FRANCESCO BENIGNO
Ogni nazione europea e no, ha vissuto almeno una rivoluzione nella sua storia. Lontana o vicina nel tempo, essa costituisce
il fulcro di propagazione di una vicenda concepita come progressiva, che mentre spiega il passato, fornisce di senso il
Nella sua concezione terminologica, è da intendere come un modello che dipende dal modo con cui è stata concepita la
All’origine del concetto di rivoluzione vi è lo slittamento del termine: dal linguaggio astronomico, dove disegnava il
movimento completo di un corpo celeste attorno a un altro, attorno alla metà del Seicento, prende a indicare i cosiddetti
rivolgimenti di stato.
Il legame concettuale tra questi due linguaggi era assicurato dalla concezione aristotelica, secondo la quale esistevano
Ognuno di questi regimi era creduto soggetto a un decadimento e anzi a una vera e propria degenerazione. Un sovrano,
ad esempio, poteva iniziare ad abusare del suo potere e divenire tirannico, aprendo così la strada alla sollevazione
popolare e quindi alla repubblica. Questa a sua volta poteva corrompersi e trasformarsi in anarchia, spingendo così le
classi nobiliari ad instaurare un regime aristocratico che a sua volta, irrigidendosi, poteva sfociare in oligarchia,
Prima dello scoppio della Rivoluzione Francese il termine rivoluzione designava un mutamento di stato quasi inscritto nel
regime della natura, una trasmutazione all’interno di forme ben conosciute. Dopo prese invece ad indicare un evento
spartiacque ciò che separava il prima dal poi, il vecchio regime dal nuovo regime, e così via. Al posto di una visione circolare
si affermava, con la Rivoluzione francese, una prospettiva unilineare e progressiva, e il fatto che questa rivoluzione farà
L’emergere dell’idea di rivoluzione come modello del mutamento politico radicale porta anche al depotenziamento di tutti
quei movimenti politici, che a seguito di ciò vengono svalutati ed identificati in negativo e come “non rivoluzioni” ovvero:
In breve, poi, la politica viene rifatta in laboratorio dallo storico che vi ricostruisce il mondo in miniatura. Chiamare un evento
rivoluzione, e non con altre terminologie, significa connotarlo e attribuirgli uno statuto speciale, ovvero quello di svolta
epocale in senso politico e insieme socioeconomico. La domanda che bisogna porsi quando si analizza un evento storico
passato è se questo sia stata realmente un movimento rivoluzionario piuttosto che un colpo di stato o altro.
Il nome rivoluzione prende così a indicare un periodo di rapido rivolgimento degli equilibri sociopolitici e di mutamento di
assetti del potere costituito. E questo periodo, inteso come rivoluzione, può a sua volta contenere all’interno eventi definiti
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L’affermarsi graduale di un uso controllato delle fonti, l’emergere della critica filologica e infine l’imporsi di una concezione
scientifica del fare storia non hanno tuttavia impedito che grandi schemi ideologici continuassero a ispirare la visione e il
linguaggio degli storici; le rivoluzioni, in particolare, hanno costituito le scansioni fondamentali della visione del mondo
liberale e progressista.
Il Novecento per questa concezione classica, prima liberale e poi marxista, fa si che la rivoluzione si definisca come un
fenomeno essenzialmente sociale di carattere necessario e di significato progressivo che segna il passaggio da un
fondamentale stadio dello sviluppo economico e insieme sociopolitico a un altro stadio, più evoluto, attraverso un
A partire dagli anni Ottanta del XX secolo questa concezione classica della rivoluzione è venuta però disfacendosi sotto i
colpi della critica revisionista che ha avuto gioco facile nel denunziare i vizi di teologismo, le tautologie cui essa conduceva.
Le grandi rivoluzioni sono iniziate ad apparire, lette con gli occhi della critica revisionista, come avvenimenti casuali, nati
nella temperie della lotta politica come risultato del gioco di fazioni; ovvero eventi dominati dal fascino artificiale della parola
ideologica e produttori di effetti sconvolgenti e traumatici. Secondo questo modello la rivoluzione non è sociale ma politica,
Con il tempo è apparso evidente un certo intento sotterraneo, polemico e svalutativo, volto a depotenziare il racconto delle
rivoluzioni, una chiara diffidenza nei confronti delle opzioni ideali degli attori storici, una propensione a considerare le
rivoluzioni sostanzialmente dei disastri imputabili a errori di gestione politica, nati non da visioni del mondo incompatibili
Dopo una prima fase di effervescente dibattito ha corrisposto una perdita d’interesse pubblico per l’oggetto storico
“rivoluzione” ma anche, d’altro canto, la possibilità per la storiografia di riunificare rivolte e rivoluzioni, colpi di stato e guerre
civili entro categorie più ampie e avvertite, dando luogo a un’indagine sulle forme del conflitto politico e sociale ispirata da
Si tratta anzitutto di un’attenzione per la dimensione identitaria e per gli aspetti simbolici che la connotano. Le rivoluzioni
appaiono meno come delle battaglie combattute da eserciti, ma come scenari caotici, insieme tragici e creative dove si
mescola anche la violenza che diviene il fulcro generale attorno al quale si addensa il processo di cambiamento sociale.
Da una parte ormai, nessuno crede più a quell’interpretazione sociale classica che considerava le rivoluzioni come un
necessario presupposto dell’evoluzione storica; dall’altra parte la critica revisionista si è rivelata molto più efficace nello
spiegarci cosa le rivoluzioni non furono e non poterono essere di quanto sia stata capace a dirci cosa effettivamente furono
Diviene così molto più possibile sfuggire alla sterile alternativa tra l’idea tradizionale che vuole le identità politiche come
sugli individui e le loro relazioni fino a far sfumare il tema della partecipazione collettiva, oppure a fare delle identità politiche
È venuta crescendo una nuova attenzione verso il protagonismo popolare, una tendenza confermata dal più generale
orientamento degli studi che nel frattempo si è venuto via via manifestando, e che punta a sostituire alla questione discussa
delle cause della rivoluzione un’indagine molto più ravvicinata e incentrata sull’esperienza soggettiva degli attori storici.
Si tratta di un ritorno al vecchio disegno di un universo popolare immaginato negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo
come alternativo al mondo borghese, ma una visione più ricca e complessa di come, attraverso la destrutturazione di un
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ordine culturale e giuridico-istituzionale, si determini quel cruciale allargamento degli spazi di agibilità politica e
Nel caso della Rivoluzione francese, gli studi hanno in questi anni molto insistito sul tema della soggettività rivoluzionaria.
Di fronte alla perdita di reputazione della rivoluzione, al suo essere diventata agli occhi di molti la precorritrice della
violenza, del terrore, del totalitarismo e perfino del genocidio (come detto da Lynn Hunt), una storiografia neoliberale e
perfino neo giacobina, che ha reagito in sua difesa, da un lato riprendendo il vecchio tema della forza delle circostanze e
mettendo in luce la vischiosità e complessità dei processi socioeconomici e culturali, e dall’altro enfatizzando il carattere
processuale della politica rivoluzionaria (rappresentati più come i prodotti della rivoluzione più che come i suoi artefici).
Importante è approfondire il carattere ambiguamente cruciale, ma ambivalente, della rivoluzione, fonte insieme dei nuovi
diritti individuali e dell’inaudita logica del terrore, dispensatrice della libertà e, insieme, della morte. Tutto ciò facendolo
attraverso una descrizione più spessa di come la gente di quel tempo abbia vissuto e compreso, agito e subito, le nuove
forme della politica e, intrinsecamente connessi a esse, i nuovi stili della violenza rivoluzionaria.
Sono stati viceversa più rari i tentativi di guardare alla Rivoluzione francese dal passato, in connessione con le insorgenze
della prima età moderna e con le conoscenze che di quelle insorgenze avevano i protagonisti.
Diviene quindi un sapere condiviso di cui erano parte integrante le lezioni politiche e le massime istruttive che da quegli
Un esempio chiarificatore è quello di non fraintendere, come storici, la presunta frase del duca di Laincourt che rivolgendosi
a un preoccupato Luigi XVI che chiedeva, di fronte alle prime insorgenze parigine del luglio 1789, se si fosse in presenza
di una rivolta, avrebbe risposto famosamente: “No signore, è una rivoluzione”. Questo era il tentativo di inquadrare l’ignoto
di eventi che si presentavano in forma di accadimenti inauditi entro le categorie fino a quel tempo utilizzate, tra cui quella
di rivoluzione.
Una prospettiva che guardi a ciò che è accaduto in precedenza, e al sapere storico-politico in grado di articolarlo, avrebbe
il vantaggio non piccolo di evitare di leggere gli avvenimenti accaduti esclusivamente attraverso la retroproiezione delle
categorie che la stessa Rivoluzione francese è venuta via via elaborando per razionalizzare e tematizzare le novità e
terribilità di ciò che era. In realtà gli attori storici rivoluzionari hanno innestato le nuove idee illuministe e giacobine sul
La Rivoluzione francese ha fornito il registro discorsivo e per così dire il sistema di idee per pensare sé stessa. Matrice non
solo per i moti del 1830, 1848 e 1871 ma anche per il movimento internazionalista e socialista fino a Lenin e oltre.
Da ricordare è che nessun libro provvede una guida per la rivoluzione (usava dire Robespierre); la teoria del governo
rivoluzionario sarebbe perciò inedita o tratta interamente dalla nuova filosofia illuministica.
Questa prospettiva ha goduto di una lunga egemonia. Oggi però un approccio più equilibrato condurrebbe a guardare
all’epoca rivoluzionaria del 1789-1802 come a uno straordinario crogiuolo in cui gli eventi non sono solo il prodotto del
nuovo che avanza e delle resistenze che suscita, ma della commistione originale di antiche pratiche e di necessarie
innovazioni, di nuove idee e di vecchi concetti e di reinvenzione della tradizione e di uso pubblico della storia.
È interessante tornare a confrontare il percorso degli studi recenti sulla Rivoluzione francese con la produzione relativa a
quel cruciale periodo della storia inglese, a lungo chiamata Civil War e che ora torna ad essere ambiguamente chiamata
English Revolution.
Il recente tentativo di riproporre il tema della disaffezione delle élite aristocratiche nel cruciale biennio 1640-1642 da parte
di uno dei protagonisti più accesi della battaglia revisionista, non pretende più ora di farne l’esclusivo motore degli
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avvenimenti ma solo un’importante trama; getta più di un’ombra proprio sulle descrizioni revisioniste dell’Inghilterra degli
anni Venti e Trenta del XVII secolo come un paese ordinato e deferente, politicamente coeso e ideologicamente unito.
La rivoluzione ha in un certo senso riguadagnato cittadinanza nell’universo degli studi sul Seicento britannico. Non si tratta
più della vecchia prospettiva whig o di quella marxista, ma del risultato di una sensibilità.
Una più ampia nozione di che cosa sia la politica, meno concentrata sui processi governativi, istituzionali e decisionali, e
più diretta ad indagare l’investimento simbolico delle azioni, la produzione e il ricevimento dei significati nella
comunicazione, l’uso della storia e della memoria nella costruzione di gruppi sociali.
L’attenzione si è venuta concentrando su ciò che è stato chiamato l’immaginario radicale, vale a dire i processi culturali di
formazione dell’universo settario negli anni che precedono la guerra civile e poi il processo di radicalizzazione cui tale
A questa nuova stagione culturale si accompagna un allargamento dei materiali documentari posti sotto indagine ma
allargati alle fonti a stampa più varie, alle immagini, ai testi letterari una maggiore attitudine riflessiva che spinge a meditare
maggiormente sulle categorie del lavoro storiografico e sui vincoli che esse impongono, e ciò fino alla consapevolezza di
come anche distinzioni di senso comune sono esse stesse costruzioni e rappresentazioni.
La recente storiografia sulla Rivoluzione inglese non si è limitata però a sfidare solo il tradizionale empirismo storiografico,
L’allargamento dell’orizzonte interpretativo prodotto dalla valanga di nuove storie britanniche che si sono accumulate
dell’insularismo inglese che, esteso alla dimensione britannica è divenuto ormai, la tipizzazione di un arcipelago,
Rimane pressoché assente la comparazione della crisi inglese con i fatti contemporanei che, da Barcellona a Napoli a
Parigi, travagliavano le monarchie europee, alcune delle quali erano non meno composite di quella degli Stuart.
Se il concetto di rivoluzione è stato in sostanza modo con cui la cultura moderna ha pensato e letto il conflitto politico e
socioeconomico, collocandolo in uno schema unilaterale e inarrestabile di civilizzazione universale, c’è da chiedersi come
possono essere ripensate le rivoluzioni in un contesto culturale, quello odierno, che è venuto via via abbandonando, o
Il togliere alle rivoluzioni lo statuto mitico-poietico, quel carattere di eventi fondativi e sacralizzati che una storiografia
spesso compiacente aveva contribuito a fissare, ma che poi il lavoro storiografico critico ha preso a decostruire, non
migliora il quadro. Le rivoluzioni nella cosiddetta ossessione memoriale divengono in altre parole anch’esse dei giganteschi
contenitori della memoria pubblica, disponibili per una nuova e diversa varietà di usi pubblici.
È soprattutto il trauma che consente il riconoscimento e una comprensione profonda dell’esperienza trascorsa. Gli eventi
che possano essere rappresentati in questa chiave acquisiscono uno status privilegiato agli occhi dei media e condizionano
il lavoro storiografico. Si crea una nuova gerarchia delle rilevanze a base emozionale, fondata su una concezione
essenzializzante: le emozioni vengono infatti postulate come naturalmente date, in una configurazione naturalistica e
sostanzialmente astorica.
Una storiografia critica non può che riproporre in questo caso la ricetta a suo tempo impiegata nei confronti delle pretese
celebrative dello stato-nazione, della dialettica delle classi o dei vari movimenti che hanno tentato di usare la storia a fini
di legittimazione politica.
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Uscite da una dimensione narrativa epica e sottoposte al regime della tragedia, le rivoluzioni storiche vengono infatti di
nuovo, sia pure diversamente, piegate alle urgenze del presente. Agli storici tocca non solo difenderne la irriducibilità alle
pretese di assimilazione forzate alle categorie e alle tensioni odierne, con le conseguenti distorsioni anacronistiche che
necessariamente ne conseguono, ma anche riproporne una lettura aggiornata, capace di illuminare criticamente il
presente.
Ciclicamente il tema della resistenza di massa a un potere autoritario o dispotico che produce un mutamento di regime si
Dopo la caduta del muro di Berlino e la disgregazione nel 1989 del sistema politico, che si usava chiamare socialismo
reale, e in tempi più recenti le crisi piuttosto repentine che hanno attraversato i paesi arabi che si affacciano sul
Mediterraneo, in nessuno di questi casi la ribellione e la spinta al cambiamento si sono propagate da una nazione all’altra,
attraverso un processo di propagazione o di imitazione che ricorda molto agli storici dell’antico regime le famose sei
rivoluzioni contemporanee di cui aveva scritto famosamente lo storico americano R. B. Merriman, e che aveva dato luogo
alla celebre discussione sulla cosiddetta crisi generale del Seicento = dibattito che illustra bene come le rivoluzioni siano
Dopo aver adottato nell’introduzione un’assai generale e perciò in qualche misura evasiva definizione di rivoluzione,
Forster e Greene tentavano di circoscriverne l’ambito distinguendo due tipi di eventi che, da posizioni specularmente
opposte, vanno esclusi dal concetto di rivoluzione e aiutano perciò a restringerne i contorni: da una parte gli eventi prodotti
dalle élites e occultamente preparati, avvenimenti in grado di provocare solo una piccola alterazione nella struttura tanto
del governo quanto della società e dall’altra i tumulti popolari spontanei che aspiravano al soddisfacimento di immediate
lagnanze ma senza nessun mutamento nella natura degli equilibri politici e sociali.
Applicando questo schema esplicativo ne deriva che alcuni degli eventi presi in esame, vale a dire le rivolte di Sicilia e di
Napoli, non vanno perciò considerate rivoluzioni.
La rivolta è uno scoppio di protesta popolare prodotto dalla sofferenza sociale e diretto non contro il governo ma contro i
Liquidati così questi due avvenimenti, ne fuoriesce del pari anche la ribellione portoghese, promossa da élites nobiliari con
una limitata partecipazione popolare e con effetti molto poco rivoluzionari, giudicata in sostanza molto meno rivoluzionaria
La lunga insurrezione catalana e la Fronda erano considerate rivolte nazionali con il potenziale di divenire rivoluzioni.
In conclusione, solo due eventi, la Rivoluzione olandese e quella inglese, risultano pienamente corrispondenti al concetto
di rivoluzione in quanto appartengono alla categoria delle “grandi rivoluzioni nazionali”, eventi dotati di una elevata tensione
Poggiano su una base ideologia coerente, solida e ben definita, un grappolo di credi generalizzati profondamente
antagonistici rispetto al regime esistente o alle sue politiche, figure dominanti e prevalente sistema di governo.
Francese, ma anche modello e norma della comprensione delle rivoluzioni del passato. Gli eventi sono giudicati
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sulla base della loro capacità di produrre la sostituzione di un nuovo ordine politico al vecchio e, ciò che è forse
più importante, nella affermazione di una nuova concezione dell’ordine politico e sociale. Lo strumento è quello
della creazione di una nuova e diversa élite. La nuova classi dirigente deve essere dunque capace di produrre un
Il lavoro degli storici protagonisti della “nuova storia politica” ha consentito largamente in questi decenni nello spogliare le
È quasi inutile dire che oggi non si è più convinti come un tempo che le rivoluzioni siano effetto di leggi inscritte nella storia
e che derivino necessariamente da processi di lungo periodo. Esse appaiono come enormi drammi che mescolano in modo
2. L’insistenza di allora sulle precondizioni, vale a dire sul contesto che precede e spiega non solo l’origine ma
l’essenza stessa del conflitto. Le rivoluzioni rivelerebbero così le tensioni e i mutati equilibri di una società e
studiando quelle tensioni e quegli equilibri esse si potrebbero comprendere e anche prevedere. Analizzare più
che gli accadimenti rivoluzionari, i mutamenti socioeconomici dei decenni che li precedono.
Altra differenza che oggi è alquanto facile da rilevare è l’avvenuta crisi del convincimento che vi fossero sostanzialmente
Viene da qui quell’opposizione tra il complottismo delle élites e il ribellismo plebeo di cui si è detto, e quella tipologia delle
forme di opposizione che vede in sostanza il primo predominare negli eventi denominati come cospirazioni o complotti, e
H. Koenigsberg a proposito della lunga lotta antispagnola degli olandesi disse “Perché gli Stati generali divennero
rivoluzionari?”
La risposta è naturalmente complessa formata dalla contrapposizione tra le provincie ribelli e la monarchia degli Asburgo,
che sarà decisiva per la successiva storia europea.
Da chiedersi vi è anche se la Rivoluzione inglese sia anche solo pensabile senza la lunga guerra di indipendenza dai Paesi
Bassi, che dovette apparire agli occhi dei contemporanei come un interminabile Vietnam o meglio, una ripetizione vivente
della vittoria del piccolo Davide sul gigante Golia; l’affermazione della libertà sulla tirannia.
La risposta è che non è possibile considerare la Rivoluzione inglese pensabile senza il precedente evenemenziale
Non si tratta della considerazione generica che “la storia conta”, vale a dire che tutto ciò che avviene condiziona ciò che
verrà, ma dell’esistenza di precisi patterns ideologici, sociopolitici e mentali che illustrano un processo individuale. Se poi,
volessimo prendere come punto di riferimento la rivoluzione del 1688, allora la vicenda delle Province Unite e della
decennale resistenza alla tirannia spagnola non sarebbe più solo un punto di riferimento ideale e storico, ma invece anche
L’osservazione di H. Koenigsberg per cui all’altezza del 1559-1560 con l’arrivo di Margherita d’Austria gli Stati generali
delle Province Unite non erano ancora rivoluzionari e che essi lo diventeranno con il tempo e solo dopo il 1567, a seguito
dell’arrivo del duca d’Alba e dell’insediamento del Tribunale dei torbidi, va ripresa, anche perché sostanzialmente
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Si ripropone la critica alla tendenza teleologica della prospettiva whig e della propensione della storiografia olandese nel
Anche in quelle che all’epoca venivano considerate “grandi rivoluzioni nazionali” la genesi della rottura della legittimità non
può essere imputata a fronti contrapposti predeterminati che si delineeranno invece solo durante il conflitto, ma va
faticosamente ricercata nella interconnessione tra i nuovi temi ideologicamente sensibili, quelli sui cui si addensa il conflitto,
J. Adamson all’interno del suo libro evidenzia come all’origine dello scontro della Guerra civile inglese, sta una divisone
all’interno delle élites inglesi, sicché nella formazione di quello schieramento d’opposizione che sarà poi il fronte
parlamentare giocano un ruolo decisivo i nobili protestanti aggregatisi attorno ai conti di Warwick e di Bedford e al viscone
Saye e Sele.
Questo conte di Warwick definito come il più potente e determinato degli avversari di Carlo e uno dei protettori di John
Pym, scelse di indossare la famosa livrea del colore dei Devereux conti di Essex, la famiglia della madre, colore che sarà
Adamson si lancia così contro l’idea, che era stata a suo tempo elaborata da Conrad Russell, di una guerra civile
largamente accidentale, originata da opportunità fallite ed eventi imprevisti, oltreché dall’effetto di amplificazione delle
Il diverso orientamento religioso ha finito per rendere meno visibili le differenze di visione sull’organizzazione dello stato.
Al centro della scena sta dunque il protagonismo di quella nobiltà protestante radicale che tra il 1640 e il 1641 furono poi
decisivi nel chiedere e ottenere la convocazione del Parlamento, pilotare la crisi, rafforzare l’asse con i covenants scozzesi
Reintrodurre il peso e l’influenza dei legami di fazione e dell’esercizio del potere gerarchico, e sottolineare l’importanza
che giocavano nella società di antico regime l’influenza, il potere e le risorse economiche dell’alta aristocrazia non vuol
dire ridurre grandi eventi rivoluzionari a piccole oscure trame, a segreti complotti, a congiure di palazzo di presunto sapore
medievale: significa prendere più seriamente in considerazione il punto di vista dei contemporanei.
Assumendo un punto di vista più vicino a quello degli attori storici si può allora in generale affermare che, essendo assai
diffusa nella prima età moderna la fiducia nella capacità di manipolazione delle folle, i comportamenti delle parti in gioco
Ora è abbastanza ovvio che vi fossero diversi modi di affrontare una manifestazione popolare: se, come alcune volte
avveniva, le autorità si trovavano di fronte a una protesta di piazza che, con donne e ragazzi in testa, esprimeva
malcontento per un qualche aspetto dell’ordine sociale consuetudinario ritenuto arbitrariamente violato, esse erano poste
Parliamo degli avvenimenti napoletani del luglio 1647 = una delle cose che risultano apparentemente inesplicabile in essi
è come sia potuto accadere che una banda di ragazzi e di donne abbia potuto il primo giorno della rivolta, il 7 luglio,
giungere a invadere il palazzo reale, costringendo il viceré d’Arcos a fuggire precipitosamente e a salvarsi a stento, con
qualche dose di fortuna. L’obbiettivo di questo viceré era però quello di evitare a tutti i costi una ripetizione del caso
catalano. A Barcellona il viceré Santa Coloma, sette anni prima, aveva reagito con durezza alla prima manifestazione ma
l’effetto di quella scelta era stato tragicamente controproducente in quanto venne trucidato.
Vi è nel Seicento una storia in ombra fatta di autorizzazioni implicite o esplicite che si propagano dal cuore del sistema
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Nel caso inglese, all’origine della crisi del 1639-40 e della richiesta di convocare il Parlamento, vi fu la resistenza di una
sezione dell’alta aristocrazia parlamentare, attribuendo ai lord inglesi il ruolo di primi motori della Rivoluzione inglese (che
Il caso della rivolta di Napoli del 1647-1648 è l’episodio più importante di conflitto dell’Italia del Seicento e su cui
Ciò che colpisce, nell’esaminare queste opere, non è soltanto la sostanziale fedeltà a ipotesi interpretative elaborate tra gli
anni Settanta e Novanta del XX secolo, ma il carattere insieme convergente e antitetico delle interpretazioni che
propongono.
Gli attori sono sempre più o meno gli stessi, vale a dire macrocategorie sociali come la nobiltà, la borghesia, la plebe.
Antitetico perché a seconda del ruolo attribuito a ciascuno di questi attori, muta il giudizio di fondo, quello che vale sulla
bilancia della storia e che, consente di formulare un giudizio di sintesi, orientato alla classica contrapposizione tra
modernità e arretratezza.
Per una certa linea interpretativa, che unisce, sia pure con sfumature diverse, Pier Luigi Rovito e Rosario Villari, la rivolta
ha una lunga preparazione politica e intellettuale, un progetto riformatore i cui prodromi si possono far risalire vuoi alla
sommossa popolare del 1585, vuoi agli anni di presenza a Napoli del viceré d’Osuna e all’appoggio da questi conferito alla
La rivolta costituirebbe il tentativo di invertire la tendenza spagnola a svendere il patrimonio politico e morale del regno a
tutto vantaggio di una nuova nobiltà compradora, infiltratasi negli apparati amministrativi e propensa a sfruttare a fondo la
tendenza della rifeudalizzazione in atto; essa sarebbe stata indirizzata a evitare che la cosiddetta Respublica dei togati si
tramutasse gradualmente in una Respublica dei cavalieri. La rivolta sarebbe stata per Rovito, almeno nella prima fase,
accortamente pilotata dalle “cappe negre” e più generalmente da quella borghesia urbana.
Solo in una seconda fase la rivolta prese una piega diversa e divenne il tentativo generoso di ribaltare gli equilibri
sociopolitici del regno; con il conseguente transito, secondo Villari, a una fedeltà nazionale più nuova e moderna, portatrice
considerare estemporaneo e accidentale, nato da un fortuito concorso di vari elementi e soprattutto non preparato. Non vi
era alcun comitato segreto che dirigeva il moto, tanto la Chiesa, nella persona dell’arcivescovo, quanto la nobiltà, si
Nel prosieguo degli avvenimenti, accanto alla plebe, emersero sul fronte popolare sia ceti artigiani e mercantili, sia gruppi
Da queste interpretazioni, estremamente polarizzate, discendono giudizi simmetricamente contrapposti sulla modernità
degli avvenimenti:
1. Secondo la prima, la rivolta coagulerebbe il meglio delle forze borghesi e intellettuali, allargandosi a ceti popolari
tradizionalmente emarginati;
2. Per la seconda la rivolta sarebbe caratterizzata non solo da un notevole grado di disgregazione politica ma anche
da quella stessa frammentazione sociale che costituirebbe un tratto tipico della società napoletana.
Questo insieme eterogeneo di elementi diversi non sarebbe stato portatore di particolari istanze di modernità. La tendenza
insita a fare della dialettica dei ceti l’unica dimensione della lotta politica finisce per schiacciare gli attori sociali in identità
precostituite e monodimensionali, che non sono in grado di rendere conto delle concrete scelte politiche da essi assunte e
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la tendenza interpretativa che punta a sottolineare il carattere plebeo del moto e che tende a escludere la partecipazione
di gruppi nobiliari o togati alla sua preparazione, finisce per postulare come un dato originario e presupposto un
del viceré d’Arcos, assai preoccupato di una possibile unione di nobili e popolo.
Ne discende la propensione a descrivere nobili e sacerdoti, allo scoppio della rivolta, come impegnati esclusivamente a
Sfugge a queste letture polarizzate della vicenda napoletana il volume di Alain Hugon, che invece di proporre una
narrazione della rivolta, tenta un approccio diverso, quello di girare attorno agli eventi, mostrandone le tante facce e i
molteplici aspetti: contro una lettura per così dire archeologica, che valorizza gli aspetti diacronici, genealogici ed evolutivi,
Al posto di radici antiche e di cause di medio o lungo periodo si privilegiano perciò le traversie di un’epoca travagliata da
mali comuni, in un’indagine aperta alla comparazione e attratta dalla dimensione memoriale assunta dagli eventi.
Occorre ricostruire ex novo l’agenda delle domande. Il punto essenziale che occorre spiegare si potrebbe così formulare:
perché questa rivolta/rivoluzione si manifestò a un certo punto nella forma specifica di un’insurrezione capeggiata dal
popolo napoletano, con la nobiltà confinata viceversa su posizioni lealiste? Perché prese la forma di una guerra civile
caratterizzata da una spaccatura di taglio orizzontale del corpo sociale, invece della più tradizionale divisione verticale,
In primo luogo, chiunque avesse voluto pronosticare, nel 1646, un possibile sommovimento napoletano, avrebbe avuto
davanti agli occhi i casi della Catalogna e del Portogallo, casi che agli occhi della classe dirigente castigliana erano ferite
aperte.
Non si trattava solo di tradizioni, ma di recenti, conclamati collegamenti personali e di gruppo, come avevano dimostrato
le congiure prima di Giovanni Orefice, principe di Sanza, e poi di quel pugno di aristocratici collegati con il padre teatino
C’era una volta la rivoluzione senza aggettivi, quella con la maiuscola, che designa la Rivoluzione francese del 1789. Essa
ha descritto e interpretato la nascita del mondo moderno, inventando parole e idee e con loro la concezione stessa del
Evento che si fa norma e matrice di tutte le rivoluzioni future e insieme spiegazione di quelle passate. La domanda che ci
si pone oggi è: una volta raffreddato l’oggetto, quali nuove domande storiche si è in grado di formulare sulla Rivoluzione
francese? Quali sono i motivi per ripercorrere ancora una volta avvenimenti studiatissimi e conosciutissimi? E non essendo
più davvero quella di una volta, che cosa rappresenta adesso per noi?
Il libro di Timothy Tackett, The Coming of the Terror in the French Revolution, costituisce un prolungamento del suo
precedente volume che aveva fatto conoscere in tutto il mondo l’autore come uno dei massimi storici della Rivoluzione
francese.
Al centro di quel testo, Becoming a Revolutionary, vi era l’introduzione di sfuggire alla luce riflessa che la Rivoluzione
stessa aveva proiettato all’indietro, e di ritrovare nel farsi stesso del processo rivoluzionario le ragioni di un esito non
scontato.
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La Rivoluzione qui presentata trasforma le cose e soprattutto gli uomini, i quali non nascono rivoluzionari ma lo diventano
per gradi, attraverso un apprendistato, un percorso; non sono i rivoluzionari a fare la rivoluzione ma è la rivoluzione a
forgiare i rivoluzionari.
The Coming of the Terror adotta lo stesso principio per affrontare un problema diverso, la questione misteriosa delle origini
del Terrore, della compresenza quindi del bene e del male. L’autore si chiede come sia possibile che brava gente, uomini
miti, civili, possano essersi trasformati in sanguinari assassini e quindi come possano convivere all’interno di una
Da una parte. La storiografia progressista e di sinistra, pensa il Terrore in altre parole, come il tentativo concepito come
D’altra parte, la storiografia revisionista ha teso a spiegare la sbandata terroristica per lo più in chiave ideologica,
attribuendo al radicalismo rivoluzionario il rigetto dei patrioti di accettare la differenza delle opinioni e la loro propensione
Tackett si rivolge a questo con il nome “storia delle emozioni” ed i lavori di Georges Lefebvre sulla “Grande Peur” e di
L’idea che si presentava era quella che il soggetto individuale, una volta immerso in una dinamica di gruppo, subisca
un’alterazione della coscienza, e agisca quindi secondo modalità di tipo emozionale, istintuale o comunque differenti da
Per Gustav Le Bon è proprio la Rivoluzione francese l’evento cruciale che deve essere spiegato per svelare la sua
misteriosa possibilità. Le Bon si chiede come sia stato possibile che dei borghesi intelligenti e pacifici, divenuti
rappresentanti del popolo, abbiano votato sia decreti civili e progressivi sia misure barbare.
La spiegazione che si dà è da rintracciare nella contrapposizione tra la logica razionale, che opera in periodi ordinari, e
Partendo da un intento condivisibile, quello di sgravare la Rivoluzione francese dall’accusa indebita di essere fonte prima
degli orrori del XX secolo totalitario, il saggio di Wahnich finisce per assumere un orientamento assolutorio nei confronti
dell’insieme della violenza rivoluzionaria, da considerare anch’essa una e indivisibile.
Wahnich propone un’economia emotiva centrata su un soggetto collettivo, il popolo, che reagisce all’oltraggio, allo
spavento causato dal nemico attraverso un’azione di vendetta, restauratrice e punitrice. Il popolo è infatti curiosamente
simile a quello tratteggiato classicamente da Michelet, vale a dire un soggetto senziente e animato, portatore di una visione
morale ben definita, indirizzata alla salvaguardia della salute pubblica anche attraverso il sacrificio del sé individuale, del
corpo fisico, sicché i leaders rivoluzionari vengono riconfigurati al rango di suoi portavoce.
Tackett sceglie invece un approccio moderato. La sua indagine si basa su un corpus di lettere, di diari e di giornali scritti a
Attraverso questi documenti analizza l’emotività dell’élite patriota: l’ipotesi su cui è costruita l’indagine è che le
trasformazioni emotive affioranti in testi scritti, che reagiscono a eventi traumatici, possano fare da guida nel percorso che
Questa ipersensibilità emotiva è inoltre molto permeabile al diffondersi di voci incontrollate e di false notizie. Si tratta di
rumeurs che nascono per lo più in quartieri popolari ma che hanno la caratteristica di diffondersi rapidamente anche negli
strati sociali più elevati.
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La parte più consistente nel tentativo di Tackett di assegnare alla complessione emotiva della leadership rivoluzionaria un
ruolo dirimente nel percorso che conduce al Terrore è dedicata perciò proprio all’analisi della mentalità cospirativa, al
ricorrente timore e anzi alla vera e propria ossessione del complotto ordito dai nemici della Rivoluzione.
Non si ha a che fare con reazioni individuali a singoli casi di complotti controrivoluzionari, ma con il diffondersi di una
mentalità collettiva ossessiva, incentrata sulla credenza nell’esistenza di un’unica grande cospirazione.
È il terrore del complotto a creare la mentalità terroristica, e ciò attraverso la demonizzazione dell’altro da sé, del cospiratore
Avanza così una vera e propria cultura del sospetto. Nelle conclusioni Tackett sfuma la sua tesi portante; l’apparizione di
una mentalità terroristica non può essere spiegata attraverso un’eziologia mono causale, ovvero in una maniera
unidimensionale. Tra le varie cause che vi hanno contribuito egli annovera, la caduta dei tradizionali principi d’autorità, il
protagonismo di masse politicizzate desiderose di vendetta per l’oppressione subita in antico regime, l’idolatria del popolo
incarnato nella figura del sanculotto e la creazione di quella che egli chiama “comunità emozionale” in cui i sentimenti delle
In una lotta di opposte propagande l’obbiettivo non è solo persuadere ma coinvolgere emotivamente, stimolare sensi di
appartenenza, giocare sulle paure assopite, produrre sentimenti di amore, e di odio. In breve, in politica le emozioni si
Dopo aver letto il volume di Tackett è utile prendere in mano il libro di Jonathan Israel, Revolutionary Ideas, e vi si troverà
tutt’altra idea, alquanto divergente, della Rivoluzione francese. Se Tackett cerca di approfondire l’esperienza personale,
emotiva e affettiva, di una sezione della leadership rivoluzionaria, Israel pone risolutamente al centro del volume non gli
Egli sostiene che il propagarsi in una sezione della classe dirigente francese delle idee dell’Illuminismo radicale, di quel
Le idee dell’Illuminismo radicale sono quindi incontrovertibilmente l’unica grande causa della Rivoluzione francese, la sola
capace di ispirare e attrezzare la leadership rivoluzionaria sia politicamente sia sul piano filosofico e logico.
Ancor più problematica è la tesi insistita secondo la quale non tutti i filosofi, ma solo alcuni fra loro siano stati i veri portatori
del progresso, coloro che stanno dalla parte del futuro e sono perciò in grado di anticipare e costruire il domani radioso
che verrà.
Più che come uno storico, deontologicamente obbligato a preoccuparsi di non incorrere nel peccato mortale di
anacronismo, egli si muove quasi come un filosofo che non rinuncia a dir la sua, intromettendosi nelle controversie che
furono. Del disagio che lo storico potrebbe provare di fronte a questa continua attuazione di dilemmi del passato, che li
riporta direttamente, e quasi senza mediazioni, ai problemi del presente, egli non si cura, preso com’è dalla missione di
individuare nella storia i tedofori della fiamma del progresso, l’impostazione del libro rischia di riuscire un po' asfittica, se
La Rivoluzione francese di Israel sembra non aver prodotto ideologicamente molto di nuovo: le idee con cui è stata forgiata
prima la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e poi la prima Costituzione francese nel 1791 non risultano aver ricevuto grandi
L’apporto dei rivoluzionari sarebbe in sostanza consistito non in innovazioni teoriche ma in un’opera di divulgazione.
Se la Rivoluzione non è quella specie di gigantesca centrifuga che è parsa a molti storici, quel vortice che trasforma non
solo le istituzioni e le idee correnti ma gli uomini stessi, se essa è invece solo il laboratorio di sperimentazione delle idee
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del cosiddetto illuminismo radicale, occorre allora trovare dei soggetti, individui che sin dall’inizio, nel 1788-1789, avessero
ben chiaro in mente l’obbiettivo strategico: vale a dire abbattere l’antico regime e fondare una repubblica democratica.
1. Del marchese La Fayette sono note le frequentazioni cosmopolite e la sua ammirazione per la Repubblica
federale degli Stati Uniti. Le sue azioni appaiono quelle di un militare-politico che cerca di ritagliarsi un ruolo di
rilievo nella politica rivoluzionaria. Giocherà infatti ruoli ambigui come quello di comandante della Guardia
nazionale in occasione della spedizione del popolo partigiano a Versailles dell’ottobre del 1789. Ad Israel
interessa stabilire che in realtà La Fayette sia stato un repubblicano come egli stesso dichiarò prima di essere
condannato all’esilio;
2. Chiamato la famosa “talpa della Rivoluzione” fa si che Israel lo consideri parte dello zoccolo duro di un nucleo
centrale quasi repubblicano della Rivoluzione. Secondo Israel i testi di questi sono stati fondamentali per forgiare
la retorica rivoluzionaria nel suo stadio iniziale. Si allontana dalla tesi di supremazia della democrazia diretta per
Il punto però fondamentale del discorso di Sieyès è l’introduzione di un tema decisivo che però non si riscontra nei testi del
cosiddetto Illuminismo radicale (identificazione del popolo con la nazione francese attraverso il processo di esclusione).
Si opera infatti la fissazione dello schema polarizzante che permette di pensare una nazione-popolo prodotta dalla
estromissione dei privilegiati che vengono così espulsi dal contesto civile e messi al bando. I nobili francesi vengono così
despecificati, premessa indispensabile alla loro eliminazione morale e fisica = elemento necessario al discorso
rivoluzionario.
È solo attraverso questa polarizzazione e la delineazione in negativo della figura del malefico aristocrate che si può
Altro discorso, invece, è quello riguardante i Lumi e le lanterne. I lampioni erano, come si sa, i riferimenti principali della
giustizia popolare alternativa, che pretendeva di sostituirsi a quella ufficiale quando questa non avesse potuto o saputo
dirà con qualche sprezzo del pericolo, rivolgendosi ai suoi avversari: “E poi, quando mi avrete appeso, ci vedrete forse più
chiaro?”.
(+ la presa della Bastiglia è proprio un esempio di come non sia volesse descrivere la violenza).
L’unico caso in cui Israel dedica un’approfondita analisi alla violenza rivoluzionaria è quello dei massacri di settembre, vale
a dire l’esecuzione sommaria di circa un migliaio di detenuti politici da parte di folle armate che avevano invaso le principali
È abbastanza curiosa la tesi che Israel sostiene riguardo all’autonomia dei movimenti armati popolari. La folla degli insorti,
nei primi giorni della Rivoluzione, viene descritta come autonoma, infiammata dai discorsi dei predicatori democratici e più
o meno cripto-repubblicani, ma per il resto libera nella sua imprevedibile e temuta iniziativa insurrezionale = visione che
cozza con le abituali pratiche di manipolazione delle folle, sia con la ferma convinzione dei contemporanei che i
Man mano che la Rivoluzione avanza, Israel tende a ipotizzare un improbabile processo di disciplinamento popolare che
fa si che le sezioni popolari siano solo una sorta di cinghia di trasmissione dei clubs o della municipalità.
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La verità è che Israel non fa i conti con una dimensione tipica della politica rivoluzionaria: quella di un gioco in cui i giocatori
utilizzano la politica di piazza per sovvertire rapporti di forza sfavorevoli nelle assemblee rappresentative, in una gradazione
di interventi.
Se la Rivoluzione, come dice Vergniaud, divora come Saturno i suoi figli, ciò avviene attraverso un meccanismo preciso:
l’appello al popolo e, attraverso esso, il continuo sovvertimento della legge e delle regole date. Per questa ragione la
La rivoluzione per la sensibilità odierna non è stata una disputa ideologica tra diverse scuole di pensiero ma un universo
magmatico in cui atti eroici e disumani, passioni e interessi, errori e orrori si sono mescolati a valori contrapposti. Di tutto
ciò, il Terrore rappresenta un distillato estremo: la distruzione dell’uomo compiuta in nome degli ideali supremi dell’umanità,
Se Israel tende continuamente a inquadrare la Rivoluzione francese nell’empireo filosofico e a leggere i suoi conflitti come
dispute teoriche, un libro recente di Haim Burstin propone uno sguardo ravvicinato sull’esperienza rivoluzionaria, secondo
Burstin sostiene in premessa la necessità di un rapporto empatico, o almeno non repulsivo, con il fenomeno. Come Tackett
quindi, si prefigge l’arduo compito di riordinare un senso odierno alla Rivoluzione e per farlo propone una sorta di
osservazione partecipante che metta sotto la lente d’ingrandimento non tanto la Rivoluzione, quanto gli uomini (e le donne)
Sondare i vissuti degli attori del dramma rivoluzionario significa andare al cuore del meccanismo della Rivoluzione. Con
un atteggiamento per certi versi simile a quello di Tackett, Burstin propone dunque di porre sotto la lente d’ingrandimento
il registro psicologico, e in particolare la complessione emotiva impiegata nella partecipazione attiva della Rivoluzione.
Per Bustin il vissuto rivoluzionario è un’esperienza radicalmente diversa da quella della vita normale e lo caratterizza
un’impetuosa e straordinaria energia propulsiva volta a dare, per così dire, l’assalto al cielo e a far ripartire la società da
La Rivoluzione in azione è un’esperienza unica fondata sulla creazione di un senso di appartenenza; a questo uomo nuovo
corrisponde un vero e proprio habitus repubblicano. Nascono così nuove pratiche linguistiche e discorsive che nell’insieme
configurano un vero e proprio lessico della libertà e della democrazia, una nuova socialità politica ruotante attorno
Se al cuore dell’esperienza rivoluzionaria sta una forma mentis repubblicana che si fa stile di vita e visione del mondo,
allora l’effetto è quello di considerare la prima parte della Rivoluzione un lungo apprendistato a ciò che accadrà dopo il 10
agosto 1792.
Malgrado le intenzioni lo sguardo antropologico cede così il passo a un procedimento di astrazione, facendo della
Rivoluzione un mondo separato e speciale, incentrato su un solo tipo di soggetto, l’uomo rivoluzionario, si perdono per
strada tutte quelle contraddizioni che ne segnano il percorso, non ultime la lotta di fazioni e guerra civile.
Il rischio insito in questa prospettiva è poi quello di considerare l’unica vera Rivoluzione i due anni che vanno
dall’instaurazione della repubblica a Termidoro e Brustin ne è consapevole. Avviene così un curioso fenomeno:
- Le stesse pratiche manipolative e lo stesso linguaggio democratico – rivendicativo che per un verso favoriscono
la politicizzazione delle proteste sociali e delle rivendicazioni economiche e la creazione di forme nuove di
socialità politica, per altro verso tendono a produrre un’impasse della partecipazione democratica. Da questo
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contesto origina l’ossessione del complotto che prende forma in un clima di crescente incertezza e paura
nell’immaginario collettivo.
Al carattere vischioso e oscuro della cospirazione il patriottismo militante contrappone allora l’ideale della trasparenza, che
si traduce in pratica nell’occhiuto controllo di massa sui comportamenti sospetti. Tutto ciò configura quello che Brustin
chiama il protagonismo rivoluzionario e che è poi, più propriamente, il protagonismo popolare. La chiave per intenderlo
non sta nel registro psicologico, ma in quel nuovo e potente meccanismo di partecipazione alla vita pubblica che è
Una volta attivato, questo protagonismo popolare è poi naturalmente difficile da contenere; l’incapacità dell’autorità politica
a dissipare, una volta per tutte, l’inquietante fantasma della mobilitazione popolare è il cuore del problema.
Bisogna chiedersi perché i reiterati tentativi di normalizzazione falliscano, tenendo così aperta la porta all’instabilità. La
risposta è che l’impossibilità di farla finita con la Rivoluzione dipende dal fatto che essa, nel frattempo, ha creato nuove
identità, sorta di abiti che non si dismettono tanto facilmente. Si tratta di persone alle quali è complicato ordinare di tornare
alle proprie occupazioni di un tempo, perché nel frattempo la Rivoluzione le ha cambiate intimamente, creando uomini
nuovi. Non si tratta dunque di un effetto del gioco politico, ma di una sorta di resistenza esistenziale.
La conclusione, che vorrebbe essere consolatoria ma è invece poco rassicurante, è che tutti i principali sistemi ideologici,
Le letture molto differenti passate sino ad ora in rassegna in questo capitolo, convergono su alcuni elementi comuni:
1. Restituire un’interpretazione della Rivoluzione francese capace di entrare in sintonia con le domande del
presente;
2. Rifiuto di addossare alla Rivoluzione il male oscuro del XX secolo, di farne la madre di quella degenerazione
dell’utopia in ingegneria sociale dispotica comunemente individuata come la fucina del totalitarismo;
3. (in NEGATIVO) Resistenza a fare i conti con la struttura della politica rivoluzionaria, un sistema che può certo
includere ma non essere interamente sostituito da scariche emotive, da convincimenti ideologici o infine da
rivoluzionaria è stata anche la creazione di nuovi e problematici equilibri politici di democrazia rappresentativa.
Le svolte politiche fondamentali sono infatti scandite dal protagonismo della piazza, sostenuto dall’ideologia condivisa della
sovranità popolare e della superiorità della volontà; il popolo, nuovo vero sovrano, si presenta come astratto/concreto,
Gruppi in minoranza nell’Assemblea possono di conseguenza avvalersi di una minaccia esterna in grado di condizionare
e, al limite, ribaltare gli equilibri parlamentari. Si apre così una competizione tra le fazioni politiche per il controllo della
piazza, una gara in cui vince chi riesce a conquistare il consenso degli stati sociali più attivi e politicizzati.
L’estremismo ideologico non è, cioè, solo una conseguenza necessitata di premesse teoriche intrinsecamente illiberali ma
è anche legato a una struttura della politica in cui l’egemonia sulle sezioni è necessaria in quanto attraverso l’appello del
Ne deriva una tendenza a varcare continuamente i confini della legalità, rendendo impossibile la stabilizzazione del regime.
Il populismo è anche la richiesta di una sorta di sostegno politico esterno, spinto talora fino all’estremo gesto
dell’insurrezione.
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CAPITOLO 4. Patria e libertà
All’indomani della Rivoluzione francese e per tutta la prima metà dell’Ottocento il tema della libertà collettiva ha dominato
la scena del continente europeo. La rivoluzione si è presentata di nuovo, e poi ripetutamente come la rivoluzione nazionale,
In Italia la rivoluzione nazionale si è chiamata Risorgimento o risveglio di una nazione oppressa da liberare. A partire dalla
ricorrenza dei 150 anni della fondazione del regno d’Italia, nel 2011, romanzi, film, sceneggiati televisivi e dibattiti si sono
susseguiti in un’ondata mediatica senza precedenti. Il ritorno di attenzione si è rivolto ad indagare soprattutto il momento
iniziale come a rispondere a domande sul senso dell’unificazione, sul suo radicamento e sulla sua tenuta.
Rispetto a questa piena mediatica, in cui le preoccupazioni dell’oggi si scaricano senza troppe mediazioni su un passato
di comodo, la riflessione storica non è stata in grado di fondare su una rilettura del processo risorgimentale una
reinterpretazione della storia nazionale; essa appare mancante di ambizioni revisioniste che non siano quelle di certa
Fa eccezione, in questo quadro, la proposta interpretativa che dagli inizi del nuovo secolo porta avanti con ammirevole
tenacia Alberto Mario Banti, “il più in vista tra gli esperti del Risorgimento” che fa un’ambiziosa rilettura generale del
processo di formazione nazionale capace di imporre, grazie a un originale approccio metodologico, un riposizionamento
complessivo dell’agenda delle domande e cioè allo strutturarsi del discorso nazionale e alla sua dimensione comunicativa
= svolta culturalista, una nuova proposta interpretativa che non si limita a giustapporsi alla vecchia o a completarne al
trama narrativa classica, ma propone cause ed effetti chiedendosi come e perché si sia fatta l’Italia.
Ispirata da un lato ai classici lavori di George Mosse e dall’altro alla messe di studi postmoderni sui processi di invenzione
della tradizione, la ricerca di Banti costituisce infatti un affascinante e insito tentativo di dimostrare che la chiave della spinta
risorgimentale non sia da cercare né in vaghi e per lo più indimostrati mutamenti socioeconomici, né nel variegato e caotico
conflitto politico-ideologico e nemmeno nelle complesse logiche dinastiche, geopolitiche e di equilibrio internazionale,
paradigma egemone.
Attorno alla domanda seguente Banti scrive il suo libro: come e perché si diventa patriota nell’Italia della prima metà
dell’Ottocento? La risposta è che la nazione prima di essere un ideale per cui combattere e, eventualmente, morire, deve
A causa delle censure nasce così su un piano ricreativo e prepolitico una mitografia e una simbologia della nazione che,
ricalcata sul modello francese, costruisce un discorso dotato di un’eccezionale forza comunicativa. Essa fu tale, scrive
Banti, da toccare la mente e il cuore dell’opinione pubblica della penisola, tanto da diffondere l’idea dell’effettiva esistenza
di un soggetto (nazione italiana) che nei fatti sembrava molto difficile da identificare.
Il metodo da lui utilizzato è stato quello di analizzare un certo numero di testimonianze di uomini e donne del Risorgimento.
Banti trae la convinzione che questi ultimi siano divenuti patrioti non a causa di un malessere economico o di un’ambizione
politica frustrata, ma a seguito della lettera decisiva di testi (che divengono un canone) che li hanno in gioventù convertiti
costellazioni simboliche in forma narrativa. Queste costellazioni sono per Banti essenzialmente tre:
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1. La nazione come struttura di parentela come comunità di discendenza;
2. La nazione come incarnazione di una declinazione patriottica dell’amore romantico articolata nei lemmi
amore/onore/virtù;
Il discorso nazionale prende visibilmente a calco quello religioso, con la conseguente sovrapposizione e ibridazione
simbolica di martiri cristiani e martiri della nazione, virtù cristiane e virtù patriottiche, altari che diventano altari della patria,
Quest’insieme di tesi hanno un profilo esplicativo che va molto al di là di quello di una provocante e innovativa analisi di
tropi testuali. Definiscono una proposta complessiva che ambisce a riscrivere completamente la nostra visione del
Risorgimento.
Uno degli aspetti positivi dell’analisi di Banti è che essa smonta il facile senso di familiarità e di contemporaneità rispetto
alle idee e ai sentimenti degli uomini della prima metà dell’Ottocento. D’altra parte, però, Banti lascia il lettore abbastanza
incerto rispetto a una delle caratteristiche di fondo della produzione mitica nazionale e presenta questo discorso come una
sorta di vortice linguistico autocentrato. Si resta così incerti sugli oratori e gli scrittori abbiano continuato in seguito a
esercitare la propria funzione creativa, influenzando la discussione sulla nazione nella sfera pubblica italiana e
modificandone di continuo le caratteristiche o se, viceversa, una volta costruito il discorso nazionale, essi, abbiano esaurito
Sul palcoscenico che egli disegna non sono presenti invero degli attori storici in carne ed ossa; al loro posto campeggiano
invece due soli protagonisti: il discorso nazionale, mostro di fascinazione, e una massa amorfa di giovani destinati
Non solo non si ritrova un’analisi dei processi di ricezione del discorso nazionale o dei complessi passaggi che separano
la lettura di un testo dalla sua utilizzazione politica, ma vi è la tendenza a fare del discorso nazionale in epoca risorgimentale
Per Banti, infatti, il discorso nazionale è un sistema ideologico sostanzialmente chiuso, distinto da altri sistemi ideologici,
come quello liberale o socialista.
DA RICORDARE = l’universo politico l’indomani del congresso di Vienna è dominato dall’accordo delle potenze europee
per cancellare gli effetti della Rivoluzione francese, far tornare indietro le lancette della storia e tenere in piedi il malfermo
edificio dell’antico regime mediante l’alleanza del trono e dell’altare, vale a dire la legittimazione di diritto divino dei sovrani
spodestati.
L’ultimo lavoro di Banti sul tema illustra il proprio punto di vista e costituisce il prolungamento delle sue precedenti tesi. Al
centro del libro si staglia infatti l’impegnativa affermazione che l’essenza morfologica della nazione elaborata dal
Risorgimento resta la stessa fino al fascismo. Si affermano infatti una declinazione razzista dell’idea di nazione, una nuova
Le nuove componenti si presentano come uno sviluppo organico, armonico, coerente rispetto a quella matrice che resta
comunque sempre il nucleo portante del discorso nazionale. La tesi che egli sottolinea con più convinzione è che non vi
sia una sostanziale differenza morfologica tra il discorso nazionale primo-ottocentesco e il discorso nazionalistico tardo-
ottocentesco e novecentesco. Per questa ragione egli è costretto a comporre con qualche difficoltà e a tentare di mettere
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in evidenza ciò che chiama lo “spessore biopolitico della concezione risorgimentale della nazione”, in altre parole la
È come se la ricostruzione di Banti, solo apparentemente disposta in senso cronologico, fosse in realtà costruita a rebus,
tesa cioè a rintracciare nei più vari testi le tracce di quello che, tra Otto e Novecento, sarà il pensiero nazionalista.
Il successo della campagna interventista viene così ancora una volta spiegato con la fascinazione della retorica nazionale
ormai da lunga pezza impressa nelle menti degli italiani. In questo, come in altri casi, di fronte a un tratto di discontinuità,
a un mutamento, a una rottura, invece di connetterlo a un elemento di contesto, per esempio alla stagione della politica
coloniale italiana o alla diffusione del movimento socialista, si tende a ricondurlo alla grammatica generativa del discorso
nazionale risorgimentale, sorta di cornucopia produttrice di tutto l’universo semantico nazionalistico, ma anche oltre
La patria perduta, l’esperienza dell’esilio, sono qualcosa che si legano strettamente alla costruzione del discorso della
nazione, è l’esilio moderno; a parti invertite lo subiranno e insieme, per certi versi, lo inventeranno proprio gli ultras, i
Per cogliere davvero il senso del nesso tra il discorso sulla libertà e il discorso nazionale questo punto di osservazione,
quello offerto dalla messa a distanza della patria attraverso l’esperienza dell’esilio, è decisivo: si tratta oltretutto di una
prospettiva che consente di avvicinare un altro tema cruciale, quello della lotta per la libertà degli altri, l’internazionalismo
liberatorio.
Bistarelli ricorda come fosse stato Croce a invocare un libro sugli esuli dichiarandosi affascinato dal tema. Nello stesso
testo Croce auspicava che in un libro del genere non si porgesse attenzione solo ai soliti noti ma anche agli uomini oscuri,
quella massa di individui normali che hanno fatto la storia dell’emigrazione politica.
L’esilio ne esce ben delineato come un tema centrale del Risorgimento, tanto sul piano delle esperienze soggettive quanto
su quello mitico e simbolico; una ricerca impegnata, approfondita, erudita sugli esuli del 1821, spinta fino al resoconto di
dettagli delle loro vicende prima, durante e dopo la vicenda dell’esilio. Il libro in questione propone una riflessione sulla
1. Per iniziare l’attenzione speciale che viene riservata nell’introduzione alla rappresentazione dell’esilio in opere
musicali, teatrali e delle memorie. Persecuzioni, guerre civili, pestilenza, fame, tutto provarono gli esuli del 1821
= tema più generale dell’esilio politico nel Risorgimento. L’autore non nasconde al lettore che il problema avrà
dopo il 1848 caratteristiche in parte diverse: mentre gli esuli del 1821 sono in buona misura gente che fugge dal
Piemonte, dopo il 1848 si aprirà una nuova fase dell’emigrazione politica in cui da tutta Italia si fuggirà in Piemonte.
Tale scelta diverrà una linea politica generale, cui Massimo D’Azeglio darà voce con il concetto di “protettorato
italiano”. MA se l’emigrazione politica si muove in un contesto politico, allora si danno sia politiche di sostegno di
mossa da ragioni dichiarate, e sostenute da una retorica ideologica, sia politiche mosse da ragioni non dichiarate,
fondate su esigenze di Realpolitik, da cui dipendono pratiche inconfessabili. In altri termini, l’emigrazione viene
aiutata e per certi aspetti protetta, mentre per altro verso viene sorvegliata, infiltrata e tenuta sotto controllo. La
scelta del testo è quindi chiara: raccontare con grande precisione la storia dell’emigrazione del 1821 e seguirne
la vicenda nel corso degli anni Venti e Trenta, prolungando l’analisi nel caso di alcuni esuli anche al di là di quel
periodo;
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2. Il secondo piano di indagine è quello nel quale vengono illustrati i risultati della ricerca prosopografica e del
tentativo insito di Bistarelli di collegare in qualche modo scelta politica e situazione oggettiva di partenza,
appoggiandosi a studi certo assai penetranti ma anche dati. Da una parte siamo in presenza di un materiale assai
ricco di informazioni ma dall’altra i risultati cui conduce non paiono conclusivi = sembra che la logica identificativa
del Database Management System e quella delle identità multiple degli attori storici non coincidano. Accade infatti
nella storiografia politica tradizionale di vedere preassegnati gli schieramenti politici sulla base di riferimenti
ascrittivi e di leggere a commento considerazioni stizzite sulle scelte concrete di campo degli attori storici,
considerate bizzarre, frutto di errori e di incomprensioni. Dovremmo invece guardare agli interessi non come a un
dato esterno, oggettivo, ma come qualcosa che è incastrato proprio nella tradizione discorsiva;
3. Il terzo piano di indagine di Bistarelli risulta uno dei meglio costruiti e dei più godibili del libro. Egli pone tutta una
serie di questioni di grande interesse, ruotanti attorno ai modi diversi con cui la soggettività articola e omogenizza
l’esperienza dell’esilio. L’esilio è un’esperienza liminare; il discorso sull’esilio non è dunque solo un discorso sulle
frontiere che attraversano i corpi ma anche sui corpi che attraversano le frontiere, i corpi degli esuli appunto. Tra
esperienza della comunità di partenza ed esperienza della comunità di ritorno, l’esilio è anch’esso creazione di
comunità e integrazione. Come l’esercito e il collegio però l’esilio è anche luogo di acculturazione, e di esperienza
politica. Bistarelli guarda anzitutto alla famiglia, alle reti familiari come luogo di trasmissione di valori etici e di
tradizioni politiche.
La polemica di Bistarelli nei confronti di una certa ortodossia culturalista è qui più che giusta. Per Alberto Mario Banti
l’iniziazione al credo nazionale non passa attraverso la famiglia, gli istruttori, la scuola ma esclusivamente attraverso la
lettura.
Infine, ci ricorda Bistarelli, non sono solo i libri che insegnano ma anche gli eventi, talora più potenti ed efficaci: pare che
Mazzini, ancora ragazzo, concepisse l’idealità nazionale guardando gli esuli del 1821 partire per la Spagna dove la
4. L’ultimo piano di indagine e analisi è quello che fa riferimento alla possibilità di considerare o meno l’esperienza
dell’esilio come base sufficiente per una biografia di gruppo. Il libro dimostra con chiarezza come anche in questo
caso una generazione non sia un fatto in sé, ma qualcosa che viene ricostruito a posteriori.
Il libro propone dunque importanti questioni che vanno al di là della pur rilevante tematica dell’esilio e impegnano
problematiche più generali di interpretazione dell’esperienza risorgimentale come rivoluzione nazionale italiana.
Ma se l’esperienza dell’esilio è decisiva nel mettere a fuoco l’ideale della patria libera, un altro importante aspetto
dell’esperienza rivoluzionaria è offerto poi dalla messa a distanza nel tempo, vale a dire dalla riproposizione di temi attuali
La storia della Nazione e della libertà è stata lungamente irrisa dalla storiografia conservatrice spagnola additata come
esempio ridicolo dei guasti introdotti dalla affannosa ansia di legittimazione dei regimi liberal-democratici. Tuttavia, oggi,
in tempi di invenzione della tradizione, possiamo giudicare forse con qualche minor disdegno o sufficienza questa ricerca
spasmodica di antenati. Essa fa parte del ruolo che la storia ha giocato, in Castiglia come in tutta Europa, nell’affermazione
delle società nazional-liberali del XIX secolo. Se per un verso, forti dell’insegnamento di stagioni storiografiche revisioniste,
che ci hanno insegnato a diffidare del tendenziale anacronismo di tanta storiografia progressista, abbiamo ormai una
strumentazione analitica molto più attenta, una più grande consapevolezza nel trattare eventi del passato; per l’altro
sappiamo che la storia è scienza sui generis, che non può bloccare la penetrazione nel suo discorso del linguaggio
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naturale, quello che promana dalla vita di tutti i giorni e, per così dire, dalla strada. Di più, sappiamo bene come essa non
possa impedire un uso, talvolta improprio o anche distorto, delle proprie interpretazioni nel contesto di una sfera pubblica
che organizza comunque un suo proprio utilizzo del passato, un uso e riuso continuo che non è certo né privativa né
Va poi notato che ve ne sono alcuni (di fatti storici) la cui costruzione e affermazione merita un’attenzione particolare. Si
tratta di quelli che si potrebbero definire i miti fondatori di una comunità politica le cui caratteristiche sono essenzialmente
tre:
1. Si tratta di avvenimenti che, nella visione romantica della storia, dovrebbero esprimere il sentire intimo, l’anima di
2. Si tratta di eventi passati le cui conseguenze durature vanno considerate di lungo periodo e quindi si spingono
3. Si tratta di fatti che fungono da discrimine, crinale periodizzante tra un prima e un poi che risulta irrimediabilmente
Non vi è tuttavia dubbio che nell’un caso come nell’altro, è proprio nella prima metà del XIX secolo che essi divengono dei
Nel caso dei comuneros, la riflessione storica sul significato di spartiacque rappresentato dalla rivolta delle comunità
castigliane inizia nel 1808. Questa attenzione nasce da un rispecchiamento immediato tra il presente e il passato, un
rispecchiamento che proseguirà fino alle Cortes gaditane nelle quali il tema di Villalar come evento che segna la fine delle
La Spagna, che era stata anticipatamente in Europa con la formazione di una monarchia temperata capace di bilanciare
le varie componenti sociali e istituzionali, appare adesso vittima della prepotenza dispotica.
Con il ritorno di Ferdinando VII e il passaggio dell’opposizione liberale all’attività cospirativa questa tendenza si fece
largamente strada e gli eroi di Villalar divennero un vero e proprio simbolo identitario.
Risulta assai interessante come in Lafuente “Historia general de Espana” ci sia una consapevolezza precisa del nesso tra
la ricostruzione storica e gli eventi presenti, sottolineando l’insurrezione delle comunidades motivata da interessi e
sentimenti del tutto ragionevoli al punto che nessuna rivoluzione fu mai stata tanto giustificata come la loro.
Commenta: “credo che mai sono più profittevoli e più necessari ai popoli gli insegnamenti storici che quando i turbolenti
dibattiti e le lotte politiche che preludono o accompagnano i mutamenti e le rigenerazioni sociali li commuovono e li
inquietano”.
Questo commento si attaglia perfettamente a illustrare la nascita del mito del Vespro in Sicilia in epoca risorgimentale, un
processo di reinvenzione della tradizione legata all’azione di uno storico solo, però grande: Michele Amari.
Per Amari la Sicilia possedeva una forma di monarchia temperata da una costituzione, e cioè da istituzioni rappresentative,
una forma che in Sicilia si riferisce all’unificazione dei due regni con gli statuti dell’8 e 11 dicembre 1816 e all’abolizione
Amari aveva iniziato le sue ricerche storiche con un lavoro sulla rivoluzione del 1820-1821 che trattava della Costituzione
del 1812, ma a un certo punto si era bloccato. Anche alle radici della rivoluzione dei Vespri affondavano per l’autore
nell’odio crescente contro una dominazione oppressiva (Carlo aveva calpestato le franchigie costituzionali, levando tributi
senza convocare il Parlamento).
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Contro questa oppressione però si levò il sentimento della gente siciliana, la virtù del popolo, ai quali queste scelte avevano
aggravato i loro servizi personali). Sta qui quella che l’autore riteneva la maggiore acquisizione del suo lavoro (e poi la
Il principale impegno di Amari fu quello di dimostrare che la congiura che faceva capo a Giovanni da Procida non ebbe
effetti concreti sullo scatenarsi dell’insurrezione. È significativo che nella pagina cruciale del libro, l’inizio dell’uccisione dei
francesi, Amari non disdegni di ripetere la leggenda del “Ciciri chirichi”, una storia di cui Giuseppe Pietrè ha fatto la
Apparso sul finire del secolo scorso, l’ultimo libro di Francois Furet, Il passato di un’illusione, costituisce una riflessione di
particolare rilievo sul fenomeno definito come l’”illusione comunista”, infrantasi con la repentina scomparsa dell’Unione
Sovietica, e insieme un’occasione per ripensare quanto vi è di essenziale nella vicenda novecentesca.
Furet ci invita a pensare il XX secolo, a dargli nuovo senso, liberandolo dalle scorie ideologiche che la passione politica vi
ha depositato. Il crollo del muro di Berlino e la disgregazione dello stato fondato nell’ottobre 1917 appaiono infatti una
Una volta che l’intensa stagione del secolo breve poteva dirsi conclusa, lo storico poteva abbandonarsi alla hybris di
Al centro del libro è un’interrogazione sul fascino del comunismo, l’enorme capacità di attrazione di un’idea resistente come
poche altre alle smentite della storia; l’attenzione è rivolta alla contraddizione stridente fra le miserie di una realtà dispotica
e il mito fondante della società comunista, la promessa di un mondo nuovo destinato a coronare l’evoluzione storica
dell’umanità. Furet si chiede come sia potuto accadere che, proprio mentre l’Unione Sovietica viveva la fase più cupa della
propria deriva totalitaria, l’intellettualità di tutto il continente salutasse nel regime sanguinario di Stalin l’avanguardia della
libertà.
Il tema non è quindi nuovo. Il ritardo e la reticenza con cui l’opinione pubblica colta europea ha denunciato gli orrori del
cosiddetto “socialismo reale” sono stati oggetto di accorate denunce e nel secondo dopoguerra la questione è stata ripresa,
fra l’altro, da un libro, brillante e polemico, di colui che Furet considerava il proprio maestro intellettuale, Raymond Aron.
Furet vuole descrivere il fenomeno in tutta la sua portata, analizzando oltre settant’anni di storia europea, volendo però
individuarne il senso segreto e nascosto, il “mistero originale”. Infatti, il libro appare proprio come un’indagine sul disperato
bisogno d’illusione del Novecento, letto soprattutto attraverso la testimonianza delle legioni di intellettuali, piccoli e grandi,
ammaliati dalla sirena comunista. Tra questi ritroviamo proprio l’autore, che comunista lo è stato tra il 1948 e 1956, sicché
L’aspetto centrale della sua impostazione è volta ad indagare più il percorso immaginario di un’idea che un processo storico
reale; bisogna allora considerare il libro di Furet per quello che realmente è, un lavoro di storia delle idee, anzi per meglio
L’illusione, secondo l’autore, non accompagna la storia del comunismo ma ne è costitutiva. Si tratta di un credo nella
sostenitori all’adorazione. Stupisce tuttavia che la sottolineatura degli elementi religiosi presenti nell’idea comunista si
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accompagni a un disinteresse pressoché totale non solo nei confronti delle forme associative e organizzative, ma anche
verso tutti quegli aspetti simbolici che dovrebbero costituirne la manifestazione più evidente. Quello che Furet definisce un
super investimento dell’ideologia della politica venga considerato un fatto totalmente nuovo e originale del XX secolo.
Furet osserva che mentre il comunismo appare caratterizzato da un investimento psicologico paragonabile a quello di una
fede religiosa ma avente un obbiettivo storico, nelle epoche che ci hanno preceduto “la politica è nelle mani d’una ristretta
cerchia di persone e non è oggetto di appassionati investimenti come quelli suscitati da una religione. Se ne dovrebbe
dedurre, che l’autore ritenga che la religione non comporti forti coinvolgimenti politici.
La tendenza a esaltare l’unicità ideologica dell’esperienza novecentesca è poi particolarmente evidente nel modo in cui
Gli uomini del XX secolo sono descritti come serve di partiti onnipotenti, costretti a ingoiare ideologie estremamente
grossolane e volgari con le quali il grande fratello rinnova in ogni momento, su ogni cittadino.
Furet contrappone l’Ottocento che conosce e ama: un Ottocento che aveva per rappresentati uomini politici di gran classe,
protagonisti di un tipo di discorso politico da lui considerato molto più profondo di quello contemporaneo.
Le stesse rivoluzioni ottocentesche vengono da Furet considerate migliori di quelle novecentesche perché non ricalcano
Anche l’idea nazionalista gli pare, nel caso ottocentesco, preferibile, così profondamente legata qual è al concetto di cultura
e ancora immune da scivolamenti razzisti. Accade così che l’autore, non trovando per nulla originale la dottrina comunista
del XX secolo, rinunci a presentarci un’analisi che consenta di cogliere la sua specificità rispetto alla tradizione socialista.
Di più: manca qualche riferimento alle caratteristiche del “linguaggio” bolscevico e all’analisi comparata della retorica dei
suoi principali leaders; Furet non pare interessato a un’anatomia dell’idea comunista, in quanto, scrive, l’idea leninista è
un’idea limitata; per l’autore l’odio per il borghese non è inoltre un odio di classe, né il prodotto della predicazione socialista.
Il borghese non è che la calamita del disprezzo di un’epoca, il simbolo dell’interesse e del denaro, il polo negativo
dell’artista.
Meno comprensibile appare la riproposizione di un concetto come quello di borghesia usato in modo insieme
estremamente generale e ipostatizzante, e perciò inutilizzabile entro schemi idealtipici.
Per Furet la borghesia si caratterizzerebbe proprio per l’infinita capacità di produrre individui che aborrono il regime sociale
e politico nel quale sono nati; e di questo strano fenomeno gli intellettuali del Novecento costituiscono la più significativa
illustrazione.
La passione originaria, dunque, non è la passione di classe, ma una passione antiborghese e antimoderna e questa
E tuttavia la passione antiborghese, insieme antiliberale e antidemocratica, non avrebbe generato il suo mostruoso parto
gemellare senza una forte sollecitazione esterna, prodotta dalla Prima guerra mondiale.
La reazione antiborghese ne esce profondamente trasformata, diventa passione rivoluzionaria prendendo le forme del
Questa sorta di filogenesi delle passioni serve, dunque, a Furet a porre bolscevismo e nazifascismo non solo in una stessa
Si afferma anche la natura rivoluzionaria del fascismo considerandolo un prodotto delle stesse passioni politiche operanti
nel comunismo e lo è in forme altrettanto estreme, a cominciare dall’odio per il parlamentarismo borghese.
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Per sostenere il teorema dell’equiparazione tra fascismo e comunismo, tra Mussolini e Lenin, Furet è costretto a sostenere
che le passioni suscitate dal militante fascista non sono le stesse che invoca il bolscevismo ma sono della stessa natura.
Furet sembra attribuire infatti alle passioni un significato indiscusso e sostanziale: quello di forze operanti nella storia capaci
di animare il repertorio ideologico. Ma un simile concetto appare oggi lungi dall’essere accettabile; sottolinea la natura
semantica della passione, il suo costituire un linguaggio o, se si vuole, un vocabolario, vale perciò a riportare il discorso
all’area di significato, non a ciò che sono le passioni, ma a quello di cui parlano.
Bolscevismo e fascismo per l’autore non sono soltanto scaturiti dalla stessa congiuntura bellica e dalla medesima passione
antiborghese e antidemocratica. Essi sono anche legati da un comune meccanismo di azione e reazione: se l’agosto 1914
aveva consacrato la vittoria della nazione sulla classe, il 1918 segna la rivincita della classe sulla nazione e con
A sua volta l’affermazione del bolscevismo provoca la diffusione della passione anticomunista mentre la stabilizzazione
del fascismo e poi la nascita del nazismo fanno di nuovo splendere agli occhi dei popoli europei l’attrattiva della stella rossa
Furet accetta così in parte la famosa tesi di Nolte sul carattere derivato del nazifascismo dal bolscevismo, del lager del
gulag (ne accetta il vocabolario). Il bolscevismo è infatti, per Furet una “patologia dell’universale”, laddove il nazifascismo
è una patologia del particolare; il rapporto di dipendenza e di imitazione creato tra i due movimenti da questo legame di
azione e reazione permette di avanzare l’idea che forse gli effetti di semplificazione e di volgarizzazione che le due
Oltre che da questo legame dialettico, bolscevismo e nazifascismo sono accumunati anche da un’avversione complice nei
confronti delle democrazie borghesi e del movimento socialista. La storia degli anni Venti e Trenta rivela una continua,
Si giunge qui a quella che può essere considerata la tesi-chiave del libro: il mostro totalitario, nella sua doppia veste
hitleriana e staliniana, è un fenomeno inedito, proprio del XX secolo, che non può essere compreso attraverso le teorie
liberali della storia né, soprattutto, mediante quella marxista. Il fascismo e il nazismo non sono interpretabili come
marionette della borghesia, agenti del suo dominio terroristico; piuttosto che essere segnati dalla dipendenza da
determinati interessi sociali essi appaiono caratterizzati da una radicale autonomia da questi ultimi.
I regimi totalitari nati dalle rivoluzioni non possono permettersi che le passioni si spengano: hanno bisogno di rinfocolarle,
Furet non è certo il primo a proporre un’interpretazione del totalitarismo in chiave di psicologia collettiva, né a sottolineare
il ruolo della manipolazione dell’opinione pubblica nei regimi staliniano e hitleriano. Vi è infatti un mistero nelle ideologie
totalitarie del XX secolo, e questo mistero consiste nel duro condizionamento che hanno esercitato su tutti coloro che le
hanno professate. La Seconda guerra mondiale è perciò comprensibile solo alla luce dell’ideologia: e ciò vale non solo per
L’Olocausto è per Furet l’argomento decisivo per contestare la teoria marxista, per mostrare come il segreto del successo
hitleriano non sia consistito nel mandato di una classe ma nel consenso di una nazione. Accettare il carattere socialmente
determinato del nazismo significherebbe infatti arrivare a sostenere l’idea assurda che il genocidio degli ebrei abbia figurato
nei programmi del capitalismo tedesco. L’hitlerismo nel suo fondo non è un nazionalismo ma “un’astrazione derivata dal
socialdarwinismo e diventata una promessa di dominio del mondo”.
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Nel tentativo di rendere perfettamente equilibrato il suo doppio parallelismo, Furet, dopo aver avvicinato leninismo e
fascismo, allontana ora nazismo e fascismo, negando a quest’ultimo la qualifica di regime totalitario (pensiero solo per
stalinismo e hitlerismo).
Un secondo esempio è come viene presentata la guerra civile spagnola. Secondo Furet la Spagna del 1936 non è
interpretabile come uno scontro tra fascismo e antifascismo. Avendo predefinito il fascismo come una forza rivoluzionaria
e ritrovandosi di fronte una rivolta dell’esercito, sostenuta dalla Chiesa cattolica, dai proprietari fondiari e dalle forze
La Spagna offre lo spettacolo d’un conflitto ben più antico di quello tra fascismo e antifascismo: nelle sue terre si scontrano
la rivoluzione e la controrivoluzione. Anche in questo caso il fatto che dalla parte della rivoluzione stessero i difensori di
una repubblica democraticamente eletta e viceversa l’evidenza che tutti i fascisti e nazisti europei, malgrado la propria fede
rivoluzionaria, si sentissero solidali con un forte controrivoluzionario non sembra agli occhi di Furet una contraddizione, e
All’indomani della guerra, per esempio, va in scena l’ultimo atto della grande illusione. Mentre i crimini di Stalin trovano un
provvidenziale lavacro offerto dall’Unione Sovietica, a Norimberga il tribunale dei vincitori processa il nazismo. La
Germania finisce così per pagare per entrambi i totalitarismi, per tutti i grandi crimini del secolo.
Ma che tipo di storia si può praticare oggi, che la storia non sembra più ancorata al futuro? La risposta fornita da Michèle
Riot-Sarcey nel suo libro La prova della libertà è che occorre scavare.
Si tratta di una questione decisiva e di gran momento, niente affatto accademica, che parte dal rifiutare quel tipo di
continuità storica che, a posteriori, sceglie il passato a piacimento, ricostruendo percorsi di comodo; e si propone di farlo
anche nel caso in cui questa continuità sia quella del movimento socialista che, con le radici ben piantate nella Rivoluzione
francese, ha a lungo ricostruito la sua vicenda storica legandola a un avvenire immaginato come garantito e
necessariamente luminoso.
Ci serve una storia che vada alla ricerca degli avvenimenti scartati, dei percorsi che non hanno portato da nessuna parte,
delle scelte infelici, e soprattutto, dei vinti. Si tratta di andare alla ricerca di echi, di risonanze che permettano di ricostruire
un rapporto vitale tra passato e presente e di farlo attorno a un concetto, quello che il pensatore socialista Pierre Leurox
Questo programma, l’autrice lo applica all’Ottocento francese, ricostruendo una vicenda lunga e complessa, al cui centro
viene posto con fermezza il 1848, con l’idea di proporre una letteratura altra del XX secolo per scorgervi tratti sfigurati della
L’autrice critica quella tendenza diffusa tra gli storici a prendere in prestito concetti delle altre scienze sociali, e la
conseguente resistenza a elaborare un patrimonio concettuale proprio. Vi è poi la sfida a inventare dei modi di fare storia
adeguati al presente e perciò rinnovati; una storia che non sia solo spiegazione a posteriori dell’accaduto o peggio una sua
legittimazione, che non scarti un avvenimento solo perché non sta in riga con gli altri, ma che sia invece aperta alle
mancanze.
La scommessa è di rompere con la continuità della spiegazione storica proprio come pittori quali Klee, Picasso e Kandinskij
L’autrice ci propone di attingere a un passato dimenticato, rimosso, frammentato, sotterraneo e di farlo al di fuori dello
schematismo di catene esplicative causali.
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Bersaglio preferito della critica dell’autrice è il pensiero teologico, quella visione progressiva che accomuna il pensiero
marxista mainstream e tanta parte della storiografia. Con accenti che ricordano le posizioni della microstoria, la studiosa
francese ha buon gioco a criticare una visione dell’evoluzione storica dominata da forze e processi impersonali, i cui attori
sono pedine più o meno inconsapevoli; una lettura storiografica totalizzante e onnicomprensiva che lascia poco spazio per
Nel contesto di uno sforzo teoreticamente così impegnato colpisce la mancata tematizzazione della questione della verità
storica. In una realtà dominata dai nuovi media e dai social vi è chi ha teorizzato una maniera “pirronista” di fare storia,
quella per cui ogni gruppo, partito, corrente ideale, ha il diritto di ricostruire la sua propria vicenda scegliendo à la carte dal
Posti di fronte a un impegno teorico di questo genere, una discussione puramente scientifica rischia allora di non cogliere
il punto, mentre appare più coerente aderire all’atteggiamento proposto, che carica la ricerca storica di responsabilità civili
(e morali) non indifferenti, e ciò sia nell’esprimere elementi di consenso, sia nell’evidenziare motivi di dissenso.
L’autrice fa l’esempio dell’insurrezione di giugno del 1948 prestando attenzione alle voci dei protagonisti di una rivolta, che
voleva introdurre la sovranità popolare che tentava di invertire l’orientamento della Seconda Repubblica, giudicato
sfavorevole ai ceti popolari. Si organizzava in quei giorni quella che era allora chiamata la fratellanza repubblicana, che
proponeva mutualità, il salario fissato per legge e l’organizzazione collettiva dei lavoratori come garanzia della propria
completa liberazione.
La libertà, in sostanza, non era per quegli uomini solo un’idea, ma un processo sociale concreto, fatto di partecipazione e
Di più nel libro il lettore può trovare una ricostruzione minuziosa di queste idee attraverso un’indagine attenta della
pubblicistica d’epoca.
DOMANDA: qual è l’attore sociale che promuove la soggettività? Nel testo si usano tre termini: classe operaia, proletariato
e popolo.
Vi è oggi infatti, nella storiografia francese, una crescente attenzione e anche un recupero di Thompson che tuttavia risulta
abbastanza decontestualizzato. Thompson ai suoi tempi polemizzava con una tradizione olistica di grandissimo rilievo,
che aveva costruito un vero e proprio feticcio della classe operaia. Il suo libro ha a suo tempo suscitato un dibattito
L’autrice non ha torto nel sostenere che ci sia un uso del termine fraternité che sfugge all’analisi tranchante di Marx, per il
quale essa sarebbe un passe-partout della prospettiva interclassista; ma dall’altro non ne deriva per questo che Marx
avesse completamente torto, nel senso che c’era anche quell’uso in circolazione.
In breve, non si da un unico significato intenzionalmente o meno delle parole che girano nell’arena pubblica, ma significati
plurimi e confliggenti. Tutto ciò ha naturalmente molto a che fare con il problema delle fonti usate.
Il problema è che, se da un canto la classe operaia è un termine che va ineluttabilmente decostruito, e per così dire
smontato, ancor di più questo smontaggio va fatto a proposito del termine “proletariato” e ancor di più quello di “popolo”.
Nel 1970 diversi storici all’interno del loro saggio, pongono l’attenzione al contadino francese che diviene il simbolo delle
virtù incontaminate, una tendenza che è parallela a quella di controllare, incasellare e reprimere.
Ora, se spostiamo l’attenzione dalle campagne al popolo urbano troviamo le stesse ambiguità e anzi maggiori; ed essa si
esprime nell’ideda delle classes laborieuses come opposte alle classes dangereuses. L’autore che usa come
contrapposizione è Frégier, un poliziotto che descrive l’operaio come onesto, buono, solidale e capace della devozione più
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sincera per il suo datore di lavoro. Descrive poi in contrapposizione il delinquente che invece è dedito alla depravazione
Tuttavia, queste due figure non sono contrapposte al punto di formare due popoli diversi in quanto nella realtà non sono
sufficientemente separate.
Gli operai a causa di una sorta di tirannia dell’abitudine frequentano gli stessi cabaret, le solite taverne e i medesimi bordelli
frequentati dai delinquenti ed accorrono anch’essi ai teatri dove i malfattori famosi sono esaltati in drammi divenuti celebri.
Il popolo, infine, è un soggetto politico astratto-concreto. Da questo punto di vista appare decisivo un evento = l’invasione
dell’Assemblea nazionale il 15 maggio del 1848, da parte di una folla armata guidata dai rappresentanti dei clubs.
Si tratta di uno di quelli episodi che, pur non citandolo, devono aver fatto venire in mente a Marx il tema della ripetizione
Veniamo qui a un punto fondamentale, alla tradizione radicale e al peso della memoria. L’autrice fa spesso riferimento
all’importanza del precedente rivoluzionario che spinge la gente all’azione ma lo fa citando soprattutto il 1789. La scelta di
far risaltare la costruzione ideale dell’autonomia operaia, che legano il 1848 non al 1789 ma al 1792 e poi all’opposizione
di sinistra a Termidoro, e quindi alle giornate di Germinale e di Pratile, a Gracco Babeuf e a Filippo Buonarroti.
Occorrerebbe riflettere sul fatto che nella storia del movimento non c’è stata solo la tradizione dell’internazionale socialista
marxiana. Poiché l’autrice prolunga fino alla Prima guerra mondiale, colpisce il silenzio sull’alternativa reale alla prassi
politica e alla filosofia della storia marxista che è esistita in tutt’Europa e anche in Francia. Si tratta del movimento anarchico
(al quale per Benigno dovrebbe essere fatto più spazio) che si è sviluppato lungo linee assai differenti da quelle autoritarie
Per riflettere e far riflettere sul tramonto dell’utopia occorre indagare la malinconia di sinistra. Il tema è indagato da Enzo
Traverso in un libro ben scritto, intelligente e accattivante, erudito e insieme stimolante, che tocca nervi scoperti.
Al fine di indagare quella che viene spesso chiamata la crisi di sinistra, Traverso ricorre a uno stato d’animo, a quella sorta
di mestizia che una lunga tradizione ha chiamato melanconia: una perturbazione dell’anima, quel male dello spirito che
nella cultura barocca era considerata una “passione” dell’anima e che poi la psicanalisi ha visto come una delle
combinazioni possibili della dialettica tra io e super-io attorno al lutto (con il super-io che non accetta la perdita e attacca
l’io).
Su cosa sia esattamente questa perdita Traverso non traccheggia: essa è per lui ciò che chiama con chiarezza “l’estasi
rivoluzionaria” quell’azione spirituale in cui tutto diviene possibile. La prima cosa da notare è che Traverso si collega con
queste espressioni a un orientamento culturale sulla cresta dell’onda della cultura contemporanea, vale a dire lo
spostamento di attenzione degli elementi che una volta avremmo chiamato strutturali, quelli emotivi.
Questa evocazione emotiva si accompagna a un richiamo leggero, di taglio autobiografico. Esso è segnalato da indizi
Questo uso della prima persona plurale suggerisce e anzi impone un primo punto in discussione, vale a dire quello del
soggetto: chi prova questo sentimento, chi è malinconico? La risposta che l’autore da, è la sinistra: coloro che credono
nell’uguaglianza degli uomini. Nel corso delle pagine però, la definizione si precisa e spesso alla sinistra si sostituisce un
soggetto intellettuale più definito, ma non per questo molto più certo, il marxismo.
Una delle risposte possibili alla crisi attuale della sinistra potrebbe infatti consistere nella riscoperta dell’azione spontanea
di masse popolari che hanno agito fuori dell’alveo marxista, magari senza direzione teorica precisa, ma sulla base di
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un’esperienza di opposizione sociale e di resistenza politica non riconducibili al filone intellettuale cui si deve la costruzione
Michèle Riot-Sarcey, a differenza di Traverso, pone esplicitamente la questione di come superare la teleologia costipante
di una certa tradizione marxista, e quindi del come fare storia al di fuori di essa.
Nel libro di Traverso l’attenzione alle forme artistiche è vivissima: con pagine dedicate ai dipinti e ai film trattano ad esempio
di Gustave Courbet autore di una meditazione addolorata sulla sconfitta delle rivoluzioni popolari, che rappresentano i
passaggi più affascinanti di un libro che cerca nelle forme estetiche una strada suggestiva ma ardua per seguire le tracce
della meditazione malinconica sul lutto di una rivoluzione sconfitta o mancata o deprivata di senso.
Attorno a questa questione del soggetto non si pone tuttavia solo la questione dell’emarginazione della tradizione della
sinistra non marxista ma anche quella della scelta di Traverso di privilegiare, la linea genealogica blanquista-leninista-
trockista rispetto a tutti gli altri marxismi. Accade così che il soggetto di cui parliamo è un po' come il cuore del carciofo,
In altre parole, la questione è che la sconfitta e la vittoria non sono state soltanto quell’esperienza unificata e polarizzata
che il libro ci propone, ovverosia in sostanza quella di una sinistra che perde e di un capitalismo che vince, ma invece
esperienze plurime di gruppi, fronti, schieramenti che si sono duramente combattuti e, non va dimenticato, scontrati senza
Ma c’è un altro schiacciamento intellettuale che la prospettiva di Traverso porta con sé, quello della riduzione della
ideologia marxista a una sorta di messianismo laico, nutrito del culto dei compagni caduti come martiri e costruito attraverso
l’imitazione delle pratiche cattoliche o cristiane di sacrificio di sé e di centralità della dimensione comunitaria,
Analizzando la diversità nei processi di rimemorazione da parte della tradizione marxista di un tempo rispetto a quelli in
atto oggi, Traverso segnala come ci sia stata finora scarsa attenzione a questi momenti di melanconia marxista passata:
Giustamente Traverso chiama in causa su questo punto l’avvenuta riarticolazione dei rapporti tra passa, presente e futuro.
Ora non c’è dubbio che siamo in presenza di un nuovo sistema di temporalità ovvero di un diverso “regime di storicità”, ed
è altrettanto certo che la messa in crisi definitiva della capacità del socialismo reale di porsi come modello di una società
futura, di incarnare l’utopia abbia coinciso con una trasformazione profonda del senso della storia.
La svolta memoriale ha a che fare perciò non solo e non tanto con la vittoria della “rivoluzione conservatrice”, ma con un
mutamento di paradigma di cui ci sono tracce nello stesso libro di Traverso: in fondo, a ben vedere, questa insistenza
sull’esperienza, sulle emozioni, sull’estetica come costitutrice di codici di percezioni della realtà non segnala forse
un’adesione, del resto ineludibile, al nuovo lessico? Del resto, sia del vecchio sia del nuovo modo di guardare alla vicenda
umana, alla storia e al divenire, sono possibili letture diverse e alternative, alcune delle quali possono essere etichettate
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