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Prefazione 7
La teoria delle rivoluzioni passive è uno dei temi più frequentati dalla
recente critica gramsciana. Messa a fuoco nel corso degli anni Settanta, que-
sta categoria ha sollecitato numerose analisi e diversi tentativi di attnaUzza-
zione, specie per la lettura dei processi di modernizzazione extra-europei,
dall'America Latina alla Turchia. Gramsci la raccolse, con la mediazione
di alcuni testi più recenti, dall'opera di Vincenzo Cuoco sulla rivoluzione
napoletana del 1799, anche se essa proveniva da una lunga vicenda intellet-
tuale, che risaliva almeno ai Rights ofMan di Thomas Paine e ad altri autori
italiani, come Michele Natale e Francesco Lomonaco. Certamente fu colpito
dalla dissonanza tra il sostantivo e l'aggettivo, che gli sembrava esprimere
un tratto saliente del ciclo delle rivoluzioni borghesi, al cui interno si col-
locava, in una posizione esemplare e come caso nazionale, il Risorgimento
italiano. L'ossimoro del lemma rifletteva lo sviluppo paradossale della tran-
sizione all'Europa moderna. Da un lato il sostantivo sottolineava il carattere
di autentico progresso disegnato dalla storia ottocentesca, conseguito senza
la ripetizione di esplosioni violente, con interventi "dall'alto" e ondate rifor-
mistiche capaci di assimilare alcune esigenze dell'avversario di classe. D'al-
tro lato l'aggettivo indicava la persistente "passività" delle classi subalterne,
le quali, a differenza di quanto era accaduto nei movimenti di tipo giacobino,
non avevano partecipato al processo storico, restandone ai margini. Questi
due tratti - rivoluzione, passività - detenninano con sufficiente precisione il
dominio semantico della formula.
In un significato iniziale la teoria delle rivoluzioni passive rappresenta
un'articolazione e uno svolgimento del motivo che Marx ed Engels aveva-
no inaugurato nel Manifesto comunista e che Marx aveva ulteriormente in-
dagato nei suoi scritti storici. Il carattere «versteckten», latente, del conflitto
8 Rivoluzioni passive
cominciare dal concetto stesso di praxis, che per Labriola indicava l 'ope-
razione essenziale del lavoro umano, come mediazione con la natura e co-
stituzione di un "terreno artificiale", di un distacco della storia umana dalla
storia naturale, e in Gramsci acquistò il carattere della ragione politica, della
formazione delle volontà collettive e dei soggetti moderni della democrazia.
Nel quarto saggio postumo (Da un secolo all'altro) Gramsci poteva leggere
una compiuta distinzione tra «storia attiva» e «storia passiva» nell'àmbito
di una considerazione complessiva del ciclo delle rivoluzioni borghesi e,
in particolare, l'applicazione di questo paradigma alla storia d'Italia e al
Risorgimento, con la conclusione che «il risorgimento italiano s'è svolto
tutto per entro al secolo decimonono; ma ci si è svolto più nel senso della
storia passiva che in quello della storia attiva». Parole che non ricordò nei
quaderni, che almeno non trascrisse né commentò in forma diretta, ma che
certamente conosceva e ricordava e che, con ogni probabilità, contribuirono
alla costruzione del suo modello interpretativo.
La filosofia della praxis (formula derivata dal terzo saggio di Labriola
sul materialismo storico) costituisce il programma teorico dei Quaderni
del carcere e la base di tutta la concezione dell'egemonia, in una relazio-
ne di fondazione reciproca. L'errore del marxismo della Seconda e della
Terza Internazionale era indicato da Gramsci nell'incapacità di sviluppare
una propria visione del mondo e della storia, una autonoma.filosofia, re-
stando perciò a uno stadio rozzo e "corporativo". Il nuovo livello della
lotta rivoluzionaria presupponeva la soluzione di questo problema, la ri-
congiunzione di teoria e prassi, non in un senso astrattamente speculativo
ma come teoria della soggettività, della costituzione del soggetto politico
moderno, lungo la linea indicata da Marx nella Prefazione a Per la critica
dell'economia politica: «come nasce il movimento storico sulla base della
struttura?». Ecco la radice della filosofia della praxis e il motivo della ri-
cerca inquieta sul rapporto fra struttura e superstrutture, scolpito dapprima
nella metafora del blocco storico, ripresa da Georges Sorel, poi rielaborato
nella più plastica teoria dei "rapporti di forza".
La rivoluzione passiva discende dunque dalla concezione dell'egemo-
nia e ne indica la condizione storica indispensabile. È proprio nella rivo-
luzione passiva continentale, ossia nel processo storico della rivoluzione
borghese, che si afferma una nuova figura dello Stato, uno Stato integrale e
allargato, capace di combinare l'elemento politico e quello sociale e di su-
perare l'antica visione puntuale della sovranità. Fin dal Quaderno 1 Gramsci
riconobbe nella immagine hegeliana della bfirgerliche Gesellschaft, nella
«società civile», la maggiore scoperta del pensiero politico moderno. Hegel
10 Rivoluzioni passive
M.M.
1. Nella edizione critica del 1975, Valentino Gerratanariportò lanotain corpo minore,
classificandola nell'apparato critico come «testo A» e aggiungendo queste parole: «non
risulta però ripreso nei testi C (inedito)». Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di
V. Gerratana, 4 voli., Torino,Einaudi, 1975, p. 504 e p. 2654. La nota, indicata da Gerratana
come §57 del Quaderno 4, non era stata inserita nell.. edizione tematica, apparsa per Einaudi
a cura di Felice Platone tra il 1948 e il 1951.
2. A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione anastatica dei manoscritti a cura di
G. Francioni, 8 voli., Cagliari, L . Unione sarda, 2009, p. 85 {Q4, c. 34r).
3. Ivi, p. 39 (Q4, c. llr).
4. A. Gramsci, Note sul problema meridionale e sull Iatteggiamento nei suoi corifronti
dei comtmisti, dei socialisti e dei democratici, in L. Sturzo, A. Gramsci, Il Mezzogiorno
e l'Italia, a cura di G. D'Andrea e F. Giasi, Roma, Studium, 2013, pp. 161-196 (con una
importante Introduzione di Giasi alle pp. 139-159). Il tema degli intellettuali, indicato nel
16 Rivoluzioni passive
saggio del 1926, trova un primo sviluppo nel Quaderno 1: A. Gramsci, Quaderni del car-
cere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), tomo I, a cura di G. Cospito, G. Francioni e
F. Frosini, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2017, pp. 34-48 (Ql, cc. 20v-29v).
5. Ivi, p. 780 (Q4, c. 17r).
6. Per la datazione cfr. G. Cospito, Verso l'edizione critica e integrale dei «Quaderni
del carcere», in «Studi storici», 52/4 (2011 ), pp. 881-904: p. 898 e G. Francioni, Nota in-
troduttiva. in Gramsci, Quaderni del carcere, ed. anast., pp. 2-6.
7. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), L p. 812
(Q4, c. 34r).
8. Per ulteriori infonnazioni sulla storia del testo, si veda A. De Francesco, Introduzione.
Una difficile modernità italiana, inV. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, a cura
di A. De Francesco, Roma-Bari, Laterza, 2014, pp. VII-CXXIII. Dello stesso De Francesco si
veda, per la biografia, V-mcenzo Cuoco. Una vita politica, Roma-Bari, Latcrza, 1997. Osscr-
,.-azioni sulle edizioni del Saggio e sul loro uso da parte di Gramsci, nonché sulle alterazioni
successive del titolo, in A. Di Meo, La «rivoluzione passiva» da Paine a Cuoco a Gramsci. in
Id.,Decifrare Gramsci. Una letturafi/o/ogica, Roma, Bordeaux, 2020, pp. 88-133.
I «paesi che ammodernarono lo Stato» 17
nella lettera a Tatiana Schucht del 23 agosto 1933, dei due volumi dell 'an-
tologia crociana sui Poeti e prosatori d'Italia curati nel 1927 da Floriano
Del Secolo e Giovanni Castellano. 12
Induetestipiùtardi, dell'aprile-maggio 1933 edel 1934-1935, Gramsci
mostrò un ricordo più preciso della posizione di Cuoco, arrivando a segnare
una distinzione fra la sua elaborazione della rivoluzione passiva e quella
contenuta nel Saggio storico del 1801. Nel Quaderno 15 (c. 13rv) scrisse in-
fatti che «la trattazione di Vincenzo Cuoco», restando «il punto di partenza
dello studio», «non è che uno spunto, poiché il concetto è completamente
modificato e arricchito». 13 Nel Quaderno 19 (c. 68r) aggiunse che impiega-
va «un'espressione del Cuoco in un senso un po' diverso da quello che il
Cuoco vuole dire». 14 Rispetto al passaggio iniziale del Quaderno 4, queste
due notazioni attestano una riflessione ulteriore sul contenuto del Saggio
storico e una presa d'atto degli sviluppi imprevedibili che, nella propria
elaborazione, aveva ormai assunto il dossier sulle rivoluzioni passive.
12. Il 7 agosto 1933 Tatiana gli aveva scritto di avere «ideato» di «inviare [ ... ] la
Storia d«la l<ltteratura italiana del Croce per Giuli~ che ho già comprato molto tempo fa».
Nella lettera del 23 agosto Gramsci rispondeva: «penso che sia meglio che tu non spedisca
a Giulia i volumi di cui mi hai accennato; credo si tratti di un 'antologia di scritti del Croce
compilata dal prof. Floriano del uSecolon, ad uso delle scuoi~ che mi pare completamente
fallita. Non capisco perché tu l'abbia acquistata, credendo che io te l'avessi indicata. lo
ti avevo indicato due opere: La storia d<Jlla l<Jtte.ratwa italiana di Francuco D<l Sanctis
(ediz. Treves con note di Paolo Arcari) e la Storia d<Jlla l<Jtteratura italiana di Vittorio Rossi
(ediz. Vallardi)» (A. Gramsci, T. Schucht, L<Jtt<lr<J 1926-1935, a cura di C. Daniele e A. Na-
toli, Torino, Einaudi, 1997, p. 1336 e pp. 1340-1341 ). Il riferimento è a B. Croce, Po<Jti <l
prosatori d'Italia. 1. Da Dante a Cuoco, 2. Da Alfieri a Pascoli, a cma di F. Del Secolo e
G. Castellano, Bari, Laterza, 1927.
13. Gramsci, Quaderni dm COTC<lr<l, p. 1775.
14. Ivi,p.2011.
Benedetto Croce e il «contraccolpo» 19
tata, perché esso, spiegava, è «esatto non solo per l'Italia» ma «anche per gli
altri paesi». Non si trattava solo di un principio valido per illustrare le rivolu-
zioni del 1799, ma di un canone generale per i processi di modernizzazione
politica, i quali, dunque, potevano essere concepiti o nella forma «radicale-
giacobina» o in quella passiva, per via di riforme o di guerre. Inoltre, nella
battuta iniziale Gramsci definiva erroneamente il «concetto» di Cuoco come
«contraccolpo delle guerre napoleoniche». Il primo autore ad adoperare quel
vocabolo - «contraccolpo» - era stato Benedetto Croce, il quale, nella pre-
fazione all'edizione in volume del 1897 degli Studi storici sulla rivoluzione
napoletana del 1799, datata «Napoli, giugno 1896», aveva infatti ricordato
la formula della rivoluzione passiva ed era ricorso a quella stessa espressio-
ne («contraccolpo») poi usata da Gramsci.15 Lo aveva fatto in un libro che
Gramsci certamente conosceva fin dalla giovinezza e che ricorderà, sia pure
genericamente, in un passaggio rilevante del Quaderno 10, dove non a caso
tornerà in discussione il tema della rivoluzione passiva. 16 Un libro, occorre
aggiungere, non conservato nel Fondo Gramsci e che non risulta in alcuna
richiesta o annotazione bibliografica del periodo carcerario (a differell7.8 di
altri testi crociani). Nulla dunque sembrerebbe autorizzare l'ipotesi di una
rilettura in quei giorni del novembre 1930.
Che Gramsci non avesse sotto gli occhi il testo di Croce, può esse-
re verificato da un confronto tra le due posizioni. Come abbiamo visto,
nel Quaderno 4 la rivoluzione passiva era definita un «contraccolpo delle
guerre napoleoniche». Molto diverso era l'argomento adoperato da Croce.
Nella Prefazione del 1896 Croce osservava che «i fatti accaduti in Napoli
nel 1799» non furono «la conseguenza o la catastrofe di uno svolgimento
importante e originale»; per questo (aggiungeva, consapevole dell'uso che
della locuzione altri avevano fatto prima o indipendentemente da Cuoco),17
15. Il volume, nella edizione Loescher del 1897, recava la dicitura «21 ed. [izione]
corretta ed accresciuta». In realtà non esiste una prima edizione del libro, ma solo quella dei
saggi raccolti e pubblicati a partire dal 1887 (Eleonora de Fonseca Pimentel, in «Rassegna
degli interessi femminili>>, 1 (1887), pp. 295-306, 359-370, 425-435, 485-500). Dalla terza
edizione «aumentata» (Bari, Latcrza, 1912) il titolo divenne La rivoluzione napoletana del
1799. Biografie, racconti, ricerche.
16. Gramsci, Quaderni del carcere, p.1227 (Ql0, c. 46v).
17. Di rivoluzione passiva avevano parlato Michele Natale, vescovo di Vico Equense:,
in una lettera del 30 aprile 1799 (M. Natale, Credo in Dio e nella democrazia. Catechismo
repubblicano per l'istruzione del popolo e rovinade'tiranni, a cura di G. Acocella, Roma,
Edizioni Lavoro, 1998, p. 33) e Francesco Lomonaco nel Rapporto al cittadino Camot
del 1800-1801 0/. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, a cura di
20 Rivoluzioni passive
F. Nicolini, Bari, Latcrza, 19292, p. 343). Cfr. F. Tessitore, Vincenzo Cuoco e la rivoluzio-
ne napoletana del 1799, in Id., Nuovi contributi alla storia e alla teoria dello storicismo,
R~ Edizioni di storia e lettera~ 2002, p. 86.
18. Croce, La rivoluzione napoletana del 1799, p. VII.
19. Ivi, p. VIII.
20. Ivi, p. IX.
21. Ivi, p. XI.
22. Ivi, pp. VII-VIII.
Benedetto Croce e il «contraccolpo» 21
23. lvi, p. X.
24. B. Croce, Lafi/osofia di Giamballista Vico, Roma-Bari, Laterza, 19804,p. 123.
25. B. Croce, La storiografia i11 Italia dai cominciamenti del secolo decimo11ono ai
giorni nostri. L R «secolo della storia», in «La Critica», 13 (1915), pp. 1-20.
26. B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, a cura di
M. Diamanti, 2 voli., Napoli, Bibliopolis, 2019, I, pp. 18-22.
22 Rivoluzioni passive
I'utopia», in una repubblica illusoria, basata sui «bisogni e gli usi del popo-
lo» nazionale, che non esisteva e non avrebbe potuto esistere nella realtà. 27
In effetti, tutta la storia che Croce aveva tracciata era fondata sulla negazio-
ne di quel vano «indigenismo»,28 che proprio Cuoco aveva accreditato, mo-
strando, passo dopo passo, una vicenda di circolazione delle idee e di con-
taminazione della cultura meridionale, nel fecondo assorbimento, da parte
delle élites intellettuali, del cartesianesimo, dell'illuminismo, del liberali-
smo. Per questo, all'inizio del capitolo, aveva stabilito la precisa periodiz-
zazione dei settant'anni di storia napoletana, dall'irruzione dell '«impetuosa
corrente della Rivoluzione francese»29 al 1860, quando l'intero ciclo era
sfociato nella costruzione dell'unità nazionale italiana. A differenza di
cuoco, insomma, per Croce era stata la conversione al «giacobinismo», 30
1'adesione alle idee che avevano plasmato gli eventi rivoluzionari france-
si, a generare la forza attiva di una «minoranza» intellettuale, una nuova
«religione»31 destinata a espandersi, attraverso il flusso dell'emigrazione, e
a confluire nel movimento risorgimentale: una «minoranza», appunto, sle-
gata dalla nazione ma anticipatrice del futuro, divisa dalle masse contadine
(che la cingeranno d'assedio con le bande della Santa Fede) e dalla stessa
borghesia produttiva, che rimase abulica dinanzi alla sua iniziativa e as-
surgerà a classe dirigente solo nel decennio napoleonico. Croce considerò
"attiva" (al contrario di Cuoco) la rivoluzione del '99, indicando semmai un
esempio di ''passività" nei moti del 1820, stanca ripetizione delle antiche
cospirazioni, ispirati da un frigido simbolismo illnmioistico e massonico e
incapaci di produrre alcunché «d'importante e di originale».32
Rimane il fatto che Croce, dopo il rapido cenno del 1896, non parlò
più di rivoluzioni passive. Tornò ad alludervi, in una situazione del tutto di-
versa (senza però adoperarne la formula), in un articolo del 23 agosto 1945
su Russia ed Europa, nel quale, ricordando il suo apprendistato marxista e
sostenendo le ragioni di un socialismo riformista e temperato, metteva in
guardia da ogni tentativo di «imitazione» dell'esempio russo. Perciò av-
vertiva che anche «1 'imitazione universale» della Rivoluzione francese non
era stata una vera e propria «imitazione» ma un adattamento alle differenti
27. B. Croce, Storia del regno di Napoli, Roma-Bari, Laterza, 1984, pp. 199-200.
28. Ivi, p. 222.
29. Ivi, p.191.
30. Ivi, pp. 200-201.
31. Ivi, p. 205.
32. Ivi, p. 221.
Guido De Ruggiero come fonte di Gramsci 23
Fino a un tempo recente gli interpreti hanno ritenuto che Gramsci tro-
vasse nel libro del 1897 di Croce lo spunto iniziale per la sua riflessione
sulle rivoluzioni passive. L'ipotesi si fondava esclusivamente sull'uso di
quella parola («contraccolpo»), assente in Cuoco e in altri testi posseduti
dal prigioniero, ma presente, sia pure in un senso differente, nella prefa-
zione crociana del 1896. Nell'edizione critica dei Quaderni del carcere
del 1975, Valentino Gerratana, commentando la prima occorrenza di «ri-
voluzione passiva» nella carta 34r del Quaderno 4, osservava che, «con
ogni probabilità», il lemma proveniva da una fonte indiretta, riconosciu-
ta nella «prefazione di Croce al volume, La rivoluzione napoletana del
1799 (4a ed. riveduta Bari, Laterza, 1926), dove è contenuto un richiamo
all'espressione ''rivoluzione passiva" nell'accezione di Cuoco». 34 In un
saggio del 2017, Fabio Frosini confermava questa ipotesi, arrivando alla
ulteriore conclusione che il libro di Croce era «stato sicuramente letto o
riletto in carcere».35 Nell'apparato critico della Edizione Nazionale degli
scritti di Antonio Gramsci (2017), la stessa congettura veniva ribadita: «il
volume di Croce - vi si legge-, non conservato nel Fondo Gramsci, è stato
probabilmente letto in carcere - dato che Gramsci ne riprende il concetto
di "contraccolpo", assente nell'opera di Cuoco -, e sarà menzionato nel
Quaderno 10, § 6. 9». 36 Grazie a una ricerca ulteriore, Frosini ha successi-
33. B. Croce, Scritti e discorsi politici~ (1943-1947), Il, Bari, Laterza, l 973 2~ p. 187.
34. Gramsci, Quaderni del carcere~ pp. 2654-2655.
35. F. Frosini~ Rivoluzione passiva e laboratorio politico: appunti sull'analisi del fa-
scismo nei Quaderni del carcere, in «Studi storici», 2 (2017), pp. 297-328: p. 308.
36. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935)~ I~ p. 835.
24 Rivoluzioni passive
vamente dimostrato che questa supposizione non era esatta e che, più ve-
rosimilmente, Gramsci trovò in un libro di Guido De Ruggiero, Il pensiero
politico meridionale nei secoli XVIII e XIx, l'occasione per avviare la sua
meditazione sulle rivoluzioni passive e una accezione del lemma «contrac-
colpo» molto più simile a quella che egli avrebbe adoperato nei quaderni.37
Anche il libro di De Ruggiero non è presente nel Fondo Gramsci ed è
possibile solo ipotizzare che venne ricevuto dal detenuto nel carcere di Turi
e letto o riletto intorno al novembre del 1930. Ma alcuni indizi (oltre, come
ora vedremo, quelli prevalenti relativi al contenuto dell'opera) rendono mol-
to credibile questa ipotesi. Non solo l'attenzione costante che Gramsci ri-
servò agli scritti di De Ruggiero (si pensi all'importanza che attribuì alle
osservazioni su Erasmo contenute nel volume su Rinascimento Riforma e
Controriforma)3 8 e il puntuale ricordo della sua collaborazione a «Politica»
nel 1919-1920 (proprio dove uscirono i primi tre capitoli del Pensiero po-
litico meridionale),39 ma un appunto bibliografico del Quaderno 6 (marzo-
agosto 1930) sembrerebbe provare il possesso del volume.4° Come ha mo-
strato Frosini,41 Gramsci cita per esteso il titolo del libro di De Ruggiero
sul pensiero meridionale e ne trae due riferimenti bibliografici: l'indicazione
del libro di Ferdinando Petruccelli della Gattina, La rivoluzione di Napoli
del 1848, nella seconda edizione del 1912 per la Società Dante Alighieri a
cura di Francesco Torraca, e quella del volume di Gennaro Mondaini, I moti
politici del '48 e la setta dell'Unità italiana in Basilicata (Società Dante
Alighieri, Roma 1902), appaiono letteralmente riprese (con il solo comple-
tamento del cognome di Petruccelli in Petruccelli della Gattina) da due note
del settimo capitolo (Il milleottocentoquarantotto) di De Ruggiero.42 È dun-
que molto probabile, se non certo, che Gramsci lo avesse a disposizione e
lo tenesse presente, ricavandone anche opportuni suggerimenti bibliografici.
43. V-zco, Giannone; L'economia e la legislazione negli scrittori napoletani del '700;
La rivoluzione napoletana del 1799.
44. Lettera di De Ruggiero a Gentile del 25 giugno 1918 (Archivio della Fondazione
Gentile). Lettera di Gentile a De Ruggiero del 29 giugno 1918 (Archivio De Ruggiero,
consultata in copia presso l'Archivio della Fondazione Gentile di Roma).
45. Carteggio Croce-De Ruggiero, a cura di A. Schinaia e N. Ruggicro, Bologna, il
Mulino, 2008, pp. 134-136.
46. «Politica», maggio 1921, pp. 314-317; ivi, dicembre 1921-gennaio 1922, p. 179.
Cfr. R De Felice, Introduzione, in G. De Ruggiero, Scritti politici 1912-1926, a cura di
R. Dc Felice, Bologna, Cappelli, 1963, pp. 33-34.
47. I~pp. 482-486.
48. Lettera di Gentile a Croce del 21 aprile 1922 (G. Gentile, Lettee a Bent«letto
Croce, 5. Dal 1915 al 1924, a cura di S. Giannanto~Firenze, LeLettere, 1990, p. 314).
26 Rivoluzioni passive
49. Lettera di Croce a Gentile del 23 marzo 1922: «non sarebbe il caso di fare un
cenno dei Politici meridionali del De Ruggiero?» (B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile, a
cura di A. Croce, Mondadori, Milano 1981, p. 616).
50. «La Critica», 1922, pp. 173-175.
51. De Ruggiero, Il pensiero politico meridionale, p. 104.
52. Ivi, p. 222.
53. Ivi, p. 310.
Guido De Ruggiero come fonte di Gramsci 27
scritta nel 1924 e pubblicata nel 1925, dove non si parlerà più di rivoluzio-
ni passive e, a proposito di Cuoco, si leggerà una sintesi abbastanza scialba
di quello che, nelle pagine del 1922 sul pensiero meridionale, era stato più
ampiamente argomentato. 54
Non è un caso che la stroncatura di Gentile trovi una replica, sia pure
indiretta, nelle pagine di Risorgimento senza eroi che Piero Gobetti dedicò
a Il «caso» Giannone. Proprio l'interpretazione della Storia civile del Re-
gno di Napoli e del Triregno, che Gentile aveva collocato al centro della
sua polemica e rifiutato con tanta durezza, venne assunta da Gobetti con un
rinvio esplicito al libro di De Ruggiero. 55 Nello stesso periodo, d'altronde,
De Ruggiero collaborava attivamente a «Energie Nove» e a «Rivoluzione
Liberale» con quattro articoli di notevole importanza. 56 Le differenze tra
il suo liberalismo e quello di Gobetti sono state opportunamente sottoli-
neate da De Felice e Garin, 57 ma il quadro analitico del libro sul pensie-
ro meridionale risente senza dubbio del movimento di idee che le riviste
~obettiane (oltre all'influenza di Oriani e Missiroli) avevano prospettato.
E in tale quadro che il tema delle rivoluzioni passive e la metafora del
«contraccolpo» acquistano quella centralità che, con ogni probabilità, atti-
rò l'attenzione di Gramsci.
Nei primi capitoli (quelli che vennero anticipati su «Politica» e poi
rielaborati per il volume), De Ruggiero aveva delineato il contrasto fra due
indirizzi della cultura meridionale: il primo, culminante in Pietro Gian-
none e autentica base ideologica delle rivoluzioni del '99, appariva quale
unificazione, in chiave astratta e illuministica, del razionalismo cartesiano
e della tradizione erudita e forense napoletana; la seconda tendenza risa-
liva invece a Vico, il quale aveva avvertito il contrasto fra storia e ragio-
ne cartesiana, inaugurando quel senso storico che, attraverso la lezione di
Giuseppe Maria Galanti, arriverà a Cuoco, considerato perciò come l'ini-
ziatore del moderno storicismo italiano. A De Ruggiero non sfuggivano i
limiti della posizione di Cuoco, che anzi venivano indicati nel persistente
particolarismo municipale e nella incapacità di cogliere la novità del go-
verno rappresentativo. Ma la sua visione storica, ereditata da Vico, supe-
rava il difetto dell'illuminismo meridionale, arrivando a riconoscere «il
valore immanente della negazione», cioè l'immanenza e la latenza della
verità nella storia. 58 Un processo intellettuale che, nel secondo capitolo,
convergeva con il rinnovamento degli studi sull'economia politica e sulla
legislazione, che rivelavano un «nuovo soggetto»59 della sovranità, «come
il fondo economico delle nuove correnti democratiche, che sul numero e
sul movimento fondavano la sovranità popolare».60 L'economia, conclu-
deva, «affermava il valore sostanziale del numero» e perciò scopriva l' es-
senza liberale e democratica della politica moderna, centrata sulla società
civile e su una diversa figura della partecipazione popolare.
Come Vico, però, anche Cuoco era rimasto un isolato: le tenden-
ze innovatrici affermate dalla cultura meridionale erano «soltanto di
pochissimi eletti, lontani dallo spirito popolare». 61 In questa frattura tra
intelligenza e plebe, rappresentata plasticamente dal mito romantico del
popolo-fanciullo («tenebra che bisogna illuminare»)CSl e dall'illusione,
particolarmente viva nel «Monitore napoletano» della Fonseca Pimentel,
che «bastasse tradurre in linguaggio plebeo i nuovi concetti rivoluziona-
ri per renderli familiari e accetti alla plebe»,63 è già implicita la lettura
della rivoluzione napoletana del '99 in termini di rivoluzione passiva.
Infatti, nel terzo e nel quarto capitolo del libro (La rivoluzione napoleta-
na del 1799; Vincenzo Cuoco), De Ruggiero riprese largamente da Cuoco
l'idea della rivoluzione del '99 come rivoluzione passiva, ma con alcune
rilevanti novità. In primo luogo, concepì la rivoluzione passiva come
«contraccolpo delle vittorie militari francesi». 64 Il «contraccolpo» non
90. I~ p. 163.
91. La lettera introduttiva a La Fayette porta la data del 9 febbraio 1792. Cfr. T. Paine,
Rights ofMan, Common Sense, and Other Politica/ Writings, a cura di M. Philp, Oxford,
Oxford Univcrsity Prcss, 1995, pp. 201-202. Si veda la traduzione italiana a cura di Tito
Magri in T. Paine» I diritti dell'uomo, Roma, Editori Riuni~ 1978. L'importanza del testo di
Paine per la tematica delle rivoluzioni passive è stata segnalata da Di Meo, La «rivoluzione
passiva».
34 Rivoluzioni passive
Alla carta 96r del Quaderno 1, Gramsci introdusse una seconda anno-
tazione marginale sulla rivoluzione passiva, probabilmente scritta, anche
essa, poco dopo la composizione della nota su Cuoco del Quaderno 4. La
definizione della «rivoluzione senza rivoluzione» diventava ora più precisa
e si ampliava a una conseguenza ulteriore, capace di chiamare in causa,
nello stesso tempo, il nesso tra sfera nazionale e dimensione internazionale
e la funzione degli intellettuali. Prendendo spunto dal libro di Raffaele Cia-
sca su L'origine del "Programma per l'opinione nazionale italiana" del
1847-1848 (Milano, Società Dante Alighieri, 1916), che aveva colleziona-
to a Roma e che ricevette a Turi, iniziò la riflessione ricordando la conce-
Rivoluzioni attive e passive 39
106. Gramsci, Quaderni del carcm-tl. 2. Quaduni miscellanei (1929-1935), L pp. 156-
157 (Ql, cc. 95v-96r).
107. Ivi, p. 157 (Ql, c. 96r). La nota vennerielaboratanel Quaderno 10, c. 39rv.
108. Deve essere inoltre osservata la distinzione che, nel Quaderno 1, Gramsci operò
tra rivoluzione passiva e Restaurazione (ivi, p. 158: Q 1, cc. 96v-97r).
40 Rivoluzioni passive
zarono la mano, ma sempre nel senso dello sviluppo storico reale, perché
essi fondarono non solo lo Stato borghese, fecero della borghesia la classe
"dominante", ma fecero di più (in un certo senso), fecero della borghesia la
classe dirigente, egemone, cioè dettero allo Stato una base permanente» .114
Alla rivoluzione passiva italiana si contrapponeva cosi il modello inverso,
un processo spontaneo e attivo, capace di realizzare, con il concorso delle
masse, uno Stato nazionale moderno.
Il giudizio sul giacobinismo richiamava, d'altronde, un'analisi più
ampia sulla storia francese, che venne considerata da Gramsci come «il fe-
nomeno completo»us della modemizzazione borghese, «un tipo compiuto
di sviluppo armonico di tutte le energie nazionali e specialmente delle cate-
gorie intellettuali», ncs la patria della «nazione-popolo»,117 rispetto alla quale
non solo l'Italia (collocata all'estremo opposto di una «nazione-retorica»)
ma anche Inghilterra e Germania apparivano come soluzioni di compro-
messo. Nella miscellanea del Quaderno 4 eseguì una precisa analisi com-
parativa tra i diversi sviluppi nazionali, soffermandosi in modo particolare
sul caso della Russia, dove l'emigrazione intellettuale aveva svegliato il
popolo dalla sua «passività», costringendolo a «un forzato risveglio». 118
Ma in generale la contrapposizione tra Francia e Italia disegnava in manie-
ra compiuta l'antitesi tra una rivoluzione attiva e una rivoluzione passiva.
Nella critica del partito d'azione Gramsci aveva spiegato che il gia-
cobinismo non doveva intendersi come "imitazione" del modello francese
(un errore che, come nel caso dei patrioti del 1799 e di Giuseppe Ferrari,
avrebbe ribadito piuttosto che correggere il carattere ''passivo" dell'azio-
ne), ma come recupero di una tradizione nazionale, incentrata sulla storia
dei Comuni e sul realismo di Machiavelli e, in una certa misura, sul pen-
siero di Pisacane. È anche vero, però, che il procedere dell'analisi (specie
nelle note del Quaderno 5) aveva mostrato che l'errore dei democratici ita-
liani aveva radici ben altrimenti complesse, che risalivano alla «funzione
cosmopolita» dell'Italia nel periodo dell'impero romano e del medioevo,
che avevano impedito alla borghesia di uscire dal suo limite corporativo e
che si erano protratte fino al Concordato del 1929, determinando - questo è
127. Ivi, p. 1220 (QIO, c. 44v). Torneremo nelle pagine seguenti sul significato della
0
interpretazione positiva" dei moderati italiani.
128. lvi, p. 957 (Q8, c. 12v).
129. D. Mattalia, Gioberti in Carducci (Per una maggiore determinazione delle fonti
storiche della cultura carducciana), in «La Nuova Italia. Rassegna critica mensile della
La «rivoluzione-restaurazione» di Edgar Quinet 45
cultura italiana e straniera», 20 nov. 1931, pp. 445-449; 20 dic. 1931, pp. 478-483; 20 gcn.
1932:. pp. 22-27.
130. I~ 20 nov. 193 t p. 448. Le espressioni riportate in parentesi quadre corrispon-
dono alle note a piede di pagina.
46 Rivoluzioni passive
dal tentativo di Mattalia di stringere in una sola espressione la tesi dell 'in-
flusso che la «classicità nazionale» di Gioberti avrebbe esercitato sulla for-
mazione del paradigma storiografico quinettiano. 131 Influsso obliquo e, per
così dire, contrastivo, perché l' «apparato mostruoso»132 del neoguelfismo
rappresentava, come è noto, l'avversario più diretto dello storico francese,
il quale chiarì la sua posizione, senza possibilità di equivoco, nel terzo
capitolo del libro quarto delle Révolutions d 'Italie, aggiunto nell'autunno
del 1847 al corpo principale dei corsi del 1845 e 1846 per spegnere gli
entusiasmi sollevati dalle riforme di Pio IX. 133 È possibile, tuttavia, che la
«restamazione-rivoluzione» evocasse in Gramsci ricordi di antiche letture,
o del testo di Quinet (riproposto da Egisto Roggero nel 1928 per l'editore
Carabba di Lanciano) o dei diversi autori italiani (da Mazzini a De Sanctis)
che a Quinet si erano in qualche modo richiamati. La formula coniata da
Mattalia, infatti, non era del tutto arbitraria, anche se indicava uno schema
interpretativo alquanto diverso da quello di Cuoco.
Per comprenderne il significato, è opportuno ricordare come Quinet,
nel libro sulle rivoluzioni italiane, avesse collocato il «cosmopolitismo
informe»134 alla radice dell'intera ricostruzione: tutta la storia italiana era
infatti segnata da questo «ideale prematuro», 135 frutto della perfetta con-
tinuità fra il «sacerdozio» (la Chiesa cattolica) e l'impero (romano), che
aveva condotto gli italiani a vagheggiare un mondo puramente ideale, con
la conseguente «impossibilità di organizzarsi, di formar uno di quegli es-
seri viventi che dicesi nazione»: 136 «lo spirito degli Stati politici - con-
cludeva era la nazionalità; quello del papato il cosmopolitismo. Come
accordarli entrambi?». 137 Questo era il motivo, inoltre, per cui gli italiani
avevano compiuto ogni cosa «nelle menti», senza mai riuscire a «tradurre»
i pensieri «negli atti», 138 restando impigliati nella più secca scissione fra la
131. Nelle monografie che Mattalia, prima di consacrarsi agli studi danteschi, dedicò
a Carducci la formula della «restaurazione-rivoluzione» non è ripetuta. Ma è tuttavia ripre-
so il concetto relativo all'influsso di Quinet e Guizot (ora esteso anche a Sismondi): cfr.
D. Mattalia, Giosuè Carducci (1835-1907), Milano, Paravi.a, 1942, p. 18.
132. E. Quin~ Le rivoluzioni d'Italia, trad. di Niccolò Montenegro, Lodi, Società
cooperativo-tipografica, 18722, p. 374.
133. Ivi, pp. 363-384.
134. Ivi, p. 42.
135. Ivi, p. 41.
136. Ivi, p. 178.
137. Ivi, p. 179.
138. Ivi, p. 25.
La «rivoluzione-restaurazione» di Edgar Quinet 47
all'unità nazionale e, d'altro lato, il conflitto fra i gruppi sociali che aveva
generato la politica europea dopo il 1815, - questo solo aspetto materiale
dimostrava il limite di un metodo storiografico, l'esorcismo professato per
il «momento della lotta», l'astrazione unilaterale del «momento dell'espan-
sione culturale o etico-politico»154 dal corpo vivo della storia. In tale modo
la narrazione crociana appariva come opera monca, solo «un frammento di
storia»,m limitata all'aspetto "passivo" delle vicende italiane ed europee,
che non può essere considerato in maniera autonoma e indipendente, per-
ché è generato dal momento drammatico e rivoluzionario di una lotta aper-
ta e di movimento. Il rapporto fra "attivo" e ''passivo" si stringeva, dunque,
proprio di fronte all'autore che aveva separato astrattamente i due momenti
e che, come si leggeva altrove, era giunto a isolare le superstrutture dalla
loro genesi strutturale e oggettiva, configurando il principio dell'egemonia
in una forma imperfetta, perché privata della domanda fondamentale sul
processo di costituzione dei soggetti politici.
Sul piano analitico 1'errore di Croce consisteva nella separazione
dell'elemento ''passivo" da quello "attivo", delle ideologie dalla loro gene-
si reale, o anche, come si legge nel Quaderno 8, della «forma» dalla «ma-
teria»: «nella storia d'Europa - scrisse - [ ... ] il periodo scelto è monco,
è il periodo delle rivoluzioni passive, per dirla col Cuoco, il periodo della
ricerca delle forme [superiori], della lotta per le forme, perché il contenuto
si è già affermato con le rivoluzioni inglesi, con quelle francesi, con le
guerre napoleoniche». 156 Era tutta la teoria del "blocco storico", elaborata
nelle tre serie di Appunti di filosofia, che il metodo di Croce frantuma-
va, perché la separazione di ''passivo" e "attivo" corrispondeva, secondo
una perfetta analogia, a quella fra la struttura e le superstrutture, alla con-
fusione, come spiegò metaforicamente, tra «1 'individuo "scuoiato"» e il
«vero individuo». 157 L'errore metodologico, però, trovava una spiegazio-
ne di carattere pratico, che portò Gramsci ad avvicinare maliziosamente
l'ideologia di Croce a quella del fascismo, «per una delle tante manife-
stazioni paradossali della storia», «per un'astuzia della natura, per dirla
vichianamente»: 158 infatti Croce, «mosso da preoccupazioni determinate,
159.lbukm.
160. Ivi, p. 1229 (QlO:, c. 47v).
52 Rivoluzioni passive
9. La «dialettica addomesticata»
pale che aggiungeva nella seconda stesura del testo - va dunque considerata
come una pluralità di conflitti che attraversano la società civile: perciò la
soluzione è solo politica, affidata al rapporto delle forze e alla capacità ege-
monica dei soggetti. Al contrario, la «dialettica addomesticata» semplifica
l'intero processo «in un conservatorismo riformistico temperato». 167
La rivoluzione passiva, in quanto approccio analitico e programma pra-
tico, si fonda dunque su una semplificazione ("addomesticamento") della
dialetticahegeliana. Possiamo riassumere questa posizione affermando che
la teoria degli opposti si trasforma, in tale «riforma ''reazionaria"»,168 in un
meccanismo che presuppone l'assorbimento del conflitto in una sintesi or-
dinata dalla tesi, dove la tesi stessa decapita l'antitesi e la assorbe nel senso
di un "riformismo temperato". È il modello ''trasformista" della dialettica
politica del Risorgimento. Questa riflessione, originata dall'esame delle
rivoluzioni passive, deve essere composta con gli altri testi dove Gramsci,
in forma più diretta, scrisse sulla dialettica hegeliana e sulle sue "riforme"
italiane.169 In una nota del Quaderno 8, rielaborata nel Quaderno 13, offrì
la formulazione forse più matura del problema. Riprendendo la questione
machiavelliana dell'autonomia della politica, cioè della posizione che la
scienza politica «occupa o deve occupare in una concezione del mondo
sistematica (coerente e conseguente) - in una filosofia della praxis»,170 ri-
conobbe - come aveva fatto altrove 171 -1 'utilità e l'importanza della teoria
crociana del circolo delle forme distinte, quindi proprio di quella ''riforma"
della dialettica hegeliana che il filosofo napoletano aveva intrapreso fin
dal 1906: si trattava infatti di un reale «progresso», della «dissoluzione di
una serie di problemi falsi, inesistenti o male impostati», 172 che la filosofia
della praxis avrebbe dovuto accogliere e adattare alla propria concezione
della realtà. E nel Quaderno 1Oaggiungeva che «c'è una esigenza reale nel
distinguere gli opposti dai distinti».173 Nelle linee successive, però, limita-
va il valore della teoria crociana ai «gradi della soprastruttura»,174 che egli
su <<Lo Stato operaio» tra il 1927 e il 1930).185 Nei Quaderni del car-
cere l'attenzione per il pensiero di Labriola si trasformò nella posizione
di "eccezione" che a questo autore venne conferita nell'intera storia del
marxismo teorico e nel conseguente invito a «rimettere in circolazione»
e a fare «predominare» la sua «impostazione del problema filosofico». 186
Rispetto alle tendenze attuali alla "combinazione" solo Labriola, infatti,
aveva saputo indicare il progetto di «costruire sul marxismo una filosofia
della praxis», 187 affermando l'autonomia e l'autosufficienza del marxismo
come filosofia: «occorre lavorare - scriveva -, appunto in questo senso,
sviluppando la posizione di Antonio Labriola». 188
L'influsso di Labriola non si limitò, tuttavia, al programma di una filo-
sofia della praxis, ma riguardò questioni più specifiche, relative alla teoria
politica e alla lettura della storia europea. Per ricordare gli aspetti più rile-
vanti, non è dubbio che la distinzione, messa a fuoco nel terzo saggio, tra
il «nocciolo» o il «midollo» della filosofia della praxis, individuato nella
«storia del lavoro», e le sue articolazioni nazionali («fra paese e paese avrà
modalità e colorito diverso»), 189 così come la reciproca conversione di filoso-
fia economia e politica riconosciuta alla base del pensiero di Marx,1 90 eserci-
tarono un ruolo significativo nella formazione del concetto di «traducibilità
dei linguaggi scientifici e filosofici», enucleato negli Appunti di filosofia e
rielaborato nel Quaderno 11. Non meno importante fu l'influenza dei testi
di Labriola per il chiarimento di tutto il problema della storia degli intellet-
tuali, perché proprio nel secondo e nel terzo saggio sul materialismo storico
poteva scorgersi la radice di quel modo originale di concepire il rapporto
tra marxismo e saperi (per cui il marxismo teorico non sostituisce i saperi
empirici ma ne incorpora i risultati, aggiungendovi la consapevolezza della
genesi storica) 191 che Gramsci scolpirà, nel Quaderno 12, nella formula del
185. Per la ricostruzione del rapporto di Gramsci con l'opera di Labriola si veda
M. Mustè, Gramsci e Antonio Labriola. La filosofia della praxis come genesi teorica del
marxismo italiano, in «Syzetesis. Rivista di filosofia», VII (2020), pp. 11-24.
186. Gramsc~ Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935)~ L p. 466
(Q3~ c. 16v).
187. Gramsc~ Quaderni del carcere, p. 1060 (Q8, c. 62r).
188. Gramsc~ Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), L p. 661
(Q4, c. 43r).
189. A. Labriola, Scritti.filosofici e politici~ a cura di F. $barberi, 2 voli., Torino~ Ei-
naud~ 1973,p. 689.
190. Ivi, p. 673.
191. Cfr. Va~Jl marxismo egli intellettuali.
Da Croce a Labriola 59
202. F. Engels:, L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienzlJ:, Roma, Edizioni
Rinascin1:, 1951:. pp. 31-33. Cfr. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei
(1929-1935), I, p. 66 (Ql, c. 41v): «vedi in proposito le osservazioni di Engels nella prefa-
zione inglese, mi pare:, a HUtopia e scienza'\ che occorre ricordare per questa ricerca sugli
intellettuali e le loro funzioni di classe».
203. F. Engels:, Socialism Utopian and Scientiftc:. Chicago:, Charles H. Kerr and Com-
pany, s. d. (ma 1908), p. 27.
204. I~ p. 28.
205. Ibidem.
62 Rivoluzioni passive
alle condizioni della politica mondiale in genere?» .229 In tale ottica globale,
cadevano i pregiudizi più triviali della «tradizione letteraria» e retorica,
«1 'illusione di una storia sola e continuativa», l'idea stessa che il Risorgi-
mento «sia riuscit[o] inferiore ali 'aspettazione». Considerata nella giusta
prospettiva, tutta la storia italiana fino al 1870, quindi tutta la dinamica
del Risorgimento, appariva come «storia passiva», cioè come il riflesso
della «espansione e gara veramente mondiale» che la «storia attiva» delle
nazioni egemoni, e in particolare la grande Rivoluzione del 1789, aveva-
no innescato. In un brano che certamente non sfuggì a Gramsci, Labriola
scrisse queste parole:
il Risorgimento italiano s'è svolto tutto per entro al secolo decimonono; ma ci
si è svolto più nel senso della storia passiva che in quello della storia attiva.
L' effettivamente attivo comincia il 1870: e questa osservazione basta da sola
per ismentire il più gran numero delle affermazioni ottimistiche o pessimisti-
che che si fanno sul nostro paese sopra di una esperienza così breve e di così
recente data.
Coi termini di attivo e di passivo io intendo di addurre degli estremi teorici
di valore comparativo, ai quali si giunge per approssimazione e attraverso a
molte transizioni. Che l'Italia, dunque, fosse in un certo senso storicamente
attiva anche nel tempo della sua preparazione all'unità nazionale, e specie
nei momenti delle rivolte e delle guerre, nessuno vorrà negare: ma qui in
questo discorso, dove cerchiamo di ricondurre tutto al ragguaglio della fin del
secolo, noi dobbiamo considerare come relativamente passiva la condizione
d'Italia in tutti gli anni anteriori al 1870, nei quali le altre nazioni direttive
posero le premesse e dettero la prima potente avviata alla presente espansione
e gara veramente mondiale. 230
229. I~ p. 855.
230. I~ pp. 854-855.
66 Rivoluzioni passive
capitolo, dedicato a Il metodo, nel quale Marx aveva svolto le sette osser-
vazioni di carattere teorico sul Système di Proudhon. In tale testo Marx
metteva a confronto il pensiero di Proudhon con quello di Hegel, operando
una critica di entrambi, ma in una forma e secondo modalità diverse. Se
il torto dell'economia politica era di considerare i rapporti di produzione
come «categorie fisse, immutabili, eteme»,241 la visione dialettica di tipo
idealistico aveva il merito di cercarne la genesi, ma prendendo «le cose
alla rovescia», 242 cioè trattando i rapporti reali come incarnazione di idee
astratte e non, viceversa, le categorie come «prodotti storici e transitori»
di un determinato modo di produzione. Questo errore apparteneva, anzi
tutto, a Hegel, il quale aveva appunto scambiato l'astratto con il concreto,
surrogando il divenire reale della storia nel «metodo assoluto», definito
nella terza sezione della Scienza della logica, ossia nella «dottrina del con-
cetto». Proprio parlando di Hegel (non di Proudhon, si osservi, ma di He-
gel), nella Prima osservazione Marx sottolineava che, nel puro movimento
dialettico, «i contrari si equilibrano, si neutralizzano, si paralizzano»; 243
e, poche pagine dopo, vi opponeva lo schema storico dell'«antagonismo
reale», la necessità di considerare il modo di produzione nel senso di una
reale opposizione, e dunque di una contraddizione insanabile, tra le forze
produttive.™ Nel brano che Gramsci utilizzò per elaborare la teoria delle
rivoluzioni passive, Marx scriveva cosi:
una volta che [la ragione] sia pervenuta a porsi come tesi, questa tesi, questo
pensiero, opposto a se stesso, si sdoppia in due pensieri contraddittori, il po-
sitivo e il negativo, il sì e il no. La lotta di questi due elementi antagonistici,
racchiusi nella antitesi, costituisce il movimento dialettico. Il sì diventa no,
il no diventa sì, il sì diventa contemporaneamente sì e no, il no diventa con-
temporaneamente no e sì: quindi i contrari si equilibrano, si neutralizzano,
si paralizzano. La fusione di questi due pensieri contraddittori costituisce un
pensiero nuovo che ne è la sintesi. 245
È chiaro, dunque, che per il Marx della Miseria della filosofia la dia-
lettica hegeliana ha un difetto "speculativo", per il quale l'opposizione,
convertita dall'antagonismo storico reale alla sfera astratta della pura ra-
257. Gramsci, Quaderni del carcere, pp. 1468-1473 (Qll, cc. 58r-60v).
258. Ivi, p. 851 (Q7, c. 51r).
259. Ivi, p.1088 (Q8, c. 78r).
260. Ivi, p. 957 (Q8, c. 12v).
261. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), L p. 812
(Q4, c. 34r).
262. Gramsci, Quaderni del carcere, p. 1091 (Q8, c. 79v).
Rivoluzioni passive e traducibilità 73
267. Javier Mena e Dora Kanoussi hanno parlato, a questo proposito, di una «inversio-
ne» dei «principi marxisti dello sviluppo storico»: «la struttura (base economica), non avendo
forza sufficiente, viene spinta dalla sovrastruttura (intellettuali-Stato)» (J. Mena, D. Kanoussi,
R concetto di rivolt12ione passiva, in Rivoluzione passiva. Antologia di studi gramsciani, a
cura di M Modonesi, Milano, Unicopli, 2020, p. 118). Cfr. J. Mena, D. Kanoussi, La revolu-
cion pasiva: una lectura de /os Quademos de la càrcel, Pucbla, Buap, 1985.
268. Gramsc~ Quaderni del carcere. p. 1468 (Qll. c. 58r).
Rivoluzioni passive e traducibilità 75
Le rivoluzioni passive, sia nella dinamica storica sia nelle formule dei
suoi teorici, trovavano dunque una spiegazione nella teoria della traduci-
bilità, ma in una teoria amputata del suo vigore dialettico, dove appariva
interrotto il ciclo vitale della soggettività e della oggettività, il nesso di
determinazione reciproca fra la struttura e le superstrutture.
movimento progressivo; 2) che la società non si pone compiti per la cui solu-
zione non siano già state covate le condizioni necessarie ecc.276
Ma aggiungeva subito che questi princìpi «devono prima essere svolti
criticamente in tutta la loro portata e depurati da ogni residuo di meccanici-
smo e fatalismo»; e, per chiarire senza equivoci il carattere di tale ulteriore
svolgimento, richiamava la propria elaborazione dei «tre momenti fonda-
mentali» nell'analisi dell '«equilibrio di forze»:
così [questi princìpi] devono essere riportati alla descrizione dei tre momenti
fondamentali in cui può distinguersi una «situazione» o un equilibrio di forze,
col massimo di valorizzazione del secondo momento, o equilibrio delle forze
politiche e specialmente del terzo momento o equilibrio politico-militare.277
Il concetto di «equilibrio di forze» è antico in Gramsci e segna alcuni
passaggi della sua evoluzione intellettuale. Nel passo citato, tuttavia, egli si
riferiva al modo in cui, dapprima nel Quaderno 4 poi nella seconda stesura
del Quaderno 13, la questione era stata riconsiderata in una nota dedicata,
appunto, alla Analisi delle situazioni: rapporti di forza. 278 Un confronto tra
le due stesure mostrerebbe l'evoluzione della riflessione gramsciana, che
nella prima serie di Appunti di.filosofia è ancora condizionata dalla catego-
ria di blocco storico, mentre nelle note scritte tra il 1932 e il 1933 presenta
una concezione unitaria e più plastica della dialettica politica. Nella riela-
borazione del Quaderno 13, Gramsci richiamava la necessità di «imposta-
re esattamente e risolvere» il problema dei rapporti fra struttura e super-
strutture, per giungere a un 'analisi delle forze storiche e dei loro rapporti.
Per questo motivo richiamava (aggiungendo successivamente in margine
la citazione del testo di Marx) i due principi della Prefazione del 1859,
sottolineando, nella sua perifrasi, sia il concetto realistico per cui una so-
cietà pone solo «compiti» e «soluzioni» per cui esistono già «le condizioni
necessarie e sufficienti», sia l'ulteriore osservazione che la "dissoluzione"
di una società accade quando tutte le «forme di vita», «implicite nei suoi
rapporti», siano state svolte fino alle conseguenze estreme.279 I «due cano-
ni», come anche li definì, assegnavano un preciso significato alla nozione
marxiana di struttura e pennettevano di sviluppare, su tale base realistica,
un discorso ulteriore, che riguardava non più la struttura come tale ma il suo
trascendimento nella dinamica dei rapporti politici. Grazie a questo aggan-
cio alla dimensione oggettiva, o perfino normativa, del processo sociale, ap-
pariva chiaro, infatti, che nell' «arte politica» l '«errore» deriva dal prevalere
dei «proprii desideri» e delle «proprie passioni deteriori»,280 dal congedo
arbitrario del terreno di realtà da cui tutta l'azione politica può sorgere.
Sulla base dei due princìpi Gramsci procedeva, quindi, alla distinzio-
ne tra «movimenti organici», «relativamente permanenti» e quindi legati alla
struttura oggettiva, e «occasionali», dipendenti da quelli ma dotati di una si-
gnificativa capacità di replica. La dialettica fra i due «movimenti» assume
grande importanza nel discorso imbastito da Gramsci e rappresenta la prima
"deduzione" del paradigma delle rivoluzioni passive di cui, come abbiamo
visto, si parla nel Quaderno 15. Infatti i movimenti organici delineano un
processo di lunga durata, «che talvolta si prolunga per decine di anni»,281 al
cui interno si articola «il terreno dell '"occasionale"», che non si limita a pren-
dere atto dei processi oggettivi e strutturali, ma dove le forze politiche, anzi le
«forze antagonistiche», si sforzano di «sanare entro certi limiti e di superare»
le contraddizioni della forma sociale e operano «positivamente alla conser-
vazione e difesa della struttura stessa». 282 Per questo «il nesso dialettico tra i
due ordini di movimento» diventa il problema fondamentale dell'analisi delle
situazioni e delle forze: perché i soggetti reagiscono ai movimenti organici,
li correggono, li accorciano o li prolungano, generando una dialettica storica
complessa, in cui il tempo della "dissoluzione" e dello "svolgimento" delle
«forme di vita» viene continuamente rielaborato dalla politica.
Non è un caso che proprio in tale contesto Gramsci può fissare la
sua periodizzazione dell'età contemporanea, indicando nel periodo com-
preso fra il 1789 e il 1870 il ciclo organico dell'affermazione della bor-
ghesia, fino al consolidarsi del proprio dominio, attraverso la duplice
sconfitta dei retaggi del vecchio ordine e dei «genni» della nuova classe
e dei «gruppi nuovissimi». È l'ultima epoca in cui la formula della «ri-
voluzione permanente» conserva un autentico valore euristico, perché
del carcere'\ in «Studi storici», 29/3 (1987), pp. 565-579. Mangoni indicò il passaggio de-
cisivo nella progressiva trasposizione al tempo presente: «non più rivoluzione passiva solo
come modello di interpretazione storica, e neanche solo come criterio generale di scienza
politica, ma come strumento di comprensione dei processi in atto» (ivi, p. 579).
290. Gramsci, Quaderni del carcere,p. 1767 (Ql5, c. 9v).
291. Ivi, p. 1775 (Ql5, c. 13r).
292. Ivi, p. 1767 (Q15, c. 9v).
293. Ibidem.
82 Rivoluzioni passive
294. lbidem.
295. Iv-i, pp.1773-1774 (Ql5, c. 12v).
296. Iv-i, pp. 1818-1819 (Ql5, cc. 33v-34r).
297. Iv-i, pp. 1781-1782 (Q15, c. 16v).
298. Iv-i, p.1823 (Ql5, c. 36r).
299. Iv-i, p. 2011 (Ql9, c. 68r).
300. Cfr. per questo M Mustè, Adolfo Omodeo. Storiografia e pensiero politico,
Bologna, il Mulino, 1990, pp. 287-341 (in particolare Gramsci critico di Omodeo, alle
pp. 328-341).
La coscienza e la funzione dello Stato 83
che uno Stato si sostituisce ai gruppi sociali locali nel dirigere una lotta di
rinnovamento. È uno dei casi in cui si ha la funzione di «dominio» e non di
«dirigenza» in questi gruppi: dittatura senza egemonia. L'egemonia sarà di
una parte del gruppo sociale sull,intiero gruppo, non di questo su altre forze
per potenziare il movimento, radicalizzarlo, ecc. sul modello «giacobino».303
Alla ricognizione che abbiamo proposto fin qui della presenza di Marx
nella teoria delle rivoluzioni passive, dobbiamo ora aggiungere un tassello
importante, che riguarda gli scritti storici e, in modo particolare, i tre saggi
principali sulla rivoluzione in Francia. L'influenza di tali testi sulla forma-
zione di Gramsci e sullo sviluppo dei suoi pensieri in carcere è stata per
lungo tempo, se non misconosciuta, certo sottovalutata. Le opere storiche,
come il 18 brumaio, ebbero invece un peso determinante nella costituzione
di alcune categorie dei quaderni, a cominciare da quelle di «bonapartismo»
e «cesarismo». Il loro studio risale almeno ai primi anni V enti, come è docu-
mentato non solo da alcune occorrenze lessicali, ma anche dalla interpreta-
zione del fenomeno fascista, fino alla constatazione della «rassomiglianza»
dell' «equilibrio instabile» italiano nel 1919-1920 «coi metodi e i sistemi
descritti da Carlo Marx nel J8 brumaio di Luigi Bonaparte, cioè con la tat-
tica generale della borghesia in pericolo, in tutti i paesi».304 Fu nei Quaderni
del carcere, tuttavia, che Gramsci enucleò dagli scritti storici di Marx un
paradigma storiografico originale e riconobbe in essi la forma più matura
della filosofia della praxis, quella in cui la teoria oltrepassava ogni traccia
di «infantilismo primitivo», perché la politica e l'ideologia cessavano di
apparire come «espressione immediata della struttura» ed erano còlte nella
relazione concreta delle forze e dei gruppi sociali. In un testo di stesura
unica del Quaderno 7 sottolineò questo aspetto e offii al lettore una chiave
per intendere un carattere essenziale del suo rapporto con l'opera di Marx:
1971, p. 343. Tutta la questione è stata studiata da Francesca Antonini nella prima parte
del suo libro Caesarism and Bonapartism in Gramsci: Hegemony and the Crisis of Mo-
denity, Leiden-Boston, Brill, 2020. Di Antonini si veda anche Cesarismo e bonapartismo
negli scritti precarcerari gramsciani, in «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», (2013),
pp. 203-224.
Tre fonti della teoria del cesarismo 85
storici precedenti, perché, oltre che leader di un partito, egli era diventato
«chefunique d'un grand État»: «Benito Mussolini - scriveva- diffère des
au1res hommes que nous venons de nommerpar ce fait qu'il n'estpas seu-
lement le chef unique d'un grand parti, mais qu'il est devenu aussi le chef
unique d'un grand État. C'est aussi avec lui que la notion de l'axiome "le
parti, c 'est moi", a pris, dans le sens de responsabilité et de 1ravail assidu,
son maximum de développement». 308 Gramsci considerò «storicamente
inesatto» questo giudizio, ma di fatto si limitò ad articolarlo senza respin-
gerlo del tutto, attraverso l'osservazione che «Mussolini si serve dello Sta-
to per dominare il partito e del partito, solo in parte, nei momenti difficili,
per dominare lo Stato».3oP
La seconda notazione riguardava il carattere "primitivo" del leader
carismatico, che Gramsci riformulò in un senso molto diverso da quello
accennato da Michels. Per Michels era necessario distinguere due casi:
nel primo caso, il leader appariva "primitivo" rispetto al partito, in quanto
fondatore della sua struttura organizzativa; nel secondo caso, al contrario,
primitivo era il partito e il leader interveniva come fenomeno secondario e
successivo. Scriveva che
en général les chefs charismatiques sont, à l'égard des partis politiques, des
phénomènes pour ainsi dire primitifs. En d' autres termes, ils en sont les fon-
dateurs; ce sont eux qui engendrent les partis. Mais l 'histoire des partis po-
litiques démontre aussi qu'il y a un certain nombre de cas inverses. C'est
alors le parti potitique qui est la phénomène primitif. Au point de vue chro-
nologique, les chefs sont, alors, secondaires, c'est-à-dire qu'ils se présentent
plus tard, quand le parti est déjà fonné. Mais ce retard ne diminue en rien
leur force, pourvu que le parti préexistant ne dispose pas d' autres chefs qui
les valent.310
Per Michels, insomma, "primitivo" significava precedente «au point
de vue chronologique» e dotato di un iniziale potere costituente. Gramsci
conferì invece alla nozione di ''primitivo" un diverso senso, arrivando a
concepire il carisma come «fase primitiva dei partiti di massa», quando
il partito non è ancora pervenuto a esprimere una compiuta ideologia e a
rappresentare una «concezione del mondo unitaria» legata a «una classe
«una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito a una nuova crisi.
L'una però è altrettanto sicura quanto l'altra». 316 In verità quel nesso fra
crisi e rivoluzione non era mai stato perso di vista da Marx, il quale, nel
terzo articolo, aveva sottolineato che il compito rivoluzionario non sarebbe
stato assolto in Francia prima che «da una guerra mondiale il proletariato
sarà spinto alla testa del popolo che domina il mercato mondiale, alla testa
dell'Inghilterra»; 317 e lo stesso concetto aveva illustrato, un anno prima,
sulla «Neue Rheinische Zeitung» del 1° gennaio 1849, parlando di una
«guerra mondiale», che avrebbe consentito ai cartisti di assumere il potere
e di guidare la rivoluzione mondiale.318 Se più forte diventava, già alla fine
del 1850, la consapevolezza che solo una crisi internazionale avrebbe riav-
viato il processo rivoluzionario in Europa, non era qui il centro della que-
stione. A Engels sfuggi che il 18 brumaio introduceva una diversa lettura
dei fatti francesi che avevano portato al potere Luigi Bonaparte, una vera e
propria revisione del paradigma storiografico, dove emergeva il nodo della
crisi politica e dei rapporti di forze tra i gruppi sociali.
Nelle Lotte di classe in Francia Marx aveva spiegato il passaggio
dalla monarchia di luglio alla prima repubblica nei termini di una tran-
sizione dal potere dell'aristocrazia finanziaria («il sottoproletariato alla
sommità della società borghese»)3 19 a quello della borghesia industriale:
nella persuasione che fosse necessario conseguire la maturità della forma
borghese e che, solo allora, le rivendicazioni sociali del proletariato avreb-
bero potuto affermarsi, attirando nella propria orbita la piccola borghesia
e i contadini. Il suffragio universale giocava un ruolo fondamentale nella
narrazione, perché, scriveva, inserisce una «contraddizione» nel sistema
sociale, in quanto «sottrae le garanzie politiche» alla borghesia, affidan-
do «il possesso della forza politica» proprio a quelle classi - proletariato,
contadini, piccoli borghesi- «la cui schiavitù politica essa [la borghesia]
deve etemare»;320 e, d'altro lato, sostituisce al «popolo immaginario» il
«popolo vero», rendendo chiara la divisione in classi nella società civile e
Gramsci derivò dal 18 brumaio una teoria della crisi conforme alla
tematica del cesarismo. È vero però, come abbiamo osservato, che Marx
non aveva considerato la categoria di cesarismo come idonea per rappre-
sentare i passaggi essenziali delle rivoluzioni borghesi. Anzi aveva ironiz-
zato sulla sua utilità, sostituendovi il diverso paradigma, di provenienza
hegeliana, della "Tragodie" e della "Farce". Se è vero (come appare ormai
indubitabile) che nel periodo trascorso a Turi Gramsci incontrò, in forma
diretta o indiretta, l'opera di Max Weber, è plausibile che proprio qui egli
trovasse la formulazione più matura e perspicua del problema.339 In cer-
to modo innestò la teoria weberiana del cesarismo nella spiegazione che
Marx, nel 18 brumaio, aveva offerto della dinamica della crisi francese,
generalizzandone i risultati in una visione globale dei processi di moder-
nizzazione. Il nome di Weber ricorre, nei Quaderni del carcere, non più di
sette volte. I riferimenti a Economia e società sono evidentemente indiretti
e tratti dall'articolo di Michels. Diverso è il caso del saggio sull'etica pro-
testante e lo spirito del capitalismo, che poté leggere, nel 1931-1932, nella
traduzione a puntate pubblicata nei «Nuovi studi di diritto, economia e
politica»;340 e soprattutto del volume su Parlamento e governo, pubblicato
da Laterza nel 1919, il quale, seppure assente nel fondo librario, con ogni
probabilità era stato letto prima dell'arresto e certamente era vivo nella sua
memoria. Questo era il testo in cui Weber aveva dato il massimo rilievo al
concetto di cesarismo, con una precisione che non tornerà negli altri suoi
scritti politici. Non sappiamo, con esattezza, quando Gramsci lesse il libro:
ma è impossibile che la sua attenzione non fosse attirata dal modo in cui il
pensatore tedesco aveva considerato la questione.
Nel saggio di Weber il cesarismo interveniva in due diverse accezio-
ni. In primo luogo vi era l'uso puramente negativo del termine, legato al
339. Sul rapporto di Gramsci con l'opera di Weber, cfr. M. Montanari, Razionalità e
tragicità del moderno in Gramsci e Weber, in «Critica marxista», 25/6 (1987), pp. 47-71
(Id., Ideologie del politico. Tra liberalismo e teoria critica, Manduria, Lacaita, 1989,
pp. 133-160); A. Cavalli, Weber e Gramsci, in <<l quaderni dell'Istituto Gramsci-Marche»,
1/4 ( 1992), pp. 69-85; M. Filippini, Antonio Gramsci e Max Weber. Un dialogo a distanza
sulla "selezione" fordista, in «Quaderni di teoria sociale», 13/13 (2013), pp. 51- 74; A. Ba-
gn.asco, Gramsci e la sociologia, in Attualità del pensiero di Antonio Gramsci, Roma, Bar-
di, 2016, pp. 231-243.
340. F. Frosini, la religione del'uomo moderno. Politica e verità nei ..Quaderni del
carcere" di Antonio Gramsci, Roma, Carocci, 2010, pp. 241 ss.; Cospito, R ritmo de/pen-
siero, p. 149.
Tre fonti della teoria del cesarismo 95
341. M. Weber, Parlamento e governo. Per la critica politica della burocrazia e del
sistema dei partiti, a cura di F. Fusillo, Roma-Bari, Latcrza, 1993, p. 51.
342. I~ p. 20.
343. l~P- 57.
344. l~P- 58,p. 105.
345. I~ p. 33.
346. I~ p. 102.
347. I~ p. 53.
348. l~P- 107.
96 Rivoluzioni passive
349. Jbukm.
350. lvi, p. 108.
Il bonapartismo, Stalin e Trockij 97
351. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), L pp. 819-
820 (Q4, c. 37v).
352. Gramsci, Quaderni del carcere,p. 1619 (Ql3, c. 19v), p. 1194 (Q9, c. 95r).
353. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), L pp. 790-
796 (Q4, cc. 22r-25v).
354. Burgio, Gramsci. R sistema in movimento, p. 274, distingue il significato dei due
termini, considerando il bonapartismo come «versione regressiva del cesarismo», nel senso
che, «mentre il bonapartismo è, a suo giudizio, sempre negativo (regressivo), il cesarismo
può non esserlo». Si ricordi, in proposito, che la lettura dei regimi reazionari in termini di
"bonapartismo" era stata rifiutata dal movimento comunista internazionale e spesso asso-
r
ciata al trockismo. Nel Corso sugli avversari, tenuto a Mosca tra il gennaio e aprile del
1935, Togliatti sottolineò con durezza l'errore delle interpretazioni coonapartiste,, dei fasci-
smi: «questa - affermò-è una concezione che i trotskisti hanno sempre avuto del fascismo.
Qual è la sua radice? La sua radice è il disconoscimento della definizione del fascismo come
98 Rivoluzioni passive
dittatura della borghesia» (P. Togliatti, Opere 1929-1935, vol 3**, a cura di E. Ragioni~
Roma, Editori Riuniti, 1973, p. 535).
355. Gramsci, Quaderni delcarcm-e. 2. Quadunimiscellanei (1929-1935), Lpp.163-
165 (Ql, cc. 99v-100v).
356. Gramsci, Quaderni del carcm-e, p. 2161 (Q22, c. 32).
357. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), L p. 164
(Ql, c. lOOr).
358. Ibidem.
Il bonapartismo, Stalin e Trockij 99
produttive» (Quaderno 1), «le classi non legate strettamente al lavoro pro-
duttivo» (Quaderno 22). In una prima approssimazione, la classe operaia
sembrerebbe dunque estranea a tale processo di degenerazione morale, se
non per il fatto che ne è toccata «sentimentalmente», «perché deprava le
loro donne». Nella seconda stesura del Quaderno 22 Gramsci rende però
più esplicita la preoccupazione che, a questo punto, attraversa l'analisi,
parlando di un "contagio" che, dai ceti improduttivi, tende a trasmettersi
anche al proletariato di fabbrica: scrive infatti che «da queste classi [medie
e improduttive, la crisi morale] viene contagiata alle classi lavoratrici».359
Il discorso sulle «crisi di libertinismo» tocca ormai la stessa classe operaia
e, più specificamente, lo Stato socialista, dove «le classi lavoratrici non su-
biscono più la pressione violenta di un'altra classe» e «la nuova abitudine
di lavoro deve essere acquisita solo per via di persuasione e di convinzio-
ne». Tuttavia è innegabile che la crisi morale, nella forma di una reazione
degli istinti vitali, si produca anche qui, nella realtà sociale e politica dove
la persuasione dovrebbe sostituire la coercizione del processo industriale.
Gramsci sottolinea che, in tale caso, la crisi diventa particolarmente grave,
perché genera «una situazione a doppio fondo», una contraddizione acuta
fra «l'ideologia "verbale"» e la «pratica "animalesca"», fino a una «gran-
de ipocrisia sociale totalitaria», dove la «virtù» viene bensì affermata ma
«non osservata né per convinzione né per coercizione». L'unica soluzione,
dove non arrivano la «persuasione» e la «convinzione», cioè il consenso
spontaneo, sarebbe «l'autodisciplina» della classe stessa («Alfieri che si fa
legare alla sedia!»). Ma cosa accade se anche «1' autodisciplina», la «coer-
cizione di nuovo tipo», non riesce a conseguire il risultato auspicato e la
crisi morale persiste? Senza possibilità di dubbio, tanto nel maggio 1930
(Quaderno 1) tanto nella seconda metà del 1934 (Quaderno 22), il discorso
di Gramsci si riferisce al processo di industriaJizzazione in Unione Sovie-
tica, con i primi piani quinquennali avviati da Stalin nel 1928 e nel 1933.
Se lo Stato socialista non riesce a convertire 1' economia del paese con la
«persuasione» o con l' «autodisciplina», si apre una prospettiva che è lecito
definire disastrosa e che, nelle parole del Quaderno 1, prevede due sole
possibilità: una soluzione esterna, cioè «un 'invasione straniera», quindi
la fine della sovranità dello Stato socialista; oppure una soluzione interna,
con il sorgere di «una qualche forma di bonapartismo». Gramsci scrive:
che «il campo è aperto alle soluzioni di forza, all'attività di potenze oscure
rappresentate dagli uomini provvidenziali e carismatici».372 Guardando all 'a-
nalisi di Marx, Gramsci distingueva con cura due esiti possibili. Da un lato
la «soluzione organica», quando la classe dirigente risponde alla crisi di ege-
monia in termini di puro dominio, unificando «sotto la bandiera di un partito
unico» tutte le frazioni del proprio gruppo sociale, "schiaccia" l'avversario
di classe e ne disperde il personale di direzione. Quando questo accade, la
borghesia "domina" la società civile, senza esprimere più alcuna capacità
egemonica, senza poggiare su alcuna visione del mondo condivisa. È il re-
gime della pura forza. Ma questa «soluzione organica» può non riuscire, la
borghesia può non trovare la rapidità e l'energia per unirsi nella roccaforte
del potere politico e può fallire la conversione dell'egemonia nel dominio.
Perciò si determina un «equilibrio statico», dove la lotta di classe rimane
bloccata e nessun gruppo sociale è in grado di esercitare la funzione di ege-
monia o quella di dominio. Tutte le risorse politiche (il consenso, la forza, la
"golpe" e il "lione") appaiono fuori gioco, inutilizzabili, ed emerge la figura
arbitrale del capo carismatico, dell'individuo provvidenziale, del cesare, che
di fatto non appartiene alle forze fondamentali ma si appoggia sulla base
sociale di quei ceti che sono rimasti emarginati dallo sviluppo dell'industria:
quando la crisi non trova questa soluzione organica, ma quella del capo cari-
smatico, significa che esiste un equilibrio statico (i cui fattori possono essere
disparati, ma in cui prevale l'immaturità delle forze progressive) che nessun
gruppo, né quello conservativo né quello progressivo, ha la forza necessaria
alla vittoria e che anche il gruppo conservativo ha bisogno di un padrone.373
Con la nota del Quaderno 4 Sui partiti Gramsci aveva ormai stabilito il
nesso essenziale fra crisi organica e cesarismo. È in due testi del Quaderno
9, tuttavia, entrambi intitolati Machiavelli. Il cesarismo, che la questione
trovò la definizione più stringente e matura, poi ripresa in alcune pagine
fondamentali del Quaderno 13. Il cesarismo (riferito storicamente a perso-
naggi come Cesare, Napoleone I, Napoleone III, Cromwell) veniva infatti
legato non solo a una situazione di equilibrio «statico» ma propriamente
«catastrofico», nella quale, cioè, «la continuazione della lotta non può con-
cludersi che con la distruzione reciproca». 374 La prospettiva catastrofica del
conflitto apre pertanto la strada alla «grande personalità» che esercita una
«soluzione arbitrale», non rappresentando, come tale, né l'una né l'altra
delle forze sociali fondamentali. Ma il «significato storico» del cesarismo
meritava di essere precisato in senso dinamico, perché, spiegava Gramsci,
«ci può essere un cesarismo progressivo e un cesarismo regressivo»: il pri-
mo quando la personalità arbitrale «aiuta la forza progressiva», il secondo
quando, al contrario, «aiuta a trionfare la forza regressiva». Gramsci non
aveva dubbi nel classificare Cesare e Napoleone I come esempi di cesari-
smo progressivo e Bismarck come modello di un cesarismo regressivo. Le
difficoltà maggiori intervenivano a proposito di Napoleone III, quindi nella
lettura stessa del testo di Marx. Nelle due note del Quaderno 9 (senza che
la situazione venisse sanata nella seconda stesura del Quaderno 13) la con-
traddizione appariva evidente: in un primo momento affermava con sicu-
rezza che Napoleone III, con Bismarck e anzi prima di Bismarck, doveva
essere considerato come esempio principale di cesarismo regressivo; 375 ma
due fogli dopo, approfondendo l'analisi lungo la linea segnata da Marx,
rovesciava il proprio giudizio, dichiarando «obbiettivamente progressivo»
il cesarismo di Napoleone III, «sebbene non come quello di Cesare e di
Napoleone l».376 Scriveva infatti queste parole:
la forza dominante in Francia dal 1815 al 1848, si era scissa politicamente
in quattro frazioni: quella legittimista, quella orleanista, quella bonapartista,
quella repubblicano-giacobina Le lotte interne di frazione erano tali da rendere
possibile l'avanzata della fomt antagonista B (progressista) in fonna «preco-
ce»; tuttavia la forma sociale esistente non aveva ancora esaurito le sue possi-
bilità di sviluppo, come infatti la storia successiva mostrò abbondantemente.
Napoleone m rappresentò (a suo modo, cioè secondo la statura dell'uomo che
non era grande) queste possibilità latenti o immanenti; il suo cesarismo dunque
è ancora di un tipo particolare. È obbiettivamente progressivo, sebbene non
come quello di Cesare e di Napoleone I. Il cesarismo di Cesare e di Napoleone
I è stato, per così dire, di carattere quantitativo-qualitativo, ha cioè rappresen-
tato la fase storica di passaggio da un tipo di Stato a un al1ro tipo, un passaggio
in cui le innovazioni furono tante quantitativamente e tali, da rappresentare
un completo rivolgimento qualitativo. Il cesarismo di Napoleone m fu solo e
limitatamente quantitativo; non ci fu passaggio da un tipo di Stato ad un altro
tipo, ma solo «evoluzione» dello stesso tipo, secondo una linea ininterrotta. 377
315. lbidt2m.
376. Ivi. p. 1198 (Q9. c. 97v).
311.lbidt2m.
Il cesarismo come forma politica delle rivoluzioni passive 107
passato «dal concetto di cesarismo al concetto di Hrivoluzione passiva» (ivi, p. 367), ab-
bandonando la categoria di cesarism.0 deve dunque essere corretta, perché tra rivoluzione
11
nozioni venne stretto per la prima volta, nell'aprile 1932, in una nota del
Quaderno 8 dedicata alla Storia d'Europa di Benedetto Croce, che fu am-
piamente rielaborata, poco tempo dopo, nel Quaderno 10.421 Come sappia-
mo, Gramsci aveva definito la Storia d'Europa come il «paradigma» di
storia etico-politica offerto alla cultura europea e mondiale e, allargando
lo sguardo alle altre opere storiografiche di Croce, ne aveva indicato la
«gherminella» nella separazione artificiosa dal momento "attivo", e real-
mente creativo, rappresentato dalla Rivoluzione francese e dalle guerre
napoleoniche: perciò il suo racconto appariva come «un trattato di rivolu-
zioni passive», limitato alla fase dell '«espansione culturale» dei princìpi
rivoluzionari, quando, «a piccole dosi, legalmente, riformisticamente», le
innovazioni si erano affermate attraverso «la corrosione "riformistica" che
durò fino al 1870». Gramsci indicava, perciò, un limite di comprensio-
ne storiografica, culminante nella considerazione unilaterale del momento
''passivo" e nello scambio improprio tra la rivoluzione passiva e la totalità
della storia europea. Svolgendo questo filo, che ribadiva il carattere es-
senziale della sua teoria (le rivoluzioni passive sono tali, infatti, perché
presuppongono e svolgono una rivoluzione di tipo giacobino), si chiedeva
se tale considerazione avesse anche un «riferimento attuale», cioè se all'e-
poca ''passiva" del liberalismo, dispiegata tra il 1789 e il 1870, seguisse
ora una fase ulteriore e diversa di rivoluzione passiva, innescata dai ri-
volgimenti accaduti tra il 191 7 e il 1921 (con la sconfitta del tentativo
rivoluzionario in Germania). La risposta era indicata nella tendenza cor-
porativa del fascismo italiano, ma implicava, naturalmente, un indirizzo
più generale della politica europea, relativo alla guerra e alla grande crisi
del 1929. Fermandosi al corporativismo, Gramsci lo interpretava come il
tentativo di «trasformare la struttura economica ''riformisticamente" da in-
dividualistica a economia secondo un piano» e, nella seconda stesura del
Quaderno 1O, come accentuazione dell' «elemento ''piano di produzione"»,
sotto il controllo delle classi dirigenti tradizionali e con lo scopo di mante-
nerne il «sistema egemonico». In sostanza, dunque, dopo gli avvenimen-
ti della guerra, culminati nella rivoluzione del 1917, il sistema borghese
poteva mantenersi solo alla condizione di assimilare, ''passivamente", il
principio della «economia secondo un piano» e di superare, così, la visione
individualistica della precedente epoca liberale. Una strategia di adatta-
mento, che trovava nel corporativismo fascista un laboratorio esemplare e
421. Ivi, pp. 1088-1089 (Q8, cc. 78r-78v); pp. 1226-1229 (QIO, cc. 46v-47v).
120 Rivoluzioni passive
implicazioni strategiche (e non più solo tattiche) delle sue considerazioni» e osserva che
«questa trasfonnazione del concetto di guerra di posizione fino alla sua identificazione con
la rivoluzione passiva si accompagna significativamente a un'evoluzione del giudizio nei
confronti dell'Unione Sovietica» (p. 1049).
425. Già nell'articolo del 1972 su Una chiave di letttua in ''Americanismo e for-
dismo" (R presente come storia, pp. 243-254) Franco De Felice definiva i Quaderni del
122 Rivoluzioni passive
crisi degli anni Trenta e il discorso sulle rivoluzioni passive. Per un lungo
tempo la critica, almeno nella maggioranza degli interpreti più qualificati,
ha ritenuto che Gramsci concepisse la crisi degli anni Trenta come un pe-
riodo di rivoluzione passiva globale e dunque elaborasse le sue categorie
per giustificare questa lettura.426 Tale tesi merita di essere corretta, come
ora vedremo, in una direzione determinata. Se gli anni Trenta rappresen-
tassero un'epoca di rivoluzione passiva, ciò significherebbe che è in atto
un processo di trasformazioni molecolari, che da un lato presuppone la
forza propulsiva ed espansiva di una rivoluzione mondiale (la rivoluzione
sovietica) e, d'altro lato, implica la capacità delle classi dirigenti di go-
vernare, sia pure in senso ''passivo" e trasformistico, una fase di moder-
nizzazione e di progresso. Al contrario, gli anni Trenta rappresentano per
Gramsci un periodo di crisi organica globale, o, se si preferisce, un esem-
pio di mancata rivoluzione passiva, dove tanto la forza espansiva della
rivoluzione proletaria tanto la capacità trasformistica delle classi dirigenti
si sono drammaticamente interrotte, determinando un vuoto di egemonia
e di guida nell'ordine mondiale. Una crisi ben più radicale, dunque, nella
quale già si scorgono i segni della catastrofe e della guerra. La categoria di
rivoluzione passiva diventa fondamentale per comprendere la situazione,
per decifrare la dissoluzione del rapporto egemonico, ma in un significato,
per così dire, negativo, che indica non la presenza ma la tragica assenza del
quadro categoriale che quel concetto esige per realizzarsi. È attraverso il
modello delle rivoluzioni passive che viene interpretata la crisi egemonica
globale degli anni Trenta, ma per dimostrare che il ritmo stesso delle rivo-
luzioni passive, che aveva ordinato i passaggi fondamentali della moderna
storia europea, si è dissolto, che il mondo sta entrando, o è già entrato, in
una zona cieca, che promette le più gravi tempeste.
carcere come «il punto di approdo di Wl' esperienza collettiva del movimento operaio ita-
liano filtrante una esperienza internazionale come la Rivoluzione d'ottobre e il leninismo,
in un contesto particolare che ha visto la fine di un'epoca, quella liberale e l'avvento del
fascismo, come ipotesi di organizzazione generale della società portata avanti sulla base di
una stessa formazione economico-sociale» (ivi, p. 245). Una indicazione, vòlta a ricostruire
«l'unità di riflessione gramsciana tra teoria e politica» (ivi, p. 243), che quasi mezzo secolo
di studi gramsciani avTebbe pienamente confermato.
426. Cfr. la "rettifica" di Vacca, Modernità alternative, p.135, nota 109. Si vedano, in
questo senso, De Felice, Rivoluzione passiva,fascismo, americanismo in Gramsci, pp. 315-
368 e M Telò, Note sul futuro del/ 'Occidente e la teoria delle relazioni intm-nazionali, in
Gramsci e il Novecento, a cura di G. Vacca, Roma, Carocci, 1999, pp. 51-74.
Americanismo: una rivoluzione passiva? 123
sappiamo, dal saggio di Cuoco), il concetto era chiaro nella mente dell 'au-
tore. Generalizzando in un «modello» il processo di formazione degli Stati
nazionali europei, scandiva i singoli passaggi della dinamica storica che
aveva condotto da una «esplosione rivoluzionaria», nella forma di una
guerra di movimento, a una «espansione» di tipo "passivo", nella figura di
una molecolare guerra di posizione. La «quistione», spiegava,
storicamente risulta da questi elementi: I 0 ) Esplosione rivoluzionaria in Fran-
cia; 2°) Opposizione europea alla Rivoluzione francese e alla sua espansione
per i «meati» di classe; 3°) Guerre rivoluzionarie della Francia con la Repub-
blica e con Napoleone e costituzione di una egemonia francese con tendenza
a uno Stato universale; 4°) Riscosse nazionali contro l'egemonia francese e
nascita di Stati moderni europei per ondate successive, ma non per esplosioni
rivoluzionarie come quella originaria francese. Le «ondate successive» sono
date da una combinazione di lotte sociali di classi e di guerre nazionali, con
prevalenza di queste ultime. La «Restaurazione» è il periodo più interessante
da questo punto di vista: essa è la fonna politica in cui la lotta delle classi
trova quadri elastici che permettono alla borghesia di giungere al potere senza
rotture clamorose, senza l'apparato terroristico francese. Le vecchie classi
sono degradate da «dirigenti» a «governative», ma non eliminate né tanto
meno fisicamente soppresse; da classi diventano «caste» con caratteri psico-
logici determinati, non più con funzioni economiche prevalenti.434
Subito dopo, rivelando il problema che aveva innescato la meditazione,
si chiedeva se quel «modello», articolato nella sequenza esplosione-espan-
sione, «può ripetersi» nella situazione attuale, sulla base di una stringente
analogia fra Rivoluzione francese e rivoluzione russa. Senza alcuna esita-
zione rispondeva che la ''ripetizione" «è da escludere, per lo meno in quanto
alla ampiezza e per quanto riguarda i grandi Stati».43s Nella rielaborazione in
seconda stesura del Quaderno 1O, scritta un paio di anni dopo, ribadì il mede-
simo concetto, ma ne affievolì la forma assertiva e drastica che aveva assunto
nel primo quaderno: tornando a chiedersi se il «"modello" della formazione
degli Stati moderni può ripetersi in altre condizioni», rispondeva con una
domanda e, correggendo la prima formulazione, lasciava aperta la risposta:
questo «modello» della formazione degli Stati moderni può ripetersi in altre
condizioni? È ciò da escludere in senso assoluto, oppure può dirsi che almeno
in parte si possono avere sviluppi simili, sotto forma di avvento di economie
programmatiche? Può escludersi per tutti gli Stati o solo per i grandi? La
quistione è di somma importanza, perché il modello Francia-Europa ha cre-
ato una mentalità) che per essere «vergognosa di sé» oppure per essere uno
«strumento di governo» non è perciò meno significativa.436
La «quistione» era, in effetti, «di somma importanza», perché chiama-
va in causa la capacità espansiva dello Stato sovietico rispetto al proces-
so mondiale. Ed era la medesima «quistione» che Gramsci aveva sollevato
nell'ottobre 1926, nella famosa lettera al comitato centrale del partito russo,
quando, di fronte ai primi provvedimenti amministrativi del gruppo dirigen-
te staliniano, aveva segnalato il rischio di uno smarrimento della capacità
«propulsiva» ed espansiva della prima rivoluzione comunista. La domanda
sulla ''ripetizione" del «modello» inaugurato dalla Rivoluzione francese era
dunque decisiva per decifrare il caos nel quale il mondo era caduto. Con
comprensibili dubbi e notevoli oscillazioni, Gramsci era arrivato alla moti-
vata conclusione che quella forza «propulsiva» si era interrotta e che, perciò,
il movimento comunista non riusciva a esercitare la funzione egemonica che
la borghesia, a partire dalla «esplosione» del 1789, aveva irradiato nell'intera
Europa. Da un lato, dunque, si assisteva al tramonto della forma di vita bor-
ghese, che si era infranta nelle trincee della guerra, d'altro lato all'inaridirsi
del sogno rivoluzionario, che dalle giornate dell'ottobre avrebbe dovuto pro-
durre nuove «ondate successive» e che subiva, invece, il duro contrattacco
della reazione. Né l'Europa, né le nuove «grandi potenze» (Russia e Ameri-
ca), riuscivano a indicare al mondo una via di civiltà e di sviluppo.
Il tema dell'americanismo sorgeva all'interno di questa problematica
e quindi risultava, fin dall'inizio, strettamente legato al dossier sulle rivo-
luzioni passive. Anzi, di preciso, esso risorgeva di nuovo e si presentava,
nella meditazione del prigioniero, in una forma sostanzialmente differente
e trasfigurata rispetto a quella che aveva accompagnato il primo sviluppo
della sua riflessione, che, fin dall'immediato dopoguerra, aveva collocato
la categoria di "interdipendenza" al centro dell'analisi dello sviluppo in-
ternazionale. Basti ricordare, per questo, gli articoli che precedono la con-
ferenza di Parigi, l'influsso di un autore come Norman Angeli e i giudizi
sui 14 punti di Wilson, fino alla definizione della Lega delle Nazioni come
un «conguagliamento della politica con l'economia».437 Sono pagine note
445. B. Croce, Una obiezione alla legge ma,:-cistica della caduta del saggio del profit-
to> in Id.> Materialismo storico ed economia marxistica, a cura di M. Rascaglia e S. Zoppi
Garampi, Napoli, Bibliopolis, 200 I, pp. 151-162.
446. lvi, p. 160 (le varianti> di scarso rilievo, alla p. 481 ).
44 7. B. Croce, Le teorie storiche del proj Loria> in Id.> Materialismo storico ed eco-
nomia marxistica, p. 45.
448. Croce> Una obiezione alla legge marxistica> p. 157.
Americanismo: una rivoluzione passiva? 131
La riduzione del saggio di profitto era ricondotta alla «legge della domanda
e offerta»449 e, d'altro lato, alle «forme storiche» determinate dall'aumento
nominale dei salari, cioè dalla maggiore incidenza del capitale variabile.
D'altro lato, nella prefazione del 1906 alla seconda edizione del libro su
Marx, Croce affermava che «la legge circa la caduta del saggio di profitto»,
«qualora fosse esattamente stabilita», avrebbe comportato «né più né meno
che la fine automatica e imminente della società capitalistica»,4so riportan-
do perciò la terza sezione del terzo libro alla filosofia della storia e a una
concezione finalistica del progresso.
Furono questi gli aspetti su cui si concentrò la critica di Gramsci. Nel
Quaderno 7 (1931) sottolineò subito il nesso fra la «caduta tendenziale
del saggio di profitto» e il discorso relativo «al taylorismo e al fordismo»:
il progresso tecnico, come «aumento del capitale costante», doveva es-
sere interpretato come «una variabile che toglie immediatamente effetto
alla legge»: «la legge tendenziale scoperta da Marx - concludeva - sareb-
be quindi alla base dell'americanismo, cioè del ritmo accelerato nel pro-
gresso dei metodi di lavoro e di produzione e di modificazione del tipo di
operaio».4s1 La centralità che nell'analisi acquistavano le forze «contrope-
ranti» (come Marx e poi Croce le avevano definite), ossia le «variabili»
capaci di rendere provvisoriamente inefficace la legge e di limitarne la
"tendenza" distruttiva, lo portava, già nella nota del 1931, a riconfigurare
la storia del capitalismo come «una serie di crisi», «ritornanti a ciclo»,
ma sempre recuperate e assorbite dalla logica del sistema, fino al «limite
di saturazione dell'industria mondiale», cioè fino a quando, aggiunse nel
Quaderno 10, «tutta l'economia mondiale sarà diventata capitalistica» e,
toccate le colonne d'Ercole del modello produttivo, la contraddizione eco-
nomica si rovescerà in una «contraddizione politica».452 In modo analogo,
le innovazioni introdotte nella divisione tayloristica del lavoro avrebbero
dovuto necessariamente socializzarsi, essere incorporate nel lavoro medio
e «socialmente necessario», generando così, «a ciclo» e in forma mole-
colare, una specie di rincorsa al profitto maggiore e, di conseguenza, una
caduta "tendenziale" del saggio di profitto. 453
454. Ivi, p. 882 (Q7, c. 68v). La definizione cadde nel Quaderno IO (ivi, p. 1312,
c. 24v).
455. Ivi, p. 1279 (QlO, c. 13v).
456. Ivi, p.1278 (QlO, c. 13r).
457. Ivi, p.1279 (QlO, c. 13v).
Riforma e Rinascimento 133
461. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), I, pp. 87-
88 (Q t cc. 54v-55r).
462. Gramsci, Quaderni del carcere, p. 2146 (Q22, c. 17).
463. «Come agli inizi del secolo diciannovesimo tutte le speranze dei popoli si vol-
gevano alla rivoluzione francese, e invano infuria vano la reazione e la Santa Alleanza, cosi
oggi si guarda, dall'Asia come dall'Europa, alla rivoluzione russa» (In che direzione si svi-
Riforma e Rinascimento 135
- scrisse - l'ho letto in due o tre giorni e credo non mi sia sfuggita neanche
una espressione».469 La lettura di Farbman sollecitò la stesura di due note
del Quaderno 7 su Riforma e Rinascimento. A partire dalla critica di un
articolo di Boris Souveraine, ricordò l '«Economist» e mise a fuoco quella
coppia concettuale Riforma-Rinascimento che, d'ora in poi, guiderà il giu-
dizio sulla politica sovietica:
Ma noi vediamo oggi avvenire lo stesso per la concezione del materialismo
storico; mentre da essa, per molti critici, non può derivare «logicamente»
che fatalismo e passività, nella realtà invece essa dà luogo a una fioritura
di iniziative e di intraprese che stupiscono molti osservatori (cfr estratto
dell'«Economist» di Michele Farbman). Se si dovesse fare uno studio su
l'Unione, il primo capitolo, o addirittura la prima sezione del libro, dovreb-
be proprio sviluppare il materiale raccolto sotto questa rubrica «Riforma e
Rinascimento» .470
Un altro episodio, che spinse Gramsci ad articolare la dialettica Rifor-
ma-Rinascimento, fu la discussione tra Croce e Lunacarskij al VII Con-
gresso internazionale di filosofia a Oxford, quello in cui Croce pronunciò
la celebre conferenza sull'Antistoricismo. L'attenzione di Gramsci per tale
controversia (nei Quaderni 6, 7 e 10) fu continuativa e, con la lettera del
15 dicembre 1930, chiese con insistenza anche un articolo di Giovanni
Gentile che vi si collegava.471 Il confronto tra le due figure gli sembrò,
infatti, incarnare plasticamente l'antitesi dei due momenti: se Croce aveva
assunto verso la filosofia della praxis un atteggiamento "erasmiano", tipico
dell'uomo del Rinascimento (non comprendendo che l'uomo del Rinasci-
mento «deve democratizzarsi» nel mondo moderno), d'altra parte il tipo-
Lunacarskij appariva fenno ali 'uomo della Rifonna, quindi al di sotto di
quella distinzione tra egemonia e dittatura che Croce aveva, sia pure in ma-
niera unilaterale e incompiuta, introdotto con la sua storia etico-politica:
i raggruppamenti sociali regressivi e conservativi - scriveva - si riducono
sempre più alla loro fase iniziale economica-corporativa, mentre i raggrup-
pamenti progressivi e innovatori si trovano ancora nella fase iniziale appunto
economica-corporativa [ ... ] Questo [processo di] disintegrazione dello Stato
476. Gramsc~ Quaderni del. carcere, p. 1064 (Q8, c. 64r), p. 1387 (Qll, c. 17v),
p. 1395 (Ql t c. 21 v).
477. Gramsc~ Lettere dal carcere, p. 613.
Riforma e Rinascimento 139
ciò che colpisce è questo: come un punto di vista critico che richiede il massi-
mo di intelligenza, di spregiudicatezza, di freschezza mentale e di inventività
scientifica sia divenuto il monopolio di biascicazione di cervelli ristretti e
meschini, che solo per la posizione dogmatica riescono a mantenere una po-
sizione non nella scienza, ma nella bibliografia marginale della scienza. Una
forma di pensare ossificata è il pericolo più grande in queste quistioni: è da
preferire una certa sbrigliatezza disordinata alla difesa filistea delle posizioni
culturali costituite.4s1
Se il secondo articolo di Mirskij aveva generato nell'animo di Gramsci
la speranza che, con il primo piano quinquennale, l 'Urss promuovesse la
costruzione di una vera società civile, le parole che successivamente dedi-
cò al Précis ne rappresentarono, per così dire, la errata corrige. 482 Come si
vede, in una situazione storica completamente diversa, la «grande poten-
za» russa mostrava lo stesso limite della potenza americana: anche qui, «la
"struttura" domina più immediatamente le soprastrutture», la «quistione
dell'egemonia» non riesce ad affermarsi, perché lo spirito della nazione è
fermo alla Riforma, alla fase economico-corporativa, e manca la piena arti-
colazione di una società civile. In tali condizioni nessuna delle due potenze
può esercitare quel ruolo di guida che la situazione drammatica, aperta
dalla fine del ciclo borghese, richiederebbe.
zione della «nuova civiltà» avrebbe richiesto. L'Europa gli apparve, alla fine,
talmente intrecciata al ciclo delle rivoluzioni borghesi, al mito dello Stato na-
zionale che, di quelle rivoluzioni, aveva rappresentato il più bel frutto, da non
lasciare molto spazio a una speranza di riscatto. Con l'epoca della borghesia,
anche l'Europa sembrava declinata nella svolta di fine secolo, intorno al 1870,
si era infranta nelle trincee della Grande guerra e si apprestava, ora, a farsi
incontro alla sua catastrofe. Era una immagine di decadenza, non di rinnova-
mento, quella che, dolorosamente, emergeva da ogni rigo delle sue pagine.
Di fronte alla «"vergine" America», l'Europa è costituita dalle sue
«grandi ''tradizioni storiche e culturali"»,485 che sono, al tempo stesso,
«sedimentazioni vischiosamente parassitarie», «passive», depositate nella
struttura sociale (a partire dalla rendita agraria e dalla organizzazione delle
città) e derivanti, in maniera particolare, dalla forma dello Stato nazionale
(burocrazia, intellettuali e così via). L'apparato improduttivo, che impedi-
sce la razionalizzazione del sistema, quindi il «passaggio» alla «economia
programmatica», non è, nella visione di Gramsci, un elemento estraneo
che interferisca con lo sviluppo industriale, ma il risultato, quasi l' oggetti-
vazione, del carattere più specifico della storia europea. Per liberarsi delle
«sedimentazioni passive», l'Europa dovrebbe congedare la sua tradizione
ed entrare, appunto, in una «nuova civiltà». Il positivo e il negativo hanno
lo stesso volto. Ciò che fa grande l'Europa- il motivo per cui presenta una
società civile ricca e articolata, una civiltà proiettata oltre il limite "struttu-
rale", un alto grado di possibilità egemonica- è anche la ragione della sua
decadenza. È la terra in cui il grande ciclo borghese si è cristallizzato in una
forma di vita e sembra destinata a precipitare in esso.
Osservati nei tre tennini principali che compongono la trama dei qua-
derni - Russia, America, Europa -, questi sono gli aspetti che delineano
l'immagine di una crisi globale, che impediscono di entrare negli ordi-
ni di una rivoluzione passiva e di ripetere, in una prospettiva diversa, il
grande ciclo delle rivoluzioni borghesi, operando il passaggio «dal vecchio
individualismo economico all'economia programmatica». Lo sguardo di
Gramsci, nel crinale degli anni Trenta, si era fatto fosco e pessimistico, e
presagiva, con una lucidità e un realismo impressionanti, la catastrofe ver-
so cui, a passi molto rapidi, il mondo si era incamminato. Nella mancanza
di una reale egemonia, alla guerra sarebbe seguita la guerra, una guerra
ancora più distruttiva di quella consumata nel principio del secolo.
sto più tardo (aprile-maggio 1932), che si legge in prima stesura nel Quader-
no 9, Gramsci provò a specificare il meccanismo di tale dinamica nel passag-
gio della fiducia dei risparmiatori dalle azioni industriali alle obbligazioni e
ai titoli di Stato, che implicava la necessità di una qualche forma di economia
programmatica, con una «riforma agraria» e una «riforma industriale»: se lo
Stato, osservava, divenuto titolare del risparmio, non intervenisse a regola-
re il sistema di produzione e di scambio, la sfiducia per l'industria privata
«travolgerebbe anche lo Stato» e la situazione «diventerebbe catastrofica per
l'insieme dell'organizzazione economico-sociale».494
L'analisi sui titoli di Stato chiariva il significato di quella battuta, ac-
cennata nel primo quaderno, sulla «immane catastrofe» che il fascismo
avrebbe dovuto sfuggire. In una nota del Quaderno 8, largamente rielabo-
rata nel Quaderno 1O (le due stesure sono cronologicamente molto vicine),
Gramsci tirò la somma dell'analisi proposta, arrivando a definire il corpo-
rativismo come unarivoluzione passiva o, meglio e più precisamente, «una
guerra di posizione nel campo economico [ ... ], così come la ''rivoluzione
passiva" lo è nel campo politico».495 Dunque una rivoluzione passiva di
tipo economico, relativa alla modernizzazione della struttura produttiva,
sia pure tesa a «mantenere il sistema egemonico» e «senza per ciò toccare
(o limitandosi solo a regolare e controllare) l'appropriazione individuale e
di gruppo del profitto». L'intero discorso (che prendeva spunto dal giudizio
sulla storia d'Europa di Croce come «trattato di rivoluzioni passive») era
fondato sull'analogia tra corporativismo e liberalismo ottocentesco:
può avere questa trattazione - si chiedeva nel Quaderno 8 - un riferimento
attuale? Un nuovo «liberalismo», nelle condizioni moderne, non sarebbe poi
precisamente il «fascismo»? Non sarebbe il fascismo precisamente la forma
di «rivoluzione passiva» propria del secolo XX come il liberalismo lo è stato
del secolo XIX? [ ... ] Si potrebbe cosi concepire: la rivoluzione passiva si
verificherebbe nel fatto di trasfonnare la struttura economica «rifonnistica-
mente» da individualistica a economia secondo un piano (economia diretta)
e l'avvento di una «economia media» tra quella individualistica pura e quel-
la secondo un piano in senso integrale, permetterebbe il passaggio a forme
politiche e culturali più progredite senza cataclismi radicali e distruttivi in
forma sterminatrice. Il «corporativismo» potrebbe essere o diventare, svilup-
pandosi, questa forma economica media di carattere «passivo» [ ... ]. Questa
concezione potrebbe essere avvicinata a quella che in politica si può chiama-