Sei sulla pagina 1di 13

Il video: un non-luogo

Valentina Valentini

. 1 Dematerializzare l’opera: video e arte

Con il termine video-arte (video e arte) si tende ad indicare una zona di sperimentazione condotta
da parte soprattutto di artisti visivi, che utilizza come specifica materia espressiva il dispositivo
elettronico di produzione di immagini e suoni, indipendentemente dagli apparati di trasmissione
televisiva. Prima di cercare di identificare i tratti di una produzione che va sotto tale nome, va
ribadito che essa è stata resa possibile, grazie all'opera d’azzeramento che le neo-avanguardie hanno
svolto nei confronti delle convenzioni disciplinari delle arti. In modo particolare per le arti visive,
ma - in misura diversa - anche per il teatro, la danza, il cinema, si è trattato di compiere un salto nel
vuoto: dallo spazio delimitato della tela dipinta ai paesaggi naturali della Land Art, dalla superficie
pittorica al corpo dell’artista - Body art -, dalla galleria d'arte ai luoghi trovati e imprevedibili dello
spazio urbano ed extra-urbano. Ignorando la propria tradizione storica, ciascun’arte si è resa
disponibile a travalicare i limiti della propria disciplina e a diventare altro dall’identità accertata e
riconosciuta: il cinema ha immaginato il paesaggio mediatico, le reti intermediali e un rapporto
sinestesico con le immagini in movimento; 1 il teatro ha rifiutato la frontalità prospettica del
palcoscenico all'italiana, il punto di vista unico, la dominanza del testo letterario, la centralità
dell’attore delegato a riferire le parole dell'autore, affidando allo spazio, al gesto, alla visualità e al
suono, il ruolo di dispositivi dominanti.2
Partire da zero ha significato fare atto di rifondazione delle arti, attraverso un lavoro di
decostruzione analitica che è stata la premessa per la sperimentazione multimediale, dall’Happening
alla Performance Art, nel cui ambito è nata la video-arte.
Se guardiamo da una prospettiva internazionale, un antecedente significativo per l’estetica
videografica, è stato il movimento Fluxus, con la sua enfasi sulla processualità e
dematerializzazione dell’oggetto artistico, per il suo attraversamento «continuo e vivificante fra le
diverse discipline e i diversi linguaggi, che caratterizza la scena degli anni Sessanta e mette tutto in
risonanza, dalla musica al teatro, dal linguaggio del corpo ad una certa processualità». 3 Nel Flux
Film Program del 1966 (Nam June Paik, George Maciunas, Wolf Vostell, Yoko Ono), si ritrovano
già i tratti che diventeranno propri della sperimentazione elettronica: antinarratività, assenza di
parlato, accelerazione e decelerazione del ritmo di scorrimento delle immagini che provoca
deformazione, insieme alla ripresa in tempo reale.
Il dispositivo elettronico è entrato, infatti, nelle diverse pratiche artistiche in un periodo di
sperimentazione radicale di tecniche, spazi, materiali e procedimenti, per la sua capacità di
soddisfare molte delle esigenze del nuovo universo estetico, senza però contrapposizioni frontali fra
vecchio e nuovo:- le neo-avanguardie infatti piuttosto che rifiutare la tradizione, professavano
e praticavano una consapevole ignoranza. È importante sottolineare questo atteggiamento di
estraneità degli artisti nei confronti dell’apparato disciplinare esistente: non avendo molti di loro
una formazione accademica, erano autorizzati dalla nuova estetica, che professava lo sconfinamento
nell'extra-artistico, a fare qualcosa che non voleva più definirsi come arte e che non si appellava ai
valori di finitezza formale e abilità tecnica. «Il tipo di lavoro che io, e la maggior parte degli artisti
della mia generazione abbiamo svolto - dichiara Vito Acconci, esponente di punta della stagione
della performance - era legato all'utilizzazione di metodi differenti, di materiali diversi che
capitavano a portata di mano. Non pensavamo all’arte come se fosse confinata in media particolari;
piuttosto pensavamo all’arte come a un non-campo nel quale si potesse importare da qualsiasi altro
campo del mondo; era difficile, allora, appuntare e glorificare il "nuovo", perché non eravamo mai
stati collegati con il vecchio e non ne avevamo mai ricevuto committenze». 4

1
La prima generazione di artisti che ha usato il video non proveniva né dal cinema né dalla
televisione, ma dalle arti visive, dalla musica, dalla danza, dalla poesia, dal teatro, coagulandosi in
quell’area d’azzeramento degli specifici linguaggi che è stata la Performance Art. I motivi di ordine
estetico per cui gli artisti incominciarono ad usare il video sono molteplici: innanzitutto il mezzo
elettronico appoggiava magnificamente la tesi che l’arte visiva avrebbe dovuto liberarsi dell’oggetto
a favore dell’idea: Process art, Arte concettuale sono termini diversi per indicare una medesima
predisposizione estetica, che è essenzialmente quella di non separare l’opera dall’artista che la
produce e di sostituire l’opera con l’idea, comunicata in vari modi, un’idea che non si fissa in un
prodotto finito: «Il film e specialmente la televisione offrono in un certo senso all’artista la
possibilità di evitare la materializzazione delle sue idee; la trasmissione televisiva e la
videoregistrazione creano un diretto contatto fra l’artista e un potenziale pubblico. La trasposizione
dell’idea in termini di comunicabilità, per usare il termine di Weiner, in una visualizzazione, giova
all’idea», 5 scriveva Gerry Schum, il creatore della prima galleria televisiva e dei primi programmi
di video-arte, Land Art (1969) e Identifications (1970). Inoltre, la natura immateriale della
performance che, in molti casi si negava allo sguardo dello spettatore, in quanto avveniva in spazi
poco frequentati o addirittura in solitudine nello studio dell’artista, o non "avvenendo" se non nella
mente del performer che la racconta o la pensa ma non la realizza, rendeva indispensabile la
documentazione video e fotografica, dal momento che costituiva l’unica prova di un evento senza
né repliche né spettatore. Realizzare un film o un video, per gli artisti visivi come Robert Morris,
Richard Serra, Bruce Nauman, era un’esperienza che s’inseriva nella natura autoriflessiva e
concettuale della loro pratica artistica.
L’aspetto del video certamente più attraente, per gli artisti, era la sua disponibilità a modificarsi,
perfino a cancellarsi, in sintonia con la nuova estetica che privilegiava la dimensione processuale ed
esperenziale del fare artistico e concepiva l’opera come qualcosa di non definitivo, ma in
trasformazione come la realtà. È stata la possibilità di avere un feedback simultaneo che ha
stimolato l’approccio di Vito Acconci con il video: «La capacità di vedere se stessi fare qualcosa
nell'esatto momento in cui la si sta facendo. Ho allora usato il video, come un processo conoscitivo,
un dispositivo di correzione: potevo fare qualcosa - potevo controllare ciò che stavo facendo, vedere
come lo facevo, scoprire dove sbagliavo - potevo correggere i miei errori e andare avanti passo
passo». 6
In particolare, la produzione video delle origini (la prima metà degli anni Settanta), è fatta di opere
video concepite come performance eseguite dall’artista esclusivamente per la telecamera e
registrate in tempo reale, differenti dalle documentazioni in video delle performance di Body art,
eseguite per il pubblico presente. Il video delle origini è uno specchio attraverso cui il performer
può scrutare le reazioni del proprio corpo in diverse situazioni, mette in azione la figura
dell’autoriflessività: l’esibire il dispositivo, sia se si tratta della singola inquadratura (riconoscerne i
limiti percettivi), sia se si tratta dello svelare il set, il momento delle riprese, ovvero rendere
protagonista la stessa “macchina da presa” (Rape di Yoko Ono, 1969) che si assoggetta ad assumere
il ruolo dell’occhio che scruta e quindi indica allo spettatore come deve guardare l’immagine,
isolando il dettaglio, sezionando e componendo l’oggetto (incluso il corpo), ricorrendo alla
ripetizione, come all’inquadratura fissa.
È la messa in scena del "guardare se stessi guardarsi" che il dispositivo elettronico promuove, è il
ruolo del "performer", in azione a livello elementare. In Mouth piece (art/tapes/22, 1974) di Arnulf
Rainer, l’artista, scruta il suo volto che muta espressione, diventando man mano più intensamente
angosciata, fino ad arrivare ad una serie di smorfie di dolore che hanno il loro culmine drammatico
quando l’artista incomincia a schiaffeggiarsi: «Nel mio lavoro - scrive Rainer - l’arte figurativa è
mimica e ginnastica. Il gesto, il dinamismo corporeo o la cinetica del volto non sono per me né un
gioco né un mezzo teatrale, né tanto meno un rituale, bensì coscienza, la forma di comunicazione
più fondamentale dell'uomo». 7 Davanti all’occhio della telecamera l’artista riscopre il corpo
umano, il volto, la carica di energia impiegata in azioni elementari, come afferrare e sciogliere (cfr.
la serie di film brevi di Richard Serra, Hand Catching Lead, 1968), l’espressività astratta di singole

2
parti del corpo, come le mani che danzano di Ketty La Rocca in Appendice per una supplica
(art/tapes/22, 1973). Lo schermo televisivo è la superficie su cui l’artista inscrive gesti, segni, linee,
figure geometriche con il corpo (F.E.Walther, 1970).
La relazione fra corpo e spazio è esplorata nei video di Charlemagne Palestine (Body music 1 e 2;
art/tapes/22, 1974) tramite il suono: l’azione del performer è di emettere un canto monodico che
inizia lento e poi man mano aumenta d’intensità, coinvolge tutto il corpo che vibra ritmicamente e
si propaga anche nello spazio della stanza contro le cui pareti Palestine, esausto, va a sbattere più
volte, fino a cadere, alla fine, a terra sfinito. In queste performance, concepite per il video, il fulcro
drammatico si ha quando l'azione sul proprio corpo produce un effetto e il dispendio di energia
provoca una trasformazione di status psico-fisico.
Il video è uno spazio totale che include lo spettatore e che attiva tutti i sensi, non solo la vista; uno
spazio di comunicazione interpersonale con uno spettatore assente e anonimo al quale affidare
messaggi politici, prescrizioni di rivolta, ammaestramenti, confessioni private, come in Home
movies (art/tapes/22 - Castelli-Sonnabend Video & FilmS Corp., 1973) e in Open Book (1974) di
Vito Acconci, nei quali c'è l’intimità di una comunicazione amorosa, ironicamente condotta con
ossessiva reiterazione verbale nei confronti di una spettatrice virtuale da sedurre. In Open Book, la
bocca aperta dell'artista occupa interamente l’inquadratura, mentre la sua voce ripete
ossessivamente l’invito: «Non sono chiuso, sono aperto. Vieni... Puoi fare qualsiasi cosa con me».
Nel video di Douglas Davis, The Florence Tapes: clothing, walking, lifting, learning (art/tapes/22,
1974) l’autore discorre con uno spettatore che guarda e che sta fuori dalla cornice del monitor,
localizzando lo spazio occupato dai due soggetti, al fine pragmatico di cercare un contatto, di far
aderire il suo corpo (che nel frattempo si è denudato) con quello dello spettatore - che avrebbe
dovuto imitarlo - sulla superficie di vetro del monitor. La letteralizzazione della comunicazione
televisiva emittente-fruitore è oggettivata nel combaciare dei corpi di performer e spettatore.
Di fronte ad una telecamera fissa, in uno spazio vuoto in cui non c’è limite fra sfondo e figura,
artisti come Bruce Nauman, Vito Acconci, John Baldessari, Peter Campus, si mettono in azione e,
grazie al dispositivo elettronico della ripresa in diretta, vedono se stessi fare qualcosa nell’esatto
momento in cui la si sta facendo. Questo meccanismo, che connota il video delle origini, si presta
efficacemente a rappresentare il dramma dell’io diviso, oltre che il costituirsi dell’autore come
spettattore, espressione dell’inscindibile nesso fra agire e guardarsi agire, che è condizione peculiare
della autoreferenzialità dell’arte contemporanea, o per dirla con Rosalind Krauss, della sua
“riflessività”. 8 Nota. In queste opere dei primi anni Settanta, lo spazio disegnato da telecamera e
monitor diventa una palestra-laboratorio entro i cui confini l’artista può, in solitudine, restando nel
suo studio, sperimentare una nuova grammatica di rapporti fra il corpo e lo spazio, l’io e il tu, il
soggetto e l’ambiente, il fisico e il mentale. Questa nuova grammatica è fondata essenzialmente
sulla cancellazione della distanza fra soggetto dell’enunciazione e enunciato, ovvero fra soggetto
(sia esso autore e/o spettatore) e opera, e fra io e mondo. Nascondere il volto (il soggetto è
inquadrato di spalle) o, viceversa, riprenderlo in un primo piano così ravvicinato da renderlo
irriconoscibile, in entrambi i casi, l’effetto è la depersonalizzazione, pur nell’eccessiva presenza di
sé.
Le letture più accreditate delle performance di Body art delle origini enfatizzano la dimensione
eroica, di sfida e di rischio personale dell’artista, aggressiva, sfiancante, votata alla produzione e al
consumo di energia. Le azioni di Abramovic&Ulay, Douglas Davis, Joan Jonas, Vito Acconci in un
certo senso opponevano resistenza alla cancellazione dell’io e del tu, mettevano in scena (come
anche i Corridors di Nauman) la possibilità - negata allo spettatore - di mettersi in immagine.
Ciononostante, quello del video delle origini è un narcisismo dell’io diviso che non comunica con il
mondo, piuttosto che un vitalismo dell’artista onnipotente: “l’opera sono io”.
Un altro soggetto ricorrente nelle opere video dei primi anni Settanta, è la condizione dell’artista e
del fare arte, che viene ironicamente espressa nella serie dei quattro film brevi, Art Make up (N.1,
White, N.2 Pink, N.3 Green, N.4 Black, 1969) di Nauman nei quali si vede l’artista che si applica sul
viso, sulle braccia, sul torace, in ciascun film, un colore diverso: bianco, rosa, verde, nero,

3
visualizzazione letterale del concetto: fare l’artista è un ruolo sociale, che prevede anch’esso, come
l’attore, un rituale e una sua maschera, il corpo come superficie monocroma, come se la pelle fosse
la tela.
In Art must be beautiful, Artist must be beautiful di Marina Abramovic (art/tapes/22, 1975), l’azione
di pettinarsi i capelli - è la visualizzazione del concetto espresso dal titolo del video, che le
immagini però smentiscono: infatti, i gesti sempre più violenti con cui l'artista passa un pettine a
denti larghi fra i capelli, l'espressione del volto, di sofferenza e di dolore che l’azione del pettinarsi
procura, la voce angosciata e il respiro affannoso, svelano la vera natura del farsi bella in nome
dell’arte.

. 2 Desautorare la pratica artistica

I am making art (1971) e I will not make any more boring art (1971) di John Baldessari sono delle
ironiche azioni - considerazioni sullo statuto dell’artista e sulla nuova estetica che ha esteso il
territorio dell’arte fin al punto da renderlo inqualificabile: nel primo si vede Baldessari in piedi di
fronte alla telecamera in uno spazio vuoto che fa dei movimenti impercettibili con le mani, con lievi
variazioni, ripetendo la frase «I am making art» («sto facendo arte»), come se il suo corpo fosse
sacro e ogni suo gesto significativo (ironizza sulle performance di Body art), mentre nell'altro scrive
per tutti i trenta minuti della durata del nastro, come se fosse una penitenza, la frase che dà il titolo
al videotape: «non farò più arte noiosa». 9
La percezione di come si struttura il tempo, nell’opera video di Bruce Nauman, si legge in
connessione con il ruolo dello spettatore: semplicissime azioni ripetute all’infinito ed eseguite
davanti a una telecamera fissa che registrava per tutta la durata del nastro (sessanta minuti) che si
sarebbe dovuto poi proiettare a ciclo continuo, in sintonia con l’estetica strutturalista - da Andy
Warhol a Philip Glass a La Monte Young - secondo cui il tempo “riempie uno spazio”, al di là del
contenuto dell’immagine e del suono. Nei film e video di Nauman non c'è nessuna demarcazione,
infatti, di inizio e fine, cosa che provoca nello spettatore un senso di estenuazione che non trova
sollievo in quanto la tensione può accrescersi ma non risolversi. Concorrono a creare tale tensione
nello spettatore, gli esercizi che, procedendo aumentano di difficoltà, per cui i movimenti sono
sottolineati con il suono e il ritmo che si accelera (Stamping in the Studio, 1968). Anche il
dispositivo del fuori-sincrono (come in Lip-Sync, 1969) è funzionale a far percepire concretamente
il tempo, creando una sfasatura fra immagine e suono, come anche il rallentare l’immagine in modo
tale che non sia possibile percepire nessun movimento. La ripetizione della stessa azione è in
funzione di narcotizzare le relazioni di causa-effetto e quelle temporali e di magnificare gli aspetti
percettivi dell’opera.
La voce che lo spettatore percepisce percorrendo alcune installazioni video e sonore di Nauman, è
la voce di comando che lo apostrofa facendolo sentire in colpa e, nello stesso tempo, vittima di
un’aggressione: Pay attention motherfuckers (1973); Get Out of My Mind, Get Out of This Room
(1968) ordina al visitatore Bruce Nauman, ripetendo la stessa frase con toni e attitudini vocali ed
espressive diverse. A questi ordini impartiti da voci invisibili lo spettatore-performer deve piegarsi e
ubbidire. 10 Questi enunciati prescrittivi fungono anche da titolo. In generale, i titoli delle opere di
Nauman sono delle vere e proprie frasi in cui il verbo è al presente continuo, a indicare la natura
processuale dell'azione registrata, funzionano come una sorta di anticipazione verbale di ciò che la
foto, il film o il video farà vedere in immagine. In un certo senso il titolo sta in un rapporto di
simmetria con l'opera nella prospettiva per cui fare e dire sono indipendenti, avendo la stessa
valenza e incidenza, perché il linguaggio equivale all'azione, sia in senso pragmatico che
considerando l'autonomia dei due campi operazionali. In questo senso i titoli delle opere
corrispondono all’operato, non le denominano soltanto.11 Dare delle istruzioni, far fare qualcosa
allo spettatore diventa un paradigma ricorrente: da Yoko Ono, i cui lavori rientrano nel genere
instruction pieces, alla voce di Bruce Nauman perentoria e aggressiva che prescrive al visitatore

4
delle sue installazioni, cosa deve fare. L’obbiettivo è quello di desautorare la pratica artistica della
sua techné e singolarità per renderla accessibile anche a chi non ha abilità o doti: ridurre,
semplificare allo scopo di rendere lo spettatore creatore e viceversa (Douglas Davis, Florence
Tapes).
La natura di questi video, rientra pienamente nel contesto dell’ estetica della Performance art, di cui
esalta sia l’aspetto analitico e concettuale che quello corporeo-esperenziale.
Il video ha promosso una vocazione autobiografica, raccontare di sé di fronte a una telecamera,
capace di penetrare in luoghi domestici e affatto spettacolari: la giornata quotidiana, le confessioni
personali, i ricordi d’infanzia, il corpo, e tutta la grammatica delle sue funzioni, costituiscono i
luoghi da cui parte l’esplorazione della realtà. Sin dalle origini si è prestato a diventare il medium
della comunicazione intima e privata, come una lettera o una pagina di diario, in cui la barriera fra
soggetto e oggetto, propria del cinema, è oltrepassata dal rivolgersi direttamente allo spectator (lo
sguardo in macchina che infrange la barriera del monitor) o a se stesso, spectator della propria
performance (la funzione autoriflessiva). Per la sua flessibilità, leggerezza e “povertà” di apparati
produttivi e distributivi, il dispositivo elettronico si è messo al servizio delle istanze di
sperimentazione “indipendente” di molti artisti - le donne sono più numerose rispetto ad altre arti -
che hanno lavorato per oltrepassare le barriere di genere fra fiction e documentario, costruzione di
una storia e testimonianza di una realtà, per affrontare la frontalità dello sguardo in macchina e della
prima persona, del discorso libero diretto di fronte alla telecamera, per raccontare la propria realtà
nel quotidiano, aldilà della cornice della rappresentazione.12 Infatti le opere video delle origini non
narrano storie, ma educano e ravvivano la percezione dello spettatore, innescano un procedimento
cognitivo in funzione della destrutturazione dei linguaggi e dei loro meccanismi.
Nel lavoro di Bill Viola, un artista della seconda generazione che ha scelto il video come mezzo
espressivo specifico, dopo l’esaurimento sia della Body art che della Performance art, si ricostruisce
anche il percorso storico di questa pratica, dai primi anni Settanta ad oggi, dal momento cioè di
indistinzione con la performance al momento della sua autonomia audiovisuale. La serie
raggruppata sotto il nome Red Tape. Collected Works, realizzata fra il 1973 e il 1975 (art/tapes/22),
è di enorme interesse perché fonde i tratti propri della performance (concepire l’opera video come
azione eseguita direttamente dall’artista) con le procedure di composizione audiovisuale possibili
attraverso l’editing elettronico, che Viola svilupperà particolarmente nelle sue opere degli anni
Ottanta. L’atteggiamento non ideologico nei confronti dei dispositivi tecnologici, la scansione lenta
della successione delle immagini sul monitor, tendono a potenziare e affinare la capacità percettiva
del soggetto, a restituire il senso di scoperta per ciò che comunemente si fa e passa inosservato. In A
Non-Dairy Creamer (1975) si vede Viola che sorseggia una tazza di caffè molto lentamente, si ode
il suono del corpo che deglutisce, succhia, respira forte e, contemporaneamente, si vede riflessa nel
liquido nero del caffè l’immagine dell’artista che sta registrando con la telecamera la scena. Il video
si conclude quando, bevuto l’ultimo sorso di caffè dalla tazza, con l’azione del bere, scompare
anche la doppia immagine dell’artista che guarda se stesso agire.
Le opere video di Bill Viola fino alla metà degli anni Ottanta, non sono solo performance di fronte
alla telecamera, perché introducono una sofisticazione del dispositivo tecnologico audio-video sia in
ripresa che in fase di editing, estranea alle opere degli artisti dei primi anni Settanta e funzionale
all’espressione di una visione del mondo lirica, dove l’uomo sprofonda nella natura, la spiritualizza
e la reinventa come in sogno. In Chott el-Djerid (A Portrait in Light and Heat, 1979), la telecamera
è fornita di speciali lenti capaci di rendere visibili fenomeni impercettibili. Le sue opere esprimono
una sorta di stupefazione nei confronti delle cose della natura, che si dà in immagine, sotto forma di
un paesaggio in cui l’uomo fa la sua comparsa misteriosa e solitaria (The Reflecting Pool, 1977-79)
come nelle prime fotografie in esterni di Eugène Atget. L’esperienza che propone all’osservatore è
l’estatizzazione che proviene da un’immersione con tutti i sensi nell’opera. Attraverso l’uso di
immagini e suoni ad alta definizione, ottiene l’effetto di simulazione del naturale: l’immagine
assume concretezza e malleabilità come se fosse la cosa vera e lo spettatore ha l’impressione di

5
essere trasportato fisicamente nei luoghi e nelle situazioni che propone, di vivere anche lui
l’esperienza che ha vissuto l’artista.

. 3 Reverse television: video e tv

«You are the product of TV», recita la scritta del video di Richard Serra Television Delivers People
(1973), uno dei primi manifesti, lapidario e ironico, contro il potere dalla televisione.
Il video è stato usato contemporaneamente in ambito artistico e in ambito sociale - movimenti e
gruppi radicali di controcultura e controinformazione - in funzione partecipativa e di attivazione di
processi di socializzazione e di identificazione collettiva. È stato il medium della creatività diffusa,
di promozione dello spettatore in operator, la cui efficacia si misurava pragmaticamente,
dall’intensità del coinvolgimento che riusciva a suscitare nel contesto in cui interveniva. Le opere
video delle origini sono programmaticamente antispettacolari: scena fissa, tempo reale, soggetti
presi dall’universo comune: non avevano lo scopo di divertire lo spettatore, quanto di produrre uno
stato di crisi e di disagio.
Alle origini il video è stato un medium di cui si sono impossessati movimenti femministi e gruppi
politici in quanto favorisce processi di partecipazione e di socializzazione. A partire dalle
dimostrazioni del movimento studentesco del Sessantotto in Italia come in Francia, dai cinegiornali
studenteschi (in 16 mm) rivolti sia al movimento che all’esterno, con l’estendersi delle lotte per il
diritto alla casa, alla salute, con l’occupazioni delle fabbriche, le manifestazioni nelle carceri, il
video si presta a diventare strumento di denuncia immediata e diretta in mano a chi lottava contro i
poteri dominanti. Il gruppo romano Videobase (Alfredo Leonardi, Guido Lombardo, Anna Lajolo),
Silvano Agosti, Ant Farm, Paul Garrin, i Gorilla Tapes, in periodi, modi e aree geografiche diverse,
sono stati motivati da analoghe istanze: far circolare immagini scomode, escluse dai canali
dell’informazione ufficiale e testimoniare di una realtà che non aveva accesso ai media di massa. 13
La riflessione degli artisti, europei e americani, che incominciano a sperimentare il dispositivo
elettronico (Dan Graham, Frank Gillette, Antoni Muntadas, Vito Acconci), o che impegnati
politicamente tentano di fare opera di controinformazione (Jean-Luc Godard, Studio Azzurro,
Gorilla Tapes) o di istituire dei canali gestiti da artisti [ricordiamo le trasmissioni di Nam June Paik,
Good Morning MR. Orwell (1984) trasmessa via satellite], è rivolta alla televisione. Citiamo, fra i
tanti contributi, il saggio di Vito Acconci Television, Forniture, and Sculture: the Room with the
American View 14 e di Dan Graham Video in relation to Architecture (1979). In entrambi, con
un approccio socio-antro-psicologico, si focalizza il ruolo che la TV svolge nel contesto della
famiglia- casa-privato della società americana, in una sorta di rapporto speculare: la famiglia di cui
la TV parla è la stessa famiglia che guarda la TV che parla della famiglia: condividono valori, miti,
vita domestica, tensioni, la TV alimenta il voyeurismo dello spettatore e nello stesso tempo lo
addomestica e nasconde la manipolazione che opera nei suoi confronti, trasformando l’American
Family in un efficace strumento commerciale. Numerose opere video, volte sia ad analizzare i
codici comunicativi (il pubblico vs il privato), i dispositivi di sorveglianza degli spazi pubblici, il
feedback che si realizza con un sistema a circuito chiuso in cui gli spettatori possono osservare il
proprio comportamento in date situazioni, e altro. Queste opere mettono in stretto rapporto la
sperimentazione videografica delle origini con le scienze sociali, come l’antropologia, la psicologia
(Peter Campus), la sociologia, contribuendo a oltrepassare le barriere fra la sfera dell’arte e quella
della società, arricchendo entrambe di riflessioni non banali: «Guardare la televisione è come fissare
il fuoco in un caminetto o guardare una lampadina. L’osservatore è “scaldato”, l’informazione è
stata trasferita: “non sono più me stesso”, potrebbe dire a ragione lo spettatore. Bene, chi sei tu
allora? Tu sei ciò che vedi. Non c’è tempo per pensare, l’informazione si è già impiantata nel tuo
cervello. Lo spettatore ha la televisione dentro di sé, come un cancro ( la malattia che domina il
nostro tempo, il tempo in cui la televisione è divenuta il medium dominante); […] la televisione

6
conferma la diagnosi che dice che i confini fra il dentro e il fuori sono confusi: la diagnosi per la
quale il concetto del sé è antiquato […]». 15
Six fois deux - Sur e Sous la communication (Jean-Luc Godard, 1976), trasmesso su France 3 tutte
le domeniche da luglio ad agosto e prodotto dall’INA, come pure France, tour détour deux enfants,
(Jean-Luc Godard, 1977-78), sono stati i primi video prodotti dall’appena creato laboratorio video
di Godard che aveva abbandonato il cinema-industria per dar vita a un lavoro di de/collage
elettronico: «Andiamo più lentamente. Bisogna scomporre». Il video deve funzionare come uno
scalpello, per verificare se è ancora possibile costruire un senso con le immagini. 16
La produzione video di Antoni Muntadas dalla metà degli anni settanta fino alla metà degli anni
Ottanta ha come soggetto il rapporto fra televisione e spettatore, ogni video è un’opera di
destrutturazione dei modi di funzionare della televisione: Liége (1977), prodotto dalla televisione
belga esamina l’informazione pubblica e privata, personale e alternativa, lo stesso On Subjectivity,
About TV (1978) si interroga su come le persone guardano e leggono un’immagine, su come siamo
influenzati dalle trasmissioni TV e su come le interpretiamo, sulla differenza fra leggere un giornale
e guardare la TV, sulla pubblicità ecc. Media Ecology Ads (1982), in tre parti ribalta lo spot
pubblicitario in favore di una ecologia dei media.
In Reverse Television, Portraits of Viewer, Compilation Tape (1983-84) Bill Viola immagina una
“televisione al contrario” e realizza dei ritratti (30” ciascuno) di spettatori che guardano la TV, da
trasmettere come “intervalli fra i programmi televisivi”, con una sorta di effetto straniante.
Per Jean Paul Fargier, come per Godard il passaggio dal cinema militante al videomilitante è stato
naturale. La tecnica più accredita per praticare la guerriglia televisiva o contro la TV, è stata lo
zapping, trasposto dal cut up letterario di William Borroughs ai programmi televisivi. 17
Accumulare frammenti è stato, alle origini del video, accanto alla ripresa in tempo reale (della
durata equivalente alla lunghezza della bobina), il procedimento più comune (riunire oggetti
disparati in un posto unico). Nello strappare una sequenza da un contesto e mescolarla con altre
prese da contesti diversi, si declina una pratica propria e specifica del dispositivo elettronico, il
frammento che compone un nuovo discorso a partire dalle estrapolazioni effettuate, in direzione,
all’origine, comico-dissacrante - antitelevisiva, radicale ed eversiva - e poi semplicemente formale e
spettacolare ( John Maybury). S’installa con il dispositivo elettronico l’archivio come repertorio
da cui prelevare immagini, in direzione di una neutralizzazione delle differenze fra reale e
simulacro oltre che fra i generi. Proprio perché effimera, la televisione basata sulla messa in onda di
programmi, ha promosso, di converso, il sistema dell’archivio, ovvero della conservazione per
successive repliche dello stesso programma.

. 4 Prodotto e processo: cinema e video

Giova, in questa ricognizione interrogarsi sui rapporti di familiarità/distanza fra cinema e video alle
origini, in un momento in cui il cinema, con l’avvento delle tecnologie digitali, ha incominciato a
riflettere sul cambiamento nel modo di fabbricare immagini e di pensare con il linguaggio delle
immagini.
Il cinema sperimentale, d’avanguardia e d’artista - tre definizioni che corrispondono a fasi storiche
diverse della produzione cinematografica sperimentale - ha certamente costituito un riferimento
concreto, la tradizione più prossima per alcuni artisti che hanno iniziato a usare il dispositivo
elettronico. Non è possibile però generalizzare, perché in molte esperienze l’ignoranza è stata il
terreno di partenza. Dai primi anni Venti con Hans Richter, Marcel Duchamp, Picabia, Man
Ray, Luis Buñuel, agli anni Trenta con Dziga Vertov, continuando negli anni Quaranta con
Maya Deren e il New American Cinema, Stan Brakhage e John Mekas e negli anni Sessanta
con Warhol e Michael Snow, si declina un comune denominatore fra cinema e video, che è la
relazione spazio-temporale che permette di esplorare lo statuto dell’immagine. 18

7
Fra la fine degli anni sessanta e i primi anni Settanta, per gli artisti che lavoravano con le immagini
in movimento, passare dalla pellicola al magnetico è stato naturale (Art Make Up di Nauman è stato
girato in pellicola, 1967/68) e insieme tentare di comprenderne la specificità del dispositivo
elettronico. Scrive Vittorio Fagone: «Progressivamente però, a partire dalla fine degli anni Sessanta,
si ha un assorbimento nel video di molte pulsioni che sono state tipiche del cinema sperimentale e
d’avanguardia. Il progressivo affermarsi del video ha due chiare ragioni; la maggiore agilità e
immediatezza del nuovo mezzo, e la particolare dimensione che in esso assumono la luce (nella
quale è possibile inscrivere un’immagine) e il tempo (con la singolare dimensione di continuità, di
riproduzione della realtà nel tempo reale)».19 La videoregistrazione, a differenza della ripresa in
pellicola permetteva di raccogliere una maggiore quantità di materiale rendendo praticabile l’uso
del mezzo in funzione d’intervento sociale, di discussione, confronto, processo di partecipazione
alle fasi di produzione quindi, e non film compiuto. Ne consegue che il cinema viene identificato
con prodotto e video con processo, dicotomia che costituisce la debolezza e l’urgenza motivante che
ha portato il video al centro delle pratiche sociali, culturali più radicali e “trasgressive” degli anni
Settanta.
In effetti, nei primi anni Settanta, nel momento in cui la scena video, incominciava ad emergere
negli Usa e poi anche in Italia con art/tapes/22, con Circuito Chiuso-Aperto, dominava il fenomeno
del cinema strutturalista sperimentale da Maya Deren a Stan Brakhage e fra i due mondi, il video
ancora agli esordi e il cinema sperimentale, per quanto marginale rispetto all’industria, tuttavia più
organizzato, non c’erano rapporti diretti (Jonas Mekas a New York aveva fondato l’Anthology Film
Archive dove programmava sia film sperimentali che video, ma i pubblici, testimonia Bill Viola,
erano completamente diversi: infatti «Chi lavorava con il video andava a vedere opere di film-
maker molto più di frequente di quanto i film-maker andassero a vedere dei video. Generalizzando,
i film-maker ritenevano che il lavoro con il video fosse infantile, primitivo e molto rozzo. Gene
Youngblood è stato il primo a rendersi conto che il video fosse un’estensione del lavoro
sperimentale del cinema […] ma per la maggior parte dei casi la reazione dei film-maker era ostile e
negativa».20
Pochi sono stati i registi di cinema che hanno guardato con interesse al video e alla televisione,
riconoscendo la peculiarità di questi nuovi media: non la largesse dello schermo ricco di dettagli,
ma un’intimità con lo spettatore, fatta di primi piani, il diverso trattamento e funzione che assume la
musica che non si limita a creare l’ambiente, ma struttura le immagini.

In Italia fra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta si è verificata, allo stesso modo, una
interessante sperimentazione audiovisuale che ha coinvolto sia artisti visivi come Gianfranco
Baruchello, Mario Schifano, Ugo Nespolo, Luca Patella, Vincenzo Agnetti, Gianni Colombo (oltre
gli artisti coinvolti da Maria Gloria Bicocchi nella produzione di art/tapes/22), che film-maker come
Alberto Grifi, Stefano Agosti, Guido Lombardo e Anna Lajolo.
Le origini del video vanno dunque cercate in questo contesto assolutamente variegato, mosso da
differenti motivazioni, con background diversi e con una resa produttiva a volte estemporanea. 21
Passando dalla tela allo schermo, gli artisti enfatizzano i tratti percettivi dell’immagine (in
movimento), portando nel suo dominio tratti propri della pittura: isolare un dettaglio, scomporre la
sequenza e congelare il fotogramma: Fabio Mauri realizza degli schermi vuoti, spazi sospesi bianchi
in cui l’immagine assente può diventare presenza virtuale (come un monitor televisivo che si sta
scaldando) e, se lascia lo schermo privo di immagini, è perché vengono proiettate sulle persone. Lo
schermo anziché la tela diventa esso stesso oggetto di rappresentazione aldilà delle immagini che
può accogliere. Infatti «schermi vuoti, preparati a ricevere le immagini sono anche i primi quadri di
Mario Schifano, monocromi. Poi il cinema diventa espanso e le proiezioni sono progettate per
schermi multipli, ma anche su persone e oggetti».22
Per il cinema indipendente italiano fra gli anni Sessanta e Settanta, il passaggio al video non si è
verificato, almeno con la consapevolezza di affrontare un nuovo linguaggio, dato che il video era
considerato la mano sinistra, un ripiego dovuto alle ristrettezze di budget: «Il video appare un

8
mezzo dolce, meno affaticante del cinema. Raramente si tiene conto che ottenere risultati efficaci
nel video impegna una conoscenza non solo tecnica del mezzo, ma del suo particolarissimo
“dispositivo”linguistico”».23
Esemplare è il caso di Paolo Rosa (Studio Azzurro), che nel clima d’impegno politico dei primi
anni Settanta, abbandona il lavoro d’artista visivo e fonda il Laboratorio di Comunicazione
Militante con l’obbiettivo di fare controinformazione, denunciare, svelare, destrutturate le immagini
veicolate dalle istituzioni. Ma pur provenendo dalle arti visive e dalla fotografia, fino all’opera Luci
di inganni (1982) i futuri fondatori di Studio Azzurro al video preferivano il cinema, influenzati da
Andy Warhol (non tanto dai film, difficili da vedere in Italia, quanto dai libri su Andy Warhol) che
parlavano di una pratica cinematografica più vicina, chiaramente, a quella delle arti visive, un
cinema visivo senza sceneggiatura.

. 5 Una storia che non c’è

La pratica videografica contempera due tendenze: la ripresa in tempo reale - differente dal piano
sequenza lungo di Arca Russa (Aleksandr Sokurov, 2004) - capace di far sprofondare l’occhio-
corpo dello spettatore in un paesaggio fino al punto di metterlo nell’evento ripreso; il collage e
décollage sia all’interno del frame (finestre, incrostazioni, sovrimpressioni) che come flusso.
Ovvero la funzione parodica, l’effetto di scalpello utile a scardinare le convenzioni del linguaggio
audio-visuale convive con il tempo reale dell’evento registrato nel suo accadere, senza cornici
rappresentative, sia in rapporto all’uso pubblico del dispositivo elettronico (circostanze di natura
politica e sociale, di lotta e di ricerca) che privato (il video come diario intimo). In questa
prospettiva, la miniaturizzazione progressiva del dispositivo tecnologico favorisce il recupero dal
basso della dimensione “calda” del medium, narcotizzata dall’uso istituzionale e di potere dei media
di massa, TV e industria del cinema.
L’uso della telecamera come specchio sia per l’artista che per lo spettatore (il feedback del circuito
chiuso) coniuga, nelle prime installazioni video, la figura dell’autoriflessività che è un tratto
dominante l’estetica contemporanea, amplificato dal dispositivo elettronico che moltiplica le voci
dei soggetti enunciatori, la scissione fra voce e corpo e tutte le nuove figure declinate dall’installarsi
dell’io diviso, del soggetto che si guarda guardare.
Appartiene alla pratica videografica, l’attitudine di mettere al centro lo spettatore, bersaglio di
rituali aggressivi - desacralizzanti il ruolo dell’artista e contraddittoriamente affermativi del suo
potere nel gestire l’opera. In linea generale la sperimentazione video ha contribuito a
desoggettivizzare, spersonalizzare la pratica artistica, semplificando il processo di produzione
dell’opera in modo da eliminare le barriere costituite dalla techné e dalle competenze (creatività
incluso), sottraendo forza alla funzione simbolica-interpretativa in cambio di un frustrante ruolo di
performer eterodiretto. E infine la dematerializzazione dell’opera in immagine (elettronica)
ambivalentemente favorisce una estensione dei confini-spaziotemporali dell’opera (ma ciò vale solo
per i videomonocanale, non per le installazioni, il cui regime è simile a un’opera effimera), e un
carattere di processualità (l’opposto della compiutezza e oggettualità) che porterà alla messa in crisi
della stessa categoria di opera e all’enfasi sul progetto come possibilità di navigare fra media
diversi, di declinare un’idea in vari formati supporti, contesti, modi fruitivi.

Riguardando a distanza di almeno trent’anni la breve storia del video, ci sorprende la forza di
rottura che il nuovo medium ha catalizzato e espresso, in quanto ha incarnato e rappresentato le
istanze estetiche più radicali dell’arte in un momento storico denso di sconvolgimenti sociali e
culturali.
È sorprendente verificare come l’essere il video un medium senza tradizioni - il che ha significato
sia l’esaltazione di scoprire come potesse essere utilizzato che la depressione di non avere maestri e
contesti culturali con cui confrontarsi - abbia provocato una vivace speculazione da parte degli

9
artisti che hanno incominciato a usarlo («Era una forma ibrida che contribuiva a creare un nuovo
linguaggio, un momento davvero notevole. Non credo che in vita mia sarò ancora così fortunato da
trovarmi in una fase così pregnante della storia dell’arte» afferma David A. Ross.24 Nel contesto
culturale e artistico di quegli anni diversi fattori contribuivano a rendere la scena dell’arte animata
nel contempo da elaborazioni di nuove teorie e nuove pratiche artistiche.
È chiaro che la sua natura ibrida - all’incrocio fra diversi media, dal cinema alle arti visive, dal
teatro alla danza, alla musica - rende complessa sia la ricostruzione storica dei rapporti e
interferenze che si sono sviluppate con le altre arti (per cui le storie spesso guardano da ottiche
parziali, arti visive o cinema), non riuscendo a comprendere nell’analisi le interferenze atte a
rendere pertinente l’approccio al nuovo medium. Ed è stata proprio questa “intermedialità” per un
verso e l’erronea ma imperante dinamica per cui sul terreno delle nuove tecnologie, la più nuova
scaccia la vecchia, che ha portato il video a una rapida scomparsa dalla scena non dell’arte né del
mercato, ma in quanto autonomo - per quanto indistricabilmente liminare - mezzo espressivo.
Perché la produzione video e gli artisti che a essa si sono dedicati, si chiedeva Acconci (1988), è
nata morta? Perché non attraeva il collezionista che chiede al sistema dell’arte qualcosa di unico - è
la risposta - ma non attraeva neanche la TV, pur appartenendo al suo contesto, e non si inseriva
neanche nella dimensione dell’home video. Collocandosi nella galleria/museo rivendicava la qualità
di oggetto d’arte, e sviluppava una sensibilità scultorea nei confronti dello spazio, avendo bisogno
di un perimetro in cui iscriversi.
In trent’anni di esistenza vitale ma ai margini, il video non è riuscito a diventare istituzione né
accademicamente, in quanto si rifugia presso altre discipline - le arti visive e il cinema più
frequentemente - né rispetto ai mass media per i quali è oggetto intrattabile dal carattere esotico.
D’altra parte la produzione elettronica da esigua e ben identificabile, com’è stata fino alla metà
degli anni Ottanta, espressione di una particolare tendenza estetica, è diventata con l’avvento delle
tecnologie digitali e della generazione di artisti emersi negli anni Novanta del secolo scorso (meno
addestrati negli studi di storia dell’arte quanto di moda, pubblicità, mass media), il mezzo
espressivo e il supporto più comunemente usato dagli artisti visivi. Paradossalmente, a
quest’enorme proliferazione dell’immagine in movimento su supporto elettronico e digitale, non ha
corrisposto un consolidamento del video come storia, tradizione, linguaggio, istituzionalizzazione
come apparato, quanto una sua scomparsa, annegato nella produzione generalizzata di immagini in
movimento fuori sia dal cinema che dalla televisione. Questo paradosso si è verificato in relazione a
diversi fattori: le tecnologie digitali (che permettono agli artisti un processo di produzione,
compreso l’editing, gestibile in casa), le reti informatiche che hanno sottratto investimenti (quanto
prima veniva distribuito, negli USA, dal National Endowement for the Arts per finanziare progetti
di artisti che lavoravano con il video, è stato spostato a favore del web. Anche in Europa, un centro
come Montbeliard (CICV), negli anni Novanta ha dirottato le sue risorse su Internet e poi è stato
definitivamente chiuso.
E infine l’adozione da parte delle arti visive e del cinema e la spartizione del capitale costituito
non tanto dalla storia del video, quanto delle forme espressive cui ha dato vita ( le installazioni
soprattutto), mette fine e pacifica la liminale storia del video come non luogo: il video trova
finalmente dei luoghi, ma a prezzo di perdere la memoria di sé: nei musei e nelle gallerie il formato
installazione (video o multimedia, anche sotto le mentite spoglie di un video monocanale proiettato
su una o più pareti in modo da acquisire una dimensione spaziale) è diventato una presenza
pervasiva: le immagini spaziano dappertutto su qualsiasi tipo di supporto. Assorbito da un lato dalle
arti visive, dall’altro dal cinema (anche come cinema espositivo), il territorio ibrido del video
sembrerebbe evaporato, svanito insieme alla sua storia, proprio a partire dalla rivoluzione delle
tecnologie digitali e multimediali che hanno comunque modificato lo statuto dell’immagine in
movimento, abbattendo steccati e unificando procedimenti e metodi di produzione
dell’immagine, tanto che nel secolo XXI diventa poco pertinente distinguere le opere in base ai
supporti impiegati. 25

10
Dalla prospettiva attuale, l’insegnamento che è possibile trarre dal fenomeno che abbiamo
esaminato, è che aldilà delle storiche contrapposizioni (il video contro il cinema e reciprocamente),
aldilà delle indubbie relazioni fra i media, alle origini e attuali, aldilà dell’amarezza per la
rimozione di un patrimonio di opere, esperienze, che fa ripartire da zero le ultime generazioni che
lavorano con le immagini in movimento, la questione centrale è, come ossessivamente ripete
Godard, l’immagine e il lavoro sull’immagine. L’esperienza degli artisti che hanno aperto il varco
all’immagine elettronica, sia monocanale sia proiettandola nello spazio come installazione, ha
dimostrato, innanzi tutto tale attitudine, incentivata indubbiamente dalle scoperte delle possibilità
che il dispositivo elettronico offriva. L’immagine elettronica ha costituito l’interrogazione, la messa
in crisi, lo spazio di sperimentazione, privo di regole e di condizionamenti da parte di un apparato
assente ( grandezza e miseria nel contempo) dell’immagine in movimento, la zona franca rispetto al
cinema e alla televisione, certamente erede, consapevolmente o meno del laboratorio di pensiero e
di pratiche che era stato fino agli anni sessanta il cinema d’avanguardia, indipendente, sperimentale
(la cui storia, sostiene Bill Viola è altrettanto ignorata, negli Stati Uniti al pari di quella del video).
Nella fase attuale dominata dalle tecnologie digitali e dalle reti informatiche, il video, sembra che
abbia assolto alla sua originale funzione investigativa, destrutturante, parodica, dionisiaca.
E dunque, oggi, la turbolenza dell’immagine elettronica, in quale piega si raccoglie?

. Note
.1 Cfr. Gene Youngblood, Expanded Cinema, Dutton, New York 1970.
.2 In questo saggio riprendo argomenti che ho trattato a partire dal 1987, in particolare si cfr. la sezione Archeologia del
video nei cataloghi pubblicati in occasione della Rassegna Internazionale del video d’autore di Taormina Arte: De Luca
editore, 1987, 1988, Roma; Sellerio, 1989-90-91-92, Palermo; Gangemi, 1993-94-95, Roma.
Per una storia del video in Italia, cfr. di Vittorio Fagone, protagonista e promotore dell’arte elettronica in Italia e in
ambito internazionale, L’immagine video, Feltrinelli, Milano 1990, in particolare pp. 164-230. La Galleria il Cavallino
di Venezia, Palazzo Diamanti a Ferrara, art/tapes/22, la Videoteca Giaccari a Varese, i festival e gli artisti, l’ibridazione
con l’architettura, il teatro, il cinema, sono documentati da uno sguardo da testimone oculare.
Cfr. il quaderno curato dalla mostra internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro in occasione del convegno “L’altro
video, nel 1973; il catalogo della mostra Circuito chiuso-aperto, Catania 1972 coordinata da Italo Mussa con la
direzione artistica di Carlo Crispolti. Cfr. Germano Celant, Offmedia. Nuove tecniche artistiche: video disco libro, Bari,
Dedalo , 1977 e i cataloghi della rassegna Video Roma che si è svolta nel 1979, 1980 e 1982-83 a cura di Alessandro
Silj al Museo del Folclore di Roma. In generale però in Italia, l’interesse verso questo campo di ricerca è stato
discontinuo, sia da parte degli studiosi di cinema (rarissimi), sia da parte degli esperti, critici e curatori nel settore delle
arti visive. Se ne ha l’impressione dalla rapsodicità e dal carattere “una tantum” dell’intervento (siano esse mostre,
rassegne, libri, ecc.).
.3 Vittorio Fagone, 1988, p. 74.
.4 Vito Acconci, “Note sul mio uso del video”, Cominciamenti. Fernsehgalerie Gerry Schum – Art/Tapes/22,
Lafontaine – Pirri-Eitetsu Hayashi, a cura di Valentina Valentini, De Luca , Roma, 1988, p. 77.
.5 Gerry Schum, “Introduzione alla mostra televisica Identifications”, in Valentina Valentini, op. cit., 1988, p. 50.
Non va tralasciata accanto alle esperienze pionieristiche di un atelier dedicato alla produzione video di artisti, promosso
e organizzato da art/tapes/22 a Firenze, la Galleria televisiva di Gerry Schum a Colonia (Fernseh-Galerie) che nel 1969
realizza il programma Land Art e successivamente Identifications, con gli artisti di Body art (ma la differenza a distanza
di tempo scompare), opere eccezionali per pregnanza e rigore e ancor più per il progetto, il contesto operativo in cui si
collocavano: aprire all’arte un canale vasto come quello costituito dalla televisione, non un luogo fisico reale, ma uno
spazio mentale che diventa reale solo quando la tv trasmette i filmati realizzati appositamente dagli artisti per quel
medium, non documentazione di qualcosa che è avvenuto altrove e che la TV trasmette per dovere di informazione. In
questo Schum radicalizzava l’assunto di artisti concettuali, di Land e Body art per i quali atto creativo e opera
coincidevano (“l’opera sono io”) nell’evento del fare (la performance) o nell’opera concepita come film o video
scardinando il sistema dell’arte basato su gallerie e opere con una consistenza oggettuale, eliminando il luogo fisico e
l’oggetto-merce da esporre, acquistare e portare a casa. L’utopia di eliminare il prodotto-merce-opera, grazie
all’immaterialità del supporto e al carattere “comunicativo” e collettivo del canale televisivo, era alimentata dall’istanza
politica di combattere la proprietà privata sostituendo all’opera d’arte il progetto o l’idea, al tradizionale triangolo
”studio, galleria, collezionista” la galleria televisiva. Schum sottolineava due possibili equivoci: il film esiste solo nel
momento in cui viene trasmesso per televisione, l’artista non va confuso con il performer.

11
Inoltre, a partire dall’esperimento di Schum, con il progetto di fondare una galleria televisiva che trasmette opere
realizzate ad hoc dagli artisti visivi, l’idea di trasmettere via cavo programmi registrati dal vivo o preregistrati ha
coinvolto numerosi artisti.
.6 Vito Acconci, “Una testimonianza”,in Valentina Valentini, op. cit., 1988, p. 77.
.7 Arnulf Rainer, “I video di Art/Tapes 22”, in Valentina Valentini, op. cit., 1988, p. 73.
.8 Rosalind Krauss, Video, the Aesthetics of Narcissism, “October”, 1, The MIT Press, Boston, 1976; trad. it.
Video, l'estetica del narcisismo, in VALENTINI Valentina (a cura di), Allo specchio, Lithos, Roma 1998.
.9 All’inizio degli anni Settanta era praticamente impossibile eseguire dei montaggi con il video. A quell’epoca girava
una battuta ironica: le opere degli artisti video erano esattamente della lunghezza stessa del nastro della bobina perché
non si poteva montare nulla, e quella era la durata standard. Le due grandi rivoluzioni del video alla fine degli anni
Sessanta furono la miniaturizzazione della telecamera e il videoregistratore, ovvero la possibilità di registrare e
conservare le immagini su nastro magnetico.
.10 A volte invece Bruce Nauman scrive dei veri e propri testi, ricchi di assonanze, ossimori, giochi di parole, come in
Flayed Earth Flayed Self (Skin Sink) (1973) in cui il tema dominante è ancora quello del nascondersi e sparire, in un
parallelo scambio fra il sé e la terra, l’interno e l’esterno: scorticare la terra è come scorticare sé, il corpo equivale alla
mente, il fisico al mentale. Il mondo non scompare cancellato dall’io, ma sta tutto al suo interno.
.11 Cfr. Valentina Valentini, op, cit., 2003.
.12 «Non credo che nel video ci sia nulla di particolare, come tecnologia, che attragga le donne, afferma Shelly Silver.
D’altra parte se guardiamo la percentuale di video artisti che sono donne, è piuttosto alta. Allora, bisogna chiedersi
perché... Se confronti film e video, il video è ed è sempre stato il cugino povero. Se lo confronti con la pittura e la
scultura, la stessa cosa, un cugino molto, ma molto povero. Parlando in termini generali non c’è molto potere, denaro e
gloria nel video. Il che significa che c’è più spazio, giacché gli uomini vanno tipicamente dove c’è il potere, il denaro e
la gloria. Nello stesso tempo, proprio perché il video é il cugino povero, si ha più libertà di fare ciò che vuole» (Shelly
Silver, 1998, intervista inedita a cura di Valentina Valentini).
.13 In Italia nel ricorrere al video per pratiche di controinformazione (registrazione di manifestazioni, assemblee e
inserimento di un commento sonoro) nasce il collettivo Cinema Militante, con l’obbiettivo di diffondere i materiali
prodotti dal Maggio francese e dai collettivi studenteschi e di creare un circuito alternativo sull’ipotesi di rifiuto del
film/spettacolo d’intrattenimento.
Cfr. per una documentazione su cinema militante e video in Italia (a cura di Faliero Rosati), Informare contro
Informare, Armando Editore, Roma 1976, i cui tre capitoli “Cinema”, “Televisione” e “Teatro” sono redatti
rispettivamente da M. Bruzzone, S. Lischi, Collettivo, Giocosfera.
Nel capitolo sul cinema si riporta l’esperienza dei cinegiornali liberi ideati da Cesare Zavattini (di cui si ricorda,
Apollon, una fabbrica occupata di Ugo Gregoretti), la fondazione dei circoli del cinema da parte dell’Arci (UCCA), del
Centro Ricerche Informazione Audiovisuale (CRIA) nel 1971. Nascono controstorie, come quella dei contadini della
Val di Susa, in cui il videotape raccoglie e stimola la memoria, il racconto da parte dei protagonisti stessi delle vicende
che si ricostruiscono.
.14 Vito Acconci, “Televisione, mobile, & scultura: camera con vista sull’America”, in Le pratiche del video, 1988-
2003, di Valentini Valentini, Bulzoni, Roma, 2003, pp. 117-123.
.15 Vito Acconci, “Televisione, mobile, & scultura: camera con vista sull’America”, op. cit., 2003, p. 116.
.16 Cfr. Philippe Dubois, “L’immagine alla velocità del pensiero”, in Dissensi fra film, video, televisione, a cura di
Valentina Valentini, Sellerio, Palermo, 1994, pp. 162-169.
Il limite della preproduzione sperimentata da Coppola con gli Zoetrope Studios è individuato intelligentemente da
Godard: «La differenza fra me e Coppola nell’uso del video sta nel fatto che io mi proponevo di cercare con le
immagini invece che con la scrittura, mentre lui ha fatto prima una sceneggiatura scritta, poi l’ha girata in superotto, in
seguito in polaroid, in video vhs, in video u-matic e alla fine in pellicola. E se il suo tentativo è fallito non è un caso
perché con tutte le immagini a disposizione, e tutti i disegni, c’erano mille film possibili e lui ha realizzato il
milleunesimo». Jean-Luc Godard, “Sulla sceneggiatura”, in Il nuovo mondo dell’immagine elettronica a cura di Guido e
Teresa Aristarco, Dedalo, Bari, 1985, p. 154.
.17 Zapping sarebbe l’apparecchio che permette di registrare i programmi televisivi senza l’interruzione della
pubblicità, e per estensione, nel linguaggio comune con tale termine si tende ad indicare il saltare da un programma ad
un altro, costruendo una nuova unità a partire dai frammenti. Cfr. Jean Paul Fargier, “Le zappeur camembert”, in
Ritratti, a cura di Valentina Valentini, De Luca, Roma, 1987, pp. 61-63.
Se è incerto il contributo dei filmaker all’arte video, assente è lo scambio o il rapporto fra televisione e produzione
video in Italia (senza dimenticare l’eccezione costituita da Gianni Toti con i suoi videopoemi prodotti dalla Rai e mai
messi in onda), mentre in altri paesi si sono verificate delle aperture; citiamo l’INA di Parigi, Antenne Deux in Francia,
Channel Four in Gran Bretagna, il programma Videographie in Belgio.
.18 «Il partito del cinema e quello dei nuovi media appartengono a costellazioni differenti. A prima vista non lo si nota.
Dato che il principio di disperdere il tempo, di eliminare la durata, di sostituire l’unicità con la ripetibilità, esiste in gran
quantità anche nel cinema, non diventa evidente che lo spettatore al cinema guadagna tempo, che non lo perde». Cfr.
Alexander Kluge, “Cinema e nuovi media” in Il nuovo mondo dell’immagine elettronica a cura di Guido e Teresa
Aristarco, Dedalo, Bari, 1985, pp. 191-198.

12
Va ricordato che una certa attenzione all’immagine elettronica, certamente stimolata dall’esperienza di Michelangelo
Antonioni con Il mistero di Oberwald, l’ha espressa Guido Aristarco con il volume e convegno di cui dà atto: Il nuovo
mondo dell’immagine elettronica a cura di Guido e Teresa Aristarco, Dedalo, Bari, 1985. «Una cosa posso dire»,
afferma Antonioni, «e cioè che il nastro magnetico ha tutte le carte in regola per sostituire la pellicola. Non passerà un
decennio e il gioco sarà fatto. Con grande vantaggio di tutti, economico e artistico. In nessuno altro campo come in
quello dell’elettronica poesia e tecnica camminano tenendosi per mano» (Guido e Teresa Aristarco, op. cit., 1985, p.
142). Contro posizioni coraggiose come quella di Antonioni si schieravano i critici ufficiali, come Rondi, timorosi che
la nuova tecnologia indirizzasse il cinema verso gli effetti speciali e subalterni all’industria.
.19 Vittorio Fagone, 1989, p. 48.
.20 Bill Viola, “Apprendere la tecnologia dagli esseri umani”, Valentina Valentini, op. cit., 2003, p. 147.
.21 «Il passaggio al video per me è stato scioccante - dichiara Paolo Rosa - per certi versi è stata una forzatura, nel
senso che riguardo al video avevo acquisito dei preconcetti - come tutti coloro che, ancora oggi, fanno cinema - per cui
il cinema sarebbe un’arte nobile mentre il video avrebbe un valore secondario, addirittura antitetico» (Paolo Rosa, Fabio
Cirifino, “I sentieri interrotti del video”, in Le storie del video a cura di Valentina Valentini, Bulzoni, Roma, 2003, p.
228). Tale pregiudizio viene superato non tanto per scelta e premeditazione ma per caso, con la realizzazione di Luci di
inganni e con la verifica - da parte di Paolo Rosa «[…] che il cinema mi aveva allontanato dal momento creativo
individuale, e questo per me, che provengo dalle arti plastiche, e perciò da un rapporto diretto con la materia, ha
costituito un limite. Il video riaffermava una possibilità manipolatoria perché permetteva di creare immediatamente
quello che si poteva plasmare […]».Valentina Valentini, op. cit., 2003, p. 229.
.22 Cfr. Alessandra Cigala, “Sul cinema degli artisti in Italia”, in (a cura di Valentina Valentini), Dialoghi diverbi
pacificazioni, Sellerio, Palermo, 1990, pp.83-88.
.23 Vittorio Fagone, L’immagine video, Feltrinelli, Milano, 1990, p. 209.
.24 David A. Ross , “Quando viaggiare con video era un’avventura e un cimento”, in (a cura di Valentina Valentini),
Le storie del video , Bulzoni, Roma, 2003, p. 31.
.25 Gli artisti che sperimentano la composizione d’immagini in movimento, anche attraverso la sperimentazione del
cinema d’artista per esorcizzare la morte della pittura, reagiscono al ronzio comunicazionale con la fuga nel museo (i
tableaux vivants di Luigi Ontani) con i satelliti di Mario Schifano o le pause di Franco Vaccari.
In Umano non umano un ragazzo lacera lo schermo dove si stava proiettando un film di Godard. Azzerata l’immagine,
lo schermo può solo essere scritto, ed ecco che ritornano le sperimentazioni delle prime avanguardie nel modo di
costruire immagini complesse, con sovrimpressioni, sdoppiamenti, pellicole graffiate, prolungati bagni nei sali
d’argento, montaggi con pellicole di formati diversi, immagini riflesse (Patella). Il dialogo con le prime avanguardie
privilegia Duchamp, padre tutelare richiamato esplicitamente anche ne La verifica incerta di Baruchello e Grifi (1964),
un film che mette insieme spezzoni di film commerciali americani degli anni Cinquanta-Sessanta destinati al macero, un
prototipo della tecnica dello scratch video, del riciclaggio che tanta fortuna avrà a partire da Andy Warhol, destinato a
essere ridotto di nuovo in pezzi alla fine della prima proiezione e distribuito agli spettatori a pezzi, tant’è che per
ritrovare gli antecedenti delle proiezioni a schermi multipli attuali si ritorna indietro ad Abel Gance, stupiti e perplessi
di fronte a uno schermo in verticale anziché in orizzontale.

13

Potrebbero piacerti anche