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Indice

Prefazione 7

1. I «paesi che ammodernarono lo Stato» 15


2. Benedetto Croce e il «contraccolpo» 18
3. Guido De Ruggiero come fonte di Gramsci 23
4. Le rivoluzioni di Vincenzo Cuoco 30
5. Le due aggiunte al Quaderno 1 34
6. Rivoluzioni attive e passive 38
7. La «rivoluzione-restaurazione» di Edgar Quinet 43
8. Croce e le rivoluzioni passive 48
9. La «dialettica addomesticata» 52
10. Da Croce a Labriola 57
11. La Miseria della filosofia 66
12. Rivoluzioni passive e traducibilità 71
13. I due princìpi della volontà collettiva 76
14. La coscienza e la funzione dello Stato 80
15. Tre fonti della teoria del cesarismo 84
16. Il bonapartismo, Stalin e Trockij 97
17. Il cesarismo come forma politica delle rivoluzioni passive 102
18. La guerra di posizione 110
19. Americanismo: una rivoluzione passiva? 121
20. Riforma e Rinascimento 133
21. Fascismo e corporativismo 140

Indice dei nomi 147


Prefazione

La teoria delle rivoluzioni passive è uno dei temi più frequentati dalla
recente critica gramsciana. Messa a fuoco nel corso degli anni Settanta, que-
sta categoria ha sollecitato numerose analisi e diversi tentativi di attnaUzza-
zione, specie per la lettura dei processi di modernizzazione extra-europei,
dall'America Latina alla Turchia. Gramsci la raccolse, con la mediazione
di alcuni testi più recenti, dall'opera di Vincenzo Cuoco sulla rivoluzione
napoletana del 1799, anche se essa proveniva da una lunga vicenda intellet-
tuale, che risaliva almeno ai Rights ofMan di Thomas Paine e ad altri autori
italiani, come Michele Natale e Francesco Lomonaco. Certamente fu colpito
dalla dissonanza tra il sostantivo e l'aggettivo, che gli sembrava esprimere
un tratto saliente del ciclo delle rivoluzioni borghesi, al cui interno si col-
locava, in una posizione esemplare e come caso nazionale, il Risorgimento
italiano. L'ossimoro del lemma rifletteva lo sviluppo paradossale della tran-
sizione all'Europa moderna. Da un lato il sostantivo sottolineava il carattere
di autentico progresso disegnato dalla storia ottocentesca, conseguito senza
la ripetizione di esplosioni violente, con interventi "dall'alto" e ondate rifor-
mistiche capaci di assimilare alcune esigenze dell'avversario di classe. D'al-
tro lato l'aggettivo indicava la persistente "passività" delle classi subalterne,
le quali, a differenza di quanto era accaduto nei movimenti di tipo giacobino,
non avevano partecipato al processo storico, restandone ai margini. Questi
due tratti - rivoluzione, passività - detenninano con sufficiente precisione il
dominio semantico della formula.
In un significato iniziale la teoria delle rivoluzioni passive rappresenta
un'articolazione e uno svolgimento del motivo che Marx ed Engels aveva-
no inaugurato nel Manifesto comunista e che Marx aveva ulteriormente in-
dagato nei suoi scritti storici. Il carattere «versteckten», latente, del conflitto
8 Rivoluzioni passive

di classe in intere epoche della storia, l'immagine dello «Hexenmeister»,


dello sciamano, «che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui
evocate», la particolarità della lotta sociale che spiana la strada del potere a
Luigi Bonaparte: questi e altri nuclei della lettura marxiana della moderni-
tà tornarono puntualmente nella meditazione di Gramsci e ne costituirono
l'orizzonte problematico. Non sorprende, pertanto, che al centro di tutta
l'elaborazione del concetto rimanga il confronto con l'opera di Marx, dalla
Prefazione del '59 al Capitale, un confronto che Gramsci intraprese nel
periodo della detenzione in una forma acuta e creativa, aggiungendovi le
suggestioni che provenivano da Machiavelli o da Max Weber, consapevole
(come lo era stato Antonio Labriola) del fatto che, per comprendere Marx,
non giova ripeterlo o postillarlo ma occorre svolgerne le idee in maniera
originale. Scavare dentro i testi di Marx per andare oltre Marx, seguendo le
discontinue crepe del tempo storico e le esigenze sempre nuove della lotta
sociale e politica, significa non solo essere "marxisti", nel senso autentico
dell'espressione, ma penetrare nel livello più profondo della sua concezio-
ne. Per questo le non infrequenti invettive contro il marxismo (il «Marx
critique du marxisme» e il marxismo come «scandalo universale» di cui,
per esempio, parlò una volta Maximilien Rubel) rischiano di apparire astrat-
te e ingenerose, perché la conoscenza dell'opera di Marx rimane viva non
solo nella opportuna precisazione filologica dei testi ma anche nel lavoro di
rielaborazione che la teoria può e deve compierne. Così come, d'altronde,
inesatta e fuorviante è la tesi, tante volte ripetuta dai critici liberali, di un
Gramsci che avrebbe costruito un marxismo senza Marx o senza il Capita-
le. È vero il contrario: Marx fu il suo classico e la riflessione su Marx costi-
tuì un impegno costante e irrinunciabile di tutto il suo lavoro intellettuale.
Per la teoria delle rivoluzioni passive, come per altri aspetti del suo
pensiero, fu decisivo l'incontro di Gramsci con il marxismo di Antonio La-
briola. Quando la stesura dei Quaderni del carcere iniziò, l' 8 febbraio del
1929, la frequentazione dei testi di Labriola era già di lunga data, risaliva
probabilmente al periodo precedente la Grande guerra e si era intensificata
negli anni trascorsi a Roma tra il 1924 e il 1926. Nei quaderni, però, assunse
un rilievo che è lecito definire eccezionale, perché la riflessione labrioliana
sul materialismo storico diventò il simbolo di ciò che il marxismo avrebbe
potuto essere e, invece, non era divenuto. Il marxismo attuale era quello di
Bucharin, non quello di Labriola. Gramsci assunse da Labriola alcuni temi
determinati, dall'idea dell'autonomia del marxismo (per cui il marxismo
non è un materialismo né un idealismo, ma una nuova posizione teorica) al
progetto di una filosofia della praxis. Li ripensò e modificò in profondità, a
Prefazione 9

cominciare dal concetto stesso di praxis, che per Labriola indicava l 'ope-
razione essenziale del lavoro umano, come mediazione con la natura e co-
stituzione di un "terreno artificiale", di un distacco della storia umana dalla
storia naturale, e in Gramsci acquistò il carattere della ragione politica, della
formazione delle volontà collettive e dei soggetti moderni della democrazia.
Nel quarto saggio postumo (Da un secolo all'altro) Gramsci poteva leggere
una compiuta distinzione tra «storia attiva» e «storia passiva» nell'àmbito
di una considerazione complessiva del ciclo delle rivoluzioni borghesi e,
in particolare, l'applicazione di questo paradigma alla storia d'Italia e al
Risorgimento, con la conclusione che «il risorgimento italiano s'è svolto
tutto per entro al secolo decimonono; ma ci si è svolto più nel senso della
storia passiva che in quello della storia attiva». Parole che non ricordò nei
quaderni, che almeno non trascrisse né commentò in forma diretta, ma che
certamente conosceva e ricordava e che, con ogni probabilità, contribuirono
alla costruzione del suo modello interpretativo.
La filosofia della praxis (formula derivata dal terzo saggio di Labriola
sul materialismo storico) costituisce il programma teorico dei Quaderni
del carcere e la base di tutta la concezione dell'egemonia, in una relazio-
ne di fondazione reciproca. L'errore del marxismo della Seconda e della
Terza Internazionale era indicato da Gramsci nell'incapacità di sviluppare
una propria visione del mondo e della storia, una autonoma.filosofia, re-
stando perciò a uno stadio rozzo e "corporativo". Il nuovo livello della
lotta rivoluzionaria presupponeva la soluzione di questo problema, la ri-
congiunzione di teoria e prassi, non in un senso astrattamente speculativo
ma come teoria della soggettività, della costituzione del soggetto politico
moderno, lungo la linea indicata da Marx nella Prefazione a Per la critica
dell'economia politica: «come nasce il movimento storico sulla base della
struttura?». Ecco la radice della filosofia della praxis e il motivo della ri-
cerca inquieta sul rapporto fra struttura e superstrutture, scolpito dapprima
nella metafora del blocco storico, ripresa da Georges Sorel, poi rielaborato
nella più plastica teoria dei "rapporti di forza".
La rivoluzione passiva discende dunque dalla concezione dell'egemo-
nia e ne indica la condizione storica indispensabile. È proprio nella rivo-
luzione passiva continentale, ossia nel processo storico della rivoluzione
borghese, che si afferma una nuova figura dello Stato, uno Stato integrale e
allargato, capace di combinare l'elemento politico e quello sociale e di su-
perare l'antica visione puntuale della sovranità. Fin dal Quaderno 1 Gramsci
riconobbe nella immagine hegeliana della bfirgerliche Gesellschaft, nella
«società civile», la maggiore scoperta del pensiero politico moderno. Hegel
10 Rivoluzioni passive

rappresentava ai suoi occhi non il filosofo della Prussia arretrata e autori-


taria ma della Rivoluzione francese, della fase espansiva e giacobina del
moto borghese europeo. Per questo aveva saputo vedere, meglio di altri, il
mutamento morfologico della politica moderna, tutto quello che nella rivo-
luzione borghese era implicito e destinato a compiersi: a cominciare dalla
trasformazione dell'ordine statuale, che nell'epoca dell'unificazione eco-
nomica del mondo non era più quello disegnato da Bodin o da Hobbes agli
inizi dell'età moderna, ma un potere diffuso, molecolare, articolato nei seg-
menti e nelle pieghe di una larga vita civile, interposta fra la base economica
e il vertice governativo. Le rivoluzioni passive sono lo strumento attraverso
il quale questa nuova fo~a della politica moderna si diffonde e acquista il
carattere della normalità. E in tale processo di lungo periodo che la guerra
di movimento si converte nella guerra di posizione e che viene esercitata la
pratica dell'egemonia come metodo politico. Vi è dunque un nesso inestri-
cabile tra teoria dell'egemonia e rivoluzioni passive, al punto che questi due
aspetti devono essere considerati unitariamente, l'uno dentro l'altro.
La categoria di rivoluzione passiva possiede dunque un significato sto-
riografico (la transizione) e un preciso senso teorico (I' egemonia). Come
tutte le categorie-chiave dei quaderni ha un carattere duplice, analitico e
strategico, perché rappresenta al tempo stesso un paradigma di comprensio-
ne storica e uno strumento di trasformazione pratica. Come osservò Togliat-
ti nel 1958, Gramsci rimane sempre, anche nelle più complesse riflessioni
teoriche, «un politico pratico», «un combattente», tutt'altro che incline alla
ricerca disinteressata e, come si cominciò a equivocare (estrapolando una
sua espressione),fiir ewig. Questo spiega perché, nello sviluppo dei quader-
ni, il concetto di rivoluzione passiva subisca una prevedibile dilatazione, che
riguarda il giudizio del prigioniero sulla sua epoca e sul destino della civiltà
europea. Come vedremo, questa dilatazione può essere seguita, grazie al
metodo filologico e cronologico, passo dopo passo e nota per nota. La ne-
cessità di tale sviluppo risiede nel risultato stesso della transizione borghese.
Nel suo ciclo espansivo, che Gramsci data tra il 1789 e il 1870, la borghesia
aveva provveduto alla mondializzazione dell'economia e ali' edificazione
degli Stati nazionali europei. Proprio queste conquiste storiche - gli Stati
nazionali e il cosmopolitismo dell'economia- diventano, dopo la svolta di
fine secolo, i poli di una contraddizione, le cui espressioni principali sono la
Grande guerra e la crisi del '29. Come avevano insegnato Marx ed Engels,
il mago borghese «non riesce più a dominare le potenze degli inferi» che ha
sollevato dalle viscere della storia. Gramsci scrive nel Quaderno 8 che «la
classe borghese è "saturata": non solo non si diffonde, ma si disgrega; non
Prefazione 11

solo non assimila nuovi elementi, ma disassimila una parte di se stessa».


Lo «spirituale» si distacca dal «temporale», in forme più acute e pericolose
rispetto al periodo medievale, perché «i raggruppamenti sociali regressivi
e conservativi si riducono sempre più alla loro fase iniziale, mentre i rag-
gruppamenti progressivi e innovativi si trovano ancora nella fase iniziale
appunto economico-corporativa». Perciò «si ritorna alla concezione dello
Stato come pura forza», si chiude il ritmo ascendente delle rivoluzioni pas-
sive. Secondo la celebre formula del Quaderno 3, «il vecchio muore e il
nuovo non può nascere». La necessità del passaggio dall' «individualismo
borghese» all '«economia programmatica», indicata nei fogli iniziali del
Quaderno 22, denota la trama drammatica della nuova epoca, il bisogno
di uscire dalla contraddizione distruttiva instaurata dalla borghesia liberale
e di "conguagliare" la ragione politica e lo sviluppo delle forze produttive.
Il grande tema del cosmopolitismo di tipo moderno, di un universalismo
comunista che promuova l'unificazione del genere umano, per molti versi
conclude l'itinerario dei quaderni e rivela la mentalità di fondo del grande
recluso. Uscire dalla contraddizione generata dalla borghesia, subordinare
la politica-potenza alla politica-egemonia, distinguere industrialismo e capi-
talismo, riformare la democrazia all'altezza di un mondo unificato, significa
anche restituire un senso concreto alla sfera etica, oltre la scissione che, fin
dal suo primo apparire, il mondo borghese ha sancito tra morale e politica.
La riflessione di Gramsci si muove sempre in una dimensione globale.
Sia nell'analisi del ciclo espansivo delle rivoluzioni borghesi sia nella consi-
derazione del tempo presente il problema nazionale rappresenta il risultato di
combinazioni internazionali, di un processo storico universale che, sul piano
della teoria, è raffigurato dal principio di traducibilità. Tra «punto di partenz.a»
nazionale e «prospettiva internazionale», come scrisse nel Quaderno 14, il
rapporto è reciproco, circolare e inestricabile. Alla base di questa visione glo-
bale rimane la consapevolezza della crisi irreversibile dello Stato nazionale
moderno, che rappresenta il motivo di fondo della critica al pensiero politico
liberale e l'orizzonte di tutta la sua elaborazione. Chiudere Gramsci nella sfera
nazionale significherebbe non comprendere i motivi ultimi e più radicali della
sua riflessione. La ricerca di nuove forme politiche sovranazionali, orientate
dal principio di interdipendenza, guida quella indagine sul mutamento mor-
fologico della politica moderna che costituisce il cuore pulsante dei quaderni
e che, possiamo aggiungere, non ha equivalenti, in termini di drammatica
consapevolezza del problema contemporaneo, nel pensiero politico europeo
degli anni Trenta del Novecento. Dopo la morte di Max Weber (il 14 giu-
gno 1920), con la cui opera Gramsci intrattenne un rapporto significativo,
12 Rivoluzioni passive

le grandi correnti teoriche, da Croce a Carl Schmitt, fallirono nel compito di


individuare nel tramonto della sovranità nazionale e nella contraddizione con
l'economia globale la radice della crisi attuale. Non così Gramsci, che proprio
quel nodo collocò saldamente al centro della sua ricerca.
La realtà degli anni Trenta del Novecento, quella in cui sviluppò la te-
oria delle rivoluzioni passive, mostrava il limite estremo a cui era giunta la
divisione del genere umano, il punto in cui la contraddizione fra cosmopo-
litismo dell'economia e nazionalismo politico aveva conseguito la tensione
più drammatica. Nessuna delle «grandi potenze» - l'Europa, l'America, la
Russia sovietica - sembrava in grado di esercitare una funzione egemonica,
di compiere il passo decisivo in direzione di una «economia programmati-
ca». La decadenza della vecchia Europa, l'affermazione dei fascismi e l 'e-
mergere del nazionalsocialismo, spalancava il vortice di una crisi organica
globale, dentro cui Gramsci non mancò di presagire le ombre inquietanti di
nuova guerra e distruzione. Una rivoluzione passiva, come quella che aveva
guidato la modernizzazione dell'Europa, avrebbe richiesto la capacità, da
parte delle classi dirigenti, di assimilare e svolgere "dall'alto" le innovazio-
ni che il movimento operaio aveva introdotto nella storia mondiale. Ma la
borghesia, declinata nel «langer Katzenjammer» (Marx), nella «lunga nau-
sea» della sua odissea, non trovò l'energia per un tale compito e precipitò
l'umanità in un 'altra e più grande epoca di devastazione.

M.M.

La prima idea di questo saggio è derivata dall'invito a partecipare a un convegno


internazionale di studi su Walter Benjamin and Antonio Gramsci. Dialectic ofa Mzs-
sed Encounter - Actuality ofa Comparison., che avrebbe dovuto svolgersi., nell'àm-
bito delle attività dell'Associazione Walter Benjamin., nell'ottobre 2020 e che, per il
diffondersi della pandemia di Covid-19, è stato poi celebrato presso la sede di Villa
Sciarra dell'Istituto Italiano di Studi Germanici il 25-27 novembre 2021. Desidero
ringraziare Elettra Stimilli., Dario Gentili e Gabriele Guerra per l'invito, che mi ha
dato l'occasione di approfondire questo tema. La dilazione della data del convegno e
il confinamento a cui siamo stati costretti hanno detenninato una estensione sempre
maggiore di quella che, nel proposito iniziale., doveva costituire solo una relazione
congressuale. Ho pertanto deciso di proporre i risultati della ricerca in questo libro.
Ringrazio Giuseppe Vacca per avere letto il manoscritto della prima stesura
di questo lavoro., permettendomi., con i suoi consigli., di migliorarne diverse parti.
Rivoluzioni passive

Il mondo tra le due guerre


nei Quaderni del carcere di Gramsci
1. I «paesi che ammodernarono lo stato»

Gramsci adoperò per la prima volta la formula della "rivoluzione pas-


siva" in una nota della sezione miscellanea del Quaderno 4, alla carta 34r,
che non venne ripresa o rielaborata nei successivi quaderni «speciali» .1
Tuttavia, nel periodo in cui si dedicò alla stesura degli «speciali» (presumi-
bilmente nel 1932, quando lavorò ai Quaderni 10 e 11),ne cancellò il testo
con larghi tratti di penna, considerandolo, in maniera caratteristica, alla
stregua di una prima stesura.2 Con ogni probabilità, il testo faceva parte
di un gruppo di 29 note dedicate a Gli intellettuali, come risulta dal titolo
indicato, con caratteri corsivi più grandi, in capo al lungo paragrafo iniziale
della miscellanea, poi rielaborato in seconda stesura nel Quaderno 12.3 Si
trattava, d'altronde, di un tema già enucleato nel saggio del 1926 sulla que-
stione meridionale e ulteriormente focalizzato nel § 43 del Quaderno 1.4 La

1. Nella edizione critica del 1975, Valentino Gerratanariportò lanotain corpo minore,
classificandola nell'apparato critico come «testo A» e aggiungendo queste parole: «non
risulta però ripreso nei testi C (inedito)». Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di
V. Gerratana, 4 voli., Torino,Einaudi, 1975, p. 504 e p. 2654. La nota, indicata da Gerratana
come §57 del Quaderno 4, non era stata inserita nell.. edizione tematica, apparsa per Einaudi
a cura di Felice Platone tra il 1948 e il 1951.
2. A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione anastatica dei manoscritti a cura di
G. Francioni, 8 voli., Cagliari, L . Unione sarda, 2009, p. 85 {Q4, c. 34r).
3. Ivi, p. 39 (Q4, c. llr).
4. A. Gramsci, Note sul problema meridionale e sull Iatteggiamento nei suoi corifronti
dei comtmisti, dei socialisti e dei democratici, in L. Sturzo, A. Gramsci, Il Mezzogiorno
e l'Italia, a cura di G. D'Andrea e F. Giasi, Roma, Studium, 2013, pp. 161-196 (con una
importante Introduzione di Giasi alle pp. 139-159). Il tema degli intellettuali, indicato nel
16 Rivoluzioni passive

datazione al novembre 1930 è praticamente certa, poiché Gramsci stesso,


in un inciso della nota iniziale su Gli intellettuali, relativo agli «avveni-
menti di questi ultimi tempi», segnalò di scrivere «nel novembre 1930».s
L'indicazione cronologica inserita alla carta 17r può facilmente e con sicu-
rezza essere estesa a quanto si legge nella successiva carta 34r. 6
La prima occorrenza sulla rivoluzione passiva si presenta in questa
fonna:
- §. Vincenzo Cuoco e la rivoluzione passiva. - Vincenzo Cuoco ha chiama-
to rivoluzione passiva quella avutasi in Italia per contraccolpo delle guerre
napoleoniche. Il concetto di rivoluzione passiva mi pare esatto non solo per
l'Italia, ma anche per gli altri paesi che ammodernarono lo Stato attraverso
una serie di riforme o di guerre nazionali, senza passare per la rivoluzione
politica di tipo radicale-giacobino. Vedere nel Cuoco come egli svolge il con-
cetto per l'Italia.7
Gramsci si riferiva al Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli di
Vincenzo Cuoco, che era apparso anonimo a Milano nel 1801 in tre vo-
lumetti per la tipografia di Strada Nuova e nel 1806, in seconda edizione,
per la tipografia milanese di Francesco Sonzogno con notevoli «aggiunte
dell'autore».8 Dopo alcune edizioni ottocentesche, nel periodo in cui que-
sta nota dei quaderni venne composta, il lettore italiano poteva ormai di-
sporre di numerose versioni dell'opera, non solo della ristampa del Sonzo-
gno (1920) ma dell'edizione critica per gli «Scrittori d'Italia» dellaLaterza
curata da Fausto Nicolini ( 1913), nonché delle edizioni annotate da Miche-

saggio del 1926, trova un primo sviluppo nel Quaderno 1: A. Gramsci, Quaderni del car-
cere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), tomo I, a cura di G. Cospito, G. Francioni e
F. Frosini, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2017, pp. 34-48 (Ql, cc. 20v-29v).
5. Ivi, p. 780 (Q4, c. 17r).
6. Per la datazione cfr. G. Cospito, Verso l'edizione critica e integrale dei «Quaderni
del carcere», in «Studi storici», 52/4 (2011 ), pp. 881-904: p. 898 e G. Francioni, Nota in-
troduttiva. in Gramsci, Quaderni del carcere, ed. anast., pp. 2-6.
7. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), L p. 812
(Q4, c. 34r).
8. Per ulteriori infonnazioni sulla storia del testo, si veda A. De Francesco, Introduzione.
Una difficile modernità italiana, inV. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, a cura
di A. De Francesco, Roma-Bari, Laterza, 2014, pp. VII-CXXIII. Dello stesso De Francesco si
veda, per la biografia, V-mcenzo Cuoco. Una vita politica, Roma-Bari, Latcrza, 1997. Osscr-
,.-azioni sulle edizioni del Saggio e sul loro uso da parte di Gramsci, nonché sulle alterazioni
successive del titolo, in A. Di Meo, La «rivoluzione passiva» da Paine a Cuoco a Gramsci. in
Id.,Decifrare Gramsci. Una letturafi/o/ogica, Roma, Bordeaux, 2020, pp. 88-133.
I «paesi che ammodernarono lo Stato» 17

le Lupo Gentile (Sansoni, 1924), Nino Cortese (Vallecchi, 1926), Angelo


Ottolini (Signorelli, 1926), Francesco Landogna (Giusti, 1927), Giovanni
Colasanti (Arte della stampa, 1928), Luigi Fassò (La Voce, 1930). Ope-
ra di diffusione larga, dunque, specie per impulso di Benedetto Croce e
Giovanni Gentile, che a Cuoco e al Saggio storico erano tornati a volgere
l'attenzione tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del nuovo secolo; e che,
pertanto, non poté sfuggire a Gramsci negli anni della formazione torinese,
quando la sua attenzione era vigile per le novità letterarie e soprattutto per
quanto veniva prodotto dalla corrente culturale dell'idealismo. Anche se
non risultano citazioni e occorrenze negli scritti precarcerari, e i testi di
Cuoco non figurano nei cataloghi della biblioteca raccolta, per suo consi-
glio, da Attilio Carena,9 è lecito supporre che il Saggio storico costituì una
lettura e un oggetto di riflessione per il giovane studente, poi giornalista e
uomo politico, negli anni trascorsi a Torino.
Diverso è il discorso per il periodo carcerario. Nessun testo di Cuoco è
custodito nel «Fondo librario Antonio Gramsci», 10 né esistono scritti (note
dei quaderni o lettere) che ne attestino, attraverso citazioni o commenti de-
terminati, una rilettura. Nella nota del Quaderno 4 che abbiamo ricordato,
Gramsci scrisse che è da «vedere nel Cuoco come egli svolge il concetto
per l'Italia», lasciando intendere che tale studio, in assenza di materiali
o di ricordi precisi, doveva ancora essere svolto o anche semplicemente
avviato. Inoltre, all'inizio del paragrafo, affermava che «Vincenzo Cuoco
ha chiamato rivoluzione passiva quella avutasi in Italia per contraccolpo
delle guerre napoleoniche», dimostrando così di non ricordare la struttura
fondamentale dell'opera, nella quale il «contraccolpo» (espressione su cui
avremo occasione di tornare) riguardava bensì la Rivoluzione francese e il
periodo giacobino, ma non le successive conquiste di Napoleone I. Ricordi
sfocati dunque, che forse richiamavano antiche letture, e che probabilmen-
te cercò di correggere annotando nella Bibliografia del Quaderno 8 (c. 70r)
l'indicazione dell'antologia cuochiana storia, Politica e Pedagogia curata
nel 1924 da Domenico Bulferetti per l'editore Paravia (nella quale, tutta-
via, non si trova mai l'espressione «contraccolpo»); 11 e rammentandosi,

9. G. Bergami, R giovane Gramsci e il marxismo 1911-1918, Milano, Feltrinelli, 1977,


pp. 175-193.
1O. Se ne veda il catalogo aggiornato in Antonio Gramsci. I quaderni e i libri del
carcere, a cura di F. Giasi, Cagliari, Arkadia, 2017.
11. «Non risulta che questo libro sia stato poi richiesto e ricevuto da Gramsci»
(Gramsci, Quaderni del carcere, p. 2655).
18 Rivoluzioni passive

nella lettera a Tatiana Schucht del 23 agosto 1933, dei due volumi dell 'an-
tologia crociana sui Poeti e prosatori d'Italia curati nel 1927 da Floriano
Del Secolo e Giovanni Castellano. 12
Induetestipiùtardi, dell'aprile-maggio 1933 edel 1934-1935, Gramsci
mostrò un ricordo più preciso della posizione di Cuoco, arrivando a segnare
una distinzione fra la sua elaborazione della rivoluzione passiva e quella
contenuta nel Saggio storico del 1801. Nel Quaderno 15 (c. 13rv) scrisse in-
fatti che «la trattazione di Vincenzo Cuoco», restando «il punto di partenza
dello studio», «non è che uno spunto, poiché il concetto è completamente
modificato e arricchito». 13 Nel Quaderno 19 (c. 68r) aggiunse che impiega-
va «un'espressione del Cuoco in un senso un po' diverso da quello che il
Cuoco vuole dire». 14 Rispetto al passaggio iniziale del Quaderno 4, queste
due notazioni attestano una riflessione ulteriore sul contenuto del Saggio
storico e una presa d'atto degli sviluppi imprevedibili che, nella propria
elaborazione, aveva ormai assunto il dossier sulle rivoluzioni passive.

2. Benedetto Croce e il «contraccolpo»

Nella nota del Quaderno 4, Gramsci meditava sul carattere dellamoder-


nizzazione politica (i «paesi che ammodernarono lo Stato»), distinguendo
il caso di una «rivoluzione politica di tipo radicale-giacobino» da quello,
suggerito dal ricordo sfocato del Saggio storico, di una rivoluzione passiva,
prodotta o da «una serie di rifonne>> o da «guerre nazionali»; e, progettando
di approfondire «il concetto» di Cuoco, ne estendeva universalmente la por-

12. Il 7 agosto 1933 Tatiana gli aveva scritto di avere «ideato» di «inviare [ ... ] la
Storia d«la l<ltteratura italiana del Croce per Giuli~ che ho già comprato molto tempo fa».
Nella lettera del 23 agosto Gramsci rispondeva: «penso che sia meglio che tu non spedisca
a Giulia i volumi di cui mi hai accennato; credo si tratti di un 'antologia di scritti del Croce
compilata dal prof. Floriano del uSecolon, ad uso delle scuoi~ che mi pare completamente
fallita. Non capisco perché tu l'abbia acquistata, credendo che io te l'avessi indicata. lo
ti avevo indicato due opere: La storia d<Jlla l<Jtte.ratwa italiana di Francuco D<l Sanctis
(ediz. Treves con note di Paolo Arcari) e la Storia d<Jlla l<Jtteratura italiana di Vittorio Rossi
(ediz. Vallardi)» (A. Gramsci, T. Schucht, L<Jtt<lr<J 1926-1935, a cura di C. Daniele e A. Na-
toli, Torino, Einaudi, 1997, p. 1336 e pp. 1340-1341 ). Il riferimento è a B. Croce, Po<Jti <l
prosatori d'Italia. 1. Da Dante a Cuoco, 2. Da Alfieri a Pascoli, a cma di F. Del Secolo e
G. Castellano, Bari, Laterza, 1927.
13. Gramsci, Quaderni dm COTC<lr<l, p. 1775.
14. Ivi,p.2011.
Benedetto Croce e il «contraccolpo» 19

tata, perché esso, spiegava, è «esatto non solo per l'Italia» ma «anche per gli
altri paesi». Non si trattava solo di un principio valido per illustrare le rivolu-
zioni del 1799, ma di un canone generale per i processi di modernizzazione
politica, i quali, dunque, potevano essere concepiti o nella forma «radicale-
giacobina» o in quella passiva, per via di riforme o di guerre. Inoltre, nella
battuta iniziale Gramsci definiva erroneamente il «concetto» di Cuoco come
«contraccolpo delle guerre napoleoniche». Il primo autore ad adoperare quel
vocabolo - «contraccolpo» - era stato Benedetto Croce, il quale, nella pre-
fazione all'edizione in volume del 1897 degli Studi storici sulla rivoluzione
napoletana del 1799, datata «Napoli, giugno 1896», aveva infatti ricordato
la formula della rivoluzione passiva ed era ricorso a quella stessa espressio-
ne («contraccolpo») poi usata da Gramsci.15 Lo aveva fatto in un libro che
Gramsci certamente conosceva fin dalla giovinezza e che ricorderà, sia pure
genericamente, in un passaggio rilevante del Quaderno 10, dove non a caso
tornerà in discussione il tema della rivoluzione passiva. 16 Un libro, occorre
aggiungere, non conservato nel Fondo Gramsci e che non risulta in alcuna
richiesta o annotazione bibliografica del periodo carcerario (a differell7.8 di
altri testi crociani). Nulla dunque sembrerebbe autorizzare l'ipotesi di una
rilettura in quei giorni del novembre 1930.
Che Gramsci non avesse sotto gli occhi il testo di Croce, può esse-
re verificato da un confronto tra le due posizioni. Come abbiamo visto,
nel Quaderno 4 la rivoluzione passiva era definita un «contraccolpo delle
guerre napoleoniche». Molto diverso era l'argomento adoperato da Croce.
Nella Prefazione del 1896 Croce osservava che «i fatti accaduti in Napoli
nel 1799» non furono «la conseguenza o la catastrofe di uno svolgimento
importante e originale»; per questo (aggiungeva, consapevole dell'uso che
della locuzione altri avevano fatto prima o indipendentemente da Cuoco),17

15. Il volume, nella edizione Loescher del 1897, recava la dicitura «21 ed. [izione]
corretta ed accresciuta». In realtà non esiste una prima edizione del libro, ma solo quella dei
saggi raccolti e pubblicati a partire dal 1887 (Eleonora de Fonseca Pimentel, in «Rassegna
degli interessi femminili>>, 1 (1887), pp. 295-306, 359-370, 425-435, 485-500). Dalla terza
edizione «aumentata» (Bari, Latcrza, 1912) il titolo divenne La rivoluzione napoletana del
1799. Biografie, racconti, ricerche.
16. Gramsci, Quaderni del carcere, p.1227 (Ql0, c. 46v).
17. Di rivoluzione passiva avevano parlato Michele Natale, vescovo di Vico Equense:,
in una lettera del 30 aprile 1799 (M. Natale, Credo in Dio e nella democrazia. Catechismo
repubblicano per l'istruzione del popolo e rovinade'tiranni, a cura di G. Acocella, Roma,
Edizioni Lavoro, 1998, p. 33) e Francesco Lomonaco nel Rapporto al cittadino Camot
del 1800-1801 0/. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, a cura di
20 Rivoluzioni passive

«nello stesso anno Novantanove i più accorti patrioti chiamavano la loro


rivoluzione una rivoluzione "passiva"; e il Saggio storico di Vincenzo
Cuoco doveva poi illustrare largamente questo giudizio».18 La formula
significava dunque, per Croce, che i fatti del 1799 non potevano essere in-
terpretati come la «conseguenza» di un movimento «originale» del popolo
napoletano, ma chiedevano una analisi più complessa, capace di evocare
l' «intreccio di complicazioni intemazionali»19 che li avevano generati, a
cominciare dagli interessi opposti di Francia e Inghilterra. «Senza radici
e senza forze», 20 la repubblica aveva fallito, ma proprio questo fallimento
aveva prodotto «il primo germe dell'unità italiana», «un movimento rivo-
luzionario fondato sull'unione delle classi colte di tutte le parti d'Italia».21
Superiore, tanto sul piano del progresso storico tanto sul piano etico, alla
crudeltà della «reazione borbonica», alla sete di sangue di Ferdinando, di
Nelson e, sopra tutti, della regina Carolina, il movimento rivoluzionario
aveva, certo, iniziato «passivamente», ma era poi divenuto, nella lettura
di Croce, fortemente «attivo», capace di sollecitare il desiderio di unità di
tutta la nazione.
Il «contraccolpo» riguardava non tanto l'esordio «passivo» della ri-
voluzione, quanto il comportamento della monarchia, la quale, «entrata
risolutamente nella via delle riforme» da oltre un mezzo secolo, aveva im-
provvisamente mutato indirizzo per il timore di contagio delle idee rivolu-
zionarie: «la mutazione d'indirizzo politico del governo scriveva Croce ,
pel contraccolpo degli avvenimenti di Francia, non poteva non contrariare
alla lunga ciò che si dice lo spirito dei tempi, ossia i sentimenti di una gran-
de e miglior parte della popolazione».22 Perciò «un piccolo manipolo» di
patrioti, sfidando la severissima repressione, cominciò a raccogliere le forze
rivoluzionarie in società segrete e gruppi disciplinati, abbracciando i princì-
pi francesi e «giacobini». Cosa che, a differenza di quanto aveva sostenuto
Cuoco nel Saggio storico, non costituiva affatto, per Croce, un segno di
«passività», ma anzi l'ingresso nella politica «attiva» e costruttrice. Se la

F. Nicolini, Bari, Latcrza, 19292, p. 343). Cfr. F. Tessitore, Vincenzo Cuoco e la rivoluzio-
ne napoletana del 1799, in Id., Nuovi contributi alla storia e alla teoria dello storicismo,
R~ Edizioni di storia e lettera~ 2002, p. 86.
18. Croce, La rivoluzione napoletana del 1799, p. VII.
19. Ivi, p. VIII.
20. Ivi, p. IX.
21. Ivi, p. XI.
22. Ivi, pp. VII-VIII.
Benedetto Croce e il «contraccolpo» 21

fredda ragione politica avrebbe consigliato ai rivoluzionari di abbandonare


i francesi e «intendersela coi propri sovrani», 23 «per fortuna» i patrioti napo-
letani, «grandi idealisti e cattivi politici», non lo fecero e così crearono una
tradizione rivoluzionaria destinata a espandersi in tutta la nazione.
Come si vede, nel passo del Quaderno 4, Gramsci unificava in un solo
concetto due questioni che, nel testo di Croce, apparivano distinte: da un
lato il carattere «passivo» della fase iniziale della rivoluzione (illustrato
«largamente», ma non creato da Cuoco), d'altro lato il «contraccolpo» che
aveva mutato la direzione politica del governo borbonico, spingendolo
ad abbandonare la via saggia delle riforme e a intraprendere quella del-
la sempre più brutale repressione. Il modo in cui Croce, nella Prefazione
del 1896, considerò i fatti napoletani del 1799, dovrebbe piuttosto spin-
gere a un esame attento del rapporto che, fin da quello scritto giovanile,
egli instaurò con l'opera di Cuoco, senza più tornare, almeno in maniera
esplicita, sul nodo della rivoluzione passiva. Di Cuoco tornò a parlare, nel
1911, nel libro su Vico, considerandolo come «uno dei primi che presero a
studiar[ne] con intelligenza l'opera»;24 e più ampiamente ne indicò i meri-
ti, nel 1921 (ma il saggio era stato anticipato ne «La Critica» nel 1915),25
nel capitolo iniziale della Storia della storiografia italiana, dove lo mise a
capo della riscoperta napoletana di Vico e defini il Saggio storico «opera
capitale di pensiero storico» per il richiamo alla scuola realistica nazio-
nale di «Machiavelli, Gravina e Vico».26 Ma la considerazione più ampia
e persuasiva la offrì nel capitolo finale (il quarto) della storia del regno
di Napoli del 1925, dove riprese il filo interrotto del libro aneddotico del
1897 e lo svolse, dopo l'avvento al potere del fascismo e il suo passaggio
all'opposizione, in una forma esplicita e originale.
Nelle pagine centrali di quel capitolo rivolse a Cuoco la critica fon-
damentale, di avere segnato «i soli errori» dei rivoluzionari del '99, senza
avvedersi che l'influsso francese, da lui deprecato, costituiva la forza più
intima del movimento: tanto che, aggiungeva Croce, «quel suo critico giu-
dicare non tolse che nel fatto anch'egli vi partecipasse» e che, quando cercò
di pensare «un diverso avviamento», non fece che «entrare nel regno del-

23. lvi, p. X.
24. B. Croce, Lafi/osofia di Giamballista Vico, Roma-Bari, Laterza, 19804,p. 123.
25. B. Croce, La storiografia i11 Italia dai cominciamenti del secolo decimo11ono ai
giorni nostri. L R «secolo della storia», in «La Critica», 13 (1915), pp. 1-20.
26. B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, a cura di
M. Diamanti, 2 voli., Napoli, Bibliopolis, 2019, I, pp. 18-22.
22 Rivoluzioni passive

I'utopia», in una repubblica illusoria, basata sui «bisogni e gli usi del popo-
lo» nazionale, che non esisteva e non avrebbe potuto esistere nella realtà. 27
In effetti, tutta la storia che Croce aveva tracciata era fondata sulla negazio-
ne di quel vano «indigenismo»,28 che proprio Cuoco aveva accreditato, mo-
strando, passo dopo passo, una vicenda di circolazione delle idee e di con-
taminazione della cultura meridionale, nel fecondo assorbimento, da parte
delle élites intellettuali, del cartesianesimo, dell'illuminismo, del liberali-
smo. Per questo, all'inizio del capitolo, aveva stabilito la precisa periodiz-
zazione dei settant'anni di storia napoletana, dall'irruzione dell '«impetuosa
corrente della Rivoluzione francese»29 al 1860, quando l'intero ciclo era
sfociato nella costruzione dell'unità nazionale italiana. A differenza di
cuoco, insomma, per Croce era stata la conversione al «giacobinismo», 30
1'adesione alle idee che avevano plasmato gli eventi rivoluzionari france-
si, a generare la forza attiva di una «minoranza» intellettuale, una nuova
«religione»31 destinata a espandersi, attraverso il flusso dell'emigrazione, e
a confluire nel movimento risorgimentale: una «minoranza», appunto, sle-
gata dalla nazione ma anticipatrice del futuro, divisa dalle masse contadine
(che la cingeranno d'assedio con le bande della Santa Fede) e dalla stessa
borghesia produttiva, che rimase abulica dinanzi alla sua iniziativa e as-
surgerà a classe dirigente solo nel decennio napoleonico. Croce considerò
"attiva" (al contrario di Cuoco) la rivoluzione del '99, indicando semmai un
esempio di ''passività" nei moti del 1820, stanca ripetizione delle antiche
cospirazioni, ispirati da un frigido simbolismo illnmioistico e massonico e
incapaci di produrre alcunché «d'importante e di originale».32
Rimane il fatto che Croce, dopo il rapido cenno del 1896, non parlò
più di rivoluzioni passive. Tornò ad alludervi, in una situazione del tutto di-
versa (senza però adoperarne la formula), in un articolo del 23 agosto 1945
su Russia ed Europa, nel quale, ricordando il suo apprendistato marxista e
sostenendo le ragioni di un socialismo riformista e temperato, metteva in
guardia da ogni tentativo di «imitazione» dell'esempio russo. Perciò av-
vertiva che anche «1 'imitazione universale» della Rivoluzione francese non
era stata una vera e propria «imitazione» ma un adattamento alle differenti

27. B. Croce, Storia del regno di Napoli, Roma-Bari, Laterza, 1984, pp. 199-200.
28. Ivi, p. 222.
29. Ivi, p.191.
30. Ivi, pp. 200-201.
31. Ivi, p. 205.
32. Ivi, p. 221.
Guido De Ruggiero come fonte di Gramsci 23

situazioni nazionali: «già nello stesso 1799 - aggiungeva-, nell'esperienza


della rivoluzione e della repubblica napoletana, il nostro Vincenzo Cuo-
co, nel suo Saggio storico, ammoniva dell'errore del tentato trasferimento
di una rivoluzione nata con presupposti politici, economici e intellettuali
francesi in un paese in tanta parte diverso quale era l'Italia meridionale». 33
E maliziosamente concludeva che, in Italia, l' «imitazione» dell'esperienza
russa era già stata fatta, in forma «canagliesca e buffonesca», dal fascismo,
il quale dalle idee bolsceviche «accattò e accozzò come poteva».

3. Guido De Ruggiero come fonte di Gramsci

Fino a un tempo recente gli interpreti hanno ritenuto che Gramsci tro-
vasse nel libro del 1897 di Croce lo spunto iniziale per la sua riflessione
sulle rivoluzioni passive. L'ipotesi si fondava esclusivamente sull'uso di
quella parola («contraccolpo»), assente in Cuoco e in altri testi posseduti
dal prigioniero, ma presente, sia pure in un senso differente, nella prefa-
zione crociana del 1896. Nell'edizione critica dei Quaderni del carcere
del 1975, Valentino Gerratana, commentando la prima occorrenza di «ri-
voluzione passiva» nella carta 34r del Quaderno 4, osservava che, «con
ogni probabilità», il lemma proveniva da una fonte indiretta, riconosciu-
ta nella «prefazione di Croce al volume, La rivoluzione napoletana del
1799 (4a ed. riveduta Bari, Laterza, 1926), dove è contenuto un richiamo
all'espressione ''rivoluzione passiva" nell'accezione di Cuoco». 34 In un
saggio del 2017, Fabio Frosini confermava questa ipotesi, arrivando alla
ulteriore conclusione che il libro di Croce era «stato sicuramente letto o
riletto in carcere».35 Nell'apparato critico della Edizione Nazionale degli
scritti di Antonio Gramsci (2017), la stessa congettura veniva ribadita: «il
volume di Croce - vi si legge-, non conservato nel Fondo Gramsci, è stato
probabilmente letto in carcere - dato che Gramsci ne riprende il concetto
di "contraccolpo", assente nell'opera di Cuoco -, e sarà menzionato nel
Quaderno 10, § 6. 9». 36 Grazie a una ricerca ulteriore, Frosini ha successi-

33. B. Croce, Scritti e discorsi politici~ (1943-1947), Il, Bari, Laterza, l 973 2~ p. 187.
34. Gramsci, Quaderni del carcere~ pp. 2654-2655.
35. F. Frosini~ Rivoluzione passiva e laboratorio politico: appunti sull'analisi del fa-
scismo nei Quaderni del carcere, in «Studi storici», 2 (2017), pp. 297-328: p. 308.
36. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935)~ I~ p. 835.
24 Rivoluzioni passive

vamente dimostrato che questa supposizione non era esatta e che, più ve-
rosimilmente, Gramsci trovò in un libro di Guido De Ruggiero, Il pensiero
politico meridionale nei secoli XVIII e XIx, l'occasione per avviare la sua
meditazione sulle rivoluzioni passive e una accezione del lemma «contrac-
colpo» molto più simile a quella che egli avrebbe adoperato nei quaderni.37
Anche il libro di De Ruggiero non è presente nel Fondo Gramsci ed è
possibile solo ipotizzare che venne ricevuto dal detenuto nel carcere di Turi
e letto o riletto intorno al novembre del 1930. Ma alcuni indizi (oltre, come
ora vedremo, quelli prevalenti relativi al contenuto dell'opera) rendono mol-
to credibile questa ipotesi. Non solo l'attenzione costante che Gramsci ri-
servò agli scritti di De Ruggiero (si pensi all'importanza che attribuì alle
osservazioni su Erasmo contenute nel volume su Rinascimento Riforma e
Controriforma)3 8 e il puntuale ricordo della sua collaborazione a «Politica»
nel 1919-1920 (proprio dove uscirono i primi tre capitoli del Pensiero po-
litico meridionale),39 ma un appunto bibliografico del Quaderno 6 (marzo-
agosto 1930) sembrerebbe provare il possesso del volume.4° Come ha mo-
strato Frosini,41 Gramsci cita per esteso il titolo del libro di De Ruggiero
sul pensiero meridionale e ne trae due riferimenti bibliografici: l'indicazione
del libro di Ferdinando Petruccelli della Gattina, La rivoluzione di Napoli
del 1848, nella seconda edizione del 1912 per la Società Dante Alighieri a
cura di Francesco Torraca, e quella del volume di Gennaro Mondaini, I moti
politici del '48 e la setta dell'Unità italiana in Basilicata (Società Dante
Alighieri, Roma 1902), appaiono letteralmente riprese (con il solo comple-
tamento del cognome di Petruccelli in Petruccelli della Gattina) da due note
del settimo capitolo (Il milleottocentoquarantotto) di De Ruggiero.42 È dun-
que molto probabile, se non certo, che Gramsci lo avesse a disposizione e
lo tenesse presente, ricavandone anche opportuni suggerimenti bibliografici.

37. F. Frosini, «Rivoluzione passiva»: la fonte di Gramsci e alcune conseguenze,


in Crisi e rivoluzione passiva. Gramsci interprete del Novecento, a cura di G. Cospito,
G.Francioni eF. Frosini,Como-Pavia, lbis,2021, pp.181-217.
38. G. De Ruggiero, Storia della filosofia. Parte terza. Rinascimento Riforma e Con-
troriforma, 2 voli., Bari, Latcrza, 19505, L pp. 194-258. Cfi:. Gramsci, Quaderni del carcere,
p. 653 (Q5, c. 61v), p.1293 (Ql0, c. 18r), p. 1862 (Q16, c. 14r).
39. Ivi, p. 780 (Q6, c. 47rv).
40. Ivi, p. 798 (Q6, c. 56r).
41. Frosini, «Rivoluzione passiva»: lafonte di Gramsci, pp. 208-209.
42. G. De Ruggiero, Il pensiero politico meridionale nei secoli XVlll e XIX, Bari,
Laterza, 19543, p. 259, nota 1, ep. 294, nota 1. Nella prima edizione del 1922 le citazioni,
identiche nella forma, si leggono alle pp. 253 e 286.
Guido De Ruggiero come fonte di Gramsci 25

La scoperta di questa fonte può aggiungere un tassello significativo al


complicato dossier sulle rivoluzioni passive. Si tratta, d'altronde, di un libro
particolare, forse il più felice o tra i più riusciti di De Ruggiero, che ebbe una
vicenda caratteristica e segnò una tappa rilevante nella biografia intellettuale
dello studioso napoletano. I primi tre capitoli43 erano apparsi nelle annate del
1919 e 1920 della rivista «Politica» diretta da Francesco Coppola e Alfredo
Rocco. Era stato Giovanni Gentile a proporre il suo nome a Coppola per
una «collaborazione continua» (così riferì a Gentile il 25 giugno 1918) al
nuovo periodico, incontrando l'iniziale diffidenza del giovane autore, preoc-
cupato per l'indirizzo nazionalista dei due direttori.44 Qualche tempo dopo,
il 23 agosto 1918, De Ruggiero informò Croce del nuovo lavoro sul pen-
siero meridionale, che interrompeva la più cospicua ricerca su La filosofia
del cristianesimo, che sarebbe apparsa in due volumi laterziani nel 1920:
«pubblicherò questi articoli - scriveva a Croce - in una nuova rivista, Politi-
ca, a cui Gentile mi ha premurato di collaborare, poiché i suoi due direttori,
Coppola e Rocco, sono usciti dal nazionalismo. Anche Gentile scriverà su
quella rivista. A dirvi la verità, io vi collaboro con molta riluttanza e spinto
da appetito ... non propriamente di gloria». 45 Poco dopo, alla fine del 1920,
ruppe bruscamente la collaborazione, disilludendosi sull'orientamento po-
litico di Coppola e Rocco e ricevendo in cambio, quasi per ritorsione, due
duri attacchi, l'uno di Luigi Villari contro uno scritto sull'impero britannico
e l'altro proprio contro Il pensiero politico meridionale,46 a cui rispose su <dl
Paese» del 2 aprile 1922 con l'articolo Decalogo spicciolo. 47 Ali' anticipazio-
ne dei tre capitoli su «Politica» seguì, nel 1922, la prima edizione del libro,
di cui curò una seconda edizione nel 1946. Anche il libro incontrò un destino
controverso, specie per la recensione «non favorevole»48 che, sollecitato da

43. V-zco, Giannone; L'economia e la legislazione negli scrittori napoletani del '700;
La rivoluzione napoletana del 1799.
44. Lettera di De Ruggiero a Gentile del 25 giugno 1918 (Archivio della Fondazione
Gentile). Lettera di Gentile a De Ruggiero del 29 giugno 1918 (Archivio De Ruggiero,
consultata in copia presso l'Archivio della Fondazione Gentile di Roma).
45. Carteggio Croce-De Ruggiero, a cura di A. Schinaia e N. Ruggicro, Bologna, il
Mulino, 2008, pp. 134-136.
46. «Politica», maggio 1921, pp. 314-317; ivi, dicembre 1921-gennaio 1922, p. 179.
Cfr. R De Felice, Introduzione, in G. De Ruggiero, Scritti politici 1912-1926, a cura di
R. Dc Felice, Bologna, Cappelli, 1963, pp. 33-34.
47. I~pp. 482-486.
48. Lettera di Gentile a Croce del 21 aprile 1922 (G. Gentile, Lettee a Bent«letto
Croce, 5. Dal 1915 al 1924, a cura di S. Giannanto~Firenze, LeLettere, 1990, p. 314).
26 Rivoluzioni passive

Croce,49 Gentile pubblicò ne «La Critica». Recensione rude nel giudizio,


dove, oltre il rifiuto totale della lettura di Giannone, spiccava l'accusa di
scarso senso storico,pernon avere l'autore, secondo Gentile, legato oppor-
tunamente il pensiero allo sviluppo civile del meridione e ai suoi riflessi
nel settentrione d'Italia. so
Al di là delle critiche su aspetti specifici del libro, la diffidenza di
Croce (che nello stesso periodo polemizzava aspramente con De Ruggiero
sui problemi dell'arte) e il violento attacco che Gentile sferrò contro il
suo antico allievo trovano una giustificazione nell'orientamento generale
dell'opera. È vero che De Ruggiero richiamava tesi caratteristiche dell 'in-
terpretazione di Croce (in particolare l'idea che la rivoluzione del '99 se-
gnasse «le origini sacre della ''nuova Italia"»)51 e del pensiero di Gentile
(I 'insistenza sullo «Stato etico»), ma la lettura della storia meridionale an-
dava in una direzione completamente diversa. Tutto il liberalismo italiano
appariva arretrato e anacronistico rispetto al quadro europeo, al punto -
scriveva - che, «a rigor di termini, non si potrebbe parlare di liberalismo
vero e proprio, ma di semplice conservatorismo, se l'ideologia dei nuovi
proprietari non si fosse colorita al riflesso intellettuale di altre ideologie
straniere».52 Le ultime pagine del libro, con riferimento alle filosofie di Ber-
trando Spaventa e Angelo Camillo De Meis, compivano il passo ulteriore
e conclusivo oltre Croce e Gentile, interpretando l' «astratto razionalismo»
degli hegeliani napoletani come origine del liberalismo «conservatore» e
«reazionario» della Destra: «la dottrina filosofica [di Bertrando Spaventa]
- scriveva De Ruggiero - ribadiva un complesso d'interessi conservatori
e, in certa misura, reazionari. Essa era l'ultima espressione di quel pecu-
liare liberalismo italiano che abbiamo, nei capitoli precedenti, illustrato.
Facendo della libertà un appannaggio aristocratico della ragione pura, essa
accreditava sotto una generica insegna liberale un programma conservato-
re, espressione di una ristretta oligarchia». 53 Parole chiare, come si vede,
che riflettevano la linea generale del libro e che De Ruggiero non ripeterà
nelle opere successive, tanto meno nella storia del liberalismo europeo,

49. Lettera di Croce a Gentile del 23 marzo 1922: «non sarebbe il caso di fare un
cenno dei Politici meridionali del De Ruggiero?» (B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile, a
cura di A. Croce, Mondadori, Milano 1981, p. 616).
50. «La Critica», 1922, pp. 173-175.
51. De Ruggiero, Il pensiero politico meridionale, p. 104.
52. Ivi, p. 222.
53. Ivi, p. 310.
Guido De Ruggiero come fonte di Gramsci 27

scritta nel 1924 e pubblicata nel 1925, dove non si parlerà più di rivoluzio-
ni passive e, a proposito di Cuoco, si leggerà una sintesi abbastanza scialba
di quello che, nelle pagine del 1922 sul pensiero meridionale, era stato più
ampiamente argomentato. 54
Non è un caso che la stroncatura di Gentile trovi una replica, sia pure
indiretta, nelle pagine di Risorgimento senza eroi che Piero Gobetti dedicò
a Il «caso» Giannone. Proprio l'interpretazione della Storia civile del Re-
gno di Napoli e del Triregno, che Gentile aveva collocato al centro della
sua polemica e rifiutato con tanta durezza, venne assunta da Gobetti con un
rinvio esplicito al libro di De Ruggiero. 55 Nello stesso periodo, d'altronde,
De Ruggiero collaborava attivamente a «Energie Nove» e a «Rivoluzione
Liberale» con quattro articoli di notevole importanza. 56 Le differenze tra
il suo liberalismo e quello di Gobetti sono state opportunamente sottoli-
neate da De Felice e Garin, 57 ma il quadro analitico del libro sul pensie-
ro meridionale risente senza dubbio del movimento di idee che le riviste
~obettiane (oltre all'influenza di Oriani e Missiroli) avevano prospettato.
E in tale quadro che il tema delle rivoluzioni passive e la metafora del
«contraccolpo» acquistano quella centralità che, con ogni probabilità, atti-
rò l'attenzione di Gramsci.
Nei primi capitoli (quelli che vennero anticipati su «Politica» e poi
rielaborati per il volume), De Ruggiero aveva delineato il contrasto fra due
indirizzi della cultura meridionale: il primo, culminante in Pietro Gian-
none e autentica base ideologica delle rivoluzioni del '99, appariva quale
unificazione, in chiave astratta e illuministica, del razionalismo cartesiano
e della tradizione erudita e forense napoletana; la seconda tendenza risa-

54. G. De Ruggiero, Storia del liberalismo eiuopeo, Roma-Bari, Laterza, 1984,


pp. 307-315.
55. P. Gobetti, Risorgimento senza eroi e altriscritti storici, a cura di F. Venturi, Tori-
no, Einaudi, 1976, pp. 40-43 (il riferimento aDe Ruggiero alla p. 42, nota 1).
56.1/ marxismo nella storia della filosofia, in «Energie Nove», 2/3 ( 1919), p. 53; I
presupposti economici del liberalismo, in «Rivoluzione Liberale», 1/2 ( 1922), p. 6; Il li-
beralismo e le masse, in «Rivoluzione Liberale», 2/12 (1923), p. 49; La lotta politica in
Inghilterra. Liberali e lalnuis~ in «Rivoluzione Liberale», 3/13-14 (1924), p. 51.
51. De Felice, Introduzio~, pp. 46-48; E. Garin, Guido De Ruggiero, in Id., Intellet-
tuali italiani del XX secolo, Roma, Editori Riuniti, 198'72, pp. 124-128. Per una inteipreta-
zione diversa, si veda F. Dc Aloysio, Storia e dialogo, Bologna, Cappelli, 1962, pp. 175-
208. Per la biografia di De Ruggiero si vedano: C. Gily Reda, Guido De Ruggiero. Un
ritratto filosofico, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1981; M.L. Cicalcse, L'impegno di
1111 liberale. Guido De Ruggiero tra filosofia e politica, Firenze:, Le Monnier, 2006.
28 Rivoluzioni passive

liva invece a Vico, il quale aveva avvertito il contrasto fra storia e ragio-
ne cartesiana, inaugurando quel senso storico che, attraverso la lezione di
Giuseppe Maria Galanti, arriverà a Cuoco, considerato perciò come l'ini-
ziatore del moderno storicismo italiano. A De Ruggiero non sfuggivano i
limiti della posizione di Cuoco, che anzi venivano indicati nel persistente
particolarismo municipale e nella incapacità di cogliere la novità del go-
verno rappresentativo. Ma la sua visione storica, ereditata da Vico, supe-
rava il difetto dell'illuminismo meridionale, arrivando a riconoscere «il
valore immanente della negazione», cioè l'immanenza e la latenza della
verità nella storia. 58 Un processo intellettuale che, nel secondo capitolo,
convergeva con il rinnovamento degli studi sull'economia politica e sulla
legislazione, che rivelavano un «nuovo soggetto»59 della sovranità, «come
il fondo economico delle nuove correnti democratiche, che sul numero e
sul movimento fondavano la sovranità popolare».60 L'economia, conclu-
deva, «affermava il valore sostanziale del numero» e perciò scopriva l' es-
senza liberale e democratica della politica moderna, centrata sulla società
civile e su una diversa figura della partecipazione popolare.
Come Vico, però, anche Cuoco era rimasto un isolato: le tenden-
ze innovatrici affermate dalla cultura meridionale erano «soltanto di
pochissimi eletti, lontani dallo spirito popolare». 61 In questa frattura tra
intelligenza e plebe, rappresentata plasticamente dal mito romantico del
popolo-fanciullo («tenebra che bisogna illuminare»)CSl e dall'illusione,
particolarmente viva nel «Monitore napoletano» della Fonseca Pimentel,
che «bastasse tradurre in linguaggio plebeo i nuovi concetti rivoluziona-
ri per renderli familiari e accetti alla plebe»,63 è già implicita la lettura
della rivoluzione napoletana del '99 in termini di rivoluzione passiva.
Infatti, nel terzo e nel quarto capitolo del libro (La rivoluzione napoleta-
na del 1799; Vincenzo Cuoco), De Ruggiero riprese largamente da Cuoco
l'idea della rivoluzione del '99 come rivoluzione passiva, ma con alcune
rilevanti novità. In primo luogo, concepì la rivoluzione passiva come
«contraccolpo delle vittorie militari francesi». 64 Il «contraccolpo» non

58. De Ruggieros Il pensiero politico meridionale~ p. 168.


59. Iv4 p. 50.
60. Iv4 p. 62.
61. Iv4 p. 102.
62. Iv4p.144.
63. Iv4 p. 139.
64. Iv4 p. 103.
Guido De Ruggiero come fonte di Gramsci 29

era più riferito, alla maniera di Croce, all'atteggiamento del governo, il


quale, con la reazione, aveva generato il «frutto proibito» degli ideali
giacobini, 65 ma alla natura stessa dell'evento rivoluzionario. Nel libro
del 1922, questo uso del termine «contraccolpo» (in una accezione molto
simile a quella usata da Gramsci nei quaderni) diventò per altro molto
largo e ricorrente. 66 Inoltre De Ruggiero ampliò l'àmbito di applicazione
della categoria di rivoluzione passiva oltre gli avvenimenti del '99, fino
a considerarla come il carattere della rivoluzione napoletana del 1848 e,
in generale, di tutta la vicenda meridionale. 67
Nelle prime righe del terzo capitolo scrisse infatti queste parole:
la rivoluzione napoletana del 1799 fu giudicata, dagli stessi contemporanei,
una «rivoluzione passiva». Suscitata non da un movimento popolare auto-
nomo, ma soltanto dal contraccolpo delle vittorie militari francesi e dal fer-
mento rivoluzionario che gli eserciti conquistatori diffondevano lungo il loro
cammino, essa ebbe un carattere tutto riflesso ed esaurl rapidamente la sua
vita nello spazio di tempo tra l'occupazione militare francese e la ritirata di
quel corpo di spedizione nell'Italia settentrionale.68
La notevole dilatazione del concetto di rivoluzione passiva, oltre Cuo-
co e oltre Croce, derivava da tutta l'analisi che De Ruggiero, a partire dal
contrasto fra Giannone e Vico, aveva sviluppato. La rivoluzione passiva
era figlia di quella dicotomia e del prevalere della corrente cartesiana ed
erudita nella cultura meridionale (che ora trovava in Vincenzo Russo la
sua massima espressione): a partire dalla emarginazione dello storicismo
vichiano poteva essere spiegata, infatti, la dottrina romantica del popo-
lo-fanciullo e la scissione tra élites intellettuali e plebe. Le idee rivolu-
zionarie francesi, come De Ruggiero precisò, non erano affatto astratte,
ma diventavano tali nelle «condizioni del Napoletano», dove «mancava
l'idea stessa di popolo».69 Quelle idee erano nate nell'unità del processo
storico :francese, dove la rivoluzione continuava tutto il lavoro dell'antico

65. Ivi, p. 116.


66. Ivi, pp. 191:1257, 281,286.
67. «Il carattere riflesso e in certo modo passivo della rivoluzione napoletana del 1848
meriterebbe di essere posto in rilievo non meno di quello della rivoluzione del 1799>> (ivi,
p. 257).
68. Ivi, p. 103. Si veda la ulteriore occorrenza del termine, con riferimento a Cuoco,
alle pp. 188-189: «la rivoluzione napoletana era una rivoluzione passiva; non era nata da un
movimento spontaneo del popolo, ma da una spinta ulteriore».
69. Ivi, p. 106.
30 Rivoluzioni passive

regime e dell'assolutismo. 70 Ne scaturiva una lettura organica della storia


francese ed europea, che culminava nella rielaborazione del concetto di
«restaurazione», intesa come «una ricostruzione nel cui piano è compresa
come provvida opera preliminare la distruzione precedente, la quale così
non rompe la continuità del lavoro storico, anzi ne forma un momento
necessario».71 Posizione che seguiva e anticipava alcune notazioni di Cro-
ce e che tornerà, sia pure in termini diversi, in una nota gramsciana del
Quaderno 4, dedicata a La restaurazione e lo storicismo. 72

4. Le rivoluzioni di Vincenzo Cuoco

Se Luigi Salvatorelli ipotizzava una influenza di Maistre,73 la fonte


principale di Cuoco restava piuttosto Edmund Burke, le cui Reflections
on the Revolution in France erano state pubblicate a Londra nel 1790 per
i tipi di James Dodsley e prontamente tradotte nella lingua italiana, l'anno
seguente, «da un giornalista romano» per la tipografia di Giovanni Zem-
pel.74 Da Burke, menzionato in una annotazione dell'opera,75 Cuoco aveva
tratto l'immagine della Rivoluzione :francese come avvenimento nato dalle
«circostanze politiche nelle quali trovavasi la loro nazione»76 e presto tra-
cimato nel peccato di astrazione, nella illusione che non le «circostanze»
ma la «filosofia» fosse il motore del rinnovamento: lo scopo di «rimediare
ai mali della nazione» era stato trasceso, così, in un vortice di degenera-
zioni e violenze, culminate nell'esecuzione di Luigi XVI e nelle crescenti

70. Ivi, pp. 104-106.


71. Ivi, p. 169.
72. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), L pp. 689-
690. Cfr. Frosini, «Rivoluzione passiva»: la/onte di Gramscl pp. 202-208.
73. «V'era in ciò una influenza delle Considérations sur la France di J. de Maistre,
anteriori di qualche anno?» (L. Salvatorelli, Il ptmSiero politico italiano dal 1700 al 1870,
Torino, Einaudi, 1975, p. 135, nota 1).Le Considérations di Maistreerano apparse in prima
edizione nel 1797.
74. E. Burke, Riflessioni sulla rivoluzione di Francia in fonna di una Lettera, che a
principio dovea essere indirizzata ad tm giovaJU4 parigino, Roma, Giovanni Zempel editore,
1791.
75. V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 seguito dal rap-
porto al cittadino Carnot di Francesco Lomonaco, a cura di F. Nicolini, Bari, Laterza,
1913, p. 18, nota 1.
76. Ivi, p. 37.
Le rivoluzioni di Vincenzo Cuoco 31

e incontrollate «pretensioni di eguaglianza».77 Da tale errore di astrazione,


i patrioti napoletani avrebbero dovuto essere vaccinati dalla «scuola delle
scienze morali e politiche italiane», educata alle «idee di Machiavelli, di
Gravina, di Vico», che «seguiva altri princìpi» e un più solido realismo,
capace di distinguere tra fatti e idee, fra «bisogni» e «filosofia». 78 Invece
precipitarono nello stesso peccato e questa fu, a conti fatti, la loro colpa
maggiore e la causa della sconfitta. Tuttavia, per quanto delineata con i
tratti dell'astrazione e del degrado intellettualistico, la Rivoluzione :france-
se rappresentava, per Cuoco, anche l'esempio di una rivoluzione "attiva"
(e qui si distaccava nettamente da Burke), perché sorta, nelle sue origini, da
un 'azione diretta del popolo, da un bisogno radicato nel fondo della nazio-
ne: una rivoluzione, scriveva, dove i patrioti si riconoscono «nell'azione
precedente», cioè nel mezzo della lotta, «per quello che ciascuno [vale]» e
le élites si costituiscono e si distinguono nel seno stesso del movimento.79
Il concetto di rivoluzione passiva sorgeva dunque, nel Saggio storico,
dal confronto con le vicende francesi (che si intersecava con i riferimenti
alla Roma antica repubblicana e alla Firenze rinascimentale), le quali, sep-
pure criticate alla maniera di Burke, restavano il modello di un mutamento
concreto, originato dal genio intrinseco di un popolo. Al contrario, nella vi-
cenda napoletana si era insinuato il virus dell'«imitazione», che non solo,
«per eterna legge di natura, resta sempre al disotto del suo modello», so ma
che genera la «frivola mania per le mode degli esteri», 81 che snerva e iste-
rilisce il carattere di un popolo, allontanandolo dalla propria attitudine: «la
mania per le nazioni estere - scriveva Cuoco - prima avvilisce, indi am-
miserisce, finalmente ruina una nazione, spegnendo in lei ogni amore per
le cose sue». 82 Un virus, quello dell'«imitazione», che era stato introdotto
dalla corte, che per timore del contagio rivoluzionario aveva asservito la
monarchia ali' Austria e agli inglesi, scatenando quella persecuzione delle
opinioni che nel fatto produsse nei perseguitati il mito del «giacobinismo»,
cioè la reazione imitativa opposta e contraria, per quanto «i bisogni della
nazione napolitana eran diversi da quelli della francese»: 83 «le idee della

77. I~pp. 96-100.


78.I~p.40.
79. I~ p. 114.
80. I~ p. 91:. nota 2.
81. I~p. 28.
82.I~p. 29.
83.I~p.40.
32 Rivoluzioni passive

rivoluzione di Napoli avrebbero potuto esser popolari, ove si avesse voluto


trarle dal fondo istesso della nazione. Tratte da una costituzione straniera,
erano lontanissime dalla nostra». 84 "Passiva" era dunque, la rivoluzione
napoletana, perché fondata sul principio dell' «imitazione», che i patrioti
avevano subìto, nel mezzo della repressione, dalla stessa iniziativa regia.
Nella visione di Cuoco, l'imitazione e la rinuncia alla spontaneità na-
zionale implicavano però una conseguenza più grave, che arrivava a definire
in maniera più stretta il carattere "passivo" della rivoluzione. Proprio perché
i patrioti non avevano tratto il programma costituzionale «dal fondo istesso
della nazione», ma lo avevano imitato dai francesi, si trovavano ora a co-
stituire una élite colta separata e sradicata dal popolo e quindi a prospettare
istituzioni libere senza «uomini liberi».85 La scissione fra élite e semplici di-
ventava, per questa via, la caratteristica distintiva della rivoluzione passiva,
il problema insormontabile eretto di fronte agli uomini del '99:
la nazione napolitana si potea considerare come divisa in due popoli, diversi
per due secoli di tempo e per due gradi di clima. Siccome la parte colta si era
formata sopra modelli stranieri, così la sua coltura era diversa da quella di
cui abbisognava la nazione intera, e che potea sperarsi solamente dallo svi-
luppo delle nostre facoltà. Alcuni era divenuti francesi, altri inglesi; e coloro
che erano rimasti napolitani e che componevano il massimo numero, erano
ancora incolti. Così la coltura di pochi non avea giovato alla nazione intera;
e questa, a vicenda, quasi disprezzava una coltura che non l'era utile e che
non intendeva. 86
La nazione, dunque, non aveva «unità nazionale» e appariva divisa
«in tante diverse nazioni». 87 La separazione tra intellettuali e semplici, pro-
vocata dall'errore dell'imitazione, configurava l'azione politica come una
rivoluzione "dall'alto", senza il carattere "attivo" della mobilitazione po-
polare. Per questo, proseguiva Cuoco, in una rivoluzione passiva «il primo
passo» è quello «di guadagnar l'opinione del popolo» e, quindi, «d 'interes-
sare nella rivoluzione il maggior numero delle persone che sia possibile»;88
«di guadagnare i nemici e gl'indifferenti» e «far più conto di coloro che
non sono dalla vostra che di quelli che già ci sono». 89 In una parola è ne-

84. Ivi, p. 83.


85. Ivi, p. 87.
86. Ivi, p. 90.
87. Ivi, p. 92.
88. Ivi, p. 109.
89. Ivi, p.144.
Le rivoluzioni di Vincenzo Cuoco 33

cessarlo andare verso il popolo e allargarne la sfera di consenso, riducendo


il più possibile la distanza che separa la ristretta cerchia dei patrioti dalla
massa dei cittadini: «se la rivoluzione è attiva, il popolo si unisce ai rivo-
luzionari; se è passiva, convien che i rivoluzionari si uniscano al popolo, e,
per unirvisi, convien che si distinguano il meno che sia possibile».90
Appena menzionata nella Prefazione di Croce e largamente sottova-
lutata nella letteratura di quel periodo (con la rilevante eccezione, come
abbiamo detto, di Guido De Ruggiero), la categoria di rivoluzione passiva
rappresentava il centro di tutta la lettura che Cuoco, nell'esilio parigino,
aveva elaborata dei fatti tragici del 1799. Meditando le ragioni della scon-
fitta sanguinosa, Cuoco era giunto a riconoscere la peculiarità e il limite
degli eventi napoletani nel carattere ''passivo" della rivoluzione e a conden-
sare in tale formula il duplice e convergente motivo dell'imitazione e del
distacco dell'élite colta dei patrioti dalla massa del popolo e dei semplici.
Di conseguenza emergeva per contrasto, nelle sue pagine, il modello di una
rivoluzione "attiva" e spontanea, condotta direttamente dal popolo, aderen-
te ai suoi bisogni e scaturente «dal fondo istesso della nazione», ispirata ai
princìpi realistici della scuola italiana, di Machiavelli, Gravina e Vico.
La formula non era nuova e probabilmente derivava dall'uso che,
poco prima di lui, ne avevano fatto Michele Natale e Francesco Lomonaco.
Ma è anche vero che il concetto di rivoluzione passiva vantava precedenti
illustri, trovandosi svolto nelle pagine conclusive della seconda parte dei
Rights ofMan di Thomas Paine, databili agli inizi del 1792.91 Cuoco non ri-
cordò mai il testo di Paine, ma è caratteristico che quella prima definizione
del lemma attribuiva un significato positivo e costruttivo alle forme passive
di rivoluzione, contro i pericoli insiti nei processi attivi. «In contemplating
revolutions», scriveva Paine, si possono distinguere due generi di rivolu-
zione, a seconda delle cause che le producono: «the two [revolutions] may
be distinguished by the names of active and passive revolutions». Mentre
le rivoluzioni attive vengono attuate «to avoid or get rid of some great
calamity>>, le rivoluzioni passive si verificano «to obtain some great and

90. I~ p. 163.
91. La lettera introduttiva a La Fayette porta la data del 9 febbraio 1792. Cfr. T. Paine,
Rights ofMan, Common Sense, and Other Politica/ Writings, a cura di M. Philp, Oxford,
Oxford Univcrsity Prcss, 1995, pp. 201-202. Si veda la traduzione italiana a cura di Tito
Magri in T. Paine» I diritti dell'uomo, Roma, Editori Riuni~ 1978. L'importanza del testo di
Paine per la tematica delle rivoluzioni passive è stata segnalata da Di Meo, La «rivoluzione
passiva».
34 Rivoluzioni passive

positive good», come la riduzione delle imposte o l'abolizione della cor-


ruzione. Perciò, mentre le rivoluzioni attive sono condotte da uno spirito
irritato e aspro e macchiate da sentimenti di vendetta, nelle rivoluzioni
passive, animate da «reason and discussion, persuasion and conviction»,
il cuore «enters serenely upon the subject». «If, therefore concludeva
Paine - , the good to be obtained be worthy of a passive, rational, and cost-
less revolution, it would be bad policy to prefer waiting fora calamity that
should force a violent one». 92
Cuoco, come si diceva, non ricordò il precedente di Paine, né si trova
in Gramsci un qualsiasi riferimento ai Rights ofMan. L'analisi dei fatti del
1799, condotta nel Saggio storico, aveva riformulato radicalmente il signi-
ficato del concetto, arrivando a collegare la "passività" della rivoluzione ai
temi dell'imitazione e alla scissione fra élites e popolo. Sulla base di lon-
tani ricordi e di nuove letture, Gramsci ebbe il merito di cogliere il cuore
della questione che Cuoco aveva sollevato, pur avvertendo, nei Quaderni
15 e 19, che il suo uso di quella categoria sarebbe stato solo «uno spunto»,
avrebbe assunto «un senso un po' diverso», risultandone «completamente
modificato e arricchito».93

5. Le due aggiunte al Quaderno 1

La fonte di De Ruggiero e il testo di Cuoco offrono indicazioni utili


per decifrare la ripresa che, nel Quaderno 4, Gramsci operò della formula
della rivoluzione passiva. Ma è evidente che né l'una né l'altro illustrano
i motivi che lo spinsero a recuperare una antica categoria, riferita a una
lontana vicenda rivoluzionaria, e ad attualizzarla nel proprio tempo. Se
Gramsci incontrò il concetto di rivoluzione passiva, il motivo non può che
consistere nel fatto che, al di là delle fonti presenti o assenti e solo ricorda-
te, quella espressione condensava una linea di riflessione da tempo avviata,
riassumeva un concetto che era cresciuto nelle sue meditazioni e che, fin
lì, non aveva trovato la parola adeguata per manifestarsi. È dunque in una
direzione "interna" al pensiero gramsciano che la ricerca deve ora volgersi.
È opportuno ricordare che al novembre 1930 (quando adoperò per la
prima volta la formula delle rivoluzioni passive) la riflessione di Gramsci

92. Paine, Rights ofMan, pp. 322-323.


93. Gramsci, Quaderni dtd carcere, p. 1775 (Q15, c. 13v) e p. 2011 (Q19, c. 68).
Le due aggiwite al Quademo 1 35

aveva già conseguito risultati di rilievo e sedimentato molti nuclei teori-


ci che poi, dall'aprile 1932, verranno rielaborati nei quaderni «speciali».
Avviata la stesura dei quaderni 1'8 febbraio 1929 con l'elenco dei 16 «ar-
gomenti principali» (Quaderno 1, c. lr), Gramsci aveva condotto ordina-
tamente la scrittura del «primo quaderno» dal giugno-luglio 1929 fino al
maggio 1930, intersecando questo lavoro (con l'eccezione delle traduzioni
e forse di qualche appunto del Quaderno 2) solo dal maggio del '30 con le
schede bibliografiche del Quaderno 2, con la «miscellanea» del Quaderno
3 (maggio-ottobre 1930) e con alcune sezioni del Quaderno 4 (maggio
1930-settembre 1932). Per circa dieci mesi, dunque, la sua elaborazione
trovò uno svolgimento lineare (caso unico nella storia dei quaderni) nella
composizione del Quaderno 1, per poi complicarsi, dal maggio 1930, nel
lavoro parallelo e alternato su più quaderni, che arrivò a interessare (nel
solo periodo in esame) anche quattro quaderni contemporaneamente. Con-
cluso il Quaderno 1, infatti, fra il giugno e l'ottobre del 1930 proseguì lo
"schedario'' nel Quaderno 2, le note miscellanee del Quaderno 3, quelle
del Quaderno 4 (Il canto decimo dell'Inferno, la prima serie diAppunti di
filosofia, alcune note miscellanee) e inaugurò nell'ottobre il Quaderno 5,
componendovi, in un paio di mesi (ottobre e novembre), un centinaio di
paragrafi. 94 Per comprendere perché, nel novembre 1930, Gramsci ricorse
alla formula delle rivoluzioni passive, è necessario tenere presente questa
fase della sua riflessione, osservando la progressiva maturazione della sfe-
ra di significato a cui quel lemma, a un certo punto, si unì.
Gramsci fornì una indicazione precisa sulla linea delle sue meditazioni
con due aggiunte al Quaderno 1 che, presumibilmente, scrisse in margine
al foglio poco dopo la stesura, nel novembre 1930, della nota su Vincenzo
Cuoco del Quaderno 4. La prima aggiunta (qui riportata fra parentesi qua-
dre) si legge in margine alla carta 30v e suona così:
dalla politica dei moderati appare chiara questa verità ed è la soluzione di
questo problema che ha reso possibile il Risorgimento nelle forme e nei limiti
in cui esso si è effettuato di rivoluzione senza rivoluzione [o di rivoluzione
passiva secondo l'espressione di V. Cuoco].95

94. Per la ricostruzione cronologica si vedano Cospito, Veno l'edizione critica,


pp. 896-904, e le introduzioni ai diversi volumi della citata edizione anastatica del 2009.
95. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), I:, p. 49
(Ql, c. 30v).
36 Rivoluzioni passive

L'aggiunta cade nel § 44 (Direzione politica di classe prima e dopo


l'andata al governo), che, insieme al precedente al § 43 (Riviste tipo), ta-
glia in due la struttura del primo quaderno, introducendovi novità teoriche
sostanziali.96 Nella prima parte Gramsci aveva affrontato le questioni (per
altro rilevantissime) del diritto naturale, del "paragone ellittico" di Ma-
chiavelli (§ I O), del brescianesimo e del lorianesimo; ma ora, a partire dal
§ 43, tutta la meditazione subisce una improvvisa impennata, con la prima
analisi della dialettica politica nel Risorgimento italiano e con la ripresa
del tema dell'egemonia («egemonia politica»97 è il lemma qui adopera-
to). La prima intuizione della rivoluzione passiva è dunque riconosciuta
dall'autore nella formula, precedentemente adottata, di una «rivoluzione
senza rivoluzione».
Non è un caso che la riflessione di Gramsci era avviata da un rife-
rimento esemplare alla rivoluzione napoletana del 1799. Ragionando sul
rapporto fra città e campagna, aveva osservato che nel meridione i nuclei
urbani «sono sommersi, premuti, schiacciati dall'altra parte che è rurale,
ed è la grandissima maggioranza». 98 «Esempio tipico» di tale conflitto la-
tente tra città e campagna era «1' episodio della Repubblica partenopea del
1799», quando «la campagna ha schiacciato la città con le orde del cardi-
nal Ruffo, perché la città aveva completamente trascurato la campagna».99
Come in Cuoco, anche per Gramsci la sconfitta del 1799 appariva il risulta-
to della :frattura tra élite e massa, dell'incapacità dei patrioti di farsi carico
del disagio delle campagne.
La riflessione sui fatti napoletani proseguirà e si preciserà nei quaderni
successivi, con riferimento agli scritti di Piero Pieri e Nino Cortese. Per
ben quattro volte si riferì al libro di Pieri sul regno di Napoli, di cui aveva
letto, con ogni probabilità, le recensioni scritte da Carlo Morandi su «La
Fiera letteraria» e da Pietro Silva su «L'Italia che scrive»: 100 lo definì «utile

96. Il§ 44 sarà rielaborato nel Quaderno 19, cc. 66-95.


97. Ivi, p. 49 (Q 1, c. 30v).
98. Ivi, p. 40 (Q 1, c. 24v).
99. Ibidem (Ql. c. 25r).
100. P. Pieri,R Regno di Napoli dal luglio 1799 al marzo 1806, Napoli, Cooperativa
Tipografica Sanitaria, 1927. La recensione di Carlo Morandi si legge in «La Fiera lettera-
ria», 4/51 ( 16 dicembre 1928), p. 7; quella di Pietro Silva in «L'Italia che scrive», agosto
1928, p. 210. I riferimenti di Gramsci sono in Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni
miscellanei (1929-1935), I, p. 105 (Ql, c. 64v), p. 557 (Q3, c. 67rv); Id., Quaderni del
carcere, p. 2058 (Ql9, c. 120), p. 2068 (Ql9, c. 130).
Le due aggimite al Quaderno 1 37

per comprendere meglio la Repubblica Partenopea».101 E altrove specificò


il problema fondamentale che la notizia di quel libro gli aveva sollevato.
Osservando che Pieri aveva ricostruito le origini del pensiero liberale nel
Mezzogiorno e la "sostituzione" del nuovo liberalismo delle classi diri-
genti al «vecchio giacobinismo del 1799», domandò: «ma si può chiamare
"giacobinismo" l'indirizzo politico dei rivoluzionari del 1799?». 102 Tutta
la riflessione che da tempo aveva avviato sul significato del giacobinismo
(in rapporto al pensiero di Machiavelli e alla genesi dello Stato nazionale
francese) si stringeva in quella domanda, che tendeva a escludere proprio il
carattere "giacobino" dalla struttura delle rivoluzioni passive. La questione
trovò una risposta più distesa nella nota che, nel Quaderno 3, Gramsci de-
dicò ai due volumi di Nino Cortese su Francesco Pignatelli, 103 di cui ebbe
notizia da qualche recensione e da annunci pubblicitari dell'editore Later-
za.104 Nella rielaborazione del Quaderno 19 (1934-1935), interrogandosi
sul diverso rapporto fra aristocratici e borghesi in Francia e a Napoli, chiarì
che la differenza fra le due situazioni doveva essere indicata nel ruolo eser-
citato in Francia dalle classi popolari, che costituirono la «forza motrice»
della rivoluzione borghese, impedendole di «fermarsi ai primi stadi». Era
questo il motivo per cui la rivoluzione del 1799 non poteva essere definita
"giacobina"; ed era questa la ragione ultima della distinzione tra una ri-
voluzione attiva, come quella francese, e una rivoluzione passiva, come
quella napoletana. Ma il canone della rivoluzione passiva, indicato nei fatti
napoletani, era ormai esteso a «tutto il Risorgimento» e, in generale, alla
storia italiana:
in Francia - scrisse - la rivoluzione ebbe la forza motrice anche nelle classi
popolari che le impedirono di fermarsi ai primi stadi, ciò che mancò invece
nell ,Italia meridionale e successivamente in tutto il Risorgimento. Occorre
inoltre tener presente che il movimento napoletano avvenne dopo quello fran-
cese, quando la monarchia era sotto 1'incubo del terrore francese e vedeva
un nemico in chiunque parteggiasse per le idee innovatrici, fosse nobile o
borghese.10s

101. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), L p. 105


(Q 1, c. 64v); Id., Quaderni del carcere, p. 2058 (Q19, c. 120).
102. Ivi, p. 2068 (Ql9, c. 130).
103. N. Cortese, Memorie di un generale della Repubblica e dell'Impero. Francesco
Pignatelli principe di Strongoli, 2 voli., Bari, Laterza, 1927.
104. Gramsci, Quaderni del carcere,p. 2611.
105. Ivi, p. 2067 (Ql9, c. 129).
38 Rivoluzioni passive

Rispetto alla posizione di Cuoco, la riflessione di Gramsci giungeva


a una estensione del rapporto città-campagna alla questione storica Nord-
Sud, iscrivendo in tale frattura l'intera dinamica politica del Risorgimen-
to. Come è noto, la sua attenzione si concentrò sulla dialettica fra mode-
rati e partito d'azione, arrivando a due conclusioni principali. In primo
luogo all'idea dell'«egemonia politica» (e intellettuale) dei moderati, ma
in una misura tale da determinare 1' «assorbimento» e la «decapitazione»
dell'avversario-alleato, fino al punto di convertire l'egemonia in «domi-
nio» e di avviare quella pratica di «trasformismo» destinata a restare ca-
ratteristica della storia italiana fino ali' avvento al potere del fascismo. In
secondo luogo, Gramsci insisteva sul fallimento storico del partito d'a-
zione, il quale, incapace di legarsi ai gruppi sociali subalterni, cominciò a
«oscillare» sul terreno politico, disponendosi così a una sconfitta inevitabi-
le. Ma la sconfitta democratica segnò l'intera vicenda nazionale, determi-
nando il Risorgimento come «rivoluzione senza rivoluzione» e lasciando
la parte maggioritaria del paese senza voce, estranea al moto di unifica-
zione. Rispetto ali' articolo del 1926, Gramsci riusciva in questo modo ad
attingere la radice della questione meridionale, in una prospettiva analitica
che rinviava al problema del «cosmopolitismo» della tradizione italiana. In
un primo senso, dunque, la rivoluzione passiva («rivoluzione senza rivo-
luzione») indicava un processo di modernizzazione, come quello italiano,
avvenuto senza la partecipazione attiva del popolo, di cui i fatti del 1799
rappresentavano 1' esempio più nitido, sia per la frattura tra élite e contadini
sia per il carattere di massa della reazione sanfedista.

6. Rivoluzioni attive e passive

Alla carta 96r del Quaderno 1, Gramsci introdusse una seconda anno-
tazione marginale sulla rivoluzione passiva, probabilmente scritta, anche
essa, poco dopo la composizione della nota su Cuoco del Quaderno 4. La
definizione della «rivoluzione senza rivoluzione» diventava ora più precisa
e si ampliava a una conseguenza ulteriore, capace di chiamare in causa,
nello stesso tempo, il nesso tra sfera nazionale e dimensione internazionale
e la funzione degli intellettuali. Prendendo spunto dal libro di Raffaele Cia-
sca su L'origine del "Programma per l'opinione nazionale italiana" del
1847-1848 (Milano, Società Dante Alighieri, 1916), che aveva colleziona-
to a Roma e che ricevette a Turi, iniziò la riflessione ricordando la conce-
Rivoluzioni attive e passive 39

zione "classica" dello Stato, «come forma concreta di un determinato mon-


do economico, di un determinato sistema di produzione», 106 omogeneo alle
classi produttive di una nazione. <<Invece» (aggiunse subito, cominciando a
complicare l'analisi), quando «la spinta al progresso» non è spontanea, non
è legata a uno sviluppo economico nazionale, ma è «riflesso dello sviluppo
internazionale», perché proviene dall'esperienza di paesi più progrediti,
allora lo Stato si separa dalla base produttiva, «è concepito come una cosa
a sé, come un assoluto razionale» e la funzione "organica" delle classi pro-
duttive è sostituita dal ruolo degli intellettuali, che elaborano la prospettiva
ideologica dell'apparato istituzionale. Per illustrare tale situazione, si riferì
al concetto di rivoluzione passiva:
questo motivo è basilare dell'idealismo filosofico ed è legato alla formazione
degli Stati moderni in Europa come «reazione-superamento nazionale» della
Rivoluzione francese e del napoleonismo [rivoluzione passiva].107
Il riferimento all'idealismo riprendeva un'osservazione già formulata
nel § 44 e dischiudeva tutta la problematica della ''traducibilità", che sarà
svolta negli Appunti di filosofia e nel Quaderno 11. Ma l'aspetto più inte-
ressante dell'aggiunta marginale riguarda la definizione della rivoluzione
passiva come «reazione-superamento nazionale», che inseriva un ulteriore
elemento nell'analisi del fallimento del partito d'azione e della dialettica
politica del Risorgimento. Ora, infatti, la rivoluzione passiva era interpre-
tata non solo come rivoluzione "dall'alto", in assenza di una partecipazio-
ne attiva delle masse (e quindi come egemonia tendente al dominio, se-
condo il modello moderato), ma come "riflesso", in una nazione arretrata,
del risultato storico conseguito nei punti più alti dello sviluppo. I due volti
della rivoluzione passiva - «rivoluzione senza rivoluzione» e «reazione-
superamento nazionale» - apparivano talmente uniti e intrecciati da deli-
neare una sola spiegazione dei processi di modernizzazione. Inoltre, questa
connessione richiamava un aspetto centrale della lettura che Cuoco aveva
proposto della rivoluzione del 1799.108
Per intendere questa complicazione decisiva, è opportuno ricordare
che il partito d'azione era stato criticato, in primo luogo, per il suo di-

106. Gramsci, Quaderni del carcm-tl. 2. Quaduni miscellanei (1929-1935), L pp. 156-
157 (Ql, cc. 95v-96r).
107. Ivi, p. 157 (Ql, c. 96r). La nota vennerielaboratanel Quaderno 10, c. 39rv.
108. Deve essere inoltre osservata la distinzione che, nel Quaderno 1, Gramsci operò
tra rivoluzione passiva e Restaurazione (ivi, p. 158: Q 1, cc. 96v-97r).
40 Rivoluzioni passive

fetto di «giacobinismo».109 Non perché, si osservi, non aveva "imitato" il


movimento giacobino francese, ma perché non aveva saputo legarsi alla
tradizione giacobina nazionale, radicata nella storia dei Comuni, ripresa da
Machiavelli e presto ricompresa, attraverso la controriforma, nel cosmopo-
litismo romano-ecclesiastico. 110 Il contrasto tra le figure di Carlo Pisacane e
Giuseppe Ferrari, qui messo a fuoco, esprimeva la relativa consapevolezza
del primo e la subalternità del secondo, che «non seppe tradurre il "france-
se" in "italiano"»,111 a un modello astratto di giacobinismo.
Rimane il fatto che, nella genesi del concetto di rivoluzione passiva,
il giacobinismo francese arrivò a indicare il carattere "attivo" del proces-
so di modernizzazione borghese. Attivo perché, pur senza una funzione
egemonica direttamente esercitata dalle classi popolari, il fenomeno gia-
cobino aveva saputo esprimere l'alleanza di borghesia e popolo contro la
resistenza delle vecchie classi aristocratiche, gettando le basi per un pro-
gresso ulteriore. 112 Nella pagina che dedicò al ritmo proprio della rivolu-
zione, Gramsci spiegò che l'azione giacobina aveva cacciato «avanti la
classe borghese a calci nel sedere»,113 permettendole di superare il proprio
limite corporativo, di sfuggire la minaccia reazionaria e diventare realmen-
te «classe egemone». Perciò erano da rigettare tutte le interpretazioni (a
cominciare dallo Hegel della Fenomenologia dello spirito) che avevano
ridotto il giacobinismo a costruzione "astratta", senza coglierne la funzio-
ne "concreta" esercitata sul terreno di classe: «i giacobini - scrisse - for-

109. Ivi, p. 51 (Ql, c. 32r).


110. Ivi, p. 52 (Ql, c. 32v).
111. Ivi, p. 53 (Ql, c. 33r).
112. Sul concetto di rivoluzione attiva si vedano V. Gerratana, Gramsci come pen-
satore rivoluzionario, in Politica e storia in Gramsci, Roma, Editori Riuniti, 1977, IL pp.
79-1 O1: p. 96 e G. Francioni, L'officina gramsciana. Ipotesi sulla struttura dei «Quaderni
del carcere», Napoli, Bibliopolis, 1984, p. 212. Gli autori definiscono la rivoluzione attiva
come «unità di guerra di movimento e di guerra di posizione». In generale, attiva può essere
definita una rivoluzione che, nel ciclo espansivo della rivoluzione borghese europea, vede
la partecipazione (attiva, appunto, e non come presenza passiva) delle classi subalterne,
sia pure in una posizione non egemonica. La radice di questa definizione è naturalmente in
Marx ed Engels, in particolare nel Manifesto del partito com,mista, dove, con riferimento
alla Germania, si legge che «il partito comunista combatte insieme alla borghesia contro la
monarchia assoluta»s acquistando così una «coscienza» e preparando, «subito dopo», «la
lotta contro la borghesia stessa» (K. Marx, F. Engcls, Manifesto del partito comunista, a
cura di E. Cantimori Mezzomonti, Torino, Einaudi, 2014, pp. 49-50).
113. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscella1Uli (1929-1935), I, p. 61
(Ql, c. 38v).
Rivoluzioni attive e passive 41

zarono la mano, ma sempre nel senso dello sviluppo storico reale, perché
essi fondarono non solo lo Stato borghese, fecero della borghesia la classe
"dominante", ma fecero di più (in un certo senso), fecero della borghesia la
classe dirigente, egemone, cioè dettero allo Stato una base permanente» .114
Alla rivoluzione passiva italiana si contrapponeva cosi il modello inverso,
un processo spontaneo e attivo, capace di realizzare, con il concorso delle
masse, uno Stato nazionale moderno.
Il giudizio sul giacobinismo richiamava, d'altronde, un'analisi più
ampia sulla storia francese, che venne considerata da Gramsci come «il fe-
nomeno completo»us della modemizzazione borghese, «un tipo compiuto
di sviluppo armonico di tutte le energie nazionali e specialmente delle cate-
gorie intellettuali», ncs la patria della «nazione-popolo»,117 rispetto alla quale
non solo l'Italia (collocata all'estremo opposto di una «nazione-retorica»)
ma anche Inghilterra e Germania apparivano come soluzioni di compro-
messo. Nella miscellanea del Quaderno 4 eseguì una precisa analisi com-
parativa tra i diversi sviluppi nazionali, soffermandosi in modo particolare
sul caso della Russia, dove l'emigrazione intellettuale aveva svegliato il
popolo dalla sua «passività», costringendolo a «un forzato risveglio». 118
Ma in generale la contrapposizione tra Francia e Italia disegnava in manie-
ra compiuta l'antitesi tra una rivoluzione attiva e una rivoluzione passiva.
Nella critica del partito d'azione Gramsci aveva spiegato che il gia-
cobinismo non doveva intendersi come "imitazione" del modello francese
(un errore che, come nel caso dei patrioti del 1799 e di Giuseppe Ferrari,
avrebbe ribadito piuttosto che correggere il carattere ''passivo" dell'azio-
ne), ma come recupero di una tradizione nazionale, incentrata sulla storia
dei Comuni e sul realismo di Machiavelli e, in una certa misura, sul pen-
siero di Pisacane. È anche vero, però, che il procedere dell'analisi (specie
nelle note del Quaderno 5) aveva mostrato che l'errore dei democratici ita-
liani aveva radici ben altrimenti complesse, che risalivano alla «funzione
cosmopolita» dell'Italia nel periodo dell'impero romano e del medioevo,
che avevano impedito alla borghesia di uscire dal suo limite corporativo e
che si erano protratte fino al Concordato del 1929, determinando - questo è

114. Ivi, p. 63 (Q1=, c. 39v).


115. Ivi, p. 65 (Q1=, c. 41r).
116. Ivi, p. 776 (Q4, c. 14v).
117. Ivi, p. 522 (Q3, c. 48v).
118. Ivi, pp. 776--777 (Q4, cc. 14v-15r).
42 Rivoluzioni passive

il punto essenziale - la "passività" nei confronti degli elementi internazio-


nali e, in particolare, francesi: «le "forze" nazionali - scrisse -
non divennero «forza» nazionale che dopo la Rivoluzione francese e la nuo-
va posizione che il papato ebbe ad occupare in Europa, posizione irrime-
diabilmente subordinata, perché limitata e contesa nel campo spirituale dal
laicismo trionfante. Tuttavia questi elementi internazionali «passivamente»
prementi sulla vita italiana continuarono a operare fino al 1914 e anche (sem-
pre meno forti) fino alla Conciliazione del febbraio 1929 e continuano anche
oggi in una certa misura, determinando i rapporti esterni tra Stato italiano e
Pontefice, costringendo a un certo linguaggio ecc. 119
Ecco perché, a differenza di quanto riteneva Cuoco, l'influsso francese
fu benefico in un paese che non era riuscito a costituirsi come nazione, la
cui modernizzazione era rimasta prigioniera della tradizione cosmopoli-
ta e che dunque, al di là dei limiti soggettivi del partito mazziniano, non
avrebbe potuto fare da sé. Nel periodo che stiamo considerando, Gramsci
offrì la spiegazione più compiuta del ritardo italiano in una nota di stesura
unica del Quaderno 5, dove discusse severamente un articolo di Vittorio
Rossi su Il Rinascimento, 120 contestando anzi tutto la tesi del carattere pro-
gressivo dell'umanesimo italiano, fenomeno «anazionale» e «regressivo»,
«patrimonio di una casta intellettuale, che non ebbe contatti col popolo-
nazione».121 Perciò, concludeva, «il contenuto [ideologico] del Rinasci-
mento si svolse fuori d'Italia, in Germania e in Francia, in forme politiche
e filosofiche: ma lo Stato moderno e la filosofia moderna furono in Italia
importati perché i nostri intellettuali erano anazionali e cosmopoliti come
nel Medio Evo, in forme diverse, ma negli stessi rapporti generali». 122
Come scrisse, con una punta di paradosso, il Risorgimento re-
stava ancora un episodio del cosmopolitismo, «l'ultimo riflesso del-
la "tendenza storica" della borghesia italiana a mantenersi nei limiti del
"corporativismo"».123 Dove, come aveva spiegato altrove, il «corporativi-
smo» altro non era che la conseguenza immediata della tendenza cosmo-
po litica delle classi dirigenti. A partire dal giudizio sulla dialettica politica
del Risorgimento, l'analisi si era fatta sempre più radicale, fino a toccare

119. Gramsc~ Quaderni del carcere, p. 590 (Q5, c. 29v).


120. V. Ross~RRinascmumto, in «Nuova Antologia», 16 novembre 1929, pp. 137-150.
121. Gramsc~ Quaderni del carcere, p. 652 (Q5, c. 61v).
122. Ivi, p. 653 (Q5, c. 61v).
123. lvi, p. 677 (Q5, c. 74v).
La «rivoluzione-restaurazione» di Edgar Quinet 43

l'orientamento di fondo della storia nazionale. Il concetto di rivoluzione


passiva ne usciva arricchito e notevolmente complicato. Ma il centro del
suo significato restava ancorato al convergere di questi due aspetti, di una
«rivoluzione senza rivoluzione», cioè priva del momento giacobino della
partecipazione delle masse popolari, e di una preponderanza dell'influsso
internazionale («reazione-superamento nazionale»). Tuttavia, come si è
detto, la causa di questo intreccio era sempre più scesa in profondità, fino
a toccare il motivo originario della vicenda italiana.

7. La «rivoluzione-restaurazione» di Edgar Quinet

Nella miscellanea del Quaderno 8, in una nota scritta nel gennaio-feb-


braio 1932, Gramsci introdusse una novità di rilievo nel discorso sulla ri-
voluzione passiva. 124 Nella rubrica dedicata al «Risorgimento», ritenne di
riconoscere una sostanziale assonanza tra la formula adoperata da Cuoco
e quella attribuita a Edgar Quinet di una «rivoluzione-restaurazione». Se-
guendo un articolo di Daniele Mattalia, sembrava che Giosuè Carducci, at-
traverso la mediazione del concetto giobertiano di «classicità nazionale»,
avesse accolto questa posizione. Nella nota, che venne ripresa in seconda
stesura, senza importanti alterazioni, nel Quaderno 1O, 125 chiari ulterior-
mente il significato dell'espressione, specificandola in tre sensi. In primo
luogo, spiegò, la rivoluzione passiva o «rivoluzione-restaurazione» indica
il fatto storico «dell'assenza di iniziativa popolare» nella storia italiana: e,
in una nota di poco successiva, tale carattere venne precisato nella categoria
di «trasformismo». 126 In secondo luogo osservò che le rivoluzioni passive
o «rivoluzione-restaurazione» segnano un reale progresso storico, ma nella
forma peculiare di una «reazione delle classi dominanti» alle iniziative disor-
ganiche e scomposte delle masse popolari, accogliendone «qualche parte».
Infine avvicinò il concetto a quello di un celebre saggio critico di Francesco
De Sanctis, inserendo la definizione ulteriore di «rivoluzioni dell'uomo del
Guicciardini», che Cavour avrebbe compiuto e "diplomatizzato".
Se nel Quaderno 8 (come nella seconda stesura del Quaderno 10) il
discorso aveva seguito una linea ipotetica, segnata da verbi condizionali

124. I~ p. 957 (Q81' c. 12v).


125. I~ p. 1324 (QlOI' c. 28v).
126. I~ p. 962 (Q81' c. 15r).
44 Rivoluzioni passive

e annotazioni su ricerche da compiere, in un altro paragrafo del Quaderno


10, databile fra l'aprile e il maggio dello stesso 1932, sviluppando l'analo-
giafra il Proudhon criticato nella Miseria del/a.filosofia di Marx e Gioberti,
Gramsci mostrava maggiore sicurezza, fino ad affermare perentoriamente
che «questa concezione fu definita da Edgar Quinet di "rivoluzione-restau-
razione" che non è se non la traduzione francese del concetto di ''rivolu-
zione passiva" interpretato "positivamente" dai moderati italiani» .127 Nel
giro di poco tempo, seppure in assenza di materiali bibliografici ulteriori
(le opere di Quinet, che non risultano richieste né recapitate in carcere),
la convinzione si era evidentemente rafforzata, al punto di coinvolgere lo
scrittore di Bourg-en-Bresse nel giro di riflessioni da tempo avviato.
È opportuno, perciò, tornare sul § 25 della «Miscellanea» del Quader-
no 8, leggendolo e cercando poi di scioglierne la trama:
§. Risorgimento. Cercare cosa significa e come è giustificata nel Quinet la
formula dell'equivalenza di rivoluzione-restaurazione nella storia italiana
Secondo Daniele Mattalia (Gioberti in Carducci nella «Nuova Italia» del 20
novembre 1931) la formula del Quinet sarebbe stata adottata dal Carducci
attraverso il concetto giobertiano della classicità nazionale (Rinnovamento,
III, 88; Primato, III, 1, 5, 6, 7... ; il Rinnovamento nell'edizione Laterza, il
Primato nell'edizione Utet). Questo concetto del Quinet può essere avvicina-
to a quello di «rivoluzione passiva» del Cuoco? Sia la «rivoluzione-restaura-
zione» del Quinet che la «rivoluzione passiva» del Cuoco esprimerebbero il
fatto storico dell'assenza di iniziativa popolare nello svolgimento della storia
italiana, e il fatto che il «progresso» si verificherebbe come reazione delle
classi dominanti al sovversivismo sporadico e disorganico delle masse po-
polari con «restaurazioni» che accolgono una qualche parte delle esigenze
popolari, quindi «restaurazioni progressive» o «rivoluzioni-restaurazioni» o
anche «rivoluzioni passive». Trasportando questo spunto nella rubrica «Pas-
sato e presente» si potrebbe dire che si tratta di «rivoluzioni dell'uomo del
Guicciardini» e che il Cavour «diplomatizzò» appunto la rivoluzione dell 'uo-
mo del Guicciardini_ 12a
Gramsci traeva lo spunto da una serie di tre articoli di Daniele Mattalia
pubblicati nella «Nuova Italia» diretta da Luigi Russo nel 1931 e nel 1932.129

127. Ivi, p. 1220 (QIO, c. 44v). Torneremo nelle pagine seguenti sul significato della
0
interpretazione positiva" dei moderati italiani.
128. lvi, p. 957 (Q8, c. 12v).
129. D. Mattalia, Gioberti in Carducci (Per una maggiore determinazione delle fonti
storiche della cultura carducciana), in «La Nuova Italia. Rassegna critica mensile della
La «rivoluzione-restaurazione» di Edgar Quinet 45

In particolare la sua attenzione fu attirata dal primo di questi articoli, nel


quale l'autore intendeva mostrare l'influsso del pensiero di Gioberti («re-
ciproca connessione e compenetrazione tra letteratura e vita politica», «re-
alismo caratteristico della "scuola italica"», «classicità nazionale») sull'o-
pera critica di Carducci, con riferimento alla Giunta alla derrata uscita
nell'ottobre 1856 a cura degli Amici pedanti e alla Prolusione del 22 no-
vembre 1860 alle lezioni tenute ali 'Università di Bologna. A un certo punto
Mattalia azzardava una ipotesi genealogica, arrivando a sostenere che la
«classicità nazionale» di Gioberti avrebbe costituito «il primo impulso»
per la tesi di Quinet sulla «restaurazione-rivoluzione nella storia italiana»,
e che questa posizione, condivisa anche dal Guizot, avrebbe poi condotto
Carducci a «hegelizzare», entrando nel terreno di una «filosofia della sto-
ria». Nella pagina che colpì Gramsci, si leggevano queste parole:
così, (senza gravare la cosa) il concetto giobertiano della classicità naziona-
le [Rinnovamento, III, 88; Primato, III, 1-5-6-7] può aver formato il primo
impulso ali' adozione della formula quinetiana dell'equivalenza tra restau-
razione-rivoluzione nella storia italiana, come l'assuefazione congeniale al
dialettismo polposo e vibratile ma un po' schematico del Gioberti, può aver
facilitato l'adozione e l'uso dialettico degli «elementi» o «principi» [La te-
oria e l'uso dei princìpi esiste anche nel Gioberti] a motori dell'unità stori-
ca; «elementi» e «principi» co' quali il Quinet e il Guizot hegelizzarono e
indussero ad hegelizzare, strano scherzo della circolazione filosofica, anche
e proprio il Carducci. E nell'applicazione della dottrina degli «elementi» sto-
rici, il Carducci arieggiò forse l'applicazione o il ritrovamento d'una filosofia
della storia, d'una storia sentita come vasto organismo unitario, trascendente
all'arbitrio degli individui, non castigabile «con la ferula della dialettica»
né «rifattibile» a senso d'ognuno, e invocata come maestra e informatrice
dell'avvenire. Poiché lo storicismo carducciano giobertianamente si protende
e «s'infutura». E a questo sentimento organico e quasi religioso della storia, il
Carducci tentò di connaturare il concetto della Nemesi storica, con un residuo
finale di trascendenza.130
La formula della «restaurazione-rivoluzione», che Gramsci avvicinò
a Cuoco e, come abbiamo visto, alle «rivoluzioni dell'uomo del Guicciar-
dini», non apparteneva a Quinet, che mai la aveva adoperata, ma scaturiva

cultura italiana e straniera», 20 nov. 1931, pp. 445-449; 20 dic. 1931, pp. 478-483; 20 gcn.
1932:. pp. 22-27.
130. I~ 20 nov. 193 t p. 448. Le espressioni riportate in parentesi quadre corrispon-
dono alle note a piede di pagina.
46 Rivoluzioni passive

dal tentativo di Mattalia di stringere in una sola espressione la tesi dell 'in-
flusso che la «classicità nazionale» di Gioberti avrebbe esercitato sulla for-
mazione del paradigma storiografico quinettiano. 131 Influsso obliquo e, per
così dire, contrastivo, perché l' «apparato mostruoso»132 del neoguelfismo
rappresentava, come è noto, l'avversario più diretto dello storico francese,
il quale chiarì la sua posizione, senza possibilità di equivoco, nel terzo
capitolo del libro quarto delle Révolutions d 'Italie, aggiunto nell'autunno
del 1847 al corpo principale dei corsi del 1845 e 1846 per spegnere gli
entusiasmi sollevati dalle riforme di Pio IX. 133 È possibile, tuttavia, che la
«restamazione-rivoluzione» evocasse in Gramsci ricordi di antiche letture,
o del testo di Quinet (riproposto da Egisto Roggero nel 1928 per l'editore
Carabba di Lanciano) o dei diversi autori italiani (da Mazzini a De Sanctis)
che a Quinet si erano in qualche modo richiamati. La formula coniata da
Mattalia, infatti, non era del tutto arbitraria, anche se indicava uno schema
interpretativo alquanto diverso da quello di Cuoco.
Per comprenderne il significato, è opportuno ricordare come Quinet,
nel libro sulle rivoluzioni italiane, avesse collocato il «cosmopolitismo
informe»134 alla radice dell'intera ricostruzione: tutta la storia italiana era
infatti segnata da questo «ideale prematuro», 135 frutto della perfetta con-
tinuità fra il «sacerdozio» (la Chiesa cattolica) e l'impero (romano), che
aveva condotto gli italiani a vagheggiare un mondo puramente ideale, con
la conseguente «impossibilità di organizzarsi, di formar uno di quegli es-
seri viventi che dicesi nazione»: 136 «lo spirito degli Stati politici - con-
cludeva era la nazionalità; quello del papato il cosmopolitismo. Come
accordarli entrambi?». 137 Questo era il motivo, inoltre, per cui gli italiani
avevano compiuto ogni cosa «nelle menti», senza mai riuscire a «tradurre»
i pensieri «negli atti», 138 restando impigliati nella più secca scissione fra la

131. Nelle monografie che Mattalia, prima di consacrarsi agli studi danteschi, dedicò
a Carducci la formula della «restaurazione-rivoluzione» non è ripetuta. Ma è tuttavia ripre-
so il concetto relativo all'influsso di Quinet e Guizot (ora esteso anche a Sismondi): cfr.
D. Mattalia, Giosuè Carducci (1835-1907), Milano, Paravi.a, 1942, p. 18.
132. E. Quin~ Le rivoluzioni d'Italia, trad. di Niccolò Montenegro, Lodi, Società
cooperativo-tipografica, 18722, p. 374.
133. Ivi, pp. 363-384.
134. Ivi, p. 42.
135. Ivi, p. 41.
136. Ivi, p. 178.
137. Ivi, p. 179.
138. Ivi, p. 25.
La «rivoluzione-restaurazione» di Edgar Quinet 47

teoria e la pratica, di cui il rinascimento offriva il modello esemplare. Per


certi versi, la storia che Quinet aveva costruito nei quattro libri che com-
ponevano l'opera era una ripetizione, a tratti monotona (perché ogni fatto
storico ne confermava immancabilmente la regola), dell'unico accordo
che davvero emergeva nella vicenda italiana, riassumibile nel cosmopoli-
tismo, derivato dall'idolatria dell'impero e dal potere della Chiesa, e della
incapacità a costituirsi come nazione moderna. Il cosmopolitismo italiano
trovava una ratifica persino nel pensiero di Machiavelli, che aveva bensì
osservato «le illusioni secolari dell'Italia» e osato «mirarle in faccia», 139
ma per surrogare poi il principio nazionale nel realismo della pura forza,
indicando perciò nei gesuiti «il complemento necessario»140 e nel partico-
larismo di Guicciardini un compimento inevitabile. 141 E trovava (seguen-
do la traccia della Histoire de la Révolution française di Jules Michelet),
quel medesimo cosmopolitismo, un esito naturale nel rifiuto immediato
che il popolo italiano aveva opposto alla Rivoluzione :francese142 e, ben
diversamente dal disegno di Cuoco, soprattutto nei fatti napoletani del
1799, dove «i lazzaroni, ebbri d'assolutismo», 143 arrivarono a trucidare un
popolo, armati della stessa ideologia che l'idolatria dell'impero e la Chie-
sa cattolica avevano innestato nel senso comune delle masse. Afferrato il
capo della matassa, riconosciuto nel cosmopolitismo il peccato d'origine,
Quinet lo reiterava in maniera insistente, riportandovi ogni episodio, anti-
co o moderno, della storia italiana.
Il concetto di «restaurazione-rivoluzione», escogitato da Daniele Mat-
talia, si inseriva probabilmente in questo ordine di pensieri. Nel capitolo
dodicesimo del primo libro, dedicato al «principio delle repubbliche ita-
liane» nella prima età moderna, Quinet provò a mettere a fuoco l'idea di
rivoluzione che, applicata agli Stati italiani del Quattrocento, operava in
realtà per tutte le epoche, dalle origini romane ai moti del primo Ottocen-
to. Scrisse che «tutt'i rivolgimenti italiani erano rivoluzioni sociali», nelle
quali le classi si confondevano reciprocamente e «le condizioni distrugge-
ansi a vicenda, ad ogni rivolgimento». 144 Poco dopo, richiamando la teoria
dei corsi e ricorsi di Vico, chiari il senso di tale affermazione, enucleando

139. l~P- 198.


140. I~ p. 204.
141. l~P- 225.
142. I~ p. 346.
143. I~ p. 350.
144. I~ p. 150.
48 Rivoluzioni passive

il significato che, nella sua ricostruzione, acquistava il concetto stesso di


rivoluzione:
in mezzo a tanti cangiamenti - spiegò - politici, economici, sociali, restando
ognora intatta la forma religiosa, cotesta società ritornava pur sempre, dopo
gravi rivolgimenti, al suo punto di partenza: assolutismo e servitù. Nulla mu-
tando alla sua base, ella rientrava costantemente nella sua forma antica; dopo
mille giri, lo spirito servile eh' è in sè stesso il fondo del cattolicesimo, ride-
stavasi e dominava nuovamente. Era il ciclo eterno di Vico.
Un'immensa instabilità, senza verun progresso continuo, ecco tutta la storia
dell'Italia repubblicana. Tal fu del pari la sorte di tutti gli Stati cattolici che
sono entrati in libertà; ella è stata per essi una condizione violenta, rivoluzio-
naria, opposta alla natura delle cose. Questi Stati si agitano, sconvolgonsi; ei
fanno rivoluzioni, attraversano la libertà, e poscia ritornano all'assolutismo
siccome alla lor base naturale. 14s

Proprio in tale senso la rivoluzione, nella storia italiana, poteva essere


definita come una ricorrente «restaurazione». I continui sconvolgimenti
sociali, capaci di alterare incessantemente il profilo delle classi («la no-
biltà faceasi borghesia o viceversa; entrambe rientravano e confondeansi
nel proletariato, per uscirne nuovamente con una nuova riscossa»), 146 ri-
badivano e anzi restauravano la «forma antica», cioè l'essenza religiosa e
cosmopolitica affermata dall'idolatria dell'impero e, prima di tutto, dalla
servitù universale imposta dalla Chiesa. Lo sconvolgimento costante delle
condizioni sociali, che segnava la superficie del processo storico, rivelava
la dinamica di una restaurazione profonda, la conferma sostanziale della
malattia di una nazione.

8. Croce e le rivoluzioni passive

A partire dal febbraio 1932, Gramsci cominciò a utilizzare il concetto


di rivoluzione passiva per interpretare la figura di Benedetto Croce: dap-
prima lo applicò alla storiografia, poi alla funzione intellettuale, infine lo
estese ai principi fondamentali della sua filosofia. In una nota del Qua-
derno 8, rielaborata in seconda stesura nel Quaderno 1O, scrisse che «lo
storicismo di Croce è da mettere in rapporto con ciò che è stato osservato

145. Ivi, pp. 151-152.


146. lvi, p. 150.
Croce e le rivoluzioni passive 49

in note precedenti sui concetti di ''rivoluzione passiva", di "rivoluzione-re-


staurazione", di "conservazione-innovazione" e sul concetto giobertiano di
"classicismo nazionale"» .147 Per il momento emergeva soprattutto questo
ultimo aspetto, il riferimento al «classicismo» di cui aveva parlato Mattalia
nell'articolo carducciano, perché Croce appariva come colui che «riporta
la cultura nazionale alle origini, ma vivificandola [e arricchendola] con
tutta la cultura europea e depurandola da tutte le scorie magniloquenti e
bizzarre del Risorgimento». 148 Un innovatore, dunque, ma nel solco della
tradizione neoguelfa, che meritava di essere osservato nel reale «signifi-
cato storico e politico», spogliandone l'immagine dal cliché abusato del
«pensiero sereno e imparziale», come fosse l'autore di «una contemplazio-
ne disinteressata dell 'etemo divenire della storia umana» .149
Ma poco tempo dopo, quando, sollecitato da Tatiana, cominciò a me-
ditare il disegno della Storia d'Europa, il giudizio diventò più preciso, fino
a coinvolgere l'intera produzione storiografica del filosofo napoletano. 150
Nella terza serie di Appunti di filosofia, poi nei Punti di riferimento per
un saggio su B. Croce del Quaderno 1O, Gramsci determinò il rapporto di
Croce con le rivoluzioni passive nel fatto che la sua costruzione storica (in
particolare Storia d'Italia e Storia d'Europa) prescindeva «dal momento
della lotta», 151 rappresentato in un caso dal Risorgimento e nell'altro dalla
Rivoluzione francese e dalle guerre napoleoniche. Che la Storia d'Italia
iniziasse con il 1871, quando la «sede del regno» era stata fermata «in
Roma», 152 e che la Storia d'Europa cominciasse con un capitolo su «la
religione della libertà»,153 cioè con l'esposizione del liberalismo dell'età
della restaurazione, trascurando il processo contrastato che aveva condotto

147. Gramsc~ Quaderni del carcere,p. 966 (Q8, c. 17r).


148. Ibidem.
149. Ibidem.
150. Sulla genesi del Quaderno 1O e sulle fonti crociane disponibili nel carcere specia-
le di Turi dr. M Mustè, Marxismo e filosofia della praxis. Da Labriola a Gramsci, Roma,
Viella, 2018, pp. 257-287 e Id., Le note su Gramsci e la genesi del Quaderno 10, in Un
1111ovo Gramsci. Biografia, temi, interpretazio11i, a cura di G. Francioni e F. Giasi, Roma,
Viella, 2020, pp. 301-321. Per un quadro d'insieme si veda A. Gramsci,La "Storia d'Euro-
pa" di Benedetto Croce e i/fascismo, a cura di F. Fros~ Milano, Unicop~ 2019, con una
corposa e importante Introduzione (pp. 13-62) del curatore.
151. Gramsc~ Quaderni del carcere,p. 1227 (QlO, c. 47r).
152. B. Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Roma-Bari, Laterza, 19773, p. 1.
153. B. Croce, Storia d'Europa nel secolo decimonono, Roma-Bari, Latcrza, 19814,
pp. 7-21.
50 Rivoluzioni passive

all'unità nazionale e, d'altro lato, il conflitto fra i gruppi sociali che aveva
generato la politica europea dopo il 1815, - questo solo aspetto materiale
dimostrava il limite di un metodo storiografico, l'esorcismo professato per
il «momento della lotta», l'astrazione unilaterale del «momento dell'espan-
sione culturale o etico-politico»154 dal corpo vivo della storia. In tale modo
la narrazione crociana appariva come opera monca, solo «un frammento di
storia»,m limitata all'aspetto "passivo" delle vicende italiane ed europee,
che non può essere considerato in maniera autonoma e indipendente, per-
ché è generato dal momento drammatico e rivoluzionario di una lotta aper-
ta e di movimento. Il rapporto fra "attivo" e ''passivo" si stringeva, dunque,
proprio di fronte all'autore che aveva separato astrattamente i due momenti
e che, come si leggeva altrove, era giunto a isolare le superstrutture dalla
loro genesi strutturale e oggettiva, configurando il principio dell'egemonia
in una forma imperfetta, perché privata della domanda fondamentale sul
processo di costituzione dei soggetti politici.
Sul piano analitico 1'errore di Croce consisteva nella separazione
dell'elemento ''passivo" da quello "attivo", delle ideologie dalla loro gene-
si reale, o anche, come si legge nel Quaderno 8, della «forma» dalla «ma-
teria»: «nella storia d'Europa - scrisse - [ ... ] il periodo scelto è monco,
è il periodo delle rivoluzioni passive, per dirla col Cuoco, il periodo della
ricerca delle forme [superiori], della lotta per le forme, perché il contenuto
si è già affermato con le rivoluzioni inglesi, con quelle francesi, con le
guerre napoleoniche». 156 Era tutta la teoria del "blocco storico", elaborata
nelle tre serie di Appunti di filosofia, che il metodo di Croce frantuma-
va, perché la separazione di ''passivo" e "attivo" corrispondeva, secondo
una perfetta analogia, a quella fra la struttura e le superstrutture, alla con-
fusione, come spiegò metaforicamente, tra «1 'individuo "scuoiato"» e il
«vero individuo». 157 L'errore metodologico, però, trovava una spiegazio-
ne di carattere pratico, che portò Gramsci ad avvicinare maliziosamente
l'ideologia di Croce a quella del fascismo, «per una delle tante manife-
stazioni paradossali della storia», «per un'astuzia della natura, per dirla
vichianamente»: 158 infatti Croce, «mosso da preoccupazioni determinate,

154. Gramsci, Quaderni d<ll carcetl, p. 1227 (QlO, c. 47r).


155.lbukm.
156. Ivi, p. 1091 (Q8, c. 79v).
151.lbi<km.
158. Ivi, p.1228 (QlO, c. 47r).
Croce e le rivoluzioni passive 51

[giungeva] a contribuire a un rafforzamento del fascismo, fornendogli indi-


rettamente una giustificazione mentale dopo aver contribuito a depurarlo di
alcune caratteristiche secondarie». 159 Parole gravi, che hanno determinato
molti equivoci interpretativi e che è opportuno intendere nel loro signifi-
cato più preciso.
Senza dubbio Gramsci riteneva che il metodo storiografico di Cro-
ce derivasse dal programma pratico di attuare una rivoluzione passiva di
tipo liberale, sul modello giolittiano, decapitando la forza "attiva" delle
masse popolari e assimilandone, in senso riformistico, alcuni caratteri. La
mentalità ''passiva" della sua ideologia politica si proiettava, perciò, nella
narrazione storica. Il riferimento al fascismo derivava però da un passaggio
ulteriore, dall'idea (su cui torneremo nelle pagine seguenti) che anche il
regime corporativo costituisse, in un senso non liberale, un programma di
rivoluzione passiva, ossia un processo di modernizzazione che intendeva
eliminare il conflitto sociale e la presenza attiva delle masse, assimilan-
done determinati aspetti. Perciò la posizione di Croce e quella del fasci-
smo, sia pure diversamente orientate sul terreno ideologico, condividevano
qualcosa di essenziale, cioè il principio di un riformismo passivo. L 'analo-
gia tra la situazione attuale e quella che in Europa si era determinata fra la
Rivoluzione francese e la Restaurazione, e che aveva segnato il lungo ciclo
liberale tra il 1789 e il 1870, spingeva Gramsci a sottolineare il carattere
omogeneo delle differenti ideologie politiche contemporanee, disponen-
dole lungo l'asse "guerra di movimento-guerra di posizione". Nella stessa
nota su Croce scriveva infatti:
nell'Europa dal 1789 al 1870 si è avuta una guerra di movimento (politica)
nella Rivoluzione francese e una lunga guerra di posizione dal 1815 al 1870;
nell'epoca attuale, la guerra di movimento si è avuta politicamente dal marzo
1917 al marzo 1921 ed è seguita una guerra di posizione il cui rappresentante,
oltre che pratico (per l'Italia), ideologico, per l'Europa, è il fascismo. 160

Attraverso il giudizio su Croce, emergevano due nodi di fondo della


riflessione sulle rivoluzioni passive: da un lato la possibilità di configurare,
sul piano storico, il fascismo come una rivoluzione passiva, d'altro lato il
nesso teorico fra rivoluzioni passive e guerra di posizione.

159.lbukm.
160. Ivi, p. 1229 (QlO:, c. 47v).
52 Rivoluzioni passive

9. La «dialettica addomesticata»

Prima di tornare su questi aspetti, è opportuno evidenziare una ulterio-


re conseguenza della critica a Croce. Abbiamo osservato che l'obiezione
rivolta al metodo storiografico rinviava a un giudizio politico, perché il
limite analitico di Croce appariva a Gramsci come la conseguenza di un
programma pratico vòlto non solo a comprendere la storia ma a realizzare
una rivoluzione passiva nella politica italiana. Tuttavia, il carattere "pas-
sivo" della narrazione storica trovava anche una base filosofica nel modo
in cui Croce aveva pensato e riformato la dialettica di Hegel e concepito
la relazione tra le forme distinte. La filosofia dello spirito di Croce poteva
essere interpretata, insomma, come una vera e propria filosofia delle rivo-
luzioni passive.
Già nella terza serie di Appunti di filosofia, elencando i sette Punti per
un saggio su B. Croce, Gramsci parlò di una «dialettica addomesticata»,
per indicare il ritmo logico della «teoria della rivoluzione-restaurazione». 161
Il difetto di questa revisione della dialettica hegeliana consisteva nel fat-
to che in essa «l'antitesi [deve] essere conservata dalla tesi per non di-
struggere il processo dialettico» .162 Con una precisa corrispondenza con
la dinamica "trasformista" delle rivoluzioni passive - dove, nell'esempio
del Risorgimento, l'antitesi democratica era decapitata e parzialmente as-
similata dall'egemonia moderata-, anche nel discorso filosofico l'antite-
si logica sembrava custodita all'interno della tesi, per evitare che l'intero
processo si distruggesse e l'ordine razionale precipitasse nel caos. Con una
notazione interessante, Gramsci aggiungeva che nella «dialettica addome-
sticata» il divenire «viene "preveduto" come ripetentesi meccanicamente
all'infinito», 163 seguendo una via evolutiva, predeterminata, perché rias-
sunta nell'assorbimento dell'antitesi nella tesi, la quale risulterebbe così
neutralizzata e, al tempo stesso, accolta ''riformisticamente" in alcuni suoi
aspetti (per cui la rivoluzione passiva, pur conservando e restaurando l 'or-
dine, riesce anche a rinnovarlo e modernizzarlo gradualmente, mantenen-
dosi pur sempre nella forma di una ''rivoluzione").
Nella nota del Quaderno 8, come nella più estesa rielaborazione in se-
conda stesura del Quaderno 10, Gramsci continuò a considerare la «dialet-

161. Ivi, p. 1083 (Q8, c. 74v).


162. Ibidem.
163.lbidem.
La «dialettica addomesticata» 53

tica addomesticata» come un «errore filosofico», «di origine pratica», con-


vertito ideologicamente dai moderati in una «concezione positiva>>1 64 ( cioè
in un programma e non solo utilizzata come uno schema analitico), e non,
dunque, come una rappresentazione vera e adeguata delle rivoluzioni passi-
ve. "Addomesticando" la dialettica, dal «classicismo nazionale» neoguelfo
fino alla riforma filosofica crociana, veniva reciso il rapporto tra questa figu-
ra del processo (fondata sull'assorbimento dell'antitesi nella tesi) e quella,
propriamente hegeliana, incentrata sul conflitto di forze opposte o contrarie,
nascondendo perciò il fatto che quella derivava da questa e la presuppo-
neva. La logica "addomesticata" conservava perciò, in Gramsci, un certo
valore ermeneutico, analitico e descrittivo, perché proprio in quella forma
si erano svolte le rivoluzioni passive, ma rimaneva tuttavia un «errore filo-
sofico», sia perché occultava la radice dialettica da cui le stesse rivoluzioni
passive derivavano sia per il fatto che convertiva un paradigma interpreta-
tivo in un programma pratico, perseguendo la neutralizzazione del conflitto
in atto. Nella «storia reale», spiegò infatti, l'antitesi non si lascia assorbire
dalla tesi, ma «tende a distruggere la tesi»: «quanto più l'antitesi sviluppa
se stessa implacabilmente, tanto più la tesi svilupperà se stessa, cioè dimo-
strerà tutte le sue possibilità di vita». Perciò, concludeva, «il risultato è un
superamento, ma senza che si possa a priori "misurare" i colpi come in un
"ring" di lotta convenzionalmente regolamentata>>. 165
Ciò che restava oscuro in questa prima formulazione, venne svolto con
maggiore chiarezza nella seconda stesura del Quaderno 10. Illustrando la
premessa storica del discorso («questa storiografia scrisse è un hegeli-
smo degenerato e mutilato, perché la sua preoccupazione fondamentale è un
timor panico dei movimenti giacobini, di ogni intervento attivo delle grandi
masse popolari come fattore di progresso storico»), 166 Gramsci aggiunse che
in nessun caso può essere «preveduto» lo sviluppo del processo dialettico,
il passaggio determinato dall'antitesi delle forze alla sintesi successiva, ov-
vero «ciò che della tesi sarà "conservato" nella sintesi», perché il «supera-
mento» è «quistione di ''politica" immediata>>, in quanto «nella storia rea-
le» il conflitto si frammenta («si sminuzza») in innumerevoli momenti, che
rendono impossibile una previsione scientifica o una regola storiografica
"addomesticata". La dialettica di tesi e antitesi- questa era la novità princi-

164. Ivi, p. 1220 (Ql0, c. 44v).


165. Ivi, p. 1083 (Q8, c. 74v).
166. Ivi, p. 1220 (Ql0, c. 44v).
54 Rivoluzioni passive

pale che aggiungeva nella seconda stesura del testo - va dunque considerata
come una pluralità di conflitti che attraversano la società civile: perciò la
soluzione è solo politica, affidata al rapporto delle forze e alla capacità ege-
monica dei soggetti. Al contrario, la «dialettica addomesticata» semplifica
l'intero processo «in un conservatorismo riformistico temperato». 167
La rivoluzione passiva, in quanto approccio analitico e programma pra-
tico, si fonda dunque su una semplificazione ("addomesticamento") della
dialetticahegeliana. Possiamo riassumere questa posizione affermando che
la teoria degli opposti si trasforma, in tale «riforma ''reazionaria"»,168 in un
meccanismo che presuppone l'assorbimento del conflitto in una sintesi or-
dinata dalla tesi, dove la tesi stessa decapita l'antitesi e la assorbe nel senso
di un "riformismo temperato". È il modello ''trasformista" della dialettica
politica del Risorgimento. Questa riflessione, originata dall'esame delle
rivoluzioni passive, deve essere composta con gli altri testi dove Gramsci,
in forma più diretta, scrisse sulla dialettica hegeliana e sulle sue "riforme"
italiane.169 In una nota del Quaderno 8, rielaborata nel Quaderno 13, offrì
la formulazione forse più matura del problema. Riprendendo la questione
machiavelliana dell'autonomia della politica, cioè della posizione che la
scienza politica «occupa o deve occupare in una concezione del mondo
sistematica (coerente e conseguente) - in una filosofia della praxis»,170 ri-
conobbe - come aveva fatto altrove 171 -1 'utilità e l'importanza della teoria
crociana del circolo delle forme distinte, quindi proprio di quella ''riforma"
della dialettica hegeliana che il filosofo napoletano aveva intrapreso fin
dal 1906: si trattava infatti di un reale «progresso», della «dissoluzione di
una serie di problemi falsi, inesistenti o male impostati», 172 che la filosofia
della praxis avrebbe dovuto accogliere e adattare alla propria concezione
della realtà. E nel Quaderno 1Oaggiungeva che «c'è una esigenza reale nel
distinguere gli opposti dai distinti».173 Nelle linee successive, però, limita-
va il valore della teoria crociana ai «gradi della soprastruttura»,174 che egli

167. lvi, p. 1221 (QlO, c. 45r).


168. Ivi, p.1317 (Ql0, c. 26r).
169. Per lo svolgimento di questo tema si veda M Mustè, Dialettica e società ci-
vile. Gramsci "interprete" di Hegel, in «P61emos. Materiali di filosofia e critica sociale»,
11/1 (2018), pp. 30-46.
170. Gramsci, Quaderni del carcue, p. 1568 (Q13, c. 4v).
171. lv-i, p.1316 (QlO, c. 26r).
172. lv-i, p.1568 (Q13, c. 4v).
173. lv-i, p. 1316 (QlO, c. 26r).
174. lv-i, p. 1569 (Q13, c. 4v).
La «dialettica addomesticata» 55

ripensava come un circolo avviato dall'attività politica (che quindi prendeva


il posto dell'intuizione estetica), perché «l'arte, la morale, la filosofia» sono
«anche ''politica"». 175 La ''riforma" crociana era dunque accolta, in una certa
misura e in un certo modo, dal momento che Gramsci riconosceva, con Croce
e contro il diverso avviso di Hegel, che le forme ideologiche (le superstruttu-
re) hanno un rapporto reciproco non dialettico ma ordinato dalla logica della
distinzione. Tuttavia, come si è visto, mentre per Croce il circolo delle forme
distinte esauriva il significato della realtà (lo spirito), per Gramsci indicava
solo una parte della realtà, quella relativa alle superstrutture.
Infatti, oltre il circolo delle superstrutture, occorreva evocare la re-
lazione (che Croce aveva occultata) tra questa sfera e quella, diversa e
ulteriore, della «struttura». Come è noto, negli Appunti di filosofia tale re-
lazione era stata indicata nella formula del «blocco storico», che non a caso
rappresentava, così scrisse, «l'equivalente filosofico dello "spirito" nella
filosofia crociana». 176 Non solo Croce aveva nascosto una parte fondamen-
tale della realtà (la struttura), ma la aveva definita come un «dio ascoso»,
un «noumeno», riducendo per conseguenza le stesse superstrutture ad «ap-
parenze» prive di realtà. Proprio in tale occultamento emergeva il carattere
idealistico, speculativo, della sua filosofia, dunque il tratto «reazionario»
della sua riforma della dialettica, che era, in ultima istanza, una giustifica-
zione unilaterale delle rivoluzioni passive.
Tornando alla nota del Quaderno 13, ristabilita la relazione fra «i gra-
di della soprastruttura» e la struttura, Gramsci articolava in senso logico
questo rapporto: affermava infatti che il blocco storico deve essere con-
cepito come «unità tra la natura e lo spirito» e, più precisamente, «unità
dei contrari e dei distinti». 177 Nella prima stesura aveva scritto: «unità di
opposti e di distinti». 178 La sostituzione del termine «opposti» con «con-
trari» risentiva, con ogni evidenza, di tutta la meditazione avviata sulle
rivoluzioni passive, cioè della consapevolezza, ormai acquisita, che la
conversione dei «contrari» negli «opposti» esigeva una mediazione ulte-
riore, non poteva essere indicata nella figura immediata della struttura, ma
richiamava la capacità "soprastrutturale" dell'attività politica, il compito
egemonico della catarsi e della sintesi dei dati oggettivi della realtà. Nella

175. Ivi, p. 1316 (QlO~ c. 26r).


176. Ivi, p. 854 (Q7 ~ c. 53r).
177. Ivi, p. 1569 (Q13~ c. 5r).
178. Ivi, p. 977 (Q8~ c. 22r).
56 Rivoluzioni passive

«natura», insomma, potevano bensì venire indicati i «contrari» aristotelici,


ma non il divenire attivo dell' «opposizione» hegeliana, impensabile senza
la mediazione della volontà umana. In questo modo, la mutilazione operata
dai teorici della rivoluzione passiva era sanata, perché lo sguardo analitico
ricomponeva il momento ''passivo" con quello "attivo", ricollegando la
sfera sopras1rutturale alla genesi reale nella struttura.
Rimaneva la domanda più insidiosa, relativa alla nozione marxiana
di struttura. Se Croce aveva sbagliato, scambiando la struttura per un «dio
ascoso» e per un «noumeno», come doveva intendersi, nella filosofia della
praxis, la fisionomia di questo concetto? È evidente che non bastava la
rapida indicazione della «natura» (che al limite avrebbe riproposto l' o-
biezione crociana) né il rinvio all'elemento oggettivo, misurabile, stret-
tamente economico o statistico della società civile. Nella stessa nota del
Quaderno 13, perciò, Gramsci si domandava se «il criterio di distinzione
si può introdurre anche nella struttura» e, in generale, «come sarà da in-
tendere la struttura». 179 La risposta alla domanda era affermativa e richia-
mava le differenze della vita sociale, «tecnica», «lavoro», «classe» e così
via. La struttura tendeva così a delineare l'insieme complesso della forma
sociale e storica determinata, nell'intreccio di elementi oggettivi e anche
soggettivi, perché, come aveva insegnato la teoria del blocco storico, i due
termini andavano presi "in blocco", non potevano essere isolati analitica-
mente e astrattamente. In fondo i teorici delle rivoluzioni passive avevano
compiuto proprio questo errore: avevano dimenticato il carattere concreto
della realtà, distaccando le conseguenze ideologiche dalle radici integrali
del processo storico.
Più in generale, proprio questa linea di riflessione (la necessità di op-
porre una risposta coerente ai teorici della rivoluzione passiva e in parti-
colare a Croce) condusse Gramsci a congedare la metafora architettonica
del "blocco storico", ereditata dallo schema a tre gradi (anatomia, fisiolo-
gia, superstruttura) della Prefazione di Marx a Per la critica dell'economia
politica: una metafora che affermava l'unità dei termini, ma ribadiva e
presupponeva anche la loro differenza, e che perciò venne superata dal più
maturo paradigma del "rapporto di forze" .110

179. Ivi, p. 1569 (Q13, c. 5r).


180. G. Cospito, Il ritmo del pensiero. Per 1ma lethua diacronica dei "Quaderni del
carcere" di Gramsci, Napoli, Bibliopolis, 2011, pp. 45-50; G. Vacca, Modernità alternati-
ve. Il Novecento di Antonio Gramsci, Torino, Einaudi, 2017, pp. 151-185.
Da Croce a Labriola 57

1O. Da Croce a Labriola

Oltre queste fonti, che Gramsci chiamò direttamente in causa, la te-


oria delle rivoluzioni passive si alimentò del riferimento al marxismo di
Antonio Labriola. Per un lungo periodo il rapporto tra la riflessione di
Gramsci e l'opera di Labriola è stato sottovalutato o persino negato, al
punto che, in un capitolo della Storia d'Italia Einaudi del 1973, Cesare
Luporini cristallizzò e codificò questa tesi interpretativa, scrivendo di
una «profonda frattura», di una «discontinuità» e di una totale «interru-
zione» tra i due maggiori teorici del marxismo italiano. 181 Per molti versi,
come è stato osservato, si tratta di una posizione «tuttora egemone». 182
Una lettura più attenta dei testi gramsciani non solo non può oggi con-
fermare questa ipotesi della «frattura», ma deve anzi assumere il dia-
logo costante con i saggi di Labriola come una chiave privilegiata per
penetrare nella struttura teorica dei Quaderni del carcere. La filosofia
della praxis di Gramsci rappresenta, per diversi aspetti, «una ripresa e
un aggiornamento del programma di ricerca di Labriola». 183 Questo non
significa, naturalmente, che Gramsci non operasse una revisione profon-
da del paradigma labrioliano, sia per la famosa critica all'intervista del
1902 sulla questione coloniale 184 sia per motivi di maggiore importanza
teorica, a cominciare dalla ridefinizione del concetto stesso di praxis, che
nei quaderni non indica più (come nel terzo saggio di Labriola) la sola
operazione del lavoro, come relazione originaria tra uomo e natura, ma
si estende alla ragione politica e, quindi, ai grandi temi della costituzione
delle volontà collettive e del soggetto moderno. Differenze importanti,
senza dubbio, che tuttavia non possono oscurare il debito contratto in
un lungo tempo di frequentazione dei testi di Labriola, come si evince
da un'analisi attenta degli articoli di Gramsci tra il 1914 e il 1918 e, in
particolare, dalle iniziative assunte tra il 1924 e il 1926 (tra le quali, nel
1926, la raccolta delle lettere a Engels, poi pubblicate da Angelo Tasca

181. C. Luporini, R marxismo e la cultw-a italiana del Novecento, in Storia d'Italia,


V, a cura di R. Romano e C. Vi vanti, Einaudi, Torino 1973, pp. IS83-1611: p. 1S87.
182. A. Burgio, Gramsci. R sistema in movimento, Roma, DeriveApprodi, 2014, p. 41 S.
183. G. V ~ li marxismo e gli intellettuali. Dalla crisi di.fine secolo ai "Quaderni
del carcere'\ Roma,Editori Riuniti, 1985, p. 88.
184. Gramsci, Quaderni del carcere, pp. 1060-1061 (Q8, cc. 62rv) e pp. 1366-1368
(Qll, cc. 3r-4r).
58 Rivoluzioni passive

su <<Lo Stato operaio» tra il 1927 e il 1930).185 Nei Quaderni del car-
cere l'attenzione per il pensiero di Labriola si trasformò nella posizione
di "eccezione" che a questo autore venne conferita nell'intera storia del
marxismo teorico e nel conseguente invito a «rimettere in circolazione»
e a fare «predominare» la sua «impostazione del problema filosofico». 186
Rispetto alle tendenze attuali alla "combinazione" solo Labriola, infatti,
aveva saputo indicare il progetto di «costruire sul marxismo una filosofia
della praxis», 187 affermando l'autonomia e l'autosufficienza del marxismo
come filosofia: «occorre lavorare - scriveva -, appunto in questo senso,
sviluppando la posizione di Antonio Labriola». 188
L'influsso di Labriola non si limitò, tuttavia, al programma di una filo-
sofia della praxis, ma riguardò questioni più specifiche, relative alla teoria
politica e alla lettura della storia europea. Per ricordare gli aspetti più rile-
vanti, non è dubbio che la distinzione, messa a fuoco nel terzo saggio, tra
il «nocciolo» o il «midollo» della filosofia della praxis, individuato nella
«storia del lavoro», e le sue articolazioni nazionali («fra paese e paese avrà
modalità e colorito diverso»), 189 così come la reciproca conversione di filoso-
fia economia e politica riconosciuta alla base del pensiero di Marx,1 90 eserci-
tarono un ruolo significativo nella formazione del concetto di «traducibilità
dei linguaggi scientifici e filosofici», enucleato negli Appunti di filosofia e
rielaborato nel Quaderno 11. Non meno importante fu l'influenza dei testi
di Labriola per il chiarimento di tutto il problema della storia degli intellet-
tuali, perché proprio nel secondo e nel terzo saggio sul materialismo storico
poteva scorgersi la radice di quel modo originale di concepire il rapporto
tra marxismo e saperi (per cui il marxismo teorico non sostituisce i saperi
empirici ma ne incorpora i risultati, aggiungendovi la consapevolezza della
genesi storica) 191 che Gramsci scolpirà, nel Quaderno 12, nella formula del

185. Per la ricostruzione del rapporto di Gramsci con l'opera di Labriola si veda
M. Mustè, Gramsci e Antonio Labriola. La filosofia della praxis come genesi teorica del
marxismo italiano, in «Syzetesis. Rivista di filosofia», VII (2020), pp. 11-24.
186. Gramsc~ Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935)~ L p. 466
(Q3~ c. 16v).
187. Gramsc~ Quaderni del carcere, p. 1060 (Q8, c. 62r).
188. Gramsc~ Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), L p. 661
(Q4, c. 43r).
189. A. Labriola, Scritti.filosofici e politici~ a cura di F. $barberi, 2 voli., Torino~ Ei-
naud~ 1973,p. 689.
190. Ivi, p. 673.
191. Cfr. Va~Jl marxismo egli intellettuali.
Da Croce a Labriola 59

nuovo intellettuale democratico come «specialista + politico». 192 Gli esempi


potrebbero moltiplicarsi e mostrerebbero, punto per punto, i termini di un
dialogo persistente e ravvicinato con l'unico autore del marxismo europeo di
fine Ottocento a cui Gramsci riconobbe una autentica importanza.
Gli scritti di Labriola intervennero anche nella formulazione del para-
digma delle rivoluzioni passive. Già in una pagina del Quaderno 1, situata
nel cruciale § 44 (Direzione politica di classe prima e dopo l'andata al go-
verno) e rielaborata in seconda stesura nel Quaderno 19,193 Gramsci si riferì
a un brano del terzo saggio di Labriola che riguardava la storia tedesca. Il
passo, che probabilmente ricordava da precedenti letture, si legge in quella
quarta lettera a Georges Sorel che rappresenta, nell'insieme, una tratta-
zione ampia e approfondita della dinamica della ''traducibilità". Discuten-
do i modi «di avviare in Francia una scuola del materialismo storico»,194
Labriola sottolineava il significato delle «traduzioni» dei testi di Marx e
affermava la necessità, per ogni cultura nazionale, di articolare in forme
«spontanee», non «imitative» e originali il nucleo teorico della dottrina:
«le armi e i modi della critica - spiegava - devono, da paese a paese, su-
bire la legge della variabilità e dell'adattamento». 195 Per illustrare questo
principio, ricordava «la sorte toccata agli hegeliani» di Napoli, «pensatori
di polso», esponenti di «una corrente rivoluzionaria di gran conto», che
ebbero il torto di scrivere e disputare «come se stessero, non a Napoli,
ma a Berlino, o non so dove», condannandosi all'incomprensione e all'o-
blio: «non riuscirono - scriveva - a plasmare le loro trattazioni e la loro
dialettica in libri, che apparissero qual nuovo acquisto intellettuale della
nazione». 196 L'esempio dello hegelismo meridionale diventava calzante per
il giovane socialismo francese, che avrebbe dovuto evitare quell'errore di
«imitazione», non limitarsi a ripetere le parole di Marx ed Engels, ma tor-
nare a confrontarsi con la propria storia, dalla «Grande Rivoluzione» alla
«Comune»: 191 perché, scriveva, «il pensiero rivoluzionario derivò da più
parti del mondo civile, dall'Italia, dall'Inghilterra, dalla Germania, ma non
fu europeo, se non a patto di plasmarsi in ispirito francese; e la rivoluzione
europea fu la Rivoluzione francese». 198

192. Gramsci, Quaderni del carcere,p. 1551 (Q12, c. 12v).


193. Ivi, p. 2033 (Ql9, c. 93).
194. Labriola, Scritti filosofici e politici, p. 689.
195. Ivi, p. 697.
196. Ivi, p. 699.
197. Ivi, p. 696.
198. Ivi, p. 692.
60 Rivoluzioni passive

Il problema della «spontaneità» nazionale del materialismo storico,


particolarmente vivo per la vicenda francese e inglese, richiamava la «sorte
tragica», come la definì, di Marx ed Engels, «dei due fondatori del socia-
lismo scientifico», i quali passarono più volte «pei due tedeschi di grande
ingegno», come Mazzini o Bakunin li avevano apostrofati, mentre avevano
saputo rivolgere la mente «alla causa del proletariato d'ogni nazione». 199
Avevano parlato al mondo, chiedendo a ogni popolo di «produrre» una teo-
ria adeguata alla propria storia e al rispettivo talento, anche se, nella genesi
di molti loro concetti, portavano la peculiarità delle condizioni tedesche,
che «furono, nel fatto, dalla guerra dei trent'anni in poi, grandemente intri-
cate pei sopraggiunti impedimenti allo sviluppo, e nelle teste di quelli, che
sopra luogo le osservarono, rimasero quasi sempre come involute in varie
specie di nebulosità ideologica».200 Nel brano che, con ogni probabilità,
attirò l'attenzione di Gramsci, Labriola parlò di «condizioni storiche spe-
ciali» della Germania, nelle quali, a differenza di Francia e Inghilterra, la
borghesia non era «riuscita a spezzare per intero la compagine dell 'Ancien
Régime». Scriveva:
in Germania, ove per condizioni storiche speciali, e soprattutto perché la bor-
ghesia non v'è mai riuscita a spezzare per intero la compagine dell'Ancien
Régime (vedete che quell'imperatore può tenervi impunemente il linguaggio
d'un vice-nume, e non è poi in verità che un Federico Barbarossa fattosi com-
messo viaggiatore dell' in German made), la democrazia sociale s, è ridotta e
fermata in serrata falange, era ben naturale che le idee del socialismo scien-
tifico trovassero favorevole il terreno alla normale e progressiva diffusione
loro. Ma nessuno dei socialisti tedeschi - spero almeno - si sognerà mai di
considerare le idee di Marx e di Engels al semplice ragguaglio dei diritti e dei
doveri, dei meriti e dei demeriti, dei Camarades de Parti. 201
Il ricordo di questa analisi differenziata delle «condizioni storiche spe-
ciali» della Germania fornì a Gramsci l'occasione per alcune osservazioni
sulle diverse forme di transizione borghese, destinate a confluire nel mo-
dello interpretativo delle rivoluzioni passive. Nelle ultime battute del § 44
del Quaderno 1, dopo avere approfondito il tema del rapporto fra moderati
e democratici nel Risorgimento, mise a confronto il «fenomeno comple-
to» della storia francese, dove la borghesia (grazie allo «spirito giacobi-

199. Ivi, p. 693.


200. lvi, p. 696.
201. lv-i, p. 694.
Da Croce a Labriola 61

no, audace, temerario») aveva conseguito la piena egemonia, economica


e politica, toccando il limite del nuovo conflitto sociale con il proletariato,
con le diverse dinamiche della storia inglese e tedesca. È probabile che
l'interpretazione che Engels aveva delineato, a proposito della "gloriosa
rivoluzione" del 1689, nella prefazione all'edizione inglese del libro su
L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza, rappresentò il pun-
to di partenza di questa riflessione, per quanto Gramsci la ricordasse, sul
momento, in maniera piuttosto vaga.202 Tratto dall'Anti-Dflhring, il fortu-
nato pamphlet di Engels era stato pubblicato in versione inglese nel 1892
(dopo essere già apparso in Francia nel 1880, in Germania nel 1882 e in
diverse altre lingue) con una densa e corposa Introduction (datata «Aprii
20th., 1892»), nella quale spiccava la lettura del "ciclo" delle rivoluzioni
borghesi e, in esse, del caso inglese. «In ali three great bourgeois risings»,
osservava Engels, i contadini e «the plebeian element in the towns» ave-
vano assicurato, con il loro intervento diretto, la vittoria della borghesia
contro le classi aristocratiche, per essere poi non solo emarginati ma «su-
rely ruined by the economie consequences of that victory». 203 Per stabilire
il proprio dominio, risultava perciò necessario che la borghesia «had to be
carried consederably further», «oltrepassasse di molto il suo scopo», per
poi tornare indietro con una grande reazione, fino a stabilire il «new center
of gravity»: e questa, concludeva, sembra essere «one of the laws of evo-
lution of bourgeois society». 204 Se ciò era accaduto nella Francia del 1793
e nella Germania del 1848, il caso inglese mostrava peculiarità non del
tutto riducibili a quello schema generale. Qui infatti, con la "gloriosa rivo-
luzione" del 1689, «the new starting-point was a compromise between the
rising middle-class and the ex-feudal landowners».205 Rispetto alla «legge
di evoluzione» stabilita in precedenza, Engels indicava dunque una specie
di eccezione nella rivoluzione borghese in Inghilterra, caratterizzata dalla
trasformazione della vecchia aristocrazia in una nuova classe di «grandi

202. F. Engels:, L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienzlJ:, Roma, Edizioni
Rinascin1:, 1951:. pp. 31-33. Cfr. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei
(1929-1935), I, p. 66 (Ql, c. 41v): «vedi in proposito le osservazioni di Engels nella prefa-
zione inglese, mi pare:, a HUtopia e scienza'\ che occorre ricordare per questa ricerca sugli
intellettuali e le loro funzioni di classe».
203. F. Engels:, Socialism Utopian and Scientiftc:. Chicago:, Charles H. Kerr and Com-
pany, s. d. (ma 1908), p. 27.
204. I~ p. 28.
205. Ibidem.
62 Rivoluzioni passive

proprietari fondiari borghesi». Il «compromesso» appariva perciò interno


alla nuova articolazione della borghesia, con una divisione di ruoli per la
quale, mentre la «borghesia finanziaria, industriale e mercantile» costituiva
il centro della vita economica, le «spolia opima politiche» erano lasciate
alle «grandi famiglie nobiliari». Vi potevano essere, concludeva Engels,
«squabbels about matters of detail», ma l'oligarchia aristocratica compren-
deva molto bene che «its own economie prosperity was irretrievably bound
up with that ofthe industriai and commerciai middle-class».206
Quando scriveva la nota del primo quaderno, Gramsci non aveva sotto
gli occhi né il testo di Engels né quello di Labriola, ma ricordava che en-
trambi, in forme diverse, avevano proposto un'analisi differenziale dei di-
versi processi nazionali di transizione borghese. Ne ripensò a suo modo il
nucleo teorico, isolando i casi, per molti versi estremi, della Francia (dove
«abbiamo il fenomeno completo» e «la maggior ricchezza di elementi po-
litici») e dell'Italia, rispettivamente esempi di rivoluzione "attiva" e "pas-
siva", e concentrò la sua attenzione sui modelli inglese e tedesco, segnati
dal compromesso e dalla «fusione tra il vecchio e il nuovo», dalla forma-
zione di «un tipo intermedio», nel quale «la borghesia ottiene il governo
economico-industriale, ma le vecchie classi feudali rimangono come ceto
governativo con ampi privilegi di casta nell'esercito, nell'amministrazione
statale e sulla terra». 207 In certo modo sovrappose il ricordo della prefazio-
ne inglese di Engels al breve cenno di Labriola, integrandone e sovrainter-
pretandone il significato: 208
la spiegazione data da Antonio Labriola scrisse sulla pennanenza al po-
tere in Gennania degli Junker e del kaiserismo nonostante il grande sviluppo
capitalistico adombra la giusta spiegazione: il rapporto di classe creatosi per
lo sviluppo industriale col raggiungimento del limite dell'egemonia borghese
e col rovesciamento delle situazioni di classi progressive, induce la borghesia
a non lottare a fondo contro il vecchio mondo, ma a lasciarne sussistere quel-
la parte di facciata che serva a velare il suo dominio. 209

206. Iv-i, p. 29.


207. Gramsc~ Quaderni tkl carcere. 2. Quaderni miscell~i (1929-1935)~ L p. 66
(Qtc. 4lr).
208. Cfr. Burgio, Gramsci. R sistema in movimento~ p. 419.
209. Gramsc~ Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935)~ L pp. 66
(Qtc. 41v).
Da Croce a Labriola 63

Con queste riflessioni sui testi di Engels e Labriola, Gramsci si era


avvicinato al paradigma delle rivoluzioni passive, che infatti volle speci-
ficare, in un tempo successivo, nell'aggiunta marginale al § 44.210 Se con
il riferimento al terzo saggio l'influsso di Labriola cominciò ad avvertirsi,
ben altra consistenza e importanza acquistò la lettura del quarto saggio
Da un secolo all'altro. A questo scritto postumo di Labriola, Gramsci si
riferì in diverse occasioni, quando per esempio, nel Quaderno 1, citò il
passo su Hegel e sul "capovolgimento" operato dagli uomini della Con-
venzione211 e quando, nei Quaderni 4 e 5, si soffermò sul significato del
nuovo calendario instaurato dalla Rivoluzione francese, dove, spiegò, «si
sente il distacco dal passato, da tutto il passato».212 A parte queste e altre
notazioni, non prive di importanza, il punto fondamentale è che Labriola,
nella sua ultima opera, aveva introdotto la distinzione tra popoli "attivi"
e ''passivi" in una accezione molto vicina a quella rielaborata da Gramsci
nei quaderni. L'argomento generale della trattazione - la <<configurazione
del mondo civile» nel «prossimo passaggio da un secolo all'altro»,213 il
«vertiginoso erompere» e il successivo sviluppo «dell'èra liberale»214 fino
all'ultima, «più ampia e dispiegata fase dell'evo borghese»215 - lo ave-
va condotto a puntuaU zzare la periodizzazione della storia moderna tra il
1789 e il 1870 (una periodizzazione letteralmente ripresa da Gramsci) e a
sottolineare la dimensione «internazionale»216 ormai conseguita dalla for-
ma borghese. Tale ritmo di espansione però, guidato dall '«assioma» della
«concorrenza»,211 restava attraversato da contraddizioni sanguinose, la cui
«inevitabile conseguenza» veniva indicata nella «politica della conquista»
e, più specificamente, nello strumento generalizzato della «guerra».218 Le
rivoluzioni borghesi avevano innescato il processo di unificazione del ge-
nere umano solo al prezzo di contrasti laceranti, lasciando disattese le pro-
messe di una universale estensione della democrazia,219 scavando un solco

210. Ivi, p. 49 (Ql:, c. 30v).


211. Ivi, p. 162 (Qt c. 99r).
212. Ivi, p. 813 (Q4> cc. 34rv). Gramsci, Quaderni del carcere, p. 648 (Q5> c. 59r).
213. Labriola, Scritti.filosofici e politici, p. 821.
214. Ivi, p. 823.
215. Ivi, p. 841.
216. Ivi, p. 825.
217. Ibidem.
218. Ivi, p. 827.
219. Ivi, p. 826.
64 Rivoluzioni passive

tra «Oriente ed Occidente»,220 limitando a pochi popoli la realizzazione del


«principio di nazionalità»221 e, infine, scavando ulteriori disparità tra cam-
pagna e città, «fra rurali e cittadini».222 Tutta l'evoluzione storica del merca-
to mondiale, orientata dalla legge della concorrenza, aveva prodotto ferite
ed esclusioni, di cui era massima espressione «il divario fra popoli attivi e
passivi>>,223 fra le poche nazioni (come l'Inghilterra e la Francia) che avevano
guidato lo sviluppo globale, tenendo una «posizione attiva»,224 e tutte le altre,
che erano rimaste ai margini ed escluse dal «rapido ciclo della conquista
tecnico-capitalistica del mondo».225 Di qui occorreva ripartire, dai «contrasti
perpetuatisi per tutto il secolo», dai «deplorati arresti», per immaginare, con
senso storico e realistico, il futuro del socialismo, inteso quale possibilità di
autentico progresso, di unificazione del genere umano oltre il limite borghe-
se della competizione, della «politica di conquista», della guerra.
In una prima accezione, dunque, la distinzione tra "attivo" e ''passivo"
riguardava le disarmonie della crescita globale e il tentativo di pensare
«l'etica del socialismo» come «il postulato della solidarietà contrapposto
all'assioma della concorrenza».226 Ma il discorso mostrava complicazioni
di rilievo nella parte del saggio dedicata alla storia italiana, dove si trattava
di applicare quel modello interpretativo al caso specifico dell'unificazione
nazionale. Echeggiando la formula spaventiana della "circolazione" del
pensiero europeo (dove l'unità del concetto si articolava nelle "stazioni"
delle singole vicende nazionali, disegnando una storia di ''precursori" e
di cicli egemonici), Labriola segnava la differenza e il rapporto reciproco
tra la «veduta universalistica», «il punto di vista universalissimo» della
sua analisi e l '«angolo visuale» determinato da ogni storia nazionale. 227 Si
trattava pertanto di misurare il processo storico italiano «alla stregua delle
grandi correnti della storia attiva»228 e di rispondere «al prosaico quesito
fonnulabile cosi: la vecchia nazione italiana, componendosi a stato moder-
no, di quanto s'è trovata adattabile e di quanto s'è trovata difettiva di fronte

220. lvi, p. 827.


221. lvi, pp. 827-828.
222. lvi, p. 828.
223. lvi, p. 826.
224. lvi, p. 827.
225. lvi, p. 826.
226. lvi, p. 831.
227. lvi, pp. 853-854.
228. lvi, p. 854.
Da Croce a Labriola 65

alle condizioni della politica mondiale in genere?» .229 In tale ottica globale,
cadevano i pregiudizi più triviali della «tradizione letteraria» e retorica,
«1 'illusione di una storia sola e continuativa», l'idea stessa che il Risorgi-
mento «sia riuscit[o] inferiore ali 'aspettazione». Considerata nella giusta
prospettiva, tutta la storia italiana fino al 1870, quindi tutta la dinamica
del Risorgimento, appariva come «storia passiva», cioè come il riflesso
della «espansione e gara veramente mondiale» che la «storia attiva» delle
nazioni egemoni, e in particolare la grande Rivoluzione del 1789, aveva-
no innescato. In un brano che certamente non sfuggì a Gramsci, Labriola
scrisse queste parole:
il Risorgimento italiano s'è svolto tutto per entro al secolo decimonono; ma ci
si è svolto più nel senso della storia passiva che in quello della storia attiva.
L' effettivamente attivo comincia il 1870: e questa osservazione basta da sola
per ismentire il più gran numero delle affermazioni ottimistiche o pessimisti-
che che si fanno sul nostro paese sopra di una esperienza così breve e di così
recente data.
Coi termini di attivo e di passivo io intendo di addurre degli estremi teorici
di valore comparativo, ai quali si giunge per approssimazione e attraverso a
molte transizioni. Che l'Italia, dunque, fosse in un certo senso storicamente
attiva anche nel tempo della sua preparazione all'unità nazionale, e specie
nei momenti delle rivolte e delle guerre, nessuno vorrà negare: ma qui in
questo discorso, dove cerchiamo di ricondurre tutto al ragguaglio della fin del
secolo, noi dobbiamo considerare come relativamente passiva la condizione
d'Italia in tutti gli anni anteriori al 1870, nei quali le altre nazioni direttive
posero le premesse e dettero la prima potente avviata alla presente espansione
e gara veramente mondiale. 230

Nella riflessione di Labriola tutti gli elementi che verranno a comporre


la teoria gramsciana delle rivoluzioni passive appaiono introdotti ed enu-
cleati. Da un lato la distinzione, in chiave egemonica, tra storia "attiva" e
''passiva", in relazione allo sviluppo globale dell'economia nell'epoca del-
le rivoluzioni borghesi; d'altro lato la precisa detenninazione della vicenda
risorgimentale come caso esemplare di una rivoluzione passiva, che deriva
dal movimento avviato dalle «nazioni direttive», di una «espansione e gara
veramente mondiale».

229. I~ p. 855.
230. I~ pp. 854-855.
66 Rivoluzioni passive

11. La Miseria della filosofia

Nella ricostruzione fin qui proposta, l'analisi delle rivoluzioni passive


è risultata connessa ad alcune fonti determinate: Cuoco, Quinet, Croce, De
Ruggiero, Labriola. Ma nello svolgimento delle proprie ricerche Gramsci
ricorse ad alcuni testi di Marx, che influenzarono in misura considerevole
l'immagine dei processi ''passivi" di modernizzazione. 231 Erano stati Marx
ed Engels d'altronde, nelle prime pagine del Manifesto del partito comuni-
sta, a sottolineare che la lotta di classe, per quanto «ininterrotta» e sempre
presente nella storia umana, si manifesta come un «bald versteckten, bald
offenen Kamp»;232 ora ojfenen, aperta e visibile, ora invece versteckten,
nascosta e latente, velata e dissimulata: la distinzione tra offenen e verstec-
kten rinvia immediatamente alla problematica delle rivoluzioni passive,
dove la "passività" delle classi subalterne allude a una conflittualità che
rimane sottotraccia e ne articola ulteriormente il significato. Alcune ope-
re marxiane sollecitarono in maniera più diretta la riflessione di Gramsci,
consentendogli di allargare l'orizzonte interpretativo: si tratta di Mise-
ria della filosofia, della Sacra Famiglia, della Prefazione a Per la critica
dell'economia politica e del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte.
Come risulta dal Fondo librario, Gramsci disponeva in carcere della
Miseria della filosofia nella traduzione di Ettore Ciccotti, pubblicata nel
1925 dalla Società Editrice Avanti come volume 28 degli Scritti di C. Marx,
F. Engels e F. Lassalle. 233 La riflessione su questa opera di Marx dovette
essere continuativa e molto attenta, al punto che, dapprima nel Quaderno
4 poi, in maniera più precisa, nel Quaderno 13, arrivò a considerarla come
«un momento essenziale nella formazione della filosofia della praxis»,
uno «svolgimento delle Tesi su Feuerbach»,234 perché (aveva spiegato nel
Quaderno 4) in essa «sono contenute affermazioni essenziali dal punto di
vista del rapporto della struttura e delle superstrutture e del concetto di

231. Il rapporto con Marx è approfondito da Burgio, Gramsci. R sistema in movimen-


to~ pp. 242-282.
232. Marx, Engels, Manifesto del partito comunista. p. 7.
233. K. Marx, Miseria della filosofia. Risposta alla "Filosofia della miseria" del
sig. Proudhon» con una prefazione di F. Engels. a cura di E. Ciccotba Milano. Società Edi-
trice Avanti, 1925. Il volume era stato originariamente pubblicato dall'editore Mongini nel
1901. Sull'edizione posseduta da Gramsci dr. Antonio Gramsci. I quaderni e i libri del
carcere~ p. 168.
234. Gramsci. Quaderni del carcere. p. 1592 (Ql3~ c. llv).
La Miseria della filosofia 67

dialettica proprio del materialismo storico». 235 Superiore, sotto il profilo


filosofico, alla Sacra famiglia («una fase intermedia indistinta e di origine
occasionale»),236 essa rendeva esplicite le novità delle Tesi su Feuerbach,
che pure erano rimaste al centro delle tre serie di Appunti di filosofia. In
realtà furono due i passaggi del secondo capitolo di questo scritto di Marx
che attirarono in modo prevalente la sua attenzione ed entrambi, come ora
vedremo, legati alla teoria delle rivoluzioni passive.
In primo luogo le ultime pagine dell'opera, quelle dedicate a Gli scio-
peri e le coalizioni degli operai, dove Marx, stringendo l'intera polemi-
ca con Proudhon, spiegava il senso della sua critica alla fase utopistica
del socialismo, quando «il proletariato non si è ancora sufficientemente
sviluppato per costituirsi in classe», «non ha ancora assunto un carattere
politico»:237 e, con perfetto lessico hegeliano, introduceva la distinzione fra
la classe in sé e la classe per se stessa, dove finalmente «la lotta di classe
contro classe è una lotta politica» e non solo una difesa «di resistenza»
del proprio interesse economico. 238 Parole che, non a torto, Gramsci inte-
se come la prospettiva di un superamento della visione economico-corpo-
rativa della lotta di classe, come l'inizio della costruzione di un disegno
egemonico, quando «i singoli componenti di un sindacato non lottano solo
più per i loro interessi economici, ma per la difesa e lo sviluppo dell' orga-
nizzazione stessa». 239 L'indicazione della terza tesi su Feuerbach gli sem-
brava qui ripresa e fatta più concreta, in quanto il «rovesciamento della
prassi» (la famosa «umwalzende Praxis» aggiunta da Engels)24° arrivava
a significare il passaggio rivoluzionario alle superstrutture, la catarsi della
coscienza e quindi la genesi della dimensione della lotta politica.
Nella Miseria della filosofia ci fu però un secondo aspetto su cui
Gramsci tornò con insistenza. Si trattava della prima parte del secondo

235. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), I, p. 715


(Q4, c. 72r).
236. Gramsci, Quaderni del carcere,p. 1592 (Q13, c. llv).
237. K. Marx, Miseria dellafilosofia. Risposta alla "Filosofia della miseria" del si-
gnor Proudhon, prefazione di F. Engels, a cura di F. Rodano, Roma, Editori Riuniti, 19763,
p.107.
238. Ivi, p. 145.
239. Gramsci, Quaderni del carcere,p. 1592 (Q13, c. llv).
240. Per il chiarimento di questa vicenda si veda M Mustè, Umwtilzende Praxis. La
terza tesi su Feuerbach nel marxismo italiano, in Marx in Italia. Ricerche nel bicentenario
della nascita di Karl Marx, tomo 1, a cura di C. Tuozzolo, Roma, Aracne, 2020, pp. 61-81.
68 Rivoluzioni passive

capitolo, dedicato a Il metodo, nel quale Marx aveva svolto le sette osser-
vazioni di carattere teorico sul Système di Proudhon. In tale testo Marx
metteva a confronto il pensiero di Proudhon con quello di Hegel, operando
una critica di entrambi, ma in una forma e secondo modalità diverse. Se
il torto dell'economia politica era di considerare i rapporti di produzione
come «categorie fisse, immutabili, eteme»,241 la visione dialettica di tipo
idealistico aveva il merito di cercarne la genesi, ma prendendo «le cose
alla rovescia», 242 cioè trattando i rapporti reali come incarnazione di idee
astratte e non, viceversa, le categorie come «prodotti storici e transitori»
di un determinato modo di produzione. Questo errore apparteneva, anzi
tutto, a Hegel, il quale aveva appunto scambiato l'astratto con il concreto,
surrogando il divenire reale della storia nel «metodo assoluto», definito
nella terza sezione della Scienza della logica, ossia nella «dottrina del con-
cetto». Proprio parlando di Hegel (non di Proudhon, si osservi, ma di He-
gel), nella Prima osservazione Marx sottolineava che, nel puro movimento
dialettico, «i contrari si equilibrano, si neutralizzano, si paralizzano»; 243
e, poche pagine dopo, vi opponeva lo schema storico dell'«antagonismo
reale», la necessità di considerare il modo di produzione nel senso di una
reale opposizione, e dunque di una contraddizione insanabile, tra le forze
produttive.™ Nel brano che Gramsci utilizzò per elaborare la teoria delle
rivoluzioni passive, Marx scriveva cosi:
una volta che [la ragione] sia pervenuta a porsi come tesi, questa tesi, questo
pensiero, opposto a se stesso, si sdoppia in due pensieri contraddittori, il po-
sitivo e il negativo, il sì e il no. La lotta di questi due elementi antagonistici,
racchiusi nella antitesi, costituisce il movimento dialettico. Il sì diventa no,
il no diventa sì, il sì diventa contemporaneamente sì e no, il no diventa con-
temporaneamente no e sì: quindi i contrari si equilibrano, si neutralizzano,
si paralizzano. La fusione di questi due pensieri contraddittori costituisce un
pensiero nuovo che ne è la sintesi. 245
È chiaro, dunque, che per il Marx della Miseria della filosofia la dia-
lettica hegeliana ha un difetto "speculativo", per il quale l'opposizione,
convertita dall'antagonismo storico reale alla sfera astratta della pura ra-

241. Marx, Miseria della filosofia~ p. 90.


242. lvi, p. 94.
243. lv-i, p. 93.
244. lv-i, p. 104.
245. lv-i, pp. 92-93.
La Miseria della filosofia 69

gione, viene ''neutralizzata" e ''paralizzata" nella «sintesi», che costituisce


non il superamento ma la semplice «fusione» dei termini contrari. Ma in
Proudhon questo movimento dialettico, per sé astratto e insufficiente, vie-
ne ulteriormente deformato attraverso la separazione degli opposti, per cui
«ogni categoria economica ha due lati, l'uno buono, l'altro malvagio»,246
facendo dell'uno «1 'antidoto» dell'altro :247 «al posto della categoria - spie-
gava Marx - che si pone e si oppone a se stessa per la sua natura con-
traddittoria, sta il signor Proudhon che si infervora, si dibatte, si dimena
fra i due lati della categoria».248 Perciò, nell'opinione di Marx, Proudhon
aveva tradotto la dialettica hegeliana in una <<Serie nell 1intelletto», sepa-
rando astrattamente i contrari, fino a configurarli in una disputa eterna fra
l'eguaglianza e 1'ineguaglianza.
Meditando questo passo di Marx, Gramsci ne alterò sostanzialmen-
te il significato, attribuendo a Proudhon quello che Marx aveva indicato
nel movimento essenziale della dialettica hegeliana. Come abbiamo visto,
per Marx era stato Hegel, e non Proudhon, a convertire la dialettica reale
in un «movimento della ragion pura», la cui conseguenza stava appunto
nella "neutraHzzazione" e nella "paralisi" dell'antagonismo dei contrari,
"fusi" ma non superati nella sintesi. Al contrario Proudhon era uscito dalla
dialettica, tornando nelle astrazioni dell'intelletto, perché aveva separato i
contrari, cercando di conservare il positivo e di eliminare il negativo. Per
Gramsci, invece, la ''neutraU zzazione" e la "paralisi" dei contrari accadeva
non nella dialettica hegeliana ma nel suo "addomesticamento", operato dai
teorici della rivoluzione passiva.
In una nota della terza serie di Appunti di filosofia, composta intor-
no all'aprile 1932, Gramsci defini «la posizione del Croce [... ] come
quella di Proudhon criticata nella Miseria della filosofia: hegelismo
addomesticato». 249 Nella seconda stesura del Quaderno 10, nell'aprile-
maggio 1932, parlò più precisamente di «rivoluzione passiva», collegando
la «dialettica "speculativa" della storia, meccanicismo arbitrario di essa»,
attribuita a Croce, alla formula di Cuoco e ancora concludendo: «cfr la
posizione del Proudhon criticata nella Miseria della filosofia». 250 In una
prima fase, dunque, Gramsci considerò la riforma crociana della dialettica

246. Ivi, p. 95.


247. Ivi, p. 97.
248. Ivi, pp. 96-97.
249. Gramsci, Quaderni del carcere~P- 1083 (Q8a 74v).
250. Ivi, p. 1208 (Ql0~ 4lr).
70 Rivoluzioni passive

come un passo indietro rispetto a Hegel, attribuendovi gli stessi caratteri di


"neutralizzazione" del conflitto sociale che Marx aveva attribuito a Hegel
e che egli, invece, indicò in Proudhon. Nelle note sul Risorgimento italiano
del Quaderno 9, intorno al maggio 1932, insisté sulle «attinenze con l'Ita-
lia» della «critica della Miseria de/la filosofia contro la falsificazione della
dialettica hegeliana fatta da Proudhon», non menzionando però il nome di
Croce, ma i principali «movimenti intellettuali» del processo di unifica-
zione («Gioberti, l 'hegelismo dei moderati») e, in maniera più diretta, le
formule di Cuoco e Quinet («rivoluzione passiva, dialettica di rivoluzione,
restaurazione»).m
Nello stesso periodo, in effetti, l'analogia fra Croce e Proudhon co-
minciò a lasciare spazio all'altra e più pregnante attinenza con Gioberti,
sempre più avvicinato alla posizione criticata da Marx. Nel Quaderno 1O
Gramsci mise a fuoco questa corrispondenza in un brano di particolare
rilievo:
un fenomeno culturale paragonabile a quello dei neoguelfi-moderati, sebbe-
ne in una posizione storico-politica più avanzata, è il sistema di ideologia
del Proudhon in Francia Sebbene l'affermazione possa apparire paradossale,
mi pare si possa dire che il Proudhon è il Gioberti della situazione francese
poiché Proudhon ha verso il movimento operaio francese la stessa posizio-
ne del Gioberti di fronte al movimento liberale-nazionale italiano. Si ha nel
Proudhon una stessa mutilazione dell 'hegelismo e della dialettica che nei mo-
derati italiani e pertanto la critica a questa concezione politico-storiografica
è la stessa, sempre viva e attuale, contenuta nella Miseria della filosofia. 2s2
Se il binomio Croce-Proudhon tendeva a uscire di scena (non venne
più ripreso dopo il Quaderno 10), acquistò sempre maggiore importanza,
invece, il paragone con Gioberti. Circa un anno dopo, in una nota del Qua-
derno 15 databile nel marzo-aprile 1933, Gramsci ne ribadì l'importanza,
riportando l'analogia al «panico creato dal terrore del 1793».253 Poco dopo
tornava sulla questione con un ragionamento più articolato, dove l'analo-
gia con Proudhon veniva approfondita nel confronto con Mazzini. Mentre
questo non aveva saputo «essere tutto se stesso e gettare nella lotta tutte
le proprie ''risorse" politiche e morali», restando nella subalternità all'av-
versario o alleato e manifestando un difetto di visione egemonica, Gio-

251. Ivi, p.1160 (Q9, c. 74r).


252. Ivi, p.1220 (QlO, c. 44v).
253. lv-i, p. 1766 (Q15, c. 9r).
Rivoluzioni passive e traducibilità 71

berti appariva come il rappresentante esemplare della rivoluzione passiva,


perché affermava l'esigenza di incorporare l'antitesi, sviluppando tutte le
possibilità di lotta della tesi, ovvero della sua parte politica:
mentre Cavour era consapevole del suo compito in quanto era consapevole
criticamente del compito di Mazzini, Mazzini, per la scarsa o nulla consa-
pevolezza del compito di Cavour, era in realtà anche poco consapevole del
suo proprio compito, perciò i suoi tentennamenti (così a Milano nel periodo
successivo alle cinque giornate e in altre occasioni) e le sue iniziative fuori
tempo, che pertanto diventavano elementi solo utili alla politica piemontese.
È questa una esemplificazione del problema teorico del come doveva esse-
re compresa la dialettica, impostato nella Miseria della Filosofia: che ogni
membro dell'opposizione dialettica debba cercare di essere tutto se stesso e
gettare nella lotta tutte le proprie «risorse» politiche e morali, e che solo così
si abbia un superamento reale, non era capito né da Proudhon né da Mazzini.
Si dirà che non era capito neanche da Gioberti e dai teorici della rivoluzio-
ne passiva e «rivoluzione-restaurazione», ma la quistione cambia: in costoro
la «incomprensione» teorica era l'espressione pratica delle necessità della
«tesi» di sviluppare tutta se stessa, fino al punto di riuscire a incorporare una
parte dell'antitesi stessa, per non lasciarsi «superare», cioè nell'opposizione
dialettica solo la tesi in realtà sviluppa tutte le sue possibilità di lotta, fino ad
accaparrarsi i sedicenti rappresentanti dell'antitesi: proprio in questo consiste
la rivoluzione passiva o rivoluzione-restaurazione.254

12. Rivoluzioni passive e traducibilità

Il secondo testo di Marx che condizionò la teoria della rivoluzione


passiva fu La Sacra Famiglia. Nel 1930-1931 Gramsci aveva tradotto dal
tedesco, nel Quaderno 7, alcuni brani dell 'opera255 e fin dal Quaderno 1
collocò al centro della sua riflessione quel brano del quarto capitolo dove
Marx, polemizzando con Edgar Bauer, affermava che l'autocoscienza te-
desca esprime «nel puro pensiero» lo stesso contenuto che l'eguaglianza
francese afferma <<nell'elemento della prassi»: 256 insieme ad altre fonti -

254. I~ pp. 1767-1768 (Q15,, c. lOr).


255. A. Gramsci, Quaderni del carcere. 1. Quaderni di traduzioni (1929-1932), II, a cura
di G. Cospito e G. Francioni, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2007,, pp. 799-808.
256. F. Engcls, K. Marx, La sacrafamiglia, a cura di A. Zanardo, Roma, Editori Riu-
niti, 19792,, p. 47.
72 Rivoluzioni passive

Hegel, Lenin, Bertrando Spaventa, Antonio Labriola - quel passo rappre-


sentò lo spunto per la teoria della «traducibilità dei linguaggi scientifici e fi-
losofici», rielaborata e sistemata nel Quaderno 11.257 Come chiari nel modo
più preciso all'inizio della seconda serie degli Appunti di filosofia, tale te-
oria postula che «una "fondamentalmente identica" espressione culturale e
filosofica» si traduce in forma differente in «ciascuna "nazione"» o in «ogni
sistema filosofico». 258 In linea generale questo significa che l'elemento uni-
versale e propulsivo del progresso mondiale nasce dal contributo attivo del-
le visioni nazionali e, al tempo stesso, si riflette in esse, che lo "traducono"
nei rispettivi linguaggi, formati da peculiari culture e tradizioni.
È facile comprendere che la teoria della traducibilità intersecava in
maniera decisiva il significato delle rivoluzioni passive. La critica prin-
cipale che Gramsci aveva rivolto alla Storia d Europa di Croce riguar-
1

dava la «gherminella» (ossia il "gioco di mano", che fa scomparire un


elemento fondamentale della situazione), per cui l'autore aveva nascosto
i «precedenti» della Restaurazione, iniziando la narrazione «dopo la ca-
duta di Napoleone»: per questo, chiariva, «il libro del Croce è un tratta-
to di rivoluzioni passive, per dirla con l'espressione del Cuoco, che non
possono giustificarsi e comprendersi senza la Rivoluzione francese, che è
stata un evento europeo e mondiale e non solo francese». 259 Le rivoluzio-
ni passive indicavano certo «l'assenza di iniziativa popolare»,260 il difetto
del momento giacobino nel processo storico, ma tale carattere doveva es-
sere messo in rapporto con il «contraccolpo»261 della vicenda mondiale,
con la fase "attiva" (la Rivoluzione francese) che lo aveva generato e che
gli ideologi occultavano. Con il lessico della teoria della traducibilità (e
del blocco storico), Gramsci spiegava, in un'altra nota, che le rivoluzioni
passive sono «il periodo della ricerca delle forme [superiori], della lotta
per le forme», perché, quando tali vicende si svolgono, «il contenuto si è
già affermato con le rivoluzioni inglesi, con quelle francesi, con le guerre
napoleoniche».262 In un senso che merita di essere precisato, le rivoluzioni
passive rappresentano, dunque, un esempio capitale di ''traduzione" della

257. Gramsci, Quaderni del carcere, pp. 1468-1473 (Qll, cc. 58r-60v).
258. Ivi, p. 851 (Q7, c. 51r).
259. Ivi, p.1088 (Q8, c. 78r).
260. Ivi, p. 957 (Q8, c. 12v).
261. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), L p. 812
(Q4, c. 34r).
262. Gramsci, Quaderni del carcere, p. 1091 (Q8, c. 79v).
Rivoluzioni passive e traducibilità 73

«"fondamentalmente identica" espressione culturale e filosofica», indicata


nella fase "attiva" di una rottura rivoluzionaria, in un processo di moder-
nizzazione che, per «contraccolpo», accade in una prolungata «corrosione
riformistica», in cui «le esigenze che trovarono in Francia una espressio-
ne giacobino-napoleonica furono soddisfatte a piccole dosi, legalmente,
riformisticamente».263
Fu Gramsci stesso, in due note del Quaderno 10, a indicare il nesso
fra teoria delle rivoluzioni passive e traducibilità. Nei Punti di riferimento
per un saggio su B. Croce, arrivato, nel punto 9, alla critica della «storia
d'Europa vista come "rivoluzione passiva"», tornò a chiedersi se questa
concezione poteva avere «un significato "attuale"» e avanzò l'ipotesi (di
cui vedremo fra breve le conseguenze) che il fascismo italiano fosse in
qualche modo legato a quanto, con la rivoluzione del 1917, era accaduto
in Unione Sovietica: «l'Italia - domandava - avrebbe nei confronti con
l'URSS la stessa relazione che la Germania [e l'Europa] di Kant-Hegel
con la Francia di Robespierre-Napoleone?». 264 Il riferimento era, di nuovo,
alla Sacra famiglia, e alla fonte hegeliana che, attraverso un articolo di
Croce, aveva rintracciato.265 Si trattava, dunque, di un'applicazione della
teoria della traducibilità, come specificò, in maniera più diretta e precisa,
in un'altra nota del Quaderno 1O:
questo motivo [l'assolutizzazione dello Stato da parte degli intellettuali] è
basilare per comprendere storicamente l'idealismo filosofico moderno ed è
connesso al modo di formazione degli Stati moderni nell'Europa continentale
come «reazione-superamento nazionale» della Rivoluzione :francese che con
Napoleone tendeva a stabilire una egemonia permanente (motivo essenziale
per comprendere il concetto di «rivoluzione passiva», di «restaurazione-rivo-
luzione» e per capire l'importanza del confronto hegeliano tra i principii dei
giacobini e la filosofia classica tedesca). 266
Le rivoluzioni passive («reazione-superamento nazionale») erano qui
riportate alla funzione esercitata dagli intellettuali nella situazione in cui
il progresso non è promosso dai gruppi sociali "attivi", «locali» e inter-
ni alla struttura economica, ma si presenta come <<riflesso dello sviluppo
internazionale che manda alla periferia le sue correnti ideologiche»: nel

263. I~ p. 1227 (Ql0» c. 47r).


264. I~ p. 1209 (Ql0» c. 41v).
265. I~ p. 1066 (Q8» cc. 65r-65v).
266. I~ p. 1361 (Ql0» c. 41v).
74 Rivoluzioni passive

«contraccolpo» del quadro mondiale, gli intellettuali non concepiscono lo


Stato quale «forma concreta di un mondo produttivo» ma come «cosa in sé»,
indipendente e assoluta. È l'origine della dottrina astratta della sovranità,
della separazione fra Stato e società civile, che diventa un elemento costitu-
tivo delle rivoluzioni passive, dove, appunto, le trasformazioni sono operate
"dall'alto", da un 'autorità distaccata dal popolo-nazione.267 Ma proprio qui si
innesta il principio di traducibilità, «l'importanza del confronto hegeliano»
e della sua ripresa da parte di Marx, perché il «riflesso dello sviluppo inter-
nazionale» diventa il motore del progresso-reazione, del mutamento riformi-
stico, che quindi traduce ''passivamente" il contenuto che, nei punti più alti
dello sviluppo mondiale, si è affermato in forma "attiva".
Senza dubbio, Gramsci considerò la «traducibilità dei linguaggi scien-
tifici e filosofici» come una chiave di lettura privilegiata per penetrare nel
meccanismo delle rivoluzioni passive. Tuttavia è altrettanto chiaro che
la teoria della traducibilità, derivata, oltre che da Marx, dal discorso di
Lenin al quarto congresso del Com.intern, era stata inizialmente elabora-
ta per determinare il ritmo della rivoluzione europea, oltre la contesa fra
rivoluzione permanente (Trockij) e costruzione del socialismo in un solo
paese (Bucharin, Stalin), e non per rendere ragione dei processi "passivi"
di modernizzazione. Nelle quattro note del Quaderno 11 dove, nella secon-
da metà del 1932, rielaborò le osservazioni precedenti, Gramsci ricordò
subito le parole di Lenin e, nel paragrafo seguente, chiari che «solo nella
filosofia della prassi la "traduzione" è organica e profonda».268 Si trattava
di comprendere il metodo della funzione egemonica del movimento ope-
raio, capace di promuovere l'iniziativa rivoluzionaria e, al tempo stesso,
di ''tradurre" nella propria cultura nazionale «una data fase della civiltà»,
inaugurata dalla rottura del 1917. Come spesso accadeva nelle riflessioni
dei quaderni, l'impulso politico iniziale si era esteso, però, a una teoria
filosofica e a una concezione generale della realtà, perché la traducibilità
indicava, in senso più ampio, la genesi del concetto universale, còlto nella
perenne tensione dialettica tra il generale e il particolare, tra la dimensione

267. Javier Mena e Dora Kanoussi hanno parlato, a questo proposito, di una «inversio-
ne» dei «principi marxisti dello sviluppo storico»: «la struttura (base economica), non avendo
forza sufficiente, viene spinta dalla sovrastruttura (intellettuali-Stato)» (J. Mena, D. Kanoussi,
R concetto di rivolt12ione passiva, in Rivoluzione passiva. Antologia di studi gramsciani, a
cura di M Modonesi, Milano, Unicopli, 2020, p. 118). Cfr. J. Mena, D. Kanoussi, La revolu-
cion pasiva: una lectura de /os Quademos de la càrcel, Pucbla, Buap, 1985.
268. Gramsc~ Quaderni del carcere. p. 1468 (Qll. c. 58r).
Rivoluzioni passive e traducibilità 75

globale e quella nazionale, in una proiezione sempre rinnovata dell'uno


nell'altro elemento.
Nella teoria delle rivoluzioni passive, la traduzione «organica e pro-
fonda» assicurata dalla filosofia della praxis appariva recisa in un punto
fondamentale. Da un lato, nella costruzione pratica del processo storico,
il «contraccolpo» del progresso globale prevaleva in maniera unilaterale
sull'altro momento, quello dell'iniziativa rivoluzionaria, della capacità del
soggetto di non limitarsi a tradurre "passivamente" il riflesso delle fasi "at-
tive" della storia, ma di ricostruirlo in forme creative, facendo della propria
''traduzione" un contributo alla elaborazione dello spirito universale.269 Un
difetto di soggettività, come nelle vicende del 1799, dove il ritmo circola-
re dalla traducibilità si spezzava in due parti, risolvendosi nella ricezione
''passiva" dell'altrove, senza l'energia di appropriarselo e di plasmarlo nel
linguaggio della propria tradizione culturale. L'errore denunciato da Lenin
nel 1922 - quando aveva giudicata «troppo russa» la risoluzione del terzo
congresso sulle questioni organizzative270 - si riproduceva e non veniva
superato. D'altro lato, il carattere limitato della traducibilità emergeva nei
teorici della rivoluzione passiva, come (in maniera esemplare) nel Croce
della Storia d'Europa, i quali restringevano la narrazione al «momento
dell'espansione culturale o etico-politico»271 e nascondevano la radice "at-
tiva" dei processi, arrivando così a interrompere il ciclo della traducibilità
e a separare astrattamente il ''tradotto" dalla cosa da cui esso traeva origine.

269. Adam David Morton (Unravelling Gramsci. Hegemonyand PassiveRevolution


in the Global Politica/ Economy, London, Pluto, 2007) ha sostenuto che la categoria di
rivoluzione passiva, come «concetto passepartout» fondato sul «metodo dell'analogia» (i.vi,
p. 58), serve a Gramsci per interpretare «un fenomeno storico mondiale con uno sviluppo
diseguale». Morton ricostruisce con precisione le fonti dell'idea di «sviluppo diseguale
e combinato» (specie in Trockij) e mostra l'orizzonte globale in cui si muove l'intera ri-
flessione di Gramsci. La tesi fondamentale, la «teorizzazione del nazionale come punto di
arrivo all'interno del condizionamento internazionale dell'espansione capitalistica», è par-
ticolarmente adatta a illustrare il carattere delle rivoluzioni passive, anche se, per le ragioni
qui argomentate, non può essere generalizzata, perché la concezione gramsciana del nesso
nazionale-internazionale implica una relazione reciproca, tanto che l' «internazionale» è,
anche esso, un «punto di arrivo» delle dinamiche nazionali.
270. V .1 Lenin, Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione
mondiale. Relazione al w° Congresso dell 'lntemazionale comtmista (13 novembre 1922),
in Id., Opere complete, XXXIII. agosto 1921-marzo 1923, a cura di B. Bemardini, Roma,
Editori Riuniti, 1967 pp. 395-396.
lt

271. Gramsci, Quaderni del carcere,p. 1227 (QIO, c. 47r).


76 Rivoluzioni passive

Le rivoluzioni passive, sia nella dinamica storica sia nelle formule dei
suoi teorici, trovavano dunque una spiegazione nella teoria della traduci-
bilità, ma in una teoria amputata del suo vigore dialettico, dove appariva
interrotto il ciclo vitale della soggettività e della oggettività, il nesso di
determinazione reciproca fra la struttura e le superstrutture.

13. I due princìpi della volontà collettiva

Nel Quaderno 15 Gramsci legò la teoria delle rivoluzioni passive alla


Prefazione del 1859 aPer la critica dell'economia politica. Come è noto,
questo scritto di Marx acquistò una importanza crescente nelle sue medi-
tazioni, perché vi riconobbe i due princìpi fondamentali della formazione
delle volontà collettive, la soluzione del «punto cruciale di tutta la quistio-
ne del materialismo storico»: «come dalle strutture nasce il movimento
storico».272 In un testo di stesura unica del Quaderno 15 aggiunse che «il
problema della formazione di una volontà collettiva» dipende «immedia-
tamente» dalla proposizione di Marx che «la società non si pone problemi
per la cui soluzione non esistano già le premesse materia/i».213 Assieme
all'altro principio, per cui «nessuna forma di società sparisce prima di
aver esaurito tutte le sue possibilità di sviluppo»,274 queste gli sembravano
le tesi capaci di giustificare e illustrare tutto il movimento della "catarsi"
storica, il passaggio dalla struttura alle superstrutture, dall'oggettività alla
coscienza: in una parola, il problema di fondo di una filosofia della praxis.
Nello stesso Quaderno 15, come si diceva, Gramsci metteva le due pro-
posizioni di Marx in relazione con le rivoluzioni passive. Nell'Epilogo pri-
mo spiegava che <da teoria della rivoluzione passiva [è] un necessario corol-
lario critico dell'Introduzione alla critica dell'economia politica>>.215 Altrove
scriveva che «il concetto di rivoluzione passiva deve essere dedotto rigorosa-
mente dai due principii fondamentali di scienza politica». E, tenendo a mente
la pagina della Prefa:zione marxiana del 1859, ne rifonnulava cosi la prosa:
l) che nessuna formazione sociale scompare fino a quando le forze produt-
tive che si sono sviluppate in essa trovano ancora posto per un loro ulteriore

272. lvi, p. 869 (Q7, c. 61v).


273. Ivi, p. 1057 (Ql5, c. 60v).
274. lv-i, p. 869 (Q7, c. 61v). Cfr. Vacca, Modernità alternative, p. XI e p. 99.
275. Gramsci, Quaderni del carcere, p. 1827 (Q15, c. 37v).
I due princìpi della volontà collettiva 77

movimento progressivo; 2) che la società non si pone compiti per la cui solu-
zione non siano già state covate le condizioni necessarie ecc.276
Ma aggiungeva subito che questi princìpi «devono prima essere svolti
criticamente in tutta la loro portata e depurati da ogni residuo di meccanici-
smo e fatalismo»; e, per chiarire senza equivoci il carattere di tale ulteriore
svolgimento, richiamava la propria elaborazione dei «tre momenti fonda-
mentali» nell'analisi dell '«equilibrio di forze»:
così [questi princìpi] devono essere riportati alla descrizione dei tre momenti
fondamentali in cui può distinguersi una «situazione» o un equilibrio di forze,
col massimo di valorizzazione del secondo momento, o equilibrio delle forze
politiche e specialmente del terzo momento o equilibrio politico-militare.277
Il concetto di «equilibrio di forze» è antico in Gramsci e segna alcuni
passaggi della sua evoluzione intellettuale. Nel passo citato, tuttavia, egli si
riferiva al modo in cui, dapprima nel Quaderno 4 poi nella seconda stesura
del Quaderno 13, la questione era stata riconsiderata in una nota dedicata,
appunto, alla Analisi delle situazioni: rapporti di forza. 278 Un confronto tra
le due stesure mostrerebbe l'evoluzione della riflessione gramsciana, che
nella prima serie di Appunti di.filosofia è ancora condizionata dalla catego-
ria di blocco storico, mentre nelle note scritte tra il 1932 e il 1933 presenta
una concezione unitaria e più plastica della dialettica politica. Nella riela-
borazione del Quaderno 13, Gramsci richiamava la necessità di «imposta-
re esattamente e risolvere» il problema dei rapporti fra struttura e super-
strutture, per giungere a un 'analisi delle forze storiche e dei loro rapporti.
Per questo motivo richiamava (aggiungendo successivamente in margine
la citazione del testo di Marx) i due principi della Prefazione del 1859,
sottolineando, nella sua perifrasi, sia il concetto realistico per cui una so-
cietà pone solo «compiti» e «soluzioni» per cui esistono già «le condizioni
necessarie e sufficienti», sia l'ulteriore osservazione che la "dissoluzione"
di una società accade quando tutte le «forme di vita», «implicite nei suoi

276. Ivi, p. 1774 (Ql5, c. 13r).


211.lbitkm.
278. Ivi, pp. 1578-1589 (Q13, cc. 7v-10v). La prima stesura, con il titolo di rubrica
Rapporti tra struttura e superstrutture, in Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni mi-
scellanei (1929-1935), I, pp. 706-720. Il nesso fra.Prefazione del 1859, analisi dei rapporti
di forza e rivoluzioni passive è svolto da L. Paggi, La teoria generale del marxismo in
Gramsci, in Storia del marxismo contemporaneo, a cura di A. Zanardo, Milano, Fcltrinclli,
1973, pp. 1318-1370: pp. 1346 ss.
78 Rivoluzioni passive

rapporti», siano state svolte fino alle conseguenze estreme.279 I «due cano-
ni», come anche li definì, assegnavano un preciso significato alla nozione
marxiana di struttura e pennettevano di sviluppare, su tale base realistica,
un discorso ulteriore, che riguardava non più la struttura come tale ma il suo
trascendimento nella dinamica dei rapporti politici. Grazie a questo aggan-
cio alla dimensione oggettiva, o perfino normativa, del processo sociale, ap-
pariva chiaro, infatti, che nell' «arte politica» l '«errore» deriva dal prevalere
dei «proprii desideri» e delle «proprie passioni deteriori»,280 dal congedo
arbitrario del terreno di realtà da cui tutta l'azione politica può sorgere.
Sulla base dei due princìpi Gramsci procedeva, quindi, alla distinzio-
ne tra «movimenti organici», «relativamente permanenti» e quindi legati alla
struttura oggettiva, e «occasionali», dipendenti da quelli ma dotati di una si-
gnificativa capacità di replica. La dialettica fra i due «movimenti» assume
grande importanza nel discorso imbastito da Gramsci e rappresenta la prima
"deduzione" del paradigma delle rivoluzioni passive di cui, come abbiamo
visto, si parla nel Quaderno 15. Infatti i movimenti organici delineano un
processo di lunga durata, «che talvolta si prolunga per decine di anni»,281 al
cui interno si articola «il terreno dell '"occasionale"», che non si limita a pren-
dere atto dei processi oggettivi e strutturali, ma dove le forze politiche, anzi le
«forze antagonistiche», si sforzano di «sanare entro certi limiti e di superare»
le contraddizioni della forma sociale e operano «positivamente alla conser-
vazione e difesa della struttura stessa». 282 Per questo «il nesso dialettico tra i
due ordini di movimento» diventa il problema fondamentale dell'analisi delle
situazioni e delle forze: perché i soggetti reagiscono ai movimenti organici,
li correggono, li accorciano o li prolungano, generando una dialettica storica
complessa, in cui il tempo della "dissoluzione" e dello "svolgimento" delle
«forme di vita» viene continuamente rielaborato dalla politica.
Non è un caso che proprio in tale contesto Gramsci può fissare la
sua periodizzazione dell'età contemporanea, indicando nel periodo com-
preso fra il 1789 e il 1870 il ciclo organico dell'affermazione della bor-
ghesia, fino al consolidarsi del proprio dominio, attraverso la duplice
sconfitta dei retaggi del vecchio ordine e dei «genni» della nuova classe
e dei «gruppi nuovissimi». È l'ultima epoca in cui la formula della «ri-
voluzione permanente» conserva un autentico valore euristico, perché

279. Gramsci, Quaderni del carcere, p. 1579 (Ql3, c. 7v).


280. lvi, p. 1581 (Q13, c. 8r).
281. lvi, p. 1579 (Q13, c. 7v).
282. lvi, p.1580 (Q13, cc. 7v-8r).
I due princìpi della volontà collettiva 79

esprime «la mediazione dialettica tra i due principii metodologici»283


della Prefazione del 1859. Un'epoca attraversata da ricorrenti episodi
di guerra di movimento - «89-94-99-1804-1815-1830-1848-1870»-, da
«ondate» e «oscillazioni», ma nella quale i processi di modernizzazione
sono caratterizzati, in misura prevalente, dalle trasformazioni molecolari
di tipo ''passivo", da una sotterranea guerra di posizione che accompagna
la longue durée del progresso borghese. 284
Questa difficile analisi - centrata sulla dialettica fra "organico" e "oc-
casionale" - conduceva a una sostanziale revisione del brano di Marx, fino
alla enucleazione dei tre «momenti o gradi» che definiscono la logica del
«rapporto di forza». La stessa distinzione tra processi organici e occasionali
era tradotta da Gramsci nella dinamica della soggettività, dove, avvertiva,
l'essenziale è «lo sviluppo da un momento all'altro»,285 non la separazione
ma la coesistenza dei gradi, che si dispongono ordinatamente dalla «realtà
ribelle» della struttura («ribelle» perché non si lascia piegare ai capricci
di una soggettività arbitraria) fino al rapporto delle forze politico-militari,
come 1'oppressione militare di uno Stato su una diversa nazione, «inspie-
gabile senza la disgregazione sociale del popolo oppresso e la passività

283. \~ p. 1582 (Q13., c. 8v).


284. E opportuno ricordare l'equivoco in cui, a tale proposito, incorse Domenico
Losurdo (Antonio Gramsci dal liberalismo al «comunismo critico»., Roma, Gamberetti,
1977, p. 155)., quando interpretò la rivoluzione passiva come la forma di modernizza-
zione successiva alla fase espansiva delle rivoluzioni borghesi: «quella di rivoluzione
passiva - scriveva - è una categoria di cui i Quaderni del carcere si servono per denotare
la persistente capacità d'iniziativa della borghesia, la quale, anche nella fase storica in
cui ha cessato di essere una classe propriamente rivoluzionaria, riesce a produrre trasfor-
mazioni politico-sociali, talvolta di rilievo., conservando saldamente nelle proprie mani il
potere, l" iniziativa e l'egemonia, e lasciando le classi lavoratrici nella loro condizione di
subalternità». Questa tesi è ripresa, in un libro ricco di spunti interessanti., anche da.Peter
D. Thomas (The Gramscian Moment. Philosopliy, Egemony and Marxism, Leiden-Bos-
ton, Brill, 2009, pp. 133-157). Nella lettura di Thomas le rivoluzioni passive costituireb-
bero la forma di modernizzazione del periodo di «crisi organica» della borghesia, cioè
quando la rivoluzione borghese ha esaurito il suo significato espansivo. In realtà, nella
visione di Gramsci le rivoluzioni passive sono caratteristiche proprio del ciclo espansivo
della rivoluzione borghese, tra la fine dell'esperienza napoleonica e il 1870, in quanto
figure (sia pure "passive") della transizione, come testimoniano gli esempi della Restau-
razione, della monarchia di luglio e del Risorgimento italiano. Nell'epoca di «crisi orga-
nica», cioè dopo il 1870, esse assumono una diversa fisionomia (cfr. Burgio, Gramsci. R
sistema in movimento., pp. 259-260).
285. Gramsci, Quaderni del carcere.,p. 1588 (Q13., c. lOr).
80 Rivoluzioni passive

della sua maggioranza».216 Ma nel mezzo, come secondo momento, era


delineato il rapporto delle forze politiche, la emancipazione delle classi,
«in vari gradi», dal limite oggettivo della struttura, dall'identità economi-
co-corporativa alla coscienza del gruppo sociale fino alla fase culminante
dell'egemonia, quando le ideologie, «germinate precedentemente» (cioè
sul terreno stesso della struttura), «diventano ''partito"» e saldano l 'allean-
za di diversi gruppi sociali, ponendo la politica «su un piano "universale"»,
con «1' egemonia di un gruppo sociale fondamentale su una serie di gruppi
sociali subordinati».287 Il trascendimento catartico della struttura (del terre-
no stesso indicato da Marx nella Prefazione) arrivava così alla sfera delle
«superstrutture complesse», dove la mediazione dell'elemento oggettivo
resiste ma si dirada e il movimento "occasionale", seppure iscritto nell' o-
rizzonte di lunga durata del processo "organico", acquista un'autonomia e
una imprevedibilità affidate alla capacità dei soggetti politici di costruire
scenari di progresso o di restaurazione.
Qui si apriva lo spazio per la teoria delle rivoluzioni passive, "dedot-
te" dai due «principii fondamentali di scienza politica» ma, nel mezzo della
"deduzione'', depurate dai residui di «meccanicismo e fatalismo» attraver-
so il passaggio alla soggettività politica. Tanto più se ne scorgeva il volto
dove Gramsci, nella stessa nota del Quaderno 13, sottolineava l'intreccio
fra i rapporti di forza interni a uno Stato-nazione e i rapporti internazionali
e insisteva sul fatto che una ideologia, «nata in un paese più sviluppato»,
in una forma "attiva", «si diffonde in paesi meno sviluppati, incidendo nel
gioco locale delle combinazioni».288 Era la stessa logica del "contraccolpo",
dellamodemizzazione operata ''passivamente", dall'alto e per via riformisti-
ca, che aveva caratterizzato le virtù e i limiti dei moti napoletani del 1799.

14. La coscienza e lafunzione dello Stato

Oltre il rinvio alla Prefazione di Marx, il Quaderno 15, composto tra


il febbraio e il settembre del 1933, aggiungeva ulteriori elementi e dimo-
strava una riflessione sempre più ricca sul nodo delle rivoluzioni passive. 289

286. Ivi, p.1586 (Q13. c. 9v).


287. lvi, p.1584 (Q13. c. 9r).
288. Ivi, p.1585 (Q13. cc. 9r-9v).
289. La «dilatazione» del concetto di rivoluzione passiva nei Quaderni del carcere
venne ricostruita da L. Mangoni, La genesi delle categorie storico-politiche nei "Quaderni
La coscienza e la funzione dello Stato 81

Possiamo ipotizzare che proprio in questo periodo la categoria assumesse


una effettiva centralità nel pensiero di Gramsci, complicandosi con le do-
mande che (come vedremo) toccavano il problema della "guerra di posi-
zione" e, in generale, la lettura del mondo contemporaneo, - del fascismo,
del comunismo, dell'americanismo. Il passaggio che aveva consentito que-
sto allargamento dell'orizzonte teorico deve essere indicato nello sviluppo
dei due principi di Marx, nella capacità, sempre più precisa, di considerare
la rivoluzione passiva come un episodio decisivo del "rapporto di forze'',
come un 'articolazione della dialettica moderna tra i soggetti politici. Il
tema delle «modificazioni molecolari» 290 della società civile cominciò a
rappresentare lo sfondo di tutta la meditazione, nella quale venivano ormai
inclusi lo sviluppo del cristianesimo primitivo nel periodo dell'impero, la
resistenza di Gandhi e la teoria della non-violenza di Tolstòj. Tutti episodi,
questi, ricondotti al "genere" delle rivoluzioni passive, sia pure come «te-
orizzazioni ingenue e a tinta religiosa».291
La trasformazione riguardava di nuovo, in primo luogo, la dialettica
politica del Risorgimento, con l'inserzione di un aspetto che, di lì a poco
(dal luglio-agosto 1934), avrebbe ispirato la nuova sistemazione del Qua-
derno 19. In una nota di stesura unica su Machiavelli, quasi segnalando
l'insoddisfazione per i risultati conseguiti, Gramsci richiamava la necessi-
tà di un «giudizio "dinamico"» sulle «"Restaurazioni" che sarebbero una
"astuzia della provvidenza" in senso vichiano».292 Si trattava, insomma,
di ripensare il dossier sulle rivoluzioni passive, mettendone in migliore
evidenza il carattere storicamente «dinamico», di rapporto creativo e im-
prevedibile tra le forze. Vi aggiungeva, infatti, una osservazione rilevante,
che tornò in diverse forme nelle note del Quaderno 15. Riconsiderando
il rapporto fra Cavour e Mazzini, ne segnò con precisione il carattere nel
fatto che il primo «comprendeva il compito di Mazzini», includendo per-
ciò nella sua visione anche le ragioni dell'avversario, mentre il secondo
«non pare fosse consapevole del suo [compito] e di quello del Cavour». 293

del carcere'\ in «Studi storici», 29/3 (1987), pp. 565-579. Mangoni indicò il passaggio de-
cisivo nella progressiva trasposizione al tempo presente: «non più rivoluzione passiva solo
come modello di interpretazione storica, e neanche solo come criterio generale di scienza
politica, ma come strumento di comprensione dei processi in atto» (ivi, p. 579).
290. Gramsci, Quaderni del carcere,p. 1767 (Ql5, c. 9v).
291. Ivi, p. 1775 (Ql5, c. 13r).
292. Ivi, p. 1767 (Q15, c. 9v).
293. Ibidem.
82 Rivoluzioni passive

Questa differenza di consapevolezza arrivava a spiegare il fenomeno del


«trasformismo» e, concludeva, «è da vedere se non si possa trarre da ciò
qualche principio generale di scienza e di arte politica».294 In effetti, alcuni
fogli dopo, mettendo a confronto la storia francese con la guerra mondiale,
concludeva che,
in ogni caso, l'assenza nelle forze radicali popolari di una consapevolezza
del compito dell'altra parte impedì ad esse di avere piena consapevolezza del
loro proprio compito e quindi di pesare nell'equilibrio finale delle forze, in
rapporto al loro effettivo peso d'intervento, e quindi di determinare un risul-
tato più avanzato, su una linea di maggiore progresso e modernità. 295

La «"chiarezza" intellettuale», naturalmente, non doveva presentarsi


nella forma di una elucubrazione individuale, ma doveva corrispondere
alla modificazione "molecolare" dei rapporti sociali fondamentali e allo
sviluppo di nuove forze, 296 secondo i principi insegnati dal Marx della
Prefazione, e inoltre diffondersi come passione e «forte volontà». 297 Ma
Gramsci aveva enucleato uno degli aspetti principali della teoria delle rivo-
luzioni passive nella capacità del ceto dirigente di comprendere dialettica-
mente l'alleato-avversario, fino a convertire l'egemonia in una dittatura298
e, quindi, a "decapitare" e "assorbire" l'elemento popolare.299 La tesi di
Adolfo Omodeo di una "integrazione" dialettica tra Cavour e Mazzini era
pertanto assunta e corrosa nelle sue basi, perché, nella lettura di Gramsci,
l'interazione dei due soggetti sfociava in un esito fatale per l'elemento
democratico e, in definitiva, per l'avvenire della nazione.300
La stessa questione venne ripresa in un 'altra nota di stesura unica del
Quaderno 15, dove emergeva un tassello ulteriore e più maturo della ri-
flessione gramsciana, relativo alle condizioni nelle quali uno Stato può
svolgere la funzione decisiva nel processo di una rivoluzione passiva. Si
trattava, avvertì, di un fatto «della massima importanza per il concetto di

294. lbidem.
295. Iv-i, pp.1773-1774 (Ql5, c. 12v).
296. Iv-i, pp. 1818-1819 (Ql5, cc. 33v-34r).
297. Iv-i, pp. 1781-1782 (Q15, c. 16v).
298. Iv-i, p.1823 (Ql5, c. 36r).
299. Iv-i, p. 2011 (Ql9, c. 68r).
300. Cfr. per questo M Mustè, Adolfo Omodeo. Storiografia e pensiero politico,
Bologna, il Mulino, 1990, pp. 287-341 (in particolare Gramsci critico di Omodeo, alle
pp. 328-341).
La coscienza e la funzione dello Stato 83

"rivoluzione passiva"». 301 Ora il presupposto dell'analisi del moto risor-


gimentale consisteva nella incapacità dei «nuclei di classe dirigente» a
unificarsi in senso nazionale e tale difetto era ricondotto al limite di pro-
spettiva egemonica della borghesia italiana. Divisa sotto il profilo territo-
riale e socio-economico, la borghesia cittadina appariva ferma al momento
economico-corporativo, alla difesa del proprio interesse immediato, senza
avvertire l'esigenza di unificarsi e, quindi, di allearsi con l'elemento po-
polare, esercitando una reale funzione egemonica e realizzando un mo-
vimento «sul modello "giacobino''». L'assenza di una energia egemonica
della classe rivoluzionaria (tendenza a unificarsi, alleanza con altri gruppi
sociali) giustifica dunque il carattere "passivo" del processo risorgimentale
e, soprattutto, il ruolo che vi assunse il Piemonte e in generale lo Stato.
Infatti, mancando un movimento omogeneo dal basso, la monarchia sabau-
da sostituì e compensò il flusso rivoluzionario, acquistando «una funzione
che può, per certi aspetti, essere paragonata a quella del partito, cioè del
personale dirigente di un gruppo sociale[ ... ]; con la determinazione che si
trattava di uno Stato, con un esercito, una diplomazia ecc.».302
Appariva chiara, in questo modo, la genesi profonda della rivoluzione
passiva. Il limite economico-corporativo della classe rivoluzionaria, la sua
inadeguatezza a costruire una alleanza di massa con altri gruppi sociali e a
entrare nel terreno proprio dell'egemonia, richiamava il ruolo di supplenza
dello Stato, che surrogava la funzione del partito politico, fino a farsi sog-
getto unificatore dei «nuclei di classe dirigente» dispersi e frammentati.
Era il modello della rivoluzione "dall'alto", che spiegava l'imperfezione
nella costruzione dello Stato nazionale italiano ma che, al tempo stesso,
riguardava la fase ulteriore della rivoluzione proletaria, dove il movimento
operaio, se non avesse oltrepassato il proprio limite economico-corporati-
vo, se non avesse saputo realizzare, a partire da sé, un campo di alleanze
sociali e politiche ed esercitare il compito dell'egemonia, sarebbe andato
incontro al medesimo destino, affidando allo Stato - in una «dittatura sen-
za egemonia» - l'opera di trasformazione della forma sociale. Il risultato
dell'analisi, come Gramsci osservò, appariva «della massima importanza
per il concetto di "rivoluzione passiva"» e si trattava «di approfondire il
significato che ha una funzione di tipo "Piemonte" nelle rivoluzioni passi-
ve». Cioè il fatto, aggiunse,

301. Gramsci, Quaderni del carcere~P- 1823 (Ql5~ e 35v).


302. lvi, pp. 1822-1823 (Q15~ c. 35v).
84 Rivoluzioni passive

che uno Stato si sostituisce ai gruppi sociali locali nel dirigere una lotta di
rinnovamento. È uno dei casi in cui si ha la funzione di «dominio» e non di
«dirigenza» in questi gruppi: dittatura senza egemonia. L'egemonia sarà di
una parte del gruppo sociale sull,intiero gruppo, non di questo su altre forze
per potenziare il movimento, radicalizzarlo, ecc. sul modello «giacobino».303

15. Tre fonti della teoria del cesarismo

Alla ricognizione che abbiamo proposto fin qui della presenza di Marx
nella teoria delle rivoluzioni passive, dobbiamo ora aggiungere un tassello
importante, che riguarda gli scritti storici e, in modo particolare, i tre saggi
principali sulla rivoluzione in Francia. L'influenza di tali testi sulla forma-
zione di Gramsci e sullo sviluppo dei suoi pensieri in carcere è stata per
lungo tempo, se non misconosciuta, certo sottovalutata. Le opere storiche,
come il 18 brumaio, ebbero invece un peso determinante nella costituzione
di alcune categorie dei quaderni, a cominciare da quelle di «bonapartismo»
e «cesarismo». Il loro studio risale almeno ai primi anni V enti, come è docu-
mentato non solo da alcune occorrenze lessicali, ma anche dalla interpreta-
zione del fenomeno fascista, fino alla constatazione della «rassomiglianza»
dell' «equilibrio instabile» italiano nel 1919-1920 «coi metodi e i sistemi
descritti da Carlo Marx nel J8 brumaio di Luigi Bonaparte, cioè con la tat-
tica generale della borghesia in pericolo, in tutti i paesi».304 Fu nei Quaderni
del carcere, tuttavia, che Gramsci enucleò dagli scritti storici di Marx un
paradigma storiografico originale e riconobbe in essi la forma più matura
della filosofia della praxis, quella in cui la teoria oltrepassava ogni traccia
di «infantilismo primitivo», perché la politica e l'ideologia cessavano di
apparire come «espressione immediata della struttura» ed erano còlte nella
relazione concreta delle forze e dei gruppi sociali. In un testo di stesura
unica del Quaderno 7 sottolineò questo aspetto e offii al lettore una chiave
per intendere un carattere essenziale del suo rapporto con l'opera di Marx:

303. lvi, pp. 1823-1824 (Ql5 c. 36r).


11

304. A. Gramsci, La costruzione del partito comunista 1923-1926 Torino Einaud~


11 11

1971, p. 343. Tutta la questione è stata studiata da Francesca Antonini nella prima parte
del suo libro Caesarism and Bonapartism in Gramsci: Hegemony and the Crisis of Mo-
denity, Leiden-Boston, Brill, 2020. Di Antonini si veda anche Cesarismo e bonapartismo
negli scritti precarcerari gramsciani, in «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», (2013),
pp. 203-224.
Tre fonti della teoria del cesarismo 85

la pretesa (presentata come postulato essenziale del materialismo storico) di


presentare ed esporre ogni fluttuazione della politica e dell'ideologia come
una espressione immediata della struttura, deve essere combattuta teorica-
mente come un infantilismo primitivo, o praticamente deve essere combattu-
ta con la testimonianza autentica del Marx, scrittore di opere politiche e stori-
che concrete. Per questo aspetto sono importanti specialmente il 18 Brumaio
e gli scritti sulla Quistione Orientale, ma anche altri (Rivoluzione e Controri-
voluzione in Germania, La gue"a civile in Francia e minori). Un'analisi di
queste opere pennette di fissar meglio la metodologia storica marxista, inte-
grando, illuminando e interpretando le affermazioni teoriche sparse in tutte le
opere. Si potrà vedere quante cautele reali Marx introduca nelle sue ricerche
concrete, cautele che non potevano trovar posto nelle opere generali-30s
La teoria gramsciana del cesarismo rappresenta, d'altronde, il nodo
centrale del discorso sulle rivoluzioni passive, nel senso che il cesarismo,
in una accezione allargata (di cui definiremo tra poco i lineamenti), costi-
tuisce la forma politica normale di una rivoluzione passiva. Per la determi-
nazione di questo concetto Gramsci utilizzò, nei Quaderni del carcere, tre
fonti principali, che interagirono in una maniera caratteristica: un articolo
di Robert Michels, gli scritti storici di Marx (con particolare riguardo al 18
brumaio) e il saggio di Max Weber su Parlamento e governo. Prima di esa-
minare la struttura teorica della categoria e il suo nesso con le rivoluzioni
passive, è opportuno proporre alcune osservazioni su tali testi e sul modo
in cui Gramsci arrivò a leggerli.
Nell'articolo su Les partis politiques et la contrainte sociale, pubbli-
cato nel «Mercure de France», 306 Robert Michels riproponeva, senza so-
stanziali alterazioni, le tesi elaborate nel libro del 1914 sui partiti politici.307
Con riferimento ad alcune pagine della terza parte di Economia e società di
Max Weber, definiva la natura del partito moderno in termini di "carisma",
come «Machtstreben», spiegava, sia con una finalità personale sia per ra-
gioni di carattere oggettivo e impersonale. Due notazioni, che entrambe
comparivano nella prima delle tre parti dell'articolo, attirarono particolar-
mente l'attenzione di Gramsci. La prima riguardava la figura di Mussolini
come capo carismatico, che differiva, secondo Michels, da tutti gli esempi

305. Gramsci. Quaderni del carcere,, pp. 871-872 (Q7, c. 63rv).


306. R Michels,,Les partispolitiques et la contrainte sociale,, in «Mercure de France»,
1 maggio 1928, pp. 513-535.
307. R Michels,, Les partis politiques. Essai sur les tendances oligarchiques des dé-
mocraties, tr. di S. Jankelevitch, Paris, Flammarion, 1914.
86 Rivoluzioni passive

storici precedenti, perché, oltre che leader di un partito, egli era diventato
«chefunique d'un grand État»: «Benito Mussolini - scriveva- diffère des
au1res hommes que nous venons de nommerpar ce fait qu'il n'estpas seu-
lement le chef unique d'un grand parti, mais qu'il est devenu aussi le chef
unique d'un grand État. C'est aussi avec lui que la notion de l'axiome "le
parti, c 'est moi", a pris, dans le sens de responsabilité et de 1ravail assidu,
son maximum de développement». 308 Gramsci considerò «storicamente
inesatto» questo giudizio, ma di fatto si limitò ad articolarlo senza respin-
gerlo del tutto, attraverso l'osservazione che «Mussolini si serve dello Sta-
to per dominare il partito e del partito, solo in parte, nei momenti difficili,
per dominare lo Stato».3oP
La seconda notazione riguardava il carattere "primitivo" del leader
carismatico, che Gramsci riformulò in un senso molto diverso da quello
accennato da Michels. Per Michels era necessario distinguere due casi:
nel primo caso, il leader appariva "primitivo" rispetto al partito, in quanto
fondatore della sua struttura organizzativa; nel secondo caso, al contrario,
primitivo era il partito e il leader interveniva come fenomeno secondario e
successivo. Scriveva che
en général les chefs charismatiques sont, à l'égard des partis politiques, des
phénomènes pour ainsi dire primitifs. En d' autres termes, ils en sont les fon-
dateurs; ce sont eux qui engendrent les partis. Mais l 'histoire des partis po-
litiques démontre aussi qu'il y a un certain nombre de cas inverses. C'est
alors le parti potitique qui est la phénomène primitif. Au point de vue chro-
nologique, les chefs sont, alors, secondaires, c'est-à-dire qu'ils se présentent
plus tard, quand le parti est déjà fonné. Mais ce retard ne diminue en rien
leur force, pourvu que le parti préexistant ne dispose pas d' autres chefs qui
les valent.310
Per Michels, insomma, "primitivo" significava precedente «au point
de vue chronologique» e dotato di un iniziale potere costituente. Gramsci
conferì invece alla nozione di ''primitivo" un diverso senso, arrivando a
concepire il carisma come «fase primitiva dei partiti di massa», quando
il partito non è ancora pervenuto a esprimere una compiuta ideologia e a
rappresentare una «concezione del mondo unitaria» legata a «una classe

308. Michels, Les partis politiques et la contrainte sociale, p. 516.


309. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), L p. 347
(Q2, c. 54v).
31 O. Michels, Les partis politiques et la contrainte sociale, pp. 517-518.
Tre fonti della teoria del cesarismo 87

storicamente essenziale e progressiva». Nella nota del Quaderno 2 dedica-


ta all'articolo di Michels scrisse infatti che
il cosidetto «charisma», nel senso del Michels, nel mondo moderno coincide
sempre con una fase primitiva dei partiti di massa, con la fase in cui la dot-
trina si presenta alle masse come qualcosa di nebuloso e incoerente, che ha
bisogno di un papa infallibile per essere interpretata e adattata alle circostan-
ze; tanto più avviene questo fenomeno, quanto più il partito nasce e si forma
non sulla base di una concezione del mondo unitaria e ricca di sviluppi perché
espressione di una classe storicamente essenziale e progressiva, ma sulla base
di ideologie incoerenti e arruffate, che si nutrono di sentimenti ed emozioni
che non hanno raggiunto ancora il punto terminale di dissolvimento, perché
le classi (o la classe) di cui è espressione, quantunque in dissoluzione, storica-
mente, hanno ancora una certa base e si attaccano alle glorie del passato per
farsene scudo contro l'avvenire.311

Il passaggio era di notevole importanza. Tutta la teoria del potere


carismatico, che Michels aveva derivato da Max Weber, veniva perciò
declassata a «fase primitiva» dei partiti di massa, al momento "economi-
co-corporativo" dell'esperienza politica, quando una classe «storicamen-
te essenziale e progressiva» non ha conseguito una visione organica del
mondo, non riesce a diffondersi nel terreno delle superstrutture. Se tale
era il profilo assegnato al carisma nei partiti, altrettanto definita appari-
va la funzione delle «personalità più o meno eccezionali» nella vita degli
Stati, ricondotte da Gramsci a «certi momenti di "anarchia permanente"»,
all'«equilibrio statico delle forze in lotta», quando intorno a un solo indi-
viduo «si raggruppano gli "spauriti"».312 Sia nel caso dei partiti di massa
sia in quello della vita politica di una nazione, il potere carismatico non era
dunque interpretato come un risultato della più matura dialettica sociale,
ma, al contrario, come una «fase primitiva», indice di una sostanziale im-
maturità del processo storico.
Nella stessa nota del Quaderno 2, Gramsci definiva il suo rapporto con
l' elitismo, con quella «tendance à l' oligarchie»313 di cui Michels (citando

311. Gramsci, Quaderni dtJl carcm-e 2. QuadunimiscellantJi (1929-1935), L pp. 347-


348 (Q2, c. 54v).
312. lvi, p. 349 (Q2, c. 55v).
313. Michels, Lu partis politiquu tJt la contrainttJ socialtJ, p. 522. Per una opportuna
rilettura dell'elitismo italiano si veda G. Azzolini, Dopo /gelassi dirigtJnti. La metamorfosi
delle oligarchie nel'età globale, Roma-Bari, Laterza, 2017 (in particolare su Gramsci le
pp. 22-26).
88 Rivoluzioni passive

Pareto, Sorel e Gaetano Mosca) aveva parlato nell'articolo. Rileggendo


la questione in termini di egemonia, distingueva due casi differenti nel
rapporto tra élite e massa in un partito politico. In primo luogo, spiegava,
si determina una tendenza oligarchica quando c'è «differenza di classe tra
capi e gregari» o, meglio, quando «c'è scissione di classe». 314 Se il par-
tito ha una struttura egemonica, ossia è fondato sull'alleanza tra diverse
classi sociali (per esempio operai e contadini), e se tra queste classi non
c'è piena omogeneità, la funzione dirigente spetta alla classe più progres-
siva, che pertanto esercita una funzione "oligarchica" (o egemonica) di
guida. Ma se non c'è «scissione di classe», allora «la quistione diventa
puramente tecnica» («1' orchestra - scriveva - non crede che il direttore
sia un padrone oligarchico»): la formazione di un'élite dirigente riguarda
«l'educazione», l'«apprendissaggio», e mette in rilievo la«grande funzio-
ne» che gli intellettuali possono avere come dirigenti del movimento po-
litico. La discussione sul potere carismatico veniva pertanto disinnescata
sul terreno del partito e riportata al grande tema della crisi organica e della
transizione tra forme storiche.
Dalla lettura di Michels (e in generale dall' elitismo) Gramsci non tras-
se, dunque, spunti di rilievo per la teoria del cesarismo. Le fonti principa-
li provennero dagli scritti storici di Marx e dal saggio di Max Weber su
Parlamento e governo. Nella Introduzione del 1895 alla prima ristampa
dei quattro articoli che Marx, tra il gennaio e il novembre 1850, aveva de-
dicato alle Lotte di classe in Francia (pubblicandoli originariamente nella
seconda «Neue Rheinische Zeitung», quella di Amburgo), Engels affermò
che nel J 8 brumaio, scritto fra il dicembre 1851 e i primi mesi del 1852,
«l'autore ebbe ben poco da cambiare»: 315 la novità principale si trovava,
infatti, nel quarto articolo sulla «soppressione del suffragio universale»,
quello a cui Engels aveva collaborato in maniera più diretta, e riguarda-
va il nesso tra «ripresa di energia rivoluzionaria» e crisi mondiale. Se nei
primi tre articoli (secondo la lettura engelsiana) Marx era ancora vittima
di una «illusione», perché riteneva che la rivoluzione proletaria potesse es-
sere avviata in Francia senza una crisi generale del capitalismo, nel quarto
articolo si era ravveduto e corretto, riconoscendo con più sicurezza che

314. Gramsc~ Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935)~ L p. 351


(Q2~ c. 56v).
315. K. Marx, Le lotte di classe in Frane~ a cura di G. Giorg~ Roma, Editori
Riuni~ 1973\ p. 45.
Tre fonti della teoria del cesarismo 89

«una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito a una nuova crisi.
L'una però è altrettanto sicura quanto l'altra». 316 In verità quel nesso fra
crisi e rivoluzione non era mai stato perso di vista da Marx, il quale, nel
terzo articolo, aveva sottolineato che il compito rivoluzionario non sarebbe
stato assolto in Francia prima che «da una guerra mondiale il proletariato
sarà spinto alla testa del popolo che domina il mercato mondiale, alla testa
dell'Inghilterra»; 317 e lo stesso concetto aveva illustrato, un anno prima,
sulla «Neue Rheinische Zeitung» del 1° gennaio 1849, parlando di una
«guerra mondiale», che avrebbe consentito ai cartisti di assumere il potere
e di guidare la rivoluzione mondiale.318 Se più forte diventava, già alla fine
del 1850, la consapevolezza che solo una crisi internazionale avrebbe riav-
viato il processo rivoluzionario in Europa, non era qui il centro della que-
stione. A Engels sfuggi che il 18 brumaio introduceva una diversa lettura
dei fatti francesi che avevano portato al potere Luigi Bonaparte, una vera e
propria revisione del paradigma storiografico, dove emergeva il nodo della
crisi politica e dei rapporti di forze tra i gruppi sociali.
Nelle Lotte di classe in Francia Marx aveva spiegato il passaggio
dalla monarchia di luglio alla prima repubblica nei termini di una tran-
sizione dal potere dell'aristocrazia finanziaria («il sottoproletariato alla
sommità della società borghese»)3 19 a quello della borghesia industriale:
nella persuasione che fosse necessario conseguire la maturità della forma
borghese e che, solo allora, le rivendicazioni sociali del proletariato avreb-
bero potuto affermarsi, attirando nella propria orbita la piccola borghesia
e i contadini. Il suffragio universale giocava un ruolo fondamentale nella
narrazione, perché, scriveva, inserisce una «contraddizione» nel sistema
sociale, in quanto «sottrae le garanzie politiche» alla borghesia, affidan-
do «il possesso della forza politica» proprio a quelle classi - proletariato,
contadini, piccoli borghesi- «la cui schiavitù politica essa [la borghesia]
deve etemare»;320 e, d'altro lato, sostituisce al «popolo immaginario» il
«popolo vero», rendendo chiara la divisione in classi nella società civile e

316. Ivi, p. 286.


317. Ivi, p. 250
318. Die revolutioniire Bewegung, in «Neue Rheinische Zeitung», 2/184 ( 1° gennaio
1849): «England wird wie zu Napoleons Zeit an der Spitze der kontrerevolutionllren Anne-
cn stchcn, abcr durch dcn Kricg sclbst an dic Spitzc dcr rcvolutionllrcn Bcwcgung gcworfcn
werden und seine Schuld gegen die Revolution des 18. Jahrhunderts ein16sen».
319. Marx, Le lotte di classe in Francia, p. 96.
320. Ivi, pp. 166-167.
90 Rivoluzioni passive

rappresentandola a livello istituzionale.321 Arrivato, nel secondo articolo,


al passaggio essenziale del processo, all'affermazione di Luigi Bonaparte
(quindi alla rottura improvvisa dello schema lineare "aristocrazia finanzia-
ria-borghesia industriale", che fin lì aveva guidato la ricostruzione), Marx
definiva il nuovo capo dei francesi come l'uomo «più multiforme»,322 che
deriva il proprio consenso dal confluire occasionale e abbastanza fortuito
di interessi discordanti: da un lato i contadini insorti nel dicembre, animati
dal mito mai tramontato del primo Napoleone, d'altro lato il proletariato,
che desiderava la destituzione di Cavaignac e la «cassazione della vittoria
di giugno», quindi piccoli e grandi borghesi e l'esercito, ciascuno sospin-
to da motivazioni diverse ma convergenti nel consegnare il dominio al-
1' «uomo più limitato della Francia». Si trattava, a conti fatti, di una crisi di
maturazione (la borghesia non riusciva a realizzare, in maniera conseguen-
te, la forma compiuta del suo potere), di un arresto nello sviluppo, dovu-
to al divaricarsi dei gruppi sociali, all'assenza di una coalizione stabile e
maggioritaria di interessi, che rifluiva, in maniera alquanto imprevedibile,
nella figura scadente di un avventuriero.
Tornato a ragionare sui fatti francesi circa un anno dopo, Marx conferi
altro spessore alla sua analisi nel 18 brumaio. Engels scrisse giustamente,
nella Prefazione del 1885 alla terza edizione tedesca, che qui Marx «ha
messo alla prova la sua legge» («la grande legge dell'evoluzione storica»),
definita nel Manifesto e in seguito nella Prefazione del 1859.323 In effetti lo
schema lineare stabilito nella prima parte del Manifesto (Borghesi e prole-
tari) risultò fortemente scosso. Come Marx scrisse nella seconda edizione
di Amburgo del 1869, si trattava di spiegare come la lotta di classe avesse
creato in Francia «delle circostanze e una situazione che resero possibile a
un personaggio mediocre e grottesco di far la parte dell'eroe».324 Per questo
non bastava la «frase scolastica» del «cosiddetto cesarismo», 325 che egli in-
terpretava come analogia impropria e superficiale fra la moderna Francia e
l'antica Roma: se la rivoluzione aveva indossato i panni della Repubblica e
dell'Impero, una volta instaurata la nuova formazione sociale «disparvero i
mostri antidiluviani» e con essi «disparve la romanità risuscitata - i Bruti,

321. Ivi, p. 133.


322. lvi, p. 172.
323. K. Marx, R 18 brwnaio di Luigi Bonaparte, a cura di G. Giorgetti, Roma, Editori
Riuniti, 197'"/2:, p. 41.
324. Ivi, pp. 35-36.
325. Ivi, p. 37.
Tre fonti della teoria del cesarismo 91

i Gracchi, i Publicola, i tribuni, i senatori e lo stesso Cesare».326 Troppo


diversa appariva la forma storica del regime borghese da quella dei romani
antichi, ancora fondata sulla schiavitù, perché quel vocabolario arcaico dei
protagonisti potesse essere preso sul serio, tramutandolo in una astratta
categoria sociologica. Il problema di Marx era di cogliere il carattere spe-
cifico della rivoluzione borghese e di spiegare come era accaduto che, nel
processo storico innescato dal 1789, avesse fatto la sua comparsa un perso-
naggio stravagante e miserevole come Luigi Bonaparte.
Perciò non il cesarismo, ma la densa metafora hegeliana della
«Tragodie» e della «Farce>> - per cui i grandi episodi e personaggi della
storia universale si presentano due volte, «la prima volta come tragedia, la
seconda volta come farsa»327 - sembrava più adeguata per illustrare il ripe-
tersi del primo nel secondo Napoleone; e il fatto, attestato perfino da Lute-
ro (che «si travestì da apostolo Paolo»), che il passato «lastet wie ein Alp»,
pesa come un incubo, sul cervello di tutti i viventi, i quali, nelle epoche di
crisi rivoluzionaria, ne «evocano con angoscia gli spiriti>>, «per prenderli al
loro servizio»: «ne prendono a prestito i nomi, le parole d'ordine per la bat-
taglia, i costumi, per rappresentare sotto questo vecchio e venerabile trave-
stimento e con queste frasi prese a prestito la nuova scienza della storia» .328
Una legge generale dunque, dovuta al rapporto fra passato e presente, fra
memoria e oblio; una regola psicologica che nulla ha a che vedere con ana-
logie e pretese somiglianze tra epoche e forme sociali differenti.
Se la categoria di cesarismo non funzionava, e meritava perciò il sar-
casmo della sua prosa, anche lo schema lineare stabilito nel Manifesto -
per cui «l'intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi
nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l'una all' altra»329 -
si rivelò insufficiente per sciogliere l'enigma della recente storia francese.
Nelle parti centrali della ricerca Marx fu condotto a ripensare non solo il
ritmo delle rivoluzioni borghesi ma anche, e forse soprattutto, le ragioni
della crisi e dell'arresto nello sviluppo. I segni di questarevisione possono
essere osservati, in maniera esemplare, nell'analisi della crisi economica
del 1850-1851, che certo interpretò (alla maniera del Manifesto) come crisi
di sovrapproduzione, ma il cui esito non era più concepito, come nel Mani-
festo, nei soli termini della distruzione delle forze produttive e dell' espan-
326. I~ p. 46.
327. I~ p. 43.
328. l~pp. 44-45.
329. Marx, Engels, Manifesto del partito comunista, p. 7.
92 Rivoluzioni passive

sione coloniale,330 bensì come ripiegamento economico-corporativo della


borghesia, persino come rinuncia al potere politico diretto e accettazione
dell'arbitrato di un nuovo Bonaparte.331 Di fronte alla crisi economica, la
borghesia si ritirava dall'esercizio del governo e lasciava libero terreno a
un impostore e a classi sociali (contadini e sottoproletariato) estranee alla
propria mentalità produttrice.
Questo era il nodo che la situazione francese aveva reso evidente e che,
sul piano teorico, imponeva un ripensamento dell'intero ciclo delle rivolu-
zioni borghesi e dei motivi di arresto che ne insediavano lo sviluppo. Nella
prima parte dello scritto, Marx rileggeva perciò il lungo periodo del processo
rivoluzionario, sottolineando «ein langer Katzenjammer», la «lunga nausea»
che, dopo il primo periodo ascendente e convulso, si impossessa dell'intera
società, una volta raggiunto il suo «Hohepunkt», il «punto culminante»:
le rivoluzioni borghesi - scriveva -, come quelle del secolo decimottavo,
passano tempestosamente di successo in successo; i loro effetti drammatici
si sorpassano l'un l'altro; gli uomini e le cose sembrano illuminati da fuo-
chi di bengala; l'estasi è lo stato d'animo d'ogni giorno. Ma hanno una vita
effimera, presto raggiungono il punto culminante; e allora una lunga nausea
si impadronisce della società [ein langer Katzenjammer erfaBt die Gesell-
schaft], prima che essa possa rendersi freddamente ragione dei risultati del
suo periodo di febbre e di tempesta. 33 2
Terminato il ciclo ascendente della rivoluzione, la società borghese en-
tra dunque in una «lunga nausea», in un periodo di crisi e di arresto nel quale
la stessa borghesia rinuncia al potere politico diretto e, limitandosi a curare i
propri affari economici, permette ad altre classi - a quelle stesse classi (sot-
toproletariato e contadini) che la sua rivoluzione non aveva potuto assorbire
- di assurgere alla guida degli affari pubblici. Si determina così un clamoro-
so interregno nella dinamica della modernità e nella transizione storica, nel
quale la lotta fondamentale tra borghesi e proletari è quasi sospesa o almeno
spostata nel terreno di «tutta una sovrastruttura di impressioni, di illusioni, di
particolari modi di pensare e di particolari concezioni della vita». 333 La classe
borghese comincia a decomporsi nelle sue componenti (città e campagna;
industria, alta finanza, proprietà terriera), perde l'unità sociale, si trasforma

330. lvi, p. 13.


331. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, pp. 182 ss.
332. lv-i, p. 52.
333. lv-i, p. 93.
Tre fonti della teoria del cesarismo 93

in una corrente extraparlamentare e vede «le anni da lei foggiate contro il


feudalesimo volgersi verso di lei»: le istituzioni parlamentari, il suffragio
universale, la libertà di stampa divengono strumenti nelle mani del proleta-
riato e spingono sempre più i borghesi nella logica della reazione bonapar-
tista e del colpo di mano.334 In termini gramsciani, è l'immagine perfetta di
una "crisi organica", dove cresce la frattura tra rappresentanti e rappresentati
(«i rappresentanti e i rappresentati erano diventati estranei gli uni agli altri
e non si comprendevano più»)335 e nessuno dei gruppi sociali fondamentali
appare più in grado di esercitare una funzione egemonica di guida politica. In
tale contesto si afferma il sistema della burocrazia, «questo spaventoso corpo
parassitario»336 che, sorto nel periodo della monarchia assoluta, con il secon-
do Bonaparte si converte da mezzo in fine, sino a diventare «completamente
indipendente».337 È la «hmga nausea», d1mque, che genera le basi del potere
di Luigi Napoleone, che rende possibile la rivolta della campagna contro la
città, che risveglia il mito napoleonico presso i contadini e favorisce l 'emer-
gere del risentimento nel sottoproletariato urbano.
Un ultimo aspetto, che certamente sollecitò la riflessione di Gramsci,
deve essere messo in rilievo. È la sconfitta del proletariato nelle rivoluzioni
del 1848 che ha inaugurato la «lunga nausea», nel momento in cui labor-
ghesia, divenuta timorosa della rivoluzione sociale, ha accettato ogni com-
promesso pur di allontanare lo spettro del comunismo. La rottura del mo-
mento "giacobino" della rivoluzione (quando il popolo, scriverà Gramsci,
spinge innanzi la borghesia «a calci nel sedere»), lascia la classe borghese
sola con se stessa, la disgrega e la priva del necessario sostegno sociale,
la costringe a ripiegare sul terreno economico-corporativo. Ma altrettanto
solo, d'altra parte, era rimasto il proletariato, umiliato dalla sua sconfitta,
per il quale Marx indica, come strada necessaria, l'alleanza strategica con
i contadini: l'interesse dei contadini, concludeva, è ormai «in contrasto
con gli interessi della borghesia»; «essi trovano quindi il loro naturale al-
leato e dirigente nel proletariato urbano, il cui compito è il rovesciamento
dell'ordine borghese». 338 E questo era, agli occhi di Gramsci, l'annuncio
della teoria dell'egemonia.

334. Ivi, pp. 119-121.


335. Ivi, p. 176.
336. Ivi, p. 205.
337. Ivi, p. 207.
338. Ivi, p. 215.
94 Rivoluzioni passive

Gramsci derivò dal 18 brumaio una teoria della crisi conforme alla
tematica del cesarismo. È vero però, come abbiamo osservato, che Marx
non aveva considerato la categoria di cesarismo come idonea per rappre-
sentare i passaggi essenziali delle rivoluzioni borghesi. Anzi aveva ironiz-
zato sulla sua utilità, sostituendovi il diverso paradigma, di provenienza
hegeliana, della "Tragodie" e della "Farce". Se è vero (come appare ormai
indubitabile) che nel periodo trascorso a Turi Gramsci incontrò, in forma
diretta o indiretta, l'opera di Max Weber, è plausibile che proprio qui egli
trovasse la formulazione più matura e perspicua del problema.339 In cer-
to modo innestò la teoria weberiana del cesarismo nella spiegazione che
Marx, nel 18 brumaio, aveva offerto della dinamica della crisi francese,
generalizzandone i risultati in una visione globale dei processi di moder-
nizzazione. Il nome di Weber ricorre, nei Quaderni del carcere, non più di
sette volte. I riferimenti a Economia e società sono evidentemente indiretti
e tratti dall'articolo di Michels. Diverso è il caso del saggio sull'etica pro-
testante e lo spirito del capitalismo, che poté leggere, nel 1931-1932, nella
traduzione a puntate pubblicata nei «Nuovi studi di diritto, economia e
politica»;340 e soprattutto del volume su Parlamento e governo, pubblicato
da Laterza nel 1919, il quale, seppure assente nel fondo librario, con ogni
probabilità era stato letto prima dell'arresto e certamente era vivo nella sua
memoria. Questo era il testo in cui Weber aveva dato il massimo rilievo al
concetto di cesarismo, con una precisione che non tornerà negli altri suoi
scritti politici. Non sappiamo, con esattezza, quando Gramsci lesse il libro:
ma è impossibile che la sua attenzione non fosse attirata dal modo in cui il
pensatore tedesco aveva considerato la questione.
Nel saggio di Weber il cesarismo interveniva in due diverse accezio-
ni. In primo luogo vi era l'uso puramente negativo del termine, legato al

339. Sul rapporto di Gramsci con l'opera di Weber, cfr. M. Montanari, Razionalità e
tragicità del moderno in Gramsci e Weber, in «Critica marxista», 25/6 (1987), pp. 47-71
(Id., Ideologie del politico. Tra liberalismo e teoria critica, Manduria, Lacaita, 1989,
pp. 133-160); A. Cavalli, Weber e Gramsci, in <<l quaderni dell'Istituto Gramsci-Marche»,
1/4 ( 1992), pp. 69-85; M. Filippini, Antonio Gramsci e Max Weber. Un dialogo a distanza
sulla "selezione" fordista, in «Quaderni di teoria sociale», 13/13 (2013), pp. 51- 74; A. Ba-
gn.asco, Gramsci e la sociologia, in Attualità del pensiero di Antonio Gramsci, Roma, Bar-
di, 2016, pp. 231-243.
340. F. Frosini, la religione del'uomo moderno. Politica e verità nei ..Quaderni del
carcere" di Antonio Gramsci, Roma, Carocci, 2010, pp. 241 ss.; Cospito, R ritmo de/pen-
siero, p. 149.
Tre fonti della teoria del cesarismo 95

«regime cesaristico»341 introdotto da Bismarck: una esperienza che aveva


prodotto soltanto macerie,342 riducendo l'azione di governo a quella «po-
litica unicamente negativa>>343 che escludeva il parlamentarismo moderno,
dove «fare politica [ ... ] significa sempre lotta»,3 44 e che aveva impedito
una selezione dinamica dei leader. La polemica con l'eredità bismarckiana
incontrava, però, i tratti salienti della sua elaborazione teorica, che culmi-
nava nell'antitesi tra la «marcia trionfale»345 del potere burocratico, come
vettore della modernizzazione, e la necessità di formare autentici capi po-
litici, personalità indotte a «vivere ''per" la politica»,346 le quali, animate
da una più elevata visione del mondo, non solo resistano alla tendenza
uniforme del "calcolo" ma sappiano indirizzarla verso fini comuni. Come
nella fabbrica l'imprenditore esercita una funzione di indirizzo rispetto al
meccanismo della grande industria moderna, così il vero leader politico
avrebbe dovuto riprendere sotto il proprio comando la «gabbia d'acciaio»
del potere burocratico, riportando i funzionari statali al ruolo naturale di
esecutori. Nel caso di Bismarck, dunque, il cesarismo disegnava la traiet-
toria di una degenerazione burocratica della politica; tuttavia, considerato
come «principio del piccolo numero», come processo di formazione di una
élite dirigente, il «risvolto cesaristico» risultava «ineliminabile» in tutti gli
<<Stati di massa», 341 quindi anche nel parlamentarismo, di cui si auspicava
la costruzione nella Germania postbellica.
La questione diventò acuta nel quinto articolo che Weber dedicò al
problema del parlamentarismo e dei suoi rapporti con la democrazia di
massa. Nella democrazia di massa, spiegò, fin dai tempi di Pericle agisce
la tendenza a una selezione dei capi fondata su «mezzi demagogici», le-
gittimata da un «plebiscito» popolare, per via di una acclamazione priva
di limiti e controlli istituzionali. Nell'età moderna, tale inclinazione della
forma democratica risorge ed entra in tensione sia con il «principio par-
lamentare» sia con «il legittimismo monarchico ereditario».348 Proprio a

341. M. Weber, Parlamento e governo. Per la critica politica della burocrazia e del
sistema dei partiti, a cura di F. Fusillo, Roma-Bari, Latcrza, 1993, p. 51.
342. I~ p. 20.
343. l~P- 57.
344. l~P- 58,p. 105.
345. I~ p. 33.
346. I~ p. 102.
347. I~ p. 53.
348. l~P- 107.
96 Rivoluzioni passive

questa tendenza Weber assegnava la qualifica di cesarismo, scrutandone il


contrasto fondamentale con il parlamentarismo. In primo luogo chiamava
in causa le figure di Napoleone I e Napoleone III, assumendole come mo-
delli di due diverse figure del cesarismo, l'una militare l'altra civile: «il
capo - spiegava - può arrivare in alto seguendo la via militaristica, di dit-
tatore militare - come Napoleone I - facendo sanzionare la sua posizione
per mezzo di un plebiscito; oppure per via civile, attraverso una sanzione
plebiscitaria di un politico non militare - come Napoleone III - alla quale
si sottomette l'esercito» .349 Ricordando i casi del presidente americano e
dello stesso Bismarck, concentrava l'attenzione sull' «attuale primo mini-
stro inglese» (David Lloyd George, nominato primo ministro nel dicembre
1916, governava con l'appoggio dei conservatori e di una parte dei liberali
e dei laburisti), indicandolo come esempio di un leader politico il cui po-
tere «non si fonda affatto sulla fiducia del parlamento e dei suoi partiti, ma
sulla fiducia delle masse nel paese e dell'esercito in guerra». 350 Tuttavia-e
questa era l'osservazione decisiva il cesarismo di Lloyd George appariva
limitato e controllato dal parlamento, capace perciò di salvaguardare la
libertà contro ogni possibile abuso.
La conclusione di Weber era coerente con lo sviluppo della sua teoria
della modernizzazione. L'avvento inarrestabile della democrazia di massa
comportava l'affermazione di una tendenza cesarista ineliminabile in tutti
gli Stati moderni, come si poteva osservare nella Francia postrivoluziona-
ria (Napoleone I e Napoleone III), negli Stati Uniti e in Inghilterra. Solo
la crescita del parlamentarismo avrebbe potuto bilanciare i rischi di un
potere individuale e illimitato, fondato sullo strumento del plebiscito, e
avrebbe potuto, in particolare, evitare il pericolo supremo, che la «gabbia
d'acciaio» della burocratizzazione e del calcolo annullasse ogni spazio per
la grande politica. La tensione che Weber istituiva tra cesarismo e parla-
mentarismo era perciò massima; e nelle sue pagine il cesarismo assumeva
una fisionomia moderna e attuale, arrivando a costituire il destino politico
dei processi di modernizzazione. Le analogie con la riflessione di Gramsci
appaiono evidenti. Ma Gramsci introdusse, lungo questa medesima linea,
due novità sostanziali: in primo luogo legò (attraverso il 18 brumaio di
Marx) la fonna politica del cesarismo alla situazione di crisi organica; in
secondo luogo ne operò la connessione con la teoria delle rivoluzioni pas-

349. Jbukm.
350. lvi, p. 108.
Il bonapartismo, Stalin e Trockij 97

sive. Rispetto a Weber, dunque, la teoria del cesarismo perdeva qualsiasi


carattere "sociologico" e diventava un canone storico per la lettura dei pro-
cessi rivoluzionari dell'età borghese e di interrogazione dello stato presen-
te del mondo.

16. Il bonapartismo, Stalin e Trockij

Nel lessico dei Quaderni del carcere la formula "cesarismo" si trova


spesso accostata a quella di "bonapartismo". Anzi, "bonapartismo" (fin dal
Quaderno 1) precede l'uso di "cesarismo", la cui prima occorrenza com-
pare nella nota del Quaderno 4 su L'elemento militare in politica. 351 Fino
al Quaderno 9 Gramsci adopera ordinariamente l'espressione «cesarismo
o bonapartismo», per indicare la sostanziale identità semantica dei due ter-
mini. Dal 1932 (nello stesso periodo in cui inizia i quaderni «speciali») il
lemma "cesarismo" tende nettamente a prevalere, come si può osservare,
per limitarci a un esempio significativo, nella seconda stesura del § 27 del
Quaderno 13, dove la forma usata nella prima stesura del Quaderno 9 («il
cesarismo o bonapartismo») è ridotta a «il cesarismo». 352 Il "bonaparti-
smo" tende perciò a scomparire (rimane tuttavia, e non per caso, nella nota
del Quaderno 22 dedicata a Trockij): 353 dal maggio 1932 la coppia gemella
"cesarismo-bonapartismo" è assorbita presso che interamente nella teoria
del cesarismo. Nell'insieme, però, il significato dei due termini è molto
simile, se non coincidente, e giova dunque tenere insieme la ricostruzione
dell'unica sfera di significato che essi delimitano. 354

351. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), L pp. 819-
820 (Q4, c. 37v).
352. Gramsci, Quaderni del carcere,p. 1619 (Ql3, c. 19v), p. 1194 (Q9, c. 95r).
353. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), L pp. 790-
796 (Q4, cc. 22r-25v).
354. Burgio, Gramsci. R sistema in movimento, p. 274, distingue il significato dei due
termini, considerando il bonapartismo come «versione regressiva del cesarismo», nel senso
che, «mentre il bonapartismo è, a suo giudizio, sempre negativo (regressivo), il cesarismo
può non esserlo». Si ricordi, in proposito, che la lettura dei regimi reazionari in termini di
"bonapartismo" era stata rifiutata dal movimento comunista internazionale e spesso asso-
r
ciata al trockismo. Nel Corso sugli avversari, tenuto a Mosca tra il gennaio e aprile del
1935, Togliatti sottolineò con durezza l'errore delle interpretazioni coonapartiste,, dei fasci-
smi: «questa - affermò-è una concezione che i trotskisti hanno sempre avuto del fascismo.
Qual è la sua radice? La sua radice è il disconoscimento della definizione del fascismo come
98 Rivoluzioni passive

Di bonapartismo si parla per la prima volta, nei quaderni, nell'ultima


nota del Quaderno 1, dedicata ad «Animalità» e industrialismo. 355 La nota
sarà rielaborata nel Quaderno 22 (seconda metà del 1934), ma conviene
considerare questa prima stesura (del maggio 1930) e le significative va-
rianti che intervengono nella seconda versione. L'argomento è il processo
storico dell'«industrialismo», interpretato come un «ininterrotto» e «do-
loroso» (e «sanguinoso», aggiungerà nel Quaderno 22) «soggiogamento
degli istinti». Poiché ogni progresso dell'industria deve anche formare «un
nuovo modo di vivere», una «meccanizzazione», un conformismo socia-
le, esso genera inevitabilmente un «contraccolpo» di natura etica, come
reazione degli istinti vitali "soggiogati", che riguarda particolarmente le
«classi medie» e (nell'aggiunta del Quaderno 22) «una parte della stessa
classe dominante».356 Gramsci definisce questo «contraccolpo» dell' ele-
mento vitale come «crisi di libertinismo», pensando probabilmente alla
crisi francese dopo la morte di Luigi XIV, e ne indica come primo esempio
il dopoguerra, quando, per ragioni non legate allo sviluppo dell'industria
ma alle necessità di guerra, «si sono scatenati gli istinti sessuali, repressi
per tanti anni in grandi masse di giovani dei due sessi e resi formidabili
dalla sparizione di tanti maschi e da uno squilibrio dei sessi».357 Tuttavia
proprio la crisi bellica acuisce il contrasto «tra questo contraccolpo e le
necessità del nuovo metodo di lavoro che si va imponendo (taylorismo,
razionalizzazione)»,358 rendendo molto più difficile la necessaria opera di
modernizzazione del sistema produttivo.
L'analisi proposta da Gramsci potrebbe prestarsi a molte osservazioni
sulla genesi del fascismo e sulla affermazione dei regimi reazionari in Eu-
ropa nel periodo del dopoguerra. Ma l'aspetto più significativo è tuttavia
un altro e riguarda quella notazione, che abbiamo appena evidenziata, sulle
«classi medie» e su «una parte della stessa classe dominante». Gramsci sot-
tolinea il fatto che le «crisi di libertinismo» - definite anche, nel Quaderno
22, «illuministich[e] e libertari[e]» - toccano «le classi non manualmente

dittatura della borghesia» (P. Togliatti, Opere 1929-1935, vol 3**, a cura di E. Ragioni~
Roma, Editori Riuniti, 1973, p. 535).
355. Gramsci, Quaderni delcarcm-e. 2. Quadunimiscellanei (1929-1935), Lpp.163-
165 (Ql, cc. 99v-100v).
356. Gramsci, Quaderni del carcm-e, p. 2161 (Q22, c. 32).
357. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), L p. 164
(Ql, c. lOOr).
358. Ibidem.
Il bonapartismo, Stalin e Trockij 99

produttive» (Quaderno 1), «le classi non legate strettamente al lavoro pro-
duttivo» (Quaderno 22). In una prima approssimazione, la classe operaia
sembrerebbe dunque estranea a tale processo di degenerazione morale, se
non per il fatto che ne è toccata «sentimentalmente», «perché deprava le
loro donne». Nella seconda stesura del Quaderno 22 Gramsci rende però
più esplicita la preoccupazione che, a questo punto, attraversa l'analisi,
parlando di un "contagio" che, dai ceti improduttivi, tende a trasmettersi
anche al proletariato di fabbrica: scrive infatti che «da queste classi [medie
e improduttive, la crisi morale] viene contagiata alle classi lavoratrici».359
Il discorso sulle «crisi di libertinismo» tocca ormai la stessa classe operaia
e, più specificamente, lo Stato socialista, dove «le classi lavoratrici non su-
biscono più la pressione violenta di un'altra classe» e «la nuova abitudine
di lavoro deve essere acquisita solo per via di persuasione e di convinzio-
ne». Tuttavia è innegabile che la crisi morale, nella forma di una reazione
degli istinti vitali, si produca anche qui, nella realtà sociale e politica dove
la persuasione dovrebbe sostituire la coercizione del processo industriale.
Gramsci sottolinea che, in tale caso, la crisi diventa particolarmente grave,
perché genera «una situazione a doppio fondo», una contraddizione acuta
fra «l'ideologia "verbale"» e la «pratica "animalesca"», fino a una «gran-
de ipocrisia sociale totalitaria», dove la «virtù» viene bensì affermata ma
«non osservata né per convinzione né per coercizione». L'unica soluzione,
dove non arrivano la «persuasione» e la «convinzione», cioè il consenso
spontaneo, sarebbe «l'autodisciplina» della classe stessa («Alfieri che si fa
legare alla sedia!»). Ma cosa accade se anche «1' autodisciplina», la «coer-
cizione di nuovo tipo», non riesce a conseguire il risultato auspicato e la
crisi morale persiste? Senza possibilità di dubbio, tanto nel maggio 1930
(Quaderno 1) tanto nella seconda metà del 1934 (Quaderno 22), il discorso
di Gramsci si riferisce al processo di industriaJizzazione in Unione Sovie-
tica, con i primi piani quinquennali avviati da Stalin nel 1928 e nel 1933.
Se lo Stato socialista non riesce a convertire 1' economia del paese con la
«persuasione» o con l' «autodisciplina», si apre una prospettiva che è lecito
definire disastrosa e che, nelle parole del Quaderno 1, prevede due sole
possibilità: una soluzione esterna, cioè «un 'invasione straniera», quindi
la fine della sovranità dello Stato socialista; oppure una soluzione interna,
con il sorgere di «una qualche forma di bonapartismo». Gramsci scrive:

359. Gramsci, Quaderni del carcere,p. 2163 (Q22, c. 34).


100 Rivoluzioni passive

e se non si crea l'autodisciplina, nascerà una qualche forma di bonapartismo,


o ci sarà un'invasione stranier~ cioè si creerà la condizione di una coazione
esterna che faccia cessare d'autorità la crisi.360

L'osservazione sul «bonapartismo» chiariva in maniera esemplare il


contenuto della famosa lettera al comitato centrale del partito russo dell' ot-
tobre 1926.361 Il gigantesco sforzo "tayloristico" dell'economia sovietica
generava una crisi morale della nazione, un pericoloso distacco tra le élites
dirigenti e le masse, nel quale poteva incunearsi il rischio di una catastrofe
militare (1' «invasione») o di una soluzione autoritaria di tipo "bonaparti-
sta". Nella seconda stesura del Quaderno 22 Gramsci modificò in maniera
sostanziale la conclusione della nota, eliminando quella frase e sostituen-
dola con queste parole:
la crisi può diventare «permanente», cioè a prospettiva catastrofica, poiché
solo la coercizione potrà definirla, una coercizione di nuovo tipo, in quanto
esercitata dalla élite di una classe sulla propria classe, non può essere che
un'autocoercizione, cioè un'autodisciplina. (Alfieri che si fa legare alla se-
dia). In ogni caso, ciò che si può opporre a questa :funzione delle élites è
la mentalità illuministica e libertaria nella sfera dei rapporti sessuali; lottare
contro questa concezione significa poi appunto creare le élites necessarie al
compito storico, o almeno svilupparle perché la loro :funzione si estenda a
tutte le sfere dell'attività umana.362
Gramsci aveva soppresso, dunque, i riferimenti all' «invasione» e al
«bonapartismo», parlando piuttosto della necessità di «creare le élites neces-
sarie al compito storico», affinché la coercizione (il «soggiogamento degli
istinti»), inevitabile nel processo di industrializzazione, assumesse la forma
dell' «autodisciplina» e non quella di una esterna coercizione. Cambiavano,
dunque, le parole, ma non mutava la direzione generale del discorso e, in ge-
nerale, la preoccupazione che la crisi morale diventasse l'occasione per una
soluzione di tipo autoritario. La conclusione del Quaderno 1 venne soppressa
sia perché, nel 1934, non sembrava più attuale la prospettiva dell' «invasione
straniera» sia perché, come vedremo, la meditazione sul bonapartismo aveva
preso un 'altra strada, che conduceva al nodo delle rivoluzioni passive.

360. Gramsc~ Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935),. L p. 165


(Ql.. c. 100v).
361. Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926,. a cura di C. Daniele..
Torino,. Einaud~ 1999, pp. 404-412.
362. Gramsc~ Quaderni del carcere, pp. 2163-2164 (Q22, c. 35).
Il bonapartismo, Stalin e Trockij 101

La prima occorrenza del lemma "bonapartismo" rinvia a numerosi


altri luoghi dei quaderni e richiederebbe un esame completo del giudizio
sull 'Urss e sulla sua (non lineare) evoluzione. 363 La questione riguarda
anzi tutto Trockij, perché in una nota della miscellanea del Quaderno 4,
databile al novembre 1930, Gramsci osservò che «la tendenza di Leone
Davidovi [Trockij]» era costituita dalla «"volontà"» di dare «supremazia
all'industria» e di «accelerare con mezzi coercitivi la disciplina e l'ordi-
ne nella produzione, di adeguare i costumi alle necessità del lavoro». 364
E aggiunse che fu necessario «spezzar[e] inesorabilmente» quella posi-
zione, che generava uno «squilibrio tra pratica e teoria» e riproduceva lo
stesso pericolo che «si era manifestato già precedentemente, nel 1921»,
cioè nel momento in cui Lenin aveva inaugurato la Nep e superato le con-
traddizioni del "comunismo di guerra". Ma soprattutto osservava che la
politica auspicata da Trockij, se applicata con il rigore che veniva richie-
sto, «sarebbe sboccata necessariamente in una forma di bonapartismo».
Come si vede, la struttura dell'analisi era analoga a quella illustrata nel
Quaderno 1. Anche in questo caso si accennava al «contraccolpo» di una
industrializzazione forzosa, alla prevedibile reazione degli istinti vita-
li, al «doppio fondo» tra teoria e pratica e alla possibile (quanto, per
Gramsci, deprecabile e catastrofica) soluzione della crisi morale in termi-
ni di "bonapartismo". Le novità riguardavano, naturalmente, il riferimen-
to a Trockij e il richiamo alla svolta leniniana del 1921, indicata come
esempio e modello di una saggia politica di modernizzazione. È chiaro
che, nella mente di Gramsci, c'era un nesso essenziale tra le posizioni
dei due grandi nemici dell'età post leniniana, tra la visione "militare" di
Trockij e 1'esito autoritario di Stalin; non solo perché Stalin, in una di-
scorde armonia, riprendeva quei progetti di industrializzazione accelera-
ta, ma perché l'uno aveva spianato la strada all'altro, creando le condi-
zioni nelle quali la soluzione "bonapartista" aveva potuto affermarsi. La
lotta contro il trockismo, che anche Gramsci aveva sostenuto tra il 1924
e il 1926, era del tutto coerente, perciò, con l'avversione per qualsiasi
forma di bonapartismo.

363. S. Pons, Gramsci e la Rivoluzione russa: una riconsiderazione (1917-1935), in


Egemonia e modernità. Gramsci in Italia e nella cultura internazionale, a cura di F. Frosini
e F. Giasi, Roma, Viella, 2019, pp. 19-65.
364. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), I, p. 790
(Ql, c. 22r).
102 Rivoluzioni passive

17. Il cesarismo come forma politica delle rivoluzioni passive

La prima accezione di "bonapartismo", legata al rischio autoritario


dello Stato socialista, si allargò gradatamente nel concetto di "cesarismo",
inteso ormai, in un senso più generale, come forma politica dei processi di
modernizzazione. Quel primo significato venne piuttosto condensato nella
fonnula di "cesarismo progressivo": ma anche in tale caso, come vedremo,
non mancarono oscillazioni e ripensamenti. L'inizio di questa elaborazio-
ne può essere indicato in un passaggio della nota del Quaderno 2 dedicata
ali' articolo di Robert Michels, dove Gramsci, discutendo la definizione di
«partiti "carismatici"» («di tali partiti - scriveva - non se n'è mai visti»),
introduceva la relazione tra l'emergere di «personalità più o meno eccezio-
nali» e «certi momenti di anarchia permanente», determinati come «equili-
brio statico delle forze in lotta», quando «un uomo rappresenta l "'ordine",
cioè la rottura con mezzi eccezionali dell'equilibrio mortale». 365 Il proble-
ma non era dunque, come Michels aveva equivocato, la struttura del par-
tito carismatico, ma una particolare figura della crisi, caratterizzata da un
«equilibrio statico» nella dialettica dei gruppi sociali fondamentali e da un
emergere in primo piano delle classi parassitarie, delle «"pecore idrofobe"
della piccola borghesia». Il rapporto, qui enucleato, tra equilibrio delle for-
ze e personalità individuale (che prenderà poi il nome di "cesare") inau-
gurava quella teoria della crisi ("organica", in termini di egemonia) che
costituisce uno degli assi portanti di tutta la trama dei quaderni. Gramsci
delineò, nelle note successive, diverse formulazioni dell' «equilibrio stati-
co», sempre concepito come base reale della soluzione ''provvidenziale".
Nel Quaderno 3 (quando ancora, giova ricordarlo, il lemma "cesarismo"
non era stato introdotto) egli ripensava il medesimo problema delle «crisi
di libertinismo», messo a fuoco nel primo quaderno, come «crisi moder-
na», «ondata di materialismo», «crisi di autorità», e ne scorgeva l'esito in
una forma di «scetticismo diffuso». Ma soprattutto spiegava la decadenza
morale della modernità con la perdita di consenso della classe dominante -
che, scriveva, «non è più "dirigente", ma unicamente "dominante", deten-
trice della pura forza coercitiva» - e, con un passo ulteriore, riportava que-
sta crisi di egemonia delle classi dirigenti al distacco delle «grandi masse»
dalle «ideologie tradizionali»: la crisi - precisava in un brano giustamente
celebre - consiste nel fatto «che il vecchio muore e il nuovo non può na-

365. lvi, p. 349 (Q2, c. 55v).


Il cesarismo come forma politica delle rivoluzioni passive 103

scere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati».366


Gramsci definiva, perciò, la categoria di «interregno», inteso come la si-
tuazione storica in cui l'egemonia degrada in dominio e il senso comune
abbandona il terreno ideologico tradizionale. L'esempio capitale dello stato
di «interregno» veniva indicato nel dopoguerra, quando tra «masse popola-
ri» e «ideologie dominanti» si era aperta una scissione «grave», che tuttavia
non venne riempita da un nuovo discorso egemonico e da una più matu-
ra concezione del mondo. Con una notazione conclusiva, giungeva però
a escludere che la crisi di «interregno» potesse risolversi per necessità «a
favore della restaurazione del vecchio» ordine. Al contrario, l' «interregno»
era tale proprio in quanto né la classe dominante riusciva a ripristinare la
situazione precedente (imponendo, per così dire, la sua visione del mondo
alle masse popolari) né la forza di progresso manifestava la maturità per
operare quel "salto'' in un mondo nuovo. In altri termini, la classe dirigente
poteva bensì esercitare il dominio sul terreno politico-statuale, ma in nessun
caso poteva riaffermare la propria egemonia, vincendo la battaglia sul terre-
no ideologico. Né l'una né l'altra delle forze fondamentali aveva dunque la
possibilità di prevalere sul piano egemonico: il risultato era perciò lo «scet-
ticismo diffuso», il «materialismo» popolare, la mancanza di una qualsiasi
visione del mondo, il retrocedere del senso comune nell'ordine immediato
della struttura (la «riduzione all'economia e alla politica», la <<riduzione
delle superstrutture più elevate a quelle più aderenti alla struttura»), alla
pura dimensione economica. In tale «interregno» (che noi, dopo Nietzsche,
potremmo definire una forma peculiare di "nichilismo", cioè di svalutazio-
ne dei valori), Gramsci scorgeva anche il principio di un progresso («si for-
mano le condizioni più favorevoli per un'espansione inaudita del materiali-
smo storico»): nel significato determinato per cui, svuotato il senso comune
dell'antico apparato ideologico, negato "scetticamente" il vecchio ordine di
valori, ricondotta la vita alla semplice sfera economica dell'utile, diventava
necessaria la «formazione di una nuova cultura», ossia il passaggio "catar-
tico" alla creazione di superstrutture complesse e più elevate. Rimaneva il
fatto, però, che la modernità era entrata nell'epoca dell'«interregno», della
negazione scettica dei valori, e che lo stesso marxismo partecipava, nella
figura elementare e rozza del materialismo volgare (la sua «povertà inizia-
le»), dei termini fondamentali della crisi, senza riuscire a cogliere il filo di
una ricostruzione in chiave egemonica.

366. Ivi, p. 311 (Q3, c. 17v).


104 Rivoluzioni passive

Nella miscellanea del Quaderno 4 Gramsci approfondì ulteriormente l'a-


nalisi della crisi, chiamando in causa, questa volta, gli «uomini provvidenziali
e carismatici» (ma si ricordi che due fogli prima, alla carta 37v, aveva già
introdotto il termine "cesarismo"). Rielaborando questa nota, nel Quaderno
13, ne svolse ulteriormente alcuni aspetti e la legò a quanto aveva scritto,
su temi analoghi, nello stesso Quaderno 4 e nei Quaderni 7 e 9. Inoltre vi
aggiunse il riferimento al 18 brumaio di Marx, che costituiva la base di tutta
la riflessione. La «crisi organica» (secondo la fonnulazione del Quaderno 13)
era definita come distacco fra «partiti tradizionali» e «gruppi sociali», come
crisi, dunque, di espressione e di rappresentanza: «a un certo punto della loro
vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti
tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini
che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono più riconosciuti
come loro espressione dalla loro classe o frazione di classe». 367 Come sap-
piamo dal Quaderno 3 (ed è una circostanza da tenere presente), la «crisi di
egemonia della classe dirigente», 368 o «crisi organica», è strettamente connes-
sa a una crisi morale, nel senso che i ceti dominanti perdono la capacità di
rappresentare il gruppo sociale perché le masse abbandonano, "scetticamen-
te", la visione del mondo di cui essi sono portatori. La crisi, insomma, trae
origine da un crollo dell'apparato ideologico. In tale situazione si rafforzano
«in modo formidabile»369 tutti «gli organismi relativamente indipendenti dalle
fluttuazioni dell'opinione pubblica»,370 a cominciare dalla burocrazia civile e
militare, ma anche l'alta finanza, la Chiesa e così via. Nella fonnulazione più
matura del Quaderno 13 Gramsci precisò ulteriormente la genesi della crisi
indicandone in forma dialettica («o perché ... o perché») due cause generali:
da un lato il fallimento di una «grande impresa politica», come nel caso del-
la guerra; d'altro lato perché «vaste masse», come contadini e intellettuali,
irrompono nella scena politica, escono dalla passività e spezzano il confine
élitario del vecchio Stato liberale. A differenza delle crisi di tipo tradizionale,
che possono trovare una composizione dinamica sul terreno della struttura,
la crisi organica è «la crisi più delicata e pericolosa»,371 proprio per il fatto

367. Gramsc~ Quaderni del carcere, pp. 1602-1603 (Q13, c. 14v).


368. lvi, p. 1603 (Q13, c. 14v).
369. Gramsc~ Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), L p. 822
(Q4, c. 39r).
370. Gramsc~ Quaderni del carcere, p. 1603 (Q13, c. 14v).
371. Gramsc~ Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), L p. 822
(Q4, c. 39r).
Il cesarismo come forma politica delle rivoluzioni passive 105

che «il campo è aperto alle soluzioni di forza, all'attività di potenze oscure
rappresentate dagli uomini provvidenziali e carismatici».372 Guardando all 'a-
nalisi di Marx, Gramsci distingueva con cura due esiti possibili. Da un lato
la «soluzione organica», quando la classe dirigente risponde alla crisi di ege-
monia in termini di puro dominio, unificando «sotto la bandiera di un partito
unico» tutte le frazioni del proprio gruppo sociale, "schiaccia" l'avversario
di classe e ne disperde il personale di direzione. Quando questo accade, la
borghesia "domina" la società civile, senza esprimere più alcuna capacità
egemonica, senza poggiare su alcuna visione del mondo condivisa. È il re-
gime della pura forza. Ma questa «soluzione organica» può non riuscire, la
borghesia può non trovare la rapidità e l'energia per unirsi nella roccaforte
del potere politico e può fallire la conversione dell'egemonia nel dominio.
Perciò si determina un «equilibrio statico», dove la lotta di classe rimane
bloccata e nessun gruppo sociale è in grado di esercitare la funzione di ege-
monia o quella di dominio. Tutte le risorse politiche (il consenso, la forza, la
"golpe" e il "lione") appaiono fuori gioco, inutilizzabili, ed emerge la figura
arbitrale del capo carismatico, dell'individuo provvidenziale, del cesare, che
di fatto non appartiene alle forze fondamentali ma si appoggia sulla base
sociale di quei ceti che sono rimasti emarginati dallo sviluppo dell'industria:
quando la crisi non trova questa soluzione organica, ma quella del capo cari-
smatico, significa che esiste un equilibrio statico (i cui fattori possono essere
disparati, ma in cui prevale l'immaturità delle forze progressive) che nessun
gruppo, né quello conservativo né quello progressivo, ha la forza necessaria
alla vittoria e che anche il gruppo conservativo ha bisogno di un padrone.373

Con la nota del Quaderno 4 Sui partiti Gramsci aveva ormai stabilito il
nesso essenziale fra crisi organica e cesarismo. È in due testi del Quaderno
9, tuttavia, entrambi intitolati Machiavelli. Il cesarismo, che la questione
trovò la definizione più stringente e matura, poi ripresa in alcune pagine
fondamentali del Quaderno 13. Il cesarismo (riferito storicamente a perso-
naggi come Cesare, Napoleone I, Napoleone III, Cromwell) veniva infatti
legato non solo a una situazione di equilibrio «statico» ma propriamente
«catastrofico», nella quale, cioè, «la continuazione della lotta non può con-
cludersi che con la distruzione reciproca». 374 La prospettiva catastrofica del

372. Gramsc~ Quaderni d~l carce~,P- 1603 (Q13, c. 14v).


373. I~ p. 1604 (Q13, c. 15r).
374. I~ p. 1194 (Q9, c. 95v).
106 Rivoluzioni passive

conflitto apre pertanto la strada alla «grande personalità» che esercita una
«soluzione arbitrale», non rappresentando, come tale, né l'una né l'altra
delle forze sociali fondamentali. Ma il «significato storico» del cesarismo
meritava di essere precisato in senso dinamico, perché, spiegava Gramsci,
«ci può essere un cesarismo progressivo e un cesarismo regressivo»: il pri-
mo quando la personalità arbitrale «aiuta la forza progressiva», il secondo
quando, al contrario, «aiuta a trionfare la forza regressiva». Gramsci non
aveva dubbi nel classificare Cesare e Napoleone I come esempi di cesari-
smo progressivo e Bismarck come modello di un cesarismo regressivo. Le
difficoltà maggiori intervenivano a proposito di Napoleone III, quindi nella
lettura stessa del testo di Marx. Nelle due note del Quaderno 9 (senza che
la situazione venisse sanata nella seconda stesura del Quaderno 13) la con-
traddizione appariva evidente: in un primo momento affermava con sicu-
rezza che Napoleone III, con Bismarck e anzi prima di Bismarck, doveva
essere considerato come esempio principale di cesarismo regressivo; 375 ma
due fogli dopo, approfondendo l'analisi lungo la linea segnata da Marx,
rovesciava il proprio giudizio, dichiarando «obbiettivamente progressivo»
il cesarismo di Napoleone III, «sebbene non come quello di Cesare e di
Napoleone l».376 Scriveva infatti queste parole:
la forza dominante in Francia dal 1815 al 1848, si era scissa politicamente
in quattro frazioni: quella legittimista, quella orleanista, quella bonapartista,
quella repubblicano-giacobina Le lotte interne di frazione erano tali da rendere
possibile l'avanzata della fomt antagonista B (progressista) in fonna «preco-
ce»; tuttavia la forma sociale esistente non aveva ancora esaurito le sue possi-
bilità di sviluppo, come infatti la storia successiva mostrò abbondantemente.
Napoleone m rappresentò (a suo modo, cioè secondo la statura dell'uomo che
non era grande) queste possibilità latenti o immanenti; il suo cesarismo dunque
è ancora di un tipo particolare. È obbiettivamente progressivo, sebbene non
come quello di Cesare e di Napoleone I. Il cesarismo di Cesare e di Napoleone
I è stato, per così dire, di carattere quantitativo-qualitativo, ha cioè rappresen-
tato la fase storica di passaggio da un tipo di Stato a un al1ro tipo, un passaggio
in cui le innovazioni furono tante quantitativamente e tali, da rappresentare
un completo rivolgimento qualitativo. Il cesarismo di Napoleone m fu solo e
limitatamente quantitativo; non ci fu passaggio da un tipo di Stato ad un altro
tipo, ma solo «evoluzione» dello stesso tipo, secondo una linea ininterrotta. 377

315. lbidt2m.
376. Ivi. p. 1198 (Q9. c. 97v).
311.lbidt2m.
Il cesarismo come forma politica delle rivoluzioni passive 107

Tornando con maggiore respiro sulla figura di Napoleone III, Gramsci


intersecava il 18 brumaio con la prefazione a Per la critica dell'economia
politica. Da questo testo, come sappiamo, aveva tratto i due princìpi fonda-
mentali della formazione delle volontà collettive, per cui «la società non si
pone problemi per la cui soluzione non esistano già le premesse materiali»
e, soprattutto, «nessuna forma di società sparisce prima di aver esaurito
tutte le sue possibilità di sviluppo». Il cesarismo di Napoleone III poteva
essere interpretato alla luce del secondo principio: la borghesia era inca-
pace di conservare il potere, ma, nello stesso tempo, la sua forma sociale
«non aveva ancora esaurito le sue possibilità di sviluppo». Luigi Bonaparte
assicurò, dunque, lo sviluppo del modello borghese in assenza della fun-
zione dirigente del gruppo sociale, permettendo una ulteriore maturazione
del processo storico. Per questo, la sua opera fu solo «quantitativa», perché
non mutò la forma sociale né la forma di Stato, ma si limitò a garantire,
«secondo una linea ininterrotta», l' «evoluzione» del sistema dato.
Il ripensamento sulla figura di Napoleone III (che apriva una notevole
complicazione nella lettura del testo di Marx) aveva conseguenze impre-
vedibili nell'interpretazione generale del cesarismo, che non tardarono a
manifestarsi. Nella stessa nota del Quaderno 9 in cui "riabilitava" la figura
di Luigi Bonaparte, definendolo «obbiettivamente progressivo», Gramsci
osservava che «nel mondo moderno» i fenomeni di cesarismo appaiono
radicalmente diversi da quelli del passato, per quanto, aggiungeva, rispetto
agli esempi di Cesare e Napoleone I, «si avvicinino» di più al caso di Na-
poleone III. Con un lessico hegeliano, concludeva che «il cesarismo mo-
derno più che militare è poliziesco»: non si manifesta cioè con una azione
improvvisa degli stati maggiori dell'esercito, con «colpi di Stato»,378 ma
attraverso un «processo molecolare»,3 79 che penetra nel corpo della società
civile e favorisce, in una situazione di equilibrio altrimenti catastrofico,
le «possibilità marginali di ulteriore sviluppo»380 della forma sociale. La
rilettura del cesarismo come «processo molecolare» (poliziesco e non mi-
litare) implicava, nel Quaderno 14 (siamo nel gennaio 1933), anche un
approfondimento decisivo del concetto di «equilibrio», che assumeva un
velato aspetto di autocritica. Gramsci segnalava, infatti, un «errore di me-
todo» nell'analisi del cesarismo («un aspetto - scriveva - del meccanici-

378. I~ p. 1195 (Q9~ c. 96r).


379. l~P- 1198(Q9~c. 97v).
380. I~ p. 1198 (Q9~ c. 98r).
108 Rivoluzioni passive

smo sociologico»), consistente nell'analisi dell'equilibrio solo in termini


di «equilibrio delle forze "fondamentali"» (borghesia e proletariato). Lo
sguardo doveva essere rivolto, invece, alle relazioni egemoniche, al rap-
porto fra i gruppi fondamentali e «le forze ausiliarie guidate o sottoposte
all'influenza egemonica». 381 Al centro della situazione di equilibrio, ge-
neratrice delle soluzioni cesariste, non era dunque il rapporto di forza tra
borghesia e proletariato, ma quello molteplice dei diversi gruppi sociali fra
loro alleati. L'esempio dell'affare Dreyfus (il quale «ha impedito l'avvento
di un cesarismo che si stava preparando, di carattere nettamente reazio-
nario»), con la disarticolazione di due elementi del blocco sociale domi-
nante e l'alleanza di quello più progressivo con il riformismo socialista,
dimostrava la complessità estrema delle fasi di equilibrio, il cui risultato
non può essere definito né rivoluzione né reazione, ma relativo spostamen-
to progressivo, un passo avanti, insomma, nel processo molecolare della
guerra di posizione. Alla condizione di equilibrio - non più statico, come
si vede, né catastrofico - corrispondeva un progresso relativo ma solido,
con la capacità di arrestare la situazione reazionaria e, al tempo stesso, di
garantire lo sviluppo ulteriore della forma sociale:
del tipo Dreyfus - scriveva Gramsci - troviamo altri movimenti storico-po-
litici moderni, che non sono certo rivoluzioni, ma non sono completamente
reazioni, nel senso almeno che anche nel campo dominante spezzano cri-
stallizzazioni statali soffocanti, e immettono nella vita dello Stato e nelle
attività sociali un personale diverso e più numeroso di quello precedente:
anche questi movimenti possono avere un contenuto relativamente «progres-
sivo» in quanto indicano che nella vecchia società erano latenti forze operose
non sapute sfruttare dai vecchi dirigenti, sia pure «forze marginali», ma non
assolutamente progressive, in quanto non possono «fare epoca». Sono rese
storicamente efficienti dalla debolezza costruttiva dell'antagonista, non da
una intima forza propria, e quindi sono legate a una situazione determinata di
equilibrio delle forze in lotta, ambedue incapaci nel proprio campo a esprime-
re una volontà ricostruttiva in proprio.382
L'intera teoria del cesarismo tendeva perciò a cambiare volto e in-
contrava due linee fondamentali della riflessione di Gramsci: le rivolu-
zioni passive e la guerra di posizione. Il passaggio accadeva nel preciso
momento in cui il cesarismo veniva svincolato dalla figura dell'individuo

381. lvi, p. 1680 (Q14, c. 12v).


382. lvi, p. 1681 (Ql4, cc. 12v-13r).
Il cesarismo come forma politica delle rivoluzioni passive 109

carismatico e si affermava la singolare categoria del «cesarismo senza ce-


sare». Fino a quando il cesarismo era concepito in termini di affermazione
della personalità provvidenziale, restava impossibile scorgerne il carattere
di forma politica della modernità. Per comprendere questo passaggio, è op-
portuno tornare brevemente sulla lettura gramsciana di Machiavelli e sulla
genesi del ''moderno principe". La questione (che sarà ripresa e sviluppata
nel Quaderno 13) era stata enucleata nel Quaderno 8, dove Gramsci aveva
osservato che il principe moderno, a differenza di quello rappresentato da
Machiavelli, non può essere «un individuo concreto», ma «può essere solo
un organismo, un elemento sociale nel quale già abbia inizio il concretarsi
di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell'a-
zione»; ma questo «organismo», aveva aggiunto, «è già dato dallo svilup-
po storico ed è il partito politico». 383 A partire da questa posizione, aveva
ridefinito la funzione dell'individuo nel processo storico moderno, ridi-
mensionandone il «carattere carismatico» a quei momenti straordinari di
«grande pericolo imminente», quando è necessario «un procedimento rapi-
do e fulmineo», nel mezzo di passioni fanatiche e arroventate. La politica
degenera, per così dire, in una condizione di immediatezza, si annebbiano
le molteplici mediazioni della società civile, la modernità stessa smarrisce
il suo tratto essenziale: una situazione, quella in cui il condottiero cari-
smatico assume le redini del potere, «di tipo "difensivo" e non creativo»,
«del tipo restaurazione», perché qui non è possibile alcuna «fondazione di
nuovi Stati», nessuna azione di vasto respiro e di carattere organico; una
situazione che si determina quando la volontà collettiva è dispersa, fram-
mentata e snervata e occorre raccoglierla di nuovo e renderla più robusta.
Come si vede, nell'analisi di Gramsci l '«individuo concreto», provviden-
ziale e carismatico, non ha una funzione rivoluzionaria né una collocazione
pensabile nella transizione a un nuovo ordine: è soltanto figlio di una crisi
radicale delle classi dirigenti, di una perdita di unità e di rappresentatività
del gruppo dominante. Il potere carismatico insomma (cesarismo o bona-
partismo) è come il residuo passivo di un mondo antico e superato, che
risorge, in forme anacronistiche, quando tutto il tessuto civile della moder-
nità precipita di fronte alla sporgenza di un pericolo improvviso.
Ma le cose cambiano, in maniera significativa, quando il fenomeno del
cesarismo è separato dalla presenza dell '«individuo concreto», della figura
provvidenziale e carismatica, e ricondotto nell'ordine moderno di una poli-

383. Ivi, PP- 951-952 (Q8ll cc. 9v-10r).


110 Rivoluzioni passive

tica articolata negli organismi e nei soggetti collettivi. La novità interviene,


in maniera abbastanza improvvisa, nel Quaderno 9, dove Gramsci afferma
che «si può avere "soluzione cesarista" anche senza un cesare, senza una
grande personalità "eroica" e rappresentativa».384 E indica nei governi di
coalizione - i governi di Mac Donald e quelli italiani tra il 1922 e il 1926
-, cioè governi che raccolgono in una sola maggioranza le forze politiche
antagoniste, un esempio di cesarismo senza un cesare: «ogni governo di
coalizione è un grado iniziale di cesarismo, che può o non può svilupparsi
fino ai gradi più significativi». 385 Le due possibilità di sviluppo corrispon-
dono perfettamente ai due esempi proposti - Mussolini e Mac Donald -,
quindi indicano l'evoluzione del «cesarismo senza un cesare» in una solu-
zione apertamente reazionaria o in un ripristino della situazione preceden-
te. Tuttavia l'immagine del cesarismo, liberata dall'ipoteca dell'individuo
provvidenziale, tendeva ormai a unificarsi con la pratica del trasformismo,
che Gramsci aveva precisato nello studio del Risorgimento italiano e aveva
indicato, nella miscellanea del Quaderno 8, come «una delle forme stori-
che» delle rivoluzioni passive.386 Proprio in tale fisionomia non dunque
in quella del potere carismatico individuale, ma in quella di un cesarismo
trasformistico e senza diretta presenza personale - arrivava così a determi-
nare la forma politica più caratteristica delle rivoluzioni passive.387

18. La guerra di posizione

In due note di stesura unica del Quaderno 15 (marzo-aprile 1933), in-


cluse in una serie di 14 scritti sotto il titolo di rubrica Machiavelli, Gramsci
introdusse una complicazione di rilievo nel discorso sulle rivoluzioni pas-
sive. La novità principale (largamente preparata, come vedremo, nei qua-
derni precedenti) consisteva nell'equazione stabilita, dapprima in maniera
problematica poi con sempre maggiore assertività, tra le rivoluzioni passi-

384. Ivi, p. 1195 (Q9, c. 95v).


385.lbidem (Q9, c. 96r).
386. lvi, p. 962 (Q8, c. 15r).
387. La tesi di C. Buci-Glucksmann, Gramsci e lo Stato. Per una teoria materialistica
della.filosofia. Roma, Editori Riuniti, 1976, pp. 363-367 secondo la quale Gramsci sarebbe
11

passato «dal concetto di cesarismo al concetto di Hrivoluzione passiva» (ivi, p. 367), ab-
bandonando la categoria di cesarism.0 deve dunque essere corretta, perché tra rivoluzione
11

passiva e cesarismo si stabilisce nei quaderni una stretta connessione.


La guerra di posizione 111

ve e il concetto di "guerra di posizione". Così, dopo avere determinato il


rapporto con il cesarismo, un altro aspetto capitale della teoria dell' egemo-
nia giungeva a innestarsi nel dossier sulle rivoluzioni passive.
Inizialmente la questione apparve nella forma di una domanda, come
la traccia ipotetica per una ricerca da compiere. Gramsci si chiedeva se il
concetto di rivoluzione passiva, «nel senso di Vincenzo Cuoco», «può esse-
re messo in rapporto col concetto di "guerra di posizione" in confronto alla
guerra manovrata».388 Dopo avere ricordato il nucleo essenziale della sua ela-
borazione (la relazione tra il binomio Proudhon-Gioberti e il 1793, quella tra
il sorellismo e il 1871 ), ripeteva la medesima domanda in uno stile più diretto:
«esiste una identità assoluta tra guerra di posizione e rivoluzione passiva?».389
Nell'ipotesi qui formulata non si trattava di una semplice analogia o, per così
dire, di una "affinità di famiglia", ma di una «identità assoluta», di una equi-
valenza di significato e di una sinonimia tra i due termini. Occorreva verifica-
re se ''rivoluzione passiva" e "guerra di posizione" dicessero, in sostanza, la
stessa cosa, confluissero in un unico pensiero, anche se la ricerca che aveva
condotto a enucleare il principio dei due termini era stata diversa ed era cor-
sa parallela nelle pagine dei quaderni. È necessario comprendere, aggiunse
qualche linea dopo, se esiste «tutto un periodo storico in cui i due concetti
si debbano identificare».390 Per chiarire a quale «periodo storico» alludeva,
spiegò che il ragionamento presupponeva che le «Restaurazioni» devono es-
sere considerate in modo «dinamico», non come un ripristino dello status quo
ante, ma come una specie di «"astuzia della provvidenza" in senso vichiano»:
come rivoluzioni, appunto, sia pure nel senso ''passivo'' e non in quello di una
affermazione perentoria e creativa del popolo-nazione.
La questione dell' «identità» tra rivoluzioni passive e guerra di posi-
zione permetteva a Gramsci di svolgere un approfondimento decisivo della
teoria dell'egemonia, stringendo la relazione analitica tra i due concetti e
indicando, sul piano strategico, il carattere differenziale del nuovo proces-
so rivoluzionario. Come aveva scritto nel Quaderno 13, «non si può sce-
gliere la forma di guerra che si vuole»:391 la guerra di posizione rappresenta
un «dato epocale»,392 un risultato oggettivo e irreversibile della vicenda

388. Gramsci, Quaderni del carcere,p. 1766 (Ql5, c. 9r).


389. Ibidem (Ql5, c. 9v).
390. Ivi, pp. 1766-1767 (Ql5, c. 9v).
391. Ivi, p. 1614 (Ql3, c. 18r)
392. Francioni, L 'offici11a gramsciana, p. 215. Osservazioni analoghe in Frosini, Ri-
voluzione passiva e laboratorio politico, p. 31 O.
112 Rivoluzioni passive

storica, in quanto la borghesia, nel suo ciclo rivoluzionario, ha trasforma-


to la propria guerra di movimento in guerra di posizione e ha cercato di
«neutralizzare l'avversario non con lo scontro :frontale, ma con la strategia
della rivoluzione passiva».393 La guerra di posizione rappresenta il metodo
politico delle rivoluzioni passive e dei processi di modernizzazione che il
movimento operaio non può che accettare come proprio terreno di conflit-
to. L' «identità assoluta» evocata da Gramsci indica perciò una relazione
biunivoca e, per così dire, non reversibile: da un lato la rivoluzione passiva
ha sempre il carattere della guerra di posizione, perché ne costituisce la
genesi; d'altro lato, non ogni guerra di posizione è una rivoluzione passiva.
Come è stato osservato, tra la guerra di posizione borghese e quella operaia
esiste una «dissimmetria», al punto che il processo egemonico del proleta-
riato può essere definito come «anti-rivoluzione passiva».394
Per avvicinare la risposta alla domanda sull'«identità assoluta»,
Gramsci tornò sul caso esemplare del Risorgimento italiano, presentan-
do Cavour come l'esponente della «rivoluzione passiva-guerra di posizio-
ne» (onnai identificate nell'analisi storica) e Mazzini, al contrario, del-
1' «iniziativa popolare-guerra manovrata» o, per dire meglio, della guerra
manovrata nel «periodo storico» di una rivoluzione passiva. La tattica de-
mocratica dell'attacco :frontale appariva pertanto anacronistica, destinata
alla sconfitta, perché praticata in un periodo (la rivoluzione passiva) carat-
terizzato dalla guerra di posizione. Gramsci segnò con precisione la diffe-
renza fra i due metodi nel principio della coscienza, attribuendo a Cavour la
consapevolezza del compito dell'avversario e a Mazzini, invece, l'assenza
di tale consapevolezza. Che era bensì una notazione storica, relativa alle
figure dei due protagonisti del Risorgimento, ma anche una penetrante os-
servazione teorica, che assegnava alla guerra di posizione il carattere della
comprensione dell'avversario politico, l'ufficio di una superiore opera di
mediazione, all'altezza del livello conseguito dalla moderna società civile.
Infatti, poche righe dopo, Gramsci proponeva di generalizzare l'esempio,
perché spiegava «in ogni evento storico si verificano quasi sempre
situazioni simili»; e da ciò, aggiungeva, si può trarre «qualche principio

393. Franci~ l'officina gramsciana, p. 215.


394. C. Buci-Glucksmann, Sui problemi politici della transizione: classe operaia e
rivoluzione passiva, in Rivoluzione passiva. Antologia di studi gramsciani, pp. 85-112. Il
carattere duplice delle categorie gramsciane era stato segnalato da F. De Felice, Rivoluzio-
nll passiva, fascismo, ameicanismo in Gramsci, in Id., Il presente come storia, a cura di
G. Sorgonà e E. Tavi~ Roma, Carocci, 2016, p. 366.
La guerra di posizione 113

generale di scienza e arte politica» .395 Il «principio generale» asseriva che,


nell'epoca delle rivoluzioni passive, la guerra di posizione rappresenta il
metodo politico adeguato e che essa implica la coscienza del compito sto-
rico dell'avversario. Di conseguenza, se Mazzini «non fosse stato Mazzi-
ni», avrebbe abbandonato l'illusione della guerra di movimento e sarebbe
entrato nel medesimo terreno dei moderati, cercando di comprenderne le
ragioni e instaurando, con essi, una guerra di posizione. In questo modo,
concludeva, avrebbe conseguito «un risultato più avanzato, su una linea di
maggiore progresso e modernità». 396
Il principio della coscienza, che rappresenta la chiave di questa con-
siderazione del rapporto Cavour-Mazzini (e dunque del passaggio dalla
guerra di movimento alla guerra di posizione nelle epoche di rivoluzione
passiva), veniva tradotto nella pratica politica nel fenomeno del «trasfor-
mismo», che, osservava Gramsci, non è stato ancora messo in luce «come
forma di sviluppo storico».397 Nella stessa misura in cui i moderati sono
consapevoli del compito dell'avversario, essi producono, sul piano politico,
quelle «modificazioni molecolari» che consentono di «liquida[re] il neo-
guelfismo da una parte e dall'altra impover[ire] il movimento mazziniano».
Nella prospettiva del passaggio dalla guerra di movimento alla guerra di
posizione, anche il trasformismo, dunque, era interpretato come «forma di
sviluppo storico», come processo di modernizzazione nel contesto di una
rivoluzione passiva. Nelle rivoluzioni passive, aggiungeva Gramsci, il mo-
vimento insurrezionale di masse è «riassunto dalle forze tradizionali orga-
niche, cioè dai partiti formati di lunga mano, con elaborazione razionale dei
capi ecc.». 398 La parola-chiave di questo brano è «riassunto»: cioè assorbi-
to, assimilato, ricompreso negli ordini di una rivoluzione passiva. I «partiti
formati di lunga mano» sono quelli capaci di esprimere i gruppi sociali, di
mantenere una dimensione rappresentativa, quindi di condurre la guerra di
posizione, acquistando la «consapevolezza del compito dell'altra parte».
Alla domanda posta all'inizio - se «esiste una identità assoluta tra
guerra di posizione e rivoluzione passiva» -, Gramsci aveva dato, perciò,
una risposta affermativa, senza smarrire del tutto la differenza tra i due
termini e considerando la guerra di posizione come il metodo politico ap-

395. Gramsci, Quaderni del carcere~P- 1767 (Ql5~ c. 9v).


396. I~ p. 1774 (Q15~ c. 12v).
397. I~ p. 1767 (Ql5~ c. 9v).
398. I~ p. 1773 (Ql5~ c. 12v). Corsivo nostro.
114 Rivoluzioni passive

propriato nelle epoche di rivoluzione passiva. I mazziniani avevano fal-


lito proprio perché non avevano saputo operare il passaggio dalla tattica
dell'assalto frontale a quella dell'assedio reciproco. Ma il risultato del
Quaderno 15 proveniva da una riflessione di lunga data, nel corso della
quale Gramsci aveva progressivamente affinato il concetto di guerra di
posizione, fino a collocarlo nel cuore della teoria dell'egemonia e, in ge-
nerale, della nuova fase di una rivoluzione mondiale. Senza ora indugia-
re sulle premesse negli scritti precarcerari, l'evoluzione di questo tema
attraversa la trama dei primi nove quaderni, per trovare una elaborazione
finale, in testi di seconda stesura, nei Quaderni 1O e 13. La prima occor-
renza significativa si trova già in due note del «primo quaderno», entram-
be di stesura unica (che non vennero riprese, per ragioni evidenti, nei
quaderni «speciali»), dove Gramsci svolgeva il tema, precedentemente
enucleato,399 dell'«arditismo». In una nota su Maurras, con riferimen-
to alla guerra francese, aveva sollevato la «questione degli arditi», «un
velo - scrisse - tra il nemico e 1' esercito di leva ( come le stecche di un
busto)» :400 la metafora delle «stecche» e del «busto» era sciolta, qual-
che pagina dopo, con !'«apologo del ceppo e delle frasche secche», per
ribadire che, rispetto ali' opera volontaria degli arditi, artiglieria e fante-
ria «rimangono sempre le regine», come le «frasche secche» (immagine
degli arditi) sono utili «per far bruciare il ceppo» ma non «in sé e per
sé».401 La preoccupazione di Gramsci era di natura politica, come chiarì
nella successiva nota su Arte militare e arte politica, dove sottolineò che
«non bisogna scimmiottare i metodi di lotta delle classi dominanti» e che
«combattere l'arditismo con l'arditismo è una cosa sciocca»: 402 pensava,
evidentemente, ai metodi della lotta antifascista, alla necessità di non
cadere «in facili imboscate»403 e di imparare a combinare correttamente
l'arte politica e quella militare, oltre ogni illusione spontaneistica. Ma
non mancò di osservare che «il vero arditismo, cioè l'arditismo moderno,
è proprio della guerra di posizione, così come si è rivelata nel 14-18»404 e
che la funzione tecnica dell'arditismo restava «legata alla moderna guer-

399. Cfr. ivi, pp. 60-61 e p. 68.


400. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935):, L p. 74
(Ql:,c. 46v).
401. lvi, p. 83 (Qt c. 52r).
402. lv-i, p. 143 (Qt c. 85v).
403. Ibidem.
404. lv-i, p. 142 (Qt c. 85r).
La guerra di posizione 115

ra di posizione».40s La connessione stabilita tra arditi e guerra di posizione


lo portò, poco dopo, a evocare la resistenza passiva di Gandhi contro gli in-
glesi, assunta quale modello di una guerra di posizione che può sempre con-
vertirsi in una guerra di movimento, in «forme di lotte miste» che integrano
tre figure tattiche: la guerra sotterranea, di posizione e di movimento. 406
Nelle note del Quaderno 1, che risalgono al febbraio-marzo 1930, non
sembra dunque che Gramsci individui con sicurezza la specificità della
guerra di posizione rispetto alle altre fonne di tattica militare: ne ha cer-
to indicato il carattere, mettendolo in relazione con il fenomeno dell'ar-
ditismo, ma senza stabilire una distinzione di "fasi", di momenti storici.
Sembra anzi che la guerra di posizione sia ancora subordinata alle ragioni
della guerra di movimento (come «artiglieria e fanteria» rimangono sem-
pre «le regine» rispetto agli arditi). Le cose cambiano poco tempo dopo,
fra l'agosto e l'ottobre 1930, con due note del Quaderno 6, anche esse di
stesura unica, dove il passaggio «dalla guerra manovrata (e dall'attacco
frontale) alla guerra di posizione anche nel campo politico» è dichiarato
«la quistione di teoria politica la più importante, posta dal periodo del dopo
guerra e la più difficile ad essere risolta giustamente».407 Il salto rispet-
to alla considerazione del Quaderno I appare evidente: ora la guerra di
posizione diventa una fase successiva alla guerra di movimento (attacco
frontale) e, perciò, la questione «più importante» della teoria rivoluziona-
ria. Alla base di tale mutamento di prospettiva va collocata, senza possibi-
lità di dubbio, la critica al concetto di rivoluzione permanente di Trockij,
che, delineata nel Quaderno 1,408 viene ripresa in questo periodo, fino alla
sua netta interpretazione come teoria «dell'attacco :frontale in un periodo
in cui esso è solo causa di disfatta».409 Con una specie di rovesciamento
della tesi trockista, letta come una continua guerra di movimento «fino al
compimento della rivoluzione sociale»,410 Gramsci arrivava a indicare la
guerra di posizione come la «fase culminante della situazione politico-sto-

405. I~ p. 143 (Ql, c. 85v).


406. I~ p. 144 (Ql, c. 86r).
407. Gramsci, Quaderni del carcere, p. 801 (Q6, c. 57v).
408. Cfr. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), I,
p. 67 (Q 1, c. 42r).
409. Gramsci, Quaderni del carcere,pp. 801-802 (Q6, c. 57v).
41 O. L. Trockij, La mia vita. Tentativo di autobiografia, a cura di E. Pocar, Milano,
Mondadori, 1930, p. 155. Si tratta di parole di Lunaciarski riportate da Trockij e di seguito
criticate.
116 Rivoluzioni passive

rica», che richiede «qualità eccezionali di pazienza e di spirito inventivo»,


per cui «nella politica la "guerra di posizione", una volta vinta, è decisa
definitivamente». 411 In una notazione successiva, riportava la tesi trockista
alla «inesatta comprensione di ciò che è lo Stato (nel significato integra-
le: dittatura+ egemonia)».412 In sostanza, il primato assegnato alla guerra
di movimento nel processo rivoluzionario presupponeva una concezione
arretrata e inadeguata dello Stato moderno, ancora concepito in termini di
sovranità (perciò da assaltare frontalmente con la «guerra garibaldina») e
l'incomprensione della teoria dell'egemonia e del significato della società
civile. Con la critica a Trockij, insomma, venivano a contrapporsi due idee
di rivoluzione e, contestualmente, due interpretazioni antitetiche della po-
litica moderna, che Gramsci indicò sinteticamente con la doppia metafora
militare (guerra di movimento-guerra di posizione).
Nella prima critica a Trockij, Gramsci aveva messo a fuoco il fonda-
mento giuridico (la teoria puntuale della sovranità) che stava alla base della
teoria della rivoluzione permanente. Con le osservazioni su Lo sciopero
generale di Rosa Luxemburg allargò ulteriormente lo sguardo, legando
la guerra di movimento al determinismo economico e allo spontaneismo.
Il piccolo libro della Luxemburg gli sembrava infatti «il più significativo
della teoria della guerra manovrata applicata alla scienza storica e ali' arte
politica», proprio in quanto, nella metafora militare, emergeva una preci-
sa teoria della crisi, una dipendenza essenziale dell'azione politica rivo-
luzionaria dalla deterministica aspettazione del crollo finale del sistema.
L'«elemento economico immediato», spiegava Gramsci, è qui concepito
come «l'artiglieria campale», capace di «aprire un varco nella difesa nemi-
ca» e di garantire l'azione spontanea delle masse, nella forma di un «misti-
cismo storico» e di una «fulgurazione miracolosa».413 Con la doppia critica
a Trockij e a Luxemburg, Gramsci aveva chiarito il fondamento teorico
della rivoluzione permanente, indicandolo in una concezione premoder-
na dello Stato, nel determinismo economico e nello spontaneismo pratico.
Poteva concludere, perciò, che «la famosa teoria di Bronstein [Trockij]
sulla permanenza del movimento» era «il riflesso politico della teoria
della guerra manovrata», «il riflesso delle condizioni generali-economi-
che-culturali-sociali di un paese in cui i quadri della vita nazionale sono

411. Gramsci, Quaderni del carcee, p. 802 (Q6, c. 58r).


412. Ivi, pp. 810-811 (Q6ll c. 61v).
413. Ivi, p. 859 (Q7, c. 56r).
La guerra cli posizione 117

embrionali e rilasciati e non possono diventare "trincea o fortezza"». 414 E


nella miscellanea del Quaderno 8 stringeva il senso dell'intero discorso
contrapponendo guerra di movimento e guerra di posizione, rivoluzione
permanente e teoria dell'egemonia:
la quistione della guerra di posizione e della guerra di movimento, con la
quistione dell'arditismo, in quanto connesse con la scienza politica: concetto
quarantottesco della guerra di movimento in politica è appunto quello della
rivoluzione permanente: la guerra di posizione, in politica, è il concetto di
egemonia, che può nascere solo dopo l'avvento di certe premesse e cioè: le
grandi organizzazioni popolari di tipo moderno, che rappresentano come le
«trincee» e le fortificazioni permanenti della guerra di posizione.415

La differenza tra guerra di movimento e guerra di posizione diventa-


va, così, la distinzione tra due epoche della rivoluzione. In fondo Trockij
aveva espresso con precisione la situazione del 1905 e del 1917: tali eventi
«hanno segnato una svolta decisiva nella storia dell'arte e della scienza
della politica», ma hanno rappresentato «l'ultimo fatto di tal genere», oltre
il quale «le superstrutture della società civile sono come il sistema delle
trincee nella guerra modema»416 e alla strategia dell'assalto frontale deve
seguire necessariamente quella della guerra di posizione e del conflitto
egemonico. La discontinuità era segnata con forza, con una schiettezza
che doveva suonare crudele per ogni vittima della nostalgia. Tra Oriente
e Occidente, tra passato e presente, si apriva una frattura teorica e pratica,
indicata nella impossibilità dell'imitazione e della ripetizione: una frattu-
ra che, a ben vedere, solo la teoria della rivoluzione passiva (comunque
contraccolpo ed eco di quei grandi eventi "attivi" della storia) arrivava,
almeno in parte, a sanare. Lo stesso Lenin aveva appena «compreso» che
«occorreva un mutamento dalla guerra manovrata, applicata vittoriosa-
mente in Oriente nel 17, alla guerra di posizione che era la sola possibile
in Occidente»; ma «non ebbe il tempo di approfondire la sua formula, pur
tenendo conto che egli poteva approfondirla solo teoricamente, mentre il
compito fondamentale era nazionale, cioè domandava una ricognizione del
terreno e una fissazione degli elementi di trincea e di fortezza rappresentati
dagli elementi di società civile ecc.». Perché, concludeva Gramsci,

414. Ivi, p. 865 (Q7, cc. 59v-60r).


415. Ivi, p. 973 (Q8, c. 20r).
416. Ivi, p. 860, (Q7, c. 56v).
118 Rivoluzioni passive

in Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa;


nell'Occidente tra Stato e società civile c'era un giusto rapporto e nel tremo-
lio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile.
Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di
fortezze e di casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo
appunto domandava un 'accurata ricognizione di carattere nazionale.417
Lo stesso Lenin, dunque, si era fermato nella porta d'ingresso della
novità fondamentale, aveva intuito ma non svolto le basi della nuova teoria
rivoluzionaria, che d'altronde avrebbe richiesto «un'accurata ricognizione
di carattere nazionale». Lo stesso Lenin, possiamo aggiungere, aveva ne-
cessariamente adottato, nella pratica politica, lo schema di Trockij, pur ela-
borandolo e superandolo, «solo teoricamente», nella teoria dell'egemonia
e nella formula del fronte unico. Con riferimento al romanzo del generale
Krasnov, Gramsci considerava la guerra di movimento, negli «Stati più
avanzati industrialmente e civilmente», come una «funzione tattica» più
che «strategica»,418 al contrario di quanto era accaduto nell'epoca prece-
dente, quando la guerra di posizione restava funzionale ali' assalto finale e
allo sfondamento delle linee nemiche. In questo senso, il lessico militare
non definiva solo una metafora appropriata della teoria politica, perché
la strategia rivoluzionaria e la natura della guerra moderna erano mutate
entrambe, come chiari in un suggestivo testo del Quaderno 9, dove scrisse
che la potenza militare di uno Stato, dopo il conflitto mondiale, non poteva
più essere calcolata a priori sulla base della potenza economica, per lo svi-
luppo inaudito di anni chimiche e batteriologiche: «ponendo la quistione
nei suoi termini-limite, per assurdo, si può dire che Andorra può produrre
mezzi bellici in gas e batteri da distruggere l'interaFrancia».419 Aveva una
percezione acutissima delle trasformazioni dell'equilibrio mondiale e ne
traeva conferma del mutamento della teoria rivoluzionaria, indicandolo
anzi come una delle cause più prossime: «questa situazione del tecnicismo
militare è uno degli elementi più "silenziosamente" operanti di quella tra-
sformazione dell'arte politica che ha portato al passaggio, anche in politi-
ca, dalla "guerra di movimento'' alla "guerra di posizione o di assedio"». 420
Tutta la riflessione sulla guerra di posizione correva parallela alla
elaborazione della teoria delle rivoluzioni passive. Il rapporto fra le due

417. lvi, p. 866 (Q7"# c. 60r).


418. Ivi, p. 860 (Q7"# c. 56v).
419. lvi, p. 1199 (Q9"# c. 98v).
420. Ibidem.
La guerra di posizione 119

nozioni venne stretto per la prima volta, nell'aprile 1932, in una nota del
Quaderno 8 dedicata alla Storia d'Europa di Benedetto Croce, che fu am-
piamente rielaborata, poco tempo dopo, nel Quaderno 10.421 Come sappia-
mo, Gramsci aveva definito la Storia d'Europa come il «paradigma» di
storia etico-politica offerto alla cultura europea e mondiale e, allargando
lo sguardo alle altre opere storiografiche di Croce, ne aveva indicato la
«gherminella» nella separazione artificiosa dal momento "attivo", e real-
mente creativo, rappresentato dalla Rivoluzione francese e dalle guerre
napoleoniche: perciò il suo racconto appariva come «un trattato di rivolu-
zioni passive», limitato alla fase dell '«espansione culturale» dei princìpi
rivoluzionari, quando, «a piccole dosi, legalmente, riformisticamente», le
innovazioni si erano affermate attraverso «la corrosione "riformistica" che
durò fino al 1870». Gramsci indicava, perciò, un limite di comprensio-
ne storiografica, culminante nella considerazione unilaterale del momento
''passivo" e nello scambio improprio tra la rivoluzione passiva e la totalità
della storia europea. Svolgendo questo filo, che ribadiva il carattere es-
senziale della sua teoria (le rivoluzioni passive sono tali, infatti, perché
presuppongono e svolgono una rivoluzione di tipo giacobino), si chiedeva
se tale considerazione avesse anche un «riferimento attuale», cioè se all'e-
poca ''passiva" del liberalismo, dispiegata tra il 1789 e il 1870, seguisse
ora una fase ulteriore e diversa di rivoluzione passiva, innescata dai ri-
volgimenti accaduti tra il 191 7 e il 1921 (con la sconfitta del tentativo
rivoluzionario in Germania). La risposta era indicata nella tendenza cor-
porativa del fascismo italiano, ma implicava, naturalmente, un indirizzo
più generale della politica europea, relativo alla guerra e alla grande crisi
del 1929. Fermandosi al corporativismo, Gramsci lo interpretava come il
tentativo di «trasformare la struttura economica ''riformisticamente" da in-
dividualistica a economia secondo un piano» e, nella seconda stesura del
Quaderno 1O, come accentuazione dell' «elemento ''piano di produzione"»,
sotto il controllo delle classi dirigenti tradizionali e con lo scopo di mante-
nerne il «sistema egemonico». In sostanza, dunque, dopo gli avvenimen-
ti della guerra, culminati nella rivoluzione del 1917, il sistema borghese
poteva mantenersi solo alla condizione di assimilare, ''passivamente", il
principio della «economia secondo un piano» e di superare, così, la visione
individualistica della precedente epoca liberale. Una strategia di adatta-
mento, che trovava nel corporativismo fascista un laboratorio esemplare e

421. Ivi, pp. 1088-1089 (Q8, cc. 78r-78v); pp. 1226-1229 (QIO, cc. 46v-47v).
120 Rivoluzioni passive

che mostrava, in maniera chiara, l'apertura di una nuova e diversa fase di


rivoluzione passiva nella storia mondiale. In questo senso, per una specie
di «astuzia della natura», l'antifascismo di Croce incontrava un aspetto
del corporativismo fascista, perché entrambi rappresentavano una declina-
zione "passiva" della storia, anche se l'uno si richiamava all' «espansione
culturale» dell'età liberale (1789-1870) e l'altro a quella successiva alla
rivoluzione sovietica. A questo punto, sia nella prima stesura del Quaderno
8 sia nella rielaborazione del Quaderno 10, Gramsci indicò con precisione
la duplice analogia fra guerra di movimento e rivoluzione attiva e, d'altra
parte, fra guerra di posizione e rivoluzione passiva. Nel Quaderno 8 scrisse
infatti che
questa concezione potrebbe essere awicinata a quella che in politica si può
chiamare «guerra di posizione» in opposizione alla guerra di movimento. Così
nel ciclo storico precedente la Rivoluzione francese sarebbe stata «guerra di
movimento» e l'epoca liberale del secolo XIX una lunga guerra di posizione.422
Nella seconda stesura del Quaderno 1O precisò ulteriormente il suo
pensiero, affermando che l'ideologia corporativa
servirebbe come elemento di una «guerra di posizione» nel campo economi-
co (la libera concorrenza e il libero scambio corrisponderebbero alla guerra
di movimento) internazionale, così come la «rivoluzione passiva» lo è nel
campo politico. Nell'Europa dal 1789 al 1870 si è avuta una guerra di movi-
mento (politica) nella Rivoluzione francese e una lunga guerra di posizione
dal 1815 al 1870; nell'epoca attuale, la guerra di movimento si è avuta politi-
camente dal marzo 1917 al marzo 1921 ed è seguita una guerra di posizione
il cui rappresentante, oltre che pratico (per l'Italia), ideologico, per l'Europa,
è il fascismo. 423
L'identità fra rivoluzione passiva e guerra di posizione (I 'una nel cam-
po politico, l'altra nel campo economico) era qui determinata in maniera
nitida. La conclusione appariva rigorosa e coerente con tutta la riflessione
condotta sulle categorie fondamentali della storia europea. Ma non era pri-
va di difficoltà e, in definitiva, introduceva un tratto a prima vista parados-
sale nella teoria politica di Gramsci.424 Da un lato, il concetto di rivoluzione

422. Ivi, p.1089 (Q8~ cc. 78rv).


423. lv-i, p. 1229 (Ql0, c. 47v).
424. Cfr. R Gualtieri, Le relazioni internazionali, Marx e la filosofia della praxis di
Gramsci~ in «Studi storici»~ 48/4 (2007)~ pp. 1043-1050. Gualtierisottolinea le «dirompenti
Americanismo: una rivoluzione passiva? 121

passiva era nato come modello analitico, destinato a interpretare alcune


fasi della storia italiana ed europea, nelle quali l'assimilazione delle novità
rivoluzionarie avveniva bensì, ma nella forma "riformistica" di un proces-
so ordinato dalle classi dirigenti. D'altro lato, la metafora militare della
guerra di posizione possedeva un valore strategico, non indicava soltanto
un dispositivo analitico, ma contribuiva a formare un nuovo concetto di
rivoluzione, correggendo, fino a rovesciare, l'errore trockista della "rivo-
luzione pennanente". Oltre gli esempi di Croce e del fascismo, espressivi
di due figure diversamente reazionarie (I 'una nel senso liberale, l'altra nel
senso della «economia secondo un piano»), rimaneva il problema di sta-
bilire una teoria della guerra di posizione che sfuggisse al momento ''ne-
gativo" della rivoluzione passiva: né guerra di movimento né rivoluzione
passiva, la guerra di posizione doveva declinarsi, nel punto alto della rifles-
sione gramsciana, come una compiuta teoria dell'egemonia.

19. Americanismo: una rivoluzione passiva?

È superfluo ricordare che la teoria delle rivoluzioni passive venne ela-


borata da Gramsci in una epoca, tra il 1930 e il 1934, nella quale l'ordine
globale subì trasformazioni inaudite, che condussero, nel giro di poco tem-
po, all'affermazione del nazionalsocialismo, alla persecuzione sistematica
degli ebrei e di altre minoranze, alla guerra. La ricerca che abbiamo con-
dotto, prendendo avvio dalle osservazioni di Vincenzo Cuoco sulle rivolu-
zioni del 1799, dovrebbe pertanto essere ripetuta nella direzione inversa:
nel senso che la ragione profonda che aveva innescato la riflessione di
Gramsci, portandolo a incontrare quelle pagine di Cuoco, di Quinet e di
altri autori classici (portandolo insomma a lavorare sulle rivoluzioni passi-
ve), va indicata nella crisi attuale del mondo, nel sommovimento generale
che accompagnò la prima metà del decennio e di cui il prigioniero, pur
nella scarsità di notizie e di materiali bibliografici disponibili, era perfet-
tamente consapevole. 425 Meno facile è stabilire la relazione esatta fra la

implicazioni strategiche (e non più solo tattiche) delle sue considerazioni» e osserva che
«questa trasfonnazione del concetto di guerra di posizione fino alla sua identificazione con
la rivoluzione passiva si accompagna significativamente a un'evoluzione del giudizio nei
confronti dell'Unione Sovietica» (p. 1049).
425. Già nell'articolo del 1972 su Una chiave di letttua in ''Americanismo e for-
dismo" (R presente come storia, pp. 243-254) Franco De Felice definiva i Quaderni del
122 Rivoluzioni passive

crisi degli anni Trenta e il discorso sulle rivoluzioni passive. Per un lungo
tempo la critica, almeno nella maggioranza degli interpreti più qualificati,
ha ritenuto che Gramsci concepisse la crisi degli anni Trenta come un pe-
riodo di rivoluzione passiva globale e dunque elaborasse le sue categorie
per giustificare questa lettura.426 Tale tesi merita di essere corretta, come
ora vedremo, in una direzione determinata. Se gli anni Trenta rappresen-
tassero un'epoca di rivoluzione passiva, ciò significherebbe che è in atto
un processo di trasformazioni molecolari, che da un lato presuppone la
forza propulsiva ed espansiva di una rivoluzione mondiale (la rivoluzione
sovietica) e, d'altro lato, implica la capacità delle classi dirigenti di go-
vernare, sia pure in senso ''passivo" e trasformistico, una fase di moder-
nizzazione e di progresso. Al contrario, gli anni Trenta rappresentano per
Gramsci un periodo di crisi organica globale, o, se si preferisce, un esem-
pio di mancata rivoluzione passiva, dove tanto la forza espansiva della
rivoluzione proletaria tanto la capacità trasformistica delle classi dirigenti
si sono drammaticamente interrotte, determinando un vuoto di egemonia
e di guida nell'ordine mondiale. Una crisi ben più radicale, dunque, nella
quale già si scorgono i segni della catastrofe e della guerra. La categoria di
rivoluzione passiva diventa fondamentale per comprendere la situazione,
per decifrare la dissoluzione del rapporto egemonico, ma in un significato,
per così dire, negativo, che indica non la presenza ma la tragica assenza del
quadro categoriale che quel concetto esige per realizzarsi. È attraverso il
modello delle rivoluzioni passive che viene interpretata la crisi egemonica
globale degli anni Trenta, ma per dimostrare che il ritmo stesso delle rivo-
luzioni passive, che aveva ordinato i passaggi fondamentali della moderna
storia europea, si è dissolto, che il mondo sta entrando, o è già entrato, in
una zona cieca, che promette le più gravi tempeste.

carcere come «il punto di approdo di Wl' esperienza collettiva del movimento operaio ita-
liano filtrante una esperienza internazionale come la Rivoluzione d'ottobre e il leninismo,
in un contesto particolare che ha visto la fine di un'epoca, quella liberale e l'avvento del
fascismo, come ipotesi di organizzazione generale della società portata avanti sulla base di
una stessa formazione economico-sociale» (ivi, p. 245). Una indicazione, vòlta a ricostruire
«l'unità di riflessione gramsciana tra teoria e politica» (ivi, p. 243), che quasi mezzo secolo
di studi gramsciani avTebbe pienamente confermato.
426. Cfr. la "rettifica" di Vacca, Modernità alternative, p.135, nota 109. Si vedano, in
questo senso, De Felice, Rivoluzione passiva,fascismo, americanismo in Gramsci, pp. 315-
368 e M Telò, Note sul futuro del/ 'Occidente e la teoria delle relazioni intm-nazionali, in
Gramsci e il Novecento, a cura di G. Vacca, Roma, Carocci, 1999, pp. 51-74.
Americanismo: una rivoluzione passiva? 123

Come abbiamo osservato, la categoria di rivoluzione passiva aveva


permesso a Gramsci di articolare l'analisi della transizione borghese, inter-
pretando il Risorgimento, insieme ad altri processi storici, come «la forma
nazionale di una rivoluzione passiva continentale»,427 secondo la chiave
egemonica dello «sviluppo diseguale e combinato». 428 La lunga epoca delle
rivoluzioni borghesi, innescata dal moto francese di tipo giacobino (guerra
di movimento), si era protratta per circa ottanta anni, con il metodo del-
la modernizzazione "dall'alto" e del trasformismo politico. La borghesia,
nella sua fase di espansione egemonica, aveva saputo realizzare il mercato
mondiale (secondo la previsione di Marx) e compiere il ciclo di forma-
zione dei grandi Stati nazionali europei (Italia e Germania), trasformando
l'immagine stessa della sovranità, attraverso uno Stato ormai divenuto «in-
tegrale» e diffuso, capace di compenetrare le funzioni politiche con la sfera
della società civile modema.429 Grazie a questa nuova figura istituzionale
(lo «Stato integrale»), perfettamente rappresentata dalla filosofia giuridi-
ca di Hegel, la borghesia aveva inoltre spostato il terreno del conflitto,
inaugurando l'epoca della guerra di posizione e costringendo l'avversario
di classe, specie dopo la sconfitta dei tentativi rivoluzionari in Germania
(1921), a ripensare tutta la propria impostazione strategica.
Intorno al 1870, come Gramsci non mancò di specificare in più oc-
casioni, quel ciclo espansivo si era esaurito, cominciava un'epoca diversa
della storia, segnata dal conflitto aperto fra borghesi e proletari. I risultati
stessi della «rivoluzione passiva continentale» iniziavano ad apparire anti-
tetici e contraddittori, perché da un lato l'economia aveva conseguito una
dimensione globale, d'altro lato il principio del comando politico, cioè la
realtà dello Stato nazionale, restava fuori scala, non "conguagliato", inca-
pace di assicurare un governo razionale dello sviluppo umano. Le ragioni
del capitalismo mondiale si dividevano dalla classe che ne aveva procurato
il dominio, dalla stessa borghesia. Nella visione di Gramsci la contraddi-
zione del mondo borghese non significava, però, l'annuncio di un "crollo"
imminente, secondo le letture deterministiche e catastrofiste che il marxi-
smo aveva variamente elaborato. In linea di principio, la borghesia avreb-
be potuto avviare una nuova e diversa fase di rivoluzione passiva, qualora

427. Fros~ Rivoluzione passiva e laboratorio politico, p. 31 O.


428. A.O. Morton, Waitingfor Gramsci: State Formation, PassiveRevolution andthe
lnternational, in «Millennium. Joumaloflntemational Studies», 35/3 (2007), pp. 597-621.
429. Thomas, The GramscianMoment, pp. 137 ss.
124 Rivoluzioni passive

avesse abbandonato il terreno liberale del «vecchio individualismo» e as-


similato alcuni elementi di «economia programmatica»,430 recuperando il
governo del mercato economico e disinnescando, per questa via, la novità
dirompente della prima rivoluzione proletaria.431 Ma in linea di fatto essa
non ne fu capace ed entrò in quella «lunga nausea» di cui Marx aveva
parlato nel 18 brumaio: non ne fu capace, scelse la carta reazionaria dei fa-
scismi, della persecuzione e della guerra e condusse l'umanità al disastro.
Per iniziare l'analisi, conviene tornare brevemente sul tema dell' ame-
ricanismo, ricordando che nel Quaderno 22 fu Gramsci stesso a introdurre,
in forma dubitativa, il nesso con la rivoluzione passiva. Scrisse infatti:
3) quistione se l'americanismo possa costituire un' «epoca» storica, se cioè
possa determinare uno svolgimento graduale del tipo, altrove esaminato, del-
le «rivoluzioni passive» proprie del secolo scorso o se invece rappresenti solo
l'accumularsi molecolare di elementi destinati a produrre un' «esplosione»,
cioè un rivolgimento di tipo francese. 432
Nel brano di stesura unica appena citato, Gramsci non intendeva di-
scutere il carattere del fordismo americano (il quale, come vedremo, in
nessun caso potrebbe assumere i tratti di una rivoluzione passiva), ma in-
terrogarsi sulla eventualità che l'americanismo possa «costituire» o «de-
terminare» una «"epoca" storica» assimilabile, per via analogica, al ritmo
proprio delle rivoluzioni passive del secolo decimonono. Fin dall'inizio, il
discorso riguardava non l'America ma l'Europa e la sua crisi epocale. 433 La
medesima questione era stata sollevata, alcuni anni prima, nel Quaderno 1,
in una nota che verrà rielaborata nel Quaderno 1O. Qui Gramsci, senza uti-
lizzare ancora il lemma ''rivoluzione passiva", ne offriva una descrizione
puntuale e precisa, con riferimento alla grande Rivoluzione francese e al
periodo della Restaurazione. Anche se mancava la "parola" (offerta, come

430. Gramsc~ Quaderni del carcere, p. 2139 (Q22:, cc. lr).


431. Burgio, Gramsci. R sistema in movimento, pp. 257-260:, indica con precisione la
differenza tra «rivoluzioni passive ottocentesche» e «rivoluzioni passive del XX secolo»
('transizione" in mi caso:, "'stabilizzazione"' nell'altro):, riconoscendo nella "'passività'" delle
classi subalterne l'unica nota comune fra le due situazioni; ma Burgio esclude in maniera
troppo netta la possibilità che la borghesia riuscisse a intraprendere mi percorso rifonnistico
r
"'dall'alto" oltre epoca della sua transizione storica. La storia del Novecento:, dalle politiche
keynesiane al Welfare, dimostra invece che la possibilità esisteva, anche se, il linea di fatto,
non venne perseguita a livello egemonico nell'Europa uscita dal primo conflitto mondiale.
432. Gramsc~ Quaderni del carcere, p. 2140 (Q22, cc. lv-2r).
433. Si veda la ricostruzione di A. Pinazzi, Questioni d'Europa nel pensiero di Anto-
nio Gramsci:, in «La Cultura>>:, 58/2-3 (2020):, pp. 429-452.
Americanismo: una rivoluzione passiva? 125

sappiamo, dal saggio di Cuoco), il concetto era chiaro nella mente dell 'au-
tore. Generalizzando in un «modello» il processo di formazione degli Stati
nazionali europei, scandiva i singoli passaggi della dinamica storica che
aveva condotto da una «esplosione rivoluzionaria», nella forma di una
guerra di movimento, a una «espansione» di tipo "passivo", nella figura di
una molecolare guerra di posizione. La «quistione», spiegava,
storicamente risulta da questi elementi: I 0 ) Esplosione rivoluzionaria in Fran-
cia; 2°) Opposizione europea alla Rivoluzione francese e alla sua espansione
per i «meati» di classe; 3°) Guerre rivoluzionarie della Francia con la Repub-
blica e con Napoleone e costituzione di una egemonia francese con tendenza
a uno Stato universale; 4°) Riscosse nazionali contro l'egemonia francese e
nascita di Stati moderni europei per ondate successive, ma non per esplosioni
rivoluzionarie come quella originaria francese. Le «ondate successive» sono
date da una combinazione di lotte sociali di classi e di guerre nazionali, con
prevalenza di queste ultime. La «Restaurazione» è il periodo più interessante
da questo punto di vista: essa è la fonna politica in cui la lotta delle classi
trova quadri elastici che permettono alla borghesia di giungere al potere senza
rotture clamorose, senza l'apparato terroristico francese. Le vecchie classi
sono degradate da «dirigenti» a «governative», ma non eliminate né tanto
meno fisicamente soppresse; da classi diventano «caste» con caratteri psico-
logici determinati, non più con funzioni economiche prevalenti.434
Subito dopo, rivelando il problema che aveva innescato la meditazione,
si chiedeva se quel «modello», articolato nella sequenza esplosione-espan-
sione, «può ripetersi» nella situazione attuale, sulla base di una stringente
analogia fra Rivoluzione francese e rivoluzione russa. Senza alcuna esita-
zione rispondeva che la ''ripetizione" «è da escludere, per lo meno in quanto
alla ampiezza e per quanto riguarda i grandi Stati».43s Nella rielaborazione in
seconda stesura del Quaderno 1O, scritta un paio di anni dopo, ribadì il mede-
simo concetto, ma ne affievolì la forma assertiva e drastica che aveva assunto
nel primo quaderno: tornando a chiedersi se il «"modello" della formazione
degli Stati moderni può ripetersi in altre condizioni», rispondeva con una
domanda e, correggendo la prima formulazione, lasciava aperta la risposta:
questo «modello» della formazione degli Stati moderni può ripetersi in altre
condizioni? È ciò da escludere in senso assoluto, oppure può dirsi che almeno
in parte si possono avere sviluppi simili, sotto forma di avvento di economie

434. Gramsci, Quadeni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), I, p. 158


(Qt cc. 96v-97r).
435. Ibidem (Ql, c. 97r).
126 Rivoluzioni passive

programmatiche? Può escludersi per tutti gli Stati o solo per i grandi? La
quistione è di somma importanza, perché il modello Francia-Europa ha cre-
ato una mentalità) che per essere «vergognosa di sé» oppure per essere uno
«strumento di governo» non è perciò meno significativa.436
La «quistione» era, in effetti, «di somma importanza», perché chiama-
va in causa la capacità espansiva dello Stato sovietico rispetto al proces-
so mondiale. Ed era la medesima «quistione» che Gramsci aveva sollevato
nell'ottobre 1926, nella famosa lettera al comitato centrale del partito russo,
quando, di fronte ai primi provvedimenti amministrativi del gruppo dirigen-
te staliniano, aveva segnalato il rischio di uno smarrimento della capacità
«propulsiva» ed espansiva della prima rivoluzione comunista. La domanda
sulla ''ripetizione" del «modello» inaugurato dalla Rivoluzione francese era
dunque decisiva per decifrare il caos nel quale il mondo era caduto. Con
comprensibili dubbi e notevoli oscillazioni, Gramsci era arrivato alla moti-
vata conclusione che quella forza «propulsiva» si era interrotta e che, perciò,
il movimento comunista non riusciva a esercitare la funzione egemonica che
la borghesia, a partire dalla «esplosione» del 1789, aveva irradiato nell'intera
Europa. Da un lato, dunque, si assisteva al tramonto della forma di vita bor-
ghese, che si era infranta nelle trincee della guerra, d'altro lato all'inaridirsi
del sogno rivoluzionario, che dalle giornate dell'ottobre avrebbe dovuto pro-
durre nuove «ondate successive» e che subiva, invece, il duro contrattacco
della reazione. Né l'Europa, né le nuove «grandi potenze» (Russia e Ameri-
ca), riuscivano a indicare al mondo una via di civiltà e di sviluppo.
Il tema dell'americanismo sorgeva all'interno di questa problematica
e quindi risultava, fin dall'inizio, strettamente legato al dossier sulle rivo-
luzioni passive. Anzi, di preciso, esso risorgeva di nuovo e si presentava,
nella meditazione del prigioniero, in una forma sostanzialmente differente
e trasfigurata rispetto a quella che aveva accompagnato il primo sviluppo
della sua riflessione, che, fin dall'immediato dopoguerra, aveva collocato
la categoria di "interdipendenza" al centro dell'analisi dello sviluppo in-
ternazionale. Basti ricordare, per questo, gli articoli che precedono la con-
ferenza di Parigi, l'influsso di un autore come Norman Angeli e i giudizi
sui 14 punti di Wilson, fino alla definizione della Lega delle Nazioni come
un «conguagliamento della politica con l'economia».437 Sono pagine note

436. Gramsc~ Quaderni del carcere. pp. 1358-1359 (Ql0 IL c. 39v).


11

437. A. Gramsci, Wilson e i socialisti in ld. Il nostro Marx 1918-1919. a cura di


1 1

S. Caprioglio. Torino Einaud~ 1984. p. 89.


1
Americanismo: una rivoluzione passiva? 127

e ormai ricostruite in maniera adeguata,438 a cui va collegata 1' attenzione


costante che l' «Ordine nuovo» - con gli articoli di Cesare Seassaro, Zino
Zini, Carlo Petri, dello stesso Piero Sraffa dedicò ai motivi dell' america-
nismo e del taylorismo, anche a partire dall'episodio, più volte rievocato
da Gramsci, dell'intesa del febbraio 1919 nelle fabbriche torinesi. Elabo-
razioni e vicende che richiamano, d'altronde, la discreta importanza che
il "sistema Taylor" ebbe nel dibattito sovietico, in Lenin anzi tutto, poi in
Trockij e Radek, fino alla conferenza del 1924 di Stalin su I princìpi del
leninismo: «la cifra del leninismo riassumeva il leader sovietico con-
sisteva nella unificazione fra lo slancio rivoluzionario russo e lo spirito
industriale americano».439 Sono precedenti che aiutano a comprendere la
genesi del problema; ma anche a indicare la novità sostanziale della rifles-
sione dei quaderni, dove l'americanismo non è più quello di Lenin e delle
sue dispute con «1 'infantilismo di sinistra» né quello che si era delineato
all'epoca dell '«Ordine nuovo». Non è più quello perché, in tutta una fase
della storia del movimento comunista, la riflessione sul "sistema Taylor"
rimase fondata sulla tesi della dissolubilità della tecnica produttiva dalla
forma sociale e sul principio finalistico, che vi è connesso, del "crollo" del
capitalismo. Solo nella riflessione carceraria di Gramsci l'americanismo
acquistò la fisionomia di una "forma di vita", di un capitolo inedito nella
vicenda dell'industrialismo, fino a delineare il problema più autentico del
Quaderno 22: la crisi irreversibile della civiltà europea e, come sua conse-
guenza, la crisi organica globale degli anni Trenta.
Per intendere la novità della considerazione di Gramsci, è necessario
soffermarsi su due aspetti che, nel loro reciproco intreccio, determinano le
condizioni di un vero e proprio salto di qualità nell'analisi dell'americani-
smo: da un lato la riflessione sulla crisi del 1929, d'altro lato la peculiare
interpretazione del Capitale di Marx. Le note sull'americanismo vennero
rielaborate da Gramsci in seconda stesura (con la sola eccezione della pri-
ma nota, di stesura unica, alle carte 1-2), nel Quaderno 22, nella seconda
metà del 1934, a Formia: le fonti di prima stesura su cui lavorò derivavano
in larga parte dal Quaderno 1 (§§2-10), ma anche, in misura minore, dai

438. Vacca, Modernità alternative., pp. 21-32.


439. B. Scttis,Fordismi. Storiapolitica dellaprodu:zione di massa, Bologna, il Muli-
no, 2016, pp. 153 ss.; S. Pons, Dopo Lenin. Una rilettura del dibattito sul socialismo in un
solo paese., in Pensare la politica. Scritti per Giuseppe Vacca., a cura di F. Giasi, R Gualtie-
ri e S. Pons. Roma, Carocci., 2009, pp. 209-228.
128 Rivoluzioni passive

Quaderni 3 (§§ 15-16), 4 (§§ 11-13) e 9 (§ 14). Vennero cioè scritte in un


arco di tempo che va dal febbraio al novembre 1930, con la sola eccezio-
ne della nota del Quaderno 9, databile nell'aprile-maggio 1932. Altri testi
sull'americanismo, che non vennero utilizzati nel Quaderno 22, si leggono
nei Quaderni 5, 6, 7, 8, 15: in due casi, queste note vennero rielaborate
negli «speciali» 10 e 28. È molto probabile che, rispetto alla prima indi-
cazione che si trova al punto 11 dell'elenco dei 16 «argomenti principali»
del Quaderno 1 (scritto 1'8 febbraio 1929), «Americanismo e fordismo»,
fu proprio tra la fine del 1929 e i primi mesi del 1930 (nel periodo appe-
na successivo al crollo della borsa di New York) che Gramsci tornò, con
uno sguardo rinnovato, a meditare quel nucleo di questioni: americanismo,
fordismo, taylorismo. Il primo risultato di tale elaborazione fu il notevolis-
simo § 61 del primo quaderno, intitolato Americanismo.
La lunga riflessione sulla crisi del '29 (un tema, giova ripetere, de-
cisivo nella struttura teorica dei quaderni) trova un approdo in una nota
di stesura unica del Quaderno 15, scritto nel febbraio 1933 e intitolato,
appunto, Passato e presente. La crisi. Lo sfondo del discorso è scolpito
nelle battute finali, dove Gramsci, dopo avere sottolineato che «la storia
è storia degli Stati egemoni» e che, di conseguenza, «la storia degli Stati
subalterni si spiega con la storia degli Stati egemoni», ricorre alla metafo-
ra della caduta dell'impero romano per fissare il principio metodologico
dell'analisi. Di fronte alla disputa storiografica sulle cause della fine di
Roma, egli dichiara con estrema nettezza che «la parte negativa» (cioè la
pretesa corruzione morale di Roma e la crisi politica interna) «presuppone
l'esistenza di forze positive», che «è da ricercare nello sviluppo delle po-
polazioni barbariche», nel fatto che «le forze decisive della storia mondiale
non erano allora nell'Impero Romano». 440 Appare trasparente, nel brano,
l'analogia tra Roma e America: non nel senso, come ora vedremo, che la
crisi del 1929 rappresenti un presagio di "crollo" del sistema americano,
ma nel senso, quasi opposto, che le radici della crisi non devono essere
cercate nella debolezza interna del modello capitalistico ma nella dialettica
mondiale, di lungo periodo, tra le forze che si contendono l'egemonia. È il
confronto tra gli «stati egemoni», non «la storia degli Stati subalterni», che
deve essere tenuto fermo per decifrare il meccanismo della crisi. Nessuna
delle categorie tradizionali - imperialismo, stabilizzazione e così via - ri-
sulta capace di cogliere il fondo della situazione.441

440. Gramsci, Quaderni del carcere, p. 1759 (Q15, c. 6r).


441. Si vedano le osservazioni di Gualtieri, Lll relazioni intenazionali, pp. 1009 ss.
Americanismo: una rivoluzione passiva? 129

In maniera più specifica, la crisi del 1929 è spiegata da Gramsci, nella


nota in esame, con tre osservazioni principali. In primo luogo, la crisi non
è un «"fatto" unico» ma un «processo complesso», perché il dato essen-
ziale non è costituito dal crack della borsa di New York ma dal processo
di lunga durata nella cui articolazione esso si iscrive. In secondo luogo,
«1 'origine e la causa della crisi» deve essere indicata nella guerra, perché
«tutto il dopoguerra è crisi» e, più precisamente, la stessa guerra è solo la
«prima manifestazione» di una crisi che ha origini più lontane, nella fine
del processo espansivo delle rivoluzioni borghesi, indicato nella svolta di
fine secolo, intorno al 1870. Gramsci aggiunge, a questo proposito, una
notazione di rilievo: «l'autunno del 1929 scrive col crack della borsa
di New York è per alcuni l'inizio della crisi e si capisce per quelli che nel-
1'"americanismo" vogliono trovar l'origine e la causa della crisi».442 L'a-
mericanismo, di cui sintetizzerà i caratteri nel Quaderno 22, non è affatto
l'origine della crisi, ma, al contrario, rappresenta già una risposta a essa,
una reazione alla crisi globale del capitalismo. Infine, ed è il terzo punto,
sottolinea che la crisi ha origini «tecniche», «nei modi di produzione e
quindi di scambio», cioè la sua radice deve essere cercata nel processo
globale di ristrutturazione del capitalismo, nel suo tentativo di adattamento
alla fine storica dell'egemonia borghese.
Per comprendere la crisi del 1929 occorre, pertanto, risalire alla fine
del ciclo egemonico borghese e al distacco, che in quella fase si apre, fra il
destino del capitalismo mondiale e la sorte della "forma di vita" borghese.
La crisi, come l'intero fenomeno dell'americanismo, acquistano un signi-
ficato all'interno di questa vicenda di lungo periodo, nella quale la forma
capitalistica dell'industrialismo cerca di svincolarsi dalla figura egemonica
che, con il ciclo delle rivoluzioni borghesi, le aveva assegnato il dominio.
Perciò la vita economica diventa universale e cosmopolita, «il mondo -
scrive Gramsci - è una unità», 443 mentre la vita politica degrada verso il
nazionalismo. La crisi del '29 deriva dalle «contraddizioni fondamentali
della società attuale», la più importante delle quali è «che mentre la vita
economica ha come premessa necessaria l'internazionalismo o meglio il
cosmopolitismo, la vita statale si è sempre più sviluppata nel senso del
''nazionalismo", "del bastare a se stessi" ecc.».444 Con la fine dell 'egemo-

442. Gramsci, Quaderni del carcere:,p. 1755 (Q15:, c. 4v).


443. Ivi, p. 1757 (Ql5:, c. 5r).
444. Ivi, p. 1756 (Q15:, c. 4v).
130 Rivoluzioni passive

nia borghese il capitalismo si libera della sua classe, si fa globale, perde


l'aggancio a una tradizione di valori e a una visione del mondo, entra in
contrasto con le proprie basi storiche e degrada in una condizione di nudo
interesse. È una «continua crisi», aggiunge Gramsci, nella quale divengo-
no via via «inoperosi» i fenomeni che operavano sugli squilibri economici
«immunizzandoli». Considerato in tale prospettiva, l'americanismo è il
tentativo di elaborare un nuovo «tipo umano», adeguato a un capitalismo
ormai affrancato dal retaggio dell'ideologia borghese.
Una interpretazione così radicale della crisi del '29 poggia sulla nuova
lettura che Gramsci, in quel medesimo periodo, prospettò del Capitale di
Marx. Nella riflessione sull'americanismo intervennero diverse fonti lette-
rarie Henry Ford, Lucien Romier, André Philip e molte altre , ma è leci-
to affermare che lo sguardo di Gramsci non si distaccò mai dall'analisi che,
del sistema capitalistico, Marx aveva delineato nel primo e nel terzo libro
della sua opera maggiore. Il punto di riferimento, in questo caso, era il sag-
gio che Benedetto Croce aveva scritto nel maggio 1899 sulla terza sezione
del libro terzo. 445 A differenza di quel che potrebbe sembrare, leggendo le
critiche di Gramsci nei Quaderni 7 e 1O, Croce aveva còlto con molta pre-
cisione il nesso fra la teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto e
quella del plusvalore relativo, cioè fra il terzo e il primo libro del Capitale:
«il Marx - scrisse - dové pensare insieme coi capitoli fondamentali del pri-
mo libro» l'intera «esposizione del processo pel quale sorge il saggio me-
dio di profitto, ch'è nel terzo libro». 446 Tutta la sua analisi, d'altronde, non
divideva ma teneva insieme le due parti della dottrina marxiana. Ma è vero,
come ora vedremo, che Gramsci considerò in maniera sostanzialmente di-
versa quel rapporto. L'obiezione di Croce, al di là degli elementi specifici e
persino tecnici che volle produrre, richiamava l'interpretazione del valore-
lavoro come "paragone ellittico", conseguita nel saggio del 1896 su Achil-
le Loria, 447 e si stringeva in due punti molto determinati. In primo luogo il
progresso tecnico, nella sua lettura, non produceva alcuna caduta, ancor-
ché "tendenziale", del saggio di profitto, ma al contrario un incremento. 448

445. B. Croce, Una obiezione alla legge ma,:-cistica della caduta del saggio del profit-
to> in Id.> Materialismo storico ed economia marxistica, a cura di M. Rascaglia e S. Zoppi
Garampi, Napoli, Bibliopolis, 200 I, pp. 151-162.
446. lvi, p. 160 (le varianti> di scarso rilievo, alla p. 481 ).
44 7. B. Croce, Le teorie storiche del proj Loria> in Id.> Materialismo storico ed eco-
nomia marxistica, p. 45.
448. Croce> Una obiezione alla legge marxistica> p. 157.
Americanismo: una rivoluzione passiva? 131

La riduzione del saggio di profitto era ricondotta alla «legge della domanda
e offerta»449 e, d'altro lato, alle «forme storiche» determinate dall'aumento
nominale dei salari, cioè dalla maggiore incidenza del capitale variabile.
D'altro lato, nella prefazione del 1906 alla seconda edizione del libro su
Marx, Croce affermava che «la legge circa la caduta del saggio di profitto»,
«qualora fosse esattamente stabilita», avrebbe comportato «né più né meno
che la fine automatica e imminente della società capitalistica»,4so riportan-
do perciò la terza sezione del terzo libro alla filosofia della storia e a una
concezione finalistica del progresso.
Furono questi gli aspetti su cui si concentrò la critica di Gramsci. Nel
Quaderno 7 (1931) sottolineò subito il nesso fra la «caduta tendenziale
del saggio di profitto» e il discorso relativo «al taylorismo e al fordismo»:
il progresso tecnico, come «aumento del capitale costante», doveva es-
sere interpretato come «una variabile che toglie immediatamente effetto
alla legge»: «la legge tendenziale scoperta da Marx - concludeva - sareb-
be quindi alla base dell'americanismo, cioè del ritmo accelerato nel pro-
gresso dei metodi di lavoro e di produzione e di modificazione del tipo di
operaio».4s1 La centralità che nell'analisi acquistavano le forze «contrope-
ranti» (come Marx e poi Croce le avevano definite), ossia le «variabili»
capaci di rendere provvisoriamente inefficace la legge e di limitarne la
"tendenza" distruttiva, lo portava, già nella nota del 1931, a riconfigurare
la storia del capitalismo come «una serie di crisi», «ritornanti a ciclo»,
ma sempre recuperate e assorbite dalla logica del sistema, fino al «limite
di saturazione dell'industria mondiale», cioè fino a quando, aggiunse nel
Quaderno 10, «tutta l'economia mondiale sarà diventata capitalistica» e,
toccate le colonne d'Ercole del modello produttivo, la contraddizione eco-
nomica si rovescerà in una «contraddizione politica».452 In modo analogo,
le innovazioni introdotte nella divisione tayloristica del lavoro avrebbero
dovuto necessariamente socializzarsi, essere incorporate nel lavoro medio
e «socialmente necessario», generando così, «a ciclo» e in forma mole-
colare, una specie di rincorsa al profitto maggiore e, di conseguenza, una
caduta "tendenziale" del saggio di profitto. 453

449. Ivi, p. 161.


450. Croce:.Materialismo storico ed economia marxistica:. p. 12.
451. Gramsci, Quaderni del carcere:. p. 883 (Q7, c. 68v).
452. Ivi, p. 1279 (QlO:. c. 13v).
453. Ivi, p. 1281 (QlO:. c. 14r).
132 Rivoluzioni passive

Nella nota di prima stesura del Quaderno 7 rimaneva un errore,


che Gramsci si adoperò a correggere nella seconda stesura del Quader-
no I O. La legge marxiana era infatti definita come «un teorema di prima
approssimazione».454 Si trattava, evidentemente, di una semplificazione,
che manifestava la perplessità dell'autore (specie di fronte alla critica di
finalismo della prefazione crociana del 1906) e dimostrava che Gramsci
non aveva ancora meditato in profondità il significato logico del caratte-
re "tendenziale" della legge. Il nodo dell'americanismo emergeva, infatti,
proprio nella capacità di offrire alla "tendenza" evocata da Marx un senso
diverso da quello sostenuto da Croce. Se la ''tendenza" era concepita come
un processo lineare, come una fuga progressiva e continua verso il "crol-
lo" del sistema, l'intero terzo libro del Capitale era destinato ad apparire
come una teoria deterministica dello sviluppo e del «rovesciamento della
praxis», come tornò a definire la rivoluzione con le Tesi su Feuerbach.455
Che il sistema avrebbe toccato «le sue colonne d'Ercole», non dipendeva
dal progresso tecnico come tale, ma dall'estensione globale del modo di
produzione capitalistico, dal passaggio alla soggettività politica di un go-
verno mondiale dei processi. Per questo, cioè per definire, sul piano logico,
il carattere ''tendenziale" della legge, Gramsci tornò sul rapporto fra terzo
e primo volume, contestando a Croce di averne equivocato il nesso. Croce
- scrisse - «presenta come obbiezione alla teoria esposta nel III volume
quella parte di trattazione che è contenuta nel I volume»: 456 avrebbe seguito
la teoria marxiana del plusvalore relativo e avrebbe, di conseguenza, con-
siderato come una sorta di eccezione la caduta tendenziale, come una cor-
rezione, finalistica e ideologica, recata ali' apparato scientifico dell'analisi
economica. Se era vero (cosi Gramsci interpretava Croce) che il profitto
derivava dalla produzione del plusvalore relativo, allora il progresso tec-
nico avrebbe determinato un incremento e non una caduta del suo saggio
di crescita. Croce, insomma, non aveva saputo osservare che la crescita
del saggio di profitto accade sempre attraverso il meccanismo della sua
crisi, che la "caduta" è iscritta nello sviluppo e ne rappresenta, anzi, il
motore principale. Questo significava "tendenziale": la caduta del saggio
del profitto è «l'aspetto contraddittorio di un'altra legge»,457 ne rappresenta

454. Ivi, p. 882 (Q7, c. 68v). La definizione cadde nel Quaderno IO (ivi, p. 1312,
c. 24v).
455. Ivi, p. 1279 (QlO, c. 13v).
456. Ivi, p.1278 (QlO, c. 13r).
457. Ivi, p.1279 (QlO, c. 13v).
Riforma e Rinascimento 133

cioè la contraddizione interna, il principio intrinseco di sviluppo, in un


«processo dialettico» che determina «l'espansione molecolare del siste-
ma di fabbrica»_4ss Il finalismo indicato da Croce era spezzato alla radice
con la restaurazione di una rigorosa visione dialettica dello sviluppo: il
negativo (la caduta del saggio del profitto) appariva "tendenziale" perché
sempre incluso nella forza positiva del sistema, capace di assorbirlo e "su-
perarlo" attraverso il progresso tecnico, almeno fino al punto finale in cui
(contrariamente all'esito hegeliano), diventando compiutamente "mondo",
toccando «le sue colonne d'Ercole», la "tendenza" sarebbe divenuta ingo-
vernabile nella logica individualistica del capitalismo e avrebbe richiesto
la forza universale della ragione politica. Il rimedio ''tecnico" sarebbe al-
lora diventato inefficace, la praxis avrebbe dovuto essere rovesciata. Ma la
logica della ''tendenza", espressa nel rapporto reciproco di terzo e primo
libro, indicava il significato stesso dell'americanismo, il ruolo che le prati-
che tayloristiche potevano giocare nella partita mondiale degli anni Trenta.

20. Riforma e Rinascimento

Considerato come tale, l'americanismo non delinea l'immagine di una


rivoluzione passiva. Agli inizi degli anni Trenta, l'americanismo rappre-
senta, tutt'al più (e, come vedremo, non è poco almeno sul piano analitico),
il principio ideale di una rivoluzione passiva possibile ma destinata a in-
frangersi nella condizione insuperabile di una crisi globale. La critica che
Gramsci rivolse a Hemi De Man (e che avrebbe potuto rivolgere ad altri
autori della tradizione liberale) appare, in tale prospettiva, illuminante: il
libro Zur Psychologie des Sozialismus (1926), scrisse, «è una reazione alle
due forze storiche maggiori del mondo»; 4s9 nella rielaborazione del Qua-
derno 22 spiegò che quel libro era «un'espressione di questi problemi [il
fordismo] che sconvolgono la vecchia armatura europea, una espressione
senza grandezza e senza adesione a nessuna delle forze storiche maggiori
che si contendono il mondo».460 Le «due forze storiche maggiori» erano,
senza dubbio, l'America e la Russia; a esse continuò a riferirsi nel 1934,

458. I~ p. 1283 (QlO, c. 14v).


459. Gramsci, Quadeni del carcere. 2. Quaderni miscellamJi (1929-1935), L p. 88
(Ql, c. 55r).
460. Gramsci, Quaderni del carcere,p. 2147 (Q22, c. 18).
134 Rivoluzioni passive

dopo l'ascesa al potere di Hitler, pur togliendo l'indicazione numerica del-


la prima stesura. L'analisi di queste «grandi potenze» costituisce un tema
centrale dei quaderni, di cui sarebbe difficile sottovalutare l'importanza.
Ciò che colpisce è il giudizio convergente, o almeno parallelo e confor-
me, che sembra riguardarle. L'America di Gramsci è una nazione vergi-
ne, «senza ''tradizione"», libera dalle «sedimentazioni vischiose delle fasi
storiche passate» e perciò capace di una «formidabile accumulazione di
capitali», dove tuttavia «l'egemonia nasce dalla fabbrica», «la "struttura"
domina più immediatamente le soprastrutture e queste sono razionalizza-
te (semplificate e diminuite di numero)», tanto che «non è ancora stata
posta la quistione fondamentale dell'egemonia». 461 L'aggancio immediato
alla struttura economica è ancora più evidente nelle organizzazioni operaie
sindacali, ferme alla «espressione corporativa della proprietà dei mestieri
qualificati», fino al punto che «lo stroncamento che ne domandano gli in-
dustriali ha un aspetto ''progressivo"». 462 L'America di Gramsci, insomma,
è una nazione senza passato e senza una società civile sviluppata, che non
ha alle spalle una rivoluzione di tipo francese e giacobino e che, di conse-
guenza, non potrebbe esercitare quella funzione espansiva che è richiesta
dalla categoria di rivoluzione passiva.
A ben vedere l'Unione Sovietica manifesta un quadro per alcuni versi
analogo. Rispetto ali' America, la Russia ha non solo una lunga tradizione
di cultura, intrecciata a quella europea, ma ha alle spalle una vera e propria
rivoluzione, nella forma di una "guerra di movimento", potenzialmente
propulsiva di una rivoluzione mondiale. Di fronte al declino dell'Europa li-
berale e alla povertà superstrutturale della nazione americana, solo l 'Urss,
almeno sulla carta, sembra possedere i titoli per esercitare la funzione di
«grande potenza», guidare il mondo in chiave egemonica e scongiurare il
pericolo di una prossima catastrofe. Come era accaduto ai giacobini del
secolo decimottavo, la nuova rivoluzione avrebbe potuto diventare il cen-
tro di un lungo processo espansivo, di una «epoca» capace di sanare la
contraddizione fondamentale tra sviluppo economico e governo politico. 463
Non solo, dunque, un atto di "separazione" dal capitalismo, ma un gesto

461. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), I, pp. 87-
88 (Q t cc. 54v-55r).
462. Gramsci, Quaderni del carcere, p. 2146 (Q22, c. 17).
463. «Come agli inizi del secolo diciannovesimo tutte le speranze dei popoli si vol-
gevano alla rivoluzione francese, e invano infuria vano la reazione e la Santa Alleanza, cosi
oggi si guarda, dall'Asia come dall'Europa, alla rivoluzione russa» (In che direzione si svi-
Riforma e Rinascimento 135

di trasformazione globale, che rinnovasse, per il proletariato, il ciclo delle


rivoluzioni borghesi, non più nel tempo della costruzione degli Stati nazio-
nali ma in quello della loro crisi irreversibile. Almeno a partire dalla lettera
al comitato centrale del partito russo del 14 ottobre 1926 - dove, giova
ricordarlo, sottolineava il compito «organizzatore e propulsore» dell 'Urss
per «le forze rivoluzionarie di tutti i paesi» e «gli aspetti internazionali
delle quistioni russe stesse»464 - Gramsci cominciò a dubitare della forza
espansiva della rivoluzione sovietica.
Negli stessi anni, fra il 1930 e il 1932, in cui svolgeva la critica a
Bucharin (dapprima nei Quaderni 4, 7 e 8, poi nel Quaderno 11 ), metteva
a fuoco la distinzione "ideale" fra Riforma e Rinascimento, che avrebbe
dovuto costituire, così scrisse, «il primo capitolo, o addirittura la prima
sezione» di uno studio dedicato all'Unione Sovietica.465 L'interesse per le
vicende russe era cresciuto, d'altronde, intorno al 1930, quando aveva ri-
cevuto le visite del fratello Gennaro (per conto della centrale estera del
Partito comunista d'Italia), era entrato in aperto contrasto con i compagni
di partito sui temi della costituente e del socialfascismo466 e aveva avvia-
to le pratiche per ottenere una serie di libri sulla situazione sovietica, a
cominciare dall'autobiografia di Trockij.467 Nell'agosto del 1931 era stata
autorizzata la lettura dei quotidiani (che verrà nuovamente vietata nel giu-
gno 1932) e dal 19 ottobre Gramsci cominciò a ricevere, nel carcere spe-
ciale di Turi, il «Corriere della sera», da cui certamente ricavò notizie più
circostanziate sugli eventi mondiali. 468 Fu tuttavia la lettura di un articolo
di Michail Farbman, apparso nel supplemento russo dell'«Economist» il
1° novembre 1930, che presentava una esposizione abbastanza dettagliata
del primo piano quinquennale, a consentirgli di precisare il suo giudizio.
Gramsci lo lesse nel giugno 1931 e il 29 dello stesso mese ne diede comu-
nicazione a Tatiana: «1 'estratto dell '"Economist" sul piano quinquennale

luppa l'Unione soviettista?, l Osettembre 1926, in A. Gramsci, La costruzione del partito


comunis~ Torino, Einaudi» 1978. p. 323).
464. Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca, p. 408.
465. Gramsci. Quaderni del carcere»P- 893 (Q7. c. 72v).
466. Cfr. G. Vacca. Vita e pensieri di Antonio Gramsci 1926-1937., Torino» Einaudi.
2012:, pp. 98 ss.
467. A. Gramsci, Lettere dal carcere» a cura di F. Giasi. Torino, Einaudi, 2020»PP- 498
e523
468. Gramsci. Schucht» Lettere 1926-1935, p. 754 e p. 839: «ho cominciato a ricevere
il HCorriere della sera.,., e ti ringrazio». Per la sospensione della concessione cfr. ivi. p. 1030.
136 Rivoluzioni passive

- scrisse - l'ho letto in due o tre giorni e credo non mi sia sfuggita neanche
una espressione».469 La lettura di Farbman sollecitò la stesura di due note
del Quaderno 7 su Riforma e Rinascimento. A partire dalla critica di un
articolo di Boris Souveraine, ricordò l '«Economist» e mise a fuoco quella
coppia concettuale Riforma-Rinascimento che, d'ora in poi, guiderà il giu-
dizio sulla politica sovietica:
Ma noi vediamo oggi avvenire lo stesso per la concezione del materialismo
storico; mentre da essa, per molti critici, non può derivare «logicamente»
che fatalismo e passività, nella realtà invece essa dà luogo a una fioritura
di iniziative e di intraprese che stupiscono molti osservatori (cfr estratto
dell'«Economist» di Michele Farbman). Se si dovesse fare uno studio su
l'Unione, il primo capitolo, o addirittura la prima sezione del libro, dovreb-
be proprio sviluppare il materiale raccolto sotto questa rubrica «Riforma e
Rinascimento» .470
Un altro episodio, che spinse Gramsci ad articolare la dialettica Rifor-
ma-Rinascimento, fu la discussione tra Croce e Lunacarskij al VII Con-
gresso internazionale di filosofia a Oxford, quello in cui Croce pronunciò
la celebre conferenza sull'Antistoricismo. L'attenzione di Gramsci per tale
controversia (nei Quaderni 6, 7 e 10) fu continuativa e, con la lettera del
15 dicembre 1930, chiese con insistenza anche un articolo di Giovanni
Gentile che vi si collegava.471 Il confronto tra le due figure gli sembrò,
infatti, incarnare plasticamente l'antitesi dei due momenti: se Croce aveva
assunto verso la filosofia della praxis un atteggiamento "erasmiano", tipico
dell'uomo del Rinascimento (non comprendendo che l'uomo del Rinasci-
mento «deve democratizzarsi» nel mondo moderno), d'altra parte il tipo-
Lunacarskij appariva fenno ali 'uomo della Rifonna, quindi al di sotto di
quella distinzione tra egemonia e dittatura che Croce aveva, sia pure in ma-
niera unilaterale e incompiuta, introdotto con la sua storia etico-politica:
i raggruppamenti sociali regressivi e conservativi - scriveva - si riducono
sempre più alla loro fase iniziale economica-corporativa, mentre i raggrup-
pamenti progressivi e innovatori si trovano ancora nella fase iniziale appunto
economica-corporativa [ ... ] Questo [processo di] disintegrazione dello Stato

469. Gramsci, Lettere dal carcere, p. 598.


470. Gramsci, Quaderni del carcere, p. 893 (Q7, c. 72v).
471. G. Gentile, La formazione politica della coscienza nazionale, in «Educazione
fascista», (dicembre 1930), pp. 675-686. Cfr. Gramsci, Lettere dal carcere, p. 529.
Riforma e Rinascimento 137

moderno è pertanto molto più catastrofico del [processo storico] medioevale


che era disintegrativo e integrativo nello stesso tempo.472
E altrove aggiungeva:
ma ha il Croce [nella critica a Lunacarskij] completamente torto?[ ... ] È certo
che della filosofia della praxis si è formata una corrente deteriore, che può es-
sere considerata in rapporto alla concezione dei fondatori della dottrina come
il cattolicismo popolare in rapporto a quello teologico o degli intellettuali:
come il cattolicismo popolare può essere tradotto nei termini del paganesimo,
o di religioni inferiori al cattolicismo per le superstizioni e le stregonerie da
cui erano o sono dominate, cosi la filosofia della praxis deteriore può essere
tradotta in termini «teologici» o trascendentali, cioè delle filosofie prekantia-
ne e precartesiane. 473
Poco tempo dopo, su sollecitazione di Piero Sraffa, Gramsci cominciò
a ricevere alcuni fascicoli della rivista inglese «The Labour Monthly. A
Magazine of Intemational Labour», che pubblicava regolarmente la tra-
duzione inglese dei discorsi di Stalin e articoli sul marxismo sovietico.
Inoltre, nell'agosto del 1931 ricevette il volume Science at Cross Roads,
che raccoglieva gli interventi dei delegati sovietici al II Congresso interna-
zionale di storia della scienza e della tecnologia che si era tenuto a Londra
dal 29 giugno al 3 luglio 1931 e dove lesse il testo della relazione di Bucha-
rin, su cui si soffermerà nel Quaderno 11. Sarebbe importante capire quali
fascicoli del «Labour Monthly» Gramsci poté consultare. Nicola De Do-
menico ha scritto che ricevette regolarmente la rivista per l'intero 1931.474
In realtà i documenti attestano la lettura della rivista inglese dal luglio (fra
gennaio e luglio non risultano riferimenti) fino ai primi di novembre, quan-
do il Ministero fissò una «tabella delle riviste politiche» che escludeva,
naturalmente, anche il «Labour Monthly». 475 Si può dunque ipotizzare che
Gramsci ebbe i quattro numeri pubblicati tra luglio e ottobre (dove, tra le
altre cose, erano apparsi il discorso di Stalin sulla questione nazionale, che
probabilmente è alla base dell'unica nota dedicata al dittatore sovietico nel
Quaderno 14, e il saggio di Lunacarskij su Bemard Shaw).

472. Gramsci.Quaderni del carcere:tp. 691 (Q6, c. 4r)


473. Ivi, p. 1291 (QlO:t c. 17v)
474. N. De Domenico:t Una fonte trascurata dei «Quaderni del carcere» di Antonio
Gramsci: il «Labow- Morrthly» del 1931, in «Atti della Accademia Peloritana dei Pericolan-
ti»:t 26'l167 (1991):t pp. 1-65 (dell'estratto).
475. Gramsci.Lettere dal carcere:t p. 681.
138 Rivoluzioni passive

La sua attenzione (anche per invito di Sraffa) fu però attirata da due


scritti di Dimitrij Petrovic Mirskij, il primo su Storiografia borghese e ma-
terialismo storico e il secondo su La discussione filosofica nel Pcus nel
1930-1931. Questo secondo articolo divenne la base di tre brani nei Qua-
derni 8 e 11 e in esso Gramsci trovò una informazione piuttosto dettagliata
sulla lotta culturale in corso.476 In linea generale Mirskij presentava Stalin
come il grande innovatore e restauratore del materialismo storico contro
le degenerazioni in senso idealistico o meccanicistico. Nel primo articolo
Gramsci poteva leggere alcuni concetti su cui lui stesso si era soffermato,
sia pure svolti in senso dogmatico: il richiamo all'unità di teoria e prassi,
l'identità di filosofia storia e politica. Vi si leggeva, inoltre, un passo su
Croce, interpretato come «la più coerente espressione teorica del declino
del mondo borghese», «in diretta opposizione alla concezione marxista».
Ma Gramsci fu attratto soprattutto dal secondo articolo. Mirskij svolgeva
l'apologia del «great spring-cleaning», della «grande epurazione» avviata
da Stalin nel 1929, presentandola come la duplice liquidazione della posi-
zione "idealistica" di Deborin e del vecchio meccanicismo, e inserendo qui
la condanna senza appello di Bucharin, considerato «the theoretical gospel
of the Right Wind», l'autore di un «mechanistic and anti-dialectical pseu-
do-Marxism». La condanna di Bucharin si appoggiava interamente sulla
nuova ortodossia di Stalin, che Mirskij interpretava come una ripresa del
Lenin filosofo, soprattutto di Materialismo ed empiriocriticismo. Anche in
questo articolo emergevano concetti analoghi a quelli di Gramsci, in parti-
colare l'idea che, in una prima fase, il materialismo storico era stato assor-
bito dal compito pratico, trascurando l'elaborazione teorica e anzi arrivan-
do a concepire la teoria solo come «the servant of practice», «ancella della
pratica». Ciò che divideva la posizione di Mirskij da quella di Gramsci era
il richiamo al materialismo, al Lenin.filosofo, insomma l'intero modo in
cui l'unità di teoria e prassi veniva prospettata.
Sul primo di questi articoli Gramsci fece un generoso riferimento
nella lettera a Tatiana del 3 agosto, elogiando il distacco dell'autore dalle
«infiltrazioni» del positivismo nella teoria della storia. 477 Sul secondo ar-
ticolo offri una riflessione più articolata nei quaderni. Il punto essenziale
è il superamento della «concezione meccanicistica», del «determinismo

476. Gramsc~ Quaderni del. carcere, p. 1064 (Q8, c. 64r), p. 1387 (Qll, c. 17v),
p. 1395 (Ql t c. 21 v).
477. Gramsc~ Lettere dal carcere, p. 613.
Riforma e Rinascimento 139

meccanico», del «fatalismo passivo», che hanno caratterizzato la prima


fase della filosofia della praxis. Dall'articolo di Mirskij, spiegava, «si può
vedere come sia avvenuto il passaggio da una concezione meccanicistica
e puramente esteriore a una concezione attivistica, che si avvicina di più,
come si è osservato, a una giusta comprensione dell'unità di teoria e pra-
tica, sebbene non ne abbia ancora attinto tutto il significato sintetico».478
Gramsci insisteva sulla critica del meccanicismo, ma trascurava completa-
mente i passaggi essenziali dell'articolo di Mirskij: la dura polemica contro
Deborin, il riferimento al materialismo di Lenin, e così via. In un passag-
gio sottolineava «la grande impressione fatta dallo studio riassuntivo del
Mirskij», in quanto «ha destato» ricordi: 479 i ricordi si riferivano alle accuse
di "idealismo", specie di parte bordighiana, che avevano punteggiato la
sua esperienza politica. In conclusione, Gramsci aveva tratto dall'articolo
di Mirskij l'impressione di un superamento in atto del meccanicismo, di
una affermazione dell'unità di teoria e prassi, sia pure insufficiente, ma
aveva eliminato ogni riferimento alla «grande epurazione», a Deborin, al
materialismo dialettico.
Il giudizio sull'articolo di Mirskij deve essere completato con la cri-
tica, successiva di alcuni mesi, alPrécis d économie politique di Lapidus
1

e Ostrovitianov, conosciuto nell'edizione francese del 1929. La critica di


questo testo, teoria generale e diffusa (anche a livello scolastico) della pia-
nificazione sovietica, rappresenta il pendant di tutta la polemica contro
Bucharin e ne offre, perciò, ulteriori chiavi di lettura. In una nota del Qua-
derno 10 (databile al giugno-agosto 1932), Gramsci pronunciò un giudizio
drastico sul dogmatismo di questo libro:
il manuale del Lapidus e Ostrovitianov - spiegò - da questo punto di vista è
«dogmatico», presenta le sue affermazioni e i suoi svolgimenti come se essi
non fossero «contestati» e rigettati radicalmente da nessuno, ma fossero l'e-
spressione di una scienza che dal periodo di lotta e di polemica per affermarsi
e trionfare è già entrata nel periodo classico della sua espansione organica.
Evidentemente questo non è il caso, invece. 480
Il giudizio diventò ancora più drastico nel Quaderno 15 (maggio
1933), dove, a proposito del Précis, si legge:

478. Gramsci, Quaderni del carcere~P- 1387 (Qll, c. 17v).


479. Ivi, p. 1395 (Qll, c. 21v).
480. Ivi, p. 1286 (QlO~ c. 16r).
140 Rivoluzioni passive

ciò che colpisce è questo: come un punto di vista critico che richiede il massi-
mo di intelligenza, di spregiudicatezza, di freschezza mentale e di inventività
scientifica sia divenuto il monopolio di biascicazione di cervelli ristretti e
meschini, che solo per la posizione dogmatica riescono a mantenere una po-
sizione non nella scienza, ma nella bibliografia marginale della scienza. Una
forma di pensare ossificata è il pericolo più grande in queste quistioni: è da
preferire una certa sbrigliatezza disordinata alla difesa filistea delle posizioni
culturali costituite.4s1
Se il secondo articolo di Mirskij aveva generato nell'animo di Gramsci
la speranza che, con il primo piano quinquennale, l 'Urss promuovesse la
costruzione di una vera società civile, le parole che successivamente dedi-
cò al Précis ne rappresentarono, per così dire, la errata corrige. 482 Come si
vede, in una situazione storica completamente diversa, la «grande poten-
za» russa mostrava lo stesso limite della potenza americana: anche qui, «la
"struttura" domina più immediatamente le soprastrutture», la «quistione
dell'egemonia» non riesce ad affermarsi, perché lo spirito della nazione è
fermo alla Riforma, alla fase economico-corporativa, e manca la piena arti-
colazione di una società civile. In tali condizioni nessuna delle due potenze
può esercitare quel ruolo di guida che la situazione drammatica, aperta
dalla fine del ciclo borghese, richiederebbe.

21. Fascismo e corporativismo

Al centro del discorso di Gramsci rimane dunque l'Europa e il suo


destino. A differenza di America e Russia, l'Europa è la terra del Rinasci-
mento, di una società civile ricca e matura. È la terra di uno sviluppo libero
e ampio delle superstrutture, dove la «quistione dell'egemonia» si pone
in tutta la sua estensione. Chiuso il ciclo delle rivoluzioni liberali (che è
il ciclo stesso della rivoluzione passiva), quando il capitalismo mondiale
scioglie il connubio con le classi borghesi, si fa cosmopolitico e congeda
il vincolo degli Stati nazionali, l'Europa deve decidere se declinare nel
vecchio ordine o mutarsi in una «nuova civiltà», conforme allo sviluppo
dell'industria moderna. Nel passaggio veramente decisivo del Quaderno
22, Gramsci scrisse infatti queste parole:

481. lvi, pp.1805-1806 (Q15ll c. 27v).


482. Vac~ Modernità alternative, pp. 140-149.
Fascismo e corporativismo 141

il problema è questo: se l'America, col peso implacabile della sua produzione


economica (e cioè indirettamente) costringerà o sta costringendo l'Europa
a un rivolgimento della sua assise economico-sociale troppo antiquata, che
sarebbe avvenuto lo stesso, ma con ritmo lento e che immediatamente si pre-
senta invece come un contraccolpo della «prepotenza» americana, se cioè si
sta verificando una trasformazione delle basi materiali della civiltà europea,
ciò che a lungo andare (e non molto lungo, perché nel periodo attuale tutto è
più rapido che nei periodi passati) porterà a un travolgimento della forma di
civiltà esistente e alla forzata nascita di una nuova civiltà.483
Questo era il problema fondamentale di tutta la meditazione sull'a-
mericanismo. Problema che volle ulteriormente chiarire nella pagina ini-
ziale del quaderno, nel solo testo di stesura unica che nel 1934 vi aggiun-
se, dove scrisse che «i vari problemi esaminati», cioè l'intero corpo di
riflessioni dedicate ali' americanismo, si stringevano tutti nella questione
del «passaggio» dal «vecchio individualismo economico all'economia
programmatica».484 La tendenza fondamentale del presente stava appun-
to nel «passaggio» inquieto, nel parto irrisolto (nell '«interregno» dove «il
vecchio muore e il nuovo non può nascere»), tra la fine dell'epoca liberale
e una diversa «forma di civiltà», caratterizzata dalla «economia program-
matica», cioè dalla capacità della politica di "conguagliarsi" all'economia,
allo sviluppo globale dell'industria capitalistica. Questo «passaggio» era
stato iniziato ma non risolto né coerentemente proseguito dalla rivoluzio-
ne dei soviet, dalla forza «propulsiva» che l'Ottobre aveva manifestato.
Ma avrebbe ora richiesto la costruzione di una «nuova civiltà», derivante
dall'intersezione fra il principio implicito di quella rivoluzione, che non a
caso aveva sconvolto il mondo, e la superiore «razionalità» della nuova or-
ganizzazione economica americana. Né la Russia né l'America potevano,
come tali, esercitare una vera funzione egemonica, perché ciascuna rappre-
sentava una parte della soluzione. Solo l'Europa avrebbe potuto unire le
verità dell'una e dell'altra, chiudendo il circolo dell' «epoca» post liberale.
Rielaborando le note che aveva variamente scritto sull'argomento,
Gramsci cercò, nell'ultimo periodo della sua vita intellettuale, di illuminare
il senso di quel «passaggio». Ma, bisogna pur dirlo, non vi riuscì. Non per un
limite delle sue, per altro notevoli, capacità intellettuali, ma per la resistenza
della materia, che gli mostrava un quadro ben diverso da quello che la cos1ru-

483. Gramsci, Quaderni d~l carce~,PP- 2178-2179 (Q22, c. 51).


484. lvi, p. 2139 (Q22, c. 1).
142 Rivoluzioni passive

zione della «nuova civiltà» avrebbe richiesto. L'Europa gli apparve, alla fine,
talmente intrecciata al ciclo delle rivoluzioni borghesi, al mito dello Stato na-
zionale che, di quelle rivoluzioni, aveva rappresentato il più bel frutto, da non
lasciare molto spazio a una speranza di riscatto. Con l'epoca della borghesia,
anche l'Europa sembrava declinata nella svolta di fine secolo, intorno al 1870,
si era infranta nelle trincee della Grande guerra e si apprestava, ora, a farsi
incontro alla sua catastrofe. Era una immagine di decadenza, non di rinnova-
mento, quella che, dolorosamente, emergeva da ogni rigo delle sue pagine.
Di fronte alla «"vergine" America», l'Europa è costituita dalle sue
«grandi ''tradizioni storiche e culturali"»,485 che sono, al tempo stesso,
«sedimentazioni vischiosamente parassitarie», «passive», depositate nella
struttura sociale (a partire dalla rendita agraria e dalla organizzazione delle
città) e derivanti, in maniera particolare, dalla forma dello Stato nazionale
(burocrazia, intellettuali e così via). L'apparato improduttivo, che impedi-
sce la razionalizzazione del sistema, quindi il «passaggio» alla «economia
programmatica», non è, nella visione di Gramsci, un elemento estraneo
che interferisca con lo sviluppo industriale, ma il risultato, quasi l' oggetti-
vazione, del carattere più specifico della storia europea. Per liberarsi delle
«sedimentazioni passive», l'Europa dovrebbe congedare la sua tradizione
ed entrare, appunto, in una «nuova civiltà». Il positivo e il negativo hanno
lo stesso volto. Ciò che fa grande l'Europa- il motivo per cui presenta una
società civile ricca e articolata, una civiltà proiettata oltre il limite "struttu-
rale", un alto grado di possibilità egemonica- è anche la ragione della sua
decadenza. È la terra in cui il grande ciclo borghese si è cristallizzato in una
forma di vita e sembra destinata a precipitare in esso.
Osservati nei tre tennini principali che compongono la trama dei qua-
derni - Russia, America, Europa -, questi sono gli aspetti che delineano
l'immagine di una crisi globale, che impediscono di entrare negli ordi-
ni di una rivoluzione passiva e di ripetere, in una prospettiva diversa, il
grande ciclo delle rivoluzioni borghesi, operando il passaggio «dal vecchio
individualismo economico all'economia programmatica». Lo sguardo di
Gramsci, nel crinale degli anni Trenta, si era fatto fosco e pessimistico, e
presagiva, con una lucidità e un realismo impressionanti, la catastrofe ver-
so cui, a passi molto rapidi, il mondo si era incamminato. Nella mancanza
di una reale egemonia, alla guerra sarebbe seguita la guerra, una guerra
ancora più distruttiva di quella consumata nel principio del secolo.

485. lvi, p. 2145 (Q22, c. 16).


Fascismo e coq>orativismo 143

È in tale contesto che possono essere valutate le osservazioni di


Gramsci sul fascismo come rivoluzione passiva e, in modo particolare,
sulle dottrine corporative. Questa intuizione nacque nella sua mente fin dai
primi mesi del 1930 e acquistò una fisionomia più esplicita nel 1932, quan-
do, non a caso, il concetto di rivoluzione passiva appariva ormai chiarito
e sviluppato in tutti i suoi lati.486 Inizialmente, intorno al febbraio-marzo
1930, il corporativismo venne concepito come una «diffusione», «su scala
nazionale», della forma di mediazione tra massa operaia e Stato prece-
dentemente assicurata dalle organizzazioni sindacali. «In un certo senso»,
scriveva Gramsci, è dunque «uno strumento di unità morale e politica»,487
che ricade nella considerazione più complessiva del tema degli intellettua-
li. Così come il «curiale» o il «paglietta» pongono «a contatto» i contadini
con i proprietari fondiari e con lo Stato, così come, nel Nord, la mediazione
economica tra operai e padroni è assicurata dal «"tecnico" d'officina» e
quella politica da sindacati e partiti, le organizzazioni corporative genera-
lizzano il «tipo sociale» del vecchio sindacalista, riorganizzando, in forma
autoritaria, la mediazione tra classe e Stato.
Alcuni fogli dopo, nello stesso Quaderno 1, Gramsci tornava sul mede-
simo argomento con alcune osservazioni su un articolo di Carlo Pagni dedi-
cato al libro di Massimo Fovel su Economia e corporativismo che saranno
rielaborate nel Quaderno 22. Era stato Fovel, infatti, a concepire le misure
corporative come «la premessa all'introduzione in Italia dei sistemi indu-
striali americani». 488 Questa posizione (di cui, aggiungerà nel Quaderno 22,
la «corporazione proprietaria» di Ugo Spirito è la «conseguenza estrema»)489
mirava a trasformare le corporazioni in «un blocco industriale-produttivo
autonomo», attraverso il superamento delle vecchie forme di risparmio pa-
rassitario e la creazione di un circuito di reimpiego del plusvalore negli in-
vestimenti produttivi. Questa era, in effetti, 1'essenza dell'americanismo e si
trattava di comprendere se, qualora avesse adottato questa via, il fascismo

486. Per lo svolgimento della riflessione di Gramsci, si veda L. Mangoni, R problema


del fascismo nei Quaderni del carcere, in Politica e storia in Gramsci, a cura di F. Ferri,
2 voli., Roma, Editori Riuniti, 1977, I:, pp. 391-438. Sulla vicenda del corporativismo dr.
G. Santomassimo,La terzaviafascista.11 mito del corporativismo, Roma, Carocci,2006 e
A. Gagliardi, R corporativismo fascista, Roma-Bari, Laterza, 20 IO.
487. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), L p. 41
(Ql, c. 25v).
488. Ivi, p. 145 (Ql, c. 87r).
489. Gramsci, Quaderni del carcere,p. 2155 (Q22, c. 26).
144 Rivoluzioni passive

sarebbe riuscito a modernizzare la struttura economica della nazione. Nel


Quaderno 1 la risposta a tale domanda suonava sostanzialmente negativa,
per alcune ragioni specifiche. In primo luogo perché, come scrisse più volte,
gli ordini corporativi nascevano da esigenze di «polizia economica»,490 cioè
dal tentativo di liquidare la forza soggettiva dei produttori. In secondo luogo,
ed era l'argomento principale, il corporativismo scontava un limite "utopisti-
co", nel senso che confondeva «lo Stato con la società regolata»,491 trovava
di fronte a sé una struttura arretrata e riteneva di poterla piegare senza pro-
muovere i passaggi intermedi dello sviluppo, che solo un liberalismo «del-
la libera iniziativa e dell'individualismo economico», generando una ricca
società civile, avrebbe potuto assicurare. Il risultato era dunque contrario ai
propositi, con la difesa di «vecchie forme di accumulazione parassitaria» e
con la creazione di «nuovi redditieri», fino a risolversi in una «macchina di
conservazione dell'esistente così come è». 492
La diagnosi era lucida e priva di oscillazioni. Gramsci coglieva, nelle
posizioni di Fovel (e, più tardi, di Spirito), il nesso con l'americanismo, ma
riteneva che la realtà smentisse il proposito, perché lo Stato su cui doveva
poggiarsi (il fascismo) rendeva impossibile superare le forme di parassitismo
della società nazionale e appoggiarsi all'unica forza, quella dei produttori,
che avrebbe potuto sostenere un autentico progetto di modernizzazione. A
un certo punto, però, accennò all'ipotesi di «una via d'uscita», cioè alla pos-
sibilità che, in «una situazione così delicata», «per evitare una immane cata-
strofe», il progetto corporativo potesse «procedere a tappe lentissime, quasi
insensibili, che modifichino la struttura sociale senz.a scosse repentine». 493
Con una metafora scrisse che «anche il bambino meglio e più solidamente
fasciato si sviluppa tuttavia e cresce». Quando Gramsci scrisse sul Quaderno
1 queste parole (nel febbraio-marzo 1930), non aveva ancora utilizzato la
formula delle rivoluzioni passive, che, come sappiamo, apparve nei quaderni
intorno al novembre. Ma è chiaro che, nell'ipotesi formulata, il concetto era
già presente: si trattava di un processo di modernizzazione «a tappe lentis-
sime» e «senza scosse repentine», il cui modello sarà presto elaborato nella
connessione tra rivoluzioni passive, guerra di posizione, cesarismo. In un te-

490. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), L p. 147


(Ql.. c. 88r).
491. Gramsci, Quaderni del carcere, p. 755 (Q6, c. 36r).
492. lv-i, p. 2157 (Q22, c. 28).
493. Gramsci, Quaderni del carcere. 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), L p. 149
(Ql,.c. 89r).
Fascismo e COiporativismo 145

sto più tardo (aprile-maggio 1932), che si legge in prima stesura nel Quader-
no 9, Gramsci provò a specificare il meccanismo di tale dinamica nel passag-
gio della fiducia dei risparmiatori dalle azioni industriali alle obbligazioni e
ai titoli di Stato, che implicava la necessità di una qualche forma di economia
programmatica, con una «riforma agraria» e una «riforma industriale»: se lo
Stato, osservava, divenuto titolare del risparmio, non intervenisse a regola-
re il sistema di produzione e di scambio, la sfiducia per l'industria privata
«travolgerebbe anche lo Stato» e la situazione «diventerebbe catastrofica per
l'insieme dell'organizzazione economico-sociale».494
L'analisi sui titoli di Stato chiariva il significato di quella battuta, ac-
cennata nel primo quaderno, sulla «immane catastrofe» che il fascismo
avrebbe dovuto sfuggire. In una nota del Quaderno 8, largamente rielabo-
rata nel Quaderno 1O (le due stesure sono cronologicamente molto vicine),
Gramsci tirò la somma dell'analisi proposta, arrivando a definire il corpo-
rativismo come unarivoluzione passiva o, meglio e più precisamente, «una
guerra di posizione nel campo economico [ ... ], così come la ''rivoluzione
passiva" lo è nel campo politico».495 Dunque una rivoluzione passiva di
tipo economico, relativa alla modernizzazione della struttura produttiva,
sia pure tesa a «mantenere il sistema egemonico» e «senza per ciò toccare
(o limitandosi solo a regolare e controllare) l'appropriazione individuale e
di gruppo del profitto». L'intero discorso (che prendeva spunto dal giudizio
sulla storia d'Europa di Croce come «trattato di rivoluzioni passive») era
fondato sull'analogia tra corporativismo e liberalismo ottocentesco:
può avere questa trattazione - si chiedeva nel Quaderno 8 - un riferimento
attuale? Un nuovo «liberalismo», nelle condizioni moderne, non sarebbe poi
precisamente il «fascismo»? Non sarebbe il fascismo precisamente la forma
di «rivoluzione passiva» propria del secolo XX come il liberalismo lo è stato
del secolo XIX? [ ... ] Si potrebbe cosi concepire: la rivoluzione passiva si
verificherebbe nel fatto di trasfonnare la struttura economica «rifonnistica-
mente» da individualistica a economia secondo un piano (economia diretta)
e l'avvento di una «economia media» tra quella individualistica pura e quel-
la secondo un piano in senso integrale, permetterebbe il passaggio a forme
politiche e culturali più progredite senza cataclismi radicali e distruttivi in
forma sterminatrice. Il «corporativismo» potrebbe essere o diventare, svilup-
pandosi, questa forma economica media di carattere «passivo» [ ... ]. Questa
concezione potrebbe essere avvicinata a quella che in politica si può chiama-

494. Gramsci, Quaderni del carcere~P- 2176 (Q22~ c. 48).


495. Ivi, pp. 1228-1229 (QlO~ c. 47v).
146 Rivoluzioni passive

re «guerra di posizione» in opposizione alla guerra di movimento. Così nel


ciclo storico precedente la Rivoluzione francese sarebbe stata «guerra di mo-
vimento» e l'epoca liberale del secolo XIX una lunga guerra di posizione.496
E nel Quaderno 1O specificava l'ultimo passaggio con l'aggiunta di
queste parole:
nell'Europa dal 1789 al 1870 si è avuta una guerra di movimento (politica)
nella Rivoluzione francese e una lunga guerra di posizione dal 1815 al 1870;
nell'epoca attuale, la guerra di movimento si è avuta politicamente dal marzo
1917 al marzo 1921 ed è seguita una guerra di posizione il cui rappresentante,
oltre che pratico (per l'Italia), ideologico, per l'Europa, è il fascismo. 497
L'analogia tra liberalismo e fascismo sorreggeva, drammaticamente,
l'impianto dell'analisi. Se il liberalismo aveva svolto, in termini di rivo-
luzioni passive, la lunga guerra di posizione innescata dalla Rivoluzione
francese, assicurando la costruzione degli Stati nazionali europei e dell' e-
conomia individualistica, ora era il fascismo (non il movimento operaio,
ma il regime reazionario che aveva prevalso ovunque in Italia e in Eu-
ropa) a esprimere, nella forma di una nuova modernizzazione "passiva",
il passaggio epocale «all'economia programmatica». Se quel passaggio
storico aveva avuto un inizio «dal marzo 1917 al marzo 1921», nell'av-
vio della prima rivoluzione realizzata dal proletariato e nella sconfitta dei
moti tedeschi, adesso erano le forze peggiori della reazione a proseguirne
il cammino. Questo era il paradosso che tutta la ricerca sulle rivoluzioni
passive aveva contribuito a evidenziare: nell'epoca di una crisi globale -
quando né la vecchia Europa né l'America né la Russia riuscivano più a
esercitare una reale egemonia sul mondo - il ritmo della modernizzazione
''passiva" riemergeva nella forma inaudita di una rivoluzione passiva senza
egemonia, senza consenso e senza civiltà, affidata alle mani delle potenze
più oscure, guidate da esigenze «di polizia economica». Gli stessi che lo
avevano confinato nel buio di un carcere. Che era, a ben vedere, la conclu-
sione più amara, condotta con implacabile senso realistico, che il grande
prigioniero arrivava a depositare nei suoi quaderni, dopo avere gettato lo
sguardo nelle profondità del proprio tempo.

496. lvi, pp.1088-1089 (Q8, cc. 78n·).


497. lvi, p.1229 (QlO, c. 47v).
Indice dei nomi

Acocell~ Giuseppe> 19n Carducci, Giosuè, 43-46


Alfieri, Vittorio, 18n, 99-100 Carena, Attilio, 17
Alighieri, Dante, 18n Camot, Nicolas Léonard Sadi, 19n, 30n
Angeli, Nonnan, 126 Castellano, Giovanni, 18 e n
Antonini, Francesca, 84n Cavaignac, Louis Eugène, 90
Arcari, Paolo, 18n Cavalli, Alessandro, 94n
Azzolini, Giulio, 87n Cavour, Camillo Benso conte di, 43-44, 71,
81-82, 112-113
Bagnasco, Arnaldo, 94n Cesare, Caio Giulio, 91, 105-107
Bakunin, Michail Alcksandrovif, 60 Ciasca, Raffaele, 38
Bauer, Edgar, 71 Cicalese, Maria Luisa, 27n
Benjamin, Walter, 12 Ciccotti, Ettore, 66 e n
Bergami, Giancarlo, 17n Colasanti, Giovanni, 17
Bemardini, Bernardo, 75n Coppola, Francesco, 25
Bismarck, Otto Eduard Leopold von, 95- Cortese, Nino, 17, 36-37
96, 106 Cospito, Giuseppe, 16n, 24n, 35n, 56n,
Bodin, Jean, IO 7ln,94n
Bonaparte, Luigi, 8, 66, 84, 89-93, 96, 106- Croce, Alda, 26n
107 Croce, Benedetto, 12, 17-23, 25-26, 29-30,
Bonaparte, Napoleone I, 17, 72-73, 90-91, 33, 48-52, 55-57, 66, 69-70, 72-73,
96, 105-107, 125 75, 119-121, 130-133, 136-138, 145
Bucharin, Nikolaj lvanovif, 8, 74, 135, Cromwell, Oliver, 105
138-139 Cuoco, Vincenzo, 7, 16-23, 27-36, 38-39,
Buci-Glucksmann, Christine, 11 On, 112n 42-47,50,66,69-70, 72,111,121,125
Bulferetti, Domenico, 17
Burgio, Alberto, 57n, 62n, 66n, 79n, 97n, D'Andrea, Giampaolo, 15n
124n Daniele, Chiara, 18n, 1OOn
Burke, Edmund, 30-31 Dc Aloysio, Francesco, 27n
Deborin, Grigorii Abramovich, 138-139
Cantimori Mczzomonti, Emma, 40n De Domenico, Nicola, 137 e n
Caprioglio, Sergio, 126n De Felice, Franco, 112n, 121-122
148 Rivoluzioni passive

De Felice, Renzo, 25n, 27 e n Gily Reda, Clementina, 27n


De Francesco, Antonino, 16n Gioberti, Vmcenzo,44-46, 70-71, 111
Dc Man, Hcnri, 133 Giorgetti, Giorgio, 8811, 90n
De Meis, Angelo Camillo, 26 Gobetti, Piero, 27 e n
De Ruggiero, Guido, 23-29, 33-34, 66 Gravina, Gian Vincenzo, 21, 31, 33
De Sanctis, Francesco, 18n, 43, 46 Gualtieri, Roberto, 120n, 127-128
Del Secolo, Floriano, 18 e n Guerra, Gabriele, 12
Diamanti, Marco, 21 n Guicciardini, Francesco, 43-45, 47
Di Meo, Antonio, 16n, 33n Guizot, Francois, 45-46
Dodsley, James, 30
Dreyfus, Al fred, 108 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 9, 40, 52,
54,63,68-70, 72-73, 123
Engels, Friedrich, 7, I O, 40n, 57, 59-63, 66- Hitler, Adolf, 134
67, 71n, 88-91 Hobbes, Thomas, 1O
Erasmo da Rotterdam (Desiderius Erasmus
Roterodamus), 24 Jankelevitch, Samuel, 85n
Farbmann, Michail, 135-136 Kanoussi, Dora, 74n
Fassò, Luigi, 17 Kant, lmmanucl, 73
Ferdinando I di Borbone-Due Sicilie, re Krasnov, Pctr Nikolacvic, 118
delle Due Sicilie (Ferdinando IV di
Napoli, Ferdinando III di Sicilia), 20 La Fayette, Gilbert du Motier de, 33n
Ferrari, Giuseppe, 40-41 Labriola, Antonio, 8-9, 49n, 57-66, 72
Fcucrbach, Ludwig, 66-67, 122
Landogn~ Francesco, 17
Filippini, Michele, 94n
Lapidus, Iosif Abramovich, 139
Fonseca Pimentel, Eleonora de, 19n, 28
Lassalle, Ferdinand, 66
Ford, Henry, 130
Lenin (Vladimir Il'ic Ul'janov), 72, 74-75,
Fovel, Massimo, 143-144
Francioni, Gianni, 15-16, 24n, 40n, 49n, 101, 117-118, 127 e n, 138-139
71n, 110-112 Lloyd George, David, 96
Frosini, Fabio, 16n, 23-24, 30n, 49n, 9411, Lomonaco,Franccsco, 7, 19n,30n,33
101n, 11 ln, 123n Loria, Achille, 130 e n
Fusillo, Francesco, 95n Losurdo, Domenico, 79n
Luigi XIV di Borbone, re di Francia, 98
Gagliardi, Alessio, 143n Luigi XVI di Borbone, re di Francia, 30
Galanti, Giuseppe Maria, 28 Lunaciarski, Anatolij Vasil'evif, 115n, 136-
Gandhi, Mohandas Karamchand, 115 137
Garin, Eugenio, 27 e n Luporini, Cesare, 57 e n
Gentile, Giovanni, 17, 25-27, 136 e n Luxemburg, Rosa, 116
Gentile, Lupo, 17
Gentili, Dario, 12 Mac Donald, James Ramsey, 11 O
Gerratana, Valentino, 15n, 23, 40n Machiavelli, Niccolò, 8, 21, 31, 33, 36-37,
Giannantoni, Simona, 25n 40-41, 47, 81, 105, 109-110
Giannone, Pietro, 25-27, 29 Magri, Tito, 33n
Giasi, Francesco, 1Sn, 17n, 49n, 1O1n, 127n, Maistre, Joseph de, 30 e n
135n Mangoni, Luisa, 80-81, 143n
Indice dei nomi 149

Maria Carolina d'Asburgo-Lorena, regina Pignatelli, Francesco, 37 e n


di Napoli e Sicilia, 20 Pinazzi, Andrea, 124n
Marx, Karl, 7-10, 12, 40n, 44, 56, 60, 66-71, Pisacane, Carlo, 40-41
74, 76-82, 84-85, 88-94, 96, I 04-107, Platone, Felice, 15n
120n, 123-124, 126-127, 130-132 Pocar, Ervino, 115n
Mattalia, Daniele, 43-47, 49 Pons, Silvio, IO In, 127n
Maurras, Charles, 114 Proudhon, Picrre-Joscph, 44, 66-71, 111
Mazzini, Giuseppe, 46, 60, 70-71, 81-82,
112-113 Quinet, Edgar, 43-47, 66, 70, 121
Mena, Javier, 74n
Michelet, Jules, 47 Radek, Karl Bemgardovi~, 127
Michels, Robert, 85-88, 94, 102 Ragionieri, Ernesto, 98n
Mirskij, Dmitrij Petrovi~, 138-140 Rascaglia, Maria, 130n
Missiroli, Mario, 27 Robespierre, Maximilien de, 73
Modonesi, Massimo, 74n Rocco, Alfredo, 25
Mondaini, Gennaro, 24 Rodano,Franco,67n
Montanari, Marcello, 94n Roggcro, Egisto, 46
Montenegro, Niccolò, 46n Romano, Ruggicro, 57n
Morandi, Carlo, 36 e n Romier, Lucien, 130
Morton, Adam David, 75n, 123n Rossi, Vittorio, 18n, 42 e n
Mosca, Gaetano, 88 Rubel, Maximilien, 8
Mussolini, Benito, 85-86, 11 O Ruffo, Fabrizio Dionigi, cardinale, 36
Mustè, Marcello, 49n, 54n, 58n, 67n, 82n Ruggiero, Nunzio, 25n
Russo, Luigi, 44
Natale, Michele, 7, 19n, 33 Russo, Vincenzo, 29
Natoli, Aldo, 18n
Nelson, Horatio, 20 Salvatorelli, Luigi, 30 e n
Nicolini, Fausto, 16, 20n, 30n Santomassimo, Gianpasqualc, 143n
Sbarbcri, Franco, 58n
Omodco, Adolfo, 82 e n Schinaia, Angela, 25n
Oriani, Alfredo, 27 Schmitt, Cari, 12
Ostrovitianov, Konstantin Vasil 'evi~, 139 Schuch4 Giulia, 18n
Ottolini, Angelo, 17 Schuch4 Tatiana, 18 e n, 49, 135 e n, 138
Seassaro, Cesare, 127
Paggi, Leonardo, 77n Settis, Bruno, 127n
Pagni, Carlo, 143 Shaw, Bemard, 137
Paine, Thomas, 7, 16n, 33-34 Silva, Pietro, 36 e n
Paolo, santo, 91 Sismondi, Jean Charles Uonard Simonde
Pareto, Vilfredo, 88 dc,46n
Pascoli, Giovanni, 18n Sonzogno,Francesco, 16
Pctri, Carlo, 127 Sorel, Georges, 9, 59, 88
Petruccelli della Gattina, Ferdinando, 24 Sorgonà, Gregorio, 112n
Philip, André, 130 Souveraine, Boris, 136
Philp, Mark, 33n Spaventa, Bertrando, 26, 72
Pieri, Piero, 36-37 Spirito, Ugo, 143-144
150 Rivoluzioni passive

Sraffa, Piero, 127, 137-138 Tuozzolo, Claudio, 67n


Stalin, Iosif (IosifVissarionovif Dfuga~vili),
74,97,99, 101,127, 137-138 Vacca, Giuseppe, 12, 56-58, 76n, 122n,
Stimilli, Elettra, 12 127n, 135n, 140n
Sturzo, Luigi, 15n Venturi, Franco, 27n
Vico, Giambattista, 21 e n, 25n, 28-29, 31,
Tasca, Angelo, 57 33,47,49
Taviani, Ermanno, 112n Villari, Luigi, 25
Taylor, Frcdcrick Winslow, 127 Vivanti, Corrado, 57n
Telò, Mario, 122n
Tessitore, Fulvio, 20n Weber, Max, 8, 11, 85, 87-88, 88, 94-97
Thomas, Peter D., 79n, 123n Wilson, Thomas Woodrow, 126 e n
Togliatti, Palmiro, 10, 97-98, 100n, 135n
Tolstòj, Lev Nikolàevif, 81 Zanardo, Aldo, 71 n, 77n
Torraca, Francesco, 24 Zcmpcl, Giovanni, 30 e n
Trockij, Lev Davidovic, 74-75, 97, 101, Zini, Zino, 127
115-116 Zoppi Garampi, Silvia, 130n

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