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RIVOLUZIONI TRA STORIA E STORIOGRAFIA

FRANCESCO BENIGNO

CAPITOLO 1. Sul concetto di Rivoluzione

Ogni nazione europea e no, ha vissuto almeno una rivoluzione nella sua storia. Lontana o vicina nel tempo, essa costituisce

il fulcro di propagazione di una vicenda concepita come progressiva, che mentre spiega il passato, fornisce di senso il

presente e orienta il futuro.

Nella sua concezione terminologica, è da intendere come un modello che dipende dal modo con cui è stata concepita la

più impensabile delle rivoluzioni, quella francese, la Rivoluzione per antonomasia.

All’origine del concetto di rivoluzione vi è lo slittamento del termine: dal linguaggio astronomico, dove disegnava il

movimento completo di un corpo celeste attorno a un altro, attorno alla metà del Seicento, prende a indicare i cosiddetti

rivolgimenti di stato.

Il legame concettuale tra questi due linguaggi era assicurato dalla concezione aristotelica, secondo la quale esistevano

sostanzialmente tre modelli di regimi politici:

1. REPUBBLICANO che vedeva la prevalenza popolare;

2. ARISTOCRATICO con l’egemonia nobiliare;

3. MONARCHICO in cui si esprimeva il dominio di una sola volontà.

Ognuno di questi regimi era creduto soggetto a un decadimento e anzi a una vera e propria degenerazione. Un sovrano,

ad esempio, poteva iniziare ad abusare del suo potere e divenire tirannico, aprendo così la strada alla sollevazione

popolare e quindi alla repubblica. Questa a sua volta poteva corrompersi e trasformarsi in anarchia, spingendo così le

classi nobiliari ad instaurare un regime aristocratico che a sua volta, irrigidendosi, poteva sfociare in oligarchia,

successivamente alla quale si avviava un ritorno monarchico.

Vi era dunque una circolarità del mutamento politico.

Prima dello scoppio della Rivoluzione Francese il termine rivoluzione designava un mutamento di stato quasi inscritto nel

regime della natura, una trasmutazione all’interno di forme ben conosciute. Dopo prese invece ad indicare un evento

spartiacque ciò che separava il prima dal poi, il vecchio regime dal nuovo regime, e così via. Al posto di una visione circolare

si affermava, con la Rivoluzione francese, una prospettiva unilineare e progressiva, e il fatto che questa rivoluzione farà

anche da matrice e modello delle rivoluzioni a venire.

L’emergere dell’idea di rivoluzione come modello del mutamento politico radicale porta anche al depotenziamento di tutti

quei movimenti politici, che a seguito di ciò vengono svalutati ed identificati in negativo e come “non rivoluzioni” ovvero:

rivolta, ribellione, guerra civile e colpo di stato.

In breve, poi, la politica viene rifatta in laboratorio dallo storico che vi ricostruisce il mondo in miniatura. Chiamare un evento

rivoluzione, e non con altre terminologie, significa connotarlo e attribuirgli uno statuto speciale, ovvero quello di svolta

epocale in senso politico e insieme socioeconomico. La domanda che bisogna porsi quando si analizza un evento storico

passato è se questo sia stata realmente un movimento rivoluzionario piuttosto che un colpo di stato o altro.

Il nome rivoluzione prende così a indicare un periodo di rapido rivolgimento degli equilibri sociopolitici e di mutamento di
assetti del potere costituito. E questo periodo, inteso come rivoluzione, può a sua volta contenere all’interno eventi definiti

come rivolte, colpi di stato, ribellioni o congiure.

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L’affermarsi graduale di un uso controllato delle fonti, l’emergere della critica filologica e infine l’imporsi di una concezione

scientifica del fare storia non hanno tuttavia impedito che grandi schemi ideologici continuassero a ispirare la visione e il

linguaggio degli storici; le rivoluzioni, in particolare, hanno costituito le scansioni fondamentali della visione del mondo

liberale e progressista.

Il Novecento per questa concezione classica, prima liberale e poi marxista, fa si che la rivoluzione si definisca come un

fenomeno essenzialmente sociale di carattere necessario e di significato progressivo che segna il passaggio da un

fondamentale stadio dello sviluppo economico e insieme sociopolitico a un altro stadio, più evoluto, attraverso un

mutamento del regime.

A partire dagli anni Ottanta del XX secolo questa concezione classica della rivoluzione è venuta però disfacendosi sotto i

colpi della critica revisionista che ha avuto gioco facile nel denunziare i vizi di teologismo, le tautologie cui essa conduceva.

Le grandi rivoluzioni sono iniziate ad apparire, lette con gli occhi della critica revisionista, come avvenimenti casuali, nati

nella temperie della lotta politica come risultato del gioco di fazioni; ovvero eventi dominati dal fascino artificiale della parola

ideologica e produttori di effetti sconvolgenti e traumatici. Secondo questo modello la rivoluzione non è sociale ma politica,

non è necessaria ma contingente, e soprattutto non è progressiva ma dispotica e tendenzialmente totalitaria.

Con il tempo è apparso evidente un certo intento sotterraneo, polemico e svalutativo, volto a depotenziare il racconto delle

rivoluzioni, una chiara diffidenza nei confronti delle opzioni ideali degli attori storici, una propensione a considerare le

rivoluzioni sostanzialmente dei disastri imputabili a errori di gestione politica, nati non da visioni del mondo incompatibili

ma da una mescola ineffabile di problemi materiali, di inettitudine e magari di sfortuna.

Dopo una prima fase di effervescente dibattito ha corrisposto una perdita d’interesse pubblico per l’oggetto storico

“rivoluzione” ma anche, d’altro canto, la possibilità per la storiografia di riunificare rivolte e rivoluzioni, colpi di stato e guerre

civili entro categorie più ampie e avvertite, dando luogo a un’indagine sulle forme del conflitto politico e sociale ispirata da

nuovi motivi, dal bisogno di rispondere a inedite domande.

Si tratta anzitutto di un’attenzione per la dimensione identitaria e per gli aspetti simbolici che la connotano. Le rivoluzioni

appaiono meno come delle battaglie combattute da eserciti, ma come scenari caotici, insieme tragici e creative dove si
mescola anche la violenza che diviene il fulcro generale attorno al quale si addensa il processo di cambiamento sociale.

Da una parte ormai, nessuno crede più a quell’interpretazione sociale classica che considerava le rivoluzioni come un

necessario presupposto dell’evoluzione storica; dall’altra parte la critica revisionista si è rivelata molto più efficace nello

spiegarci cosa le rivoluzioni non furono e non poterono essere di quanto sia stata capace a dirci cosa effettivamente furono

e come oggi possano essere ripensate.

Diviene così molto più possibile sfuggire alla sterile alternativa tra l’idea tradizionale che vuole le identità politiche come

semplici espressioni di identità socioeconomiche soggiacenti e la tendenza revisionista a concentrarsi esclusivamente

sugli individui e le loro relazioni fino a far sfumare il tema della partecipazione collettiva, oppure a fare delle identità politiche

delle mere incarnazioni di linguaggi ideologici.

È venuta crescendo una nuova attenzione verso il protagonismo popolare, una tendenza confermata dal più generale

orientamento degli studi che nel frattempo si è venuto via via manifestando, e che punta a sostituire alla questione discussa

delle cause della rivoluzione un’indagine molto più ravvicinata e incentrata sull’esperienza soggettiva degli attori storici.

Si tratta di un ritorno al vecchio disegno di un universo popolare immaginato negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo
come alternativo al mondo borghese, ma una visione più ricca e complessa di come, attraverso la destrutturazione di un

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ordine culturale e giuridico-istituzionale, si determini quel cruciale allargamento degli spazi di agibilità politica e

comunicativa atto a sostenere il mutamento sociale.

Nel caso della Rivoluzione francese, gli studi hanno in questi anni molto insistito sul tema della soggettività rivoluzionaria.

Di fronte alla perdita di reputazione della rivoluzione, al suo essere diventata agli occhi di molti la precorritrice della

violenza, del terrore, del totalitarismo e perfino del genocidio (come detto da Lynn Hunt), una storiografia neoliberale e

perfino neo giacobina, che ha reagito in sua difesa, da un lato riprendendo il vecchio tema della forza delle circostanze e

mettendo in luce la vischiosità e complessità dei processi socioeconomici e culturali, e dall’altro enfatizzando il carattere

processuale della politica rivoluzionaria (rappresentati più come i prodotti della rivoluzione più che come i suoi artefici).

Importante è approfondire il carattere ambiguamente cruciale, ma ambivalente, della rivoluzione, fonte insieme dei nuovi

diritti individuali e dell’inaudita logica del terrore, dispensatrice della libertà e, insieme, della morte. Tutto ciò facendolo

attraverso una descrizione più spessa di come la gente di quel tempo abbia vissuto e compreso, agito e subito, le nuove

forme della politica e, intrinsecamente connessi a esse, i nuovi stili della violenza rivoluzionaria.

Sono stati viceversa più rari i tentativi di guardare alla Rivoluzione francese dal passato, in connessione con le insorgenze

della prima età moderna e con le conoscenze che di quelle insorgenze avevano i protagonisti.

Diviene quindi un sapere condiviso di cui erano parte integrante le lezioni politiche e le massime istruttive che da quegli

esempi storici venivano tradizionalmente trattate.

Un esempio chiarificatore è quello di non fraintendere, come storici, la presunta frase del duca di Laincourt che rivolgendosi

a un preoccupato Luigi XVI che chiedeva, di fronte alle prime insorgenze parigine del luglio 1789, se si fosse in presenza

di una rivolta, avrebbe risposto famosamente: “No signore, è una rivoluzione”. Questo era il tentativo di inquadrare l’ignoto

di eventi che si presentavano in forma di accadimenti inauditi entro le categorie fino a quel tempo utilizzate, tra cui quella

di rivoluzione.

Una prospettiva che guardi a ciò che è accaduto in precedenza, e al sapere storico-politico in grado di articolarlo, avrebbe

il vantaggio non piccolo di evitare di leggere gli avvenimenti accaduti esclusivamente attraverso la retroproiezione delle

categorie che la stessa Rivoluzione francese è venuta via via elaborando per razionalizzare e tematizzare le novità e
terribilità di ciò che era. In realtà gli attori storici rivoluzionari hanno innestato le nuove idee illuministe e giacobine sul

tradizionale scenario dei cosiddetti exempla storici che il passato forniva.

La Rivoluzione francese ha fornito il registro discorsivo e per così dire il sistema di idee per pensare sé stessa. Matrice non

solo per i moti del 1830, 1848 e 1871 ma anche per il movimento internazionalista e socialista fino a Lenin e oltre.

Da ricordare è che nessun libro provvede una guida per la rivoluzione (usava dire Robespierre); la teoria del governo

rivoluzionario sarebbe perciò inedita o tratta interamente dalla nuova filosofia illuministica.

Questa prospettiva ha goduto di una lunga egemonia. Oggi però un approccio più equilibrato condurrebbe a guardare

all’epoca rivoluzionaria del 1789-1802 come a uno straordinario crogiuolo in cui gli eventi non sono solo il prodotto del

nuovo che avanza e delle resistenze che suscita, ma della commistione originale di antiche pratiche e di necessarie

innovazioni, di nuove idee e di vecchi concetti e di reinvenzione della tradizione e di uso pubblico della storia.

È interessante tornare a confrontare il percorso degli studi recenti sulla Rivoluzione francese con la produzione relativa a

quel cruciale periodo della storia inglese, a lungo chiamata Civil War e che ora torna ad essere ambiguamente chiamata

English Revolution.
Il recente tentativo di riproporre il tema della disaffezione delle élite aristocratiche nel cruciale biennio 1640-1642 da parte

di uno dei protagonisti più accesi della battaglia revisionista, non pretende più ora di farne l’esclusivo motore degli

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avvenimenti ma solo un’importante trama; getta più di un’ombra proprio sulle descrizioni revisioniste dell’Inghilterra degli

anni Venti e Trenta del XVII secolo come un paese ordinato e deferente, politicamente coeso e ideologicamente unito.

La rivoluzione ha in un certo senso riguadagnato cittadinanza nell’universo degli studi sul Seicento britannico. Non si tratta

più della vecchia prospettiva whig o di quella marxista, ma del risultato di una sensibilità.

Una più ampia nozione di che cosa sia la politica, meno concentrata sui processi governativi, istituzionali e decisionali, e

più diretta ad indagare l’investimento simbolico delle azioni, la produzione e il ricevimento dei significati nella

comunicazione, l’uso della storia e della memoria nella costruzione di gruppi sociali.

L’attenzione si è venuta concentrando su ciò che è stato chiamato l’immaginario radicale, vale a dire i processi culturali di

formazione dell’universo settario negli anni che precedono la guerra civile e poi il processo di radicalizzazione cui tale

universo intellettuale va soggetto nella stagione del conflitto aperto.

A questa nuova stagione culturale si accompagna un allargamento dei materiali documentari posti sotto indagine ma

allargati alle fonti a stampa più varie, alle immagini, ai testi letterari una maggiore attitudine riflessiva che spinge a meditare

maggiormente sulle categorie del lavoro storiografico e sui vincoli che esse impongono, e ciò fino alla consapevolezza di

come anche distinzioni di senso comune sono esse stesse costruzioni e rappresentazioni.

La recente storiografia sulla Rivoluzione inglese non si è limitata però a sfidare solo il tradizionale empirismo storiografico,

ma ha posto in questione non meno fortemente l’altrettanto tradizionale anglo-centrismo.

L’allargamento dell’orizzonte interpretativo prodotto dalla valanga di nuove storie britanniche che si sono accumulate

nell’ultimo decennio ha modificato consistentemente il panorama, ma non ha completamente dissolto il paradigma

dell’insularismo inglese che, esteso alla dimensione britannica è divenuto ormai, la tipizzazione di un arcipelago,

producendo così un nuovo e diverso Sonderweg, un eccezionalismo, stavolta britannico.

Rimane pressoché assente la comparazione della crisi inglese con i fatti contemporanei che, da Barcellona a Napoli a

Parigi, travagliavano le monarchie europee, alcune delle quali erano non meno composite di quella degli Stuart.

Se il concetto di rivoluzione è stato in sostanza modo con cui la cultura moderna ha pensato e letto il conflitto politico e

socioeconomico, collocandolo in uno schema unilaterale e inarrestabile di civilizzazione universale, c’è da chiedersi come
possono essere ripensate le rivoluzioni in un contesto culturale, quello odierno, che è venuto via via abbandonando, o

seriamente ponendo in questione, quello schema.

Il togliere alle rivoluzioni lo statuto mitico-poietico, quel carattere di eventi fondativi e sacralizzati che una storiografia

spesso compiacente aveva contribuito a fissare, ma che poi il lavoro storiografico critico ha preso a decostruire, non

migliora il quadro. Le rivoluzioni nella cosiddetta ossessione memoriale divengono in altre parole anch’esse dei giganteschi

contenitori della memoria pubblica, disponibili per una nuova e diversa varietà di usi pubblici.

È soprattutto il trauma che consente il riconoscimento e una comprensione profonda dell’esperienza trascorsa. Gli eventi

che possano essere rappresentati in questa chiave acquisiscono uno status privilegiato agli occhi dei media e condizionano

il lavoro storiografico. Si crea una nuova gerarchia delle rilevanze a base emozionale, fondata su una concezione

essenzializzante: le emozioni vengono infatti postulate come naturalmente date, in una configurazione naturalistica e

sostanzialmente astorica.

Una storiografia critica non può che riproporre in questo caso la ricetta a suo tempo impiegata nei confronti delle pretese

celebrative dello stato-nazione, della dialettica delle classi o dei vari movimenti che hanno tentato di usare la storia a fini
di legittimazione politica.

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Uscite da una dimensione narrativa epica e sottoposte al regime della tragedia, le rivoluzioni storiche vengono infatti di

nuovo, sia pure diversamente, piegate alle urgenze del presente. Agli storici tocca non solo difenderne la irriducibilità alle

pretese di assimilazione forzate alle categorie e alle tensioni odierne, con le conseguenti distorsioni anacronistiche che

necessariamente ne conseguono, ma anche riproporne una lettura aggiornata, capace di illuminare criticamente il

presente.

CAPITOLO 2. Rivoluzioni prima della Rivoluzione

Ciclicamente il tema della resistenza di massa a un potere autoritario o dispotico che produce un mutamento di regime si

ripropone all’attenzione pubblica.

Dopo la caduta del muro di Berlino e la disgregazione nel 1989 del sistema politico, che si usava chiamare socialismo

reale, e in tempi più recenti le crisi piuttosto repentine che hanno attraversato i paesi arabi che si affacciano sul

Mediterraneo, in nessuno di questi casi la ribellione e la spinta al cambiamento si sono propagate da una nazione all’altra,

attraverso un processo di propagazione o di imitazione che ricorda molto agli storici dell’antico regime le famose sei

rivoluzioni contemporanee di cui aveva scritto famosamente lo storico americano R. B. Merriman, e che aveva dato luogo

alla celebre discussione sulla cosiddetta crisi generale del Seicento = dibattito che illustra bene come le rivoluzioni siano

fenomeni molto complessi.

Dopo aver adottato nell’introduzione un’assai generale e perciò in qualche misura evasiva definizione di rivoluzione,

Forster e Greene tentavano di circoscriverne l’ambito distinguendo due tipi di eventi che, da posizioni specularmente

opposte, vanno esclusi dal concetto di rivoluzione e aiutano perciò a restringerne i contorni: da una parte gli eventi prodotti

dalle élites e occultamente preparati, avvenimenti in grado di provocare solo una piccola alterazione nella struttura tanto

del governo quanto della società e dall’altra i tumulti popolari spontanei che aspiravano al soddisfacimento di immediate

lagnanze ma senza nessun mutamento nella natura degli equilibri politici e sociali.

Applicando questo schema esplicativo ne deriva che alcuni degli eventi presi in esame, vale a dire le rivolte di Sicilia e di
Napoli, non vanno perciò considerate rivoluzioni.

La rivolta è uno scoppio di protesta popolare prodotto dalla sofferenza sociale e diretto non contro il governo ma contro i

gruppi dirigenti locali.

Liquidati così questi due avvenimenti, ne fuoriesce del pari anche la ribellione portoghese, promossa da élites nobiliari con

una limitata partecipazione popolare e con effetti molto poco rivoluzionari, giudicata in sostanza molto meno rivoluzionaria

dei contemporanei avvenimenti francesi e catalani.

La lunga insurrezione catalana e la Fronda erano considerate rivolte nazionali con il potenziale di divenire rivoluzioni.

In conclusione, solo due eventi, la Rivoluzione olandese e quella inglese, risultano pienamente corrispondenti al concetto

di rivoluzione in quanto appartengono alla categoria delle “grandi rivoluzioni nazionali”, eventi dotati di una elevata tensione

al cambiamento e animati da una forte contrapposizione religiosa.

Poggiano su una base ideologia coerente, solida e ben definita, un grappolo di credi generalizzati profondamente

antagonistici rispetto al regime esistente o alle sue politiche, figure dominanti e prevalente sistema di governo.

Il principio implicito di questo nuovo schema interpretativo:


1. Una rivoluzione è tale nella misura in cui si avvicina a un modello ideale preciso, quello della Grande Rivoluzione

Francese, ma anche modello e norma della comprensione delle rivoluzioni del passato. Gli eventi sono giudicati

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sulla base della loro capacità di produrre la sostituzione di un nuovo ordine politico al vecchio e, ciò che è forse

più importante, nella affermazione di una nuova concezione dell’ordine politico e sociale. Lo strumento è quello

della creazione di una nuova e diversa élite. La nuova classi dirigente deve essere dunque capace di produrre un

inedito ordine sociale.

Il lavoro degli storici protagonisti della “nuova storia politica” ha consentito largamente in questi decenni nello spogliare le

rivoluzioni prima della Rivoluzione.

È quasi inutile dire che oggi non si è più convinti come un tempo che le rivoluzioni siano effetto di leggi inscritte nella storia

e che derivino necessariamente da processi di lungo periodo. Esse appaiono come enormi drammi che mescolano in modo

inestricabile innovazione e distruzione, utopia e tragedia.

2. L’insistenza di allora sulle precondizioni, vale a dire sul contesto che precede e spiega non solo l’origine ma

l’essenza stessa del conflitto. Le rivoluzioni rivelerebbero così le tensioni e i mutati equilibri di una società e

studiando quelle tensioni e quegli equilibri esse si potrebbero comprendere e anche prevedere. Analizzare più

che gli accadimenti rivoluzionari, i mutamenti socioeconomici dei decenni che li precedono.

Altra differenza che oggi è alquanto facile da rilevare è l’avvenuta crisi del convincimento che vi fossero sostanzialmente

due spinte di opposizione a regimi contestati:

- La prima propria delle élites e addensata nella congiura;

- La seconda di contestazione violenta, la “commozione” tipica delle masse popolari.

Viene da qui quell’opposizione tra il complottismo delle élites e il ribellismo plebeo di cui si è detto, e quella tipologia delle

forme di opposizione che vede in sostanza il primo predominare negli eventi denominati come cospirazioni o complotti, e

il secondo essere al cuore di avvenimenti catalogati come sedizioni, sollevazioni o tumulti.

La rivoluzione nascerebbe dall’incontro di queste due componenti.

H. Koenigsberg a proposito della lunga lotta antispagnola degli olandesi disse “Perché gli Stati generali divennero

rivoluzionari?”

La risposta è naturalmente complessa formata dalla contrapposizione tra le provincie ribelli e la monarchia degli Asburgo,
che sarà decisiva per la successiva storia europea.

Da chiedersi vi è anche se la Rivoluzione inglese sia anche solo pensabile senza la lunga guerra di indipendenza dai Paesi

Bassi, che dovette apparire agli occhi dei contemporanei come un interminabile Vietnam o meglio, una ripetizione vivente

della vittoria del piccolo Davide sul gigante Golia; l’affermazione della libertà sulla tirannia.

La risposta è che non è possibile considerare la Rivoluzione inglese pensabile senza il precedente evenemenziale

dell’affermazione delle Province Unite.

Non si tratta della considerazione generica che “la storia conta”, vale a dire che tutto ciò che avviene condiziona ciò che

verrà, ma dell’esistenza di precisi patterns ideologici, sociopolitici e mentali che illustrano un processo individuale. Se poi,

volessimo prendere come punto di riferimento la rivoluzione del 1688, allora la vicenda delle Province Unite e della

decennale resistenza alla tirannia spagnola non sarebbe più solo un punto di riferimento ideale e storico, ma invece anche

un decisivo presupposto materiale.

L’osservazione di H. Koenigsberg per cui all’altezza del 1559-1560 con l’arrivo di Margherita d’Austria gli Stati generali

delle Province Unite non erano ancora rivoluzionari e che essi lo diventeranno con il tempo e solo dopo il 1567, a seguito
dell’arrivo del duca d’Alba e dell’insediamento del Tribunale dei torbidi, va ripresa, anche perché sostanzialmente

confermata dalla storiografia successiva.

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Si ripropone la critica alla tendenza teleologica della prospettiva whig e della propensione della storiografia olandese nel

delineare una situazione di conflitto polarizzato tipica di un’epoca successiva.

Anche in quelle che all’epoca venivano considerate “grandi rivoluzioni nazionali” la genesi della rottura della legittimità non

può essere imputata a fronti contrapposti predeterminati che si delineeranno invece solo durante il conflitto, ma va

faticosamente ricercata nella interconnessione tra i nuovi temi ideologicamente sensibili, quelli sui cui si addensa il conflitto,

e la tradizionale dialettica, essenzialmente di stampo fazionario, della lotta politica.

J. Adamson all’interno del suo libro evidenzia come all’origine dello scontro della Guerra civile inglese, sta una divisone

all’interno delle élites inglesi, sicché nella formazione di quello schieramento d’opposizione che sarà poi il fronte

parlamentare giocano un ruolo decisivo i nobili protestanti aggregatisi attorno ai conti di Warwick e di Bedford e al viscone

Saye e Sele.

Questo conte di Warwick definito come il più potente e determinato degli avversari di Carlo e uno dei protettori di John

Pym, scelse di indossare la famosa livrea del colore dei Devereux conti di Essex, la famiglia della madre, colore che sarà

poi fatto proprio delle forze parlamentari durante la guerra civile.

Adamson si lancia così contro l’idea, che era stata a suo tempo elaborata da Conrad Russell, di una guerra civile

largamente accidentale, originata da opportunità fallite ed eventi imprevisti, oltreché dall’effetto di amplificazione delle

divisioni prodotto dalle due uniche vere cause riconosciute.

Il diverso orientamento religioso ha finito per rendere meno visibili le differenze di visione sull’organizzazione dello stato.

Al centro della scena sta dunque il protagonismo di quella nobiltà protestante radicale che tra il 1640 e il 1641 furono poi

decisivi nel chiedere e ottenere la convocazione del Parlamento, pilotare la crisi, rafforzare l’asse con i covenants scozzesi

e preparare l’assalto alla gestione della Chiesa anglicana.

Reintrodurre il peso e l’influenza dei legami di fazione e dell’esercizio del potere gerarchico, e sottolineare l’importanza

che giocavano nella società di antico regime l’influenza, il potere e le risorse economiche dell’alta aristocrazia non vuol

dire ridurre grandi eventi rivoluzionari a piccole oscure trame, a segreti complotti, a congiure di palazzo di presunto sapore

medievale: significa prendere più seriamente in considerazione il punto di vista dei contemporanei.
Assumendo un punto di vista più vicino a quello degli attori storici si può allora in generale affermare che, essendo assai

diffusa nella prima età moderna la fiducia nella capacità di manipolazione delle folle, i comportamenti delle parti in gioco

ne erano profondamente influenzati.

Ora è abbastanza ovvio che vi fossero diversi modi di affrontare una manifestazione popolare: se, come alcune volte

avveniva, le autorità si trovavano di fronte a una protesta di piazza che, con donne e ragazzi in testa, esprimeva

malcontento per un qualche aspetto dell’ordine sociale consuetudinario ritenuto arbitrariamente violato, esse erano poste

di fronte a una difficile scelta: contenerla o reprimerla?

Parliamo degli avvenimenti napoletani del luglio 1647 = una delle cose che risultano apparentemente inesplicabile in essi

è come sia potuto accadere che una banda di ragazzi e di donne abbia potuto il primo giorno della rivolta, il 7 luglio,

giungere a invadere il palazzo reale, costringendo il viceré d’Arcos a fuggire precipitosamente e a salvarsi a stento, con

qualche dose di fortuna. L’obbiettivo di questo viceré era però quello di evitare a tutti i costi una ripetizione del caso

catalano. A Barcellona il viceré Santa Coloma, sette anni prima, aveva reagito con durezza alla prima manifestazione ma

l’effetto di quella scelta era stato tragicamente controproducente in quanto venne trucidato.
Vi è nel Seicento una storia in ombra fatta di autorizzazioni implicite o esplicite che si propagano dal cuore del sistema

decisionale e raggiungono l’intero corpo politico.

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Nel caso inglese, all’origine della crisi del 1639-40 e della richiesta di convocare il Parlamento, vi fu la resistenza di una

sezione dell’alta aristocrazia parlamentare, attribuendo ai lord inglesi il ruolo di primi motori della Rivoluzione inglese (che

non vuol dire però primi attori).

Il caso della rivolta di Napoli del 1647-1648 è l’episodio più importante di conflitto dell’Italia del Seicento e su cui

possediamo alcune recenti messe a punto.

Ciò che colpisce, nell’esaminare queste opere, non è soltanto la sostanziale fedeltà a ipotesi interpretative elaborate tra gli

anni Settanta e Novanta del XX secolo, ma il carattere insieme convergente e antitetico delle interpretazioni che

propongono.

Gli attori sono sempre più o meno gli stessi, vale a dire macrocategorie sociali come la nobiltà, la borghesia, la plebe.

Antitetico perché a seconda del ruolo attribuito a ciascuno di questi attori, muta il giudizio di fondo, quello che vale sulla

bilancia della storia e che, consente di formulare un giudizio di sintesi, orientato alla classica contrapposizione tra

modernità e arretratezza.

Per una certa linea interpretativa, che unisce, sia pure con sfumature diverse, Pier Luigi Rovito e Rosario Villari, la rivolta

ha una lunga preparazione politica e intellettuale, un progetto riformatore i cui prodromi si possono far risalire vuoi alla

sommossa popolare del 1585, vuoi agli anni di presenza a Napoli del viceré d’Osuna e all’appoggio da questi conferito alla

parte popolare e al suo più rappresentativo elemento, Giulio Genoino.

La rivolta costituirebbe il tentativo di invertire la tendenza spagnola a svendere il patrimonio politico e morale del regno a

tutto vantaggio di una nuova nobiltà compradora, infiltratasi negli apparati amministrativi e propensa a sfruttare a fondo la

tendenza della rifeudalizzazione in atto; essa sarebbe stata indirizzata a evitare che la cosiddetta Respublica dei togati si

tramutasse gradualmente in una Respublica dei cavalieri. La rivolta sarebbe stata per Rovito, almeno nella prima fase,

accortamente pilotata dalle “cappe negre” e più generalmente da quella borghesia urbana.

Solo in una seconda fase la rivolta prese una piega diversa e divenne il tentativo generoso di ribaltare gli equilibri

sociopolitici del regno; con il conseguente transito, secondo Villari, a una fedeltà nazionale più nuova e moderna, portatrice

di un’idea di cittadinanza ispirata al repubblicanesimo classico e olandese e venata da un “sogno di libertà”.


Per un’altra linea interpretativa, che accomuna Giuseppe Galasso ad Aurelio Musi, il moto plebeo del 7 luglio sarebbe da

considerare estemporaneo e accidentale, nato da un fortuito concorso di vari elementi e soprattutto non preparato. Non vi

era alcun comitato segreto che dirigeva il moto, tanto la Chiesa, nella persona dell’arcivescovo, quanto la nobiltà, si

prodigavano per riportare la concordia, ma invano.

Nel prosieguo degli avvenimenti, accanto alla plebe, emersero sul fronte popolare sia ceti artigiani e mercantili, sia gruppi

di curiali, in un processo da considerare come dovuto a un “effetto di trascinamento”.

Da queste interpretazioni, estremamente polarizzate, discendono giudizi simmetricamente contrapposti sulla modernità

degli avvenimenti:

1. Secondo la prima, la rivolta coagulerebbe il meglio delle forze borghesi e intellettuali, allargandosi a ceti popolari

tradizionalmente emarginati;

2. Per la seconda la rivolta sarebbe caratterizzata non solo da un notevole grado di disgregazione politica ma anche

da quella stessa frammentazione sociale che costituirebbe un tratto tipico della società napoletana.

Questo insieme eterogeneo di elementi diversi non sarebbe stato portatore di particolari istanze di modernità. La tendenza
insita a fare della dialettica dei ceti l’unica dimensione della lotta politica finisce per schiacciare gli attori sociali in identità

precostituite e monodimensionali, che non sono in grado di rendere conto delle concrete scelte politiche da essi assunte e

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la tendenza interpretativa che punta a sottolineare il carattere plebeo del moto e che tende a escludere la partecipazione

di gruppi nobiliari o togati alla sua preparazione, finisce per postulare come un dato originario e presupposto un

orientamento popolare decisamente antinobiliare e di conseguenza è propensa a considerare sbagliato l’atteggiamento

del viceré d’Arcos, assai preoccupato di una possibile unione di nobili e popolo.

Ne discende la propensione a descrivere nobili e sacerdoti, allo scoppio della rivolta, come impegnati esclusivamente a

placare gli animi.

Sfugge a queste letture polarizzate della vicenda napoletana il volume di Alain Hugon, che invece di proporre una

narrazione della rivolta, tenta un approccio diverso, quello di girare attorno agli eventi, mostrandone le tante facce e i

molteplici aspetti: contro una lettura per così dire archeologica, che valorizza gli aspetti diacronici, genealogici ed evolutivi,

Hugon propone uno sguardo sincronico, capace di cogliere la sensibilità coeva.

Al posto di radici antiche e di cause di medio o lungo periodo si privilegiano perciò le traversie di un’epoca travagliata da

mali comuni, in un’indagine aperta alla comparazione e attratta dalla dimensione memoriale assunta dagli eventi.

Occorre ricostruire ex novo l’agenda delle domande. Il punto essenziale che occorre spiegare si potrebbe così formulare:

perché questa rivolta/rivoluzione si manifestò a un certo punto nella forma specifica di un’insurrezione capeggiata dal

popolo napoletano, con la nobiltà confinata viceversa su posizioni lealiste? Perché prese la forma di una guerra civile

caratterizzata da una spaccatura di taglio orizzontale del corpo sociale, invece della più tradizionale divisione verticale,

quale si manifestò in Portogallo, in Catalogna e anche in Francia?

In primo luogo, chiunque avesse voluto pronosticare, nel 1646, un possibile sommovimento napoletano, avrebbe avuto

davanti agli occhi i casi della Catalogna e del Portogallo, casi che agli occhi della classe dirigente castigliana erano ferite

aperte.

Non si trattava solo di tradizioni, ma di recenti, conclamati collegamenti personali e di gruppo, come avevano dimostrato

le congiure prima di Giovanni Orefice, principe di Sanza, e poi di quel pugno di aristocratici collegati con il padre teatino

Paolucci, arrestato e profondamente giustiziato.

CAPITOLO 3. Non più quella di una volta: la Rivoluzione francese oggi

C’era una volta la rivoluzione senza aggettivi, quella con la maiuscola, che designa la Rivoluzione francese del 1789. Essa

ha descritto e interpretato la nascita del mondo moderno, inventando parole e idee e con loro la concezione stessa del

mutamento rivoluzionario come laboratorio della trasformazione sociale.

Evento che si fa norma e matrice di tutte le rivoluzioni future e insieme spiegazione di quelle passate. La domanda che ci

si pone oggi è: una volta raffreddato l’oggetto, quali nuove domande storiche si è in grado di formulare sulla Rivoluzione

francese? Quali sono i motivi per ripercorrere ancora una volta avvenimenti studiatissimi e conosciutissimi? E non essendo

più davvero quella di una volta, che cosa rappresenta adesso per noi?

Il libro di Timothy Tackett, The Coming of the Terror in the French Revolution, costituisce un prolungamento del suo

precedente volume che aveva fatto conoscere in tutto il mondo l’autore come uno dei massimi storici della Rivoluzione

francese.

Al centro di quel testo, Becoming a Revolutionary, vi era l’introduzione di sfuggire alla luce riflessa che la Rivoluzione
stessa aveva proiettato all’indietro, e di ritrovare nel farsi stesso del processo rivoluzionario le ragioni di un esito non

scontato.

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La Rivoluzione qui presentata trasforma le cose e soprattutto gli uomini, i quali non nascono rivoluzionari ma lo diventano

per gradi, attraverso un apprendistato, un percorso; non sono i rivoluzionari a fare la rivoluzione ma è la rivoluzione a

forgiare i rivoluzionari.

The Coming of the Terror adotta lo stesso principio per affrontare un problema diverso, la questione misteriosa delle origini

del Terrore, della compresenza quindi del bene e del male. L’autore si chiede come sia possibile che brava gente, uomini

miti, civili, possano essersi trasformati in sanguinari assassini e quindi come possano convivere all’interno di una

medesima persona sia l’agnello che la tigre.

Da una parte. La storiografia progressista e di sinistra, pensa il Terrore in altre parole, come il tentativo concepito come

provvisorio ed eccezionale di tenere a bada un complesso insieme di emergenze.

D’altra parte, la storiografia revisionista ha teso a spiegare la sbandata terroristica per lo più in chiave ideologica,

attribuendo al radicalismo rivoluzionario il rigetto dei patrioti di accettare la differenza delle opinioni e la loro propensione

a demonizzare l’avversario, trasformandolo in nemico.

Tackett si rivolge a questo con il nome “storia delle emozioni” ed i lavori di Georges Lefebvre sulla “Grande Peur” e di

Georges Rudé sulla folla ne sono un grandissimo esempio.

L’idea che si presentava era quella che il soggetto individuale, una volta immerso in una dinamica di gruppo, subisca

un’alterazione della coscienza, e agisca quindi secondo modalità di tipo emozionale, istintuale o comunque differenti da

quelle ordinarie, guidate dalla razionalità.

Per Gustav Le Bon è proprio la Rivoluzione francese l’evento cruciale che deve essere spiegato per svelare la sua

misteriosa possibilità. Le Bon si chiede come sia stato possibile che dei borghesi intelligenti e pacifici, divenuti

rappresentanti del popolo, abbiano votato sia decreti civili e progressivi sia misure barbare.

La spiegazione che si dà è da rintracciare nella contrapposizione tra la logica razionale, che opera in periodi ordinari, e

altri tipi di logica che entrano in azione in momenti speciali.

Partendo da un intento condivisibile, quello di sgravare la Rivoluzione francese dall’accusa indebita di essere fonte prima

degli orrori del XX secolo totalitario, il saggio di Wahnich finisce per assumere un orientamento assolutorio nei confronti
dell’insieme della violenza rivoluzionaria, da considerare anch’essa una e indivisibile.

Wahnich propone un’economia emotiva centrata su un soggetto collettivo, il popolo, che reagisce all’oltraggio, allo

spavento causato dal nemico attraverso un’azione di vendetta, restauratrice e punitrice. Il popolo è infatti curiosamente

simile a quello tratteggiato classicamente da Michelet, vale a dire un soggetto senziente e animato, portatore di una visione

morale ben definita, indirizzata alla salvaguardia della salute pubblica anche attraverso il sacrificio del sé individuale, del

corpo fisico, sicché i leaders rivoluzionari vengono riconfigurati al rango di suoi portavoce.

Tackett sceglie invece un approccio moderato. La sua indagine si basa su un corpus di lettere, di diari e di giornali scritti a

ridosso degli avvenimenti dai rivoluzionari.

Attraverso questi documenti analizza l’emotività dell’élite patriota: l’ipotesi su cui è costruita l’indagine è che le

trasformazioni emotive affioranti in testi scritti, che reagiscono a eventi traumatici, possano fare da guida nel percorso che

conduce al Terrore, e in ultima analisi aiutare a spiegarlo.

Questa ipersensibilità emotiva è inoltre molto permeabile al diffondersi di voci incontrollate e di false notizie. Si tratta di

rumeurs che nascono per lo più in quartieri popolari ma che hanno la caratteristica di diffondersi rapidamente anche negli
strati sociali più elevati.

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La parte più consistente nel tentativo di Tackett di assegnare alla complessione emotiva della leadership rivoluzionaria un

ruolo dirimente nel percorso che conduce al Terrore è dedicata perciò proprio all’analisi della mentalità cospirativa, al

ricorrente timore e anzi alla vera e propria ossessione del complotto ordito dai nemici della Rivoluzione.

Non si ha a che fare con reazioni individuali a singoli casi di complotti controrivoluzionari, ma con il diffondersi di una

mentalità collettiva ossessiva, incentrata sulla credenza nell’esistenza di un’unica grande cospirazione.

È il terrore del complotto a creare la mentalità terroristica, e ciò attraverso la demonizzazione dell’altro da sé, del cospiratore

contro-rivoluzionario, una figura che addensa le paure sociali.

Avanza così una vera e propria cultura del sospetto. Nelle conclusioni Tackett sfuma la sua tesi portante; l’apparizione di

una mentalità terroristica non può essere spiegata attraverso un’eziologia mono causale, ovvero in una maniera

unidimensionale. Tra le varie cause che vi hanno contribuito egli annovera, la caduta dei tradizionali principi d’autorità, il

protagonismo di masse politicizzate desiderose di vendetta per l’oppressione subita in antico regime, l’idolatria del popolo

incarnato nella figura del sanculotto e la creazione di quella che egli chiama “comunità emozionale” in cui i sentimenti delle

masse e quelli delle élites gradualmente si fondono.

In una lotta di opposte propagande l’obbiettivo non è solo persuadere ma coinvolgere emotivamente, stimolare sensi di

appartenenza, giocare sulle paure assopite, produrre sentimenti di amore, e di odio. In breve, in politica le emozioni si

hanno, ma altrettanto si danno.

Dopo aver letto il volume di Tackett è utile prendere in mano il libro di Jonathan Israel, Revolutionary Ideas, e vi si troverà

tutt’altra idea, alquanto divergente, della Rivoluzione francese. Se Tackett cerca di approfondire l’esperienza personale,

emotiva e affettiva, di una sezione della leadership rivoluzionaria, Israel pone risolutamente al centro del volume non gli

uomini, ma le idee che li hanno animati.

Egli sostiene che il propagarsi in una sezione della classe dirigente francese delle idee dell’Illuminismo radicale, di quel

sistema di pensiero da lui esposto in un precedente e assai discusso volume.

Le idee dell’Illuminismo radicale sono quindi incontrovertibilmente l’unica grande causa della Rivoluzione francese, la sola

capace di ispirare e attrezzare la leadership rivoluzionaria sia politicamente sia sul piano filosofico e logico.
Ancor più problematica è la tesi insistita secondo la quale non tutti i filosofi, ma solo alcuni fra loro siano stati i veri portatori

del progresso, coloro che stanno dalla parte del futuro e sono perciò in grado di anticipare e costruire il domani radioso

che verrà.

Più che come uno storico, deontologicamente obbligato a preoccuparsi di non incorrere nel peccato mortale di

anacronismo, egli si muove quasi come un filosofo che non rinuncia a dir la sua, intromettendosi nelle controversie che

furono. Del disagio che lo storico potrebbe provare di fronte a questa continua attuazione di dilemmi del passato, che li

riporta direttamente, e quasi senza mediazioni, ai problemi del presente, egli non si cura, preso com’è dalla missione di

individuare nella storia i tedofori della fiamma del progresso, l’impostazione del libro rischia di riuscire un po' asfittica, se

non addirittura costipante.

La Rivoluzione francese di Israel sembra non aver prodotto ideologicamente molto di nuovo: le idee con cui è stata forgiata

prima la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e poi la prima Costituzione francese nel 1791 non risultano aver ricevuto grandi

apporti dalla Rivoluzione stessa.

L’apporto dei rivoluzionari sarebbe in sostanza consistito non in innovazioni teoriche ma in un’opera di divulgazione.
Se la Rivoluzione non è quella specie di gigantesca centrifuga che è parsa a molti storici, quel vortice che trasforma non

solo le istituzioni e le idee correnti ma gli uomini stessi, se essa è invece solo il laboratorio di sperimentazione delle idee

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del cosiddetto illuminismo radicale, occorre allora trovare dei soggetti, individui che sin dall’inizio, nel 1788-1789, avessero

ben chiaro in mente l’obbiettivo strategico: vale a dire abbattere l’antico regime e fondare una repubblica democratica.

Questi individui corrispondono a nomi celebri come La Fayette e Sieyès, analizziamoli:

1. Del marchese La Fayette sono note le frequentazioni cosmopolite e la sua ammirazione per la Repubblica

federale degli Stati Uniti. Le sue azioni appaiono quelle di un militare-politico che cerca di ritagliarsi un ruolo di

rilievo nella politica rivoluzionaria. Giocherà infatti ruoli ambigui come quello di comandante della Guardia

nazionale in occasione della spedizione del popolo partigiano a Versailles dell’ottobre del 1789. Ad Israel

interessa stabilire che in realtà La Fayette sia stato un repubblicano come egli stesso dichiarò prima di essere

condannato all’esilio;

2. Chiamato la famosa “talpa della Rivoluzione” fa si che Israel lo consideri parte dello zoccolo duro di un nucleo

centrale quasi repubblicano della Rivoluzione. Secondo Israel i testi di questi sono stati fondamentali per forgiare

la retorica rivoluzionaria nel suo stadio iniziale. Si allontana dalla tesi di supremazia della democrazia diretta per

abbracciare una più articolata teoria della rappresentanza.

Il punto però fondamentale del discorso di Sieyès è l’introduzione di un tema decisivo che però non si riscontra nei testi del

cosiddetto Illuminismo radicale (identificazione del popolo con la nazione francese attraverso il processo di esclusione).

Si opera infatti la fissazione dello schema polarizzante che permette di pensare una nazione-popolo prodotta dalla

estromissione dei privilegiati che vengono così espulsi dal contesto civile e messi al bando. I nobili francesi vengono così

despecificati, premessa indispensabile alla loro eliminazione morale e fisica = elemento necessario al discorso

rivoluzionario.

È solo attraverso questa polarizzazione e la delineazione in negativo della figura del malefico aristocrate che si può

configurare la figura dell’uomo rigenerato, dell’alfiere della Rivoluzione.

Altro discorso, invece, è quello riguardante i Lumi e le lanterne. I lampioni erano, come si sa, i riferimenti principali della

giustizia popolare alternativa, che pretendeva di sostituirsi a quella ufficiale quando questa non avesse potuto o saputo

fare il suo dovere, sicché “à la lanterne” era un riferimento chiaro a tutti.


Il collegamento tra i Lumi e le lanterne non è invero arbitrario. L’abate Maury, uno dei leaders della Destra costituzionale,

dirà con qualche sprezzo del pericolo, rivolgendosi ai suoi avversari: “E poi, quando mi avrete appeso, ci vedrete forse più

chiaro?”.

(+ la presa della Bastiglia è proprio un esempio di come non sia volesse descrivere la violenza).

L’unico caso in cui Israel dedica un’approfondita analisi alla violenza rivoluzionaria è quello dei massacri di settembre, vale

a dire l’esecuzione sommaria di circa un migliaio di detenuti politici da parte di folle armate che avevano invaso le principali

prigioni partigiane tra il 2 e 6 settembre 1792.

È abbastanza curiosa la tesi che Israel sostiene riguardo all’autonomia dei movimenti armati popolari. La folla degli insorti,

nei primi giorni della Rivoluzione, viene descritta come autonoma, infiammata dai discorsi dei predicatori democratici e più

o meno cripto-repubblicani, ma per il resto libera nella sua imprevedibile e temuta iniziativa insurrezionale = visione che

cozza con le abituali pratiche di manipolazione delle folle, sia con la ferma convinzione dei contemporanei che i

manifestanti fossero stati aizzati e talora piegati da nascosti congiurati.

Man mano che la Rivoluzione avanza, Israel tende a ipotizzare un improbabile processo di disciplinamento popolare che
fa si che le sezioni popolari siano solo una sorta di cinghia di trasmissione dei clubs o della municipalità.

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La verità è che Israel non fa i conti con una dimensione tipica della politica rivoluzionaria: quella di un gioco in cui i giocatori

utilizzano la politica di piazza per sovvertire rapporti di forza sfavorevoli nelle assemblee rappresentative, in una gradazione

di interventi.

Se la Rivoluzione, come dice Vergniaud, divora come Saturno i suoi figli, ciò avviene attraverso un meccanismo preciso:

l’appello al popolo e, attraverso esso, il continuo sovvertimento della legge e delle regole date. Per questa ragione la

violenza non è un accidente secondario ma un tratto costitutivo della politica rivoluzionaria.

La rivoluzione per la sensibilità odierna non è stata una disputa ideologica tra diverse scuole di pensiero ma un universo

magmatico in cui atti eroici e disumani, passioni e interessi, errori e orrori si sono mescolati a valori contrapposti. Di tutto

ciò, il Terrore rappresenta un distillato estremo: la distruzione dell’uomo compiuta in nome degli ideali supremi dell’umanità,

il suo annichilimento prodotto dall’ansia di rigenerazione e di creazione dell’uomo nuovo.

Se Israel tende continuamente a inquadrare la Rivoluzione francese nell’empireo filosofico e a leggere i suoi conflitti come

dispute teoriche, un libro recente di Haim Burstin propone uno sguardo ravvicinato sull’esperienza rivoluzionaria, secondo

un tipo di indagine che egli definisce “antropologica”.

Burstin sostiene in premessa la necessità di un rapporto empatico, o almeno non repulsivo, con il fenomeno. Come Tackett

quindi, si prefigge l’arduo compito di riordinare un senso odierno alla Rivoluzione e per farlo propone una sorta di

osservazione partecipante che metta sotto la lente d’ingrandimento non tanto la Rivoluzione, quanto gli uomini (e le donne)

che l’hanno fatta, attraverso il metodo antropologico.

Sondare i vissuti degli attori del dramma rivoluzionario significa andare al cuore del meccanismo della Rivoluzione. Con

un atteggiamento per certi versi simile a quello di Tackett, Burstin propone dunque di porre sotto la lente d’ingrandimento

il registro psicologico, e in particolare la complessione emotiva impiegata nella partecipazione attiva della Rivoluzione.

Per Bustin il vissuto rivoluzionario è un’esperienza radicalmente diversa da quella della vita normale e lo caratterizza

un’impetuosa e straordinaria energia propulsiva volta a dare, per così dire, l’assalto al cielo e a far ripartire la società da

zero, facendo tabula rasa del passato.

La Rivoluzione in azione è un’esperienza unica fondata sulla creazione di un senso di appartenenza; a questo uomo nuovo
corrisponde un vero e proprio habitus repubblicano. Nascono così nuove pratiche linguistiche e discorsive che nell’insieme

configurano un vero e proprio lessico della libertà e della democrazia, una nuova socialità politica ruotante attorno

all’assemblea di base, vero apprendistato della democrazia.

Se al cuore dell’esperienza rivoluzionaria sta una forma mentis repubblicana che si fa stile di vita e visione del mondo,

allora l’effetto è quello di considerare la prima parte della Rivoluzione un lungo apprendistato a ciò che accadrà dopo il 10

agosto 1792.

Malgrado le intenzioni lo sguardo antropologico cede così il passo a un procedimento di astrazione, facendo della

Rivoluzione un mondo separato e speciale, incentrato su un solo tipo di soggetto, l’uomo rivoluzionario, si perdono per

strada tutte quelle contraddizioni che ne segnano il percorso, non ultime la lotta di fazioni e guerra civile.

Il rischio insito in questa prospettiva è poi quello di considerare l’unica vera Rivoluzione i due anni che vanno

dall’instaurazione della repubblica a Termidoro e Brustin ne è consapevole. Avviene così un curioso fenomeno:

- Le stesse pratiche manipolative e lo stesso linguaggio democratico – rivendicativo che per un verso favoriscono

la politicizzazione delle proteste sociali e delle rivendicazioni economiche e la creazione di forme nuove di
socialità politica, per altro verso tendono a produrre un’impasse della partecipazione democratica. Da questo

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contesto origina l’ossessione del complotto che prende forma in un clima di crescente incertezza e paura

nell’immaginario collettivo.

Al carattere vischioso e oscuro della cospirazione il patriottismo militante contrappone allora l’ideale della trasparenza, che

si traduce in pratica nell’occhiuto controllo di massa sui comportamenti sospetti. Tutto ciò configura quello che Brustin

chiama il protagonismo rivoluzionario e che è poi, più propriamente, il protagonismo popolare. La chiave per intenderlo

non sta nel registro psicologico, ma in quel nuovo e potente meccanismo di partecipazione alla vita pubblica che è

l’esperienza della democrazia diretta.

Una volta attivato, questo protagonismo popolare è poi naturalmente difficile da contenere; l’incapacità dell’autorità politica

a dissipare, una volta per tutte, l’inquietante fantasma della mobilitazione popolare è il cuore del problema.

Bisogna chiedersi perché i reiterati tentativi di normalizzazione falliscano, tenendo così aperta la porta all’instabilità. La

risposta è che l’impossibilità di farla finita con la Rivoluzione dipende dal fatto che essa, nel frattempo, ha creato nuove

identità, sorta di abiti che non si dismettono tanto facilmente. Si tratta di persone alle quali è complicato ordinare di tornare

alle proprie occupazioni di un tempo, perché nel frattempo la Rivoluzione le ha cambiate intimamente, creando uomini

nuovi. Non si tratta dunque di un effetto del gioco politico, ma di una sorta di resistenza esistenziale.

La conclusione, che vorrebbe essere consolatoria ma è invece poco rassicurante, è che tutti i principali sistemi ideologici,

così come tutte le grandi fedi, hanno causato vittime in quantità.

Le letture molto differenti passate sino ad ora in rassegna in questo capitolo, convergono su alcuni elementi comuni:

1. Restituire un’interpretazione della Rivoluzione francese capace di entrare in sintonia con le domande del

presente;

2. Rifiuto di addossare alla Rivoluzione il male oscuro del XX secolo, di farne la madre di quella degenerazione

dell’utopia in ingegneria sociale dispotica comunemente individuata come la fucina del totalitarismo;

3. (in NEGATIVO) Resistenza a fare i conti con la struttura della politica rivoluzionaria, un sistema che può certo

includere ma non essere interamente sostituito da scariche emotive, da convincimenti ideologici o infine da

esperienze di partecipazione collettiva.


Viene quindi da chiedersi, completate queste letture, se non sia il caso di fare i conti con il fatto che l’esperienza

rivoluzionaria è stata anche la creazione di nuovi e problematici equilibri politici di democrazia rappresentativa.

Le svolte politiche fondamentali sono infatti scandite dal protagonismo della piazza, sostenuto dall’ideologia condivisa della

sovranità popolare e della superiorità della volontà; il popolo, nuovo vero sovrano, si presenta come astratto/concreto,

incarnato in minoranze radicalizzate che esercitano continue pressioni sull’Assemblea.

Gruppi in minoranza nell’Assemblea possono di conseguenza avvalersi di una minaccia esterna in grado di condizionare

e, al limite, ribaltare gli equilibri parlamentari. Si apre così una competizione tra le fazioni politiche per il controllo della

piazza, una gara in cui vince chi riesce a conquistare il consenso degli stati sociali più attivi e politicizzati.

L’estremismo ideologico non è, cioè, solo una conseguenza necessitata di premesse teoriche intrinsecamente illiberali ma

è anche legato a una struttura della politica in cui l’egemonia sulle sezioni è necessaria in quanto attraverso l’appello del

popolo è possibile intervenire sul sistema decisionale

Ne deriva una tendenza a varcare continuamente i confini della legalità, rendendo impossibile la stabilizzazione del regime.

Il populismo è anche la richiesta di una sorta di sostegno politico esterno, spinto talora fino all’estremo gesto
dell’insurrezione.

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CAPITOLO 4. Patria e libertà

All’indomani della Rivoluzione francese e per tutta la prima metà dell’Ottocento il tema della libertà collettiva ha dominato

la scena del continente europeo. La rivoluzione si è presentata di nuovo, e poi ripetutamente come la rivoluzione nazionale,

difesa del diritto all’autodeterminazione e alla sovranità dei popoli.

In Italia la rivoluzione nazionale si è chiamata Risorgimento o risveglio di una nazione oppressa da liberare. A partire dalla

ricorrenza dei 150 anni della fondazione del regno d’Italia, nel 2011, romanzi, film, sceneggiati televisivi e dibattiti si sono

susseguiti in un’ondata mediatica senza precedenti. Il ritorno di attenzione si è rivolto ad indagare soprattutto il momento

iniziale come a rispondere a domande sul senso dell’unificazione, sul suo radicamento e sulla sua tenuta.

Rispetto a questa piena mediatica, in cui le preoccupazioni dell’oggi si scaricano senza troppe mediazioni su un passato

di comodo, la riflessione storica non è stata in grado di fondare su una rilettura del processo risorgimentale una

reinterpretazione della storia nazionale; essa appare mancante di ambizioni revisioniste che non siano quelle di certa

pubblicistica d’ispirazione leghista, cattolico-integralista o neoborbonica.

Fa eccezione, in questo quadro, la proposta interpretativa che dagli inizi del nuovo secolo porta avanti con ammirevole

tenacia Alberto Mario Banti, “il più in vista tra gli esperti del Risorgimento” che fa un’ambiziosa rilettura generale del

processo di formazione nazionale capace di imporre, grazie a un originale approccio metodologico, un riposizionamento

complessivo dell’agenda delle domande e cioè allo strutturarsi del discorso nazionale e alla sua dimensione comunicativa

= svolta culturalista, una nuova proposta interpretativa che non si limita a giustapporsi alla vecchia o a completarne al

trama narrativa classica, ma propone cause ed effetti chiedendosi come e perché si sia fatta l’Italia.

Ispirata da un lato ai classici lavori di George Mosse e dall’altro alla messe di studi postmoderni sui processi di invenzione

della tradizione, la ricerca di Banti costituisce infatti un affascinante e insito tentativo di dimostrare che la chiave della spinta

risorgimentale non sia da cercare né in vaghi e per lo più indimostrati mutamenti socioeconomici, né nel variegato e caotico

conflitto politico-ideologico e nemmeno nelle complesse logiche dinastiche, geopolitiche e di equilibrio internazionale,

bensì nella potenza performativa del discorso romantico-nazionale.


Essa ha avuto successo presentandosi come una nuova storia alternativa alla vecchia e in breve come un nuovo

paradigma egemone.

Attorno alla domanda seguente Banti scrive il suo libro: come e perché si diventa patriota nell’Italia della prima metà

dell’Ottocento? La risposta è che la nazione prima di essere un ideale per cui combattere e, eventualmente, morire, deve

essere immaginata e poi creduta e poi amata.

A causa delle censure nasce così su un piano ricreativo e prepolitico una mitografia e una simbologia della nazione che,

ricalcata sul modello francese, costruisce un discorso dotato di un’eccezionale forza comunicativa. Essa fu tale, scrive

Banti, da toccare la mente e il cuore dell’opinione pubblica della penisola, tanto da diffondere l’idea dell’effettiva esistenza

di un soggetto (nazione italiana) che nei fatti sembrava molto difficile da identificare.

Il metodo da lui utilizzato è stato quello di analizzare un certo numero di testimonianze di uomini e donne del Risorgimento.

Banti trae la convinzione che questi ultimi siano divenuti patrioti non a causa di un malessere economico o di un’ambizione

politica frustrata, ma a seguito della lettera decisiva di testi (che divengono un canone) che li hanno in gioventù convertiti

alla fede nazionale.


Analizzati sul piano morfologico rivelerebbero delle somiglianze dii fondo, segnate dalla presenza puntuale di talune

costellazioni simboliche in forma narrativa. Queste costellazioni sono per Banti essenzialmente tre:

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1. La nazione come struttura di parentela come comunità di discendenza;

2. La nazione come incarnazione di una declinazione patriottica dell’amore romantico articolata nei lemmi

amore/onore/virtù;

3. La nazione come entità circondata da un’aurea sacrale incentrata sul martirio/sacrificio.

Il discorso nazionale prende visibilmente a calco quello religioso, con la conseguente sovrapposizione e ibridazione

simbolica di martiri cristiani e martiri della nazione, virtù cristiane e virtù patriottiche, altari che diventano altari della patria,

inni, allegorie e così via.

Quest’insieme di tesi hanno un profilo esplicativo che va molto al di là di quello di una provocante e innovativa analisi di

tropi testuali. Definiscono una proposta complessiva che ambisce a riscrivere completamente la nostra visione del

Risorgimento.

Uno degli aspetti positivi dell’analisi di Banti è che essa smonta il facile senso di familiarità e di contemporaneità rispetto

alle idee e ai sentimenti degli uomini della prima metà dell’Ottocento. D’altra parte, però, Banti lascia il lettore abbastanza

incerto rispetto a una delle caratteristiche di fondo della produzione mitica nazionale e presenta questo discorso come una

sorta di vortice linguistico autocentrato. Si resta così incerti sugli oratori e gli scrittori abbiano continuato in seguito a

esercitare la propria funzione creativa, influenzando la discussione sulla nazione nella sfera pubblica italiana e

modificandone di continuo le caratteristiche o se, viceversa, una volta costruito il discorso nazionale, essi, abbiano esaurito

il proprio compito, e siano usciti di scena.

Sul palcoscenico che egli disegna non sono presenti invero degli attori storici in carne ed ossa; al loro posto campeggiano

invece due soli protagonisti: il discorso nazionale, mostro di fascinazione, e una massa amorfa di giovani destinati

ineluttabilmente a subirne la fascinazione.

Non solo non si ritrova un’analisi dei processi di ricezione del discorso nazionale o dei complessi passaggi che separano

la lettura di un testo dalla sua utilizzazione politica, ma vi è la tendenza a fare del discorso nazionale in epoca risorgimentale

un registro linguistico separato e autocentrato.

Per Banti, infatti, il discorso nazionale è un sistema ideologico sostanzialmente chiuso, distinto da altri sistemi ideologici,
come quello liberale o socialista.

DA RICORDARE = l’universo politico l’indomani del congresso di Vienna è dominato dall’accordo delle potenze europee

per cancellare gli effetti della Rivoluzione francese, far tornare indietro le lancette della storia e tenere in piedi il malfermo

edificio dell’antico regime mediante l’alleanza del trono e dell’altare, vale a dire la legittimazione di diritto divino dei sovrani

spodestati.

L’ultimo lavoro di Banti sul tema illustra il proprio punto di vista e costituisce il prolungamento delle sue precedenti tesi. Al

centro del libro si staglia infatti l’impegnativa affermazione che l’essenza morfologica della nazione elaborata dal

Risorgimento resta la stessa fino al fascismo. Si affermano infatti una declinazione razzista dell’idea di nazione, una nuova

aggressività coloniale e imperialista, il recupero e l’esaltazione della romanità.

Le nuove componenti si presentano come uno sviluppo organico, armonico, coerente rispetto a quella matrice che resta

comunque sempre il nucleo portante del discorso nazionale. La tesi che egli sottolinea con più convinzione è che non vi
sia una sostanziale differenza morfologica tra il discorso nazionale primo-ottocentesco e il discorso nazionalistico tardo-

ottocentesco e novecentesco. Per questa ragione egli è costretto a comporre con qualche difficoltà e a tentare di mettere

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in evidenza ciò che chiama lo “spessore biopolitico della concezione risorgimentale della nazione”, in altre parole la

presenza di elementi implicitamente razzistici nel discorso nazionale originario.

È come se la ricostruzione di Banti, solo apparentemente disposta in senso cronologico, fosse in realtà costruita a rebus,

tesa cioè a rintracciare nei più vari testi le tracce di quello che, tra Otto e Novecento, sarà il pensiero nazionalista.

Il successo della campagna interventista viene così ancora una volta spiegato con la fascinazione della retorica nazionale

ormai da lunga pezza impressa nelle menti degli italiani. In questo, come in altri casi, di fronte a un tratto di discontinuità,

a un mutamento, a una rottura, invece di connetterlo a un elemento di contesto, per esempio alla stagione della politica

coloniale italiana o alla diffusione del movimento socialista, si tende a ricondurlo alla grammatica generativa del discorso

nazionale risorgimentale, sorta di cornucopia produttrice di tutto l’universo semantico nazionalistico, ma anche oltre

malefico generatore di orrendi flagelli.

La patria perduta, l’esperienza dell’esilio, sono qualcosa che si legano strettamente alla costruzione del discorso della

nazione, è l’esilio moderno; a parti invertite lo subiranno e insieme, per certi versi, lo inventeranno proprio gli ultras, i

profughi della Grande Revolution.

Per cogliere davvero il senso del nesso tra il discorso sulla libertà e il discorso nazionale questo punto di osservazione,

quello offerto dalla messa a distanza della patria attraverso l’esperienza dell’esilio, è decisivo: si tratta oltretutto di una

prospettiva che consente di avvicinare un altro tema cruciale, quello della lotta per la libertà degli altri, l’internazionalismo

liberatorio.

Bistarelli ricorda come fosse stato Croce a invocare un libro sugli esuli dichiarandosi affascinato dal tema. Nello stesso

testo Croce auspicava che in un libro del genere non si porgesse attenzione solo ai soliti noti ma anche agli uomini oscuri,

quella massa di individui normali che hanno fatto la storia dell’emigrazione politica.

L’esilio ne esce ben delineato come un tema centrale del Risorgimento, tanto sul piano delle esperienze soggettive quanto

su quello mitico e simbolico; una ricerca impegnata, approfondita, erudita sugli esuli del 1821, spinta fino al resoconto di

dettagli delle loro vicende prima, durante e dopo la vicenda dell’esilio. Il libro in questione propone una riflessione sulla

soggettività dell’esperienza dell’esilio e sulle sue ricadute nel processo risorgimentale.


Per trattare partitamente questi vari livelli del discorso occorre notare:

1. Per iniziare l’attenzione speciale che viene riservata nell’introduzione alla rappresentazione dell’esilio in opere

musicali, teatrali e delle memorie. Persecuzioni, guerre civili, pestilenza, fame, tutto provarono gli esuli del 1821

= tema più generale dell’esilio politico nel Risorgimento. L’autore non nasconde al lettore che il problema avrà

dopo il 1848 caratteristiche in parte diverse: mentre gli esuli del 1821 sono in buona misura gente che fugge dal

Piemonte, dopo il 1848 si aprirà una nuova fase dell’emigrazione politica in cui da tutta Italia si fuggirà in Piemonte.

Tale scelta diverrà una linea politica generale, cui Massimo D’Azeglio darà voce con il concetto di “protettorato

italiano”. MA se l’emigrazione politica si muove in un contesto politico, allora si danno sia politiche di sostegno di

mossa da ragioni dichiarate, e sostenute da una retorica ideologica, sia politiche mosse da ragioni non dichiarate,

fondate su esigenze di Realpolitik, da cui dipendono pratiche inconfessabili. In altri termini, l’emigrazione viene

aiutata e per certi aspetti protetta, mentre per altro verso viene sorvegliata, infiltrata e tenuta sotto controllo. La

scelta del testo è quindi chiara: raccontare con grande precisione la storia dell’emigrazione del 1821 e seguirne

la vicenda nel corso degli anni Venti e Trenta, prolungando l’analisi nel caso di alcuni esuli anche al di là di quel
periodo;

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2. Il secondo piano di indagine è quello nel quale vengono illustrati i risultati della ricerca prosopografica e del

tentativo insito di Bistarelli di collegare in qualche modo scelta politica e situazione oggettiva di partenza,

appoggiandosi a studi certo assai penetranti ma anche dati. Da una parte siamo in presenza di un materiale assai

ricco di informazioni ma dall’altra i risultati cui conduce non paiono conclusivi = sembra che la logica identificativa

del Database Management System e quella delle identità multiple degli attori storici non coincidano. Accade infatti

nella storiografia politica tradizionale di vedere preassegnati gli schieramenti politici sulla base di riferimenti

ascrittivi e di leggere a commento considerazioni stizzite sulle scelte concrete di campo degli attori storici,

considerate bizzarre, frutto di errori e di incomprensioni. Dovremmo invece guardare agli interessi non come a un

dato esterno, oggettivo, ma come qualcosa che è incastrato proprio nella tradizione discorsiva;

3. Il terzo piano di indagine di Bistarelli risulta uno dei meglio costruiti e dei più godibili del libro. Egli pone tutta una

serie di questioni di grande interesse, ruotanti attorno ai modi diversi con cui la soggettività articola e omogenizza

l’esperienza dell’esilio. L’esilio è un’esperienza liminare; il discorso sull’esilio non è dunque solo un discorso sulle

frontiere che attraversano i corpi ma anche sui corpi che attraversano le frontiere, i corpi degli esuli appunto. Tra

esperienza della comunità di partenza ed esperienza della comunità di ritorno, l’esilio è anch’esso creazione di

comunità e integrazione. Come l’esercito e il collegio però l’esilio è anche luogo di acculturazione, e di esperienza

politica. Bistarelli guarda anzitutto alla famiglia, alle reti familiari come luogo di trasmissione di valori etici e di

tradizioni politiche.

La polemica di Bistarelli nei confronti di una certa ortodossia culturalista è qui più che giusta. Per Alberto Mario Banti

l’iniziazione al credo nazionale non passa attraverso la famiglia, gli istruttori, la scuola ma esclusivamente attraverso la

lettura.

Infine, ci ricorda Bistarelli, non sono solo i libri che insegnano ma anche gli eventi, talora più potenti ed efficaci: pare che

Mazzini, ancora ragazzo, concepisse l’idealità nazionale guardando gli esuli del 1821 partire per la Spagna dove la

rivoluzione era allora trionfante.

4. L’ultimo piano di indagine e analisi è quello che fa riferimento alla possibilità di considerare o meno l’esperienza
dell’esilio come base sufficiente per una biografia di gruppo. Il libro dimostra con chiarezza come anche in questo

caso una generazione non sia un fatto in sé, ma qualcosa che viene ricostruito a posteriori.

Il libro propone dunque importanti questioni che vanno al di là della pur rilevante tematica dell’esilio e impegnano

problematiche più generali di interpretazione dell’esperienza risorgimentale come rivoluzione nazionale italiana.

Ma se l’esperienza dell’esilio è decisiva nel mettere a fuoco l’ideale della patria libera, un altro importante aspetto

dell’esperienza rivoluzionaria è offerto poi dalla messa a distanza nel tempo, vale a dire dalla riproposizione di temi attuali

mediante la narrazione mitica delle rivoluzioni nazionali del passato.

La storia della Nazione e della libertà è stata lungamente irrisa dalla storiografia conservatrice spagnola additata come

esempio ridicolo dei guasti introdotti dalla affannosa ansia di legittimazione dei regimi liberal-democratici. Tuttavia, oggi,

in tempi di invenzione della tradizione, possiamo giudicare forse con qualche minor disdegno o sufficienza questa ricerca

spasmodica di antenati. Essa fa parte del ruolo che la storia ha giocato, in Castiglia come in tutta Europa, nell’affermazione

delle società nazional-liberali del XIX secolo. Se per un verso, forti dell’insegnamento di stagioni storiografiche revisioniste,

che ci hanno insegnato a diffidare del tendenziale anacronismo di tanta storiografia progressista, abbiamo ormai una
strumentazione analitica molto più attenta, una più grande consapevolezza nel trattare eventi del passato; per l’altro

sappiamo che la storia è scienza sui generis, che non può bloccare la penetrazione nel suo discorso del linguaggio

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naturale, quello che promana dalla vita di tutti i giorni e, per così dire, dalla strada. Di più, sappiamo bene come essa non

possa impedire un uso, talvolta improprio o anche distorto, delle proprie interpretazioni nel contesto di una sfera pubblica

che organizza comunque un suo proprio utilizzo del passato, un uso e riuso continuo che non è certo né privativa né

prerogativa degli storici.

Va poi notato che ve ne sono alcuni (di fatti storici) la cui costruzione e affermazione merita un’attenzione particolare. Si

tratta di quelli che si potrebbero definire i miti fondatori di una comunità politica le cui caratteristiche sono essenzialmente

tre:

1. Si tratta di avvenimenti che, nella visione romantica della storia, dovrebbero esprimere il sentire intimo, l’anima di

una nazione, la vocazione di un popolo;

2. Si tratta di eventi passati le cui conseguenze durature vanno considerate di lungo periodo e quindi si spingono

fino a penetrare la sfera pubblica contemporanea;

3. Si tratta di fatti che fungono da discrimine, crinale periodizzante tra un prima e un poi che risulta irrimediabilmente

diverso segnato proprio da essi. Sono in altre parole rivoluzioni.

Non vi è tuttavia dubbio che nell’un caso come nell’altro, è proprio nella prima metà del XIX secolo che essi divengono dei

veri e propri miti fondatori di una nazione possibile.

Nel caso dei comuneros, la riflessione storica sul significato di spartiacque rappresentato dalla rivolta delle comunità

castigliane inizia nel 1808. Questa attenzione nasce da un rispecchiamento immediato tra il presente e il passato, un

rispecchiamento che proseguirà fino alle Cortes gaditane nelle quali il tema di Villalar come evento che segna la fine delle

libertà castigliane serve da riferimento ideale al processo di riaffermazione delle stesse.

La Spagna, che era stata anticipatamente in Europa con la formazione di una monarchia temperata capace di bilanciare

le varie componenti sociali e istituzionali, appare adesso vittima della prepotenza dispotica.

Con il ritorno di Ferdinando VII e il passaggio dell’opposizione liberale all’attività cospirativa questa tendenza si fece

largamente strada e gli eroi di Villalar divennero un vero e proprio simbolo identitario.

Risulta assai interessante come in Lafuente “Historia general de Espana” ci sia una consapevolezza precisa del nesso tra
la ricostruzione storica e gli eventi presenti, sottolineando l’insurrezione delle comunidades motivata da interessi e

sentimenti del tutto ragionevoli al punto che nessuna rivoluzione fu mai stata tanto giustificata come la loro.

Commenta: “credo che mai sono più profittevoli e più necessari ai popoli gli insegnamenti storici che quando i turbolenti

dibattiti e le lotte politiche che preludono o accompagnano i mutamenti e le rigenerazioni sociali li commuovono e li

inquietano”.

Questo commento si attaglia perfettamente a illustrare la nascita del mito del Vespro in Sicilia in epoca risorgimentale, un

processo di reinvenzione della tradizione legata all’azione di uno storico solo, però grande: Michele Amari.

Per Amari la Sicilia possedeva una forma di monarchia temperata da una costituzione, e cioè da istituzioni rappresentative,

una forma che in Sicilia si riferisce all’unificazione dei due regni con gli statuti dell’8 e 11 dicembre 1816 e all’abolizione

del Parlamento siciliano.

Amari aveva iniziato le sue ricerche storiche con un lavoro sulla rivoluzione del 1820-1821 che trattava della Costituzione

del 1812, ma a un certo punto si era bloccato. Anche alle radici della rivoluzione dei Vespri affondavano per l’autore

nell’odio crescente contro una dominazione oppressiva (Carlo aveva calpestato le franchigie costituzionali, levando tributi
senza convocare il Parlamento).

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Contro questa oppressione però si levò il sentimento della gente siciliana, la virtù del popolo, ai quali queste scelte avevano

aggravato i loro servizi personali). Sta qui quella che l’autore riteneva la maggiore acquisizione del suo lavoro (e poi la

storiografia ha sancito), la valorizzazione dell’azione popolare.

Il principale impegno di Amari fu quello di dimostrare che la congiura che faceva capo a Giovanni da Procida non ebbe

effetti concreti sullo scatenarsi dell’insurrezione. È significativo che nella pagina cruciale del libro, l’inizio dell’uccisione dei

francesi, Amari non disdegni di ripetere la leggenda del “Ciciri chirichi”, una storia di cui Giuseppe Pietrè ha fatto la

collezione delle varianti.

CAPITOLO 5. Il tramonto del sol dell’avvenire

Apparso sul finire del secolo scorso, l’ultimo libro di Francois Furet, Il passato di un’illusione, costituisce una riflessione di

particolare rilievo sul fenomeno definito come l’”illusione comunista”, infrantasi con la repentina scomparsa dell’Unione

Sovietica, e insieme un’occasione per ripensare quanto vi è di essenziale nella vicenda novecentesca.

Furet ci invita a pensare il XX secolo, a dargli nuovo senso, liberandolo dalle scorie ideologiche che la passione politica vi

ha depositato. Il crollo del muro di Berlino e la disgregazione dello stato fondato nell’ottobre 1917 appaiono infatti una

cesura periodizzante, tale da segnare la fine di un’epoca.

Una volta che l’intensa stagione del secolo breve poteva dirsi conclusa, lo storico poteva abbandonarsi alla hybris di

tracciarne i contorni, raccontare il Novecento.

Al centro del libro è un’interrogazione sul fascino del comunismo, l’enorme capacità di attrazione di un’idea resistente come

poche altre alle smentite della storia; l’attenzione è rivolta alla contraddizione stridente fra le miserie di una realtà dispotica

e il mito fondante della società comunista, la promessa di un mondo nuovo destinato a coronare l’evoluzione storica

dell’umanità. Furet si chiede come sia potuto accadere che, proprio mentre l’Unione Sovietica viveva la fase più cupa della

propria deriva totalitaria, l’intellettualità di tutto il continente salutasse nel regime sanguinario di Stalin l’avanguardia della

libertà.
Il tema non è quindi nuovo. Il ritardo e la reticenza con cui l’opinione pubblica colta europea ha denunciato gli orrori del

cosiddetto “socialismo reale” sono stati oggetto di accorate denunce e nel secondo dopoguerra la questione è stata ripresa,

fra l’altro, da un libro, brillante e polemico, di colui che Furet considerava il proprio maestro intellettuale, Raymond Aron.

Furet vuole descrivere il fenomeno in tutta la sua portata, analizzando oltre settant’anni di storia europea, volendo però

individuarne il senso segreto e nascosto, il “mistero originale”. Infatti, il libro appare proprio come un’indagine sul disperato

bisogno d’illusione del Novecento, letto soprattutto attraverso la testimonianza delle legioni di intellettuali, piccoli e grandi,

ammaliati dalla sirena comunista. Tra questi ritroviamo proprio l’autore, che comunista lo è stato tra il 1948 e 1956, sicché

il libro presenta una forte, esplicita coloritura autobiografica.

L’aspetto centrale della sua impostazione è volta ad indagare più il percorso immaginario di un’idea che un processo storico

reale; bisogna allora considerare il libro di Furet per quello che realmente è, un lavoro di storia delle idee, anzi per meglio

dire di “storia di un’idea”.

L’illusione, secondo l’autore, non accompagna la storia del comunismo ma ne è costitutiva. Si tratta di un credo nella

salvezza attraverso la storia capace di suscitare un investimento psicologico di tipo pseudo-religioso.


Il comunismo va trattato come una religione secolare, latrice di un messianismo ideologico capace di spingere i suoi

sostenitori all’adorazione. Stupisce tuttavia che la sottolineatura degli elementi religiosi presenti nell’idea comunista si

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accompagni a un disinteresse pressoché totale non solo nei confronti delle forme associative e organizzative, ma anche

verso tutti quegli aspetti simbolici che dovrebbero costituirne la manifestazione più evidente. Quello che Furet definisce un

super investimento dell’ideologia della politica venga considerato un fatto totalmente nuovo e originale del XX secolo.

Furet osserva che mentre il comunismo appare caratterizzato da un investimento psicologico paragonabile a quello di una

fede religiosa ma avente un obbiettivo storico, nelle epoche che ci hanno preceduto “la politica è nelle mani d’una ristretta

cerchia di persone e non è oggetto di appassionati investimenti come quelli suscitati da una religione. Se ne dovrebbe

dedurre, che l’autore ritenga che la religione non comporti forti coinvolgimenti politici.

La tendenza a esaltare l’unicità ideologica dell’esperienza novecentesca è poi particolarmente evidente nel modo in cui

nel libro vengono contrapposti Ottocento e Novecento.

Gli uomini del XX secolo sono descritti come serve di partiti onnipotenti, costretti a ingoiare ideologie estremamente

grossolane e volgari con le quali il grande fratello rinnova in ogni momento, su ogni cittadino.

Furet contrappone l’Ottocento che conosce e ama: un Ottocento che aveva per rappresentati uomini politici di gran classe,

protagonisti di un tipo di discorso politico da lui considerato molto più profondo di quello contemporaneo.

Le stesse rivoluzioni ottocentesche vengono da Furet considerate migliori di quelle novecentesche perché non ricalcano

la povertà di linguaggio di un partito o del suo responsabile.

Anche l’idea nazionalista gli pare, nel caso ottocentesco, preferibile, così profondamente legata qual è al concetto di cultura

e ancora immune da scivolamenti razzisti. Accade così che l’autore, non trovando per nulla originale la dottrina comunista

del XX secolo, rinunci a presentarci un’analisi che consenta di cogliere la sua specificità rispetto alla tradizione socialista.

Di più: manca qualche riferimento alle caratteristiche del “linguaggio” bolscevico e all’analisi comparata della retorica dei

suoi principali leaders; Furet non pare interessato a un’anatomia dell’idea comunista, in quanto, scrive, l’idea leninista è

un’idea limitata; per l’autore l’odio per il borghese non è inoltre un odio di classe, né il prodotto della predicazione socialista.

Il borghese non è che la calamita del disprezzo di un’epoca, il simbolo dell’interesse e del denaro, il polo negativo

dell’artista.

Meno comprensibile appare la riproposizione di un concetto come quello di borghesia usato in modo insieme
estremamente generale e ipostatizzante, e perciò inutilizzabile entro schemi idealtipici.

Per Furet la borghesia si caratterizzerebbe proprio per l’infinita capacità di produrre individui che aborrono il regime sociale

e politico nel quale sono nati; e di questo strano fenomeno gli intellettuali del Novecento costituiscono la più significativa

illustrazione.

La passione originaria, dunque, non è la passione di classe, ma una passione antiborghese e antimoderna e questa

impostazione consente all’autore di accostare al bolscevismo il nazifascismo.

E tuttavia la passione antiborghese, insieme antiliberale e antidemocratica, non avrebbe generato il suo mostruoso parto

gemellare senza una forte sollecitazione esterna, prodotta dalla Prima guerra mondiale.

La reazione antiborghese ne esce profondamente trasformata, diventa passione rivoluzionaria prendendo le forme del

nazionalismo esasperato, a destra, e dell’universalismo comunista, a sinistra.

Questa sorta di filogenesi delle passioni serve, dunque, a Furet a porre bolscevismo e nazifascismo non solo in una stessa

congiuntura storica, ma entro la stessa genealogia causale, lo stesso meccanismo esplicativo.

Si afferma anche la natura rivoluzionaria del fascismo considerandolo un prodotto delle stesse passioni politiche operanti
nel comunismo e lo è in forme altrettanto estreme, a cominciare dall’odio per il parlamentarismo borghese.

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Per sostenere il teorema dell’equiparazione tra fascismo e comunismo, tra Mussolini e Lenin, Furet è costretto a sostenere

che le passioni suscitate dal militante fascista non sono le stesse che invoca il bolscevismo ma sono della stessa natura.

Furet sembra attribuire infatti alle passioni un significato indiscusso e sostanziale: quello di forze operanti nella storia capaci

di animare il repertorio ideologico. Ma un simile concetto appare oggi lungi dall’essere accettabile; sottolinea la natura

semantica della passione, il suo costituire un linguaggio o, se si vuole, un vocabolario, vale perciò a riportare il discorso

all’area di significato, non a ciò che sono le passioni, ma a quello di cui parlano.

Bolscevismo e fascismo per l’autore non sono soltanto scaturiti dalla stessa congiuntura bellica e dalla medesima passione

antiborghese e antidemocratica. Essi sono anche legati da un comune meccanismo di azione e reazione: se l’agosto 1914

aveva consacrato la vittoria della nazione sulla classe, il 1918 segna la rivincita della classe sulla nazione e con

l’universalismo democratico si afferma l’idea rivoluzionaria.

A sua volta l’affermazione del bolscevismo provoca la diffusione della passione anticomunista mentre la stabilizzazione

del fascismo e poi la nascita del nazismo fanno di nuovo splendere agli occhi dei popoli europei l’attrattiva della stella rossa

che svetta sulle mura del Cremlino.

Furet accetta così in parte la famosa tesi di Nolte sul carattere derivato del nazifascismo dal bolscevismo, del lager del

gulag (ne accetta il vocabolario). Il bolscevismo è infatti, per Furet una “patologia dell’universale”, laddove il nazifascismo
è una patologia del particolare; il rapporto di dipendenza e di imitazione creato tra i due movimenti da questo legame di

azione e reazione permette di avanzare l’idea che forse gli effetti di semplificazione e di volgarizzazione che le due

ideologie producono sono proprio il segreto dell’attrattiva che esercitano.

Oltre che da questo legame dialettico, bolscevismo e nazifascismo sono accumunati anche da un’avversione complice nei

confronti delle democrazie borghesi e del movimento socialista. La storia degli anni Venti e Trenta rivela una continua,

ambigua convergenza di interessi, che sfocerà nel patto Molotov-Ribbentrop.

Si giunge qui a quella che può essere considerata la tesi-chiave del libro: il mostro totalitario, nella sua doppia veste

hitleriana e staliniana, è un fenomeno inedito, proprio del XX secolo, che non può essere compreso attraverso le teorie

liberali della storia né, soprattutto, mediante quella marxista. Il fascismo e il nazismo non sono interpretabili come
marionette della borghesia, agenti del suo dominio terroristico; piuttosto che essere segnati dalla dipendenza da

determinati interessi sociali essi appaiono caratterizzati da una radicale autonomia da questi ultimi.

I regimi totalitari nati dalle rivoluzioni non possono permettersi che le passioni si spengano: hanno bisogno di rinfocolarle,

di dare loro nuova linfa.

Furet non è certo il primo a proporre un’interpretazione del totalitarismo in chiave di psicologia collettiva, né a sottolineare

il ruolo della manipolazione dell’opinione pubblica nei regimi staliniano e hitleriano. Vi è infatti un mistero nelle ideologie

totalitarie del XX secolo, e questo mistero consiste nel duro condizionamento che hanno esercitato su tutti coloro che le

hanno professate. La Seconda guerra mondiale è perciò comprensibile solo alla luce dell’ideologia: e ciò vale non solo per

il suo scoppio, ma anche per il suo svolgimento.

L’Olocausto è per Furet l’argomento decisivo per contestare la teoria marxista, per mostrare come il segreto del successo

hitleriano non sia consistito nel mandato di una classe ma nel consenso di una nazione. Accettare il carattere socialmente

determinato del nazismo significherebbe infatti arrivare a sostenere l’idea assurda che il genocidio degli ebrei abbia figurato

nei programmi del capitalismo tedesco. L’hitlerismo nel suo fondo non è un nazionalismo ma “un’astrazione derivata dal
socialdarwinismo e diventata una promessa di dominio del mondo”.

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Nel tentativo di rendere perfettamente equilibrato il suo doppio parallelismo, Furet, dopo aver avvicinato leninismo e

fascismo, allontana ora nazismo e fascismo, negando a quest’ultimo la qualifica di regime totalitario (pensiero solo per

stalinismo e hitlerismo).

Un secondo esempio è come viene presentata la guerra civile spagnola. Secondo Furet la Spagna del 1936 non è

interpretabile come uno scontro tra fascismo e antifascismo. Avendo predefinito il fascismo come una forza rivoluzionaria

e ritrovandosi di fronte una rivolta dell’esercito, sostenuta dalla Chiesa cattolica, dai proprietari fondiari e dalle forze

tradizionaliste, Furet indietreggia e nega che si tratti di fascismo.

La Spagna offre lo spettacolo d’un conflitto ben più antico di quello tra fascismo e antifascismo: nelle sue terre si scontrano

la rivoluzione e la controrivoluzione. Anche in questo caso il fatto che dalla parte della rivoluzione stessero i difensori di

una repubblica democraticamente eletta e viceversa l’evidenza che tutti i fascisti e nazisti europei, malgrado la propria fede

rivoluzionaria, si sentissero solidali con un forte controrivoluzionario non sembra agli occhi di Furet una contraddizione, e

men che mai un mistero.

All’indomani della guerra, per esempio, va in scena l’ultimo atto della grande illusione. Mentre i crimini di Stalin trovano un

provvidenziale lavacro offerto dall’Unione Sovietica, a Norimberga il tribunale dei vincitori processa il nazismo. La

Germania finisce così per pagare per entrambi i totalitarismi, per tutti i grandi crimini del secolo.

Ma che tipo di storia si può praticare oggi, che la storia non sembra più ancorata al futuro? La risposta fornita da Michèle

Riot-Sarcey nel suo libro La prova della libertà è che occorre scavare.

Si tratta di una questione decisiva e di gran momento, niente affatto accademica, che parte dal rifiutare quel tipo di

continuità storica che, a posteriori, sceglie il passato a piacimento, ricostruendo percorsi di comodo; e si propone di farlo

anche nel caso in cui questa continuità sia quella del movimento socialista che, con le radici ben piantate nella Rivoluzione

francese, ha a lungo ricostruito la sua vicenda storica legandola a un avvenire immaginato come garantito e

necessariamente luminoso.

Ci serve una storia che vada alla ricerca degli avvenimenti scartati, dei percorsi che non hanno portato da nessuna parte,

delle scelte infelici, e soprattutto, dei vinti. Si tratta di andare alla ricerca di echi, di risonanze che permettano di ricostruire
un rapporto vitale tra passato e presente e di farlo attorno a un concetto, quello che il pensatore socialista Pierre Leurox

chiamava potere di agire.

Questo programma, l’autrice lo applica all’Ottocento francese, ricostruendo una vicenda lunga e complessa, al cui centro

viene posto con fermezza il 1848, con l’idea di proporre una letteratura altra del XX secolo per scorgervi tratti sfigurati della

contemporaneità, barlumi di presente.

L’autrice critica quella tendenza diffusa tra gli storici a prendere in prestito concetti delle altre scienze sociali, e la

conseguente resistenza a elaborare un patrimonio concettuale proprio. Vi è poi la sfida a inventare dei modi di fare storia

adeguati al presente e perciò rinnovati; una storia che non sia solo spiegazione a posteriori dell’accaduto o peggio una sua

legittimazione, che non scarti un avvenimento solo perché non sta in riga con gli altri, ma che sia invece aperta alle

mancanze.

La scommessa è di rompere con la continuità della spiegazione storica proprio come pittori quali Klee, Picasso e Kandinskij

hanno infranto la forma artistica reinterpretandola in altro modo.

L’autrice ci propone di attingere a un passato dimenticato, rimosso, frammentato, sotterraneo e di farlo al di fuori dello
schematismo di catene esplicative causali.

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Bersaglio preferito della critica dell’autrice è il pensiero teologico, quella visione progressiva che accomuna il pensiero

marxista mainstream e tanta parte della storiografia. Con accenti che ricordano le posizioni della microstoria, la studiosa

francese ha buon gioco a criticare una visione dell’evoluzione storica dominata da forze e processi impersonali, i cui attori

sono pedine più o meno inconsapevoli; una lettura storiografica totalizzante e onnicomprensiva che lascia poco spazio per

la diversità delle posizioni e il conflitto, per l’autonomia dei soggetti.

Nel contesto di uno sforzo teoreticamente così impegnato colpisce la mancata tematizzazione della questione della verità

storica. In una realtà dominata dai nuovi media e dai social vi è chi ha teorizzato una maniera “pirronista” di fare storia,

quella per cui ogni gruppo, partito, corrente ideale, ha il diritto di ricostruire la sua propria vicenda scegliendo à la carte dal

repertorio del passato.

Posti di fronte a un impegno teorico di questo genere, una discussione puramente scientifica rischia allora di non cogliere

il punto, mentre appare più coerente aderire all’atteggiamento proposto, che carica la ricerca storica di responsabilità civili

(e morali) non indifferenti, e ciò sia nell’esprimere elementi di consenso, sia nell’evidenziare motivi di dissenso.

L’autrice fa l’esempio dell’insurrezione di giugno del 1948 prestando attenzione alle voci dei protagonisti di una rivolta, che

voleva introdurre la sovranità popolare che tentava di invertire l’orientamento della Seconda Repubblica, giudicato

sfavorevole ai ceti popolari. Si organizzava in quei giorni quella che era allora chiamata la fratellanza repubblicana, che

proponeva mutualità, il salario fissato per legge e l’organizzazione collettiva dei lavoratori come garanzia della propria

completa liberazione.

La libertà, in sostanza, non era per quegli uomini solo un’idea, ma un processo sociale concreto, fatto di partecipazione e

di condivisione, qualcosa che non si ha, ma che si prende, si conquista.

Di più nel libro il lettore può trovare una ricostruzione minuziosa di queste idee attraverso un’indagine attenta della

pubblicistica d’epoca.

DOMANDA: qual è l’attore sociale che promuove la soggettività? Nel testo si usano tre termini: classe operaia, proletariato

e popolo.

Vi è oggi infatti, nella storiografia francese, una crescente attenzione e anche un recupero di Thompson che tuttavia risulta
abbastanza decontestualizzato. Thompson ai suoi tempi polemizzava con una tradizione olistica di grandissimo rilievo,

che aveva costruito un vero e proprio feticcio della classe operaia. Il suo libro ha a suo tempo suscitato un dibattito

importante nella storiografia anglosassone.

L’autrice non ha torto nel sostenere che ci sia un uso del termine fraternité che sfugge all’analisi tranchante di Marx, per il

quale essa sarebbe un passe-partout della prospettiva interclassista; ma dall’altro non ne deriva per questo che Marx

avesse completamente torto, nel senso che c’era anche quell’uso in circolazione.

In breve, non si da un unico significato intenzionalmente o meno delle parole che girano nell’arena pubblica, ma significati

plurimi e confliggenti. Tutto ciò ha naturalmente molto a che fare con il problema delle fonti usate.

Il problema è che, se da un canto la classe operaia è un termine che va ineluttabilmente decostruito, e per così dire

smontato, ancor di più questo smontaggio va fatto a proposito del termine “proletariato” e ancor di più quello di “popolo”.

Nel 1970 diversi storici all’interno del loro saggio, pongono l’attenzione al contadino francese che diviene il simbolo delle

virtù incontaminate, una tendenza che è parallela a quella di controllare, incasellare e reprimere.

Ora, se spostiamo l’attenzione dalle campagne al popolo urbano troviamo le stesse ambiguità e anzi maggiori; ed essa si
esprime nell’ideda delle classes laborieuses come opposte alle classes dangereuses. L’autore che usa come

contrapposizione è Frégier, un poliziotto che descrive l’operaio come onesto, buono, solidale e capace della devozione più

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sincera per il suo datore di lavoro. Descrive poi in contrapposizione il delinquente che invece è dedito alla depravazione

morale, al delitto e alla sedizione.

Tuttavia, queste due figure non sono contrapposte al punto di formare due popoli diversi in quanto nella realtà non sono

sufficientemente separate.

Gli operai a causa di una sorta di tirannia dell’abitudine frequentano gli stessi cabaret, le solite taverne e i medesimi bordelli

frequentati dai delinquenti ed accorrono anch’essi ai teatri dove i malfattori famosi sono esaltati in drammi divenuti celebri.

Il popolo, infine, è un soggetto politico astratto-concreto. Da questo punto di vista appare decisivo un evento = l’invasione

dell’Assemblea nazionale il 15 maggio del 1848, da parte di una folla armata guidata dai rappresentanti dei clubs.

Si tratta di uno di quelli episodi che, pur non citandolo, devono aver fatto venire in mente a Marx il tema della ripetizione

storica. Si tratta di un fatto costitutivo della tradizione rivoluzionaria, l’appello al popolo.

Veniamo qui a un punto fondamentale, alla tradizione radicale e al peso della memoria. L’autrice fa spesso riferimento

all’importanza del precedente rivoluzionario che spinge la gente all’azione ma lo fa citando soprattutto il 1789. La scelta di

far risaltare la costruzione ideale dell’autonomia operaia, che legano il 1848 non al 1789 ma al 1792 e poi all’opposizione

di sinistra a Termidoro, e quindi alle giornate di Germinale e di Pratile, a Gracco Babeuf e a Filippo Buonarroti.

Occorrerebbe riflettere sul fatto che nella storia del movimento non c’è stata solo la tradizione dell’internazionale socialista

marxiana. Poiché l’autrice prolunga fino alla Prima guerra mondiale, colpisce il silenzio sull’alternativa reale alla prassi

politica e alla filosofia della storia marxista che è esistita in tutt’Europa e anche in Francia. Si tratta del movimento anarchico

(al quale per Benigno dovrebbe essere fatto più spazio) che si è sviluppato lungo linee assai differenti da quelle autoritarie

su cui ha a lungo pesato la condizione di perdente, di sconfitto.

Per riflettere e far riflettere sul tramonto dell’utopia occorre indagare la malinconia di sinistra. Il tema è indagato da Enzo

Traverso in un libro ben scritto, intelligente e accattivante, erudito e insieme stimolante, che tocca nervi scoperti.

Al fine di indagare quella che viene spesso chiamata la crisi di sinistra, Traverso ricorre a uno stato d’animo, a quella sorta

di mestizia che una lunga tradizione ha chiamato melanconia: una perturbazione dell’anima, quel male dello spirito che

nella cultura barocca era considerata una “passione” dell’anima e che poi la psicanalisi ha visto come una delle
combinazioni possibili della dialettica tra io e super-io attorno al lutto (con il super-io che non accetta la perdita e attacca

l’io).

Su cosa sia esattamente questa perdita Traverso non traccheggia: essa è per lui ciò che chiama con chiarezza “l’estasi

rivoluzionaria” quell’azione spirituale in cui tutto diviene possibile. La prima cosa da notare è che Traverso si collega con

queste espressioni a un orientamento culturale sulla cresta dell’onda della cultura contemporanea, vale a dire lo

spostamento di attenzione degli elementi che una volta avremmo chiamato strutturali, quelli emotivi.

Questa evocazione emotiva si accompagna a un richiamo leggero, di taglio autobiografico. Esso è segnalato da indizi

precisi, come l’apparizione nell’introduzione dell’uso del “noi”.

Questo uso della prima persona plurale suggerisce e anzi impone un primo punto in discussione, vale a dire quello del

soggetto: chi prova questo sentimento, chi è malinconico? La risposta che l’autore da, è la sinistra: coloro che credono

nell’uguaglianza degli uomini. Nel corso delle pagine però, la definizione si precisa e spesso alla sinistra si sostituisce un

soggetto intellettuale più definito, ma non per questo molto più certo, il marxismo.

Una delle risposte possibili alla crisi attuale della sinistra potrebbe infatti consistere nella riscoperta dell’azione spontanea
di masse popolari che hanno agito fuori dell’alveo marxista, magari senza direzione teorica precisa, ma sulla base di

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un’esperienza di opposizione sociale e di resistenza politica non riconducibili al filone intellettuale cui si deve la costruzione

del socialismo reale.

Michèle Riot-Sarcey, a differenza di Traverso, pone esplicitamente la questione di come superare la teleologia costipante

di una certa tradizione marxista, e quindi del come fare storia al di fuori di essa.

Nel libro di Traverso l’attenzione alle forme artistiche è vivissima: con pagine dedicate ai dipinti e ai film trattano ad esempio

di Gustave Courbet autore di una meditazione addolorata sulla sconfitta delle rivoluzioni popolari, che rappresentano i

passaggi più affascinanti di un libro che cerca nelle forme estetiche una strada suggestiva ma ardua per seguire le tracce

della meditazione malinconica sul lutto di una rivoluzione sconfitta o mancata o deprivata di senso.

Attorno a questa questione del soggetto non si pone tuttavia solo la questione dell’emarginazione della tradizione della

sinistra non marxista ma anche quella della scelta di Traverso di privilegiare, la linea genealogica blanquista-leninista-

trockista rispetto a tutti gli altri marxismi. Accade così che il soggetto di cui parliamo è un po' come il cuore del carciofo,

quello che resta dopo che si sono tolte, e mangiate, le foglie.

In altre parole, la questione è che la sconfitta e la vittoria non sono state soltanto quell’esperienza unificata e polarizzata

che il libro ci propone, ovverosia in sostanza quella di una sinistra che perde e di un capitalismo che vince, ma invece

esperienze plurime di gruppi, fronti, schieramenti che si sono duramente combattuti e, non va dimenticato, scontrati senza

esclusione di colpi anche all’interno del campo progressista.

Ma c’è un altro schiacciamento intellettuale che la prospettiva di Traverso porta con sé, quello della riduzione della

ideologia marxista a una sorta di messianismo laico, nutrito del culto dei compagni caduti come martiri e costruito attraverso

l’imitazione delle pratiche cattoliche o cristiane di sacrificio di sé e di centralità della dimensione comunitaria,

Analizzando la diversità nei processi di rimemorazione da parte della tradizione marxista di un tempo rispetto a quelli in

atto oggi, Traverso segnala come ci sia stata finora scarsa attenzione a questi momenti di melanconia marxista passata:

ma era essa vera malinconia?

Giustamente Traverso chiama in causa su questo punto l’avvenuta riarticolazione dei rapporti tra passa, presente e futuro.

Ora non c’è dubbio che siamo in presenza di un nuovo sistema di temporalità ovvero di un diverso “regime di storicità”, ed
è altrettanto certo che la messa in crisi definitiva della capacità del socialismo reale di porsi come modello di una società

futura, di incarnare l’utopia abbia coinciso con una trasformazione profonda del senso della storia.

La svolta memoriale ha a che fare perciò non solo e non tanto con la vittoria della “rivoluzione conservatrice”, ma con un

mutamento di paradigma di cui ci sono tracce nello stesso libro di Traverso: in fondo, a ben vedere, questa insistenza

sull’esperienza, sulle emozioni, sull’estetica come costitutrice di codici di percezioni della realtà non segnala forse

un’adesione, del resto ineludibile, al nuovo lessico? Del resto, sia del vecchio sia del nuovo modo di guardare alla vicenda

umana, alla storia e al divenire, sono possibili letture diverse e alternative, alcune delle quali possono essere etichettate

come “di destra” e altre come “di sinistra”.

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