglio, espropriare
valore, dalle classe medie e inferiori non soltanto attraverso lo sfruttamento del lavoro,
ma anche coinvolgendo il maggior numero possibile di aspetti della loro esistenza nel
sistema finanziario (i bisogni di base, inclusa l’abitazione, e poi il consumo, l’istruzione,
la salute e la previdenza per la vecchiaia). Perciò, secondo Gallino, né le scienze naturali
né le innovazioni tecnologiche e finanziare potranno mai ovviare ai gravi difetti
dell’economia-mondo fino a che gli scopi che essa persegue non saranno sostituiti da
scopi che muovano da un’idea più alta dell’essere umano e delle sue responsabilità verso
la natura come sola strada per salvare sé stesso. Il fardello è allora giustamente delegato
alla capacità degli uomini di modificare il rapporto tra di loro e tra loro e la natura, cioè
alla politica, ma Gallino cade ancora nell’impasse di concepire la tecnoscienza come
neutrale. La tecnoscienza è politica. La soluzione è quella di far in modo che le
innovazioni tecnoscientifiche incorporino, per mezzo di quel processo di traduzione di
cui parlavano Marcuse e Simondon, “un’idea più alta dell’essere umano”. La
tecnoscienza è una questione di politica, etica ed estetica. La domanda che ci si dovrebbe
porre è: qual è la realtà sociale che ha permesso che le scienze economiche abbiano
potuto imitare le scienze naturali e funzionare per qualche decennio? Essa è una realtà
totalmente reificata in cui gli uomini (anche nella sfera esterna a quella produttiva) e la
natura sono diventati oggetti da cui estrarre valore e dati, e che sottende la “neutralità”
delle scienze naturali come delle scienze sociali ed economiche. Le teorie, le ipotesi, le
previsioni alla base del finanzcapitalismo sono le tecniche per idealizzare questa realtà, e
al tempo stesso per crearla e manipolarla. Il territorio qualitativo non esiste nel modello
BSM. La “mappa” del modello del BSM non tiene conto di questa qualità, ma solamente
dell’individuo-oggetto, dei desideri che gli si possono indurre o dei suoi comportamenti
resi prevedibili dal sistema. Esso è l’homo oeconomicus: l’uomo reificato e integrato in
questo territorio quantitativo, che è il territorio-mappa del BSM.

3.4. L’homo oeconomicus

35
L’homo oeconomicus è un modello economico che è diventato carne ed ossa. Sono gli
uomini che vivono nel sistema del finanzcapitalismo e che lo hanno supportato (se è
consapevole o inconsapevole questo supporto è indifferente, la coscienza reificata fa in
modo che quello che si pensa è infinitamente meno importante di quello che si è portati
a fare) per diversi anni. Tale modello concepisce l’uomo come un essere “le cui azioni
sono motivate unicamente da un principio normativo supremo: il perseguimento
dell’interesse o utilità personale” (Gallino 2011, 139). Il modello diventa effettivo se
all’uomo gli vengono offerti riconoscimenti materiali e simbolici se si comporta
secondo il modello, o deprivazioni di varia natura se devia da esso. Secondo Gallino la
cultura è la cultura neoliberale e le istituzioni sociali e culturali, come la scuola e il
mercato, la produzione e il consumo, i media e l’intrattenimento, l’amministrazione
pubblica e la politica – operano come se gli uomini fossero “uomini economici”. Anzi,
la questione è che essi sono diventati uomini economici. Secondo Gallino tale
incarnazione ha investito in profondità la personalità dell’uomo a prescindere dalla sua
posizione sociale. È dunque un modello totalitario e una delle maggiori sfide della
civiltà-mondo è l’incapacità di creare un soggetto che sia capace di distaccarsi da tale
modello. L’analisi ora diventa molto simile a quella di Marcuse: “nel finanzcapitalismo
anche il sé biologico, il fondo corporeo della personalità, la fonte delle sue pulsioni e
desideri, appare avere ormai subito le universali pressioni della cultura dominante. È
infatti la cultura dominante a prescrivere quali debbano essere gli oggetti materiali e
simbolici idonei a soddisfare le une e gli altri. Il finanzcapitalismo pianifica i consumi e
il consumatore prima della produzione, e a tale scopo si adopera affinchè le età
dell’uomo si riducano a una durata di pochi decenni: una sorta d’infanzia artificialmente
protratta, quale che sia la durata effettiva della vita biologica” (ibidem, 142). Gallino
allora ragiona sugli elementi mancanti per incivilire il finanzcapitalismo: essi sono
“visti dall’alto, tecnologie di assoggettamento ovvero di governo del comportamento
della popolazione utilizzate dagli stati contemporanei, che del finanzcapitalismo sono al
tempo stesso autori ed espressione; e, visti dal basso, i processi di soggettivazione che
adducono gli individui a inscrivere nella struttura della personalità pulsioni e schemi
interpretativi congruenti con le esigenze del finanzcapitalismo”. Le tecnologie di
assoggettamento sono, per Gallino, le micro-modalità specifiche di esercitare il potere
di cui parlava Michel Foucault che attribuì loro il nome di governamentalità, che nel
finanzcapitalismo sono state rivedute seguendo metodi scientifici che ne hanno
aumentato l’efficacia. La tecnologia di governo del comportamento del

36
finanzcapitalismo è, secondo Gallino, l’ideologia neoliberale, “che lo esplica e lo
legittima” ed è precisamente “l’imposizione sia nella pratica delle organizzazioni, di
qualsiasi genere e dimensioni, anche minime, sia nella condotta dell’esistenza
individuale, del modello di gestione dell’impresa” (ibidem, 318). L’individuo, a sua
volta, dovrebbe concepire sé stesso come un imprenditore di se stesso, cioè come se lui
e la sua famiglia fossero un’impresa con “l’obbligo e la responsabilità di “massimizzare
la propria vita”. L’applicazione universale del modello dell’impresa è operata dalla
contabilità aziendale che “lungi da essere un mero strumento tecnico, la contabilità
aziendale perviene a operare, di fatto, come un’agenzia regolatrice del comportamento
di ciascuno e di tutti” (ibidem, 319). Tuttavia, la teoria della soggettivazione che questo
testo riprende da quella di Marcuse e di Lukàcs è ben diversa da quella foucaultiana:
bisognerebbe infatti vedere il capitalismo come il Soggetto storico prevalente e
contrapporre ad esso una diversa “forma di obiettività”, cioè un diverso sistema in cui
gli individui siano realmente liberi di auto-realizzarsi piuttosto che essere prodotti dal (e
del) sistema e dalle sue istituzioni. Infatti, l’individuo-imprenditore (evoluzione
dell’individuo-produttore, che però si estende a tutti gli individui e non solo alla classe
proletaria) è un prodotto della socializzazione capitalistica. Proprio per questo Marcuse
vede l’impossibilità del proletariato di superare il sistema, poiché tale socializzazione è
bloccata e un ruolo importante lo gioca la tecnologia impiegata nella produzione del
sistema (dai mezzi di produzione e distribuzione ai mezzi di comunicazione, ecc.). Il
problema della concezione dell’ideologia di Gallino, che rimane ancorata ad una
distinzione sovrastruttura-struttura o meramente a dei discorsi senza struttura, è nel non
vedere che se l’uomo si percepisce come un imprenditore non è a causa di un discorso
(o di una mera illusione), ma a causa di un modo di produzione reificato dalla
matematizzazione delle teorie economiche, e reificante, poiché anticipa e progetta il
comportamento degli uomini proprio a partire dalle tecnologie finanziarie create e che
coinvolgono i bisogni (addirittura quelli “inalienabili”, vedi l’abitazione) degli individui
nel meccanismo di “produzione” del denaro e di determinazione dei prezzi, integrandoli
di fatto ai “produttori-estrattori”, e con essi, per parafrasare Marcuse, al sistema.
L’alienazione funziona con l’integrazione e la repressione. Il bisogno di abitazione degli
individui nel finanzcapitalismo non diviene una merce prodotta e destinata al consumo
(come nel capitalismo industriale), ma una scommessa che, se vinta, produce profitti da
reinvestire non nella produzione di altri beni, ma in altri prodotti finanziari. In generale,
il nuovo capitalismo (finanziario e, oggi, delle piattaforme), accumula profitti

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espropriando il futuro degli individui grazie a potenti tecnologie di lavorazione
avanzate, note come “intelligenze artificiali”, che trasformano l’esperienza umana in
dati che in seguito vengono trasformati in “prodotti di previsione che anticipano ciò che
farai ora, presto e in futuro”, e che poi vengono scambiati nel “mercato dei
comportamenti futuri” dove i clienti sono aziende private (Zuboff 2018). L’intelligenza
artificiale e gli algoritmi sono, quindi, ideologia, non solo dal momento in cui si
presentano come lo specchio della mente razionale umana, intendendo di fatto che la
razionalità sia riducibile e scomponibile ad una serie di sequenze ben definite, ma dal
momento in cui esse integrano il comportamento, gli atteggiamenti e i desideri degli
individui al sistema stesso che li aliena. La conseguenza di tale affermazione è che una
qualsiasi politica che voglia contrastare l’egemonia del capitale deve fare i conti con la
tecnologia impiegata dentro e fuori dalla produzione, e crearne un’altra che
incorporando una concezione diversa dell’uomo sappia risolvere i problemi che un
mondo globalizzato pone di fronte. Si sta dicendo che è necessaria la nascita di
ideologie forti, capaci di “toccare” le profonde cause strutturali delle crisi mondiali, e
che includano, nella loro teoria, lo sviluppo di tecnologie alternative e utili alla causa
per cui si sta combattendo. L’attuale crisi della democrazia rappresentativa, la nascita
del “cittadino critico”, e il ritorno del “politico” stanno lì a significare che per la prima
volta dopo svariati anni le coscienze degli individui stanno iniziando a de-reificarsi ma è
necessario guardarsi dalla soluzione politica proposta quasi unanimemente nel mondo
occidentale per trasformare la società, vale a dire il populismo, di destra o di sinistra che
sia.

CAPITOLO 4 – IL POPULISMO, LE NUOVE “IDEOLOGIE” E IL RUOLO


DELLA TECNOSCIENZA NEL MANTENIMENTO DELLO STATUS QUO

Conclusione

Terminare questo testo tenendo conto dell’attuale situazione politica è necessario per dare
il giusto peso all’analisi della tecnoscienza come elemento egemonico che garantisce nel
tempo un certo assetto socioeconomico e come veicolo di reificazione. Si cercherà
tuttavia solamente di accennare qualche spunto di riflessione su alcuni fenomeni
contemporanei e sul Soggetto storico del mutamento sociale. Il “momento populista”
(Mouffe 2018) che sta attraversando gran parte degli Stati europei e degli Stati Uniti

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come critica all’establishment e all’ordine neoliberale sta ad indicare la possibile fine
delle “società bloccate” che Marcuse criticava. La coscienza reificata, che in Marcuse
(1964) prende il nome di “Coscienza Felice”, sta diventando una “Coscienza indignata”,
vale a dire che gli individui pensano che, alla fine, il sistema non mantiene le promesse.
Eppure, la “strategia discorsiva di costruzione egemonica del consenso”, cioè il
populismo secondo Laclau e Mouffe (1985), non basta a trasformare la società. Anzi, una
tale strategia rischia di bloccare e far riconfluire all’interno della matrice ideologica
neoliberale il fenomeno di critica che sta avvenendo nel mondo contemporaneo. Infatti, il
populismo è definibile una “ideologia sottile” (Mudde 2004), vale a dire una ideologia
politica che si fonda semplicemente sulla dicotomia tra “popolo” ed “elites” e che si lega
con “ideologie” politiche più forti (secondo Mudde) come il nazionalismo e il
“nativismo”, cioè sulla distinzione “noi/loro”, dove “noi” sono gli abitanti autoctoni di un
paese e “loro” sono i non nativi (per esempio, gli immigrati). Ma secondo Laclau e
Mouffe il populismo non è solo una ideologia, è un progetto che può essere adottato
anche dalla sinistra per cogliere la molteplicità delle lotte contro le diverse forme di
dominio. La loro prospettiva è anti-essenzialista e non privilegia la lotta di classe per
arrivare all’emancipazione. Il progetto populista consiste nell’istituzione di una “catena di
equivalenze” che articoli le domande della classe operaia e dei nuovi movimenti sociali
con l’obiettivo di formare una “volontà comune” e puntare così a ciò che Gramsci
chiamava un’”egemonia espansiva”. Il populismo di sinistra come strategia discorsiva ha
l’obiettivo di creare una frontiera tra il “popolo” e “l’oligarchia”. Il populismo di destra è
invece criticato da Mouffe (2018) poiché non si oppone necessariamente contro
“l’oligarchia” neoliberale, il “noi” e il “loro” discorsivamente costruiti sono escludenti e
xenofobi e rischia pertanto di collassare in una forma autoritaria di neoliberismo di
stampo nazionalista che, in nome del recupero della democrazia, finirebbe per limitarla
drasticamente. Urbinati (2014) critica anche il populismo di sinistra, affermando che
l’autoritarismo e lo sfociare in un “plebiscitarismo” è implicito nella strategia populista in
sé. Quello che invece si vuole suggerire in questo testo è la strumentalità del populismo,
che è inteso da Laclau come “logica formale” della politica che ha, in breve, l’obiettivo
della costruzione del “popolo”, cioè di una identità collettiva capace di significare la
“catena di equivalenze” formata da tutte le particolari identità messe sullo stesso piano. Il
problema di una concezione meramente retorica e formale della politica rende il
populismo aperto alla stessa critica che Marcuse fece a Weber e alla razionalità: Laclau
ha astratto dal contenuto irrazionale del populismo, ipostatizzandolo nella Ragione

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populista che è secondo Laclau “l’elemento democratico nei sistemi rappresentativi
contemporanei”. Come aveva notato Marcuse (1968) riprendendo e rivolgendo Weber
contro se stesso, “la democrazia corrispondente all’industrializzazione capitalistica,
minaccia di trasformarsi nella dittatura plebiscitaria: la ratio borghese invoca il carisma
irrazionale”. Il populismo è quindi il nocciolo irrazionale presente nella democrazia sotto
al capitalismo industriale (e oggi, finanziario e delle piattaforme). Weber aveva capito
che la democratizzazione portava le masse ad assumere un carattere conservatore, e le
classi dominanti ad assumerne uno cesaristico, ma non aveva legato queste tendenze alla
struttura stessa del capitalismo, come invece ha fatto la teoria marxiana che Marcuse
riprende, e che prevede “l’impossibilità della produzione capitalistica di mantenere il
libero mercato con la libera concorrenza” (Marcuse 1968, 9). È una analisi ancora valida
nel mondo contemporaneo, la rinascita di governi neofascisti e neonazionalisti supportati
dalla base proletaria e la monopolizzazione dell’economia dovuta al finanzcapitalismo e
al capitalismo delle piattaforme lo dimostrano. In effetti Marcuse descriveva il
capitalismo del suo tempo come “capitalismo organizzato”, cioè come sinonimo di
monopolistico e burocratico (ibidem, 82). Per Marcuse, “la democrazia plebiscitaria è
l’espressione dell’irrazionalità divenuta ragione” (ibidem, 17). La ragione populista,
come logica formale, astrae dagli interessi particolari che vi stanno sotto, e si riduce in
una mera retorica performativa (come vuole Laclau) che è incapace di scendere in
profondità per identificare le cause strutturali delle crisi economiche, ambientali, della
rappresentatività stessa della democrazia liberale. La costruzione del “popolo” non è altro
che l’identificazione con un nome che produce come effetto, la costruzione altrettanto
discorsiva di un “Nemico” che non ha nessuna base oggettiva, esso è una costruzione
egemonica che varia in base al discorso che viene effettuato, e può essere benissimo lo
“Straniero”, o i non nativi, oppure “l’oligarchia”, come l’1%, la casta, la troika, a seconda
di quale discorso “vinca” la battaglia egemonica per definire chi è il “Nemico” e chi è “il
popolo”, cioè per costruire delle identità collettive, attraverso le quali mobilitarsi per
rivendicare la propria identità politica, intesa come la propria esistenza. Il popolo, quindi
non è una entità preesistente, ma diventa reale attraverso la performatività delle
rivendicazioni identitarie (cioè discorsive, per Laclau). Il potere costituente del discorso
crea attraverso la reificazione di un “loro” anche il “noi”, ma se questa reificazione crea il
“loro/Nemico” che opprime proprio chi lo ha “creato”, non è la stessa dinamica di
reificazione dell’identità la fonte dell’oppressione? Nella nozione di “popolo” intesa da
Laclau le differenze scompaiono, ma i rapporti di forza esistenti rimangono. La domanda

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da porsi è: perché le identità sono quelle che sono? Una critica a Laclau potrebbe forse
arrivare da Luckmann e Berger (1967): l’identità si sviluppa nella dialettica tra Società e
individuo; pertanto, le “identità collettive” sono indicabili solo come reificazioni pre-
teoretiche o teoretiche, e in questo caso sono delle false e reificanti ipostatizzazioni - è il
caso di Laclau -, proprio per questo gli autori sconsigliano di usare questo termine. Per i
due sociologi ogni società produce, a seconda del suo contesto socio-strutturale (che
deriva dalla necessaria relazione tra una specifica divisione sociale del lavoro, con
conseguenze sulla sua struttura, e dalla distribuzione sociale della conoscenza, con
conseguenze sull’oggettivazione sociale della realtà), tipi di identità, per cui analizzare le
diseguaglianze strutturali e la distribuzione ineguale della conoscenza di una società è
necessario per affrontare il problema dell’emancipazione. Secondo Laclau invece “la
società non esiste” (Laclau e Mouffe 1985), anche essa è altrettanto una formazione
discorsiva, per cui è oggetto di una battaglia per l’egemonia, cioè per una battaglia
politica che si riduce nel rivendicare la propria identità politica. Il problema è quello di
chi saprà vincere tale battaglia, ma i mezzi (che includono la conoscenza a disposizione
così come i mezzi materiali a disposizione, dati dalla propria posizione sociale) che si
impiegano in questa lotta discorsiva sono distribuiti in modo ineguale nella società, e il
rischio è che ad essere privilegiati in questa battaglia tra identità siano quelle che già
godono di una posizione socioeconomica privilegiata. L’ideologia, non intesa come
rivendicazione dell’identità politica, ma come teoria che immagina un diverso “mondo
della vita”, come espressione di una trascendenza possibile a partire dalle potenzialità
inespresse dalla realtà storica data, è invece il necessario requisito per la trasformazione
della società.
Il populismo come soluzione per la trasformazione sociale, invece, sorge in un contesto
storico le cui nuove “ideologie” mancano di cogliere le radici strutturali profonde (come,
per esempio, l’espansione incontrollata della finanza per mezzo di tecnologie sempre più
avanzate) delle crisi globali. Secondo Carlo Galli (2022), le ideologie politiche attuali
condividono tutte, dal neonazionalismo al sovranismo, dall’ideologia del “politicamente
corretto” al “complottismo”, in misura variabile, la “mentalità” individualistica del
neoliberismo. Esse sfidano sì problemi reali, causati dalle strutture della società, ma non
riescono a coglierli in modo profondo e soprattutto a pensare concretamente ad un altro
tipo di società.
L’ultima considerazione da fare è invece centrale per questo testo e riguarda l’impatto dei
nuovi mezzi di comunicazione di massa sul discorso politico in generale. Secondo Ida

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Dominijanni (2017) infatti, sia il “populismo televisivo” di Berlusconi sia il web-
populismo di Beppe Grillo si inseriscono in un “complesso processo di compenetrazione
fra rappresentanza politica e rappresentazione mediatica che invera e al contempo
stravolge la radice linguistico-discorsiva della politica […]” (ibidem, 103). Vi è l’idea
che tali modelli di populismo, strettamente legati con le ICT, “modificano le stesse forme
dell’azione politica e dell’edificio democratico, piegandole all’innovazione tecnologica,
ai tempi e ai modi della comunicazione”. Il “popolo” così diventa “popolo-audience” e
così “l’orizzontalismo” e la velocità della Rete si trasformano ancora una volta
nell’andare insieme di informazione e propaganda di cui parlava Marcuse. L’ideologia
della Rete prevedeva che le zone d’ombra della politica potessero finalmente arrivare alla
luce, ma il risultato irrazionale che si è ottenuto è quello di “opinioni equivalenti, fake
news e alternative facts, […] sondaggistica e Big Data autoevidenti” (ibidem, 104) . E
soprattutto “[…] non più trascendimento del corpo sociale nel soggetto politico ma
identificazione del popolo nel leader e rispecchiamento del leader nel popolo” (ibidem,
104). È uno scenario dove “l’innovazione tecnologica […] diventa innovazione politica:
per la prima volta il marketing, il targeting e il linguaggio pubblicitario diventano
strumenti sistematici tanto di costruzione del partito-azienda quanto di ricerca e
persuasione dell’elettorato” (ibidem, 93). Dietro alla razionalità della velocità della
comunicazione e della connettività si nasconde l’irrazionalità della velocità stessa, di una
comunicazione super-veloce che genera, allo stesso tempo, verità e falsità. Ovviamente il
fenomeno populista, che cavalca le disperazioni degli individui, ben si sposa con la
razionalità tecnologica (capitalistica, sia chiaro, quindi non formale come la voleva
Weber) che sottende alle ICT, in quanto più un argomento genera click, più esso è
“sentito”, più verrà promosso dagli algoritmi per generare profitti. Il discorso populista si
configura come pura mistificazione demagogica che elimina la possibilità della
trascendenza, e arriva anch’esso a sviluppare quell’”integrazione degli opposti” e quella
funzione anestetizzante di cui parlava Marcuse: il “Presidente operaio” del discorso
populista di Berlusconi ne è un esempio. I social media non fanno altro che confermare e
reificare la “falsa” vicinanza tra capi e subalterni. La mancanza di trascendenza avviene
oggi nell’identificazione del popolo con il suo capo.
L’elemento mancante per incivilire il capitalismo contemporaneo è la mancanza di
ideologie che mettano al loro centro la tecnologia e la scienza come elementi capaci di
risolvere gli esiti profondamente irrazionali del sistema come i problemi della fame nel
mondo, i problemi ambientali come quelli della povertà e della degradazione del lavoro,

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così come quelli delle fobie (omofobia, xenofobia, ecc.) e che sappiano articolare una
visione del mondo che: 1) riconosca il carattere universale, globale e strutturale nei
problemi particolari 2) fornisca “immaginari” tecnoscientifici come soluzioni a questi
problemi 3) attraverso la costituzione di un gruppo coeso ed elitario, che sarà formato da
scienziati, ingegneri ed altri intellettuali, sappia articolare, riformulare e aggregare in un
progetto universale le richieste particolari degli individui e porre richieste di soluzione
alle potenzialità inespresse della tecnoscienza stessa. Ciò implica quindi che gli attori
della scienza e della tecnologia si riconoscano come agenti etici, estetici e politici. È
questo il più importante passaggio di Marcuse: egli voleva responsabilizzare la scienza (e
lo scienziato, ma non nel senso di responsabilità morale e personale, bensì a livello del
metodo e dei concetti scientifici stessi), dandogli lo status di soggetto capace di giudizio.
La rivoluzione culturale in cui sperava Marcuse doveva de-reificare l’immaginazione, e
solo dopo aver fatto questo, che qui coincide con il vedere le potenzialità inespresse nella
tecnologia e le soluzioni adeguate al livello di progresso raggiunto dei bisogni primari,
essa dovrebbe ricostruire e riorientare l’apparato tecnologico di produzione. Ciò che
rende ideologia capitalistica le idee del “consumismo etico” (che è un’altra integrazione
degli opposti), è il fatto di ipostatizzare dei valori qualitativi nella sola sfera del consumo
senza rientrare nella sfera della produzione. Marcuse sosteneva che “il progresso al di là
del principio di prestazione non viene promosso migliorando o completando l’esistenza
presente con l’aggiunta di […] un po’ più di tempo libero, propagandando e praticando
‘valori superiori’, elevando se stessi e la propria vita. Sono idee che appartengono
all’economia culturale dello stesso principio di prestazione” (Marcuse in Checconi 1970,
169). Al contrario, la svolta storica è resa possibile solamente dalle realizzazioni del
principio di prestazione e delle sue potenzialità nel cambiare il mondo del lavoro e la lotta
con la natura. I soggetti della rivoluzione di Marcuse sono sì chi è fuori dal popolo, cioè
gli emarginati, i nuovi movimenti sociali delle minoranze, ma solo in prima istanza. Egli
non ha mai considerato reale la “sparizione” della classe proletaria, semplicemente ha
affermato che questi non sono ora i soggetti che potrebbero avviare la Rivoluzione, ma
nel momento in cui afferma che il cambiamento avverrà solo rivoluzionando i rapporti
produttivi, sta riaffermando la centralità della contraddizione principale del capitalismo,
che tuttavia ha sviluppato dei modi (grazie alla crescita produttiva dovuta al progresso
tecnico) per contenere questa contraddizione. La tecnologia e la scienza mediano e allo
stesso tempo permettono la scoperta e la riunificazione tra i nuovi valori e i bisogni post-
materialistici (e quindi anche estetici ed etici) che si stanno sviluppando tra le nuove

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generazioni, per esempio, e la realizzazione, la concretizzazione effettiva, di questi valori
(che vanno oltre a quelli nati sotto al “principio di prestazione”) nella sfera della
produzione. La concezione della tecnoscienza come ideologia permette di vedere in essa
una astrazione dalla realtà che diviene operativa, creatrice di un “mondo”, di una
“seconda natura”, e quindi come minaccia qualora riceva un telos esterno, ma permette
anche di vedere una promessa qualora si riconosca come un Soggetto che è sempre stato
politico, quindi capace di far valere il proprio punto di vista (che è, razionalmente, quello
della “pacificazione dell’esistenza”) e capace di sviluppare internamente, nel suo metodo,
nei suoi concetti e nei suoi strumenti un giudizio di valore (lasciando invariata
l’obiettività della scienza, ovviamente) per fare in modo che i nuovi fini vengano tradotti
in termini tecnici, riuscendo a plasmare una realtà pacificata e realmente democratica.

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