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TEORIE DELLA MODERNIZZAZIONE

CONTESTO: Anni 50 e 60, Stati Uniti.

Negli anni seguenti il secondo conflitto mondiale, il concetto di “sviluppo” inizia a diventare la
categoria di analisi centrale a causa del processo di decolonizzazione e all’emergere del Terzo
Mondo come soggetto politico.

Con la conferenza di Bandung nel 1955, i paesi “non-allineati” definiscono le loro rivendicazioni
con l’affermazione del principio di autodeterminazione, e dell’uguaglianza tra nazioni e popoli.

Gli Stati Uniti escono vincitori dal conflitto mondiale e raggiungono il ruolo di potenza egemone.

L’egemonia americana:
1. Inizia nel 1945
2. Viene messa in discussione nel 1968 allo scoppiare della “rivoluzione mondiale”
3. Crolla definitivamente nel 1989, con la fine dei comunismi e la disintegrazione dell’URSS.

Il termine egemonia si riferisce a quelle situazioni in cui uno stato combina insieme la superiorità
economica, politica e finanziaria rispetto ad altri stati forti e detiene, dunque, sia la leadership
culturale che quella militare (Wallerstein).

La Guerra Fredda: Stati Uniti e Unione Sovietica si definiscono in modi alternativi in due diverse
impostazioni di visione del mondo.

PROBLEMA: colmare il divario tra paesi ricchi e paesi poveri

Col sorgere del Terzo Mondo a seguito del processo di decolonizzazione, lo scopo dell’Unione
Sovietica è quello di attirare a sé questi paesi che da poco avevano iniziato la loro indipendenza
dalle diverse potenze coloniali.

Conferenza di Princeton, 1953: viene fatta una riflessione per cui gli Stati Uniti non avevano una
storia tanto “bella” quanto quella dell’unione Sovietica da raccontare ai paesi del Terzo Mondo. Il
problema degli USA era, pertanto, quello di costruire una narrazione da seguire per gli stati del
Terzo Mondo e che riuscisse a competere con quella comunista. à Nascita teorie della
modernizzazione
L’URSS aveva una storia progressiva ed ottimista: il modello russo stava funzionando e i sovietici
stavano creando un vero e proprio romanzo economico dello sviluppo à Si trattava di un percorso
che, se fosse stato seguito, avrebbe portato tutti i paesi che ne avrebbero fatto parte all’ultimo
stadio, il comunismo. Il successo di questo modello era la prova che la trasformazione di un paese
povero non richiedesse né istituzioni capitalistiche né democratiche.

La prospettiva, dunque, era che tutti potessero raggiungere lo sviluppo, bisognava diffondere
all’interno di questi paesi sottosviluppati quelle istituzioni tipiche che avevano dato la possibilità
ai paesi moderni di svilupparsi. Il concetto di “modernizzazione”, dunque, condivide il dogma
illuminista dell’esistenza di un processo storico universale verso la modernità, stadio supremo
della storia.
Le teorie della modernizzazione, pertanto, rappresentano la risposta statunitense al contesto
geopolitico del secondo dopoguerra.

A differenza del carattere rivoluzionario del modello sovietico, il concetto di modernizzazione


introdotto dagli Stati Uniti era basato su una forte fiducia nella razionalità: le teorie della
modernizzazione proponevano un passaggio graduale.
Secondo queste teorie, il sottosviluppo e lo sviluppo derivano da caratteristiche endogene allo
stato, mancanti nel caso dei paesi sottosviluppati.
La soluzione viene dunque letta in chiave eurocentrica e di nazionalismo-metodologico in cui lo
stato è l’unità di analisi.

Rostow è lo studioso che viene più associato alle teorie della modernizzazione insieme alla sua
opera “The stages of economics growth, a non-communist manifesto” con la quale risponde
all’esigenza statunitense di contrapporsi al nemico sovietico.
L’autore concettualizza lo sviluppo economico (nel ventennio tra gli anni 50 e gli anni 60 la crescita
economica viene vista come l’unico sinonimo di sviluppo) in una serie di successioni di cinque
stadi evoluzionistici e progressivi attraverso la sua metafora del “take off”, una riformulazione
dell’idea di rivoluzione industriale come punto di passaggio dalla “tradizione” alla “modernità”.

I cinque stadi possono essere sintetizzati come:


1. Tradizione
2. Creazione delle condizioni preliminari al decollo (interne ai paesi di riferimento)
3. TAKE-OFF (momento cruciale)
4. Maturità
5. Consumo di massa

L’autore si concentra sull’assunto, ritenuto storicamente fondato, di una relazione causale fra gli
aiuti economici dall’estero e lo sviluppo à equazione: modernizzazione = occidentalizzazione.

Le prime formulazioni della grande narrazione modernizzatrice furono prodotte, tuttavia, non da
economisti ma da sociologi e politologi.

Talcott Parsons: fece riferimento a delle “pattern variables” (delle opposizioni binarie) che
raffinarono la dicotomia fra la condizione “tradizionale “e quella “moderna” in modo da collocare
le relazioni sociali lungo una traiettoria progressiva. La cultura, la personalità e la società potevano
essere così valutate a seconda che esse enfatizzassero l’universalismo o il particolarismo,
l’acquisizione o l’ascrizione, etc.

Le variabili strutturali finirono con il configurarsi come un’elaborazione dell’ipotesi weberiana


sulla razionalizzazione come tendenza intrinseca alla modernità, realizzata da Parsons attraverso
un riferimento alla documentazione relativa alla storia dell’Europa occidentale. Le origini della
società moderna vengono così situate nell’Europa nord-occidentale del XVII secolo e ricondotte a
innovazioni istituzionali e a processi di secolarizzazione della cultura.
Cinque secoli di storia europea vennero in tal modo definiti nei termini di una progressiva
eliminazione di elementi particolaristici, ascritti e diffusi e di una loro sostituzione con elementi
universalistici, di acquisizione e di specificità.
Il riferimento a criteri di orientamento di valore di tipo universalistico, dunque, avrebbe costituito
l’elemento decisivo nel promuovere il processo di modernizzazione, che a sua volta aveva dato
luogo ad un processo di differenziazione.

Le teorie della modernizzazione andarono a sostituire una certa terminologia che non era più
adeguata a quel tempo: si passa da termini come “tribù primitive”, ad altri come “paesi
sottosviluppati” o “paesi tradizionali”. Si ha in questo senso una vera e propria legittimazione dei
“nuovi colonialismi”.

La fine delle ideologie

Le teorie della modernizzazione, infine, erano finite per condividere molti degli assunti propri
delle analisi marxiste sui paesi sottosviluppati, tra cui proprio il dogma illuminista dell’esistenza di
un processo storico universale verso la “modernità”: convergenza tra la forma statunitense e
quella sovietica della modernità, era infatti emerso un importante elemento di diffuso consenso a
livello di valori, basato sul comune riferimento al processo di modernizzazione.

Daniel Bell ed Edward Shils, nella tesi “fine delle ideologie”, affermavano che il mondo
occidentale del secondo dopoguerra testimoniava un vero e proprio esaurimento del ruolo delle
ideologie dovuto ad un consenso di massima tra gli intellettuali del mondo occidentale su alcune
questioni politiche: l’accettazione del welfare state, il desiderio di un potere decentralizzato, un
sistema di economia misto e di pluralismo politico.

Le ideologie, tuttavia, continuavano a svolgere un ruolo fondamentale nei paesi sottosviluppati: il


conflitto di classe ideologico aveva avuto termine soltanto in Occidente e le controversie
ideologiche dovevano essere viste come uno sforzo internazionale per la realizzazione di libere
istituzioni politiche ed economiche nel resto del mondo.
Daniel Bell, tuttavia, notava con preoccupazione che le nuove ideologie che si stavano
sviluppando negli stati emergenti, fossero incentrate unicamente sulla crescita economica, la
quale doveva avvenire il più velocemente possibile (Bell preoccupato dei risvolti negativi che
queste ideologie potevano avere sulle istituzioni democratiche e sulla libertà individuale).

Il fallimento del progetto sviluppo

Il “progetto sviluppo”, concetto elaborato da MCMichael e che indicava questo processo verso la
modernità, si configurò pertanto come espressione globale del liberalismo socialdemocratico. Alla
“lotta di classe” su scala mondiale delle nazioni della periferia del sistema-mondo, la scienza
sociale e le élite politiche americane offrirono il corrispettivo della strategia liberal-marxista
un’offerta che constava di due elementi: la concessione del suffragio universale e la
redistribuzione delle ricchezze a livello mondiale (welfare state). I paesi del Terzo Mondo
accettarono l’offerta ma venne realizzata solo la prima delle due parti costituenti l’offerta giacché
accettare la redistribuzione delle ricchezze su scala globale significherebbe distruggere quello che
è lo stesso sistema capitalistico, basato sullo sfruttamento strutturale e sul divario tra paesi
sviluppati e paesi sottosviluppati, che ne definisce l’essenza stessa.
La promessa dei paesi “moderni”, dunque, si va a scontrare con la realtà concreta del sistema-
storico capitalistico portando ad un inevitabile fallimento del progetto sviluppo e alla nascita del
progetto “globalizzazione”.

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