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Diritti di cittadinanza e Welfare State.

Citizenship and Social Class di Tom Marshall cinquant’anni


dopo
di Sandro Mezzadra*

Pubblicato come introduzione a T.H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, Roma – Bari, Laterza,
2002, pp. V-XXXIV.

1. Quello che il lettore ha tra le mani è un piccolo classico del pensiero politico novecentesco.
Scritto da un sociologo, e motivato dal confronto con un economista – Alfred Marshall –, il testo si
dipana all’incrocio tra queste due discipline, o meglio sulle mobili frontiere che ne separano oggetti,
metodi di indagine e concetti. Ed è proprio questa collocazione di frontiera ciò che conferisce a
Ctizenship and Social Class la sua aura di classicità: il suo valore paradigmatico, si può anzi dire,
per comprendere gli sviluppi del pensiero politico europeo occidentale nei venticinque anni
successivi alla sua prima pubblicazione (1950), quando la sociologia, definitivamente consolidata la
propria posizione accademica, condizionò in profondità lo stesso discorso pubblico, mentre la vera
e propria «rivoluzione» determinata dalla General Theory di John Maynard Keynes (1936)
all’interno dell’economia politica offrì la cornice generale per le politiche che scandirono il ritmo
della ricostruzione e dello sviluppo postbellico1.
Pensato nel campo d’esperienza tragicamente perimetrato dalla crisi del ’29 e dalle sue
conseguenze, il testo di Tom Marshall, che deriva da una serie di conferenze tenute nel 1949 a
Cambridge per onorare la memoria del suo omonimo economista Alfred, è altresì tutt’altro che
inconsapevole della «rottura di civiltà» determinata dalla seconda guerra mondiale. Questa duplice
catastrofe costituisce anzi lo sfondo su cui acquista la propria peculiare urgenza il tema centrale di
Ctizenship and Social Class: quello della sicurezza. Di lì a qualche anno, attorno a questo tema, si
sarebbero spese riflessioni essenzialmente critiche: la sociologia statunitense, da La folla solitaria
di David Riesman (1948) a La società opulenta di John Kenneth Galbraith, (1958), avrebbe
descritto in modo impietoso la banalità di un quotidiano in cui libertà e progresso sembravano
svaporare nel sogno di una villetta suburbana e nello spettacolo della mirabolante espansione dei
consumi di massa2. Uno studio classico di Daniel Bell, uscito in prima edizione nel 1960, già tirava

*
Ringrazio per le loro critiche e per i loro suggerimenti Raffaella Baritono, Laura Lanzillo, Mario Piccinini e Maurizio
Ricciardi, che hanno letto e discusso con me una prima versione di questo testo.
1
Si veda, a quest’ultimo proposito, L.R. Klein, La Rivoluzione Keynesiana (1947), Etas Kompass, Milano, 1969. Più in
generale, sugli «anni dello sviluppo economico», cfr. S. Guarracino, Il Novecento e le sue storie, Bruno Mondadori,
Milano, 1997, pp. 137 ss., nonché Id., Storia degli ultimi cinquant’anni. Sistema internazionale e sviluppo economico
dal 1945, Bruno Mondadori, Milano, 1999, pp. 135 ss.
2
Cfr. D. Riesman, La folla solitaria (1948), Il Mulino, Bologna, 1999 e J.K. Galbraith, La società opulenta (1958),
Comunità, Milano, 1973. Per una puntualizzazione storiografica su questi processi, con riferimento specifico alla

1
le somme, decretando La fine dell’ideologia, ovvero il tramonto dell’umanesimo comune al
liberalismo e al socialismo ottocenteschi in un orizzonte dominato da pianificatori tecnocratici,
persuasori occulti e ricerca del benessere materiale3. Erano così poste le condizioni sia per la critica
del consumismo che avrebbe caratterizzato i movimenti del Sessantotto in Occidente, e che era stata
anticipata da Herbert Marcuse nel 1963 nell’Uomo a una dimensione, sia per il rilancio, nella scia
della riflessione avviata già nel 1944 da Friedrich August von Hayek con La via della schiavitù, di
un aggressivo pensiero «neoliberale», che proprio dall’attacco ai «miti» della pianificazione e della
giustizia sociale avrebbe tratto le proprie più potenti armi retoriche. E lo stesso pensiero
«neoconservatore» si disponeva ad assumere la critica dell’ossessione della sicurezza sociale come
tema generale attorno a cui riorganizzare le proprie categorie, a partire dalla contrapposizione di un
nuovo senso etico del dovere e dell’autorità contro uno sviluppo che, per dirla con il fondatore
dell’antropologia filosofica novecentesca Arnold Gehlen, degradava lo Stato a una «mucca da
latte», da cui traeva sostentamento un tipo umano seriale e alieno a ogni assunzione di
responsabilità in proprio4.
Affatto diversa era la prospettiva in cui si poneva Marshall alla fine degli anni ’40. Certo,
anch’egli avrebbe analizzato, a distanza di poco più di un decennio, i problemi determinati dalla
«società opulenta» dal punto di vista dello sviluppo del Welfare State: e si sarebbe in particolare
soffermato su quella «nuova atmosfera di libertà incondizionata, nella quale ognuno ha diritto ad
avere tutto quello che gli riesce di avere, in base all’assunto che c’è per tutti e di avanzo», che
contrastava platealmente con l’«austerità» delle condizioni in cui lo Stato sociale post-bellico aveva
visto la luce in Gran Bretagna5. Ma il testo che qui presentiamo è tutto interno a quelle condizioni
aurorali; e propone una ricostruzione di lungo periodo della storia moderna della cittadinanza che ha
come obiettivo proprio quello di porre lo Stato sociale democratico – nonché i diritti sociali da esso
garantiti - come suo coronamento e sintesi. Mentre il principio dello Stato sociale trovava la propria
sanzione in alcune delle più significative carte costituzionali promulgate dopo la conclusione della
seconda guerra mondiale (con l’articolo 38 della Costituzione italiana e con l’art. 20 della Legge
fondamentale tedesco-federale), la qualificazione sociale dello Stato si avviava a divenire, più in
generale, uno dei tratti salienti della sua «legittimità», costituendo d’altra parte uno degli elementi

situazione europea occidentale, si vedano D.J. Ellwood, L’Europa ricostruita. Politica ed economia tra Stati uniti ed
Europa occidentale 1945-1955 (1992), Il Mulino, Bologna, 1994 e P. Pombeni, La democrazia del benessere, in
«Contemporanea», IV, 2001, 1, pp. 19-45.
3
Cfr. D. Bell, La fine dell’ideologia. Il declino delle idee politiche dagli anni Cinquanta a oggi (1960), SugarCo,
Milano, 1988.
4
Si vedano rispettivamente H. Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata
(1964), Einaudi, Torino, 1999, F.A. v. Hayek, La via della schiavitù (1944), Rusconi, Milano, 1995 e A. Gehlen,
Morale e ipermorale. Un’etica pluralistica (1969), a cura di U. Fadini, Ombre corte, Verona, 2001, (p. 120 per la
citazione).

2
che consentono di leggere in una prospettiva unitaria, sia pure su un piano evidentemente molto
astratto, lo sviluppo post-bellico della forma-Stato in Europa occidentale e all’interno del blocco
sovietico. Leggere (o rileggere) oggi il testo di Marshall consente di recuperare il significato, o
l’insieme complesso e contraddittorio di significati, di un’esperienza centrale nella storia del
Novecento. E può forse aiutare, al culmine di una lunga fase storica contraddistinta dall’attacco
retorico e materiale alle politiche di Welfare, a sviluppare qualche considerazione utile per il nostro
prossimo futuro.

2. Ma chi era Thomas Humphrey Marshall? Un singolare «sociologo», in verità. Studente di storia a
Cambridge negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, la sua formazione era
stata segnata dalla lezione di John Clapham, che lo introdusse allo studio della storia economica
inglese, e da quella di Gaillard Lapsley, docente bostoniano di storia medievale che per primo, nel
solco dell’insegnamento di Vinogradoff e Maitland, rese Marshall familiare con «lo studio dei
sistemi sociali»6. Ma l’esperienza davvero decisiva dei suoi anni giovanili, come egli riconobbe
successivamente, non ebbe molto a che fare con l’accademia: l’esplosione della Grande guerra lo
colse a Weimar, dove stava effettuando un soggiorno di studio per apprendere la lingua tedesca.
Internato insieme ad altri 4000 cittadini britannici nel campo di prigionia di Ruhleben, vi trascorse
quattro anni: la diretta partecipazione a un processo di formazione e di differenziazione di una
società in vitro, che un suo compagno di prigionia, lo psicologo canadese John Davidson Ketchum,
descrisse nei termini classici dell’evoluzione da una struttura «comunitaria» a una struttura
«societaria», consentì a Marshall di fuoriuscire dall’«angusto mondo dell’intellighenzia borghese»
in cui era cresciuto e di affinare quella che retrospettivamente gli sarebbe potuta apparire come una
embrionale sensibilità sociologica7.
Questa formazione profondamente condizionata da esperienze extra-accademiche, tra cui,
oltre alla prigionia negli anni della guerra, occorre ricordare la partecipazione come candidato
laburista in un collegio profondamente conservatore alle elezioni del 1922, che lo fece entrare
direttamente in contatto con il mondo operaio, impresse un segno durevole sulla sua personalità
umana e scientifica. Dopo aver concluso la dissertazione a Cambridge (sulle gilde nel
diciassettesimo secolo), ottenne un posto come tutor per gli studenti che aspiravano a divenire
social workers alla «London School for Economics», diretta in quegli anni da William H.

5
Cfr. in particolare T.H. Marshall, Stato assistenziale e società opulenta (1961), in Id., Cittadinanza e classe sociale
(1963), a cura di P. Maranini, Utet, Torino, 1976, pp. 207-231 (226 per la citazione).
6
Cfr. T.H. Marshall, A British Sociological Career, in «International Social Science Journal», XXV, 1973, pp. 88-100,
in specie p. 89.
7
Ivi, pp. 89 s. A proposito del campo di prigionia di Ruhleben, cfr. J.D. Ketchum, Ruhleben. A Prison Camp Society,
Toronto University Press, Toronto, 1965.

3
Beveridge, che avrebbe successivamente giocato un ruolo di primo piano nella costruzione dello
Stato sociale britannico. Anche quando, nel 1929, divenne professore di «Istituzioni sociali
comparate», un insegnamento che dipendeva dalla cattedra di sociologia tenuta da Morris Ginsberg,
Marshall era, come lui stesso ammise, «piuttosto ignorante in sociologia, intesa quest’ultima nel
senso professionale del termine»8: e per quanto successivamente egli abbia approfondito lo studio
dei classici della disciplina (in particolare di Weber e di Durkheim), rimase sempre un eclettico.
Una profonda influenza fu certamente esercitata su di lui dall’ambiente della «London School»
negli anni tra le due guerre: l’intenso confronto che al suo interno si svolse fra il «nuovo
liberalismo» improntato all’insegnamento di Hobhouse, il socialismo fabiano e il socialismo
cristiano di Tawney, fece infatti da sfondo, unitamente al rapporto molto stretto con le esperienze
pratiche di social work, a un rinnovamento nello studio dell’amministrazione e della politica
sociale, che nel secondo dopoguerra avrebbe trovato proprio in Marshall – oltre che in Richard
Titmuss – il proprio più fedele continuatore9.
Altre esperienze al di fuori delle istituzioni universitarie scandirono la biografia di Marshall
negli anni successivi: il lavoro come consulente scientifico sulla situazione tedesca per il ministero
degli esteri negli anni della guerra, l’attività di commissario responsabile per il sistema scolastico
all’interno della commissione britannica di controllo per la Germania nel 1949-1950 e di direttore
della divisione di scienze sociali dell’Unesco a Parigi dal 1956 al 1960. Dipende probabilmente da
questa intensa attività pratica la circostanza che Marshall non abbia fondato una «scuola»
sociologica e abbia legato il proprio nome a raccolte di saggi più che a ponderose monografie
accademiche10. Ciò nondimeno egli fu uno dei protagonisti, con i suoi studi sulla politica sociale,
sulla stratificazione e sullo status, del processo di istituzionalizzazione della sociologia in Gran
Bretagna, che risultò più lungo e più complesso che sul continente europeo e negli Stati uniti11.
«La sociologia non deve vergognarsi del proprio desiderio di risultare utile»: in queste
parole di Marshall, pronunciate nel corso della lezione inaugurale che tenne alla «London School of

8
T.H. Marshall, A British Sociological Career, cit., p. 91.
9
Sull’ambiente della «London School», cfr. R. Dahrendorf, LSE: A History of the London School of Economics and
Political Science. 1895-1995, Oxford University Press, Oxford, 1995. Specificamente sullo studio della politica sociale,
cfr. i saggi raccolti da M. Bulmer, J. Lewis e D. Piachaud in The Goals of Social Politics, Unwin Hyman, London,
1989. Il contributo di Marshall è essenzialmente documentato, oltre che da molti suoi saggi, da A.M. Rees, T.H.
Marshall’s Social Policy, Hutchinson, London, 1985 (è la quarta edizione, pubblicata postuma, di Social Policy di
Marshall, uscito originariamente nel 1965).
10
Cfr. T.H. Marshall, Citizenship and Social Class – and Other Essays, Cambridge University Press, Cambridge, 1950
(in cui fu pubblicato per la prima volta il testo di Citizenship and Social Class), Id., Sociology at the Crossroads,
Heinemann, London, 1963 (tradotto parzialmente in italiano come Cittadinanza e classe sociale, cit.) e Id., The Right to
Welfare and other Essays, Free Press, New York, 1981.
11
Cfr. a questo proposito R.A. Kent, A History of British Empirical Sociology, Gower, Aldershot, 1981 e i due saggi di
R.J Halliday (Die soziologische Bewegung, die Sociological Society und die Entstehung der akademischen Soziologie in
Großbritannien) e di P. Anderson (Großbritannien: Soziologische Gründe für das Ausbleiben der Soziologie) in W.

4
Economics» nel febbraio del 1946, si trova condensata una concezione della sociologia molto
diffusa in Gran Bretagna negli anni a ridosso della seconda guerra mondiale, consolidata sia dallo
stretto rapporto che i percorsi della disciplina avevano intrattenuto (e avrebbero continuato a
intrattenere) con la dimensione pratica del social work, sia dalla convinzione che proprio la fine
della guerra aprisse inedite prospettive di politica sociale, nel promuovere le quali la sociologia
avrebbe potuto giocare un ruolo fondamentale. Da questa concezione della sociologia, Marshall
faceva derivare precise indicazioni metodologiche: occorreva battere un «sentiero intermedio» tra la
«via verso le stelle», alla ricerca di «ampie generalizzazioni, leggi universali e una comprensione
totale della società umana», e la via che conduce a perdersi nelle «sabbie» della ricerca quantitativa,
che fa affluire un’infinità di dati e di fatti «negli occhi e nelle orecchie del ricercatore, finché nulla
può più essere chiaramente visto o udito». Le acquisizioni che sull’una e sull’altra via erano state
effettivamente conseguite andavano spese nell’indagine su «unità di studio di dimensione
controllabile – non la società, il progresso, la morale, la civiltà, ma specifiche strutture sociali in cui
i processi e le funzioni basilari hanno significati determinati»12. Cittadinanza e classe sociale erano
per Marshall strutture sociali di questo tipo, che tre anni dopo egli si sarebbe disposto a indagare
facendo reagire positivamente gli studi storici e sociologici della sua formazione – nonché sullo
sfondo delle esperienze di politica sociale maturate in Gran Bretagna alla conclusione della seconda
guerra mondiale.

3. Abbiamo insistito in precedenza sul carattere «paradigmatico» del testo di Marshall. Si potrebbe
riprendere il discorso, e mostrare come la tematica dei diritti sociali di cittadinanza, che aveva
trovato una prima formulazione nel laboratorio costituzionale della Germania weimariana, sia stata
effettivamente centrale nell’esperienza politica europea occidentale alla conclusione della seconda
guerra mondiale13. Ma occorre prima di tutto mostrare quanto in profondità il testo di Marshall sia
legato al contesto britannico degli anni ’40, e in particolare alle politiche sociali del governo di
Attlee, il leader laburista che inaspettatamente sconfisse Churchill alle elezioni che si tennero alla
fine del 194514.

Lepenies (Hg.), Geschichte der Soziologie, 4 Bde., Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1981, Bd. 3, rispettivamente pp. 381-412
e 413-442.
12
T.H. Marshall, Sociology at the Crossroads (1946), in Id., Class, Citizenship, and Social Development, Doubleday,
New York, 1964 (è l’edizione statunitense di Sociology at the Crossroads, cit.), pp. 3-25, pp. 22 s.
13
Cfr. a proposito del primo punto S. Mezzadra, Costituzionalizzazione del lavoro e Stato sociale: l'esperienza
weimariana, in AA.VV., Ai confini dello Stato sociale, Manifestolibri, Roma, 1995, pp. 81-95; a proposito del secondo,
si veda ad es. G. Gurvitch, La dichiarazione dei diritti sociali (1944), Comunità, Milano, 1949.
14
Si veda in questo senso l’importante contributo di E. Low, Rediscovering T.H. Marshall: A Contextual Study of
“Citizenship and Social Class”, prepared for delivery at the 1999 Annual Meeting of the American Political Science
Association, Atlanta Marriott Marquis and Atlanta Hilton and Towers, September 2-5, 1999.

5
Già negli anni della guerra, del resto, si era venuta affermando la convinzione che, per
riprendere le parole del già citato Richard Titmuss, «la guerra non poteva essere vinta a meno che
milioni di persone comuni, in Gran Bretagna e al di là della Manica, si convincessero che noi
avevamo da offrire qualcosa di meglio del nemico, non solo durante ma anche dopo la guerra»15.
Proprio questa convinzione spiega la vasta eco che, ad onta dei suoi contenuti sostanzialmente
tecnici, ebbe il famoso rapporto pubblicato da Beveridge nel dicembre del 1942, intitolato Social
Insurances and Allied Services. Beveridge presiedeva all’epoca la Commissione interministeriale
per le assicurazioni sociali e i servizi affini istituita dal governo di unità nazionale di Churchill. Nel
suo rapporto, considerato da molti storici, accanto al New Deal rooseveltiano, il vero e proprio atto
di nascita di uno Stato sociale democratico improntato a una logica universalistica e compatibile
con un’economia di mercato, era esplicitamente formulato l’obiettivo di approfittare delle
condizioni di relativo livellamento sociale prodotte dalla guerra (il cosiddetto spirito di
Dunquerque) per varare un complesso di strategie di «attacco al bisogno» e di protezione sociale, in
particolare attraverso la generalizzazione del meccanismo dell’assicurazione obbligatoria16. Il
sistema delineato da Beveridge era universalistico nella misura in cui si proponeva di svincolare,
quantomeno tendenzialmente, l’erogazione di prestazioni sociali da parte dello Stato da quel
sistema di accertamento del reddito (i cosiddetti means tests) che era stato posto sotto accusa per il
suo portato di «stigmatizzazione sociale» della popolazione assistita: e poneva quindi le condizioni
perché quelle prestazioni si configurassero a tutti gli effetti come diritti di cittadinanza e si
svincolassero finalmente dalla determinazione paternalistica e dispotica che le avevano
contraddistinte fin dalle leggi sui poveri di età elisabettiana.
Le politiche sociali del governo Attlee si mossero fondamentalmente nella direzione indicata
da Beveridge, integrando il sistema di pensioni su base fissa che costituiva il vero e proprio perno
del progetto di Beveridge (e che fu varato con il National Insurance Act del 1946) con una profonda
riforma del sistema sanitario (coordinato dal ministro Aneurin Bevan), con una complessiva
ridefinizione dell’intero sistema assistenziale (attraverso il National Insurance Act del 1948) e con
ambiziosi programmi di edilizia popolare17. Il varo del Welfare State si produsse dunque in Gran
Bretagna all’incrocio (e non senza tensioni) tra l’opera di progettazione di uomini come Beveridge,
un riformatore illuminato che tenne sempre a sottolineare il proprio fermo credo liberale, coniugato

15
R. Titmuss, Saggi sul “Welfare State” (1958), Edizioni Lavoro, Roma, 1986, p. 83.
16
W. Beveridge, Social Insurance and Allied Services, Macmillan, London, 1942 (una traduzione italiana si può leggere
in M. La Rosa et alii, Solidarietà, equità e qualità. In difesa di un nuovo Welfare in Italia, Angeli, Milano, 1995, pp.
15-48). Sull’importanza del Rapporto Beveridge e delle successive politiche del governo Attlee nella storia dello Stato
sociale, cfr. F. Girotti, Il Welfare State. Storia, modelli e critica, Carocci, Roma, 1998, pp. 229 ss. Su Beveridge, si veda
in generale J. Harris, William Beveridge. A Biography, Oxford University Press, Oxford, 1977.
17
Cfr. J. Tomlinson, Democratic Socialism and Economic Policy: the Attlee Years, 1945-1951, Cambridge University
Press, Cambridge, 1997.

6
con una fiducia quasi tecnocratica nelle virtù di una relativa opera di pianificazione sociale, e la
concreta azione del governo laburista. Quel che ne risultò fu tuttavia un insieme di politiche sociali
che, pur con tutti i necessari distinguo, entrò a far parte di quel consenso di massima tra laburisti e
conservatori che durò a lungo in Gran Bretagna, e per definire il quale è stata coniata la formula di
Butskellism, dai nomi di Richard Austen Butler (Cancelliere dello Scacchiere conservatore negli
anni 1951-1955) e Hugh Tod Naylor Gaitskell (Cancelliere dello Scacchiere laburista negli anni
1950-1951).
Del Butskellism Marshall è stato recentemente indicato come uno degli esponenti più
significativi18. Indipendentemente dai fondati rilievi critici che sono stati mossi alla formula in
questione19, quel che si può dire è che Marshall partecipò effettivamente di un clima generale che
condusse in Inghilterra, ma ancora una volta non soltanto in Inghilterra, alla ridefinizione di due
concetti politici di fondamentale importanza: quello di pianificazione e quello di socialismo.
L’interesse pratico di Marshall per la pianificazione (testimoniato in Ctizenship and Social Class
dai riferimenti alla pianificazione urbanistica come «pianificazione totale», infra, p. *) spiega tra
l’altro, almeno parzialmente, lo scarso interesse che spesso gli è stato criticamente addebitato per
una teoria generale dello Stato. È stato in effetti notato che gli anni immediatamente successivi alla
seconda guerra mondiale sono stati caratterizzati in Gran Bretagna da un’estensione senza
precedenti dei poteri e delle funzioni del governo, a cui non è tuttavia corrisposta
un’intensificazione della riflessione teorica sullo Stato20. Si può senz’altro avanzare l’ipotesi che
proprio il fascino esercitato dalla tematica della pianificazione, con l’aura «tecnocratica» ad essa
connaturata, su cui si era da tempo ampiamente diffuso quel Karl Mannheim che esercitò una
notevole influenza su Marshall21, abbia funzionato come efficace “surrogato” dell’interesse per la
dottrina dello Stato intesa in senso tradizionale, indirizzando semmai lo stesso Marshall più verso lo
studio degli specifici contesti istituzionali in cui la pianificazione si esercitava.
Ma più in generale occorre sottolineare come l’idea di piano si sia andata progressivamente
svincolando, negli anni ’40 e poi nel contesto determinato in Europa occidentale dal «Piano
Marshall», dalla sua funzione di alternativa all’economia di mercato, sollecitando piuttosto lo studio
e la sperimentazione della sua possibile combinazione con essa, da cui emersero le formule di

18
A.M. Rees, T.H. Marshall and the Progress of Citizenship, in M. Bulmer - A.M. Rees (Eds.), Citizenship Today. The
Contemporary Relevance of T.H. Marshall, London, UCL Press, 1996, pp. 1-23, in specie p. 22.
19
Cfr. ad es. A. Rollings, Poor Mister Butskell: A Short Life, Wrecked by Schizophrenia, in «Twentieth Century British
History», V, 1994, 2, pp. 183-205.
20
E. Low, Rediscovering T.H. Marshall, cit., p. 3
21
Cfr. K. Mannheim, L'uomo e la società in un'età di ricostruzione (1935), Comunità, Milano, 1959.

7
«economia mista» e «capitalismo di Welfare»22. È sullo sfondo di questi processi che ragiona
Marshall, che arriva a definire «francamente socialista» (infra, p. *) il sistema economico-sociale
che ha di fronte agli occhi senza dubitare della sua persistente natura capitalistica, e soprattutto
senza dimenticare di precisare che l’obiettivo verso cui tende lo sviluppo in atto «non è quello di
una società senza classi, ma quello di una società dove le differenze di classe sono legittime sotto
l'aspetto della giustizia sociale, dove quindi le classi cooperano più di adesso a comune beneficio di
tutti» (infra, p. *, c.n.). Anche il socialismo, una volta distinto attraverso l’aggettivo «democratico»
dal sistema prevalente in Unione sovietica, si avviava così a scoprire inedite possibilità di
conciliazione con il capitalismo, secondo un processo che in Inghilterra sarebbe stato portato a
conclusione nel 1956 con la pubblicazione del libro di Charles Anthony Crosland, The Future of
Socialism, ma che, sotto il profilo teorico, era già stato anticipato dalla ridefinizione del concetto di
socialismo operata negli anni precedenti da Joseph Schumpeter23. Lo stesso Marshall, nel 1961,
propose la distinzione fra due forme di socialismo, l’una ostile per definizione al capitalismo e
l’altra – tra i cui esponenti annoverava proprio Crosland – orientata a temperarne gli eccessi senza
metterne in discussione i principi di fondo, rivendicando la funzione decisiva che questa seconda
forma di socialismo, inteso in fondo come criterio politico di definizione della società, aveva svolto
nel delineare la «filosofia politica» del Welfare State24.

4. In una situazione in cui la costruzione dello Stato sociale già minacciava di ridursi a semplice
questione di tecnologia istituzionale, Marshall proponeva dunque di inscriverla all’interno di un
lungo ciclo storico di espansione (nel senso che soggetti originariamente esclusi da essa sono stati
progressivamente inclusi nel suo spazio) e di arricchimento intensivo (nel senso che i suoi
“contenuti” si sono moltiplicati e qualitativamente modificati) della cittadinanza. Il riconoscimento
e la realizzazione di alcuni essenziali diritti sociali di cittadinanza costituivano, nella sua lettura, il
contributo specifico del Novecento a un processo che aveva avuto avvio con la dissoluzione di
quella società feudale in cui «lo status era il contrassegno di classe e la misura della
disuguaglianza» (infra, p. *) – in cui cioè a differenti posizioni sociali e “geografiche”
corrispondevano diritti diversamente qualificati. La progressiva unificazione, su base nazionale,
dello status spettante a tutti i componenti adulti (e maschi, come lo stesso Marshall opportunamente

22
Cfr. a questo proposito J. Tomlinson, Planning: Debate and Politics in the 1940s, in «Twentieth Century British
History», III, 1992, 1, pp. 154-174 e R. Bellofiore, Piano, capitale, democrazia. I termini di una discussione, in
«Altreragioni», 1, 1992, pp. 51-72.
23
Cfr. rispettivamente Ch.A. Crosland, The Future of Socialism, Cape, London, 1956 e J.A. Schumpeter, Capitalismo,
socialismo, democrazia (1942), Etas, Milano, 1994. Su Crosland, si veda ora K. Jefferys, Anthony Crosland. A New
Biography, Cohen Books, London, 1999.

8
sottolineava) della comunità rende possibile il successivo “depositarsi” su di esso di una serie di
diritti, di cui Marshall distingue tre classi: i diritti civili, quelli politici e quelli appunto sociali, che
si sarebbero pienamente affermati, da un punto di vista tipologico, rispettivamente nel corso del
XVIII, del XIX e del XX secolo.
Si tratta di una ricostruzione dello sviluppo storico della cittadinanza divenuta classica,
come già si è avuto modo di osservare: è difficile, ancora oggi, leggere un saggio sull’argomento
che non muova, anche soltanto per prenderne criticamente le distanze, da una discussione del testo
di Marshall. Quest’ultimo era del resto consapevole del fatto che lo schema da lui proposto valeva
soltanto tipologicamente: egli non dimenticava, in altri termini, come lo sviluppo dei diritti civili
avesse avuto avvio in Inghilterra ben prima del XVIII secolo e come fosse ben lungi dall’essersi
concluso all’inizio della rivoluzione industriale; né ignorava i limiti incontrati dall’estensione del
suffragio nel corso dell’Ottocento. Al tempo stesso, era ben chiaro a Marshall che il suo schema era
tratto essenzialmente dalla storia inglese: i contributi recenti che hanno posto l’accento sulla
diversità delle vie attraverso le quali lo sviluppo storico della cittadinanza si è realizzato in
Occidente difficilmente possono essere presentati, dunque, come critiche a lui rivolte25. È certo vero
che altri hanno tentato di generalizzare la lettura marshalliana, come ad esempio Reinhard Bendix
in un importante studio comparato del rapporto tra cittadinanza e nation-building, in cui si
sosteneva la tesi che nel loro complesso «gli sviluppi dei diversi Paesi europei rappresentano anche
il passaggio dalle società di ceti del XVIII secolo allo Stato assistenziale del XX secolo»26. Ma
questo, al di là del fatto che non può certo essere imputato a Marshall, mostra piuttosto quanto
l’immagine inclusiva e progressiva della cittadinanza da lui presentata nelle conferenze del ’49
corrispondesse a un sentire comune in Europa occidentale negli anni ’50 e ’60. E conferma una
volta di più la rilevanza del testo qui presentato come documento storico di un immaginario che
ebbe una propria specifica rilevanza nel determinare gli sviluppi del discorso pubblico e delle stesse
politiche nel secondo dopoguerra.
In una diversa prospettiva critica, la ricostruzione offerta da Marshall può certo
legittimamente apparire troppo lineare, anche laddove la si riferisca esclusivamente al caso inglese.
Ma più in generale si può ricordare, come ha fatto in un brillante contributo Albert O. Hirschman,
che a ciascuna delle ondate di affermazione dei diritti di cittadinanza distinte da Marshall è

24
Cfr. T.H. Marshall, Stato assistenziale e società opulenta, cit., pp. 212 ss. (227 s. per la citazione di Crosland). Sul
rapporto tra Marshall e Crosland, cfr. E. Low, Class and the Conceptualization of Citizenship in Twentieth-Century
Britain, in «History of Political Thought», XXI (2000), 1, pp. 114-131, pp. 128 s.
25
Cfr. ad es. G. Zincone, Da sudditi a cittadini. Le vie dello Stato e le vie della società civile, Il Mulino, Bologna, 1992
e M. Mann, Ruling Class Strategies and Citizenship, in M. Bulmer - A.M. Rees (Eds.), Citizenship Today, cit., pp. 125-
144.
26
R. Bendix, Stato nazionale e integrazione di classe (1964), Laterza, Bari, 1969, p. 99 (ma si veda anche pp. 95 s. per
la discussione dello schema di Marshall).

9
corrisposta una specifica reazione, di cui è opportuno e istruttivo studiare le dinamiche storiche e le
retoriche27. Il punto su cui si sono concentrate le critiche rivolte a Marshall a proposito
dell’eccessiva linearità della sua ricostruzione storica è tuttavia un altro: egli avrebbe sottovalutato
il ruolo essenziale del conflitto e della lotta nel processo di sviluppo dei diritti di cittadinanza,
offrendo di quest’ultimo un’immagine eccessivamente pacificata e in ultima istanza
funzionalistica28. È qui in questione, evidentemente, il problema di fondo a cui già allude il titolo
del saggio di Marshall, ovvero il rapporto tra la cittadinanza, che è un sistema di uguaglianza, e il
capitalismo, che si regge sulla disuguaglianza fra le classi sociali. È certo vero, da questo punto di
vista, che nel testo sono presenti riferimenti che possono essere intesi come abbozzi di una teoria
funzionalistica dello sviluppo della cittadinanza – si pensi ad esempio alle considerazioni
sull’esigenza degli imprenditori di avere a disposizione manodopera qualificata come “molla” del
progressivo sviluppo dell’istruzione obbligatoria (cfr. infra, p. *). Ma nel complesso il giudizio di
Marshall appare chiaro: nel secolo ventesimo, si legge nel testo, «la cittadinanza e la classe
capitalistica si sono trovate in guerra tra loro» (infra, p. *).
Non si può dire, dunque, che vi sia da parte di Marshall una sottovalutazione in generale del
conflitto di classe. Il discorso va spostato, piuttosto, sul tipo di conflitto a cui egli pensa. È
fondamentale, a questo riguardo, il riferimento a una quarta classe di diritti, in qualche modo
trasversale rispetto alla tripartizione discussa in precedenza, nella misura in cui comprende diritti
per loro natura civili (a partire da quello di associazione), che vengono tuttavia esercitati
collettivamente e che danno un contributo essenziale allo sviluppo dei diritti sociali: i diritti di
cittadinanza industriale. Marshall insiste molto sul ruolo di questi ultimi, e dunque del movimento
e delle lotte sindacali dei lavoratori a partire dall’imposizione della contrattazione collettiva, nello
sviluppo della cittadinanza novecentesca. Ma lo fa nella prospettiva di un’esaltazione, come già si è
visto, della cooperazione tra le classi che risulta, al di là di ogni giudizio di valore, inevitabilmente
legata a una specifica congiuntura storica: quella in cui, per riprendere i termini impiegati da Ralf
Dahrendorf in un importante lavoro del 1957 che deve molto a Marshall soprattutto nelle parti
dedicate alla «democrazia industriale», l’«isolamento istituzionale del conflitto di classe» (ovvero
non certo il suo superamento, ma piuttosto la sua spoliticizzazione) pose le condizioni per il breve

27
Cfr. A.O. Hirschman, Retoriche dell’intransigenza. Perversità, futilità, messa a repentaglio, Il Mulino, Bologna,
1991, in specie pp. 9 ss.
28
Cfr. ad es. A. Giddens, Profiles and Critiques in Social Theory, Macmillan, London, 1982, p. 171 e J.M. Barbalet,
Cittadinanza. Diritti, conflitto e disuguaglianza sociale (1988), a cura di D. Zolo, Padova, Liviana, 1992. Sul carattere
strutturale e “positivo” del conflitto per Marshall insistono invece R. Pinker, Introduction, in T.H. Marshall, The Right
to Welfare and Other Essays, cit., pp. 1-28, in specie p. 4 e E. Rieger, T.H. Marshall: Soziologie, gesellschaftliche
Entwicklung und die moralische Ökonomie des Wohlfahrtsstaates, in T.H. Marshall, Bürgerrechte und soziale Klassen.
Zur Soziologie des Wohlfahrtsstaates, Frankfurt a.M. – New York, Campus, 1992, pp. 7-32, in specie p. 30.

10
sogno di una dialettica virtuosa tra capitale e lavoro come motore dello sviluppo nell’epoca di
quello che si usa definire fordismo29.
Il testo di Marshall presenta tra l’altro un’acuta consapevolezza dei punti di crisi che
minacciavano tale modello: in particolare laddove insiste sul fatto che la nuova cittadinanza
democratica, in un’epoca in cui, come egli stesso scriveva nel 1945, «siamo tutti lavoratori e
cittadini e abbiamo finito per attenderci da tutti i cittadini che siano dei lavoratori»30, si fonda in
buona misura su un dovere di lavorare che «difficilmente può essere mobilitato dal senso di
appartenenza alla comunità nazionale» (infra, p. *). Il dovere di lavorare di cui qui si parla, precisa
Marshall, «non è quello di avere un posto di lavoro e di conservarlo, dato che questo è abbastanza
facile in condizioni di pieno impiego, ma di accettare psicologicamente il proprio lavoro e di
lavorare duramente» (ibidem, c.n.): emerge da questo ragionamento una determinazione sacrificale
della cittadinanza che non può che essere distribuita inegualmente all’interno della società, e il cui
carico essenziale pare gravare sulle spalle di quegli operai dell’industria che avevano visto divenire
sempre più ripetitivo e svuotato di “senso” il proprio lavoro nella misura in cui quest’ultimo si era
conquistato una posizione vieppiù centrale nella produzione della ricchezza sociale – e il cui
sottrarsi al sacrificio rappresenta il vero e proprio pericolo costituzionale che insidia la società.
Nello stesso contesto, per “risarcire” il sacrificio, Marshall fa riferimento al necessario
«sviluppo di fedeltà più ristrette, verso la comunità locale e specialmente verso il gruppo di lavoro»,
nonché proprio alla cittadinanza industriale come «iniezione di vigore nel corpo abulico della
cittadinanza» (infra, p. *): sono qui prefigurate le vie battute negli anni Cinquanta e Sessanta, sia
sotto il profilo dell’organizzazione del lavoro (con lo sviluppo della scuola della «relazioni umane»
di Elton Mayo31) sia sotto il profilo delle relazioni industriali (con lo sviluppo dei diversi sistemi di
«co-determinazione» e di «democrazia industriale»), per assicurare la tenuta del modello produttivo
fondato sulla produzione di massa. Ma né gli accorgimenti organizzativi né le strategie di
coinvolgimento delle rappresentanze sindacali all’interno delle aziende impedirono nel corso degli
anni Sessanta lo sviluppo di lotte operaie di tipo nuovo (caratterizzate in particolare proprio da

29
Cfr. R. Dahrendorf, Classi e conflitto di classe nella società industriale avanzata (1957), Laterza, Bari, 1977, pp. 401
ss. (sulla «democrazia industriale») e 417 ss. (sull’«isolamento istituzionale del conflitto industriale»). Conviene
ricordare che il testo di Dahrendorf, pubblicato in tedesco nel 1957, fu presentato due anni dopo proprio da Marshall
come dissertazione alla «London School of Economics». Sui limiti della categoria di fordismo, si tengano comunque
presenti le osservazioni di F. Gambino, Critica del fordismo regolazionista, in E. Parise (a cura di), Stato nazionale,
lavoro e moneta nel sistema mondiale integrato, Napoli, Liguori, 1997, pp. 215-240. Per un’analisi del rapporto tra
Stato sociale, produzione di massa e costituzionalizzazione del lavoro, cfr. S. Mezzadra – M. Ricciardi, Democrazia
senza lavoro. Sul rapporto tra costituzione, cittadinanza e amministrazione nella crisi dello Stato sociale, ivi, pp. 59-
85.
30
T.H. Marshall, Lavoro e ricchezza (1945), in Id., Cittadinanza e classe sociale, pp. 179-198, p. 182. Sulla funzione
decisiva del lavoro per intendere lo sviluppo della cittadinanza e delle stesse Costituzioni novecentesche, rimangono
fondamentali le considerazioni di A. Negri, Il lavoro nella Costituzione (1964), in Id., La forma Stato. Per la critica
dell’economia politica della Costituzione, Feltrinelli, Milano, 1977, pp. 27-110.
31
Cfr. R. Bendix, Lavoro e autorità nell’industria (1956), Etas, Milano, 1973, pp. 299 ss.

11
quegli «scioperi selvaggi» a cui Marshall più volte si riferisce con preoccupazione32), che posero
materialmente in crisi gli equilibri su cui si fondava la cittadinanza sociale e democratica descritta
in Citizenship and Social Class, dando al contempo espressione a comportamenti di estraneità e di
rifiuto del lavoro industriale – di rifiuto del sacrificio – che avrebbero rappresentato il motore di un
complesso processo di ridefinizione degli assetti materiali e dello stesso «spirito» del capitalismo33.
La stessa contrapposizione all’etica del lavoro di nuove libertà sperimentate, poco importa se in
modo illusorio, sul terreno dei consumi, descritta a proposito degli operai statunitensi dell’auto da
Otto Kirchheimer nel 196634, contribuì a rendere ancora più «abulico» il corpo della cittadinanza:
cosicché quando Marshall ebbe a scrivere, alla fine del decennio, che i diritti sociali di cittadinanza
riflettono «il forte tratto individualista della società di massa, che si riferisce tuttavia agli individui
come consumatori e non come attori», egli sembra più anticipare un ragionamento sulla crisi del
modello di cittadinanza da lui teorizzato vent’anni prima che esprimere una generale
sottovalutazione del momento attivistico della cittadinanza35.
Lo sviluppo dei movimenti negli anni a ridosso del ’68 del resto, se letto attraverso la lente
del concetto di cittadinanza, propose ulteriori questioni che eccedevano lo schema di Marshall. Da
una parte, infatti, quei movimenti costituirono lo sfondo su cui maturarono analisi critiche dello
Stato sociale democratico, orientate a mostrarne il permanente portato di stigmatizzazione e di
esclusione sociale36. Nel solco aperto da quegli stessi movimenti, inoltre, in anni più recenti si sono
sviluppate analisi storiografiche, di impronta essenzialmente foucaultiana, che hanno scoperto una
continuità «biopolitica», ancora una volta nel segno della stigmatizzazione e del dominio, tra il
Welfare novecentesco e le politiche sociali, dispotiche e paternalistiche, di antico regime37. Ma
d’altra parte il movimento afro-americano negli Stati uniti e il movimento femminista in tutto
l’Occidente muovevano, esplicitamente o implicitamente, critiche in qualche modo «nuove» al
preteso universalismo della cittadinanza democratica, mostrando come essa fosse tutt’altro che
restia a ospitare al proprio interno persistenti discriminazioni e meccanismi di dominio costruiti
attorno agli elementi della «razza» o del «genere». Se dunque il sociologo Talcott Parsons era

32
Per uno studio originale e precoce di tali scioperi, riferito alla situazione statunitense, cfr. A. Gouldner, Lo sciopero a
gatto selvaggio (1955), Etas, Milano, 1970.
33
Cfr. in questo senso L. Boltanski - E. Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Paris, 1999.
34
Si veda O. Kirchheimer, Private Man and Society (1966), in Id., Politics, Law & Social Change. Selected Essays,
Columbia University Press, New York - London, 1969, pp. 453-477.
35
E’ questa l’interpretazione di E. Low, Class and the Conceptualization of Citizenship, pp. 130 s. La citazione di
Marshall è tratta da Reflections on Power (1969), in Id., The Right to Welfare, cit., pp. 137-153, p. 141.
36
Cfr. ad es. C. Offe, Lo Stato nel capitalismo maturo (1973), Etas, Milano, 1977. Un tentativo di fare i conti con
questo problema dal punto di vista della concettualizzazione marshalliana della cittadinanza è in W.G. Runciman, Why
Social Inequalities are Produced by Social Rights, in M. Bulmer - A.M. Rees (Eds.), Citizenship Today, cit., pp. 49-63.
37
Si vedano ad es. F. Ewald, L’etat providence, Grasset, Paris, 1986, G. Procacci, Governare la povertà: la società
liberale e la nascita della questione sociale (1993), Il Mulino, Bologna, 1998 e R. Castel, Les metamorphoses de la
question sociale: une chronique du salariat, Fayard, Paris, 1995.

12
costretto a registrare i limiti che lo schema di Marshall, pur da lui ritenuto fondamentale, incontrava
laddove si tentava di applicarlo alla condizione dei neri statunitensi38, la critica femminista ha
mostrato in modo assai convincente come lo stesso sviluppo dei marshalliani diritti sociali di
cittadinanza, lungi dal determinare un progressivo superamento della determinazione
originariamente patriarcale della cittadinanza, ha piuttosto assunto come scontata e confermato una
«divisione sessuale del lavoro» all’interno della famiglia e della società che ha riprodotto per le
donne lo status di cittadine di seconda classe39. Sia la condizione delle donne, inoltre, sia la
condizione dei neri negli Usa mostravano come la sequenza storica marshalliana, che individuava
nello svolgimento dei diritti di cittadinanza una successione dell’elemento civile, politico e sociale,
risultasse in buona misura inadeguata: gli afro-americani, infatti, avevano avuto il riconoscimento
“formale” dei diritti politici in una condizione in cui i loro diritti civili continuavano a essere negati,
mentre le donne avevano sperimentato una regolamentazione dell’elemento «sociale» della propria
cittadinanza prima che fossero pienamente riconosciuti i loro diritti civili e politici.

5. Le ultime questioni richiamate sollevano il problema di quella che può essere definita, sulla
scorta di importanti studi pubblicati in Italia sull’argomento, l’antropologia politica implicita nel
discorso moderno della cittadinanza – ovvero le modalità con cui è stata costruita e immaginata, in
età moderna, una specifica immagine dell’individuo come cittadino40. E si tratta di un problema che
pare decisamente eccedere l’orizzonte teorico di Marshall. O meglio, che è implicitamente presente
nella sua riflessione sulla traccia schiettamente ottocentesca del riferimento alla «civiltà», ripreso
dalla domanda posta da Alfred Marshall nel 1873 «se non si può costantemente seppur lentamente
progredire fino al punto in cui ogni uomo, almeno per il lavoro che svolge, sarà un gentleman»
(infra, p. *). Risuonano qui gli echi delle considerazioni di John Stuart Mill sul «carattere», sul
“tipo umano” si potrebbe dire, che occorre salvaguardare e promuovere nello sviluppo politico-

38
T. Parsons, Piena cittadinanza per i neri americani? Un problema sociologico (1966), in T. Parsons, Comunità
societaria e pluralismo. Le differenze etniche e religiose nel complesso della cittadinanza, a cura di G. Sciortino,
Angeli, Milano, 1994, pp. 113-161. Un ulteriore riferimento all’importanza della ricostruzione di Marshall è in Id.,
Sistemi di società (1971), vol. II, Le società moderne, Il Mulino, Bologna, 1973, pp. 40-43.
39
Cfr. ad es. C. Pateman, The Patriarchal Welfare State (1988), in Ead., The Disorder of Women. Democracy,
Feminism and Political Theory, Standford University Press, Standford, CA, 1989, pp. 179-209, in specie pp. 184 s., A.
Del Re, Droits de citoyenneté: une relecture sexuée de T.H. Marshall, in E. Vogel-Polsky (Ed.) Womens Studies.
Manuel de ressources, Services Fédéraux des Affaires Scientifiques, Techniques et Culturelles, Bruxelles, 1994, pp. 71-
81 nonché Ead., Per una ri-definizione del concetto di cittadinanza, in F. Bimbi - A. Del Re (a cura di), Genere e
democrazia, Milano, FrancoAngeli, pp. 63-76.
40
Il riferimento fondamentale, a questo riguardo, è ai lavori di E. Santoro, Autonomia individuale, libertà e diritti. Una
critica dell’antropologia liberale, ETS, Pisa, 1999 e di P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, Laterza,
Roma – Bari, 3 voll. in 4 tomi, 1999-2002. Ma si veda anche S. Mezzadra, Immagini della cittadinanza nella crisi
dell’antropologia politica moderna. Gli studi postcoloniali, in R. Gherardi (a cura di), Politica consenso e
legittimazione. Trasformazioni e prospettive, Carocci, Roma, 2002.

13
sociale tipico della modernità41: e non si può dire che questo modello sia quello più adeguato a fare
i conti con la crisi dell’antropologia politica moderna che traspare in filigrana nelle nuove
rivendicazioni identitarie al centro della discussione contemporanea sulla cittadinanza, ad esempio
per quel che riguarda il tema del multiculturalismo42.
Il dibattito attuale è del resto contraddistinto, oltre che dall’attenzione per una serie di
«nuovi diritti» (i cosiddetti «diritti della terza generazione») venuti al centro dell’attenzione negli
ultimi anni43, da una consapevolezza della problematicità dell’appartenenza politica, comunque
definita, che non poteva che essere del tutto estranea a Marshall44. Come si è detto, l’immagine
della cittadinanza da lui proposta nelle lezioni del ’49 era fortemente inclusiva e progressiva, e
proprio in questo consiste una parte significativa del suo valore di documento storico; ma per la
stessa ragione non si troveranno nel testo considerazioni su quella determinazione esclusiva della
cittadinanza – sui suoi confini - che è oggi in particolare al centro della discussione, assai vivace, su
cittadinanza e immigrazione45. Al tempo stesso, e non potrebbe essere diversamente, l’impostazione
di Marshall dà per scontata la perimetrazione nazionale della cittadinanza, e risulta fatalmente
datata a fronte delle formidabili tensioni che appaiono oggi scaricarsi su di essa nel contesto dei
processi di globalizzazione, e che sono all’origine delle discussioni sulla «giustizia globale», su
nuove ipotesi di «cittadinanza cosmopolitica» e sui rapporti tra diritti di cittadinanza e diritti
umani46.

41
Cfr. ad es. le pagine dedicate a Mill in A.S. Kahan Aristocratic Liberalism. The Social and Political Thought of Jacob
Burckhardt, John Stuart Mill, and Alexis de Tocqueville, Oxford University Press, Oxford – New York, 1992.
42
Per una sintesi sul tema dell’identità, cfr. i saggi raccolti in F. Cerruti (a cura di), Identità e politica, Laterza, Roma –
Bari, 1996 e A. Maalouf, L’identità (1998), Bompiani, Milano, 1999. Per quel che riguarda la questione del
multiculturalismo, si vedano, all’interno di una letteratura ormai debordante, W. Kymlicka, La cittadinanza
multiculturale (1995), Il Mulino, Bologna, 1999, M. Martiniello, Le società multietniche (1997), Il Mulino, Bologna
2000 e W. Kymlicka - W. Norman (Eds.), Citizenship in Diverse Societies, Oxford University Press, Oxford - New
York, 2000.
43
Cfr. ad es. T. Bottomore, Citizenship and Social Class, Forty Years On, in T.H. Marshall – T. Bottomore, Citizenship
and Social Class, London – Chicago, Pluto Press, 1992, pp. 53-96, in specie pp. 65 ss., i saggi di R. Dore (Citizenship
and Employment in an Afe of High Technology), J. Finch (Family Responsibilities and Rights) e H. Newby (Citizenship
in a Green World: Global Commons and Human Stewardship), in M. Bulmer - A.M. Rees (Eds.), Citizenship Today,
cit., rispettivamente pp. 163-192, 193-208 e 209-221, nonché il saggio conclusivo dei curatori, Citizenship in the
Twentieth-first Century, ivi, pp. 269-283, in specie pp. 275 ss.
44
Per utili rassegne del dibattito contemporaneo, cfr. i saggi raccolti nelle sezioni monografiche dedicate al tema della
cittadinanza dalle riviste «Filosofia politica», XIV, 2000, 1 e «Cultural Studies», XIV, 2000, 1.
45
Sull’esclusione come dimensione strutturale della cittadinanza moderna, cfr. R. Brubaker, Cittadinanza e nazionalità
in Francia e in Germania (1993), Il Mulino, Bologna, 1997. Sul tema dei confini della cittadinanza, cfr. É. Balibar, Le
frontiere della democrazia (1992), Manifestolibri, Roma, 1993. Per quel che riguarda il dibattito su cittadinanza e
immigrazione, rimando a S. Mezzadra, Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Ombre corte, Verona,
2001 (in specie cap. 3), e all’ampia letteratura ivi citata.
46
Cfr. P. Hewitt, Social Justice in a Global Economy?, in M. Bulmer - A.M. Rees (Eds.), Citizenship Today, cit., pp.
249-268. Per una sintesi della letteratura sulla globalizzazione, cfr. l’introduzione dei curatori a S. Mezzadra – A.
Petrillo (a cura di), I confini della globalizzazione. Lavoro, culture, cittadinanza, Roma, Manifestolibri, 2000, pp. 7-38.
Sul tema della cittadinanza cosmopolitica, si vedano ad esempio D. Held, Democrazia e ordine globale. Dallo Stato
moderno al governo cosmopolitico (1995), Asterios, Trieste 1999 e la sintesi offerta da U. Beck, Manifesto
cosmopolitico, Asterios, Trieste, 2001. Un tentativo di applicare la tripartizione marshalliana all’analisi dello sviluppo

14
Ciò detto, l’eventuale “attualità” del testo di Marshall deve essere misurata sul terreno che
gli è più direttamente proprio – a partire dalla concettualizzazione dei «diritti sociali». Occorre a
questo proposito rilevare, in primo luogo, come ad essa siano state rivolte critiche da un punto di
vista tutt’altro che ostile al Welfare State e tutt’altro che insensibile alla pressante istanza di
giustizia sociale che impronta le pagine marshalliane. Danilo Zolo, in particolare, ha insistito sulla
circostanza che «i contenuti dei diritti sociali non sono mai, o quasi mai, delle prestazioni
proceduralmente definite, stabili e uniformi per tutti i cittadini», che sole potrebbero consentire di
agire efficacemente in giudizio per la loro soddisfazione, e ha dunque sostenuto l’opportunità,
proprio per meglio fondare la difesa e lo sviluppo dello Stato sociale, di parlare piuttosto di servizi
sociali47.
A noi sembra tuttavia, fermo restando il rigore argomentativo che caratterizza questa
posizione, che la definizione marshalliana dei diritti sociali andasse al di là del piano prettamente
giuridico e individuasse un elemento decisivo per la stessa comprensione della natura dello Stato
sociale democratico: l’inclusione all’interno della cittadinanza di alcuni fondamentali diritti sociali
(tutta la gamma che va dalla garanzia di «un minimo di benessere e di sicurezza economici fino al
diritto a partecipare pienamente al retaggio sociale», infra, p. *) qualificava nella sua prospettiva
una figura nuova di cittadino democratico, indisponibile a considerare il ricorso all’assistenza
pubblica come fonte di stigmatizzazione sociale. Cosicché, anche in riferimento ai contributi della
storiografia “foucaultiana” precedentemente citati, proprio il rimando ai diritti sociali (e dunque a
una dimensione necessariamente attiva della cittadinanza) vale a distinguere le politiche dello Stato
sociale democratico da altre politiche sociali – quali quelle ben sintetizzate dalla legge sui poveri
inglese del 1834, che, come Marshall ricorda, associava il mantenimento a spese della collettività
alla rinuncia alla libertà personale (cfr. infra, p. *). E lo stesso Welfare State novecentesco risulta da
questo punto di vista una figura strutturalmente instabile e contraddittoria, dominata dalla tensione
tra la tendenza a riprodurre logiche paternalistiche e patriarcali di dominio e la tendenza a
riqualificare e ad arricchire la cittadinanza democratica.
In questa stessa prospettiva, del resto, vale la pena di riconsiderare il discorso complessivo
di Marshall sullo status della cittadinanza. Possiamo qui tralasciare il contributo, pur rilevante,
offerto da Marshall alla ridefinizione della categoria sociologica di status nei suoi studi sulla

dei «diritti umani» è in G. Lohmann, Soziale Menschenrechte und die Grenzen des Sozialstaats, in W. Kersting (Hg.),
Politische Philosophie des Sozialstaats, Velbrück Wissenschaft, Weilerwist, pp. 351-371, in specie pp. 354 ss.
47
D. Zolo, La strategia della cittadinanza, in Id. (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza,
Roma – Bari, 1994, pp. 3-46, in specie pp. 29 ss. (30 per la citazione). Zolo riprende e sviluppa nel suo saggio molte
argomentazioni di J.M. Barbalet, Cittadinanza, cit.

15
stratificazione sociale48. Quel che rileva è l’uso fatto nelle lezioni del ’49 del famoso motto del
giurista Henry Sumner Maine, secondo cui lo sviluppo della società moderna avrebbe registrato un
passaggio «dallo status al contratto» come principi fondamentali di organizzazione giuridica e
sociale49. Pur riprendendo questa formula, rapidamente divenuta senso comune del liberalismo
inglese nel suo complesso, Marshall aggiunge che tale movimento, lungi dall’eliminare lo status in
quanto tale dal paesaggio sociale moderno, è stato reso possibile dalla generalizzazione dello
«status di uguaglianza» (infra, p. *) - ovvero della cittadinanza paritaria. È proprio la permanente
tensione tra questo status di uguaglianza e le concrete disuguaglianze prodotte dallo sviluppo
capitalistico (ovvero dal pieno dispiegamento del principio del contratto) a rendere ragione del
movimento della cittadinanza, a far sì che quest’ultima venga via via qualificandosi di diversi
contenuti e rispondendo alle esigenze di diversi soggetti sociali. L’«immagine di una cittadinanza
ideale, rispetto a cui si possono misurare le conquiste ottenute e verso cui le aspirazioni possono
indirizzarsi» (infra, p. *), è nella prospettiva di Marshall il principio di questa permanente tensione,
che impone – lo si ripete – di considerare la cittadinanza nei termini di un movimento sociale
almeno allo stesso titolo a cui la si considera dal punto di vista delle configurazioni istituzionali
nelle quali questo movimento di volta in volta pare acquietarsi.
L’insistenza marshalliana sullo status spiega come la critica neoliberale e neoliberista allo
Stato sociale abbia potuto presentarsi nei termini di un ristabilimento del primato del contratto
all’interno della società contemporanea – e dunque di una riapertura della dinamica interna ai suoi
assetti50. A ciò occorre aggiungere che tale critica si è innestata con successo sulla crisi di quei
presupposti materiali dello Stato sociale novecentesco a cui ci si è in precedenza riferiti parlando
del «fordismo» e del breve sogno di una dialettica “simmetrica” tra capitale e lavoro come motore
dello sviluppo: le stesse tumultuose trasformazioni che hanno investito negli ultimi due decenni il
mondo del lavoro rendono impensabile la riproposizione di un modello di Stato sociale che,
indipendentemente dal giudizio che su di esso si può dare, era disegnato su una figura di operaio
industriale maschio che non può più porsi come paradigmatica dell’attuale composizione del lavoro,
e la cui centralità è stata messa in crisi – prima che dai processi di ristrutturazione che hanno

48
Si vedano in particolare, a questo riguardo, i seguenti saggi: Mutamenti della stratificazione sociale nel ventesimo
secolo (1956), Natura e determinanti dello status sociale (1953) e Una osservazione sullo status (1954), in T.H.
Marshall, Cittadinanza e classe sociale, cit., rispettivamente pp. 73-98, 135-166 e 167-177. Su questi aspetti dell’opera
di Marshall, cfr. P. Maranini, Introduzione, ivi, pp. V-XXII, in specie pp. XVII ss.
49
H.S. Maine, Diritto antico (1861), a cura di V. Ferrari, Giuffré, Milano, 1998, p. 130. Su Maine, si veda M. Piccinini,
Codice, sistema e legislatura. Il laboratorio intellettuale di Ancient Law, in «Materiali per una storia della cultura
giuridica», XXV, 1995, 1, pp. 133-171.
50
Emblematico in questo senso il saggio di P. Saunders, Citizenship in a Liberal Society, in B.S. Turner (Ed.),
Citizenship and Social Theory, Sage, London, 1993, pp. 57-90. Ma per una discussione complessiva dei presupposti
teorici di questa critica, cfr. R. Zintl, Die libertäre Sozialstaatskritik bei von Hayek, Buchanan und Nozick, in W.
Kersting (Hg.), Politische Philosophie des Sozialstaats, cit., pp. 95-119.

16
investito il mondo della produzione – dalle lotte sociali degli ultimi decenni51. Si tratta di una
questione di cui troppo a lungo all’interno della stessa sinistra culturale e politica si è mancato di
prendere atto, e che è oggi ad esempio al centro delle discussioni sulla proposta, ancora tutta da
vagliare nelle sue potenzialità, di un «reddito di cittadinanza»52. Quel che è certo, tuttavia, è che le
politiche ispirate dalla critica neoliberale allo Stato sociale hanno finito per determinare il
drammatico riemergere di una «questione sociale» qualificata in termini di esclusione e nuove
povertà – o nei termini della formazione di quella che nei paesi anglosassoni viene definita una
nuova underclass53, assunta più come target della sperimentazione di inedite tecniche di controllo
sociale e poliziesco che di nuovi programmi di Welfare. Se attorno a queste questioni – e
necessariamente con il diretto coinvolgimento dei soggetti che le vivono in prima persona – sarà
possibile rilanciare il movimento della cittadinanza è la principale domanda imposta oggi dalla
rilettura del saggio di Marshall.
gennaio 2002

51
Cfr. i saggi raccolti in AA.VV., Ai confini dello Stato sociale, cit.
52
Cfr. a questo proposito, per un primo quadro del dibattito, M. Bascetta - G. Bronzini (a cura di), La democrazia del
reddito universale, Manifestolibri, Roma, 1997.
53
Cfr. M.B. Katz (Ed.), The Underclass Debate. Views from History, Princeton University Press, Princeton, 1993.

17

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