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STORIA DEL TEATRO CONTEMPORANEO

AURORA
Aurora di Alessandro Sciarroni.
Spettacolo contemporaneo che comprende molte cose di un artista che è stato premiato con il Leone
d’Oro nella biennale danza 2019. È un genere di spettacolo presente molto nei festival e meno nei
teatri stabili.
Vedere a teatro è condizionato da una serie di convenzioni. Entriamo in un certo momento e da qual
momento ci poniamo in una disposizione diversa dalla vita quotidiana, inoltre ci si comporta in
determinati modi. Dall’intervento della luce, una delle convenzioni teatrali, quando si spegne la luce
non si può parlare e viene chiesto di essere in una forma di stasi e in silenzio e la nostra visione è
limitata nel buio perché è orientata a vedere cosa c’è sul palcoscenico.
Sciarroni gioca sulla questione del vedere e quella del sentire. È uno spettacolo sulla percezione,
parola chiave della ricezione teatrale.
AURORA è una pratica performativa e coreografica sul passare del tempo che nasce da una
riflessione sulle discipline sportive in generale, ed in particolare sul gioco del Goalball: una
disciplina sportiva rivolta a non vedenti e ipovedenti (vengono tutti democraticamente bendati in
modo totale in modo tale che siano nella stessa condizione).
Questo lavoro rappresenta il terzo capitolo di un progetto più ampio intitolato “Will You Still Love
Me Tomorrow?” una trilogia di Alessandro Sciarroni dedicata ai concetti di resistenza, sforzo e
concentrazione. Come afferma Sergio Lo Gatto in “Una drammaturgia del tempo”: “Il presupposto
di tutti e tre i lavori è quello di portare in scena una “qualità” di realtà che non ha a che fare con
l’imitazione di una pratica, ma con il trasferimento (progressivo di opera in opera) della pratica da
un contesto a un altro.” In questa maniera Aurora, si riconnette ai due capitoli precedenti della
trilogia, come un evento senz’occhi, composto seguendo il ritmo dell’azione che rivela la vera
natura e il significato della pratica sportiva, dove il tempo non coincide mai con la durata, ma si
contrae e si dilata in relazione alla percezione sensoriale soggettiva di performer e pubblico.
Il mondo della danza è quello che lo ha accolto perché il livello di astrazione gli permette molte
cose.
“Il ‘900 non è il secolo dei registi ma è il secolo del pubblico” è quello che dice Sciarroni in una sua
intervista.
L’alba è una condizione di luce fioca, di visione a metà, parziale. Quando entri nella sala ti trovi di
fronte a un’area scenica che assomiglia a un’area adibita ad uno sport, i performer ti fissano e allo
stesso tempo cogli nel loro sguardo intensità diverse, la loro presenza è molto forte, c’è silenzio
(non è proprio silenzio perché c’è il rumore della presenza del pubblico). Il pubblico è in una
situazione di oscurità ma siamo spiazzati perché non capiamo se è la rappresentazione di una partita
o una partita vera e propria. Lo spazio esiste solo nel momento in cui è transitato da un corpo e loro
prendono il loro spazio. Si comincia poi a sentire un elemento sonoro e ci sono le prove di visione,
il coach/l’arbitro, inoltre, non è ipovedente. Ciascuno di loro viene fatto accomodare sugli sgabelli e
vengono tutti bendati con un doppio strato di maschera in modo tale da essere tutti non vedenti.
Ciascun tempo della partita dura 20 minuti. Questi performer hanno lavorato per due anni con veri
performer e hanno seguito questo lungo processo di avvicinamento alla danza, al movimento
coreografato e inseriscono le cose che hanno imparato, ovvero l’interazione tra corpi e la
disposizione spaziale, in questa rappresentazione.
Nel tempo cambia qualcosa à c’è minor intensità luminosa. Questa cosa non la razionalizzi
inizialmente perché succede una cosa abbastanza curiosa: non cambia assolutamente nulla in scena.
I performer non sono ostacolati da questa diminuzione di luce perché sono ciechi, mentre noi
subiamo un progressivo avvicinamento allo stato in cui sono i performer, stiamo entrando nella loro
percezione per gradi e ad un certo punto questa cosa diventa anche un problema nella gestione del
gioco. Ti obbliga a pensare al tuo ruolo di spettatore e ti fai domande come: cosa ci faccio qui se
non vedo? Come mi posiziono? Devo essere deluso? Incuriosito? Ad un certo punto bisogna
soltanto immaginare lo spettacolo sulla base della memoria di quello che abbiamo visto in
precedenza e scopriamo che la nostra abilità non è tale perché non siamo abituati a identificare i
luoghi attraverso i suoni.
Nel secondo tempo ci restituiscono la luce, le sonorità sono simili a quel non silenzio iniziale, sento
i rumori, le presenze del pubblico, dei performer, degli oggetti, del fischio iniziale. Si aggiunge una
partitura musicale che man mano si identifica. In difficoltà sono i giocatori adesso perché non
sentono più il rumore della palla e impazziscono, si arrabbiano, non resistono perché sono messi in
una condizione limite.
Le tracce di questo spettacolo sono nella memoria visiva, incorporata e emotiva degli spettatori.

Nelken (Garofano) di Pina Baush.


Il teatro produce e stimola delle sensazioni che sono in primis sul piano emotivo, stimola
un’empatia prima ancora dell’interpretazione razionale.
Si mettono in moto una serie di meccanismi di sensazioni che magari non sono nemmeno reali, ed è
quello che accade con Nelken in quanto gli spettatori hanno dichiarato di aver sentito il profumo di
garofani.
MAPPA CORRETTIVA DEL MONDO (1979)

Stuart McArthur “Down Under”


Le proiezioni geometriche delle mappe sono utilizzate come degli strumenti per rappresentare il
mondo da diversi punti di vista, che sono quelli corrispondenti ai diversi paesi ma anche alle diverse
culture. Visualizzare il mondo attraverso le mappe comporta anche la trasmissione, non solo della
grafica, ma anche dei principi, concetti e messaggi che quella stessa rappresentazione geometrica
contiene. Le mappe sono create e diffuse da chi ha il potere di farlo e quindi rappresentano gli
interessi delle persone al potere. Noi siamo cresciuti con la mappa del mondo in cui l’Europa è
sempre rappresentata al centro, il cuore di una rappresentazione sia geografica ma anche politica del
mondo. In termini visivi si tratta della centralità che però non è così ovvia in termini geometrici
perché se si prende una sfera e la si sviluppa su un piano bidimensionale in realtà possiamo partire
da qualsiasi punto.
Ma allora perché l’Europa è sempre al centro?
L’Europa ha scoperto il resto dei continenti che esistevano già ma li ha sottoposti al proprio
dominio colonizzandoli in vari momenti della storia e in vari modi.
Per contrastare questa rappresentazione e criticare l’eurocentrismo, ovvero la tendenza a vedere
tutto il mondo dalla prospettiva europea come se tutto fosse in relazione alla sua centralità,
l’australiano Stuart McArthur era tormentato dall’essere definito cittadino dal “fondo del mondo”.
Ha realizzato nel 1979 la prima Mappa Correttiva Universale del Mondo. È una mappa molto
speciale e ha messo l’Australia al centro.

Questo ci obbliga a riposizionarci mentalmente, visivamente e culturalmente perché dobbiamo


ritrovare noi stessi perché è tutto ruotato.
La cultura non può essere compresa senza una profonda considerazione delle dinamiche coloniali
della storia globale. Il post colonialismo ha aiutato a diffondere un approccio alla storia non quanto
storia singola dell’Occidente ma quanto storia globale.
Si tratta di cominciare a spostare uno sguardo e guardare anche i dominati assumendo un punto di
vista della molteplicità e della complessità.

Questa sensibilità è frutto degli studi culturali, delle teorie di genere, degli studi sulle questioni
razziali e così via, che hanno contribuito a spostare l’attenzione nello studio della danza.
Noi oggi cerchiamo di capire non solo cosa significhi fare teatro, ma anche come il teatro produca
significati e in che misura sia parte di un fenomeno più ampio e complesso.
Il teatro, infatti, è un fenomeno culturale che genera, veicola, riproduce, ma anche interroga e
spesso mette in crisi il sistema di valori, di costumi e di abitudini di una data società.
CONCETTI E TERMINOLOGIA

Definizione di teatro (modello dizionario generico)

Edificio appositamente progettato e costruito o comunque adibito alla rappresentazione di opere


drammatiche o musicali, a spettatori di varietà, ballo e così via.
Esempi: “il Teatro dell’Opera di Roma; il Teatro alla Scala di Milano; ecc.”.

Con riferimento all’affluenza degli spettatori: un teatro affollato, gremito, deserto; per metonimia,
anche il pubblico degli spettatori.
Esempio: “tutto il teatro scattò in piedi, applaudendo”.

Con riferimento agli spettacoli teatrali in genere (a me piace molto il teatro” o a un determinato
genere (vado pazzo per il teatro di prosa, per il teatro musicale, ecc.); talvolta, con riferimento a un
singolo spettacolo (“stasera vado a teatro”).

La parola “teatro” da un lato viene dal verbo greco théaomai, un verbo legato alla visione e vuol
dire in inglese to gaze (guardare con una precisa intenzionalità), dall’altro lato identifica un luogo
specifico ovvero un luogo in cui guardare, viene da theatron o theatrum in latino.
Theatron significa anche “comunità di persone” (per esempio la chiesa = edificio ma anche
comunità della chiesa cattolica). Il teatro nasce da un’idea di una visione individuale e collettiva
insieme. La parola “teatro” identificava dunque fin dall’inizio un luogo e al tempo stesso una forma
di percezione della realtà tramite la rappresentazione/finzione.

A teatro storicamente vige una netta separazione tra un soggetto che eseguiva le azioni (attore) e un
soggetto collettivo che guardava (il pubblico) all’interno di una struttura che favorisce la
separazione tra questi due mondi, viene marcata la differenza tra il tempo e lo spazio dell’azione
(finzione) e il tempo e lo spazio dell’osservazione (realtà).
Il concetto di théatron segnò una rivoluzione esperienziale in cui l’oggetto era l’esibizione di
azioni corporee (imitazione di azione) e la vista e l’udito avevano un ruolo centrale (acustica dei
teatri greci).

Il teatro occidentale è fatto risalire a un’invenzione greca la cui origine è legata ad Atene tra il VI e
il V secolo a.C. ma si hanno testimonianza già mille anni prima della nascita della tragedia greca di
forme di teatro praticate nell’antico Egitto in relazione al culto dei “Misteri di Osiride”, anche la
civiltà minoica conosceva l’uso di strumenti musicali (cetra e flauto) e un’arte della danza intesa
come mimica di azioni di caccia o di guerra. Il teatro si è trasformato dalle sue origini ad oggi ma la
frammentarietà della documentazione relativa alle pratiche teatrali in epoche precedenti e in altri
contesti culturali rispetto all’antica Grecia (Egitto, Etruria ed altri) limita la nostra conoscenza.
Nell’antica Grecia sicuramente si verifica uno strappo decisivo a partire dai rituali dionisiaci e dalla
dimensione religiosa del rito, si è passati poi a trame di fiction o storie realmente accadute. Si trattò
di una conversione progressiva dalla materia dionisiaca verso altro. Il teatro in Grecia è nato come
un atto di rottura rispetto alla dimensione dionisiaca.
L’invenzione della tragedia greca è un atto filosofico, espone la soggettività della parola e introduce
un senso. Non è la riproduzione di un’idea oggettiva di “realtà” accaduta una volta e quella volta
per sempre (come la storia) e non riproduce, non rappresenta ma presenta. Riformula un’immagine
della verità del possibile. La tragedia è un dispositivo che consente di cogliere un senso possibile
della realtà che nella sua complessità non è sopportabile, esperibile e rappresentabile. Il logos (la
parola, il ragionamento) interrompe il canto, la parola, per questo, “diventa protagonista”, fa sì che
l’azione avvenga e ha una funzione prerogativa.
La tragedia (e poi la commedia) prende spunto dall’improvvisazione proto-drammaturgica
all’interno dei risultati dionisiaci (ditirambo e processioni falliche). La tragedia affronta “i miti”,
racconta storie ed eventi. Nello stesso periodo storico la filosofia va verso la “dialettica” e
l’introduzione dell’interlocutore in filosofia equivale all’introduzione dell’attore nella composizione
drammatica. La tragedia si emancipa e acquista serietà rispetto all’eruzione emotiva spontanea nel
canto corale dei satiri.

Il teatro comprende un insieme di arti tramite cui viene rappresentata sotto forma di testo recitato o
drammatizzazione scenica, una storia. una rappresentazione teatrale si svolge davanti a un pubblico
facendo riferimento a una combinazione variabile di parola, gestualità, musica, danza, vocalità e
suono.
Gli elementi fondanti che distinguono un evento teatrale sono:
- La scelta di una forma di azione/rappresentazione
- La definizione di uno spazio per questa azione/rappresentazione (il palcoscenico in un
edificio teatrale o l’area scenica, ovvero il perimetro della rappresentazione degli
attori/performer in altri spazi)
- Il tempo stabilito dell’azione (la durata di un testo o di una forma di partitura gestuale e
musicale)
Il teatro è il luogo e il tempo della realtà aumentata, ha un effetto performativo ed efficace
sulla percezione della realtà, la fa diventare “vera” nella finzione.
Il teatro occidentale nasce quando si produce la frattura consapevole (e poi codificata) tra chi agisce
e chi guarda, dal coro al distacco di attore hypocritès (colui che risponde al coro).

Il teatro drammatico pone al centro la parola, il messaggio commentato e ampliato dalla visione
delle scene. Il dramma deriva dal verbo greco drao che significa “agisco”, una rappresentazione
teatrale per essere tale si svolge/viene agita davanti a un pubblico. La parola scritta o improvvisata
è l’elemento centrale del teatro di prosa ma il teatro può avere forme diverse (l’opera lirica, il
teatro-danza, il kabuki, la danza katakali, l’opera cinese, il teatro dei burattini, la pantomima, etc.),
per fare teatro dunque NON è sempre necessaria la presenza di un testo ma è necessario il
movimento del corpo (l’azione) in uno spazio dedicato e definito, eseguito di fronte a uno
spettatore.
Nell’antica Grecia azione e parola non erano due cose distinte, la parola era azione, era una parola-
evento, non era distinta/autonoma rispetto all’azione scenica. Nel teatro moderno di fine ‘800
(romantico e naturalista) era una parola-sentimento, la centralità è conferita alla dimensione
psicologica che determina l’azione. Il teatro contemporaneo di fine ‘800 e di inizio ‘900 si ribella al
dominio della parola, il rapporto con il testo si fa complesso. Il testo (la parola scritta) viene
progressivamente manipolato, intaccato o addirittura eliminato per essere posto a totale
servizio dell’evento scenico. Dal XX secolo in poi l’importanza del testo è stata ampiamente e
radicalmente messa in discussione, teatro post-drammatico.

Ogni spettacolo e ogni evento è un accadimento dinamico di natura performativa. Il nucleo


fondante del teatro è la compresenza in uno stesso spazio e tempo di (almeno) un performer che
agisce con il proprio corpo e (almeno) uno spettatore. Il teatro è agire una situazione (narrazione
o coreografia) per degli spettatori in uno spazio e per una durata stabili. Il teatro è sempre il frutto di
un processo compositivo che fa riferimento e spesso intreccia vari registri “immateriali”
dell’espressione teatrale (voce e movimento, musica e luci, coreografie e scenografie…).
Ogni età e ogni contesto culturale fanno riferimenti a codici specifici per attivare il meccanismo
della rappresentazione teatrale, si va da un attore che imita le pose pittoriche e mira ad affascinare il
pubblico all’attore che riproduce ossessivamente la vita “così com’è”.
Codici specifici sono la finzione, la scena come luogo dell’azione e la quarta parete che racchiude
l’azione e la presenta al pubblico.
I codici teatrali sono da utilizzare sempre al plurale perché in teatro non c’è un codice stabile e
fissato una volta per tutte, i singoli contesti culturali nelle diverse epoche storiche hanno prodotto
codici specifici e sempre in relazione con altri codici (pittorici, letterari, culturali in generale.
Codici non specifici: lo spettatore andando a teatro e fruendo di uno spettacolo porta
inevitabilmente con sé un bagaglio di conoscenze e i relativi codici interpretativi che ha acquisito
altrove, possono essere linguistici, psicologici, emotivi o culturali in senso lato.
Dall’antica Grecia al XIX secolo è esistito un codice unitario del teatro per ciascuna società e
ciascun contesto culturale. Questo codice unitario rifletteva i valori di quella data società e cultura
di cui il teatro era espressione, si parla infatti di teatro greco, rinascimentale, barocco, Elisabettiano,
romantico, e così via. Tra il XIX e il XX secolo con la crisi del modello teatrale occidentale non è
più esistito un modello unitario bensì un teatro contemporaneo composto da idee anche molto
diverse tra loro di teatro (e di performer, azione scenica, spazio scenico, testo…) che coesistevano e
ancora coesistono.
Tuttavia la presenza di scenografie che riproducono interni borghesi e realistici, il buio totale della
sala, l’attore che recita per far loro credere al pubblico che ciò che sta vivendo in scena sia “vero”
facendo riferimento a uno stile recitativo basato sull’identificazione con il personaggio e
sull’instaurazione di un rapporto empatico con il pubblico sono tutte tracce di un’estetica teatrale di
un’impronta naturalista, ovvero risalente al XIX secolo e che stimola e presuppone insieme un
atteggiamento passivo dello spettatore. Ancora oggi dunque spesso le aspettative degli spettatori
sono predeterminate da questa estetica teatrale il cui concetto di base è che il teatro è (o dovrebbe
essere) il luogo privilegiato dalla rappresentazione realistica della vita, mentre in realtà sappiamo
che il teatro è un fenomeno artificiale che costruisce sempre una realtà diversa, un mondo
altro diverso da quello reale.
Le aspettative del pubblico, che vogliono vedere in scena uno spaccato della realtà,
implicitamente conferiscono un valore negativo a tutto quanto, a teatro è percepito come fittizio e
artificiale. Queste aspettative persistono nonostante la svolta impressa al teatro dalle
sperimentazioni condotte nel XX secolo e che in larga parte possono essere definite anti-
naturaliste avendo esplorato proprio la finzione e l’artificio sulla scia di un’estetica teatrale
barocca. Il teatro è un luogo fisico (non sempre un edificio) e un luogo simbolico in cui ogni
cultura rappresenta i propri valori e modelli sociali (o contro-modelli…).
Spazio e tempo a teatro sono sempre codificati (sipario, luci, colpi di bastone, applausi, e così via a
seconda delle epoche e dei contesti culturali). Lo spazio rappresentato è il luogo mentale che viene
evocato grazie all’immaginazione dello spettatore e alla presenza/azione/immaginazione
dell’attore/performer. Lo spazio della rappresentazione nel teatro occidentale a partire dal
Rinascimento è stato incorniciato nell’arco scenico del teatro all’italiana e che divideva nettamente
il luogo dell’azione scenica da quello della finzione. A partire dal ‘900 questa separazione è stata
messa in discussione privilegiando anche la partecipazione attiva dello spettatore all’interno della
relazione teatrale.
Il tempo in una rappresentazione teatrale è ciò che ne determina più di ogni altra cosa le
caratteristiche di alterità rispetto all’esperienza quotidiana. I tempi teatrali prendono il sopravvento
sul tempo individuale coinvolgendo alla fine all’interno di coordinate extra-quotidiane anche il
pubblico, che tornerà al proprio tempo abituale alla fine della rappresentazione (segnalata dal calare
del sipario o dall’accensione della luce in sala o altro). La durata della rappresentazione come
evento è stata definita in ogni epoca con modalità differenti.
- Nel teatro greco antico il tempo della rappresentazione coincideva con la durata di un’intera
giornata e spesso coincideva con il tempo rappresentato nel testo.
- Nel teatro medievale talvolta nei misteri si dilatava per molti giorni consecutivi (i misteri)
- Nel teatro colto rinascimentale si è introdotto l’uso della suddivisione in atti e intervalli
- Nel teatro contemporaneo del ‘900 molte sperimentazioni hanno esplorato la sintesi estrema
dei tempi della rappresentazione o l’estrema dilatazione (come nel caso di spettacoli
itineranti spesso con struttura ciclica)
- In molte forme di teatro post-drammatico si sperimentano flashback e flahforward,
proiezioni video e nel complesso hanno permesso la moltiplicazione delle possibilità di
raccontare tempi diversi anche contemporaneamente e con innesti di azioni in tempo reale
che accadono all’esterno rispetto all’area scenica.

Attore: le definizioni di attore non sono stabili ma mutano a seconda dei contesti storici e culturali.
Attore = latino agere (agire) ma la cultura moderna vuole che impersonifichi e rappresenti con gli
strumenti della finzione. In greco il termine usato è mimoumenoi prattontas (coloro che agiscono-
imitano). In inglese performer (dal fr. antico “performer” e dal lat. Tardo performare “dare forma
definitiva” con prefisso rafforzativo “per”) è una definizione generica di chi agisce di fronte a un
pubblico.
Il termine attore entra in uso molto più tardi e prevalentemente in uso in ambito forense (“colui che
agisce in giudizio”); fino al ‘700 inoltrato a teatro si usato piuttosto i termini comico, commediante
o comédien.
In molte lingue il concetto di recitare coincide con il verbo “giocare”.
Inglese: to play
Francese: jouer
Tedesco: spielen
Spagnolo: actuar
Russo: igrat
Il termine “recitare” pone invece l’accento sulla finzione, sulla ripetizione del gesto o della parola
(re-citare) e veicola il concetto di operatore della finzione,
recitazione/rappresentazione/interpretazione.
La recitazione è l’arte del rappresentare una storia tramite un testo o azioni sceniche, il campo
dell’azione dell’attore deve avere confini precisi, è uno spazio extra-quotidiano, uno spazio “altro”.
Rappresentare dal latino “presentare” + prefisso “re” significa presentare di nuovo. L’attore
rende presente e visibile qualcosa a qualcuno (lo spettatore), rappresentare significa renderlo
presente dopo che è già stato (nel testo) in una nuova dimensione. La rappresentazione è il
meccanismo con cui il teatro si confronta con la realtà. Ogni epoca e contesto fa riferimento a
specifici parametri per attivare il meccanismo della rappresentazione teatrale.
LA RICEZIONE A TEATRO

“Il teatro può esistere senza pubblico? Per farne uno spettacolo è necessario almeno uno spettatore.
Quindi ci rimangono l’attore e lo spettatore. Possiamo quindi definire il teatro come ‘ciò che
avviene tra spettatore e attore’. Tutte le altre cose sono complementari”.
(Gerzy Grotowski, Verso un teatro povero, 1968)

Il paradosso è che la presenza dello spettatore negli studi teatrali è stata a lungo ignorata…
Solo a partire dalla metà del ‘900 si sono moltiplicati gli studi dalla psicologia, dalle neuroscienze,
dall’estetica, dalla sociologia, dalla semiotica, per comprendere come lo spettatore reagisce di
fronte a uno spettacolo teatrale.
Con spettatore identifichiamo un unico individuo mentre con pubblico intendiamo tutti gli spettatori
di quello spettacolo, il pubblico è la comunità che si crea. Il concetto di spectatorship è una
dimensione collettiva, lo stato di presenza e di osservazione di uno spettacolo che implica la
condivisione di una dimensione sociale e culturale ma anche del proprio stato psicologico, del
proprio inconscio, della propria memoria. C’è una sorta di intercambiabilità tra i termini spettatore
(che deriva da spectare, che significa “vedere”) e audience/pubblico (che deriva da parole che
significano “sentire”).
Ci sono anche dei casi limite che si instaurano nella relazione teatrale di attore/spettatore:
• Eliminare lo spettatore: verso un teatro senza spettacolo (il pubblico, se esiste, viene ridotto
a testimone di un’esperienza alla quale di fatto resta estraneo)
• Trasformare il pubblico in partecipante: lo spettatore si trova inserito fisicamente nello
spazio dello spettacolo e viene spinto ad agire, a fare
• In una versione più radicale, si eliminano sia gli attori sia gli spettatori, che diventano tutti
“partecipanti” all’evento (è questo il caso per esempio del teatro di animazione degli anni
’70)
Le pratiche spettatoriali sono cambiate all’interno di diversi regimi scopici e contesti culturali e
sociali, ognuno di questi contesti ha costruito un proprio modello di relazione con lo spettatore e la
sua reazione teatrale.
Avere una competenza spettatoriale a teatro significa riuscire a cogliere non solo “cosa avviene” o
“cosa si racconta” ma anche “come avviene” o “come si racconta”. Capire come ogni spettacolo
costruisce il proprio modo di comunicare, raccontare, significare, come ogni spettacolo utilizza i
registri espressivi propri della scena. L’esperienza dello spettatore a teatro è un insieme complesso
di processi emotivi, fisici, psicologici, mnemonici, interpretativi, valutativi che interagiscono tra
loro e nel complesso sono una forma di interpretazione estetica di quanto succede in scena. È molto
probabile che nuove forme di spettacolo e nuovi sistemi sociali e nuove tecnologie comporteranno
l’emergere di un diverso tipo di spettatore e di nuovi tipi di relazione teatrale.

Come funziona uno spettacolo (codici) rispetto ai diversi orizzonti di attesa degli spettatori?
Si può studiare il ruolo dello spettatore in relazione
- Alla sua funzione
- Alla percezione
- Alle sue capacità di decodificazione
- Alla sua memoria (individuale e collettiva)
- Alla sua motivazione
- Alla sua partecipazione attiva o passiva
Ciò perché l’atteggiamento e la relazione dello spettatore di fronte a un evento/spettacolo teatrale è
determinato da molti fattori (psicologici, politici, estetici, culturali, …)
Ci si può chiedere dunque:
- In che modo il dispositivo scenico organizza e presenta la realtà?
- Come organizza la visione e il rapporto con lo spettatore?
- Come si produce l’illusione e l’immaginazione (o non si produce)?
- Come funziona quello specifico spettacolo rispetto all’orizzonte di attesa degli spettatori di
uno specifico contesto storico e culturale?
Ogni epoca e ogni estetica comportano una particolare relazione con il pubblico (“relazione
teatrale”) che può essere improntata alla: illusione, partecipazione, interruzione della
rappresentazione, distrazioni, ecc.
Ogni tipologia di teatro, ogni approccio al teatro riproduce le strutture della società di cui è
espressione (gerarchica, democratica).
Immedesimazione = la scena all’italiana esige dallo spettatore che si immedesimi e si proietti nella
finzione.
Distanza critica = scena brechtiana crea un abisso tra sala e scena e provoca la distanza critica e il
rapporto sala-scena diventa il barometro che indica come il teatro agisce sul pubblico.
Alternanza = rapporto variabile tra scena e sala in cui c’è in parte l’immedesimazione e in parte la
distanza (si vedano gli happening e le altre forme di azione/rappresentazione che erodono illusione,
smascherano i meccanismi dell’illusione).
Spettatore deriva dal latino “spectare”, verbo che esprime un’azione ripetuta, abituale o intensa. Ha
la stessa radice di expectatio (aspettativa), lo spettatore è colui che guarda con aspettative e queste
dipendono dalle convenzioni della cultura che l’ha prodotto. L’orizzonte di attesa è la struttura con
cui una persona comprende, decodifica e valuta qualsiasi testo culturale basato su codici e
convenzioni culturali particolari del suo tempo nella storia.
Per ottenere una comprensione più completa del processo di ricezione è necessario considerare il
ruolo del teatro in un dato sistema culturale, il rapporto con il pubblico e le specifiche produzioni
teatrali.
Ogni pubblico è composto da individui che portano i propri punti di riferimento culturali, le proprie
convinzioni politiche, le proprie preferenze sessuali, le proprie storie personali, le proprie priorità
nell’interpretazione di una produzione teatrale. Pertanto, anche se è possibile parlare di un pubblico,
è importante ricordare che ci possono essere diversi pubblici distinti e coesistenti tra le persone che
si riuniscono per assistere a uno spettacolo e che ogni individuo all’interno di questo stesso gruppo
può scegliere di adottare uno o più punti di vista.
Pubblico à sostantivo collettivo astratto, spesso la coerenza e la consistenza di questo pubblico è
impreciso e ingannevole perché produce un’impressione di identità condivisa, ideologie reciproche
che in realtà potrebbero non esistere. In diverse configurazioni di spazio teatrale e performativo il
coinvolgimento del pubblico può variare: dalla passività totale incoraggiata dal modello della sala
nel teatro tradizionale proscenio-architettura (teatro all’italiana) alla partecipazione attiva richiesta
dalle performance specifiche del teatro immersivo, performance one-to-one.
In linea generale possiamo individuare una tensione che si instaura tra la tendenza ad attribuire un
valore positivo a uno spettacolo o alla capacità di un attore se ci illudono che quello che succede sia
vero, la tendenza opposta attribuire una connotazione negativa a tutto quanto che è di pertinenza del
teatro e di termini legati alla pratica teatrale (attore, scena, retroscena, plateale, personaggio…), ed è
negativa in quanto legata alla sfera della finzione, dell’artificio, dell’eccesso (retaggio di epoca
barocca). Ancora oggi l’orizzonte di attesa dello spettatore è dunque ancora predeterminato dalle
poetiche naturaliste e realiste a teatro malgrado la svolta novecentesca sia stata sostanzialmente
anti-naturalista. Trappola della verosimiglianza è quel cortocircuito che si produce quando si
cerca il vero nel luogo per antonomasia della finzione.

La semiotica tradizionale, la sociologia e gli studi della ricezione hanno a lungo considerato lo
spettatore un’entità fissa e passiva. Oggi si è affermato un ribaltamento della prospettiva, si parla di
prospettiva post-semiotica sugli studi della ricezione teatrale che, al contrario, valorizza quel
“feedback loop” che si instaura tra performer e pubblico e che produce l’energia di quello
spettacolo e causa una più o meno profonda trasformazione in chi partecipa.
Jacques Rancière, Lo spettatore emancipato (fr. 2009; it 2018) à scardina le tradizionali
opposizioni attivo/passivo, apparenza/realtà si cui si basa la teoria teatrale in quanto sono datate. Lo
spettatore agisce come agisce l’alunno traducendo ciò che vede/sente/esperisce nello spettacolo in
proprie scene trasformando e traducendo quanto esperisce in altri contesti personali e/o collettivi.
Il potere del teatro non deriva dal grado di interattività tra spettatore e scena ma dalla capacità di
ciascun spettatore di operare liberamente le proprie scelte e filtrare ciò che percepisce e collegarlo
alla propria esperienza fisica e intellettuale.
Vi è la trasformazione da idea di spettatore come soggetto a una serie di abilità corporee che si
attivano nella co-creazione, guardare implica tutto il corpo e tutti i sensi, il pubblico non cerca di
“decodificare” lo spettacolo ma ha un’esperienza innanzi tutto sensoriale tra vista e udito. Le
risposte di un pubblico sono basate su emozioni (che sono un processo mentale che comprende
consapevolezza, percezione e ragionamento).
L’esperienza che lo spettatore fa a teatro è estetica, anche le emozioni dello spettatore sono
“estetiche” in quanto diverse da come le prova fuori dal teatro. Consiste in un insieme complesso di
processi percettivi, interpretativi, emotivi, valutativi, mnemonici che interagiscono/interferiscono
tra di loro.
Profonda influenza di Maurice Merleau-Ponty (filosofo francese, Fenomenologia della percezione,
1945) che introduce il concetto che il corpo è una condizione fondamentale dell’esperienza del
mondo, cambia radicalmente la prospettiva su questi aspetti.

Le neuro-scienze e le scienze cognitive hanno offerto nuovi strumenti per sostenere


scientificamente la teoria secondo cui la ricezione a teatro si gioca innanzi tutto attorno alla
sensazione che è la base per l’empatia del pubblico, nel complesso queste scoperte hanno prodotto
uno slittamento dell’attenzione dalla questione dell’interpretazione a una percezione innanzi tutto
sensoriale. Secondo le neuroscienze le strutture neuronali del cervello sono correlate alle sensazioni,
emozioni e significati ma non è ancora chiaro come il meccanismo complesso funzioni.
Le sensazioni corrispondono al primo livello neuronale della percezione e sono aumentate dalle
emozioni (a cui partecipa l’azione della memoria…). Quando un individuo osserva un altro
individuo compiere un’azione, attiva una specifica regione neuronale in chi guarda come se facesse
(potenzialmente) la stessa azione pur restando fermi grazie ai neuroni specchio (Giacomo Rizzolatti
e Vittorio Gallese).
In altre parole, azioni, emozioni e sensazioni che riteniamo frutto di stimoli sociali attivano la nostra
rappresentazione interna degli stati corporei come se fossimo impegnati esattamente in quell’azione
o in quell’esperienza (“agire senza agire”); questo fenomeno è detto “embodied simulation”
(“mente incorporata” e “proiezione empatica”).
IL TEATRO DI FINE ‘800

CATEGORIE SPAZIALI
- Spazio teatrale: si riferisce alle condizioni architettoniche del teatro (si solito un edificio) e
comprende lo spazio per lo spettacolo e per gli spettatori; può essere inteso come un luogo
di incontro che genera esperienze e significati (prima esperienza e poi significato perché noi
esperiamo il mondo e solo in un secondo momento diamo senso alle esperienze) che sono
parte integrante della performance stessa.
- Spazio scenico (o spazio della scena): designa lo spazio in cui gli attori si esibiscono e
comprende la scenografia.
- Spazio drammatico: si riferisce alle coordinate spaziali fissate e evocate dal testo teatrale
(dramma, libretto, coreografia, ecc.); la reazione del pubblico all’evento teatrale è
determinata da tutti e quattro i fattori in misura diversa.

Palcoscenico aggettante è una forma antica e moderna (teatro greco ed elisabettiano, per esempio).
Questa “estensione” del palcoscenico, che permette di prolungare lo spazio per lo spettacolo verso
la platea mantenendo al tempo stesso le possibilità scenografiche, in Europa è gradualmente
scomparso come fase prospettiva barocca con il suo scenario illusionistico ha guadagnato il
predominio ma è tornato nel XX secolo con la riforma antinaturalista.
Scena prospettica: innovazione introdotta nel Rinascimento italiano; è lo spazio visivo del
palcoscenico sempre separato dalla platea. Con la graduale scomparsa dei paesaggi prospettici nel
XX secolo limitava lo spazio di azione dell’attore (che altrimenti infrangeva l’illusione del disegno
prospettico).
Negli anni ’60 e ’70 del ‘900 vi era la tendenza a superare le restrizioni dello spazio fisico del
palcoscenico e con l’introduzione dell’uso di video o riprese questo processo di estensione spaziale
è ancora più spiccata nell’era del teatro multimediale.

Separazione/confronto scena-platea
Il proscenio marca una chiara divisione tra scena e pubblico considerato come il simbolo del teatro
borghese. Diverse proposte di teatro antinaturalistico o antirealistico sono coincise con l’abolizione
del proscenio a favore di una maggiore continuità con la platea.
Tra il ‘600 e ‘700 in Italia vi è l’edificazione di luoghi teatrali e una definizione di modelli
architettonici con un’ottima acustica e una massima funzionalità. Nasce il modello ideale
dell’architettura teatrale a livello internazionale.
Il teatro all’italiana à (Teatro Argentina di Roma, La Fenice di Venezia, Teatro San Carlo di
Napoli, Teatro Massimo di Catania, Teatro Massimo di Palermo e Teatro alla Scala di Milano). In
Italia c’è una grande attenzione all’edificazione dei teatri, proliferazione di edifici teatrali dovuta a
esigenze di scenografie sempre più complesse.

CARATTERISTICHE DEL TEATRO ALL’ITALIANA:


- Sala a ferro di cavallo
- Sistema di palchi separati e divisi in altezza per ordini
- Platea da spazio per il ballo a luogo da cui migliorare visibilità dello spettacolo
- Restringimento del boccascena (curvatura verso l’interno degli ordini di palchi e in compenso)
- Retropalco diventa più profondo e capiente per macchinerie complesse
- Arco scenico in muratura leggermente curvilineo
- Orchestra davanti al proscenio (golfo mistico che conferisce alla rappresentazione un altro
carattere)
Questa struttura rispecchia la struttura sociale dell’Italia dell’epoca: in platea si siede il popolo, nei
palchetti invece tutte le persone rappresentanti della media alta borghesia e aristocrazia, possono
essere affittati o anche acquistati, estensione del salotto privato in pubblico. Il palco reale, quello di
fronte al punto di fuga, è il punto privilegiato della visione.

Altre categorie sono:


- Teatro arena: permette il maggior grado di interazione tra palcoscenico e auditorium, tra
artisti e spettatori, anche se il divario tra queste due dimensioni rimane. Lo spazio per lo
spettacolo è interamente circondato dal pubblico, permette solo il più rudimentale grado di
progettazione scenografica ed è più frequente nelle forme di teatro temporaneo e
improvvisato.
- Teatro ambientale: rapporto flessibile tra esecutore e spettatore, allo stesso tempo uno
degli spazi teatrali più antichi e più recenti, gli spettatori possono circondare il
palcoscenico/le aree di gioco o viceversa. È un contro-modello rispetto all’arco di proscenio
convenzionale perché gli spettatori possono muoversi liberamente e scegliere il loro “punto
di vista”; gli spettatori e gli artisti creano spazi per le prestazioni e per la visione intorno a se
stessi ma vivono ancora in spazi abbastanza distinti.
- Spazi teatrali contemporanei: molto flessibili e tengono conto della natura sfaccettata della
relazione teatrale (attore-spettatore). Per spazio scenico si intende l’area in cui l’esecutore
agisce e trasforma l’ambiente circostante.

Durante l’800 c’è un momento di rimessa in discussione di tutta la macchina teatrale e


apparentemente la reazione è molto caotica:
• Da un lato si affermano le tendenze del naturalismo e del realismo, desiderio di rendere in
scena la realtà così com’è fuori con costumi e scenografie (è un’utopia), rivedere in scena la
vita, immedesimazione del pubblico.
• D’altro canto, ci sono altre modalità di ripensare all’estetica teatrale e alla funzione del
teatro, idea di potenziare l’effetto dell’illusione. La cura e la ricerca di particolari
conferiscono un’idea di quasi realtà e va di pari passo con i progressi
dell’ILLUMINOTECA, si passa da un’illuminazione a candela (incendi) alle lampade a
olio contenute in recipienti di vetro, ma la svolta è stata una luce modulabile con le lampade
a gas (1816) che consente di regolare gradualmente l’intensità della luce e di ottenere una
semi-oscurità durante lo spettacolo, oltre che a spegnerle e accenderle più velocemente.
Nella seconda metà dell’800 si diffonde l’illuminotecnica per tutti i teatri. È un’invenzione
costosa. Poi inventano la lampada incandescente e dei trasformatori a comando a distanza,
dispositivi per regolare i cambiamenti di luce.

Nell’800 il teatro diventa un luogo di incontro e di esibizione del proprio status sociale, siamo
nel secolo in cui uno dei fenomeni culturali è il ROMANTICISMO: movimento letterario, artistico
e culturale, modi di sentire, ideali di libertà, coscienza storica e sentimento nazionale, nuovo modo
di concepire l’esperienza estetica, ruolo centrale nell’esperienza interiore. Teatro come strumento
per rivalutazione delle radici religiose, storiche, stilistiche, nazionali, vado a teatro perché mi
rappresenta in termini di manifestazione culturale. Nel teatro romantico il protagonista è spesso un
eroe che combatte contro le ingiustizie, suscita forti emozioni con la sua passione. In questo periodo
c’è una rivalutazione di Shakespeare e della tragedia greca, al centro di questi due modelli c’è lo
scontro tra volontà-passione dell’individuo e regole della società, eroe tragico che incarna la libertà,
dramma borghese.

DENIS DIDEROT (illuminista)


Scrive il primo grande trattato di recitazione a fine del ‘700, Il Paradosso dell’attore che viene
ripubblicato postumo nel 1830. Nella cultura occidentale non esiste una vera teorizzazione specifica
del mestiere dell’attore, i trattati di recitazione erano dentro ai trattati di retorica (fino ai tempi di
Aristotele) perché la retorica e l’oratoria sono le pratiche in cui l’oratore affina le sue capacità per il
pubblico, legato all’uso della parola, questi diventano i punti di riferimento teorici. Secondo
Diderot, a teatro non si mostrano le cose come sono in realtà, il teatro è regno della poesia, il vero in
scena è il risultato della conformità delle azioni, dei discorsi, dell’aspetto, della voce, del
movimento e del gesto. Nel ‘700 nella società si sta radicando l’idea che la sincerità nell’uomo è un
fattore molto positivo, ma se al teatro l’attore deve saper fingere diventa difficile. Questo è quello
che attraversa la pratica in scena e come statuto dell’attore da quando inizia il professionismo
teatrale. Ci si interroga se l’attore si debba immedesimare o no. Quando viene recepito Diderot
siamo in pieno romanticismo. Secondo lui l’attore doveva saper gestire le emozioni e propone due
modelli: un attore positivo che propone esattamente la partitura stabilita che ripete con razionalità e
attenzione senza entrare dentro il personaggio, finge di sentire le emozioni che recita, mentre il
contro modello negativo è quello dell’attore che prova le emozioni e perde il controllo della
partitura. Diderot prediligeva il modello positivo. Con il romanticismo però le emozioni prendono il
sopravvento, iniziano a proliferare numerosi trattati della recitazione nell’800 e viene contestato il
presupposto anti-emozionalista di Diderot. Ci si interroga su come gestire l’ispirazione e la resa
scenica delle emozioni in quanto in primo piano vi è la necessità di esprimere passioni.

Attore 700esco insegue l’idea di naturalezza

Attore 800esco romantico codifica tutto perché entra nella parte, si fa uno studio approfondito di
gesti, movimenti e dizione, si privilegia la passione, i gesti e la voce sono costruiti e controllati, la
presenza è studiata nei minimi dettagli per poter emozionare, ma l’attore non è interprete.
L’attore si pone davanti al personaggio che è uno strumento per favorire la dimostrazione del suo
mestiere, del suo talento e del suo genio. L’attore deve avere una straordinaria capacità vocale, è
rivale del cantante lirico, la dizione e la vocalità diventano centrali.

FRANÇOIS DELSARTE
È un potenziale candidato al conservatorio come cantante lirico ma segue un training che gli rovina
la voce, gli esercizi hanno rovinato le sue corde vocali. Questo lo fa riflettere e abbandona la
carriera di cantante lirico e si dedica allo studio del linguaggio del corpo e la relazione tra i gesti, la
voce e gli impulsi interiori di natura spirituale, diventa il punto centrale di tutte le innovazioni della
recitazione e della danza moderna. Delsarte studia la voce e la lega a una visione complessa e
organica del copro, è mirata al performer e agli impulsi interiori, lo collega a una natura spirituale
dell’essere. Disegna una profonda corrispondenza tra le emozioni con la sua resa gestuale e del
movimento dicendo che il gesto è più importante perché veicola più direttamente i sentimenti del
performer, lo chiama l’agente diretto dell’anima. La sua teoria si chiama estetica applicata. Il
performer è chi è in possesso di un ricco vocabolario fonetico e mimico.

Nel primo ‘800 si fondano due NUOVI MODELLI DI ATTORE:


1. Joseph Kemble predilige la teatralità all’accuratezza storica, risponde alla richiesta del
pubblico di maggiore spettacolarità. Usa costumi e scene accurati per Shakespeare e nel giro
di 15 anni questo diventa una moda. Partitura precisa per strutturare la sua parte, imita
esteriormente le sue fattezze e la personalità, non c’è un coinvolgimento emotivo.
2. Edmund Kean ha una vita dissoluta, piena di debiti, è il simbolo di tormento romantico in
scena e nella vita privata. È di statura bassa e molto impulsivo e irruente, stile recitativo
diverso da quello corrente dell’epoca (Kemble). Nelle sue interpretazioni di Shylock (Il
Mercante di Venezia) e di Otello, ad esempio, attira l’attenzione nel momento delle sue
battute ma anche quando recitano gli altri continua ad esistere, tecnica detta delle
controscene. Nei suoi allestimenti c’è una cura dei minimi particolari (architetture, arredi e
costumi) e vengono inserite danze e musiche. Dilatazione dello spettacolo e necessità di
tagli e interventi sul testo (prima non si poteva). Risultato complessivo è una serie di scene
sfarzose e accurate ma con un distacco dal testo.
Nella seconda metà dell’800 il teatro di prosa inizia a ruotare su 4 pilastri:
1. Idea della PROPRIETÀ DEI TEATRI: in Italia non ci sono compagnie stabili (eccezione
la Reale Sarda di Torino 1821-1855) a differenza in Germania o in Francia
2. La funzione dell’IMPRESARIO: gestisce la compagnia e il teatro, affittava un teatro ed era
l’intermediario tra il teatro e la compagnia, fa da manager, fissa le date degli spettacoli e
prende percentuali sugli incassi
3. Le AGENZIE TEATRALI: acquisiscono sempre più potere nell’800, hanno il ruolo di
intermediazione tra impresa e artista (nel teatro d’opera) e tra compagnia e attori (nel teatro
di prosa). Il ruolo dell’agente è quello di provvedere ai contratti con gli attori trattenendo
una percentuale sul loro guadagno, importare campioni dall’estero, fornire traduzioni alle
compagnie e gestire i contatti con i giornali e le riviste. Il capocomico sceglie il repertorio,
tratta con gli autori, distribuisce le parti, cura la scenografia e dirige le prove.
4. La COMPAGNIA: le compagnie drammatiche nell’800 sono itineranti, sono delle
microstrutture, un’impresa economica che segue diverse forme di impresa. Ogni compagnia
aveva una struttura fissa, le repliche erano rare e il pubblico è principalmente formato da
habitué. Esistono compagnie primarie (si esibiscono nelle città più prestigiose), secondarie
(nelle città meno importanti e nei paesi di media grandezza) e di terzo ordine (in piccoli
paesi). In linea generale, si esibiscono per un periodo di tempo molto breve. La struttura
della compagnia è rigida e gerarchica di carattere sociale ed economico, rigida divisione del
lavoro basata sull’organizzazione per ruoli. Tipologie di compagnie drammatiche italiane
dell’800:
- compagnia cooperativa è molto rara
- compagnia di proprietà o capocomicale è la più comune dove il capocomico è spesso il
proprietario e c’è una figura che svolge il ruolo di impresario
- compagnia sociale in cui tutti i componenti possiedono una quota azionaria e hanno diritto
a una percentuale sugli utili
- compagnia mista è simile alla sociale, ma prevede la presenza di attori solo scritturati
SITUAZIONE GENERALE DELLE COMPAGNIE: il nomadismo forzato e il fatto di non
avere spazi e luoghi fissi a disposizione fa sì che ci sia uno scarso coordinamento tra i vari attori in
scena e che le scenografie siano semplici e intercambiabili oppure quelle a disposizione del teatro
che ospita lo spettacolo. In generale non c’è attenzione all’unità dello spettacolo a nessun livello. I
costumi erano di proprietà degli attori e non coordinati tra loro.

RUOLO
è la somma delle parti che rientrano nella sfera di competenza di un attore, griglia precostituita con
delle precise norme contrattuali. A ogni ruolo corrisponde delle caratteristiche fisiche e stilistiche.
La parte sono le battute che un preciso personaggio dice all’interno di un copione. Fanno eccezione
il primo attore e la prima attrice che devono sempre avere il ruolo di protagonista.
RUOLI MAGGIORI:
- la prima attrice (primadonna, è il ruolo assoluto per eccellenza)
- il brillante (giovane dalle attitudini comiche)
- il caratterista (temperamento dominante)
- la madre nobile (punto di arrivo di una ex primadonna)
RUOLI MINORI:
- il primo attore
- il primo attore giovane e la prima attrice giovane
- il promiscuo (sia comico che drammatico, travestimento e trasformismo)
- il generico primario (tuttofare o generici)
SISTEMA DELLE PARTI/RUOLI
limita la drammaturgia perché per avere successo un dramma deve già prevedere quei tipi di
personaggi che corrispondono agli attori di solito presenti in una compagnia. Il repertorio di una
compagnia doveva essere ampio perché:
- se era in residenza doveva offrire divertimento variato allo stesso pubblico
- se era itinerante doveva offrire ugualmente molti spettacoli in pochi giorni (brevi soste nelle
città)
Il sistema di produzione comportava un limitato numero di prove, questo generava l’abitudine di
imparare a perfezionare la propria parte autonomamente, non c’erano prive con tutta la compagnia.
Il ruolo, dunque, diventa l’unica vera risorsa di un attore, non esiste ancora un regista. Il sistema
diventa una macchina di protagonismo che sostiene l’attore principale, ad esempio Adelaide
Ristori stravolge Macbeth perché vuole essere lei la protagonista. Le luci di ribalta spingono l’attore
a recitare in proscenio, l’unica parte ad essere illuminata. Questo sistema fa sì che si formi il
fenomeno dei GRANDI ATTORI che predominano nel teatro di prosa italiano intorno al 1850. La
triade dei grandi attori comprende Adelaide Ristori, Ernesto Rossi e Tommaso Salvini.

Verso la fine dell’800, critici ed intellettuali auspicano la fine della compagnia teatrale italiana
all’antica, gli attori fanno sempre di più le star e viene avvertita la necessità di una figura più forte e
competente artisticamente e culturalmente: il regista. Inizia dunque la fase discendente della storia
delle compagnie all’antica che scompaiono del tutto nel ‘900 con l’affermazione del teatro di regia
anche in Italia.

TECNICHE DI RECITAZIONE DEL GRANDE ATTORE


l’interpretazione è immedesimazione ma senza ritrovare se stesso nel personaggio, annullamento
della propria individualità per entrare nella pelle del personaggio. L’interpretazione è dunque
incarnazione, il grande attore non si preoccupa del valore artistico del testo ma lo utilizza come
intelaiatura entro cui si situa il personaggio. Il grande attore stimola il pubblico alla partecipazione e
all’identificazione col personaggio, capacità di alimentare la dimensione visiva con una sapiente
gestione dei gesti e del corpo che danno immagini che si fissano nella mente dello spettatore.
Seconda generazione (del mattatore) 3 poli intorno ai quali ruota la questione del rinnovamento
dell’arte recitativa:
1. il rapporto con i ruoli
2. la compatibilità tra naturalismo e stile tragico
3. la credibilità di un mondo nuovo, realistico, di approccio al personaggio.
Con la nuova drammaturgia nazionale (seconda metà dell’800) il mattatore modifica il proprio
repertorio in direzione della contemporaneità.

ELEONORA DUSE (1858-1924)


A 20 anni è a capo di una compagnia con Giacinta Pezzana ed entra nella Compagnia Stabile di
Torino di Cesare Rossi. Comincia a recitare con un grande repertorio (Alexandre Dumas figlio,
Victorien Sardou, Giovanni Verga e Ibsen), personaggi molto vicini all’epoca, quindi è facile
immedesimarsi. Tratta temi comuni della vita quotidiana come denaro, sesso, famiglia, matrimonio,
ruolo della donna, il ritratto di una società perbenista ma ipocrita. Eleonora Duse è fondamentale
perché rappresenta l’apoteosi della grande attrice 800esca ma è anche l’attrice che più sperimenta e
che stravolge l’idea di recitazione. È considerata una delle prime attrici del ‘900 quando si afferma
la figura del regista e grandi sperimentazioni sulla recitazione.

STILE DELLA DUSE


viene definita “attrice del dolore” (dolorismo) e chi la vedeva ne rimaneva impressionato o
soggiogato, riusciva in scena a catturare sempre l’attenzione.
• Ha uno stile recitativo antifrastico: l’antifrasi è una figura retorica per cui il significato di
una parola o di una frase risulta opposto a quello che assume, quindi la Duse fa dei
movimenti che ci si aspetterebbe ad esempio di affermare quello che ha detto l’altro attore
ma in realtà lo sta negando.
• Cambiava il tono della voce, immediatezza e verità data anche dai moti scomposti, aveva
una voce velata con tendenza a diventare roca e gutturale, inadatta a una vera prima attrice,
ma apprezzata per la capacità di rivelare lo sforzo, la tensione.
• Non aveva un bel fisico, ma aveva la presenza, ha qualcosa che attira l’attenzione. Ha la
voce, abolisce gli stereotipi vocali della dizione di un attore tradizionale, non ha una
scansione logica delle pause, la sintassi è interrotta da interiezioni o ripetizioni. Giocava
sull’effetto sorpresa.
• Per dare la sensazione di una maggiore verità volta le spalle al pubblico, fa pensare che sei
nella realtà, non rispetta i codici di comportamento, lo spettatore diventa un voyeur. Diventa
un altro modo di guardare, spazza l’idea della quarta parete.
• Mimica e gestualità: uso di una gestualità non codificata, non aderisce completamente allo
schema del ruolo nella costruzione dei personaggi, impressione che si agitasse in scena, non
ha un comportamento razionale. Non manteneva le distanze teatrali finendo spesso a ridosso
dell’interlocutore. Aveva un contatto fisico con il suo corpo, si accarezzava il viso, aveva
perfino dei tic di passarsi le mani sui capelli e accavallava le gambe, sono tutti atteggiamenti
socialmente poco qualificanti. I gesti diventano automatici e autonomi, senza scopo e
funzione eppure necessari, sembrano voluti dall’attrice.
• Rapporto intenso con gli oggetti
• Necessità di circondarsi di attori di buon livello

Cenere (1916) diretto e interpretato da Febo Mari con Eleonora Duse tratto dall’omonimo romanzo
di Grazia Deledda (1904). È un documento storico della recitazione. La vediamo recitare priva di
sonoro

Processo e morte di Socrate (1939) regia di Corrado D’Enrico con Ermete Zacconi che interpreta
Socrate. È interessante perché è un grande attore teatrale che recita nel film. Non è un grande film,
puntava tutto sulla presenza del grande attore, è uno stile recitativo statico, gioca su alcune
gestualità, è molto codificato, è prevedibile e rientra nell’uso della gesticolazione e della dizione
800esca.

INGHILTERRA:
i grandi direttori delle compagnie sono spesso i primi attori (come in Italia), sono gli actor
managers. Le classi alte prediligono l’opera e la classe operaia (la popolazione triplica a Londra tra
il 1810 e il 1850) preferiva spettacoli con macchine sceniche e meraviglie scenografiche. Era
necessario, inoltre, costruire nuovi teatri adatti.
FRANCIA:
le compagnie minori sono simili a quelle italiane. La Comédie Française è il più antico teatro
francese.
Azionisti: 6-7 membri autorevoli, scelgono il repertorio.
Scrittore: può scegliere diversi interpreti (ci sono i doppi ruoli).
Drammaturgo: dirige le prove, da 2-3 settimane a 3 mesi.
Si fa un’analisi accurata del copione e c’è un grande affiatamento fra gli attori. Organizzazione dei
ruoli molto diversa da quella in Italia e molta varietà di rappresentazioni (Hugo, Dumas e de
Vigny).
GERMANIA:
compagnie stabili e figure importanti come Goethe che è un drammaturgo e direttore delle prove.
RICHARD WAGNER
gesamtkunstwerk, cioè opera d’arte totale. Diceva che in un’opera ci deve essere una sintesi delle
arti poetiche, visuali, musicali e drammatiche, quindi una coesione tra musica, poesia, danza,
architettura e pittura. Capisce che nel clima culturale del tempo ci vuole un nuovo modo di mettere
in scena, ci vuole sempre di più una visione di insieme.
Wagner progetta un teatro a forma di anfiteatro in antitesi con la scansione gerarchica, si collega al
modello spaziale nato nel rinascimento, è quindi un teatro ridotto al minimo non decorato perché
tutto è ridotto alla funzione dell’attore. Il Festsplielhaus di Bayreuth (1876, architetti Gottfried
Semper e Richard Wagner) è un teatro d’opera dove non ci sono i palchi laterali, semplicità degli
arredi interni e la disposizione della sala è circolare. È presente la buca per l’orchestra (“golfo
mistico”) che viene ricoperta con un tetto cosicché l’orchestra non fosse visibile agli spettatori.
Questo permetteva al pubblico di concentrarsi sul dramma e di non essere distratti dai movimenti
del direttore. C’è n doppio proscenio che dà al pubblico l’impressione che il palcoscenico sia più
lontano di quanto sia realmente. Tutto ciò dona alle rappresentazioni un’aura di sogno e di magia. Il
teatro non è decorato in modo da obbligare lo spettatore a concentrarsi su quello che viene
rappresentato e tutti godono della stessa vista. Il ruolo fondamentale è affidato all’attore e in sala
c’è buio totale. Anche Wagner però fallisce perchè le rappresentazioni sono troppo 800esche.

DETEATRALIZZAZIONE E RITEATRALIZZAZIONE
Il ‘900 teatrale nasce già nell’800, nel 1895 nasce il cinema e sottrae importanza al teatro, il cinema
diventa l’arte della modernità. Il teatro non funziona più per quella società, ci vogliono delle
innovazioni profonde. Se il teatro è il regno della teatralità, nel ‘900 il teatro va deteatralizzato,
bisogna ripensare ai codici espressivi e ripudiare le convinzioni dell’800, oppure contrariamente va
riteatralizzato e quindi enfatizzare la teatralità. Dal ‘900 non esiste più un codice unitario, ci sono
tanti modi di fare teatro e si afferma la regia. (libro Allegri)

ÉMILE ZOLA
Con Il naturalismo a teatro (1881), testo fondamentale di Émile Zola, segue tradizionalmente “i
caratteri” dei personaggi costruiti intorno a un’azione e determinati dall’intreccio. Col naturalismo
l’azione è una conseguenza logica e naturale degli stati d’animo dei personaggi e del conflitto delle
loro psicologie. All’eroe romantico subentra l’uomo comune unico responsabile delle proprie
azioni. I temi principali sono relazioni familiari, lavoro, difficoltà economiche e condizione
femminile. Da teatro come specchio (che presenta un’immagine idealizzata della borghesia) a teatro
come fotografia (apparenza di oggettività).

NATURALISMO A TEATRO
È un vero e proprio strumento ideologico della borghesia al culmine della sua parabola ascendente.
Lo spettatore a teatro cerca conferma dei suoi modelli comportamentali, necessità di vedersi
rispecchiati in scena, teatro come specchio della società. Questo è alla base di una riflessione
profonda sull’arte del teatro, sulla figura del regista, sull’arte dell’attore e la recitazione.

COMPAGNIA DEI MEININGER (1870-1890)


fondata dal duca Giorgio di Meininger importanza fondamentale nella storia del teatro tedesco. Il
direttore della compagnia è LUDWIG CHRONECK, interveniva egli stesso nelle decisioni
fissando ogni particolare. L’evocazione storica dominava il gusto nella poesia, nella pittura e
nell’architettura e la compagnia fu interprete di questo stile nell’arte scenica.
• Il repertorio comprendeva Shakespeare, Goethe, Molière, Schiller, Kleist e Grillparzer.
• L’allestimento scenico era curato con la più scrupolosa precisione, la scena veniva
trasformata in un quadro storico vivente. I costumi erano di seta e altre stoffe costose sul
modello degli autentici. Scene e costumi riprodotti esattamente, cura ossessiva dei minimi
dettagli. Si inseriscono elementi tridimensionali e praticabili sulla scena come scale e
rientranze.
• Gli attori occupano tutto lo spazio, anche il fondo della scena. L’effetto della
rappresentazione non fu più cercato nell’abilità scenica di un singolo attore ma nella totale
dignità artistica dell’esecuzione.
• La recitazione delle parti principali non fu più abbandonata all’estro dell’attore ma studiata
in relazione all’insieme dell’opera recitata: è una compagnia di attori di dilettanti (meno
bisognosi di dover affermare la loro centralità), professionisti e grandi attori, concetto di
lavoro insieme. Si comincia a vedere un progetto sotto le scene e le scenografie, armonia di
insieme, compagnia come compagnia.
• Le prove duravano mesi e mesi e anche gli attori maggiori dovevano adattarsi a parti
secondarie.

Nel 1890 la compagnia si sciolse con l’avvento del naturalismo e il gusto del pubblico si sposta
verso una “sete di realtà”. Prevale la ricerca della semplice verità umana nell’interpretazione
rispetto alla precedente ricerca di un esteriore verità storica. La compagnia dei Meininger esercita
una profonda influenza sugli sviluppi futuri del teatro: Konstantin Stanislavskij e André Antoine.
Tra i primi esempi di teatro naturalista ci sono i drammi di HENRY BECQUE: I corvi (1882) è la
storia di una famiglia rovinata dagli usurai che come i corvi si mangiano l’intero patrimonio e La
Parigina (1885) affiora il tema dell’adulterio.

Con IBSEN e CECHOV cambia la modalità di scrittura drammaturgia, essi forniscono dettagliate
didascalie sceniche su ambienti e momenti dell’azione.

La prima parte dell’800 è enfatica e stilizzata, dove si iniziano ad avere delle regole teoriche, dei
manuali che danno una regolamentazione alla recitazione. Non tutte le compagnie teatrali sono
uguali. Verso la fine del secolo il sistema entra in crisi, dal punto di vista cognitivo e produttivo, il
teatro si scolla dalle esigenze del pubblico che vuole vedere qualcosa che gli restituisca il senso
della modernità che sta vivendo nella vita quotidiana, in cui è più facile immedesimarsi. Il pubblico
è stufo di convinzioni teatrali, ci sono sperimentazioni che vanno nella direzione opposta che
enfatizzano gli aspetti della teatralità del teatro (deteatralizzazione e riteatralizzazione). Si passa da
una recitazione realista a una nuova recitazione. Il teatro del 900 è un mosaico di esperienze anche
contraddittorie tra loro. Ripensamento del teatro che abbia un senso per la società.

Quando si comincia a pensare al teatro come visione organica? Da “regia” a “messa in scena”: si
inizia ad usare una terminologia diversa, messa in scena ha più una visione pratica che teorica. Il
testo scritto vive in una dimensione diversa, c’è una seconda scrittura che il regista mette in scena.
Sono i primi esperimenti di regia, sulla scia nel naturalismo, innovativo rispetto alle teorie
precedenti, ma ci sono anche teorie che seguono il surrealismo e il simbolismo. Inizia a radicarsi
l’idea che per diventare attore bisogna studiare, seguire una scuola, un metodo. Gli attori delle
prime generazioni del primo ‘900 seguono un indirizzo, come una comunità di riferimento. Sarà
molto più avanti che gli attori iniziano a seguire metodi di lavoro molto diversi.
TEATRO MODERNO

Il teatro moderno inizia verso il 1885 con alcuni artisti che creano dei TEATRI INDIPENDENTI
ispirandosi a Meininger per introdurre l’idea di approccio scientifico a teatro. Poi vengono definiti
TEATRI D’ARTE per lottare contro la dimensione commerciale e superficiale di teatro e stabilire
nuovi canoni estetici inspirandosi a Wagner.
Il primo teatro indipendente è il Théâtre Libre fondato a Parigi da ANDRÉ ANTOINE nel 1887.
È la messa in pratica dell’idea di Zola. Non ha una vera sede stabile, ma era organizzato come un
club privato, questo aiutava a non incappare nella censura. Quindi vi si accede per invito o per
abbonamento. André Antoine apprezza della compagnia di Meininger l’omogeneità dell’ensemble,
sembra che abbiano provato tutti insieme, apprezza anche l’uso delle comparse, il ricorso agli effetti
di luce, la recitazione del proscenio, il dare alle spalle al pubblico. Antoine però ne rileva anche i
difetti: il teatro di Meininger non è formato da professionisti, sono attori mediocri e la scena spesso
è troppo sfarzosa.
Inizialmente il repertorio è eclettico e realizza dei pezzi rifiutati dalla Comédie Francaise perché
capisce che nello scarto c’è molta qualità per una nuova dimensione del teatro. Poi allestisce delle
opere di Zola ma, a differenza dei Meininger che avevano un repertorio classico e consolidato,
Antoine è aperto anche a stranieri come Strindberg, Ibsen e Verga. Antoine attacca le convenzioni
teatrali francesi, idea naturalistica della messa in scena, verosimiglianza e obiettività. Nuova
concezione del lavoro degli attori, riforma della recitazione: movimenti più vicini alla quotidianità,
visione organica dell’ensemble e solo attori dilettanti in scena. È il primo a far recitare dando le
spalle al pubblico, decostruisce i codici teatrali e introduce il concetto di quarta parete: gli attori
ignorano la presenza del pubblico e agiscono come se fossero nella vita quotidiana. Abbandona la
finzione delle scene dipinte, sceglie la tridimensionalità e scene praticabili e introduce il buio in sala
in maniera sistematica. Stimola il senso dell’olfatto portando in scena quarti di bue, se devo rendere
la realtà devo attivare tutti i sensi.

Questa direzione della ricerca teatrale non si radica solo in Francia ma anche in Germania con
OTTO BRAHM, esponente del naturalismo tedesco tra i fondatori della Freie Buhne dove vengono
allestite opere censurate o poco diffuse.
In Gran Bretagna l’INDEPENDENT THEATRE SOCIETY si occupava di favorire allestimenti
di pezzi non commerciali.

L’altra via praticata è quella che segue il SIMBOLISMO, movimento culturale sviluppatosi in
Francia che comprende letteratura, arti figurative e musica, nasce con la pubblicazione di
Correspondence (Corrispondenze) di Charles Baudelaire, un inno alla sinestesia; l’altro autore
centrale è Mallarmé.
Il Manifesto del Simbolismo (1886) di Jean Moréas pone l’oggetto sul alcune questioni come la
soggettività, la spiritualità, l’attrazione per forze misteriose che esprimono una verità profonda della
realtà. Maurice Maeterlinck, invece, è il più celebre poeta, drammaturgo e saggista belga simbolista
e vince il Nobel per la Letteratura (1911).
Caratteristiche del teatro simbolista:
- Si pone in antitesi con il naturalismo, approccio intuitivo alle cose, rifiuto dei valori
materiali della società da un punto di vista critico.
- Il teatro non è il luogo della rappresentazione della realtà ma un luogo quasi mistico in cui
sperimentare il sogno, l’illusione, l’ideale e la poesia.
- Il teatro deve ritrovare la propria necessità estetica, soluzioni teoriche più convincenti di
quelle pratiche come il culto dei valori compositivi, scena dev’essere come il corrispettivo
della parola poetica.
- Le atmosfere sono rarefatte e il teatro è visto come un quadro, estrema stilizzazione dei gesti
che non sono quotidiani e nuove sperimentazioni vocali.
- Difficile ricezione, teatro di nicchia e intellettuale.

THEÂTRE D’ART
Fondato da Paul Fort nel 1891, episodio dura un anno (generalmente hanno una durata breve).
Ha un breve successo iniziale, c’è una scarsa qualità dei dilettanti, un eccessivo numero di pièces e
una scarsa organizzazione.
La fanciulla dalle mani mozze di Pierre Quillard è l’inizio della fase simbolista nel teatro, invece
della quarta parete c’era un velario tra pubblico e scena (quasi ci fosse una membrana tra realtà e la
finzione), l’attore è uno strumento per evocare una smaterializzazione della scena, le pose e la
gestualità dev’essere solenne, il testo drammatico, recitazione cantilenante e rievoca significati
simbolici e spirituali.
Nel Théâtre de l’oeuvre fondato da Lugné-Poë sono addirittura le parole e la sonorità che creano la
scenografia e che aiutano a creare questo grado di atmosfera onirica, da sogno, non reale.
Comincia una discussione su cosa sia l’attore e si comincia a parlare di marionetta o attore-
marionetta, uno dei modi di scardinare il sistema della recitazione, avere delle marionette garantisce
al regista di poter lavorare con un maggiore controllo rispetto alle emozioni dell’attore e al suo stato
d’animo.
Un‘opera teatrale esempio è Ubu roi di Alfred Jarry e diretta da Paul Fort, musiche di Claude
Antoine Terrasse, è una rielaborazione in chiave parodica di Macbeth di Shakespeare. Nasce da un
ricordo di un suo professore di fisica del liceo, incarnava il grottesco. È una rappresentazione che ha
fatto storia ma è stata bloccata immediatamente, esempio di censura. Padre Ubu: interpretato da
Firmin Gémier, attore di teatro naturalista di Antoine, ha una dimensione marionettistica, capitano
dei draghi, ufficiale di fiducia del re Vanceslao di Polonia (personaggio storico). Padre Ubu uccide
il re Vanceslao e sale al trono, uccide i nobili e tutti coloro che l’avevano appoggiato. Il figlio di
Vanceslao, il principe Bugrelao, vuole riconquistare il trono del padre. Anticipa il surrealismo, è un
pezzo scritto all’insegna della provocazione e della farsa. È una storia di uccisioni e rivendicazione
del potere. La struttura narrativa è frammentaria e i passaggi da una situazione all’altra sono
bruschi, non c’è coerenza narrativa e l’uso del linguaggio è provocatorio. Alcuni personaggi
appaiono solo per brevi istanti. Attacca i valori materialistici della borghesia, attaccamento al
potere, allestisce tutte le scene mostrate simultaneamente, non c’è l’idea di uno sviluppo e una
narrazione dei personaggi, costumi e trucco sono molto calcati e grottesco. Lo stile è chiamato
Gran Guignol che era un teatro che rappresentava scene macabre e violente. È un episodio
marginale che fece scalpore ma non fece scuola. Jarry finì per identificarsi col suo personaggio,
parlava come lui e firmava le sue lettere come Ubu.

1900 - LA RECITAZIONE E IL METODO STANISLAVSKIJ

Nel XX secolo grazie a tutte le innovazioni si affermano le teorie di recitazione. 3 linee teoriche
principali:
1. IMMEDESIMAZIONE con STANISLAVSKIJ
2. DISTACCO ATTRAVERSO LO STRANIAMENTO con BRECHT E MEYERHOLD
3. RINUNCIA DI SÉ con GROTOWSKI

Nell’epoca imperiale fiorisce il Romanticismo con la diffusione delle messe in scena di


Shakespeare, l’opera musicale va per la maggiore. Fino al 1883 i teatri imperiali hanno il
monopolio delle produzioni in Russia (Mosca e San Pietroburgo). Dalla metà dell’800 si diffonde
moltissimo la linea del Realismo con scenografie sempre più storicamente accurate e con
l’influenza delle produzioni di Meininger.
KONSTANTIN STANISLAVSKIJ

Stanislavskij è figlio di una famiglia facoltosa che fin da piccolo ha la passione per il teatro, le
prime sperimentazioni avvengono in un clima familiare. Fa l’attore per passione. Fonda una società
di arte e letteratura, un gruppo di autori amatoriali ma anche di letterati. Il suo iter è il mecenatismo,
ma finirà in un clima di nazionalizzazione e democratizzazione della cultura, ma rimane fedele di
una pratica del teatro che abbia un valore etico non commerciale.
A cambiare il suo destino è l’incontro con NEMIROVIC DANCENKO, un critico d’arte, insieme
condividono la necessità di cambiare il teatro che non sia un teatro commerciale e schiavo del
pubblico. Fondano il Teatro d’Arte di Mosca nel 1898 dove l’idea è quella di educare il pubblico
alla bellezza e di una ricerca di un pubblico il più ampio possibile. Dancenko sceglie il repertorio e
Stanislavskij si occupa della scrittura di scena, la scrittura del regista. C’è il problema di
moralizzare la figura dell’attore, la vita dell’attore è nomade ed è difficile far passare al pubblico
l’idea che il teatro possa cambiare la società. Comincia l’idea del dramma esistenziale.
Stanislavskij è un regista anomalo, viene chiamato regista-pedagogo, ha la capacità di tirar fuori
dall’attore qualcosa di lui per portarlo verso la miglior interpretazione del personaggio, aiuta quindi
l’attore nel lavoro su sé stesso e sul personaggio. L’attore non è un passivo esecutore ma diventa
egli stesso creatore, inoltre, Stanislavskij inventa una serie di procedimenti e di esercizi per indurre
lo stato d’animo creativo. L’idea di Stanislavskij è quella di un rifiuto delle convinzioni per
riprodurre a teatro la verità, ha una forte influenza dei Meininger: studio eccessivo dei particolari e
cura alla realizzazione scenografica. L’attore deve muoversi nello spazio con la naturalezza
dell’esistenza reale e anche in Russia per la prima volta vengono girate le spalle al pubblico. Il
Teatro d’arte di Mosca è molto pulito, segue l’idea di Wagner, non è sovraccarico nella
decorazione, non deve distrarre dalla messa in scena dello spettacolo. Iniziano il repertorio con
Tolstoj.

Nel 1898 mettono in scena Il Gabbiano di Anton Cechov l’incontro con ANTON CECHOV è un
momento cruciale per la regia di Stanislavskij, ha trovato la sua via: passaggio da un realismo
esteriore a una variante molto più intima e psicologica, dimensione esistenziale e di profondo
travaglio interiore. All’epoca in Russia gli attori declamavano il testo ma non lo vivevano;
Stanislavkij, invece, faceva recitare gli attori in modo inedito. Per rendere questi drammi di
personaggi in crisi non soddisfatti della vita scollata dalla modernità, Stanislavskij basa la
recitazione su gesti quotidiani, spontanei e amplifica le pause dell’azione e i silenzi (introdurre un
elemento vicino alla realtà, quasi una pausa di riflessione), idea di poter rappresentare la
naturalezza. I suoi attori parlano, ridono, ma nel contempo fanno sempre qualcosa, compiono gesti
quotidiani e ripetitivi, gesti apparentemente insignificanti che non hanno l’effetto di amplificare il
contenuto e il senso delle loro parole, ma al contrario sono volutamente slegati rispetto alle battute.
Si facevano prove a tavolino, lavorano dividendo il testo, fanno una lettura insieme e si discute del
testo, si inizia a riflettere cosa c’è dietro a quella battuta e dietro quel testo. Per Il gabbiano,
Stanislavskij stende un dettagliatissimo piano di regia preventivo che chiama “quaderno di regia”;
una vera e propria sceneggiatura teatrale in cui a sinistra riporta il testo di Čechov e a destra una
didascalia che prende dieci volte lo spazio di una battuta. Egli definisce le sfumature psicologiche,
gli stati d’animo interiori (le intonazioni della voce, le pause, i silenzi, gli sguardi) e particolare
attenzione viene data agli oggetti e alla loro manipolazione da parte degli attori. Un altro elemento
fondamentale della regia di Stanislavskij erano i suoni, i rumori, la partitura sonora. I rumori
servivano a scandire il tempo e a dilatare lo spazio, a dare la presenza di ciò che si volgeva fuori
dalla stanza. Ma, paradossalmente, i rumori servivano anche a ottenere il silenzio.

Nel 1904 finisce la prima fase di Stanislavskij e se ne apre un’altra. Mettono in scena Il giardino dei
ciliegi e Stanislavskij mette in scena il tragico quotidiano attraverso figure di falliti incapaci di
opporsi a un destino avverso e sentito come ineluttabile. Viene abolito il protagonista e la
drammaticità si concentra sull’intensità dei sentimenti, malinconiche rivisitazioni del passato e sulla
rappresentazione di frammenti della realtà che creano un’atmosfera di diffuso grigiore e di dolorosa
testimonianza dell’amarezza della vita.

Stanislavskij come regista pedagogo, opere:


- La mia vita nell’arte autobiografia
- Il lavoro dell’attore su sé stesso scritto sotto forma di diario di un immaginario attore che
frequenta la scuola di teatro dove apprende le varie fasi del metodo
- Il lavoro dell’attore sul personaggio raccolta di studi critici e appunti, raccolta postuma

L’attore non è un passivo esecutore, ma diventa egli stesso creatore, Stanislavskij inventa una serie
di procedimenti ed esercizi per indurre lo stato d’animo creativo.

METODO STANISLAVSKIJ
Nel 1906 nasce il “sistema”. Alla base del sistema di Stanislavskij cioè la fondamentale distinzione
tra il mestiere e l’arte dell’attore, tra routine e creazione. L’attore di mestiere recita per il pubblico,
si interessa alla sala; mentre l’attore d’arte è concentrato su di sé, prova psicologicamente e
fisiologicamente i pensieri e i sentimenti del personaggio.
Per rendere un personaggio in scena in modo che sia credibile, l’attore deve fare riferimento al suo
bagaglio di emozioni e ricordi. Parla di sottofondo misterioso dell’anima (anni della psicanalisi),
si inizia a parlare di inconscio e subconscio, tutto ciò che non dominiamo razionalmente.
Immedesimarsi nel personaggio non è un atto spontaneo, l’attore deve lavorare sodo e sono
necessari degli esercizi (rilassamento, concentrazione e capacità di rielaborare le immagini). Crea
una psicotecnica: un insieme di pratiche attraverso cui l’attore interviene sui meccanismi emotivi e
psicologici che stanno alla base dell’immedesimazione, l’attore deve lavorare prima di tutto su sé
stesso perché è l’unica fonte da cui poter attingere. L’attore deve fare riferimento a un insieme di
situazioni psicologiche che coincidono con l’esperienza privata dell’attore (memoria emotiva),
cercare nei ricordi qualcosa che faccia risuonare emotivamente, che sia credibile quando la metti nei
panni del personaggio. Su questo spartito psicologico si attiva la spartitura psicofisica.
La creazione artistica trae origine dall’inconscio, l’attore cessa di “recitare” e comincia a vivere la
vita del dramma, l’attore diventa il personaggio. Le circostanze date sono una serie di fatti o
situazioni ricavabili in maniera esplicita o implicita del testo e che riguardano l’epoca,
l’ambientazione, passato e futuro del personaggio. Il “magico se” è una serie di ipotesi di azioni e
reazioni a cui ricorrerebbe l’interprete se si trovasse nella situazione vissuta dal personaggio, c’è
dunque un sottotesto. Il “magico se” consiste nel processo mentale mediante il quale l’attore si
pone direttamente nelle condizioni del personaggio. Raffinata combinazione di ingenuità,
immaginazione e azione, esso allontana l’attore dalla sfera intellettuale e analitica dell’opera e lo
riconduce alla propria logica individuale, suscitando una vita interiore più intensa sulla scena.

“Perezivanie” è una parola tradotta come immedesimazione, ma l’esatta traduzione sarebbe


reviviscenza, azione scenica che permette all’attore di fare propria l’emozione del personaggio. Il
“cerchio creativo” o “cerchio di attenzione” è un concetto fondamentale che rappresenta
idealmente un cerchio attorno a sé per circoscrivere lo spazio che domina la concentrazione. Il
passaggio che cambia l’impostazione del lavoro dell’attore sulla recitazione nel ‘900 è dal realismo
esteriore a un realismo interiore che avviene tramite il meccanismo della reviviscenza.
L’emozione dell’attore sarà sempre vera e non verosimile, reale e non realistica.

Per fare tutto questo, Stanislavskij fa diversi studi:


- Studio-laboratorio (1905) tentativo di uno studio con Mejerchol’d per mettere alla prova le
suggestioni del simbolismo, prime prove di improvvisazione, di un diverso rapporto con il
testo ma Mejerchol’d è troppo distante.
- Primo studio (1912) è una scuola-laboratorio, un bambo di prova del suo sistema dove
Stanislavskij rimette in discussione quanto fatto fino ad allora.
- Secondo studio chiamato studio Cechov.
- Studio Vachtangov visione del teatro lontana dallo spettacolo come prodotto, privilegia il
processo verso lo spettacolo. Vachtangov rovesciò il sistema: anziché aspettare che la forma
emergesse dalla giustificazione interiore, fissava la forma all’inizio impegnando l’attore a
giustificarla.
Dopo la Rivoluzione russa (1917) il Teatro d’arte riceve contributi statali in cambio della
produzione di drammi socialisti, Stanislavskij lavora anche al Bolshoi. Fa una grande tournée in
America e alcuni attori ci restano.

Le fonti dalle quali Stanislavskij attinge sono:


• SIGMUND FREUD (1856-1939): nozione di subconscio come sede della creatività e della
verità, inaccessibile all’intervento diretto della volontà e della ragione.
• THÉODULE RIBOT (1839-1916): concetti id memoria emotiva e di memoria sensitiva,
idea che non esiste sentimento senza una corrispondente manifestazione fisica.
• WILLIAM JAMES teoria periferica delle emozioni: capovolge l’idea comune secondo cui
alla percezione di uno stimolo segue un’emozione che è accompagnata da manifestazioni a
livello somatico, al contrario la manifestazione somatica precede l‘emozione, che
successivamente viene riconosciuta a livello cognitivo.
• ALEKSANDR PUSKIN la verità delle passioni corrisponde all’esperienza intima
dell’attore, la verosimiglianza delle azioni mette in campo emozioni o esperienze non
autentiche ma il loro presentimento.

Negli anni ’30 c’è un ribaltamento del sistema, l’azione chiave d’accesso della condizione
psicologica secondo lui sono le azioni fisiche e la memoria emotiva viene ridimensionata. Sostiene
che l’intero lavoro dell’attore dovesse trovare il suo cardine nell’azione. Ora Stanislavskij pensa che
attraverso il corpo l’attore possa agire sull’anima E decide di iniziare il processo verso il
personaggio cominciando non dall’immaginazione e dal sentimento, ma dalle azioni fisiche.
Metodo delle azioni fisiche: azione come attività psico-fisica, il gesto, il movimento e il ritmo
inducono l’emozione, dall’azione nasce la reviviscenza e scatta il meccanismo dell’identificazione.
L’interiorità resta il fulcro del personaggio ma sulla partitura psicologica (sottotesto personale da
aggiungere al testo) si attiva la partitura psico-fisica. “ se fossi in quella situazione che emozione
proveresti” a “se fossi in quella situazione che cosa faresti?”.

Five truths à stessa scena della morte di Ophelia ma con 5 metodi di recitazione diversi e tra i più
fondanti della storia del teatro (Stanislavskij, Brecht, Brook, Artaud e Grotowski). Video
installazione al Victoria and Albert Museum, regia di Katie Mitchell e interprete Michelle Terry.
Nell’Amleto la scena della follia e della morte di Ophelia non esiste (esiste ma non viene
rappresentata in scena di solito) ma ebbe un enorme successo tramite la pittura: Ophelia di John
Everett Millais (1852). Ophelia è una giovane ragazza aristocratica che è delusa dall’amore per
Amleto che impazzisce per l’assassinio del padre a opera dello stesso Amleto. Ophelia terminerà la
sua esistenza affogandosi in un corso d’acqua, cantando l’odio e la vendetta da parte del fratello
Laerte. Five Truths presenta la stessa scena di 10 minuti - le folli farneticazioni di Ophelia e la
successiva morte, tutte con lo stesso attore - negli stili di Stanislavski, Brecht, Peter Brook, Antonin
Artaud e Jerzy Grotowski. Alloggiato in un cubo scuro rivestito con 10 schermi di diverse
dimensioni (due per praticante) che giocano contemporaneamente.
Brecht è più facile da identificare, con Terry che si rivolge direttamente al pubblico, illuminato da
un'illuminazione a striscia clinica. Con un tocco brechtiano non troppo sottile, Terry indossa 20
sterline come ghirlanda. Per la scena di Stanislavskij, lei succhia una sigaretta con tristezza,
profonda - forse troppo profonda - nel pensiero; mentre, nella versione di Brook, stende gli oggetti
nelle sue tasche teneramente e ritualisticamente. Curiosamente, Mitchell sembra più cinico riguardo
l'approccio di Brook; la scena ha una sorta di sentimentalismo, come se il suo cuore non fosse in
esso. Le sue versioni di Artaud e Grotowski, tuttavia, premiano l'attenzione. La prima è tutta
distorsione: girato attraverso una ciotola di pesce rosso, il volto di Terry si allunga e si offusca; gli
oggetti in suo possesso diventano forme che affondano. Grotowski, al contrario, è un fremito di
emozione fisica. In una forte luce artica, Terry rotola sul pavimento, stringendosi il petto e urlando.

Meryl Streep in Kramer contro Kramer (raffigurazione di un divorzio cruento con lotta per
l’affidamento del figlio) regia di Robert Benton (1979), metodo Stanislavskij.
VSEVOLOD MAJERCHOL’D (1874-1940)

Allievo di Stanislavskij. Indaga la riflessologia, la psicologia entra in gioco quando ci sono i fautori
della ricerca psicanalitica. Si cerca di comprendere come funzioni la nascita di riflessi involontari
che hanno a che fare con una questione emotiva irrisolta. Si ispira al Taylorismo “l’attore deve
sollecitare al massimo i propri riflessi e ridurre al minimo il processo cosciente cercando ad un
punto in cui agisce in un flusso quasi incosciente = massimo rendimento con minimo sforzo”. Il
riflesso condizionato concepito da Pavlov è la risposta che un individuo da ad uno stimolo. In
psicologia si era affermato che il comportamento osservabile andava studiato.
Il regista elabora un metodo che si rifà alle azioni fisiche: come faccio a far correre un attore come
se stesse scappando da un cane? Creo la reminiscenza della paura e la porto in scena. Mejerchol’d,
invece, parte dalla corsa e non dal ricordo, crea paura seguendo un nuovo metodo: quello della
biomeccanica. Sistema tramandato da maestro a discepolo, processo totalizzante per gli attori.
Trasmissione corpo a corpo della storia orale.
Allenamento globale in funzione della rappresentazione, formule ampie della recitazione. Non è un
sistema di recitazione ma è un sistema di allenamento globale dell’attore in funzione della
recitazione. La centralità totale è quella del movimento del corpo. 44 sono i principi pedagogici che
determinano perimetro della biomeccanica. Puoi diventare attore solo se ti eserciti quotidianamente
e sai reagire ad ogni esigenza scenica. In poche parole, si crea una serie di movimenti che gli attori
devono ripetere recitando, concentrandosi sui movimenti riescono a rendere ottimale l’atto
recitativo. Il performer deve innanzitutto conoscere il linguaggio del proprio corpo. Parte dalle
tradizioni artistiche antiche e le mescola, ad esempio il teatro Kabuki insieme al teatro tradizionale
cinese, dalla Commedia dell’Arte al balletto classico, dal circo al teatro barocco spag.
Lavoro dell’attore diviso in tre fasi:
1. Intenzione: la percezione intellettuale del compito ricevuto.
2. Esecuzione fisica: la realizzazione plastica dell’idea dell’attore.
3. Reazione psichica: l’emersione della vita emozionale dell’attore.
L’attore deve saper organizzare il proprio materiale.
Preservare una certa economia di movimenti evitando una gestualità superflua (taylorismo),
controllare le proprie emozioni e ogni movimento del corpo, creare una particolare camminata
che grazie alla costante ripetizione diventa danza, mantenere questi movimenti della memoria
corporea, costruire lo spazio soggettivo delle azioni e mantenere la concentrazione lungo l’arco
di tutta l’azione.
Solo padroneggiando la partitura fisica in ogni suo elemento l’attore può liberare la sua
immaginazione e creare l’”obraz” = l’atmosfera poetica, livello psico-spirituale che lo fa entrare nel
processo creativo della composizione. Ogni azione ha tre fasi: la posizione di fermo, la preparazione
e l’azione.
La biomeccanica mette in primo piano la comprensione dell’attività psicofisiologica dell’attore. Il
pensiero dell’attore viene realizzato plasticamente, prima viene il movimento, anche se
impercettibile e solo successivamente le parole.
La recitazione è artificiale e convenzionale, più legata al tipo di teatro orientale che al realismo
del teatro occidentale. Il teatro non doveva riprodurre la realtà ma crearne un’altra. La musica è
usata anche durante l’allenamento degli attori, dava il ritmo dell’esercizio, struttura gli spettacoli
come uno spartito musicale, a ogni scena corrispondeva un ritmo, ogni attore è una melodia e lo
spettacolo è la sinfonia che intreccia tante melodie. La parola arriva solo dopo aver assimilato la
partitura. Non c’è una sincronia tra partitura fisica e vocale, la recitazione è l’unione di due piani
diversi (fisico e vocale) composti in vari modi per una maggiore espressività e potenzialità artistica.
Il pubblico è una funzione attiva, il teatro è visto come un’esperienza rituale comunitaria. Il
sistema è tramandato da maestro a discepolo.
“Le Cocu magnifique” (1922): testo che rende la visione di Mejer da parte del regista
Crommelynck. Prende una scenografia costruttivista di un modellino, principi politici ed ideologici
della funzionalità e dinamismo. Idea di non cedere alla seduzione del teatro borghese ma la
creazione di una scena in cui i creatori della nuova Russia assorbono l’idea dell’efficienza del corpo
e della resa fisica. Banale storia di gelosia, un giovane uomo non riesce a placare le sue ansie sui
sospetti tradimenti della moglie. La gelosia si capisce dal corpo prima che dalle sue parole.
Emozione va resa cineticamente, il mondo stabile ed inanimato che si muove solo con le
“emozioni” degli spettatori. Primo esperimento di teatro costruttivista. L’idea di base: come la
biomeccanica evidenzia lo scheletro del corpo umano così l’impianto scenico esibisce la propria
struttura. La scenografia è composta da una serie di piattaforme poste ad altezze diverse
comunicanti tramite rampe, scivoli, scale e tutte queste sono strutture praticabili. Il costume è
semplice e non appariscente, deve emergere il collettivo degli attori, infatti sono vestiti con la tuta
da lavoro. La macchina scenografica aziona ed è azionata dai movimenti corporei.
Appia aveva messo l’attore nella posizione di dover muovere di più il corpo in scena, per i
costruttivisti è ancora più difficile perché devo riuscire a muovere me ed una macchina, devo saper
modulare la forza. L’esercizio deve essere perfetto, corpo con e contro macchina si deve innestare
la consapevolezza psicofisica dell’attore che deve modulare.
Teoria dello shock: pieno di stimoli improvvisi che tengono lo spettatore sempre all’erta grazie a
repentini colpi di scena. Si rappresentano gli stereotipi. Quella che si produce è empatia psicofisica
con l’attore in scena. I miei neuroni a specchio si attivano preparandomi a svolgere la stessa azione,
a provare gli stessi sentimenti.

ADOLPHE APPIA (1862-1928)

Lavora molto in solitudine e si appassiona al teatro di Wagner ma è deluso dalla sua messa in scena,
per lui ha avuto delle grandi intuizioni però non gli piace l’idea della sua messa in scena. Nota
quanto Wagner sia d’avanguardia nella musica ma è imprigionato da quell’estetica teatrale che
remava contro quell’innovazione. Il principio regolatore della messinscena è la musica. L’attore è la
componente principale dell’evento teatrale attraverso il movimento corporeo dell’attore.
Modello del Festspiele e incontro con EMILE-JACQUES DALCROZE: ha cominciato ad
innovare la didattica musicale. Toglie gli strumenti musicali ai suoi studenti e fa fare esercizi con il
corpo per il ritmo: ginnastica ritmica (che non è quella di oggi). Capisce che manca il passaggio tra
l’incamerazione del concetto e la sua resa fisica, stabilisce una serie di esercizi che faceva fare agli
studenti prima di prendere in mano lo strumento. Appia disegna degli spazi ritmici: degli spazi
neutri che non hanno l’idea della scenografia come resa prospettica di qualcosa, ma sono elementi
componibili, soprattutto delle scale che articolano lo spazio che è dinamico, diagonalità e verticalità
sono importanti tanto quando l’orizzontalità. Appia inizia a disegnare delle prime tutine aderenti
lineari che diventano i costumi di scena, fanno esaltare le dinamiche dello spazio e del corpo
umano.
Festspielhaus Hellerau (Dresda), architetto Heinrich Tessenow, spazio scenico Adolphe Appia.
C’è lo yin e lo yang perché in questo periodo c’è la volontà di guardare le altre culture. Quello che
comincia a penetrare sono delle esperienze o espressioni di alcune culture, soprattutto elementi di
una ricerca spirituale perché si sente che in occidente l’umanità ha perso la relazione con il sacro e
il rito. È un luogo capace di catalizzare energie di discipline diverse: dalla danza all’architettura,
dalla storia all’arte contemporanea, riuscendo nell’intento di riunire insieme nomi importanti in
molti di questi campi. Hellerau era nata nel primo Novecento per ospitare una comunità omogenea,
pensata per accogliere le istanze di vita improntata all’armonia e alla ricerca dell’equilibrio e
dell’espressione di una energia rinnovata che attrasse molti, danzatori, artisti e visionari del tempo.
La Festspielhaus era stata pensata seguendo le visioni dello scenografo Adolphe Appia e
dell’educatore di musica Emile Jaques-Dalcroze in una struttura spaziale con una forte tendenza al
moderno per la sua chiarezza e la struttura funzionale. Questo edificio era un antidoto visionario a
tutti i teatri di tradizione ed era stato ideato da Appia con una buca retrattile per l’orchestra, con
elementi scenici installabili e senza impianti permanenti.

Scena per Orfeo e Euridice a Hellerau à Scenografie dinamiche, prospettiva che cambia e che
permette all’attore di muoversi in modi completamente inconsueti, spazio dinamico, complesso.
Interno della sala del video a Hellerau (cerca video e foto). Questione della luce: la sala è tappezzata
di lampadine modulabili, situate in modo da illuminare il soffitto. I critici affermano di aver visto
una sala illuminante e non illuminata. Il performer si trova a dover agire molto di più lungo la scala
e la resa estetica della luce cambia.

EDWARD GORDON CRAIG (1872-1966)

Altro grande protagonista della svolta 900esca è EDWARD GORDON CRAIG


Scritti: On the Art of the Theatre (1911), Towards a New Theatre (1913), Puppets and Poets ecc.
È influenzato da Appia, teatro come arte autonoma e importanza della figura del regista. Rifiuta la
Gesamtkunstwerk (visione unitaria allo spettacolo di Wagner) e considera gli attori inadatti a
diventare strumento dell’arte del teatro. Propone la super-marionetta: strumento nelle mani del
regista, interprete/attore purificato dall’egocentrismo umano, artista perfetto che crea un nuovo
linguaggio. Non imita e non interpreta. Uso della maschera per consentire all’attore di concentrarsi
sul corpo. È contrario all’uso di scenografie dipinte e di decorazioni superflue, l’azione è nella
stessa struttura architettonica, uso simbolico di colori e costumi.
Figlio d’arte, immerso nel mondo del teatro, uomo di cultura. Regista pedagogo, che insegna un
nuovo modo di recitare in prima persona, guidando gli attori dal vecchio modello di recitazione a
quello nuovo, del ‘900. Sono registi teorici che indagano sulle novità del mondo del teatro. Egli non
si fida dei suoi attori, che possono essere in balia delle loro emozioni, la miglior garanzia non è
quindi l’attore ma la super marionetta: essere che io posso plasmare, comandare e gestire in
autonomia, usa maschere inizialmente per far sentire l’attore distaccato dalla sua personalità che lo
può influenzare.

Invitato da Stanislavskij a rappresentare Amleto nel 1908 presso il Teatro d’Arte di Mosca. Lunga
fase di sperimentazione in cui rivela la bellezza del testo di Shakespeare, in scena usa scale e
gradini e usa le luci per modulare la scena. Crea scene scure e colorate per comunicare le psicologie
senza dover fare affidamento completo sulla figura dell’attore. Lui crede che la finzione del teatro
vada sottolineata mentre Stanislavskij cerca di convincerti che sei nella realtà. I pannelli mobili
dovevano essere una continuazione tra il palcoscenico e la platea, luce a raggi e a macchie, usa luci
colorate che sottolineano le differenze tra Amleto e il resto dei personaggi. Spazio e tempo definiti
da pannelli e da luci. La recitazione è priva di tensione e afflato emotivo per rendere il pubblico
consapevole di trovarsi a teatro, libero di giudicare e gustare ciò che vedeva.
Lui vorrebbe che gli attori si comportassero come marionette in modo da avere sempre la stessa
performance senza lasciarsi influenzare dai loro umori. Il rapporto tra Craig e Stanislavskij è stato
molto teso e quando viene messa in scena, questa sfasatura delle due estetiche viene fuori. C’è stata
una grossa discussione anche sui materiali da usare, Craig li avrebbe voluti di ferro o legno,
soprattutto pesanti, in realtà sono stati raffigurati con tele dipinte. Il pubblico reagì in maniera
positiva e quello che passò fu questa innovazione di scena semplice ma allo stesso tempo suntuosa.
Grazie alle luci il tutto diventa organico, parola chiave di questo periodo.
Per Craig, quello che cambia rispetto a Stanislavskij, ha portato la dimensione psicologica nella
dimensione architettonica, la gestualità degli attori non doveva essere realistica ma quasi modulata
sulla base di una partitura ritmica.
Craig e Stanislavskij rappresentano uno snodo ferroviario nel teatro del ‘900: molti sono i modi di
perlustrare questa situazione. Per Stanislavskij il mondo interiore del personaggio emerge attraverso
la sua resa realistica da parte dell’attore che vive la parte; per Craig il paesaggio psicologico va
visualizzato dalla scrittura scenica, dalla modulazione architettonica dello spazio alle luci, dalla
gestualità degli attori, dal cromatismo e dagli elementi vocalico-musicali.

ANTONIN ARTAUD (1896-1948)

Contro esempio: Francia, Antonin Artaud (1896-1948). Lavora come attore in cinema e teatro,
viaggia per tutto il mondo e comincia a fare ricerche e studi del mondo. Scopre soluzioni, forme di
ritualità che vede e pratica presso le popolazioni autoctone del Messico. Spiritualità e religiosità
radicata nel tessuto sociale si esprime nel teatro. La sua generazione ha avuto la possibilità di
conoscere nuove culture e unirle in una grande esposizione.
Uomo molto provato psicologicamente, consuma oppiacei, recitare è la sua terapia perché capisce
che provocare uno stimolo ricerca psicologicamente la sua identità e si immerge nella sua
dimensione. Ha scritto un testo bibbia intitolato “Le théatre et son double” nel 1938. Le sue idee
sono nutrite da Freud, l’interpretazione dei sogni era appena uscito. I nostri sogni danno forma ai
nostri desideri/paure repressi, l’attività onirica permette al subconscio di esprimersi.
André Breton: esponente del surrealismo. Liberare l’immaginazione attraverso il lavoro
dell’inconscio attraverso un lavoro. Non si rispettano le convenzioni comportamentali ed estetiche,
ideologie di comunismo ed anarchia. Il sogno diventa la fonte di esposizione, l’attore deve
immergersi in questa dimensione per riuscire ad esprimersi. Spesso assumono droghe per riuscire,
cambia il modo di rappresentazione.
Artaud propone il teatro della crudeltà che non è legato alle emozioni, non è intesa crudeltà
omicida e bruta ma intesa come un teatro che potenzia la sensorialità lontana da convenzioni,
società e perbenismo. Contagio come parola chiave che attraverso processi psicofisici riesce a
toccare lo spettatore nelle viscere profonde senza dover passare per la comprensione. Ha fatto poche
regie di poco successo: concepisce l’evento scenico fuori dal presente storico, in un tempo eterno
che andava a ritroso. Lo scopo di questo teatro era quello di causare delle situazioni di disagio
interiore.
Propone una nuova direzione: contagia e coinvolge lo spettatore mettendo in circolo forze vitali.
Lavora al Théatre Alfred Jarry. Affascinato dal teatro e dalla danza Balinese (danza Legong. Quello
che lo affascina è la fisicità ritualizzata e armonizzata), pone nelle sue rappresentazioni degli
elementi di altre culture. La cultura non si può immagazzinare ma ha una dimensione vivente e per
questo va appresa. Il teatro è il luogo della cultura in azione. Catarsi, idea di far scorrere, ci si libera
collettivamente delle emozioni che la rappresentazione mi provoca. Nuovo assetto
dell’individualità. Nuovo sentimento fisico. Doveva provocare disagio nello spettatore, toccando
delle corde emotive e viscerali, la parola aveva ruolo poco importante. Linguaggio anti-psicologico,
che coinvolge tutti i sensi. Le sue rappresentazioni sono senza successo ma l’idea si diffonde con
capillarità. Il teatro come la peste cerca.
Five Truths (2011). Dipartimento di Theatre and Performance di Victoria & Albert Museum
(Londra). Regia: Katie Mitchell; interprete: Michelle Terry; video design: Leo Warner. Multiscreen
video installation.
JERZY MARIAN GROTOWSKI (1933-1999)

È figlio di un antinazista e nasce in Polonia. Questa figura del padre e l’eredità del nazismo sono
stati fondanti nel modo in cui lui ha pensato il suo lavoro e il suo teatro. Sua madre era cattolica ma
molto incuriosita dalla religiosità orientale. Grazie a lei si avvicina allo yoga. Quello che lui capisce
subito è che il corpo è centrale e lo studio sul corpo è l’unica direzione lungo la quale incamminarsi.
Siamo nel secondo dopoguerra con un teatro che deve trovare un altro modo di essere significativo.
Organizza subito un corso sulle azioni fisiche ma ha anche la sensibilità sul sacro e il rito. Lavora
nel “Teatro laboratorio delle 13 file”.
Il linguaggio che usa è intriso di fonti molto diverse, bagaglio di storia delle religioni, di
antropologia (antropologia del teatro: modo in cui il teatro può cambiare la società, guardando alle
origini del teatro, fino dai rituali), tutta la generazione cerca di ridare una nuova forma al teatro,
conferimento di una nuova dimensione etica ed estetica, bisogno di ridare un significato profondo
alla ricerca teatrale. Molte di queste fonti si rifanno anche alle sue proprie perlustrazioni di
situazioni e contesti in cui ha visto in prima persona le performance dei riti. Si è interessato alle
storie delle religioni.
Era in Polonia durante il nazismo, era un bambino, ha causato un senso di colpa e responsabilità
anche se non era implicato in prima persona, sente il peso di una società e di una cultura che si era
resa corresponsabile dei campi di concentramento. Ha un rapporto complesso con la Polonia che è
sotto il regime sovietico che era laico, praticare una religione non era ben vista. Va in esilio anche.
Lui si professa ateo anche se la sua ricerca teatrale è intrisa nella ricerca spirituale. Non è stato un
autore e regista, ma riscrive testi di altri. Fa un lavoro di potatura del testo, cancella scene,
trasforma dialoghi in monologhi, fa la figura del regista. Non è un attore in prima persona, pone al
centro la ricerca spirituale attraverso la ricerca dell’attore, è un regista che pone un modello che sarà
quello di riferimento per molte generazioni: c’è un gruppo di persone, artisti che collaborano per un
progetto specifico, per uno spettacolo o anche solamente per fare degli esercizi. Qualcuno diventa
un suo diretto discepolo, Grotowski era come una guida per loro. Questa dimensione della
comunità, questo clima della comunità lo porta in scena. Spesso gestisce il pubblico diversamente
negli spazi, lo rende partecipe in alcuni casi. Il modo di gestire lo spazio scenico cambia
completamente la gestione delle relazioni tra le persone nello spazio. Vuole creare un’idea di
comunità misterica, cambia l’idea di compagnia.

Molta della sua lezione è orale e pratiche degli esercizi. Da un lato parla di struttura e dall’altro di
improvvisazione, i suoi spettacoli hanno una struttura rigida, non c’è spazio per l’improvvisazione,
sono frutto di un lungo lavoro, più la struttura è rigida e più emerge il concetto di verità. Il suo
metodo lo chiamava “la via negativa”: cioè per sottrazione, eliminare progressivamente le
resistenze fisiche degli attori, elimina i cliché, lavora sulle azioni fisiche, sul corpo. Il teatro è un
dispositivo fondante che deve interrogare la società, sfidarla. L’essenza del teatro per lui è l’attore.
Eugenio Barba ha studiato con Grotowski e condivide l’idea di fare un teatro con una forte
connotazione antropologica, racconta degli esercizi, con ciascun attore doveva trovare il sé di
ciascuno, è un’esperienza spirituale per superare i limiti della soggettività e arrivare a far parte della
dimensione collettiva, stesse fonti alle quali si rifà Grotowski. Esso lavora in una dimensione non
sociale, ma di vita interiore. Vuole avere un attore che sappia gestire il corpo che rappresenta e il
corpo che conosce sé stesso. Non voleva insegnare niente, voleva eliminare e pulire; l’allenamento
fisico e vocale era rigoroso, l’attore doveva padroneggiare il corpo; voleva liberare l’energia
spirituale. Mescolando tutte le fonti delle pratiche ad esempio degli sciamani, dello yoga e di
pratiche lontane si entrava in una dimensione di ricerca spirituale. Faceva riscaldamento, lavorava
molto sulla colonna vertebrale, molti erano esercizi presi dallo yoga, esercizi sugli arti e di sequenze
motorie. Sufismo.
Comincia a produrre una serie di spettacoli, uno di questi è Akropolis, basato sul testo di un autore
polacco Stanislaw Wyspianski (1903) con la regia di Grotowski, il tema è quello del sacrificio ma
anche della risurrezione. Racconta di un gruppo di prigionieri che costruiscono il loro forno
crematorio, i personaggi sono come spossessati da sé, dalle loro qualità umane, ma lo spettacolo è
costruito realisticamente e tutto è strutturato nei singoli dettagli. Riuscire a risorgere quando quel
concetto, quello dei campi di concentramento, è stato digerito e superato. Arrivare a qualcosa che
liberasse da quell’orrore, il forno crematorio alla fine diventa un corteo. Tutto è formale e anche
non formale. Questo spettacolo è considerato una pietra miliare del teatro.
Peter Brook ha ereditato Grotowski con un pensiero controverso.

Il principe costante (1965) regia di Grotowski con Ryszard Cieslak dal testo di Pedro Calderòn de
La Barca (1629), è diventato lo spettacolo di riferimento. La transluminazione del corpo è un
processo di immedesimazione e possessione. Segna un passaggio radicale della sua ricerca, porta
con sé profonde innovazioni che anticipano le sperimentazioni finali del regista ed è l’opera di
manifesto del suo teatro povero. Prende dal testo il tema del sacrificio. Da un lato c’è un testo con
un prigioniero che rifiuta di arrendersi alle torture pensando a una forma di redenzione e testimonia
la possibilità di uscire da questa situazione attraverso la liberazione spirituale, dall’altro si parte dal
ricordo di un amore adolescenziale, quindi tutt’altra cosa.
È uno spettacolo teatrale ispirato all’opera letteraria di Caldéron de la Barca e tradotta dal poeta del
romanticismo polacco Juliusz Slowacki. Dal punto di vista storiografico la ricostruzione dello
spettacolo è stata resa possibile da due documenti:
1. Il lavoro di ricostruzione dello spettacolo di Serge Ouaknine, regista e teorico del teatro che
ha lavorato per due anni al Teatro Laboratorio di Grotowski (1965-67) e autore del primo
studio completo su questo spettacolo pubblicato nel 1917 e che ha annotato dettagliatamente
tutti i movimenti e la recitazione degli attori
2. La videoregistrazione realizzata da Ferruccio Mariotti, storico del teatro al Centro Teatro
Ateneo dell’Università La Sapienza di Roma.
Calderòn de La Barca è uno dei massimi drammaturghi spagnoli del Siglo de oro, epoca in cui
erano stati cacciati da poco i Mori dalla Spagna.
Il Principe Costante (1629) di Calderòn de la Barca trae ispirazione dalla vicenda storica della
sventurata spedizione africana di Don Ferdinando, figlio del re del Portogallo, che mandato a
liberare la città di Ceuta dall’assedio dei Mori, viene catturato e fatto prigioniero dai Mori della città
di Ceuta.
Lo scambio tra la liberazione di Fernando e la città di Ceuta non avviene (dato che non conviene
cedere una città in cambio di un solo uomo, sebbene di sangue reale) e sul piano personale
Fernando si oppone eroicamente alla ragion di stato e sarà ridotto a morire fra stenti e atroci
tormenti, trasformando questa sua vicenda in un vero e proprio martirio. Calderòn racconta dunque
della volontà dello stesso Ferninando di sacrificarsi opponendo una “resistenza spirituale”
autonominandosi Principe Costante. La condizione di prigioniero si trasforma in quella di mistico.
In parallelo c’è una vicenda amorosa, tra la figlia di un re dei Mori Fenice che è innamorata e
contraccambiata da Muley che uno dei più valorosi soldati del re. Muley viene catturato da Don
Fernando, poi lo libera e Fernando viene catturato dai Mori. A questo punto Muley si trova
combattuto tra l’essere fedele alla protezione del suo re, per il quale sta combattendo contro gli
spagnoli, oppure se essere grato del fatto di essere stato liberato per il suo amore. Queste due storie
vivono in parallelo e delle volte vengono intrecciate.
L’opera si conclude con lo scambio delle spoglie del Principe con Fenice e il coronamento del
sogno di amore tra lei e Muley, ma senza che avvenga una conquista definitiva di un esercito su un
altro, di una fede sull’altra.
Grotowski sgretola l’impianto ma tiene i concetti chiave di sacrificio e dell’amore trionfante. È un
teatro povero, c’è un unico oggetto scenico e un impianto di illuminotecnica essenziale.
Una sua parte di teatro la chiama teatro delle fonti. Iconografie di ispirazione: Lezione di anatomia
del dottor Tulp di Rembrandt e La Pietà di Cosmè Tura, una delle tante pietà prodotte nei secoli ma
che è una molto vicina a un momento in cui c’è in scena una citazione iconografica della postura
della pietà.
Nella scrittura scenica si possono distinguere 3 momenti principali che corrispondono ai 3
monologhi del Principe, sono le tappe del suo percorso individuale e spirituale.
Quello che vedremo è uno dei 3 monologhi dello spettacolo, è un pezzo di straordinario virtuosismo
attoriale. È la scena di una cerimonia di castrazione, suscita in noi empatia. Si basa sul lavoro di
Grotowski sulla profonda emozione di uno stato psico-fisico legato a un primo innamoramento,
rappresentare una sorta di struggimento ma che è in realtà un’ascesa dal corporeo allo spirituale che
ha innescato una rielaborazione che ha a che fare con la sensualità, questo stato d’animo che hai nel
momento dell’innamoramento. Grotowski prende Calderòn in una traduzione polacca per
sottolineare i concetti chiave di sacrificio e di patria nella logica del potere.
Grotowski astrae la vicenda dal contesto storico anche se usa gli stessi personaggi, dicono in parte
anche le stesse battute, ma non ne fa un problema di storia spagnola, ne fa una questione più
personale. Il re dei Mori non accetta il diverso e cerca di omologare, paura del diverso
(collegamento con la Polonia e l’antisemitismo). C’è una scena iniziale in cui uno spagnolo viene
catturato e viene castrato, ma la castrazione non è lo scopo finale. Lo scopo è quello di vestirlo e
trasformato in uno di loro. Idea che il potere si basa sull’assimilazione dell’identità collettiva. Nel
primo caso la castrazione non funziona e l’episodio si ripete quando viene catturato Don Fernando
che ferma il processo perché si arrende e si sacrifica, gesto di sacrificio che ha sicuramente come
modello Cristo in resa nel nome dell’amore.
La struttura scenografica è costruita attorno alla necessità della separazione tra pubblico e attori:
una stanza circondata da una balaustra oltre la quale gli spettatori (dall’alto) osservano, quasi
spiando, lo spettacolo. In questo spazio vuoto c’è soltanto un tavolo posizionato circa a tre quarti
del lato lungo secondo un rapporto spaziale che rimanda a quello della sezione aurea, dando anche
alla sola disposizione volumetrica dell’ambiente una certa valenza simbolica. Gli attori agiscono
come se fossero da soli, in uno spazio che ricorda un teatro anatomico e in particolare quello di un
celebre quadro di Rembrandt. La scena diventa metafora del laboratorio dove si celebra la
vivisezione dell’anima.

Grotowski poi decide di non fare più spettacoli, decide di fare una ricerca del para-teatro, comincia
a interessarsi ancora di più alle pratiche rituali e le sperimenta con un gruppo di persone che sono
sia attori che spettatori. Fa una mescolanza di riti per produrre gli stati psicofisici. Negli anni ‘80 è
in esilio dalla Polonia e va in California. Gli interessa ricercare i gradi di verità attraverso l’attore,
ma non fare teatro. Invita a questo programma molti performer, sciamani, e impasta un po’ tutto in
questa sua ricerca per l’attore. Arte come veicolo: lavoro sulle strutture performative e lavoro che
l’artista fa su sé stesso, non arte come presentazione (cosa che avviene a teatro). Il rapporto tra
attore e spettatore non deve avvenire a teatro ma in una situazione di rivelazione. Tutto ciò è legato
agli studi degli antropologi. Grotowski lascia l’idea che il teatro ha a che fare con l’idea comune,
idea che il teatro si possa fare con poco, e l’idea che il teatro sia l’esito di una interculturalità.
BERTOLD BRECHT (1898-1956)

È un giovane studente di medicina in Germania che non conclude come formazione perché è
appassionato di letteratura e teatro, da molto giovane scrive per il teatro. Lavora in età adulta in una
Germania travagliata, anni in cui si forma la repubblica di Weimar, nel 1933 arriva Hitler con il
nazismo. Brecht si rifà al pensiero di Marx, idea di comunismo. Al centro della costruzione
drammatica sta la parola, il pensiero politico e la stilizzazione del gesto (Gestus).
Fa il drammaturgo all’inizio al Deutsches Theater (Berlino), il drammaturgo prende i testi di
riferimento, li sceglie e lavora con il regista per adattare il testo alla rielaborazione scenica. Scrive
testi suoi in cui elabora una teoria del teatro ma anche dei veri testi teatrali. Con il nazismo va in
esilio nel nord Europa e America e si dedica all’elaborazione teorica e alla scrittura di testi. Nel
1949 torna in Germania a Berlino est, crede in uno stato che realizzi la sua idea di comunismo.
Rifiuta l’idea teatrale aristotelica, lo scopo della rappresentazione teatrale non sono la catarsi e
l’immedesimazione nelle emozioni del personaggio. Lui dice che non si ha più il desiderio di avere
un punto di vista critico e di coltivarlo, esercitarlo. Propone il teatro con una funzione conoscitiva,
pedagogica, il teatro deve trasformare la società, compito di rendere consapevole la società delle
forme della convivenza umana che si è data. Drammaturgia e allestimento sono concepiti come un
laboratorio nella dimensione spazio-temporale della narrazione teatrale. Scrive libri-modello,
ispirato dalla messinscena originaria. La regia diventa una vera e propria opera indipendente.

DRAMMA BORGHESE VS DRAMMA EPICO


Secondo Brecht, il dramma borghese coinvolge lo spettatore, suscita in lui la cosiddetta “illusione
scenica”: vuole provocare nello spettatore sentimenti ed emozioni, spinge lo spettatore a
identificarsi con i personaggi e a partecipare alle loro vicende.
Il dramma epico, invece, non produce illusioni nello spettatore, gli fa capire di essere di fronte a
una finzione, provoca nello spettatore riflessioni, idee e pensieri, spinge lo spettatore a giudicare i
personaggi e le vicende ma non a immedesimarsi.
Il teatro epico/anti-aristotelico è capace di far riflettere criticamente e politicamente sulle forme
della convivenza umana. (guardo foto delle differenze tra la forma drammatica e la forma epica del
teatro). Attraverso forme di drammaturgie di straniamento e distanziazione si appella alla ragione
dello spettatore. Brecht propone una funzione conoscitiva: non cosa succede ma come succede.

BRECHT/ARTAUD
Nello stesso periodo storico ma non si conoscono né si frequentano. Entrambi si interrogano
sull’efficacia del teatro nella società moderna e mettono al centro il coinvolgimento dello spettatore
e l’interpretazione dell’opera d’arte (teatro).
Brecht: lo spettatore dovrebbe esser messo in grado “non già di provare emozioni, ma di dover per
così dire dare il proprio voto; non già di identificarsi, ma di prender posizione” per dare inizio “a
una trasformazione che trascende di gran lunga la sfera formale e che incomincia infine a
considerare la funzione vera e propria del teatro, la sua funzione sociale”. (Il teatro moderno è il
teatro epico, 1931).
Straniamento: mi rendo estraneo, non mi immedesimo; consente allo spettatore di valutare la
vicenda in modo emotivamente distaccato, sviluppare un occhio critico capace di giudicare e
prendere posizione. L’attore diventa narratore, non rappresenta qualcuno o qualcosa, narra ed
esibisce la propria condizione di interprete del personaggio. Lavora sui gesti scelti, sottolineati,
evidenziati, parla spesso in terza persona, recita le didascalie (uso dei cartelli in scena), introduce
narrativamente la battuta, uso di cori e musiche con funzione di commento ironico.
Artaud, profetico ed enigmatico à per lui lo spettatore va coinvolto nella sua intera sensibilità
oltre il dualismo tipicamente occidentale corpo-mente attraverso l’attivazione di tutti i sensi.
Brecht, lucido e razionale à per lui la mobilitazione dello spettatore riguarda il livello cognitivo,
la dimensione ermeneutico-interpretativa di una vicenda della sfera razionale e cosciente dell’essere
umano.
Queste due teorie influenzeranno profondamente tutte le pratiche teatrali e registiche europee,
indirizzando verso due distinti modi di fare teatro e regia nel secondo ‘900: teatro come invenzione
drammaturgica o teatro come atto.
Pilastri del teatro del ‘900 Grotowski, Brecht e Artaud

LE TEORIE DI BERTOLD BRECHT E DI ANTONIN ARTAUD

Questa lezione ha un impianto teorico e fa riferimento a un unico spettacolo in video (Madre


coraggio di Brecht, di cui trovate il link nella piattaforma Moodle).

Bertolt Brecht (1898-1956) e Antonin Artaud (1896-1948) hanno proposto teorie sul senso e sulla
funzione storica, sociale o spirituale del teatro antitetiche l’una all’altra. Sono vissuti nello stesso
periodo storico, negli anni a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, ma non si sono mai conosciuti,
e hanno reagito in modi diversi alla tragicità dei tempi storici.
Brecht e Artaud Brecht ha introdotto l’idea di teatro epico, ovvero un teatro che fosse in grado
soprattutto di riflettere criticamente e politicamente sulle forme della convivenza umana attraverso
drammaturgie di straniamento e distanziazione. Artaud, rifiutando il concetto di rappresentazione,
introdusse l’idea del teatro della crudeltà, un teatro capace di attivare la sensorialità, di contagiare
e dunque di coinvolgere lo spettatore nel profondo delle viscere mettendone in circolo quelle che
definiva “le sue forze vitali”.
Se Brecht segnò il primissimo dopoguerra e dunque tutti gli anni Cinquanta del Novecento, a
partire dagli anni Sessanta, il nuovo teatro europeo tentò un'impresa apparentemente impossibile:
attivare entrambe le visioni sognate da Brecht e Artaud, talvolta contemporaneamente.

Brecht pose la parola, il pensiero politico e la stilizzazione del gesto al centro della costruzione
drammatica, laddove Artaud privilegiò il corpo in scena e concepì l’evento scenico nella sua
potenza rituale. Se per Brecht, il registro narrativo è lucido e razionale, per Artaud è profetico ed
enigmatico.

La concezione del teatro di Bertold Brecht


Negli anni Venti, Brecht, che era marxista, era stato un grande protagonista della vita teatrale del
suo paese e scelse la militanza intellettuale e il coinvolgimento politico. Con l’ascesa della dittatura
nazista in Germania fu costretto all’esilio, fra Nord Europa e America. Negli anni di esilio e poi di
guerra lavorò appartato, dedicandosi con grande concentrazione alla scrittura. In questo periodo
scrisse i suoi drammi più importanti, e nel contempo sviluppò in maniera organica il suo pensiero
sul teatro attraverso vari scritti, poi raccolti nel volume Scritti teatrali. Dopo la sconfitta del
nazismo tornò in Germania e si stabilì nella Germania Democratica per prendere la direzione del
Berliner Ensemble a Berlino Est contribuendo sostanzialmente alla ricostruzione culturale del
dopoguerra.

Il Breviario di estetica teatrale, il saggio più importante fra quelli raccolti in Scritti teatrali, si
colloca sulla scia della riflessione estetica illuministica ovvero educare intrattenendo, e rifiutando
l’estetica teatrale aristotelica: in altre parole lo scopo della rappresentazione teatrale non deve più
essere la catarsi e l’immedesimazione nelle emozioni del personaggio, che implicava una ricezione
ipnotica e acritica. Per Brecht la trasformazione della società era il compito della politica, mentre al
teatro spettava un altro compito importante, ovvero rendere consapevole la società delle forme
della convivenza umana e mettere le persone (in questo caso il pubblico) in grado di riconoscerle.
Da marxista, Brecht era profondamente convinto nella possibilità di mutare i rapporti di potere
attraverso la consapevolezza del proprio tempo e della Storia. Questa consapevolezza critica è il
contrario dell’immedesimazione a teatro.
Per Brecht la drammaturgia e l’allestimento andavano concepiti come un laboratorio proprio perché
nella dimensione spazio-temporale condensata della narrazione teatrale, gli spettatori dovevano
poter scrutare al microscopio le “forme della convivenza umana”.
In un passaggio centrale del Breviario, Brecht introduce il concetto chiave del suo teatro: lo
straniamento. Per permettere allo spettatore di valutare la vicenda in modo emotivamente
distaccato, sviluppando cioè un “occhio critico" ovvero NON assuefatto e capace dunque di
giudicare e di prendere posizione, è necessario straniare il racconto attraverso tutti i registri
dell’arte teatrale, dalla drammaturgia alla recitazione dell’attore.

Il termine Verfremdung (verfremden: rendere estraneo) è utilizzato definitivamente da Brecht nel


1935, e l’espressione Verfremdungs Effekt (effetto di straniamento). Al termine Entfremdung, che
aveva utilizzato per indicare l’esercizio critico da mettere in atto nel teatro, Brecht preferì
Verfremdungs Effekt per porre l’accento sull’esito, sull’obiettivo a cui
mirava.
È interessante notare quando una delle teorie della recitazione che più segnarono il Novecento
teatrale in Occidente, fu stimolata dalla conoscenza di Brecht dell’attore nella tradizione cinese, che
«rinuncia alla metamorfosi totale e si limita a “citare” il suo personaggio, così l’attore epico,
rinunciato che abbia alla totale metamorfosi, recita il suo testo non come colui che improvvisa, ma
come chi fa una citazione» (si veda Effetti di straniamento nell’arte scenica cinese, 1937).
Nel teatro epico l’interruzione della rappresentazione che richiederebbe l’immedesimazione
illusionistica si attua grazie all’uso di canzoni, di didascalie, di pannelli che producono
intervalli e al tempo stesso fungono da giunture di scene, ecc.

Il teatro di Brecht fa dunque appello alla ragione dello spettatore e propone una funzione
conoscitiva. Il teatro deve essere uno specchio critico che, attraverso lo “straniamento" della
vicenda raccontata, fa riflettere sulle forme della convivenza umana. Le vicende vi vengono
analizzate attentamente. ciò che interessa non è il ‘COSA’ succede (che nella drammaturgia classica
troviamo nei colpi di scena e negli intrighi della trama), ma il ‘COME’ succede. I principi del
teatro epico, erano già stati definiti dal regista nel 1929, sintetizzandoli in una tabella comparativa
che li oppone alla tradizionale forma drammatica aristotelica (la tabella è parte del saggio Il teatro
moderno è il teatro epico che scrisse nel 1931, e poi raccolto nel volume Scritti teatrali).
Va ricordato che l'influenza delle teorie di Stanislavskij e del suo approccio alla recitazione che
privilegiava l’immedesimazione nell'Urss staliniana ostacolò non poco l'assimilazione del teatro
brechtiano, giudicato troppo intellettuale e formalista.

Il Brecht teorico è strettamente legato al Brecht drammaturgo. Negli anni Venti scrisse i suoi primi
drammi di successo (Die Dreigroschenoper – L’opera da tre soldi, 1928 e Aufstieg und Fall der
Stadt Mahagonny, Ascesa e caduta della città di Mahagonny, 1927-29) nate dal felice
incontro con l'estro musicale di Kurt Weill.
I suoi drammi didattici degli anni Trenta e Quaranta sono tutti scritti in forma epica: si snodano per
episodi lungo un consistente arco di tempo, e con respiro narrativo, prima che
drammatico, hanno per oggetto la guerra (Mutter Courage und ihre Kinder - Madre coraggio,
1939); Der gute Mensch von Sezuan - L'anima buona di Sezuan, 1939-4, e Antigone des
Sophokles - Antigone, 1948), il rapporto fra scienza e potere (Leben des Galilei - Vita di Galileo,
1937-39), la giustizia (Der kaukasische Kreidekreis - Il cerchio di gesso del Caucaso, 1944-45), e
i grandi temi del proprio tempo storico.

Durante il suo esilio americano (1941-1947), Brecht si trova a dover tradurre in inglese il testo del
suo Galileo per la messa in scena programmata nel luglio del 1947 a Beverly Hills. Brecht
conosceva poco l’inglese e l’attore che impersonava Galileo (Charles Laughton) non conosceva il
tedesco: per ovviare a questa difficoltà hanno avviato una modalità di lavoro che portò allo sviluppo
di uno elemento cardine della sua teoria: l’individuazione del gesto funzionale a ciascuna
azione/parola del personaggio divenne funzionale alla resa della recitazione. In altre parole,
l’estraneità di ciascuno alla lingua dell’altro li obbligò a usare la recitazione come mezzo, come
strumento di traduzione. Alla gestualità agita/parlata da Brecht in un inglese approssimativo se non
in tedesco, Laughton ribatteva con un’azione/parola in inglese corretto, fino a che non ottenevano
un risultato soddisfacente.
L’espressione dell’azione e la sua ripetizione erano funzionali all’esito performativo.
termine tedesco che ha origini latine) si basa sull’idea che il
La teoria del Gestus di Brecht (
gesto sia uno strumento tramite cui un atteggiamento o un suo aspetto viene rivelato nella misura in
cui è esprimibile a parole o per azioni. Il gesto rivela le motivazioni e degli scambi e delle relazioni
tra personaggi, i loro tratti distintivi, ma NON la loro dimensione psicologica, e dunque l’attore
deve sviluppare il Gestus del personaggio tramite una esplorazione dei suoi comportamenti fisici.

Madre coraggio
Tornato da un anno in Germania Est, al Deutsches Theater, Brecht nel 1949 mette in scena Madre
coraggio (scritto nel 1938), andato in scena già nel 1941 a Zurigo ma senza successo.
Scritto alla vigilia della Seconda guerra mondiale, questo testo, il cui sottotitolo recita “Una cronaca
della guerra dei Trent’anni” ambienta le vicende nel conflitto che insanguinò l’Europa centrale dal
1618 al 1648 ed è una denuncia delle guerre e degli orrori che esse producono.
Brecht vi rappresenta la mentalità degli oppressi con le sue terribili contraddizioni.
Il testo è suddiviso 12 scene, ciascuna preceduta da un titolo che anticipa/spiega allo spettatore
l’azione e proiettato sul siparietto o scendevano dall’alto sopra le scene.
Ogni scena è introdotta da una didascalia riassuntiva degli avvenimenti, in cui sono indicati il tempo
e il luogo in cui si svolgono. Madre Coraggio e gli altri personaggi recitano e cantano e le canzoni
hanno una duplice funzione: interrompere la recitazione, costringendo chi ascolta a osservare
in modo straniato quanto accade in scena e riflettere, e permettere all’autore di intervenire
direttamente, aggiungendo la propria voce a quella del personaggio.
La protagonista, interpretata dall’attrice Helene Weigel (moglie di Brecht), è Anna Fierling,
soprannominata Madre Coraggio, perché ha sfidato le cannonate di una battaglia per vendere
cinquanta pagnotte che stavano ammuffendo. Il suo nome, “Madre Coraggio”, rende la
contraddizione tra la volontà di affermarsi negli affari (che prevarranno) e il suo essere “madre”,
rendendola cieca di fronte alle tragedie che le si porranno davanti e offuscando il suo istinto
materno. Segue l’avanzata di un reggimento dell’esercito svedese in Polonia su un carro (che è
insieme la sua casa e la sua bottega) trainato dai figli Schweizerkas e Eilif e con la figlia muta
Kattrin. Questa vivandiera coraggiosa e con un'energia vitale inesauribile, gestisce uno spaccio
ambulante e della guerra ha fatto un’occasione di lavoro, sebbene a causa della guerra perda tutti i
suoi figli avuti con uomini diversi e anche il compagno. È una “piccola capitalista” che non si rende
conto che sarà schiacciata dai “grandi capitalisti” da cui dipendono gli affari dei “piccoli capitalisti”
e rappresenta l’idea di Brecht secondo cui i poveri sono ossessionati dai soldi e dai beni materiali,
che considerano l’unica via per sopravvivere e che diventano più importanti della religione e dei
sentimenti. È un dramma insieme antimilitarista e anticapitalista anche se sull’interno politico-
ideologico prevale quello realistico di Brecht.

Nella versione registica del 1949, Brecht introduce la recitazione straniante, con canzoni e titoli per
le varie scene. Lo spettacolo entrò in repertorio del Berliner Ensemble e girò tutto il mondo. I
collaboratori di Brecht misero a punto un “Modelbuch” (un libro modello) dello spettacolo per
facilitarne il riallestimento e in cui erano indicati i movimenti e le posizioni di attori, la suddivisione
dei fatti, la durata delle scene, le pause, ma anche delle considerazioni sul carattere dei personaggi e
sul significato sociale degli eventi. Questo “modello” non per fissava l’esecuzione dello spettacolo,
ma forniva un’ipotesi di lavoro da adattare di volta in volta.

Nell’allestimento del 1949, il palcoscenico vuoto durante il prologo era trasformato di volta in volta
in una località particolare con pochi elementi e con un certo grado di realismo nella resa
dell’ambiente seicentesco. I cambi di scena velocissimi e il carro era onnipresente il carro. La
musica di Paul Dessau, consisteva in dieci canzoni, che costituivano uno stacco rispetto alla vicenda
rappresentata.
La recitazione di Helen Weigel divenne un modello: il suo forte accento della Germania del sud,
sottolineava quanto la convenzione volesse che in scena gli attori parlassero un tedesco uniforme,
ma non certo realistico. Gli oggetti erano pochi e scelti accurati.
NB Brecht non vuole che sia il personaggio a capire, MA che lo facciano gli spettatori e sul piano
registico per ottenere questo risultato = cura maniacale cura dei piccolissimi dettagli: esempio la
mossa fatta ripetutamente da Helene Weigel, interprete della Coraggio (nonché moglie di Brecht) =
ogni volta che Madre Coraggio porta a termine un affare, la Weigel fa sentire ben distintamente al
pubblico il suono del denaro nella borsa di pelle che porta in vita, persino quando consegna il
denaro necessario per il seppellimento della figlia.
Weigel fa capire allo spettatore che il suo personaggio non dimentica il calcolo neppure nel
momento del dolore: in questo modo la guerra non appare un destino immutabile, ma una cosa
concreta, una rete inestricabile di piccole e grandi imprese.

Guardate le scene selezionate nella piattaforma Moodle e tratte dalla versione di Madre
Coraggio con la regia Cristina Pezzoli, la drammaturgia Antonio Tarantino, la traduzione Roberto
Menin, le musiche di Pasquale Scialò, e con Isa Danieli, Alarico Salaroli, Marco Zannoni. Qui i
dialetti si mescolano per enfatizzare quanto le guerre siano vicino a noi.
Isa Danieli, conferisce a Madre Coraggio una dimensione popolana, mai cinica ma dolorosamente
aggrappata a un realistico tirare a campare.
Si veda il link alle riprese dello spettacolo nella piattaforma Moodle.

La concezione del teatro di Antonin Artaud


Per Artaud, che fu attore (sia a teatro sia per il cinema), poeta e scrittore, e che si formò negli anni
del Surrealismo, il rapporto col proprio tempo fu filtrato dalla malattia mentale (soffriva di disturbi
bipolari), che nutrì in profondità la visionarietà della sua scrittura. Ebbe un rapporto molto
contrastato con i surrealisti, che criticarono aspramente il suo Théâtre Alfred Jarry(1927-1930),
aperto in società con Roger Vitrac e Robert Aron e dedicato al drammaturgo inventore dell’Ubu Re
(1896), opera considerata unanimemente l’anticipazione del movimento surrealista e del teatro
dell’assurdo.

Viaggiò molto in Messico e soggiornò tra le popolazioni indigene di cui conobbe le forme rituali, e
peregrinò da clochard in Irlanda, dove venne arrestato e costretto a dieci anni di
internamento manicomiale (1937-1946).
Il suo modo di pensare il teatro, a differenza di quello di Brecht, era avulso dal presente storico.
Laddove per Brecht il teatro deve produrre “immagini efficaci della realtà” e sviluppare un senso
critico per la realtà, per Artaud, la potenzialità del teatro consisteva nel fare accedere il pubblico a
un “ordine tangente alla realtà”, al regno del simbolico, dell'immaginario, della ritualità. I suoi studi
sul teatro furono profondamente influenzati dalla cultura surrealista, ma anche dall’interesse per
l’Antropologia e per le forme di teatro primitive ed extra-occidentali. L’incontro con il teatro
balinese (1931) e il suo lungo viaggio in Messico furono esperienze fondamentali per lo sviluppo
delle sue teorie. In Messicoscrisse Au pays des Tarahumaras (Nel paese dei Tarahumara, 1936),
un testo appartenente al filone del cosiddetto surrealismo etnografico, molto diffuso nella Francia
dei primi decenni del Novecento. Per Artaud la cultura non si può immagazzinare, ma è una
tradizione vivente che informa i nostri rituali e le consuetudini del nostro vivere sociale. La cultura
deve quindi essere necessariamente concepita come un’azione simbolica, “un mezzo raffinato di
esercitare la vita”. Per questa ragione contrappose la ritualità che scandiva la vita collettiva degli
indigeni messicani, con la modalità morta, museale, di concepire la cultura in occidente. Per lui il
teatro più di ogni altra arte era “cultura in azione”: e non doveva stare nel pantheon del museo, ma
costruire di volta in volta un evento capace di coinvolgere dal vivo attori e spettatori in un rito che
poteva trasformarne le vite.

Artaud tentò di mettere in pratica queste teorie mettendo in scena come regista il dramma I Cenci
(1935) di P. B. Shelley, che fu però un insuccesso.
Dopo il fallimento de l’impresa del Théâtre Alfred Jarry, negli anni Trenta Artaud scrisse i suoi
saggi più importanti sul teatro e la sua funzione, elaborando l’idea di un “teatro della crudeltà” che
raccolse nel volume Le Théâtre et son double (Il teatro e il suo doppio, 1938). In questo testo,
Artaud suggerisce quale strada doveva imboccare il teatro: abolire la centralità della parola per
favorire la codificazione simbolica dei gesti e dei corpi, del suono, delle luci. Il suo era un teatro
capace di inventare un linguaggio espressivo anti-psicologico che accerchia gli spettatori
coinvolgendone tutti i sensi.
Le pagine che scrisse per tradurre a livello pratico la sua visione che a teatro non ebbe successo e
soffermandosi sugli aspetti più tecnici della messinscena, prefigurano molte delle sperimentazioni
del nuovo teatro degli anni Sessanta e Settanta del Novecento e quelle teorie che si distanziavano
profondamente dal teatro di rappresentazione degli anni Cinquanta. Artaud teorico divenne un
punto di riferimento per le generazioni che daranno il via al Nuovo Teatro.

Le visioni di Brecht e di Artaud hanno dei punti in comune: entrambe le prospettive teoriche si
interrogano sull'efficacia del teatro nella società moderna ponendo al centro il coinvolgimento dello
spettatore nell'interpretazione dell'opera d’arte.
Per Brecht la mobilitazione dello spettatore doveva restare a livello cognitivo, e sosteneva dunque
la dimensione ermeneutico-interpretativa di una vicenda propria della sfera razionale e cosciente
dell'essere umano.
Per Artaud, invece, lo spettatore deve essere coinvolto tramite la mobilitazione dei suoi sensi.
Queste due teorie influenzeranno profondamente tutte le pratiche teatrali e registiche europee dagli
anni Sessanta in poi indirizzando più di una generazione verso due distinti modi di fare teatro e di
concepire la regia nel secondo Novecento: da un lato il teatro come “invenzione drammaturgica” e
dall’altro il teatro “come atto/azione”.
PERFORMANCE

Dal verbo inglese to perform e prima ancora dal medio francese performance, a sua volta
dall’antico francese performer.
- Verbo tardo latino: PERFORMARE = dare forma definitiva (prefisso rafforzativo PER +
verbo latino FORMARE = dare forma, modellare, formare).
- Uso contemporaneo: adattamento dal verbo inglese to perform nel significato di fornire una
buona prestazione, ottenere risultato soddisfacenti (prestazione + sfumatura valutativa
positiva)
Dunque, 2 significati di performare:
1. Dare forma, modellare
2. Fornire una buona prestazione

Aggettivo performativo à dalla teoria degli atti linguistici di John Austin, performativi sono gli
atti linguistici che realizzano ciò che dicono per il solo fatto di essere pronunciati “ti prometto ti
andarci”, “mi scuso di averti disturbato”, “ti assolvo dai tuoi peccati”, “vi dichiaro marito e
moglie”, ecc.

Arti performative = forme artistiche basate sul compimento di alcune azioni (danza, musica,
teatro, ecc.)

La performance art nasce con questa definizione e questa etichetta negli anni ‘60 e poi ‘70, in
particolare negli Stati Uniti, ma anche in Giappone e altri contesti. La storica che ha rintracciato la
storia della performance è Roselee Goldberg con un testo nel ‘79 che ha fotografato questa nuova
dimensione della ricerca intorno all’azione fisica degli artisti, ma l’ha rintracciata molto lontano.
Afferma che la performance art aveva quasi 70 anni di vita perché l’ha trovata nella pubblicazione
del primo manifesto futurista nel giornale Le Figaro nel 1909 e quello che è interessante è che lo
colloca con una pratica dei futuristi (un esempio è la serata al teatro Verdi di Firenze nel 1913).
Nascono le “serate futuriste”, eventi che si svolgevano a teatro e miravano, con la recitazione di
particolari testi poetici, a suscitare forti emozioni da parte del pubblico. In queste serate diventa
fondamentale la questione dell’agire un testo e dell’agire fuori dalla configurazione di personaggi
specifici, fondamentale era soprattutto disturbare la relazione tradizionale tra scena e pubblico.
Che cosa ci dice tutto questo?
L’artista performativo non recita, non nel senso teatrale tradizionale, ma quello che fa è utilizzare il
proprio corpo come strumento e come fine ultimo. Non crea un vero e proprio personaggio a teatro
ma esiste durante il momento dell’azione (non c’è un prima e un dopo).

Un teorico e artista che ha cambiato di segno molti dei linguaggi è John Cage. È un musicista,
compositore, teorico della musica ma anche mediatore culturale tra oriente e occidente. Si rifà
molto all’eredità del buddhismo zen che diventa molto di moda nell’America degli anni ’50 e ’60,
in particolare l’elemento della casualità. Con Merce Cunningham, padre fondatore della danza post-
moderna, ha pensato il rapporto tra musica e danza in modo totalmente nuovo. Innovativo è il fatto
che hanno pensato a musica e danza non più come una ancella dell’altra, propongono una soluzione
che hanno riassunto nel concetto della convivenza pacifica, sono due elementi distinti e l’unica cosa
che le accomuna è la durata, quindi il tempo. Inoltre, affidavano le decisioni sulla performance al
caso, magari tirando un dado.
John Cage, Merce Cunningham e Robert Rauschenberg si sono conosciuti al Black Mountain
College e nel Theater Piece number 1 (1952), il primo Happening, hanno messo insieme le loro
idee diverse. 45 minuti ambientato nella mensa del college, il pubblico aveva delle zone in cui
doveva essere localizzato, Cage lesse dei brani di una conferenza sul buddhismo zen, Turdor
suonava, c’era la proiezione di un film, Cunningham danzava nei corridoi e dietro al pubblico,
Rauschenberg metteva dei dischi su un vecchio fonografo, ecc. La centralità è data dalla durata e
dal fatto che queste cose accadevano.

Fluxus è un network internazionale di artisti, compositori e designer conosciuti per aver mescolato
negli anni Sessanta diversi media e diverse discipline artistiche lavorando nel campo della
performance, del Neo-Dada, del rumorismo, nelle arti visive, nella pianificazione urbanistica,
nell'architettura, nel design e nella letteratura. George Maciunas è l’artista che stila il primo
manifesto.

18 Happenings in 6 Parts (1959) à di Allan Kaprow alla Ruben Gallery (New York) è considerato
il primo vero Happening. Il termine deriva da “to happen” e significa “ciò che accade” ed è
estremamente influenzato dal dadaismo europeo. Idea che ci sia un progetto di azione e il pubblico
viene coinvolto attivamente, deve fare delle cose, deve muoversi nello spazio (anche solo per
seguire le azioni) o deve eseguire delle azioni in prima persona. L’happening è più legato alla
componente dell’improvvisazione ma a partire da alcuni task, quindi è un’improvvisazione
strutturata. La performance, invece, ha una struttura molto più solida e definita.

Bed-Ins for Peace di Yoko Ono e John Lennon nell’Hilton Hotel a Amsterdam. Bed-In è stata una
forma di protesta non-violenta contro la guerra in Vietnam messa in atto nel 1969. Sapendo che il
loro matrimonio, celebratosi il 20 marzo 1969, sarebbe stato un grande evento mediatico, John e
Yoko decisero di usare indirettamente la pubblicità che avrebbero ricevuto per promuovere la pace
mondiale. Passarono la loro luna di miele nella suite presidenziale (stanza 702) dell'Amsterdam
Hilton Hotel tra il 25 e il 31 marzo, dando libero accesso alla stampa nella loro camera da letto tutti
i giorni dalle nove di mattina alle nove di sera. La stampa si aspettava, data la bizzarria della coppia,
che John e Yoko facessero sesso in pubblico, ma invece si trovarono davanti i due coniugi in
pigiama, eternamente a letto, che parlavano di amore e pace universali con appesi alla parete della
camera cartelli scritti a mano con scritte tipo "Hair Peace" (Pace dei capelli) e "Bed Peace" (Pace a
letto). Dopo sette giorni, la coppia si spostò a Vienna, Austria, dove i due tennero una conferenza
stampa rinchiusi in un sacco.

Un gruppo centrale nella ricerca interdisciplinare è un collettivo di artisti chiamato Judson Dance
Theater (1962-64). È un collettivo di danzatori, coreografi, musicisti, poeti, artisti visivi, attivo
principalmente tra il 1962 e il 1964 a Greenwich Village, New York. Ricordato come l’inizio della
post-modern dance e ormai leggendario, il gruppo ruppe con il balletto e la modern dance,
azzerando le certezze consolidate sulla danza: di colpo, anche la lettura di una poesia, l’andatura
disinvolta di un gentleman che morde una mela o si spoglia di fronte al pubblico venivano, infatti,
presentati sulla scena come “danza”, chiedendo la stessa legittimazione estetica di un qualsiasi
virtuosismo tecnico. A mettere in moto il cambiamento fu un’interrogazione profonda dei suoi
componenti sulla propria identità di persone e di artisti e non solo, come solitamente ricordato, uno
spirito ribelle o uno smisurato ottimismo. Negli incontri settimanali di un laboratorio informale e
nelle creazioni confluirono, infatti, i desideri e le aspirazioni di una generazione insofferente e
determinata. Guardando ai lavori e alle dinamiche sociali del Judson Dance Theater, possiamo
pertanto intravedere, oggi, l’immagine di un'America in cammino tra la consacrazione patinata del
modello capitalistico degli anni Cinquanta e la rivolta dei movimenti politici e culturali degli anni
Sessanta; cogliere il senso di una controcultura che non ha smesso, da allora, di affascinare
intellettuali e artisti, scuotendoli al fondo delle loro convinzioni estetiche.
All’interno di questo gruppo, Yvonne Rainer elabora We Shall Run (1963). Performance in cui 12
performer si sistemano inizialmente lungo una parete di un museo, ascoltano la partitura di Berlioz
(Requiem) e poi cominciano semplicemente a correre (cosa vietata nel museo). Ad un certo punto
qualcuno si stacca e indica una traiettoria diversa. Ci creano delle doppie file che convergono, si
staccano, ecc. è la realizzazione fisica
Leaning Duets (1970) di Trisha Brown a New York. Il museo diventa un polo catalizzatore di
queste attività e c’è l’idea di portare movimenti quotidiani all’interno della danza. c’è anche
bisogno di negoziare il rapporto con il pubblico e Trisha Brown ha sperimentato in una dimensione
urbana, per strada.

Marina Abramović Rhythm 0 (1974). Rhythm 0 è una performance disturbante dell’artista Marina
Abramović, avvenuta nella galleria Studio Morra di Napoli nel 1974 e durata sei ore.
Fa parte della serie di performances intitolata Rhythms (1973-74), volta a indagare le tensioni tra
abbandono e controllo, che comprende Rhythm 10 (1973), Rhythm 5 (1974), Rhythm 2 (1974),
Rhythm 4 (1974), Rhythm 0 (1974).
In una stanza della galleria erano stati posti su di un tavolo vari oggetti come una rosa, del pane, un
profumo, una bottiglia di vino, un bicchiere, delle catene e delle forbici: alcuni potevano essere
strumenti di piacere, altri di dolore e vi era anche una pistola con un proiettile, possibile oggetto di
morte. Insieme agli oggetti erano appoggiate sul tavolo le istruzioni:
• Ci sono 72 oggetti sul tavolo che possono essere usati su di me nel modo in cui desiderate
• Io sono l’oggetto
• Mi assumo completamente la responsabilità di quello che faccio
• Durata: 6 ore (dalle 20:00 alle 2:00)
Abramović dichiarò che il pubblico avrebbe potuto ucciderla, si pose come oggetto nelle mani delle
persone presenti, che potevano decidere come e se interagire con lei. Durante tutta la durata della
performance l’artista stette passivamente immobile, accettando senza opporsi qualsiasi cosa le
venisse fatta.

LIVING THEATER

ANTIGONE ATTRAVERSO LE GENERAZIONI E I LINGUAGGI TEATRALI DAL


LIVING THEATER AI MOTUS

Verso la metà degli anni Sessanta del Novecento, in Occidente le nuove generazioni e in particolare
il movimento studentesco si fecero portavoce dei conflitti sociali e politici mettendo in discussione
anche il sistema delle arti venne messo con una serie di eventi contro-culturali aggregativi: il più
celebre dei quali fu certamente il grande Festival di Woodstock nell’agosto 1969.
Anche il teatro ebbe in quel periodo un'enorme popolarità, grazie agli spettacoli dei teatranti che
desideravano cambiare il mondo attraverso un’arte collettiva, libertaria, anarchica o di
contestazione. Protagonisti indiscussi di questa stagione teatrale rivoluzionaria furono vari collettivi
teatrali. Il Living Theater, una compagnia teatrale anarchica e inizialmente priva di sede e solo dal
1959 al 1964 alloggiata presso un magazzino di New York), fondata nel 1947 da Julian Beck
(ebreo americano, all’epoca aveva 22 anni e proveniva dalle arti figurative e dalla poesia) e Judith
Malina (ebrea americana, all’epoca aveva 21 anni e si era formata come attrice al Dramatic
Workshop del regista tedesco Erwin Piscator), fu tra i capofila di una generazione teatrale che
realizzò qualcosa che sembrava impossibile, ma che nella pratica si rivelò potente e anche
sconvolgente: conciliare Brecht e Artaud, vale a dire avvicinare un teatro di consapevolezza
politica con un teatro di coinvolgimento, che si allontana dal teatro di parola ed è capace di un forte
contagio emotivo.

Fin dal nome, Living Theater, scelto per segnalare la volontà di muoversi al di fuori del teatro
‘morto’ e commerciale di Broadway, il collettivo si mosse lungo le linee radicali di un’estetica
povera e del ritorno a una suggestiva e provocatoria ritualità, e con le sue produzioni segnò un
punto di non ritorno nel modo di concepire e praticare il teatro. Agli inizi degli anni Sessanta, Beck
e Malina si imbattono negli scritti di Antonin Artaud, da poco tradotti in inglese e come amava
ricordare Beck: “lo spettro di Artaud divenne il nostro mentore”.

Il Living farà sue molte delle istanze e forme del teatro di Irwin Piscator ( sia nell’aspetto tecnico-
formale degli spettacoli (con la rottura della scatola scenica e la predilezione per strutture sceniche
di tipo costruttivista) sia nell’aspetto sostanziale di un teatro di intervento, di propaganda, e di
azione socio-politica. L’ideologia anarchica e pacifista di Julian Beck si saldò all’eredità dell'opera
e del pensiero di Artaud grazie alla traduzione in inglese di Il teatro e il suo doppio e attraverso
Artaud, il Living riformulò il rapporto attore- spettatore: a teatro, cioè, non si doveva più fingere la
vita, ma viverla davvero e su questa offerta completa e autentica di se stessi cercare l’adesione dello
spettatore. Dall'incontro con Artaud, unità, sincerità, autenticità divennero le parole d'ordine di
Beck e Malina, che svilupparono una potente visione catartica del teatro della crudeltà. Convinti
che la che funzione fondamentale della scena fosse esorcizzare la violenza reale, puntarono sulla
provocazione sensoriale ed emotiva del pubblico, spingendolo fino al coinvolgimento diretto, fisico.
Molti dei loro spettacoli sono stati presentati fuori dai circuiti ufficiali: nei palasport, negli edifici
dismessi, in piazza e per strada in mezzo alla gente, esercitando un enorme richiamo per tutti quelli
che sognavano una qualche forma di rivoluzione. Si trattava di spettacoli di grandissimo impatto,
energici e fortemente politici, e caratterizzati da un’estetica partecipativa grazie a al
coinvolgimento, spesso anche fisico, degli spettatori.

Tra il 1951-63 il Living Theatre allestì 22 spettacoli testimoniando una iper-produttività tipica di
molte avanguardie teatrali di quel periodo, e motivata dalla necessità di fare molte esperienze,
attraversare molti linguaggi per conquistare una personale cifra espressiva.
Uno degli spettacoli più noti del collettivo, The Connection di Jack Gelber andato in scena nel
1959, narra la storia di un gruppo di drogati in un appartamento che, mentre attendono il loro
spacciatore (in gergoconnection, cioèintermediario) si somministrano delle dosi di stupefacenti e
non sono attori, ma delle persone realmente tossicodipendenti che la compagnia assunse per fare
davanti a un pubblico ciò che abitualmente facevano di nascosto e per intrecciare realtà e finzione
per distruggere la violenza reale mediante la sua rappresentazione teatrale. Il pubblico ne uscì
sconvolto e disorientato, mentre la critica apprezzò lo spettacolo che fu riproposto per tre anni di
seguito e riadattato nel 1962 per la versione cinematografica da Shirley Clarke.
Si veda il Documentario LIVING THEATRE: I LUOGHI DEL TEATRO (Rai) al link
segnalato nella piattaforma Moodle (min. ‘1-‘4)

Ma il primo spettacolo che mise pienamente in atto gli insegnamenti di Artaud fu The Brig (1963)
di Kenneth H. Brown, che aveva vissuto come marine alla base navale giapponese di Okinawa e
raccontò la giornata tipo di un prigioniero militare nella nave con tutte le violenze e le vessazioni
subite, i divieti e prescrizioni assurdi che miravano alla spersonalizzazione dell'individuo. Brig è
l’espressione gergale usata per indicare il ponte dei vascelli inglesi dove si allestivano le prigioni in
navigazione.
Si veda il Documentario LIVING THEATRE: I LUOGHI DEL TEATRO (Rai) al link
segnalato nella piattaforma Moodle (min. ‘4.30-‘8)

Malina intuì che a teatro non bisogna rappresentare The Brig, bensì viverlo in prima persona e senza
finzioni e pertanto chiese ai membri della compagnia di sottoporsi a vere vessazioni. Gli attori si
trasformarono in veri prigionieri e il pubblico era empaticamente vicino alla loro sofferenza. Lo
spettacolo restò in cartellone per nove mesi finché la censura non intervenne e Beck e Malina
furono arrestati e imprigionati. Tornati liberi, decisero di lasciare gli Stati Uniti per intraprendere un
lungo viaggio in Europa dove la compagnia divenne nomade, una «comunità di vita e di lavoro»
che restò tale fino allo scioglimento nel 1970. In quel momento storico per molti attori l’impegno
andò nella direzione della lotta politica.
Dal 1964 fino al 1970 i membri del Living Theatre lasciarono dunque gli Stati Uniti e andarono in
esilio volontario in Europa. Qui crearono alcuni dei loro spettacoli più noti come Mysteries and
smaller pieces (1964) e Paradise Now! (1968). Proponevano e praticavano un teatro come luogo di
trasformazione e necessario a un percorso di liberazione dell’individuo-attore e dell’individuo-
spettatore, oltre le convenzioni sociali. In Europa, il Living Theatre avviò un processo di de-
teatralizzazione teatrale, che culminerà con l'uscita dal teatro.
In Italia, il Living lasciò un segno indelebile su molti teatranti e fu invitato a Roma, alla Biennale di
Venezia e presso gli teatri universitari di Parma, Bari e Perugia provocando reazioni anche molto
diverse da parte della critica.

A Parigi, Il Living realizzò Mysteries and Smaller Pieces (1964). Si tratta del loro primo lavoro
europeo, una creazione collettiva che fu anche un primo tentativo di coinvolgimento dello spettatore
e un primo esempio di free theatre. Beck e Malina insieme agli attori ne fecero tre versioni diverse,
abbreviandolo sempre di più (dalle venti scene della prima versione si arrivò alle nove scene della
terza; ogni scena dura dai cinque ai quindici minuti eccetto l'ultima, molto più lunga) ma anche
cambiandone l'impostazione che si fece via via più pessimista. Lungo un percorso di ascesa
dall’inferno al paradiso, dalla cupidigia all'armonia si va verso la celebrazione di una scena
paradisiaca che celebra l'armonia della comunità in cui gli attori in piedi, si avvicinavano tra loro e
abbracciandosi e formando un cerchio, mentre il finale (Peste) è riporta all’atmosfera infernale
iniziale, con i corpi degli stessi attori che formavano una montagna di cadaveri.

La carica utopica del Living si espresse al massimo grado con il loro spettacolo più controverso,
Paradise Now! (1968) che debuttò al Festival di Avignone, fra rumorose polemiche legate ai fatti
del maggio parigino che avevano visto gli studenti occupare il Théâtre de l'Odéon. Il Living, ad
Avignone già da due mesi, realizzò Paradise Now! in mezzo alla gente, coinvolgendo studenti,
artisti, hippies, anarchici e contestatori. Lo spettacolo, progettato come un'esplosione di felicità e di
ottimismo rivoluzionario, mirava, nelle parole di Beck, ad «avvolgere il pubblico e gli attori in una
tale gioia che l’impossibile sembri possibile». In scena gli attori si spogliavano, coinvolgendo gli
spettatori in un abbraccio d'amore collettivo. Paradise Now! aveva una forma più vicina alla
performance che al teatro, gli attori non interpretavano personaggi, ma si ‘davano’ come comunione
di persone che agiscono insieme, coinvolgendo direttamente gli spettatori, chiamandoli a sé, nel rito
teatrale collettivo. Drammaturgicamente lo spettacolo era concepito come un movimento
ascensionale verso il paradiso, verso uno stato felice di rivoluzione permanente: otto gradini,
come i pioli della scala chassidica congiungevano terra e cielo e su ogni gradino si svolgeva un rito,
una visione e un’azione. Il rito era una breve cerimonia su partitura gestuale agita dai componenti
del gruppo, mentre le visioni, simboliche, erano tutte figurazioni corporee collettive costruite lungo
l’asse della verticalità, sorta di tableau vivant slanciati verso l’alto, vere e proprie piramidi umane.
Infine, tutte le azioni ‘costringevano’ il pubblico alla partecipazione, con contatto fisico fra attori e
spettatori, fino all’ultima azione dove ogni attore si caricava sulle spalle uno spettatore e lo portava
fuori dal teatro, a indicare la necessità di agire fuori dalla scena, dentro alla società.
L’idea che l’esperienza teatrale potesse trasformare direttamente i comportamenti reali trovò in
Paradise Now! un punto limite: quando il Living invitò la gente del pubblico a salire sul palco
protestando contro la direzione del festival e il teatro borghese, lo spettacolo venne vietato per
problemi di ordine pubblico.
Il Living stava dunque sperimentando non un teatro di parola e di rappresentazione, ma un teatro di
gesti e di suoni, di corpi. Non concepivano lo spettacolo come messa in scena un testo drammatico,
bensì come performance che interpella direttamente gli spettatori coinvolgendoli.
Si veda il Documentario LIVING THEATRE: I LUOGHI DEL TEATRO (Rai) al link
segnalato nella piattaforma Moodle (min. ‘10-‘20)
Nel 1968, Il Living fece ritorno negli USA dove trovarono una buona accoglienza del pubblico
mentre la critica li accusò di predicare la rivoluzione senza praticarla. Il collettivo si scioglie. Tra il
1970 e il 1985 Beck e Malina mirarono dunque ad agire nel mondo per ricercare un rapporto più
diretto ed efficace con le persone, attuando azioni di "teatro di guerriglia”. In Brasile, in piena
dittatura militare, realizzarono spettacoli che coinvolgono gli spettatori sin dalla fase ideativa, e
illustrano sempre dei fatti realmente accaduti, spesso narrati dalla popolazione. Furono arrestati e
incarcerati per possesso di droga e infine espulsi dal Brasile. Nel 1985 muore Beck e Malina
affiancata nella direzione dall'attore Hanon Reznikov, già parte del Living dal 1968, con si sposa
nel 1988 (e che muore nel 2008) Malina muore nel 2015.

In seguito la compagnia si ristabilì a New York dove allestì molti spettacoli ma abbandonò
l'attivismo politico e dal 1993 tornò nuovamente nomade. Dal 1999 al 2003 è stata a Roccheta
Ligure (Alessandria) in Italia, poi nuovamente a New York.

Vediamo ora più da vicino lo spettacolo Antigone che il Living Theatre mise in scena nel 1967 a
Krefeld (Germania). Si tratta dello spettacolo più noto e acclamato del Living di cui esistono poche
versioni televisive. Una è conservata presso l’ASAC, l’Archivio della Biennale, di Venezia e
registrata al Teatro del Ridotto di Venezia il 10 ottobre del 1968 ma non è in buine condizioni;
un’altra versione risale al 1980, prodotta da Rai 3, è stata registrata presso il Teatro Petruzzelli di
Bari con la regia di Gigi Spedicato e Enza Caccavo, ed è ora disponibile online. Per questa ragione
il testo è recitato in parte in inglese e in parte in italiano.
Si veda il link segnalato nella piattaforma moodle (il minutaggio che viene segnalato di seguito
fa riferimento a questa versione).

Dai tempi di Sofocle in poi la storia di Antigone, figura mitica di ribellione e rivolta, ha conosciuto
continue riscritture, drammatiche e romanzate. Nel 1947 anche Bertolt Brecht (a sua volta ispiratosi
alla traduzione in versi di Hölderlin) ne fece una sua versione per riflettere sugli orrori del nazismo
che aveva trascinato in guerra la Germania, e aveva fatto di Polinice un disertore e di Antigone una
pacifista.
Vent’anni dopo, il Living Theatre mise in scena la vicenda di Antigone partendo proprio del testo di
Brecht tradotto in inglese da Malina, per reagire a un’altra guerra, quella del Vietnam, evocata
all’inizio dello spettacolo, quando entrano in scena i tebani e nel silenzio esplode il suono dei
bombardamenti aerei. L’attore che interpreta Polinice recita è costantemente in scena e
intensamente la morte e il suo corpo, esposto alla vista degli spettatori e spostato e cullato dal coro e
da Antigone (interpretata per molto tempo da Malina), è il primo segnale di come il Living si pone
contro la tradizione teatrale classica che non consentiva la contemplazione della morte in scena.
Nell'Antigone del Living, al contrario, il corpo morto di Polinice diventa il polo magnetico dello
spettacolo in quanto prova muta degli errori e degli abusi di Creonte (interpretato da Beck), un
tiranno abile ma vanaglorioso che e ha reso il popolo a inerme macchina schiacciata dal potere.
Scatena la rivolta di Antigone e di Emone. Questa tragedia rappresenta un'ingiustizia che avrebbe
potuto essere evitata e che, poiché è stata commessa, esercita un'inevitabile influenza sul presente.
Nella tragedia greca di Sofocle si racconta il drammatico contrasto fra due modi diversi di intendere
la giustizia: da un lato, il re di Tebe Creonte, che ha emanato un editto per proibire la sepoltura di
Polinice perché accusato di essere nemico della patria, e dall’altro la giovane Antigone, figlia di
Edipo e sorella di Polinice, che si ribella allo zio Creonte infrangendo il divieto e appellandosi al
diritto divino, preesistente alle regole imposte dall’autorità pubblica, per potere seppellire Polinice.
Antigone soccombe ma il suo presagio si avvera e con lei finisce anche Creonte la città di Tebe.
Il contrasto irrisolto tra il re di Tebe e Antigone è il punto nodale di molte riletture del mito, e
inclusa quella di Brecht che fa di Antigone una figura che sfida, non le leggi della polis, bensì il
tiranno e il concetto di stesso di oppressione.
Rispetto a Sofocle, Brecht rinuncia alla struttura drammatica per episodi e stasimi, elimina il 'coro' e
lo sostituisce con gli anziani di Tebe, una voce collettiva che entra in dialogo con le altre. La lingua
è volutamente arcaica, come se volesse rimandare a un mondo remoto. La guerra di Tebe contro
Argo non è difensiva ma di conquista; Polinice non combatte contro la città natale ma è un disertore
e per questo viene fucilato e non gli si dà sepoltura e gli anziani sono passivi e tendono ad
assecondare il potere. Antigone si pone in parta e forte polemica contro di loro e Brecht mette in
luce la dipendenza mutua di Creonte e degli anziani, la loro complicità nella guerra. L’Antigone di
Brecht è un invito a riflettere sulle responsabilità di ognuno di noi nel soggiacere alla logica
dell'obbedienza. In altre parole, Antigone viola l’ordine imposto “per dare l’esempio” di schierarsi
con coraggio contro il tiranno: Creonte è il generale, il signore della guerra, e non rappresenta più la
legge della città, dittatore che sottomette il popolo tebano ed emana leggi a suo piacimento. Il
conflitto tra Antigone e Creonte diventa espressione universale della lotta tra individui privati di
libertà (gli oppressi) e individui che, detenendo il potere, privano della libertà gli altri (gli
oppressori). Antigone sminuisce il divieto di Creonte, sostenendo di aver violato la legge poiché è
la legge di un mortale e, quindi, a sua volta violabile da un suo pari; Eteocle e Polinice non sono
rivali, bensì alleati al fianco del dittatore: mentre Eteocle muore per la patria, Polinice scappa,
venendo poi ucciso per la sua codardia dallo stesso Creonte.
Antigone è la vittima per eccellenza del regime totalitario mentre, a differenza delle opere di
Sofocle, il rapporto con Creonte è più sbilanciato a favore della giovane.
L'Antigone di Brecht è la tragedia del "troppo tardi": la protagonista apre gli occhi troppo tardi e
così Ismene, Emone e lo stesso Coro degli anziani, che fino all'ultimo cerca di non vedere la
catastrofe imminente e piega il capo al tiranno. Della rilettura di Brecht, il Living mantiene il tema
del "troppo tardi", ma cambia l'interpretazione dei motivi della guerra, che sono ora etico-politici:
l'acquisizione delle miniere di Argo serve ad aumentare il potere di Tebe. Il cambiamento era
funzionale a ribadire le posizioni anarchiche del Living.
La guerra non è scatenata solo dall'avidità di Creonte, ma è anche frutto della responsabilità
individuale di ogni cittadino. Il pubblico è chiamato a rappresentare Argo, la città nemica di Tebe,
che è invece interpretata dagli attori sul palcoscenico.
In scena, dunque il palcoscenico spoglio rappresenta Tebe (gli attori) mentre il resto dello spazio
rappresenta Argo (gli spettatori). La forza dello spettacolo stava proprio in questa contrapposizione
scena/platea.
Quando gli attori entrano e si siedono davanti al pubblico, lanciano agli spettatori uno sguardo di
sfida e ostilità provocando un notevole imbarazzo tra di loro. Quando il pubblico è pronto per
l'applauso finale, gli attori costringono la platea a provare colpevolezza e i membri del Living
arretrano impauriti dagli spettatori, che sono i loro assassini.
Non ci sono costumi né oggetti scenici: la relazione tra attore e personaggio viene interrotta a favore
di una costante intercambiabilità dei ruoli. Anche gli spettatori hanno un ruolo attivo e invadono
l’area scenica. Antigone è tra noi comuni mortali ovunque serva difendere la libertà individuale, la
pace e la tolleranza.
L’illuminotecnica è ridotta al minimo, con poche variazioni di intensità per sottolineare il fluire da
una scena/azione alla successiva.

Il leitmotiv dello spettacolo è costituito dalle presenze corali (gli anziani e il popolo) che si
scompongono e ricompongono intorno a Creonte, spesso in contrapposizione ad Antigone, isolata
accanto a Polinice. La narrazione è veicolata da una serie di figure collettive che esprimono in
forma coreografica la dinamica dei rapporti di potere per colmare la distanza fra significato
verbale ed espressione fisica. Queste scene corali sono esemplari di questo lavoro sul corpo, che era
sempre prima abbozzato da Beck e poi messo a punto da Malina. I corpi in scena non sono soltanto
frutto di una raffinata costruzione visiva e dinamica, ma anche sonori, e frutto di un lavoro che si
basava su improvvisazioni vocali vicine alle modalità compositive utilizzate nel jazz e nei râga
indiani, in cui l’esecuzione solista è accompagnata dal (o alternata al) canto corale improvvisato
sulle note della micro-scala usata negli assoli.

(min. ‘1-‘20) Il Prologo


L’avvio dello spettacolo è lento con tutti gli attori che entrano in scena e si posizionano. Il suono
angosciante di una sirena mista al pianto di un bambino e a latrati di cani creano un effetto
volutamente indistinto, che trasforma lo spazio in un rifugio anti-aereo o in un luogo di guerra o di
resistenza, e aprono una “finestra acustica sulla guerra”, come la definisce Eva Marinai nel suo libro
dedicato all’analisi di quest’opera teatrale. Julian Beck-Creonte afferra un soldato e inizia a
caricarlo mentre Judith Malina-Antigone e Ismene osservano sbigottite.
Creonte incita due attori a seguirlo, sono Eteocle e Polinice, che fugge però in platea. Eteocle
diventa la vittima delle perquisizioni e vessazioni di Creonte, che agisce con una serie di gesti
sempre più stilizzati. La scena illustra come il potere ci fa credere di essere indipendenti nel modo
di pensare ma ci plasma e ci orienta. Si narra la morte di Eteocle mentre difendeva la patria e il suo
corpo morto sollevato in aria da, mentre Polinice che era fuggito viene catturato e in una scena
simile alla castrazione inflitta a Don Fernando in Il Principe Costante di Jerzy Grotowski (si vedano
i materiali in programma relativi a questo spettacolo), viene reso prigioniero e smembrato. Il suo
corpo è gettato sul proscenio dove resterà tutto resto dello spettacolo.

(min. ’20-‘25) Antigone avanza verso il proscenio e si rivolge al pubblico, raccontando in terza
persona che andò a coprire il corpo del fratello morto; tornata verso il fondo della scena, si
inginocchia con le braccia alzate e raccoglie con le mani la polvere da terra per ingoiarla, in un
gesto di “sepoltura-nutrimento” che si protrae a lungo. È la raffigurazione di un rito insieme di
fertilità, riesumazione e resurrezione. Poi prende a raccontare con gesti descrittivi le ultime ore di
vita di Polinice e l’arrivo di Creonte che lo fa prigioniero e lo riduce in brandelli. Si tratta di un
frammento di metateatro (ovvero una scena teatrale inserita all’interno di uno spettacolo teatrale) ed
è Ismene che interpreta Creonte e Antigone che interpreta Polinice con ripetute scene di castrazione.

(min. ’26-‘31) Terminato il racconto, Antigone si rivolge con un tono ben diverso alla sorelle
Ismene e le chiede se ha saputo di Polinice e la trascina al suo cadavere che le scaglia poi contro
Ismene sotto il peso del corpo del fratello e la accusa di non avere il coraggio di seppellirlo. Tre
attori come avvoltoi si lanciano sul cadavere di Polinice ma Antigone li caccia e ripete il gesto
esemplare di “sepoltura-nutrimento”. Un coro canta varie motivi tra gospel e variazioni raga.

(min. ’32-‘50) Dopo una lunga danza bacchica, in cui tutti i danzatori mi muovono ondeggiando e
afflitti da spasmi e contrazioni, il coro annuncia l’arrivo di Creonte che racconta le vittorie ad Argo.
Tutti cadono a terra inchinandosi al tiranno mentre nel fondo scena Antigone continua senza sosta a
ripetere il suo gesto esemplare di “sepoltura- nutrimento”. Il discorso di Creonte mira a ottenere il
consenso per seppellire il valoroso dei due fratelli, Eteocle, ma non il codardo Polinice che ha osato
anteporre la propria vita alla difesa della patria. Gli anziani accettano la decisione di Creonte,
mentre Antigone disobbedisce e getta terra sopra il corpo del fratello insepolto. I gesti che
compiono evocano quelli militari ma anche il saluto romano poi adottato dai nazi-fascisti.
Entra la Guardia che annuncia che il corpo di Polinice è stato seppellito. Antigone viene trascinata
dinanzi a Creonte mentre il coro degli Anziani e del popolo è annichilito. Creonte minaccia di morte
Antigone se non troverà il responsabile di questo gesto irrispettoso della sua legge.
Antigone pronuncia dei versi su come l’uomo po’ diventare mostro per altri uomini e tutti
(abbandonando i personaggi interpretati fino ad allora) intonano un canto in processione verso la
platea, in un rito di purificazione collettiva. La distanza tra attori e spettatori si riduce al minimo. È
il momento centrale dello spettacolo in cui i Tebani (gli attori) sono condotti di fronte agli Argivi (il
pubblico) e l’attore davanti allo spettatore: è la scena che sintetizza il valore politico del pezzo e la
sua decostruzione e de-teatralizzazione della forma teatrale.

(min ’51-‘58). L’azione riprende dapprima Antigone si sdraia sul corpo di Polinice, poi la Guardia
se la carica in spalla e la mostra a tutti additandola come la responsabile della sepoltura vietata da
Creonte. Antigone trascina il fratello in centro al palcoscenico e la scena si ripete: Antigone rifà il
gesto della sepoltura e la Guardia l’arresta nuovamente.
Antigone si sdraia ancora sul corpo di Polinice e da quella posizione recita il dialogo-scontro con
Creonte che è sopra la piramide umana di fedeli-mastini. Poi, staccandosi da quel corpo mostruoso,
si avvicina e le chiede abbracciandola paternamente se è stata lei, e lei non indietreggia e resiste. È
un altro momento chiave dello spettacolo: il gesto esemplare di Antigone si carica di ribellione.
Creonte prova a torturarla ma senza successo e infine prova a convincere gli Anziani a non
ascoltarla. Lei invece insiste. Il gruppo si spacca in due: da un lato del palcoscenico il Popolo che la
guarda con sospetto mentre lei cerca il loro consenso, dall’altra un organismo a più zampe
composto da Creonte e i suoi definito la “Bosch-Machine” rappresenta il potere che manipola
qualsiasi cosa.

(min. ’59-‘106) Antigone espone i misfatti di Creonte al Coro degli Anziani e al pubblico, cercando
appoggio, ma le voltano tutti le spalle. Creonte a sua volta cerca consenso ma tre persone si
staccano dal coro e si dispongono dalla parte di Polinice. Antigone a questo punto pronuncia le
parole chiave del dramma “Too late! (troppo tardi)” ammonendo chi si espone a favore del bene ma
troppo tardi, appunto.
Antigone e Creonte da due punti opposti del palcoscenico si fronteggiano e lei ripete più volte che
la violenza chiama violenza. Creonte la rinnega e risponde con violenza e con una gestualità tipica
delle arti marziali avanza e prova a contrastarla, ma lei torna a stendersi sul corpo di Polinice.

(min. ‘107-‘118) Entra la sorella Ismene e Creonte le chiede se è correa della sepoltura elei ribatte
con il gesto di sepoltura di Antigone. Lo scontro è poi tra le due sorelle in quanto Antigone non la
vuole vicina nell’atto della sepoltura di Polinice, mentre lei sarebbe pronta a seguirla fino alla
morte. Una barriera umana fa eco ai suoi sentimenti rendendoli con gesti e movimenti che
traducono visivamente la sordità di Antigone alle parole ai sentimenti di Ismene, che come ultimo
gesto prova a commuovere Creonte. La Guardia porta via le due sorelle, mentre una danza di Bacco
inizia per celebrare la vittoria di Creonte.
Antigone ed Emone si fronteggiano davanti al corpo di Polinice, mentre il corpo si compone e si
decompone. Anche la piramide umana di sudditi fedeli si scompone: è la rappresentazione della
rovina fisica di Creonte che porta alla morte di tutto il popolo tebano. Polinice viene sollevato e
trasportato dalle braccia che simulano una sorta di mare umano.
Emone poi affronta il padre Creonte in un lungo dialogo in cui il re lo rimprovera di tradimento e di
essere schiavo di una donna, Antigone.
Creonte promette di uccidere Antigone rinchiudendola viva in una roccia lontana dalla città.

(min. ‘119-‘150) Segue una lunga orgia bacchica in cui si innestano la scena dell’addio di Antigone,
della profezia di Tiresia e della sommossa popolare. La trance di natura spirituale si contamina con
la pulsione erotica e il desiderio di estasi. Il decadimento e la doppiezza sono celati dietro
un’esibizione di gioia. Poi Antigone si scaglia contro gli Anziani e dopo un lungo dibattito lei
predice la fine sua e di Tebe insieme. Tiresia si stacca e urla a Creonte di essere responsabile di
avere fatto ricadere la maledizione della peste su Argo e organizza una nuova macchina umana fatta
di corpi che travolge Creonte. Antigone muore mentre Tiresia riesce a smascherare (letteralmente
togliendogli la maschera da Bacco) Creonte e a dimostrare chi è veramente.
(min. ‘151-'200) I fedeli sudditi ora come mastini lo calpestano. Come estremo tentativo di salvezza
Creonte chiama il figlio Megareo e in una scena particolarmente forte quest’ultimo
sovrasta il padre raccontando della guerra e delle perdite dei tebani. Si gettano tutti sulla
platea/Argo e poi ritornano sul palcoscenico dove regna il caos più totale. Megareo giace morto e il
suo corpo prende il posto di quello di Polinice. Nella scena conclusiva il coro degli Anziani intona il
canto di more. L’intera compagnia avanza verso il pubblico ovvero verso gli Argivi che applaude
facendoli indietreggiare.

I MOTUS e l’eredità del Living Theater


(per inquadrare la poetica del gruppo Motus, fare riferimento ai materiali e alla lezione e alla
sezione Moodle con i materiali relativi al teatro postdrammatico)

In anni più recenti il lavoro del Living Theater si è intrecciato a quello dei Motus, una compagnia
teatrale italiana indipendente, in costante movimento tra Paesi, momenti storici e discipline, fondata
Enrico Casagrande e Daniela Nicolò nel 1991, ispirandosi proprio al lavoro del Living e portandone
avanti gli intenti politici. Con un progetto complesso i Motus tentano di rispondere alla domanda
che più li assilla: chi è Antigone oggi?

Il progetto Syrma Antigónes (2008-2010) evoca i resti dell’Antigone del Living attraverso una
riflessione sulle relazioni e sui conflitti fra generazioni e ruoli attraverso la formula dei ‘contest’,
ovvero azioni informali che non si concludono in una forma finita e gerarchicamente organizzata. Il
progetto si compone di tre “esercizi” preliminari (Let the sunshine in, Too late! e Iovadovia),
realizzati nella forma di contest e di un evento conclusivo, Alexis. Una tragedia greca, che è
insieme verifica del percorso e nuova provocazione.
Durante un viaggio in Grecia nel 2010, I Motus si mettono sulle tracce di Antigone indagando la
ragione della morte del giovane anarchico Alexis Grigoropulos ad Atene per mano di un poliziotto
il 6 dicembre del 2008, mentre il gruppo era impegnato nelle prove di Let the sunshine in. Il corpo
morto di Alexis è un doppio di quello di Polinice, e che quindi non si può più rimandare la
riflessione sulla nuova identità di Antigone.
Silvia Calderoni è una delle più note attrici italiane, vincitrice del Premio Ubu 2009 come Migliore
Attrice Under 30, del Marte Award 2013 e del premio Elisabetta Turroni 2014. Formatasi negli
ambienti dell’underground artistico e teatrale europeo, dal 2006 porta avanti una ricerca
laboratoriale, alcune tra le tappe più significative sono: “Strike!” all’interno del Festival di
Santarcangelo dei Teatri (2010) e “Arti Urbani” all’interno del festival “Folle” a Milano (2014). Nel
2007 è la protagonista del video della canzone Musa, dei Marlene Kuntz e attualmente collabora
con i Motus.
I Motus hanno smontato il testo brechtiano (e sofocleo), isolandone alcuni passaggi che hanno
montato insieme ad altri materiali testuale. Il loro lavoro è CON il testo di Brecht, non PER il testo
di Brecht e mira a interrogare Antigone.

Let the sunshine in (2009) il primo lavoro ispirato al mito di Antigone prende in prestito il titolo da
una delle canzoni più emblematiche del musical Hair, sinonimo di ribellione, di impegno, di
passione. È il tentativo di creare un corto circuito temporale, per cui il sacrificio di Antigone corre
sulla stessa lunghezza d’onda dei giovani pacifisti che sfilavano per le vie d’America e degli
indignados che affollano oggi i sentieri di un Occidente in recessione.
Due attori (Silvia Calderoni e Benno Steinegger) danno voce e corpo ai fratelli e alle sorelle della
tragedia, scardinando le consuete dinamiche di relazione tra i personaggi e lasciando emergere un
profondo rapporto con la geografia politica del nostro tempo. La messa in scena prevede
l’alternanza di momenti performativi e momenti di riflessione, in cui i due attori discutono sulla
natura del loro mestiere e sulle possibili interpretazioni della tragedia. In questo primo contest
passato e presente entrano in corto circuito, e lo spettatore, posto al centro dello spazio scenico,
bersagliato dalle domande degli attori, diviene protagonista di una rappresentazione che
“anarchicamente” deborda dai limiti del palcoscenico.
Si veda il link al documentario relativo a questo contest nella piattaforma Moodle.

Too late! che echeggiava ipnotico nel coro dell’Antigone del Living Theatre viene scelto come
titolo della seconda tappa di questo progetto. Dopo aver esplorato le ragioni della pietà, l’attenzione
si concentra adesso sulle relazioni di potere, sui meccanismi di sopraffazione e controllo dei padri
sui figli. Sul palco Silvia Calderoni (insieme Emone e Antigone) si confronta con la potente energia
di Vladimir Aleksić, un Creonte mai banale. Questo contest propone un dinamico gioco spaziale
affidato alla presenza simbolica di oggetti-segni (un tappeto verde di plastica, delle maschere, un
tavolo, una sedia, il foulard a fiori di Let the sunshine in, una americana con i riflettori), che
marchiano in modo evidente l’ambientazione, conferendole un’aria suburbana.
Si veda il link al documentario relativo a questo contest nella piattaforma Moodle.

Il terzo contest, Iovadovia (scritto tutto unito diventa battito rap, respiro, slogan), definito
«impossibile» dagli stessi autori, è dedicato al mito di Antigone è forse l’assalto più azzardato,
perché prova a fare i conti con il precipizio della morte, e insieme con la necessità del dire. Pone
una di fronte all’altra Antigone e Tiresia (rispettivamente Silvia Calderoni e Gabriella Rusticali),
cioè due figure segnate da un’ambigua identità di genere (risolta in modo molto suggestivo dalla
potente androginia di Silvia e dalla scelta di assegnare all’indovino il corpo di una donna), a cui si
aggiunge un problematico rapporto con il “vedere” e con il “sapere”, a causa del quale i loro destini
paiono segnati da una sconfitta esemplare.
Ancor più che nei precedenti contest, l’atmosfera è atemporale sincretica» e il pubblico condivide
l’assoluta e simbolica tenebra di un lago nero ai bordi del quale è posta una tenda, la caverna dentro
cui è sepolta Antigone dove dunque sconta la morte vivendo, in continua osmosi con lo spettatore.
Tutto ciò che accade dentro la tenda è proiettato in scena, su uno schermo, grazie a una piccola cam.
Lo sdoppiamento fra spazio e visione sono espedienti linguistici che servono a moltiplicare i livelli
di significazione, nonché ad alterare e complicare le dinamiche percettive del pubblico. Oltre a una
efficace architettura di proiezioni video, la performance di Silvia Calderoni si affida a una serie di
registrazioni vocali gestite e trasmesse tramite un iPhone, che consente di dilatare le pareti dello
spazio e del tempo.
Tra i fantasmi che assediano l’anima della protagonista c’è senza dubbio quello di Judith Malina e
del Living Theatre, evocati anche in questo contest come traccia “vivente” di una rivoluzione a
venire.
Si veda il link al documentario relativo a questo contest nella piattaforma Moodle.

Alexis. Una tragedia greca (2010) con le immagini del viaggio ad Atene della compagnia proiettate
sullo schermo. Il palcoscenico ospita una presenza corale, su cui risuona un testo polifonico e
stratificato e vi si alternano dialoghi, interviste, riflessioni solitarie, tentativi di traduzione dal greco,
all’inglese e all’italiano, frammenti audio e video dalla rete, descrizioni di atmosfere e paesaggi,
dichiarazioni politiche e testimonianze raccolte durante il viaggio in Grecia. Lo spettatore è insieme
testimone e protagonista di un’opera teatrale in cui dell’intreccio complicato si tenta di individuare i
nodi drammaturgici più significativi. Se tutto il progetto Syrma Antigónes in fondo nasce dal
tentativo di reagire alla morte di Alexis, e lo spettacolo che porta il suo nome va oltre il racconto del
sacrificio del giovane e lancia un grido d’allarme per le sorti di un paese minacciato fin nelle
fondamenta da uno stato di crisi senza precedenti.
Infine nel 2011 al Festival di Santarcangelo, i Motus hanno presentato The Plot is the Revolution,
uno spettacolo-incontro tra l'allora ultraottantenne Judith Malina e Silvia
Calderoni incentrato su un dialogo tra le due attrici, avendo entrambe recitato il ruolo di Antigone.
Agli spettatori della celebre azione Paradise Now (1968) era fornita una mappa- diagramma che
rappresentava il viaggio ascensionale della performance verso la “rivoluzione permanente” e ai
piedi del diagramma si leggeva “The plot is the revolution”.
In un contest tra poetiche, prospettive, lingue e corporalità le due figure sono unite dal suono urlante
e bruciate della fiamma che induce a credere ancora nel teatro come possibilità d’azione e
d’incisione del/sul corpo – femminile – che dal passato ritorna nel presente – il mito di Antigone –
alla ricerca della rivoluzione non violenta e anarchica
Si veda il link al documentario relativo a questo contest nella piattaforma Moodle.
IL TEATRO POSTDRAMMATICO

Il teatro postdrammatico, il teatro immagine e il caso di Robert Wilson

Verso la fine del Novecento e con l’inizio del Ventunesimo secolo si è registrato un radicale
cambiamento nelle modalità della creazione teatrale, divenuta sempre più performativa e incentrata
sull'evento scenico piuttosto che sulla messinscena fedele di un impianto testuale pre-esistente.
Dagli anni ’60 e ‘70, forme sperimentali come l'happening, la performance art (si veda in merito il
testo di Roselee Goldberg nelle dispense) e il teatro danza hanno contribuito a mettere in
discussione il concetto di rappresentazione teatrale, le ibridazioni con altre forme d'arte (in
particolare con le arti visive), la diffusione delle drammaturgie collettive, e la minore centralità
conferita ai testi cosiddetti classici. Nel 1999, lo studioso tedesco Hans-Thies Lehmann ha
pubblicato un libro, Il teatro postdrammatico (da poco tradotto anche in italiano), fondamentale per
capire i fenomeni scenici contemporanei. Lehmann si propone di fornire alcune linee guida
all'interpretazione della produzione teatrale contemporanea, ovvero tratti peculiari di quel teatro
contemporaneo che segue il dramma e che definisce 'postdrammatico'. Un altro testo fondamentale
per comprendere queste trasformazioni del linguaggio teatrale è apparso nel 2008: Erika Fischer-
Lichte, L’estetica del performativo (anch’esso da poco tradotto in italiano). Nel complesso questi
due testi costituiscono una riflessione approfondita sui fenomeni teatrali della contemporaneità, di
cui, in questo corso, abbiamo visto più da vicino alcuni esempi come Aurora di Alessandro
Sciarroni, il gruppo Motus e le sue rivisitazioni del testo Antigone di Brecht e delle esperienze del
Living Theater, e di cui vediamo in queste due ultime lezioni un esempio del teatro immagine di
Robert Wilson e del teatro danza di Pina Bausch.

In quello che viene definito teatro posdrammatico o estetica del performativo, il racconto
drammatico viene scomposto, le trame sovrapposte o annullate, emergono nuovi mezzi che
privilegiano una percezione non convenzionale, mostrano la materia da cui è costituita l'opera,
rivoluzionano il rapporto con lo spettatore.Le principali caratteristiche dell'estetica del
postdrammatico sono l’assenza di sintesi, la sinestesia, il testo performativo, il ricorso a immagini
oniriche. Più nel dettaglio possiamo dire che a caratterizzare queste forme teatrali sono la centralità
dell'evento/situazione, l’assenza di gerarchia tra i mezzi teatrali, la simultaneità e l’abbondanza dei
segni, la musicalizzazione, il ricorso a una drammaturgia visiva, un pathos spesso esagerato,
l'ipervalorizzazione della presenza corporea, l'irruzione del reale.
Laddove la sintesi era la modalità di funzionamento tipica del dramma, che mira a "fare ordine"
tramite una composizione comprensiva di un punto di vista, nel teatro postdrammatico la mancanza
di sintesi è funzionale alla rappresentazione del caos che pervade l'esperienza quotidiana, e si
esprime tramite un continuo susseguirsi di effetti, sensazioni, immagini, flussi energetici. Questo
modello organizzativo della scena si definisce paratassi e non aspira a rappresentare un mondo (per
afferrarlo nel suo insieme), ma a farne esperienza per momenti. Nello spettatore produce una
percezione sinestesica, che porta all'emersione del significato solo dopo che è stato elaborato in
base alle impressioni sensoriali accumulate. In queste forme teatrali è quasi impossibile assimilare
tutti gli input ed è pertanto indispensabile compiere delle scelte. A contribuire a questo tipo di
percezione è anche l'uso della musicalità, che fugge alla tradizionale linearità, presentando a sua
volta simultaneità o sovrapposizioni. Musica e immagini sono spesso abbinate e sulla base di
associazioni di senso non sempre ovvie. Dal momento che non è più possibile ancorarsi a una
dinamica sequenziale basata sulla causalità (che da sempre caratterizza il teatro letterario
occidentale) per privilegiare il ricorso a segmenti temporali, lo spettatore è in uno stato di tensione
continua tra l'attenzione al dettaglio e la percezione della totalità, che lo spinge a costruirsi un suo
personale percorso all’interno dell’evento teatrale. L'affermazione di una drammaturgia visiva, a
sfavore del logocentrismo del testo non significa totale abbandono della drammaturgia verbale, ma
la coesistenza con il testo.
Nel teatro postdrammatico, i lavori cercano talvolta addirittura di eliminare la figura umana
sostituendola con macchine o facendo ricorso a una massiccia mediatizzazione del corpo,
manipolato da video, fotografie, e così via. Ma in linea generale la presenza dell'attore può essere
ipervalorizzata proprio come contrappunto alla cultura visiva e mediatica imperante, per affermare
la specificità del teatro. In questo senso sono state importanti per lo sviluppo del teatro
postdrammatico le contaminazioni tra teatro, teatro danza, performance art.
Un’altra tendenza è quella all'astrazione che si contrappone al figurativo: il teatro postdrammatico
espone cioè sé stesso come arte che si sviluppa in uno spazio tramite i corpi umani e altri materiali e
mezzi.
L'irruzione del reale in queste forme teatrali è utile a contrastare il mondo chiuso e fittizio del
dramma classico caratterizzato dalla mimesi: nel teatro postdrammatico spesso l'attore è visto come
l'attore che è, o come essere umano in una situazione comunicativa (e non fittizia). In altre parole,
l'evento teatrale non la messinscena di un dramma ed è legato al presente, al reale come un dibattito,
un’azione pubblica, un manifesto politico.

Pur nella loro diversità, queste ed estetiche teatrali sviluppatesi a partire dalla fine degli anni
Sessanta del Novecento anche in risposta alle nuove tecnologie e ai cambiamenti storici di una
cultura sempre più basata sull’immagine, sono accomunate dal minore rilievo conferito al testo
drammatico. Se per molti secoli (e non senza eccezioni), lo spettacolo è stato visto come la
trasposizione fedele sulla scena del lavoro del drammaturgo, con l’avvento della regia lo spettacolo
si è lentamente discostato dal riferimento al testo per diventare una vera e propria opera d'arte
autonoma. A questa dimensione della ricerca teatrale hanno contribuito la diffusione di forme
teatrali incentrate sul corpo dell'attore o tendenti vero una drammaturgia dell'immagine, e che
comportano la riduzione del testo a uno dei materiali da cui partire per la creazione scenica. In
questo processo, Antonin Artaud e Jerzy Grotowski (che abbiamo studiato più approfonditamente in
questo corso), hanno esplorato una dimensione del teatro incentrata sulla riscoperta dei sensi e del
corpo, e, con i loro spettacoli e con le loro teorie, hanno privilegiato l’elaborazione collettiva di
progetti teatrali in cui la dimensione performativa era preponderante, indicando nuove direzioni
lungo cui una parte del teatro del Novecento si è incamminato.
L’affermarsi di drammaturgie di gruppo e di drammaturgie dell'attore basate in larga parte su
improvvisazioni, ha fatto sì che il testo teatrale assumesse il ruolo di prodotto piuttosto che di punto
di partenza. Si pensi anche all'attività artistica del Living Theatre (che abbiamo visto da vicino in
questo corso) il cui spettacolo emblematico, Paradise Now (1967-1969), ha richiesto tre anni di
elaborazione e il cui testo è stato posteriormente pubblicato con la dicitura "Collective Creation of
the Living Theatre written down by Judith Malina and Julian Beck" ("Creazione Collettiva del
Living Theatre messa per iscritto da Judith Malina e Julian Beck").
Un altro filone di ricerca è quello che, dal secondo Novecento ha seguito la tendenza all'astrazione e
alla stilizzazione, dando vita a una vera e propria drammaturgia dell'immagine di cui Robert Wilson
è considerato insieme uno dei pionieri e dei massimi
esponenti. Sono, dunque, gli altri linguaggi e non la parola a occupare il primo piano e il testo
(nemmeno esclusivamente un testo drammatico) è considerato solo uno tra tanti elementi dello
spettacolo.

Nel teatro postdrammatico la presenza conta più della rappresentazione, l’esperienza condivisa e
non quella comunicata, il processo e non il prodotto, la manifestazione più della significazione,
l’impulso energetico più dell’informazione. Questo nuovo tipo di drammaturgia è definito da
Lehmann visuale poiché non si basa, dunque, soltanto sul testo, ma anche sugli elementi che nel
teatro tradizionale vengono considerati secondari rispetto alla centralità conferita al testo
(scenografia, musiche, costumi, ecc.). Prende inoltre in considerazione l’idea di spettacolo teatrale
come evento, soffermandomi sulle nuove dinamiche tra scena e pubblico e la ricezione dello
spettatore.
Erika Fischer-Lichte identifica una "svolta performativa" in tutte le arti a partire dagli anni Sessanta
e parla di una nuova estetica, l'estetica del performativo, appunto, che s'impernia sul concetto di
realizzazione scenica non su quello di dramma. Il fulcro del concetto sta nel rapporto tra attori e
spettatori, che diventano co-generatori dello spettacolo, anche se non si traduce necessariamente in
azioni concrete, ma concerne l'atto stesso di percepire. Lo spettacolo non è più, dunque,
l'espressione di un'intenzione predeterminata e l'evento scenico ha una sua capacità trasformativa.
Attraverso l'attenzione sulla presenza reale, corporea, dei partecipanti, l'estetico e il politico non
sono elementi distinti. Le frontiere tra le diverse arti si sono fatte più tenui, e sempre più frequenti
sono le creazioni non tanto di opere d'arte ma di eventi in forma di realizzazione scenica: in altre
parole, anziché creare opere, gli artisti producono eventi in cui non sono coinvolti solo loro stessi
ma anche gli spettatori. In molti casi, per esempio in queste forme teatrali l'illusione scenica non ha
più ragion d'essere, e gli spettatori possono vedersi e toccarsi, rendendosi consapevoli della loro
reciproca presenza.
Gli spettatori, inoltre, non sono più visti come un insieme omogeneo a cui trasmettere un
messaggio, ma una comunità che si forma la momento.
Infine, questi eventi scenici si svolgo "dal vivo". Se, a partire dalle ricerche di Stanislavskij (a cui
abbiamo dedicato molto spazio in questo corso) l'attore incarnava il personaggio, non lo
rappresentava, con gli esperimenti che hanno dato avvio al performativo (e ancora lo ispirano) non
si considera più il corpo come un materiale sotto totale controllo da parte dell'attore. Il corpo
dell'attore diventa piuttosto lo strumento per attivare un "contagio emotivo" degli spettatori, e
provocare la creazione di nuovi significati. Il corpo dell'attore rispetto al personaggio, non diventa
un’opera d'arte, ma organismo vivo in divenire. A ciò si aggiunge il progressivo allentamento dei
legami tra voce e linguaggio e alla centralità conferita al ritmo. Questo è il caso del teatro di Robert
Wilson (che vedremo qui di seguito) in cui il ritmo diventa il principio ordinatore per eccellenza
dell’evento scenico, e in cui gli attori seguono linee ritmiche autonome che si combinano in un
insieme.

Tre contest di 40 min l’uno nel progetto Syrma Antgones (2008-2010) + l’appendice Alexis una
tragedia greca (2010)
= per continuare una indagine sulla giovinezza, sull’essere giovani, sul rapporto/conflitto fra le
generazioni (2007-2008, Racconti crudeli della giovinezza)
I movimenti di protesta nell’Europa del nuovo millenio: L’Onda (movimento studentesco italiano
autunno 2008 riforme Gelmini), Occupy Wall Street, Indignados, No global... - questa gioventù che
manifesta e protesta, alla luce di tutta la gioventù del nuovo millennio che pare arrivata ‘troppo
tardi’ (too late) sulla scena della nostra Europa in crisi, depressa, che pare non avere spazio
(occupazionale, politico, culturale) per le giovani generazioni, alla luce di una generazione che pare
a tratti, pessimisticamente, senza futuro, che i Motus interrogano e rileggono le drammaturgie di
Antigone. Un’indagine sulle ribellioni delle giovani generazioni, condotta insieme a Silvia
Castiglioni, loro giovanissima attrice che vedrete ora qui in scena
Antigone è la ribelle: ma ‘come trasformare l’indignazione in azione’? = domanda base della loro
indagine basata su personali riletture di Sofocle, Brecht, visione della grande Antigone del Living
Theatre, negli anni sessanta, ma è stata anche condotta per un paio di anni attraverso alcuni
workshop con ragazzi in giro per l’Europa da cui raccolte riflessioni e dialoghi, che poi sono serviti
alla scrittura scenica: caratterizzata, lo vedrete, da un continuo interrogarsi degli attori sui loro
personaggi.

NB intuizione di base = suddividere e scomporre, dall’originale sofocleo, i nuclei conflittuali


il primo: fratelli e sorelle (il titolo, let the sunshine in è tratto dal musical Hair 1967 gli anni della
contestazione) = Antigone e Ismene, e i due fratelli NOMI
il secondo = il conflitto generazionale (too late è una frase/refrain del coro del Living), giovani
contro vecchi, Antigone contro Creonte, padre contro figlio
il terzo: il sacrificio/la punizione (la grotta, vita/morte, iovadovia) = Tiresia, l’indovino

tre diversi studi/spettacoli pensati come altrettanti incontri/eventi della danza hip-hop: di qui il
nome Contest

il secondo: Too late


Biner ha chiamato Antigone una ‘tragedia del troppo tardi’ (too late) poiché tutti i personaggi
sembrano agire solo dopo l’irreparabile
qui un linguaggio e un teatro molto performativi, corporei ma anche riferimenti testuali a Brecht
NB riflettete a come gli attori entrano e escono dai personaggi... è il dispositivo di base... l’attore
‘indossa’ il personaggio e lo interroga e si interroga, costruendo così una riflessione performativa

commenti post video


rapporto con i testi:
Il teatro di scrittura scenica assume il testo drammatico come puro materiale
“il materiale letterario vede ridotta la sua vocazione drammaturgica attraverso il processo di
riscrittura ambientale e del personaggio” = i context dei Motus: sono di fatto
delle riscritture ambientali! I Motus lavorano CON i testi (di Sofocle e di Brecht)

rapporto col personaggio:


persona/personaggio, realtà/finzione
corto-circuito fra le due dimensioni: la persona dell’attore interroga ragioni e identità del
personaggio. L’attore fa di questa interrogazione oggetto scenico
per la precisione: nel teatro che chiameremo post-drammatico questa dialettica attore- personaggio
tende a essere enfatizzata e articolata al massimo e spesso travalica l'intenzione brechtiana (quella
della netta separazione fra le due dimensioni) per cambiare di segno, quasi a mescolare il piano
della realtà con quello della finzione

NB per il razionalista BB, da un lato c'è la realtà, dall'altro la finzione che ci aiuta a riflettere sulla
realtà; per il teatro post-drammatico, realtà e finzione si intrecciano, la biografia del personaggio si
pone in corto circuito e in interazione diretta con quella della persona che lo interpreta
NB in Too Late, Silvia Castiglioni e Vladimir Alexik entrano ed escono dai loro personaggi; fanno
della loro personale interrogazione dei personaggi l'oggetto stesso della scrittura scenica. Vladimir
si chiede in scena, e chiedeva a lei, quale Creonte fare, quale tipo di tiranno; Silvia ripeteva in un
passaggio, brechtianamente (e cioè in terza persona) tutta la sequenza della scrittura scenica...
“avvicinarsi a Creonte per un interminabile corridoio.
= sono attori-dimostratori in senso brechtiano? Non proprio. Mostrano frammenti del loro
personaggio continuamente intrecciati alla loro persona.
NB L'interrogazione del personaggio e della vicenda (non il racconto del personaggio e della
vicenda) diventa l'oggetto stesso della scrittura scenica
-dal teatro narrativo di BB (dalla tradizionale funzione narrativa del teatro) passiamo a un teatro
fortemente auto-riflessivo: l'attualizzazione, per loro, passa attraverso l'autoreferenzialità
-è un teatro critico, come per primo ha voluto Brecht, ma dove la critica e la riflessione sono spinti a
un punto tale da rompere il flusso narrativo; la narrazione della vicenda infatti è spezzata, avviene
per frammenti, frutto di montaggio: è teatro post-drammatico

NB per Brecht distanziare l'attore dal personaggio così che né l'attore si identifichi nel personaggio
né di conseguenza il pubblico: perché il personaggio e il suo comportamento vanno valutati
criticamente, sia dall'attore che dallo spettatore = classico esercizio brechtiano, che egli racconta più
volte
L'Antigone scenica di Bertolt brecht presenta volutamente allo spettatore un cosmo fittizio, una
vicenda disposta ad arte dal teatro, convinto nell'esemplarità e pregnanza di tale esempio di finzione
per gli spettatori = un teatro drammatico, riposa cioè sulla vicenda intesa come cosmo fittizio
coerente, ricco tematicamente, che si risolve in se stesso, e che si muove attorno a due assi polari: i
caratteri e l'azione (o vicenda, come diceva BB)
L'Antigone dei Motus è post-drammatica: il loro teatro non rinuncia affatto a fare un discorso su
Antigone, ma lo fa con un linguaggio che rinuncia alla coerenza e organicità e consequenzialità del
dramma. Il dramma di BB e quello di Sofocle sono usati entrambi, come materiali di lavoro, ma la
coerenza e organicità dei personaggi è rotta e interrogata (quale Creonte fare?), i dialoghi sono
ridotti a frammenti, la scena è investita di una energia concreta dei corpi in azione, un segnarsi i
corpi e esporre i corpi, la partitura fisica non ha a che fare con la storia raccontata (Antigone che
corre con la gonna/telo a mo’ di vela, Silvia che dondola appesa alla impalcatura delle luci sfidando
lo zio... Il discorso su Antigone è condotto non per via prevalentemente narrativa non drammatica
classica (con la centro i personaggi e l'azione in un universo fittizio)

Lehman = questo teatro può spiazzare lo spettatore più legato alle forme narrative classiche, perché
sviluppa un potenziale di percezione che si distacca dal paradigma drammatico = un teatro che non
si propone come presentazione di un cosmo fittizio (la vicenda drammatica aiuta il teatro a
presentarsi così)
- in Motus/Antigone che quello che percepiamo non è un cosmo fittizio. Non è una dimensione
rappresentativa ma qualcosa che si avvicina più a un evento, a una performance, a un avvenimento;
qualcosa accade, due persone si interrogano su figure archetipiche del passato, sul rapporto col
potere, su come sfidarlo, su come ribellarsi, guardano alle loro vite, guardano ai grandi archetipi di
Creonte, Emone, Antigone....

Lehmann scrive che il discorso (che intende come atto enunciativo) diventa la dimensione più forte
della scena contemporanea, esso rimpiazza il dialogo e la conversazione, l'universo dialogico. La
scena è lo spazio con cui qualcuno (l'istanza registica) indirizza direttamente il suo discorso al
pubblico, senza la mediazione di una storia o vicenda
Rispetto a questa evoluzione sono determinanti sia la forma epica brechtiana che la dimensione
mitica e rituale del teatro proposta da Artaud

Einstein on the beach (1976)


(su Robert Wilson si veda il testo di Giovanna Zanlonghi, La regia come lavoro sulla luce.
Rober Wilson)
Robert Wilson (1941) è il caposcuola del teatro immagine americano, oltre che regista, anche attore,
videoartista e designer. A lui e uno dei suoi spettacoli più celebri facciamo riferimento per
individuare tratti tipici e ricorrenti del “teatro immagine”.
Dopo la laurea in architettura, nel 1968 Wilson fonda una compagnia di performance sperimentale,
la Byrd Hoffman School of Byrds, intitolata a Miss Byrds, l'insegnante di danza che lo aveva
aiutato, da ragazzo, a vincere la balbuzie, stimolandolo a eseguire movimenti lenti, in slow motion
(che è un elemento essenziale nel teatro di Wilson in quanto legata a una percezione dello spazio e
del tempo non canonica). Questa attenzione alle qualità estetiche della dilatazione del movimento
umano e all’esperienza percettiva e sensoriale, informa i suoi primi lavori scenici spesso realizzati
in collaborazione con performer affetti da diversi tipi di disabilità. Ma Wilson esplora anche la
dilatazione del tempo nella performance in situazioni ben diverse da quelle del teatro occidentale:
per esempio nel 1972 mette in scena Ka Mountain and Guardenia Terrace, a Shiraz in Iran, un
percorso ascensionale che coinvolge gli spettatori, realizzando un’idea di performance che si dilata
nel paesaggio.
Il teatro di Wilson, profondamente segnato dalla sua creatività che parte dal disegno e
dell’immagine, si fonda su movimenti stilizzati e composizioni di luce, ed è caratterizzato da poche
o nessuna azione o trama. Lo spazio è discontinuo, con luci, colori, gesti degli attori, movimenti,
oggetti che sovrappongono e giustappongono spazio e tempo, senza nessuna pretesa di sintesi. Il
cambio continuo di scene, che non aspirano a rappresentare un mondo, favorisce l'accesso a un'altra
logica, quella prerazionale delle immagini, dei suoni e dei ritmi.

Einstein on the Beach è un'opera composta da Philip Glass, progettata e diretta da Robert Wilson
andata in scena al Festival di Avignone nel 1976, considera uno dei principali esempi di teatro
postdrammatico, secondo la definizione di Lehmann. È certamente l’opera che consacra Wilson
sulla scena internazionale, e nasce dalla strettissima collaborazione con il musicista minimalista
Philip Glass e con il contributo di Lucinda Childs, danzatrice e coreografa della New Dance
americana. Si tratta del primo e più lungo spartito per opera di Philip Glass e dura
approssimativamente quattro ore e mezza (tre ore e mezza su CD) da eseguire senza interruzioni.
Data la natura della musica (lunghe ripetizioni di piccoli elementi, sviluppo e cambiamento molto
graduali, motivi ricorrenti) Wilson decise di lasciare libero il pubblico di andare e venire a suo
piacimento, regolando così indipendentemente la sua immersione nel flusso ininterrotto e dinamico
d’immagine e suono.

Lo spettacolo si pone come un cambiamento, un punto di cesura radicale nella storia della lirica,
un’opera d’arte totale dal ritmo ipnotico e visionario. La durata delle azioni visive e uditive è
continuamente dilatata: ogni elemento si sviluppa seguendo una propria partitura, con nessi non
evidenti, e una scena che dura trenta minuti può anche svilupparsi in una sola immagine, oppure la
musica può sostenere a lungo una sola nota.

Il libretto (che contiene testi di Christopher Knowles, Samuel M. Jonhson e Lucinda Childs) è privo
di trama, e consiste di sillabe solfeggiate, numeri e brevi segmenti di poesia o testo che si
sviluppano sui temi della relatività generale, delle armi nucleari, della scienza e della radio. La sua
esecuzione scenica richiede un'orchestra composta da sassofono soprano e contralto, organo
elettrico, flauto, clarinetto basso, e una o due tastiere. In scena ci sono i solisti, due cori
(rispettivamente di 14 e 6 persone), danzatori e quattro attori. Lo spettacolo dunque non narra una
storia, ma presenta un’epopea priva di eroe o eroina e anche il riferimento a Einstein, lo scienziato
inventore della teoria della relatività, non è narrativo. La sua figura, all’epoca considerata quasi una
superstar della cultura americana, è evocata come icona della modernità per sprigionare una serie di
temi e immagini legati principalmente alle questioni relative al tempo e alla spazialità. Oltre ai
costumi di tutti gli attori, ricorrono alcuni indizi come una conchiglia, degli orologi che girano
all'indietro, delle bussole sospese, un giroscopio (giocattolo amato da Einstein bambino), dei razzi,
qualche fotogramma allusivo alla bomba atomica, e la sua stessa figura nel violinista in proscenio
con capelli e baffi bianchi nella celebre posa mentre fa la linguaccia.

Come disse Wilson “In un certo senso non c’era bisogno di raccontarne la storia, perché chiunque
fosse venuto a vedere il nostro Einstein si sarebbe portato dietro, a teatro, la ‘sua’ storia del
personaggio”. All’interno dell’opera sono molti i riferimenti, più o meno riconoscibili, alla
biografia dello scienziato o alle sue teorie (dai suoi giocatoli preferiti da bambino a E=mc2), ma nel
complesso si tratta più di una riflessione sul trattamento dello spazio-tempo a teatro.

Lo spettacolo è strutturato in quattro atti (di un’ora ciascuno), a loro volta suddivisi in nove scene,
ciascuna della durata di 20 minuti e separate dai 5 intermezzi o giunture che Wilson chiamò i knee
plays (‘scene ginocchio’) della durata di circa dieci-venti minuti, e che inquadrano ogni atto dando
al tutto un’idea di interezza, di una creazione organica e quasi anatomica. Queste scene-giuntura
sono anche funzionali anche a coprire i cambi di scena dei sette allestimenti. Ciascun atto si
compone a sua volta di due scene eccetto il quarto e ultimo atto che è composto da tre. Tutta la
struttura è modulare secondo il ripetersi, l’accorparsi e l’alternarsi della scansione dei numeri 1-2-3:
nei primi tre atti i tre elementi si ripetono due volte con alternanze e combinazioni di ambienti
interni ed esterni: il treno (1), il processo (2) e il campo-macchina spaziale (3) si dispongono
nell’ordine 1-2 (nel primo atto), 3-1 (nel secondo atto), 2-3 (nel terzo atto), andando a formare in
successione la serie 1-2-3/1-2-3. Infine, nel quarto atto ricompaiono tutti e tre gli elementi però
trasformati. Si veda il bozzetto con la suddivisione interna delle scene:

Tre sono le ambientazioni ricorrenti: il TRENO, il TRIBUNALE/PRIGIONE, il


CAMPO/ASTRONAVE. Si tratta dei simboli del “viaggio della modernità”, dalla scoperta del
vapore alla propulsione atomica. Le tre ambientazioni, ritornano tre volte ciascuna, ma nell’ultima
apparizione sono sempre trasfigurate e assumono o di volta in volta la forma pittorica di ritratti,
nature, morte e paesaggi.
Sulla genesi e sulla struttura dello spettacolo si veda il documentario (in elenco nella
piattaforma Moodel del corso):
Einstein on the Beach, The Changing Image of Opera, regia di C. Veges, M. Obenhaus, BAM,
1984, col., 57 min. [visibile al link http://ubu.com/film/glass_einstein.html ]

Tutto si sviluppa come una lenta metamorfosi e l’ambiente scenico di natura dinamica ricorda quasi
un’immagine onirica. La gestualità e i movimenti dei performer nello spazio, stilizzati e
antinaturalistici, tendono a una danza che segue ritmi musicali e numerici. Lapartitura musicale (in
parte anche cantata), procede per progressive variazioni sul tema di base che a poco a poco si
trasformano quasi impercettibilmente e ricorrono a varie soluzioni sceniche e ritmiche per sottrarre
lo spettacolo dai paradigmi della temporalità lineare e sviluppare una dimensione ciclica del ritmo e
del tempo. Le architetture di luce sono altrettanto fondamentali, e costituiscono fin da questo
spettacolo la cifra stilistica che più connota il teatro wilsoniano: la luce è al contempo materia
pittorica e segno (attraverso tagli, sagomatori, neon) che interviene tanto sullo spazio quanto sul
tempo dello spettacolo. Wilson ricorre spesso al ciclorama (una stanza circolare con le pareti
coperte da un disegno di una veduta a 360°, che ricrea l’illusione di un paesaggio che avvolge lo
spettatore) e gioca sulla saturazione cromatica. L’attore che si trova, dunque, come immerso a
galleggiare all'interno di pure geometrie luminose, che producono uno spaesamento percettivo. Un
altro tratto estetico ricorrente delle sue regie è il ricorso all’'oggetto disegnato (non di rado di gusto
pop) e che in questo caso è la silhouette del treno, che campeggia come segno visivo assoluto dentro
a uno spazio vuoto.

Einstein on the Beach esemplifica al meglio una ricerca formale che trasforma lo spazio scenico in
una cassa di risonanza visiva (per dirlo in forma di sinestesia) giocando sugli effetti di simmetria e
asimmetria, equilibrio e disequilibrio, fra orizzontale e verticale, fondo e figura.

Il tempo si spazializza e posto in relazione solo con se stesso, mentre il ritmo dei movimenti degli
attori e della musica, è frutto di una stretta relazione con lo spazio, come indicano i molti orologi
che appaiono in scena senza lancette o con lancette che procedono all’inverso, o che impiegano
venti minuti per segnare un’ora. Le coreografie che alternano lentezza e velocità enfatizzano il
rapporto tra tempo e spazio questo tempo, e questa diversità dei tempi presenti in scena si ripercuote
nella percezione.

Per un’analisi delle varie scene si veda il saggio di Daniela Sacco (piattaforma Moodle del
corso)

In chiusura torniamo per un momento al progetto Syrma Antigones (2008-2010) e lo spettacolo


Alexis una tragedia greca (2010) del gruppo teatrale Motus che abbiamo analizzato in relazione
all’Antigone del Living Theater e alla sua eredità per considerarli come un esempio più vicino a noi
di teatro postdrammatico.
Se il testo Antigone di Bertolt Brecht mediato dalla resa scenica del Living costituisce il punto di
partenza, sono i movimenti di protesta nell’Europa del nuovo millennio, dal movimento studentesco
italiano del 2008 a Occupy Wall Street, dagli Indignados ai No global, a essere il vero motore della
sua ri-attivazione da parte dei Motus. Il progetto, cioè, pone al centro una gioventù che pare arrivata
‘troppo tardi’ (too late) sulla scena europea (proprio come i cittadini accusati da Antigone di essersi
risvegliati dal loro torpore troppo tardi per reagire). Se Antigone è la ribelle ‘come trasformare
l’indignazione in azione’? A questa domanda i Motus hanno tentato di rispondere con una loro
rilettura dei testi di Sofocle e Brecht, e delle esperienze del Living Theatre, ma anche e soprattutto
attraverso una serie di workshop con giovani di tutta Europa da cui raccolte riflessioni e dialoghi,
che poi sono serviti a una scrittura scenica caratterizzata da un continuo interrogarsi degli attori sui
loro personaggi. I Motus non lavorano SUI testi di Sofocle e Brecht ma CON essi. Il ricorso a un
format non strettamente teatrale come il contest è legata a questa idea di suddividere e scomporre,
dall’originale sofocleo, i nuclei conflittuali (tra fratelli e sorelle, tra generazioni, tra vita e morte).
Gli attori entrano ed escono dai personaggi, ‘indossano’ il personaggio e lo interrogano e si
interrogano, costruendo una vera e propria riflessione performativa che travalica l'intenzione
brechtiana della netta separazione fra le due dimensioni mescolare il piano della realtà con quello
della finzione. La biografia dei personaggi crea un corto circuito con quella della persona che lo
interpreta e gli attori mostrano dei frammenti del loro personaggio continuamente intrecciati alla
loro persona. È l'interrogazione del personaggio e della vicenda (non il racconto del personaggio e
della vicenda) a diventare l'oggetto della scrittura scenica.
Laddove in Brecht il personaggio e il suo comportamento vanno valutati criticamente, sia dall'attore
sia dallo spettatore, il teatro postdrammatico è un teatro in cui la critica e la riflessione sono spinti al
punto di rompere il flusso narrativo e la narrazione della vicenda si spezza, avviene per frammenti.

L'Antigone post-drammatica dei Motus parla un linguaggio che rinuncia alla coerenza e organicità e
alla sequenzialità tipiche del dramma. Il dramma di Brecht (e di Sofocle) sono usati come materiali
di lavoro, ma la coerenza e organicità dei personaggi è rotta e interrogata, i dialoghi sono ridotti a
frammenti, la scena è investita di una energia concreta dei corpi in azione, l’esposizione dei corpi e
una partitura fisica che esula dalla vicenda narrata. Questo teatro può spiazzare lo spettatore legato
alle forme narrative classiche, perché sviluppa una percezione che si distacca dal paradigma
drammatico del racconto fittizio rappresentato in scena. Nell’Antigone dei Motus quello che
percepiamo non è un cosmo fittizio o una dimensione rappresentativa, ma qualcosa che si avvicina
più a un evento e a una performance. È qualcosa accade.
PINA BAUSCH (1940-2009)

Pina (Filippine) Bausch è una danzatrice e coreografa tedesca che ha studiato alla Folkwand Schule
di Essen con Kurt Jooss (uno dei protagonisti della danza moderna tedesca) e il cui insegnamento
combinava danza, musica e teatro e anche danza moderna e danza accademica (quella che noi
definiamo comunemente “classica”).
Grazie a una borsa di studio Pina Bausch ha potuto perfezionarsi alla Juilliard School di New York
dove ha studiato con il coreografo inglese Antony Tudor e ha conosciuto da vicino le
sperimentazioni condotte nell’ambito della danza post-moderna americana. Tornata in Germania nel
1973 ha assunto la direzione di un teatro dell’opera a Wuppertal e ha fondato la compagnia di danza
Tanztheater Wuppertal Pina Bausch. Tanztheater significa “teatro di danza”.
Il percorso di Pina Bausch è coinciso con le sperimentazioni dei primi anni ’70 e negli anni ’80 a
teatro e le sue coreografie si sono subito aperte alla danza, all’uso della voce, della parola e una
gestualità teatrale. Molti dei danzatori che hanno iniziato con lei questa avventura l’hanno
accompagnata per ben 36 anni di ricerca artistica condivisa, in particolare la Bausch ha collaborato
con Rolf Borzik, suo principale scenografo e drammaturgo oltre che compagno di vita (fino alla sua
morte precoce nel 1980).
Nonostante le reazioni ostili del pubblico alle sue prime produzioni fino alla fine degli anni ’70,
dagli anni ’80 in poi il Tanztheater Wuppertal ha iniziato ad attrarre l’attenzione della stampa e
degli addetti ai lavori a livello internazionale. Nel giro di pochi anni la città di Wuppertal è
diventata una vera e propria Mecca per il mondo della danza e del teatro dell’epoca.
I primi lavori di Pina Bausch sono stati i più convenzionalmente coreografici con uno sviluppo,
un’evoluzione un movimento e hanno lasciato molti elementi della tecnica accademica in evidenza.
Col tempo però i suoi pezzi si sono fatti più marcatamente debitori del linguaggio teatrale e hanno
fatto riferimento soprattutto alla tecnica del montaggio cinematografico per legare scene
apparentemente slegate tra loro e frutto di un serrato lavoro sull’improvvisazione. Erano poi “cucite
insieme” sulla base di liberare associazioni. Il movimento del corpo è diventato solo una delle
componenti di creazioni sempre più complesse che comprendevano l’uso di partiture sonore fatte di
montaggi di canzoni e brani musicali differenti, ma anche film, costumi, scenografie e oggetti di
scena.
I suoi ultimi pezzi si sono basati su lunghe residenze in città di tutto il mondo (tra cui Roma e
Venezia in Italia) che hanno prodotto molto materiale da lei montato e organizzato per raccontare
storie e atmosfere di questi luoghi e delle relazioni che avevano prodotto.
Molti dei suoi pezzi non sembravano “opere di danza” nell’accezione più tradizionale, si “danzava”
poco e Bausch stessa affermò in varie occasioni: “non mi interessa come si muovono le persone, ma
cosa si muove”. È stata in grado di catturare la complessità degli esseri umani come affermato da
William Forsythe (uno dei più celebri coreografi del nostro tempo), “ha praticamente reinventato la
danza”.
Gli interpreti dei suoi spettacoli spesso indossavano costumi simili a quelli per party e feste serali, il
più delle volte secondo uno stile che echeggia la moda anni ’50, abiti semplici ma eleganti per gli
uomini, abiti da cocktail in raso e colori sgargianti e tacchi per le donne, nel complesso sottolineano
in modo marcato i ruoli maschili/femminili ma anche gli stereotipi di genere.

KONTAKTHOF (1978) – il cortile dei contatti


Regia e coreografia: Pina Bausch
Scene e costumi: Rolf Borzik
Collaborazione: Marion Cito e Hans Pop
Musica: Anton Karas, Charlie Chaplin, Juan Llossas e Jean Sibelius.
Dopo Wuppertal, lo spettacolo è stato in tournée in tutto il mondo.
- Kontakthof Mit Damen und Herren ab 65 (2000)
- Kontakthof mit Teenagern ab 14 (2008)
Nelle intenzioni di Pina Bausch, Kontakthof doveva essere risistemato con il tasto originale una
volta che i ballerini avessero raggiunto l’età di sessant’anni ma nel 2000, in occasione dei
festeggiamenti per i suoi 25 anni da direttore della sua azienda, decise che non poteva aspettare così
a lungo. Attraverso un annuncio sui giornali locali ha selezionato (su circa 150 candidati) un gruppo
di dilettanti di età compresa tra i 58 e i 75 anni, in seguito ha deciso di ripetere l’esperienza con un
gruppo di adolescenti.
Le tre versioni di Kontakthof si basano su: la stessa struttura coreografica, la stessa musica, le stesse
scene e gli stessi costumi, le uniche variazioni sono l’età e l’esperienza dei danzatori che
inevitabilmente cambiano la qualità del movimento e la sua espressività. Questi pezzi non sono
impoveriti a causa della minore competenza dei nuovi interpreti, anzi, ogni esperimento è pieno di
nuovi significati.
Il titolo è stato scelto a metà dello sviluppo coreografico del lavoro, potrebbe anche riferirsi al
“salone” di una casa di appuntamenti dove l’intimità affettata si riflette nelle interazioni degli
interpreti, i danzatori mettono in scena la ricerca di un contatto umano oltre che della loro
condizione esistenziale. Nel sito della compagnia lo spettacolo è presentato così:
Kontakthof is a place where people meet who are searching for contact
to show yourself, to deny yourself
with fears. Desire.
Disappointments. Desperation.
First experiences. First attempts.
Tenderness and what arises from
Was an important theme in work
Another, for example was Circus.
Showing part of yourself, overcome oneself.

Nei lavori di Pina Bausch ricorrono alcuni temi: la fragilità umana, la violenza, il potere, le
relazioni personali (in particolare tra uomini e donne). Ha descritto in più spettacoli il difficile
rapporto tra uomini e donne attingendo a quella che dipingeva spesso in termini di una violenta
battaglia tra i sessi, ha condotto in forma teatrale un’indagine sulla costruzione rappresentazione e
ricezione dei rapporti tra uomo e donna e più in generale delle identità. In linea generale le opere di
Pina Bausch non sono state fatte per essere guardate ma per essere vissute, ha costruito spettacoli
più per rappresentare degli stati d’animo che per raccontare delle vere e proprie storie dando voce a
grandi temi come l’amore. la paura, la gioia, il dolore, la sofferenza e la solitudine.
Ha dato così corpo a delle emozioni e non a dei personaggi nell’accezione più tradizionale del
termine, ha portato in primo piano l’interiorità, il complesso mondo delle emozioni, i pensieri più
nascosti delle persone, ma in cui il pubblico poteva facilmente riconoscersi e identificarsi.
Dal 1980 ha iniziato a chiamare le sue creazioni Stück (pezzo) per assonanza con il Lehrestück di
Bertold Brecht, il cui intendo era didattico-educativo. A differenza del teatro epico di Brecht, però
Pina Bausch con i suoi pezzi non mirava a insegnare qualcosa, bensì a far riflettere attraverso una
forte empatia tra artisti e pubblico, che attraverso questo per corpus di spettacoli ha riscoperto le
proprie emozioni e la propria emotività.
Il processo creativo era incentrato sulle domande che Pina Bausch rivolgeva ai danzatori per
esplorare con loro i sentimenti e le situazioni da cui elaborare una drammaturgia complessiva e che
riguardavano l’identità, il ricordo, il desiderio e in larga parte il rapporto uomo-donna. In realtà il
“metodo delle domande” era più una modalità di ricerca e di lavoro che un vero e proprio sistema; a
queste domande i danzatori potevano rispondere in vario modo ovvero a parole ma anche
utilizzando la danza e il canto. Da questi materiali improvvisazioni prendeva vita la seconda fase
della creazione in cui Pina Bausch organizzava le improvvisazioni tramite un lavoro di montaggio.
Lo stile coreografico è caratterizzato da azioni simultanee, processioni, sfilate/processioni e da
rimandi più o meno espliciti a delle sue opere precedenti. L’assenza di vere e proprie storie e
l’atmosfera spesso surreale dei suoi spettacoli favoriva un’interpretazione aperta, in cui l’unica
logica apparente era quella irrazionale delle passioni e dei sentimenti, anche i più nascosti. In scena
i danzatori non rappresentavano dei veri e propri personaggi, bensì dei tipi rappresentanti di
un’umanità complessa fatta di uomini e donne spesso incapaci di comunicare tra loro.
Kontakthof presenta una dozzina di uomini e una dozzina di donne mentre si preparavano per un
ballo o festa formale. L’azione dà vita a una serie di momenti surreali in cui si alternano
frustrazione e rimpianto. Ognuno di loro è presentato come un essere unico, cominciano seduti in
sede pieghevoli disposte lungo il perimetro della sala, uno ad uno camminano lungo lo spazio
scenico e si rivolgono al pubblico come se fosse uno specchio mettendosi a posto (stiracchiando il
viso, girandosi dilato per risucchiare la pancia) incuranti della presenza dei nostri sguardi.
La scena sembra una sala da cinema tedesco vecchio stile usata come sala da ballo, è il luogo dei
sogni e ricordi intriso di malinconia. Il ballo è un rito di passaggio in molte società e in alcuni
contesti è propedeutico al matrimonio, è il modo in cui scegliere un partner per tutta la vita, è una
metafora insieme del sesso e della relazione amorosa. A un certo punto lo schermo della sala
cinematografica si solleva al di sopra del piano in cui si svolge l’azione. Le sedie sono appoggiate
alle pareti su tre lati, sulla parte sinistra c’è una grande finestra, sulla destra, a sinistra e in basso a
destra si trovano tre porte che saranno utilizzate per le entrate e le uscite dei danzatori, nell’angolo a
destra in fondo alla scena c’è un pianoforte verticale che sarà utilizzato in vari modi durante lo
spettacolo.
Il collage musicale che Bausch compone per questo pezzo presenta canzoni degli anni ‘30 composte
da Juan Llossas e cantato da Leo Monosson, pezzi presi dal cinema come “Titina”, dal film “Tempi
moderni” di Charlie Chaplin (1936), la colonna sonora creata da Nino Rota per un film di Fellini,
che evoca un’atmosfera da circo, il tema del film “Il terzo uomo” di Carol Reed (1949) composto da
Anton Karas, il “Valse Triste” di Jean Sibelius (1904) e così via.
La struttura dello spettacolo è simile a quella di molte produzioni di Pina Bausch e consiste in una
serie di scenette che si susseguono apparentemente senza una logica narrativa, lo spettacolo non
racconta una storia vera e propria e non si basa su un testo preesistente. Le sequenze di movimento
sono meticolosamente coreografie e si basano su un lungo e attento lavoro di improvvisazione con i
danzatori. Ogni personaggio è sottoposto all’analisi psicologica di Pina Bausch che riteneva che
tutti gli esseri umani siano la somma imperfetta dei loro desideri, stranezze, insicurezze, illusioni,
ansie, speranze e delusioni. I personaggi in scena incarnano tutto questo con umorismo e grazia,
sembrano essere a un provino, raccontano una storia o compiono azioni apparentemente insensate
come arrampicarsi su una sedia o ridere in modo isterico ma senza una vera ragione. Ma il tutto
assomiglia anche a una versione accelerata della vita e delle molte di opportunità mancate, i diversi
amanti in coppia rappresentano le molte sfumature di una relazione amorosa, tutto lo spettacolo
consiste in una esibizione di rituali di accoppiamento. In una scena un uomo e una donna si tolgono
i vestiti fino a quando non sono nudi e si siedono uno di fronte all’altro.

Café Müller (1978) e il Teatro danza di Pina Bausch

Abbiamo visto come il teatro postdrammatico riaffermi il valore dell’esperienza e della sua forza
intimamente politica in modo affine all'happening e alla performance art che si affermano verso gli
anni ’60 del Novecento. In tutti questi nuovi generi l'attenzione si concentra sull'azione, sul
processo e non sul risultato, implicando un nuovo ruolo dello spettatore, che non è più destinatario
passivo di un'opera compiuta, bensì co-partecipe dello con la propria presenza e le reazioni agli
stimoli. Il teatro postdrammatico adotta diverse strategie mirate allo stimolo e all'ampliamento
dell'esperienza percettiva divenendo un momento indistinto della vita stessa che vi viene riproposta
in quanto tale.

Il termine Tanztheater è stato introdotto negli anni ’20 del Novecento da Rudolf Laban e Kurt
Jooss, due dei protagonisti della danza moderna tedesca. Indicava un’idea di danza moderna capace
di penetrare progressivamente nei circuiti teatrali istituzionali e avvicinarsi, integrandola, alla
tecnica accademica (quella che comunemente ma impropriamente viene definita “danza classica”).
La tendenza opposta era detta Theatertanz e mirava ad affermare un’idea di danza assoluta, ovvero
sciolta da legami con la danza accademica e dai contesti più istituzionali. Kurt Jooss fu il primo a
usare il termine nel 1928 per definire la sua compagnia, il “Tanztheater-Studio” di Essen appunto.
In quella città Jooss aveva fondato nel 1927 la “Folkwangschule di Essen”, una scuola di musica e
danza in cui formare danzatori moderni ma senza bandire del tutto la formazione accademica. Dopo
un lungo esilio durante il regime nazista, Jooss rientra in Germania nel 1949 e riprende la direzione.
È in questo contesto che Pina Bausch (1940 - 2009) si è formata. Dopo un periodo trascorso alla
Juilliard School di New York e una prima esperienza lavorativa al Metropolitan Opera Ballet, torna
a Essen nel 1962, dove è nominata insegnante e poi direttrice della relativa compagnia finché nel
1973, viene chiamata a dirigere il Wuppertal Ballett, il corpo di ballo in seno alle Wuppertaler
Bühnen.
Decide di far coincidere questa assunzione con il rilancio della compagnia, che nomina
“Tanztheater Wuppertal” (aggiungendovi in seguito il suo nome) perché le sue coreografie aprono
la danza all’uso della voce, della parola, e di una gestualità teatrale. Molti dei danzatori che hanno
iniziato con lei questa avventura l’hanno accompagnata per ben trentasei anni di ricerca artistica.

Pina Bausch ha creato una nuova coreografia all’anno dapprima utilizzando partiture musicali
affermate e riconosciute da critica e pubblico come esemplari del canone occidentale. È andata così
affinando uno stile di movimento sempre più originale e una modalità di lavoro che richiedeva la
presenza crescente di danzatori con esperienza in tecnica moderna. I primi lavori come Das
Frühlingsopfer (La Sagra della primavera 1975), Blaubart. Beim Anhören einer Tonbandaufnahme
von Béla Bartóks Oper „Herzog Blaubarts Burg“ (1977) e le coreografie per il repertorio operistico
Iphigenie auf Tauris (1973) e Orpheus und Eurydice (1975) hanno inaugurato una nuova categoria
di spettacoli a cavallo tra l’opera lirica, il balletto e il teatro- danza definita Tanzoper in cui
l’aderenza narrativa ai libretti costituisce uno degli ultimi punti di connessione con una tradizione
ottocentesca del teatro musicale.
E tuttavia, la necessità di liberarsi dal rispetto della componente musicale è andata di pari passo con
l’esigenza di dare voce a grandi temi come l’amore, la paura, la gioia, il dolore, la sofferenza e la
solitudine, per raccontare più degli stati d’animo che delle vere e proprie storie.
Pina Bausch ha dato così corpo a emozioni e non a veri e propri personaggi, portando in primo
piano l’interiorità, le emozioni, i pensieri delle persone in cui tutti potevano identificarsi. Dal 1980
ha iniziato a chiamare le sue creazioni Stück (pezzo) per assonanza con il Lehrestück di Bertold
Brecht, il cui intento era didattico-educativo. A differenza del teatro epico di Brecht, Bausch con i
suoi pezzi non mirava a insegnare qualcosa, bensì far riflettere e indagare l’animo e i
comportamenti umani. Le sue produzioni consistono sempre più in collage di scene o meglio di
azioni per danzatori.
Il suo teatro-danza ha riabilitato l’interiorità delle persone esortandole a esprimere il proprio io sulla
scena e dando luogo, in questo modo, a una forte empatia tra gli artisti e il pubblico
che, attraverso gli spettacoli, riscopre le proprie emozioni e la propria emotività.
Tranne alcuni casi come Barbablù (1976) o Er nimmt Sie and der Hand, folgen...tratto dal Macbeth
(1978), i suoi spettacoli sviluppano trame policentriche e destrutturate nate a partire dal lavoro e
dall’interazione quotidiana in studio coi danzatori.

Il processo creativo è sempre più incentrato sulle domande che Pina Bausch rivolgeva ai danzatori
per esplorare con loro i sentimenti e le situazioni da cui elaborare una drammaturgia complessiva e
che riguardavano l’identità, il ricordo, il desiderio, e in larga parte il rapporto uomo-donna. In realtà
“il metodo delle domande” era più una modalità di ricerca e di lavoro che un vero e proprio metodo.
A queste domande i danzatori potevano rispondere in vario modo ovvero a parole, ma anche
utilizzando la danza e il canto. Da questi materiali improvvisazioni prendeva vita la seconda fase
della creazione che consisteva in cui Pina Bausch organizzava le improvvisazioni tramite un lavoro
di montaggio.
Lo stile coreografico è caratterizzato da azioni simultanee, processioni, défilés e rimandi più o meno
espliciti a sue opere precedenti. L’assenza di vere e proprie storie e l’atmosfera spesso surreale dei
suoi spettacoli favoriva un’interpretazione aperta, in cui l’unica logica apparente era quella
irrazionale delle passioni e dei sentimenti, anche i più nascosti. In scena i danzatori non
rappresentavano dei veri e propri personaggi, bensì dei tipi, rappresentanti di un’umanità complessa
fatta di uomini e donne spesso incapaci di comunicare tra loro. I costumi erano simili agli abiti,
spesso da sera, indossati nella vita reale e che tendevano a enfatizzare i ruoli di genere fissi e anche
stereotipati.

Nella storia del teatro e della danza Café Müller, creato nel 1978, e dunque dopo circa cinque anni
dopo il suo insediamento a Wuppertal, è lo spettacolo che ha annunciato il talento di Bausch oltre i
confini nazionali. Rientra dunque in una fase di passaggio situata a cavallo tra quella che si
potrebbe definire “degli esordi” e quella degli anni ‘80, nella quale Pina Bausch si è avvicinata a
un’idea di progettualità teatrale totale dove danza, musica, arti visive e plastiche, oltre all’uso del
testo e della parola, partecipano tutte alla costruzione di un linguaggio scenico pluridisciplinare.
Il pubblico di Wuppertal, che aveva faticato a metabolizzare un’estetica coreutica non più legata al
codice ballettistico e frutto, piuttosto, di un sapiente equilibrio tra il recupero della tradizione del
moderno e l’adesione al presente, si convinse della qualità sottesa a questa proposta artistica anche
grazie a questo che divenne lo spettacolo-manifesto della sua visione del Tanztheater.
Café Müller ebbe un incipit ben diverso dalla sua storia successiva anche in Germania. Nacque,
infatti, per riempire una lacuna della programmazione del teatro il 20 maggio 1978, che fu riempita
con una singolare committenza di Bausch ad altri tre coreografi: Gerhard Bohner, Gigi-George
Caciuleanu e Hans Pop (all’epoca assistente di Bausch). Bausch firmò il quarto pezzo e tutti furono
presentati come opere indipendenti all’interno di un’unica serata che aveva in comune soltanto il
titolo, lo spazio scenico ideato da Borzik e pochi elementi: l’oscurità, quattro persone, qualcuno che
aspetta, qualcuno che cade e si rialza, l’arrivo di una giovane ragazza dai capelli rossi, il silenzio.
Quello di Pina Bausch è stato l’unico di questi pezzi a vincere la sfida tempo, malgrado la sua breve
durata (una quarantina di minuti), che non ne ha mai consentito l’esistenza come spettacolo a serata
intera. Quasi sempre programmato insieme a Das Frühlingsopfer (La Sagra della primavera, 1975),
dopo avere viaggiato in un numero notevole di paesi ed essere stato ininterrottamente riallestito dal
Tanzteather Wuppertal Pina Bausch dal 1978 fino a oggi con i danzatori originari e con coloro
che ne hanno ereditato i ruoli, Café Müller è stato celebrato nel suo quarantennale mostra allestita
dalla Fondazione Bausch presso il foyer del Wuppertaler Schauspielhaus. Le fotografie di Rolf
Borzik, Ulli Weiss, Guy Delaheye e Maarten Vanden Abeele, e alcuni video inediti hanno
testimoniato la storia e la memoria di un grande classico del Tanztheater.

Raimund Hoghe (in Pina Bausch. Histoires de théâtre dansé, 1987), che è stato per circa un
decennio Dramarturg per Pina Bausch, ha pubblicato in forma di resto performativo la sequenza di
associazioni di idee utilizzata dalla coreografa durante il processo creativo di questo Stück, per
usare una denominazione introdotta solo in seguito:

Café Müller, associazione di idee. Un lamento d'amore. Ricordarsi, muoversi, toccarsi.


Adottare degli atteggiamenti. Svestirsi, confrontarsi, scivolare sul corpo dell’altro. Cercare
ciò che è andato perduto, la prossimità. Non sapere cosa fare per piacersi. Correre verso i
muri, gettarvisi contro, lanciarvisi e ferirsi. Crollare e risalire. Riprodurre ciò che si è visto.
Seguire i modelli. Voler diventare uno. Essere ignorati, abbracciarsi. He is gone. A occhi
chiusi. Andare l’uno verso l’altro. Sentirsi. Danzare. Volere ferire. Proteggere. Mettere da
parte gli ostacoli. Dare spazio alla gente. Amare.
Questa serie di intenzioni e aspirazioni, rese dall’accumulo di verbi all’infinito che indicano
un’azione, si traduce coreograficamente in una successione di traiettorie di movimento che danno
senso a quel luogo indefinito trasformandolo in uno spazio vissuto in cui abitano sentimenti
contrastanti: la solitudine, l’ignoto, l’incomunicabilità, la diversità dell’altro, la tristezza, la
malinconia, la ricerca di conforto e di protezione, l’aggressività, l’amore, la separazione....
Lo spazio scenico, appare al tempo stesso irreale e materiale, sagomato com’è da un sapiente uso
delle luci e da pochi oggetti scenici. La parete che delimita posteriormente la scenografia è in larga
parte una vetrata interrotta da una porta girevole, mentre altre due porte poste lungo le pareti laterali
rendono possibile l’entrata e l’uscita dei vari personaggi, e collegano questo mondo con l’esterno, il
sogno con la realtà. Ma questo spazio è delineato anche dagli sguardi di alcuni dei danzatori, che ne
estendono i confini ben oltre i limiti fisici; d’altro canto, l’incedere a occhi chiusi degli altri, lo fa
implodere, riducendolo a una dimensione più intima e raccolta. L’attenzione dello spettatore è così
dirottata verso la dimensione interiore delle interpreti, che danzano guidate soprattutto dalla propria
sensibilità tattile, qui estesa a tutto il corpo.
Uomini e donne vi convivono, tentando molte possibilità di relazione, più o meno fallimentari.
L’atmosfera onirica in cui sono immersi questi corpi danzanti accoglie una vasta gamma di azioni
concrete (“ricordarsi, muoversi, toccarsi” ma anche “adottare degli atteggiamenti” e ancora
“svestirsi, confrontarsi, scivolare sul corpo dell’altro [...] correre verso i muri, gettarvisi contro,
lanciarvisi e ferirsi . [...] crollare e risalire”), che li segnano e li trasformano. Guardate l’inizio dello
spettacolo con gli interpreti della prima versione:
https://www.youtube.com/watch?v=WZd2SkydIXA

I ruoli femminili sono tre, originariamente interpretati da Pina Bausch, Malou Airaudo (che
rappresenta il suo doppio o meglio ancora il suo contrappunto) e Maryl Tankard, il personaggio
femminile dai capelli rossi.
I personaggi maschili sono due e interpretati da Dominique Mercy e Jan Minarik. Il terzo ruolo
maschile (originariamente affidato a Rolf Borzik, ovvero all’ideatore di scene e costumi oltre che
dell’impianto di tutto lo spettacolo insieme a Pina Bausch, di cui era all’epoca il compagno, e dopo
la sua prematura scomparsa passato a Jean-Laurent Sasportes, “l’uomo con gli occhiali”). Il
compito di questo personaggio è spostare continuamente le sedie che intralciano le traiettorie delle
due danzatrici che avanzano come sonnambule a occhi chiusi, mentre l’uomo che sposta le sedie e
la donna dai capelli rossi sembrano appartenere a un’altra dimensione spazio-temporale. Dunque
due piani coesistono paralleli, quello della realtà e quello del sogno.

Café Müller invita lo spettatore nel labirinto emozionale delle donne e degli uomini che popolano la
scena. La musica di Henry Purcell, con le arie tratte dalle partiture di The Fairy Queen e Dido et
Aeneas, conferisce al tutto una grande solennità. Il tema della separazione amorosa, del dolore e
della disperazione sono centrali anche nel bosco delle fate, dove tutto è possibile e in cui la realtà si
svela attraverso la lente della magia e del sogno - proprio come a teatro - e in cui vivono Oberon,
Titania, Puck e gli altri personaggi di The Fairly Queen.

Riverbero fisico di un profondo dolore interiore e di un’angoscia esistenziale senza tempo, ma


anche inno alla vita e canto d’amore, Café Müller ci parla di donne e di uomini privi di nome e dalle
movenze incerte, eppure assolutamente credibili nel restituirci un’ampia gamma di sentimenti, dalla
perdita alla malinconia, dallo slancio alla delusione, dalla solitudine al desiderio. Queste presenze
sono anche indissolubilmente legate a quelle di una quarantina di sedie e qualche tavolino, che in
più momenti disturbano l’incedere dei danzatori. Grazie al pronto e salvifico intervento de “l’uomo
con gli occhiali” (ruolo che fu originariamente di Rolf Borzik) lasciano campo libero ai corpi in
costante movimento (“mettere da parte gli ostacoli”).
La scrittura coreografica di Café Müller, si caratterizza anche per la ripetitività dei movimenti come
nella celebre scena della caduta, in cui Malou Airadou e Dominique Mercy tentano invano di restare
abbracciati, ma la donna inesorabilmente cade al suolo nonostante l’aiuto di Jan Minarik che si
impegna sistematicamente a riportarli nella posizione di partenza.
Guardate nel video questa che è tra le più note del Tanztheater:
https://www.youtube.com/watch?v=WZd2SkydIXA (min 10.40-16.30)

Molti critici hanno riconosciuto un’autorialità condivisa con Rolf Borzik, ideatore della scenografia
oltre che del concetto stesso di una scena agìta e costantemente trasformata dai danzatori, ma che a
sua volta li sfida e li stimola. Altrettando evidente è parsa la co-autorialità dei danzatori originari
della coreografia di Pina Bausch, alle cui sembianze fisiche e alla presenza siamo soliti ricollegare i
nostri ricordi di questo spettacolo insieme alla danza e alla coreografia in senso stretto.
Azioni e transiti si sono impressi nella memoria del pubblico avvolti dalle note di Dido and Aeneas
e The Fairy Queen di Henry Purcell, che a loro volta evocano relazioni amorose e
visioni di boschi incantati e luoghi fantastici in cui la realtà si svela attraverso la lente della magia e
del sogno. L’ambiente sonoro è anche carico dei rumori prodotti dalle sedie e dei tavolini che
cadono e dai corpi che li urtano. La coreografia è caratterizzata in particolare dalla reiterazione
ostinata e a tratti ossessiva di sequenze di movimenti e gesti che con un crescendo di velocità, ritmo
ed energia, hanno contribuito ad affermare la cifra stilistica e la poetica di Pina Bausch, ma anche
certamente alla permanenza della traccia mnestica lasciata da questa esperienza sensoriale nel
pubblico.
La coazione a ripetere la stessa azione trasforma il senso delle azioni e porta a un’astrazione che ci
fa leggere quei movimenti - e le relazioni che producono - come portatori di significati
apparentemente incongruenti e forse proprio per questo così capaci di toccare in noi le corde più
diverse.

La prova che Café Müller è divenuto un classico della coreografia europea e una presenza quasi
mitica nell’immaginario collettivo, sono le citazioni di gesti e movimenti presenti anche nel cinema.
In Habla con ella (2002), Pedro Almodovar ha inserito il passaggio del video dello spettacolo in cui
Pina Bausch avanza con le braccia tese e gli occhi chiusi tra le sedie e i tavolini sparsi per rendere
l’immagine del limbo in cui vive il protagonista della storia in coma. Il potere performativo dei suoi
occhi chiusi è funzionale a marcare la frattura spazio-temporale causata dalla messa in scena
dell'assenza di un passato vissuto nel presente.

Alcuni frammenti di Café Müller appaiono anche nel film di Wim Wenders Pina (2011) –
disponibile anche in versione 3D – in cui il regista tedesco racconta la sua visione del Tanztheater.
Il montaggio e la regia enfatizzano quanto le immagini dei corpi in movimento vivano in una
singolare compresenza di presente e passato, di attuale e virtuale, di reale e di rappresentato. Ciò
che era presente quando è stato filmato, sullo schermo appare sotto forma di assenza di quel
presente, mentre il montaggio collega frammenti di memorie audiovisive a testimonianze affettive.
In queste immagini di Café Müller la logica cronologica della narrazione è messa, dunque, in crisi
per fare affiorare tutta la forza della memoria (soggettiva) di un passato che agisce nel presente.

Café Müller oltre a essere in repertorio del Tanztheater Wuppertal continuativamente dal 1978 e a
essere stato rappresentato nei teatri di tutto il mondo e essere stato trasmesso ad altri interpreti
interni alla compagnia, vive oggi anche nei corpi dei danzatori del Balletto Reale delle Fiandre,
diretta dal coreografo Sidi Larbi Cherkaoui, che ne ha acquisito i diritti d’autore nel 2017. Si tratta
di una decisione importante per il Tanztheater Wuppertal che ha ceduto i diritti di pochissimi pezzi
del suo repertorio negli anni. I danzatori coinvolti nell’insegnamento della coreografia sono Malou
Airaudo, Dominique Mercy, Jan Minarik, Helena Pikon, che negli ultimi anni ha danzato il ruolo
inizialmente interpretato da Pina Bausch), Jean- Laurent Sasportes (il danzatore che a lungo ha
interpretato il ruolo originariamente appartenuto a Rolf Borzik, ‘l’uomo con gli occhiali’) e Azusa
Seyama. Guardate in questo documentario come avviene la trasmissione di un pezzo di repertorio:
https://vimeo.com/230475757
THE SHOW MUST GO ON – JÉRÔM BEL

The Show Must Go On (2000) suonato Deutsche Schauspielhaus di Amburgo e nel 2001 al Théâtre
de la Ville di Parigi (2001).
La poetica di Jérôme Bel si sviluppa lungo un arco temporale di oltre vent’anni dopo che per circa
due anni ha smesso di danzare per dedicarsi unicamente alla lettura.
Tra gli autori che hanno maggiormente influenzato il suo pensiero il semiologo e filosofo Roland
Barthes ha un ruolo centrale.
Jérôme Bel è mosso dall’idea di riportare al centro del teatro la questione della rappresentazione, il
teatro è un dispositivo e Bel lo analizza, lo smonta e lo rimonta in modo sempre diverso per mettere
a fuoco il suo sistema di funzionamento.
The Show Must Go On fa luce sul ruolo del pubblico che diventa una sorta di co-protagonista,
espone tutti gli elementi di uno spettacolo di danza sezionandoli e poi riassemblandoli per fare in
modo che il pubblico li viva in modo diverso suscitando così in lui una riflessione su cos’è la danza
(e cos’è il teatro); lo scopo di Bel è far conoscere al pubblico la danza e il teatro in modo diverso.
Di fronte al proscenio un disc jockey lentamente prende posizione dietro una scrivania con un
lettore CD e una pila di CD; sarà lui a cambiarli nel corso della serata suonando un totale di 19
canzoni pop molto famose che formano la struttura drammaturgica del pezzo da cui prendono vita e
dipendono le azioni dei danzatori che non creano situazioni drammatiche e si attengono solo alla
regola; non c’è personalità, non ci sono personaggi, solo obbedienza alla regola, fanno lo stretto
necessario.
The Show Must Go On segue una drammaturgia seriale e sviluppa una linea di pensiero logica e
coerente fino all’ultima scena. Con il progredire dei brani musicali via via suonati lo spettatore
capisce che Bel sta raccontando una storia di creazione e di morte, la creazione di un intero mondo
sul palcoscenico dalle tenebre alla luce e dalla vita alla morte e alla resurrezione. Questo spettacolo
ha dunque un inizio, una metà e una fine.
All’inizio il palcoscenico è immerso nel buio e per un tempo molto lungo (10 minuti) non succede
nulla, il pubblico resta in attesa di ciò che avverrà. Tutto ciò che accade sul palco è ambientato in un
vuoto che circonda e mette in primo piano l’azione e i corpi, questo permette letteralmente ai corpi
e alla scena di emergere per quello che sono, corpi, ma li porta anche via quasi inghiottendoli
nell’oscurità.

All’inizio c’è solo la parola “stasera” (brano: Tonight) ovvero la promessa che fa agli spettatori ed
equivale alla promessa di ogni serata teatrale prima che si alzi il sipario. Poi viene introdotta la luce
che separa la notte dal giorno (brano: Let the Sunshine in, dal musical Hair), l’illuminazione diventa
sempre più forte e progredisce insieme al brano musicale, il palco è ancora vuoto e il pubblico resta
in attesa che qualcosa accada. Con il nuovo pezzo musical (brano: Come Together, dei Beatles) gli
interpreti salgono sul palco con i loro abiti da strada o da prova e si dispongono in semicerchio. Con
la canzone successiva è chiaro quello che i performer intendono fare (brano: Let’s Dance, di David
Bowie), iniziano a muoversi ballando come se fossero in discoteca fino a quando il ritornello si
affievolisce e l’azione si ferma ancora una volta. Lo spettatore inizia a capire che i performer fanno
sempre esattamente, ovvero alla lettera, quello che il testo dice loro di fare e assumono la loro
posizione di soggetto all’interno della struttura coreografica drammaturgica. Per esempio, la
funzione di autore-come-donna è resa visibile con una danzatrice che sale sul palco e balla da sola
(brano: Private Dancer, di Tina Turner), e ancora attraversano il palcoscenico alla ricerca di un
partner da tenere per mano durante la canzone successiva (brano: Into My Arms, di Nick Cave).
Durante la canzone successiva uno dei partner cade in avanti con il corpo rigido e le braccia tese
come l’attrice Kate Winslett nel film Titanic che nella sua colonna sonora ha interpretato la canzone
di Céline Dion, tutti sappiamo che il Titanic affonda e se il teatro è dotato di una botola nel
pavimento i danzatori affondano, altrimenti escono semplicemente di scena (brano: My Heart Will
Go On, di Céline Dion). Ironicamente Jérôme Bel però li lascia vivere e una luce gialla penetra il
palcoscenico dal fondo (del mare) mentre sentiamo da lontano gli interpreti cantare in coro (brano:
We all live in a yellow submarine, The Beatles). Il palcoscenico illuminato di una luce rosa che
svanisce verso la fine della canzone segna una pausa (brano: La vie en Rose, di Edith Piaf). La
scena rimane completamente al buio durante tutto il brano successivo che invita il pubblico a
immaginarsela (brano: Imagine, di John Lennon). Durante il brano successivo il silenzio diventa
udibile mentre gli spettatori riempiono mentalmente il vuoto del noto titolo della canzone (brano:
The Sound of Silence, di Simon and Garfunkel). Dopo questo brano i performer tornano dal loro
lungo esilio dal palcoscenico per formare una fila e cominciano subito a guardare il pubblico molto
intensamente (brano: Every Breath You Take, The Police). La qualità dei loro sguardi cambia con il
brano successivo durante il quale cercano di stabilire un contatto visivo diretto con le persone
nell’auditorium per “colpirle” (brano: I Want Your Sex, di George Michael). Durante il brano
successivo sprofondano tutti lentamente a terra morendo (brano: Killing Me Softly, di Roberta
Flack) e si rialzano solo con le note del brano successivo che dà il titolo a tutto il pezzo e che
descrive la nascita di un mondo usando le parole e i corpi che li seguono fino alla loro morte e
resurrezione ovvero l’apice drammatico che segna la fine dello spettacolo (brano: The Show Must
Go On, Queen).

Jérôme Bel non mira a rappresentare un corpo carico di pathos (come ci si aspetta spesso dalla
danza e come storicamente è stato per la danza moderna) bensì un corpo che esiste solo grazie al
supporto della drammaturgia e del linguaggio verbale.
Jérôme Bel (sulla scorta del pensiero di Ronald Barthes) chiarisce che il linguaggio è un fenomeno
pervasivo creato e rappresentato sul palcoscenico che permea i corpi e da cui dipendono le loro
azioni e le loro interazioni, il corpo non è natura ma cultura.
Il ruolo del DJ è cruciale in quanto artefice del linguaggio in quest’opera coreografica, è una figura
quasi divina che dona le parole e permette sia l’azione sia la comunicazione, rappresentata anche
Jérôme Bel nei panni del coreografo ovvero l’autorità e il potere in quanto dirige i danzatori con le
parole (descrizioni in azioni, emozioni, intenzioni); in The Show Must Go On questo ruolo è parte
integrante della performance.
I performer compiono azioni che chiunque può compiere, non si avvalgono di conoscenze
particolari, non dimostrano una particolare abilità e in questo senso disattendono le aspettative del
pubblico che solitamente a teatro vuole assistere a dimostrazioni di talento/virtuosismo. La storia
non si sviluppa senza conflitto solo che il conflitto si sposta sulla scena a una zona tra il
palcoscenico e il pubblico, spettatori e performer sono entrambi partecipi di un evento, il conflitto si
sposta dalla trama messa in scena al contratto sociale ed economico tra scena e auditorium, tra
performer e spettatori; ciò che resta è solo il fatto che si guardano reciprocamente in tutta la nostra
banalità e gioia di vivere.
In questo senso sono gli spettatori che creano The Show Must Go On e le loro reazioni sono le più
diverse a seconda del grado di comprensione, del meccanismo e del gradimento della provocazione.
Alcuni spettatori durante lo spettacolo si sono riversati sul palcoscenico per cantare e ballare con i
performer, altri hanno interrotto lo spettacolo, altri ancora sono usciti dal teatro sbattendo la porta o
chiedendo il rimborso del biglietto.
Un esempio di come Bel crea una zona di conflitto ma anche di convivenza tra scena e pubblico è
quando con “My Heart Will Go On” di Céline Dion i due performer si sporgono in avanti verso il
fronte del palcoscenico (quindi verso il pubblico) e la disposizione spaziale trasforma il pubblico in
una nave con i performer che occupano la prua/scena e il pubblico seduto dall’altra parte della
nave/teatro. La prua/scena e l’estensione della nave/auditorium appartengono alla stessa
dimensione, il palcoscenico continua a esistere come spazio di presentazione e proiezioni distinto
dall’auditorium. Questa differenza minima mantiene lo spettacolo all’interno del sistema di
rappresentazione teatrale conservando la distanza riflessiva tra il pubblico e la scena. Performer e
spettatori sono entrambi diversi rispetto al modo in cui tradizionalmente esercitano il loro ruolo ma
esercitano le stesse competenze sulla base degli stessi codici.
Lo spettacolo ci dà tempo per posizionarci nel nostro ruolo di spettatori che è sempre critico e attivo
e mai passivo come sostiene Jaques Rancière in Lo spettatore emancipato (2018, ed. or 2008). Nelle
opere coreografiche di Jérôme Bel e in The Show Must Go On la logica della rappresentazione viene
sostituita dalla logica del mostrare la scena e gli elementi che la costituiscono. Bel afferma che:
“Più gli spettatori ci vedono fare cose stupide, più diventano intelligenti”.

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