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Storia e globalizzazione

(15/02) “Storia” e “globalizzazione” sono due termini che richiamano un legame tra presente e passato.
Con “globalizzazione” s’intende la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree
del mondo. Il termine inizia ad entrare in uso negli anni ‘90, quando era appena scomparso l’ordine internazionale
precedente basato sulla Guerra fredda, sulla contrapposizione bipolare tra USA, a egemonia capitalista, e Unione
Sovietica, a egemonia comunista. Quando la Guerra fredda finisce, dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 e
con il crollo dell’Urss nel 1991, si inizia ad imporre la globalizzazione.
Il termine globalizzazione ha diverse accezioni. Si può insistere su:
1. il versante sovranazionale, se si considera il modo in cui la sovranità degli stati nazionali è condizionata
dagli organismi sovranazionali;
2. l’aspetto economico, se si guarda al ruolo delle imprese multinazionali e al fenomeno della
delocalizzazione di medie e piccole aziende a causa di minori costi di produzione e di manodopera;
3. il versante culturale, per quanto riguarda il multiculturalismo, il fondamentalismo e la diffusione delle
nuove tecnologie.
Nell’epoca della globalizzazione la dimensione globale entra in quella locale. Ciò non vuol dire che si eliminino
le differenze, ma solo che si stabiliscono delle interazioni sia conflittuali sia sinergiche.

La globalizzazione nasce tra fine 1800 e inizio 1900, quando avviene una rivoluzione degli spazi e del tempo,
cambiando così la nostra percezione di essi grazie all’introduzione di nuove tecnologie. Per esempio, i viaggi
transoceanici vengono cambiati grazie alle navi a vapore: nel 1838 ci fu una delle prime traversate con una nave a
vapore, diminuendo il tempo di navigazione drasticamente. Nel frattempo, si stavano anche sviluppando i trasporti
ferroviari, che portavano le merci ai porti più velocemente. Questo causa anche un aumento degli spostamenti
delle persone: l’Europa, che aveva della manodopera in eccedenza, inizia a trasferirla verso le Americhe. Le stesse
dinamiche si registrano anche nel Sud-est asiatico: gli indiani migrano verso il sud Africa e l’Africa orientale
favorendo il colonialismo inglese, mentre i cinesi migravano verso il Sud-est asiatico e, insieme ai giapponesi,
verso l’Australia e le Americhe. In questo periodo si parla di fase di pre-globalizzazione, in cui i diversi continenti
iniziano a mettersi in contatto tra loro.
Anche le comunicazioni telegrafiche migliorano: si sviluppa a inizio 1900 il telegrafo senza fili, che trasmette
testi tramite le onde radio. Per esempio, nel 1912, grazie a questo strumento, molti riuscirono a seguire la tragedia
del Titanic in diretta. Due anni dopo, nel 1914, scoppia la Prima Guerra Mondiale. Il filosofo Paul Ricouer
definisce questa guerra come il “suicidio politico dell’Europa”, in quanto viene combattuta soprattutto sul
suolo europeo, indebolendolo al di là di vincitori o vinti, mentre emergevano potenze extraeuropee come gli USA e
il Giappone, e perché lo sconvolgimento portato dalla guerra portò alla crisi dei sistemi politici che portarono
all’affermazione dei totalitarismi sia di destra sia di sinistra. Questi modelli politici autoritari avevano in
comune la negazione della tradizione liberal-democratica che si era sviluppata in Europa alla fine del 1700 con
le grandi rivoluzioni. Una delle principali opere pubblicate in quel periodo si chiama Il tramonto dell’Occidente di
Oswald Spengler, in cui l’autore si poneva la questione del futuro della società euro-occidentale che sembrava aver
concluso la sua parabola ascendente.
Un’altra dura prova caratterizzò il contesto europeo: la crisi economica degli anni ‘30, iniziata con il crollo della
borsa di Wall Street nel 1929, che si propagò negli anni successivi e condizionò gli Stati per tutti gli anni ‘30. Gli
Stati si ripresero solo alla fine degli anni ‘30, quasi in concomitanza con l'inizio della Seconda Guerra Mondiale.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale inizia anche il processo di decolonizzazione, facendo emergere anche i Paesi
africani e asiatici nella scena mondiale. Nel 1945 nasce l’ONU che aveva tra i suoi principi quello di favorire
l’autonomia e l’autodeterminazione dei popoli. Si inizia a parlare di un terzo mondo: il primo e il secondo erano
quello capitalista e quello comunista, mentre il terzo erano i Paesi che avevano appena acquistato l’indipendenza
e che cercavano la propria via allo sviluppo. Nel 1955 avviene la conferenza di Bandung, in Indonesia, in cui
Paesi africani si riuniscono per decidere come pesare a livello mondiale. La decolonizzazione viene definita da
Francesco Romeo come il più importante fenomeno dell’età contemporanea.
I giovani del Sessantotto rappresentano la prima generazione che si pensava in maniera globale al di là dei
confini nazionali. Hannah Arendt afferma che quella del ‘68 è la prima generazione cresciuta all’ombra della
bomba atomica: crescono infatti nel contesto della Guerra fredda, in cui gli USA e l’Urss sviluppano in maniera
incessante degli armamenti atomici che, se fossero stati utilizzati, avrebbero comportato l’annientamento del genere
umano. La generazione del ‘68 sviluppa una critica radicale che è altrettanto globale: è un intero modello di
sviluppo che va abbandonato, bisogna cercare un’alternativa alle strutture della modernità e scoprire una nuova
coscienza ecologica di fronte a un modello di sviluppo basato sull’uso della tecnologia a fini della potenza. Agli
occhi della generazione del ‘68 non c’era differenza tra le due fazioni comunista e capitalista, perché entrambe
basavano il loro potere su una forza militare schiacciante. La novità è la riflessione sul futuro del pianeta. Il
Sessantotto è caratterizzato da un'intensa carica utopica, anche criticando e rifiutando il passato, da cui parte anche
la contestazione delle generazioni precedenti che non avevano impedito gli avvenimenti del passato. Il Sessantotto
aveva elementi profondi di critica dell’esistente, ma mostrava anche atteggiamenti superficiali, come
l’accomunazione di mondo capitalista e comunista portava all’avere nuovi miti rivoluzionari, come la Cina di
Mao Zedong e la Cuba di Fidel Castro e di Che Guevara, che era morto l’anno precedente, quindi il suo mito era
molto vivo. La generazione del ‘68 è una generazione che tenta una risposta globale portata da un modello di
sviluppo distorto.
In quegli anni ha un peso rilevante la guerra del Vietnam, che ha un impatto simbolico globale. Importante è la
mobilitazione contro la guerra che unificò la contestazione giovanile che attraversava tutto il mondo e
assumendo forme diverse da Paese a Paese. La guerra del Vietnam fu la prima guerra ad essere trasmessa in
televisione. Era una guerra che univa diversi fattori: da una parte era riconducibile alla contrapposizione tra est
e ovest, in quanto il Vietnam del Nord era sostenuto dal mondo comunista, mentre il Vietnam del Sud dagli
occidentali, ma fu anche vissuta come una guerra di liberazione di un Paese del terzo mondo contro un Paese
potente. Ciò aprì una grande crisi nella società americana. Come tutti i fenomeni mediatici, nascondeva però
anche degli elementi di superficialità: dopo il ritiro americano i riflettori si spensero sul Vietnam e nessuno si
occupò di questo Paese che affrontò anche in seguito problemi notevoli.
I trent'anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale in Europa furono un periodo di ripresa per le economie
che erano state duramente provate. Fu periodo di crescita anche dei sistemi di welfare. Si parla di un trentennio
glorioso che va da metà degli anni ‘40 a metà degli anni ‘70. La democrazia e lo sviluppo sociale ed economico
riuscirono a crescere insieme, ma fu una parentesi breve che si concluse con la crisi economica degli anni ‘70, che
portò a un cambiamento profondo anche del sistema capitalistico. Se negli anni gloriosi si era tentato di tenere
insieme i temi dello sviluppo e della giustizia sociale, a partire dagli anni ‘70 cambia il paradigma dello sviluppo
capitalistico e il progetto socialdemocratico viene soppiantato. Si ha invece lo sviluppo di politiche neoliberali, il
liberismo economico, che porta a un arretramento delle politiche pubbliche. Gli Stati fanno un passo indietro
rispetto al regolamento di economia e società e si dà campo libero al mercato. È in questa fase che cominciano a
svilupparsi i processi di globalizzazione che avranno un’accelerazione ulteriore dopo il crollo di muro di Berlino e
la fine dell’Urss. Da quel momento la dimensione economico-finanziaria prese sopravvento rispetto alla
dimensione politica fino a minare il concetto stesso di sovranità nazionale: gli Stati contano sempre meno
rispetto alle dinamiche economiche sovranazionali.

La globalizzazione incontra una grande crisi nel 2008 con la crisi finanziaria che dura per dieci anni. Indicata come
la prima crisi dell’era globale, è una crisi che ha indebolito fortemente i sistemi di protezione sociale e ha
portato alla nascita dei left-behind, una parte dei lavoratori che hanno avuto crescenti difficoltà economiche, un
aumento conseguente delle disuguaglianze sociali e a una crisi della democrazia. Lo scenario attuale è uno
scenario in cui nel dibattito politico si tenta di tornare a parlare dell’importanza di diritti sociali e dell'importanza
che lo Stato garantisca un sistema di welfare adeguato.
(16/02) La storia non è da imparare a memoria, sotto forma di lunghi elenchi di date ed eventi; la storia va invece
interpretata: i processi storici vanno interpretati.
Uno degli strumenti attraverso il quale “leggere” i processi storici è la periodizzazione. Periodizzare significa
ritagliare sulla retta del tempo un segmento, più o meno esteso, delimitato da una data iniziale e da una data
finale. Naturalmente la scelta di questi estremi va giustificata e può variare a seconda delle interpretazioni che si
danno ai fenomeni storici.
Da un punto di vista cronologico, il XX secolo inizia nell’anno 1900 e termina nell’anno 1999. In questi 1000 anni
abbiamo un lunghissimo elenco di date ed eventi. Ma, provando a sollevarci al di sopra della marea di dettagli e di
nozioni, possiamo chiederci che significato ha avuto il Novecento e qual è il suo bilancio.
Le più accreditate interpretazioni del Novecento ci restituiscono, di volta in volta, l’immagine di un secolo “breve”
o di un secolo “lungo”. Si tratta di periodizzazioni diverse, ma accomunate dal fatto che delineano un secolo che
quasi mai coincide perfettamente con l’andamento cronologico che dal 1900 ci porta al 1999. La
periodizzazione, in altre parole, supera la cronologia; è un livello ulteriore, più complesso, dello studio della storia.

L’analisi delle radici storiche della globalizzazione ci restituisce un’immagine del Novecento come “secolo della
globalizzazione” (Agostino Giovagnoli, Storia e globalizzazione). Un secolo lungo il quale, cioè, possiamo
individuare una serie di fenomeni e trasformazioni che preparano e spiegano gli scenari odierni. Tale
interpretazione del Novecento è differente da altre che sono state formulate in precedenza proprio perché risente ed
è guidata dalle domande che scaturiscono dal presente. A conferma del legame ineliminabile tra presente e passato,
che veniva richiamato all’inizio, e del fatto che la storia non è separabile dalla sua interpretazione.

Un’interpretazione più classica e consolidata del XX secolo descrive il Novecento come secolo dei totalitarismi.
L’espressione affermatasi nel dibattito storiografico è il “secolo di Auschwitz”, a rimarcare come l’esito estremo
del fenomeno totalitario sia stato il lager, e, nel caso dell’Urss, il gulag.
Spesso è importante partire dai termini, dal loro uso e dai loro significati. La storia del termine totalitarismo è
particolarmente interessante. Tra i primi a usare questa parola c’è Benito Mussolini, il duce del fascismo, che la
impiegò fin dai primi anni Venti attribuendole, dal suo punto di vista, un’accezione positiva. Lo Stato totalitario
era lo Stato capace di organizzare e controllare la società in tutte le sue articolazioni. Nell’ambito degli studi
storici il termine entrò più tardi, soprattutto grazie a un’opera fondamentale di Hannah Arendt, che nel 1951
pubblicò il suo libro Le origini del totalitarismo. L’idea di scrivere questo lavoro venne alla Arendt nel 1943, sotto
la forte impressione suscitata dalle notizie sempre più certe che arrivavano negli Stati Uniti circa lo sterminio degli
ebrei ad opera dei nazisti. Hannah Arendt collocò le origini del totalitarismo nella degenerazione dell’idea di
nazione avviata in Europa dalla svolta imperialista di fine Ottocento: nazionalismi sempre più sfrenati e
aggressivi, diffusione del razzismo e dell’antisemitismo, invenzione delle prime forme di campi di
concentramento. La degenerazione dello Stato-nazione nell’ultimo quarto del XIX secolo e il collegamento tra
imperialismo e totalitarismo delineano un’interpretazione complessiva del Novecento come secolo lungo, che
scaturisce da alcuni tratti caratterizzanti della fase finale del secolo precedente.
Dopo aver iniziato a pubblicare la sua analisi del totalitarismo nazista, Arendt fu indotta a estendere la sua
attenzione al sistema sovietico, colpita dalle notizie che, verso la fine degli anni Quaranta, cominciarono a
circolare sui processi staliniani e su prigioni, sistemi di deportazione, campi di detenzione utilizzati in Unione
Sovietica. Arendt ritenne possibile proporre una comparazione tra nazismo e stalinismo, applicando anche al
mondo sovietico la categoria del totalitarismo. Tale comparazione riguardò la presenza massiccia di campi di
concentramento e di sterminio, l’uso sistematico della violenza e del terrore, le funzioni di controllo assunte dalla
polizia e dai corpi speciali, la gestione centralizzata dell’intera economia. La somiglianza tra nazismo e comunismo
andava cercata anche nella presenza di ideologie totalitarie che pretendevano di abbracciare e di regolare in maniera
ferrea tutti i campi dell’esistenza umana e nel ruolo di un partito unico di massa guidato da un capo e organizzato
gerarchicamente; un partito che si impadroniva dello Stato, controllando e monopolizzando gli organi di stampa e
tutti gli altri mezzi di comunicazione.
Il fenomeno totalitario non si comprende senza la presenza delle masse e di ideologie di massa. Inteso in questi
termini, il totalitarismo rappresenta una novità assoluta del XX secolo, perché si fonda sulla mobilitazione
dall’alto delle masse.
Proprio per questo il termine ideologia va definito con attenzione. L’ideologia (dal greco, la logica di un’idea) è
l’idea che si fa sistema e che dà una propria lettura della società e della storia; l’ideologia totalitaria pretende
di modellare la società e la storia. Tratto comune ai totalitarismi è il trionfo della volontà politica, la politica che
si sente onnipotente e pretende di plasmare la società secondo i dettami della propria ideologia, senza scrupoli verso
l’esistente.

Poiché nella lettura della Arendt uno degli elementi essenziali dello Stato totalitario sono i campi di
concentramento, ecco che secondo lei mentre nazismo e comunismo sovietico sono totalitari, il fascismo italiano
non lo è. Secondo Arendt, il fascismo era stato un regime autoritario, ma non totalitario.
Al contrario, il principale storico del fascismo italiano, Emilio Gentile, con un libro del 1995, La via italiana al
totalitarismo, ha voluto sottolineare le premesse e le spinte totalitarie del fascismo.
Indubbiamente, la via italiana al totalitarismo fu meno compiuta rispetto al regime nazista e a quello
comunista sovietico. Per via del fatto che il fascismo dovette fare i conti, per così dire, con altre due
istituzioni molto influenti: la monarchia e la Chiesa cattolica. A causa della presenza della monarchia, il
fascismo non riuscì mai ad avere un pieno e incondizionato controllo delle forze armate, dell’esercito, che
rispondevano in primo luogo al re. Mentre la Chiesa, nonostante il Concordato del 1929 con il quale scese a patti
con il regime, rimaneva comunque un concorrente insidioso per quanto riguardava il controllo delle mentalità.
Anche al nazismo occorse tempo per imporsi sulla burocrazia e sull’esercito, due istituzioni di vecchia tradizione
prussiana e bismarckiana. Ma, infine, Hitler e il Partito nazista riuscirono ad assumere il controllo di tutti i gangli
del governo e delle forze armate.
Da questo punto di vista, ebbe meno problemi il Partito comunista sovietico (Pcus) che aveva conquistato il potere
per via rivoluzionaria, in un paese, la Russia, uscito devastato dalla Prima guerra mondiale, e aveva così potuto
“resettare” tutte le strutture statali. Il Pcus, dopo aver sconfitto le forze “controrivoluzionarie”, rimase da solo al
centro del sistema.

Le interpretazioni del Novecento hanno descritto, a seconda delle diverse periodizzazioni adottate, sia un secolo
“lungo”, come nel caso del “secolo della globalizzazione” e del “secolo dei totalitarismi”, sia un secolo “breve”.
In quest’ultimo caso, l’inizio del Novecento si fa coincidere con la cesura della Prima guerra mondiale (1914-1918)
e con alcuni eventi concomitanti: la Rivoluzione russa e l’intervento in guerra degli Stati Uniti, entrambi nel 1917.
Volendo dare centralità al fenomeno comunista, è possibile delineare un “secolo breve” che inizia nel 1917 e
termina nel 1989-1991, con il crollo del muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica. Paladino di questa
periodizzazione è stato lo storico marxista Eric Hobsbawm, che ha sempre rifiutato la categoria di totalitarismo e,
dunque, la comparazione tra comunismo e nazismo suggerita da Hannah Arendt.
Inizia nel 1917 anche il “secolo degli Stati Uniti”, in concomitanza con l’ingresso in guerra degli USA al fianco
dell’Intesa e con l’arrivo, per la prima volta nella storia, di soldati americani in Europa, a simboleggiare una
crescente influenza americana sul Vecchio continente. Ma già la futurologia di inizio Novecento (le previsioni
del futuro che scrittori, artisti, intellettuali facevano all’inizio del XX secolo) prefigurava un passaggio di
leadership dall’Europa agli Stati Uniti. Di “secolo americano” parlava la stampa di fine Ottocento e inizio
Novecento, cominciando a ipotizzare una “americanizzazione del mondo". L’americanizzazione dell’Europa
occidentale sarebbe avvenuta, a tutti gli effetti, dopo la Seconda guerra mondiale, tra il 1945 e la fine degli anni
Sessanta.

La storica Mariuccia Salvati ha suggerito l’importanza di fare una comparazione tra i due passaggi di secolo; tale
comparazione, infatti, avrebbe permesso di delineare più consapevolmente un bilancio del Novecento. Alle soglie
del XX secolo, il Novecento appariva ai più inscritto in una previsione di crescente e inarrestabile estensione dei
benefici del progresso a masse sempre più vaste di uomini e donne. Mentre l’inizio del XXI secolo ha portato con
sé non la speranza del meglio ma il timore del peggio.
Cosa è cambiato? Il fatto è che l’idea di progresso propria del Positivismo ottocentesco si infrange contro la
Prima guerra mondiale. Nell’immane massacro della Grande Guerra, primo conflitto industriale e tecnologico
della storia, il progresso tecnico-scientifico si ritorce contro l’umanità. Un luogo simboleggia tutto questo: Verdun.
La battaglia di Verdun, che prende il nome da una cittadina fortificata che si trova nella regione della Lorena, durò
dal febbraio al dicembre 1916 e vi persero la vita 700 mila uomini, tra francesi e tedeschi. I due eserciti si
fronteggiarono per mesi senza riuscire a ottenere vittorie decisive. Tuttavia si può dire che quella carneficina
cambiò il mondo a venire, perché a Verdun la guerra cominciò a iniettare il suo veleno nella storia con particolare
ferocia. Fin dalla sua prima fase, insomma, il XX secolo si presenta come estremamente cupo e distruttivo,
dimostrando nei suoi sviluppi successivi come sia facile per l’umanità avvicinarsi alla propria fine: lager, gulag,
bomba atomica.

L’inizio del Novecento è segnato dall’accesso al palcoscenico della storia da parte di masse sempre più estese di
cittadini. Tra la fine dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale, infatti, quasi tutti i paesi dell’Europa
occidentale approvarono leggi che allargavano il corpo elettorale fino a comprendervi la totalità o la
stragrande maggioranza dei cittadini maschi maggiorenni, mentre prima di allora il diritto di voto era limitato a
una porzione ristretta di maschi adulti, scelti in base al censo e all’istruzione. Questa notevole dilatazione della
partecipazione politica a nuovi soggetti sociali aveva cominciato a prefigurare il progressivo passaggio dallo
Stato liberale alla democrazia di massa.
Tuttavia, tra il 1914 e il 1918, tale processo, che avrebbe richiesto una graduale alfabetizzazione democratica dei
nuovi elettori, subì un'accelerazione traumatica. In molti casi, i ceti popolari, specie quelli provenienti dalle
campagne, cominciarono a entrare nella politica, a conoscere la politica e ad appassionarsi ad essa attraverso la
guerra, con il suo carico di sofferenze ma anche di speranze palingenetiche: pensiamo alla rivoluzione russa
dell’ottobre 1917.

Si trattò in ogni caso di una forma “patologica” di democratizzazione (François Furet, Il passato di un’illusione.
L’idea comunista nel XX secolo), proprio perché legata al clima della guerra, profondamente segnato dalla
militarizzazione, dai rapporti gerarchici di comando e subordinazione, e da molteplici contrapposizioni: a
quella tra “amici” e “nemici” sul fronte militare, si aggiungevano in seno alla società crescenti fratture e divisioni,
che fecero emergere contrapposti miti rivoluzionari sia a sinistra che a destra: ai loro esordi, fascismo e nazismo si
presentarono come movimenti rivoluzionari.
Le istanze democratiche faticano a tradursi in forme stabili di democrazia rappresentativa, democrazia
parlamentare. Possiamo concludere che gli equilibri della democrazia rappresentativa sono delicati, fragili (lo
vediamo ancora oggi con l’emergere di forme di populismo) e per consolidarsi necessitano di tempi distesi, di una
maturazione del sistema politico, di una graduale alfabetizzazione democratica della cittadinanza.

È opinione comune che la Grande Guerra rappresenti la cifra simbolica del Novecento.
Se da un lato, in una concatenazione causale degli eventi, la guerra può essere ricondotta alle trasformazioni
tecnologiche, alle rivalità per il controllo dei mercati, ai conflitti tra i vari nazionalismi e alle spinte imperialistiche,
dall’altro l’evento guerra scatena delle conseguenze impreviste da quelle stesse concatenazioni causali.
Per comprendere gli effetti della Grande Guerra bisogna cioè ragionare sul concetto di “evento”: la guerra del 1914
è un tipico esempio di evento in cui gli attori della storia non prevedono le conseguenze delle loro azioni. In
questo senso la Prima guerra mondiale non è contenuta nelle sue cause, è un evento che crea una situazione nuova.

Una lettura complementare rispetto a quella di un secolo cupo e distruttivo ci restituisce l’immagine positiva del
Novecento come secolo socialdemocratico.
Il riferimento è, in particolare, al “trentennio glorioso” post-1945, dove si afferma il progetto socialdemocratico
di conciliare sviluppo capitalistico e giustizia sociale, nella consapevolezza che lasciare a briglie sciolte il
capitalismo avrebbe provocato problemi di sostenibilità ed equità sociale.
Da qui gli investimenti nel welfare: su sanità, istruzione, protezione ambientale, recupero delle città, per arginare
gli eccessi del capitalismo attraverso lo strumento dell’intervento pubblico; strumento che, però, negli ultimi
decenni del secolo ha incontrato nuove difficoltà a causa dei processi di internazionalizzazione dell’economia.
La liquidazione dello strumento statale da parte dell’economia globale ha posto e sta ponendo problemi enormi in
termini di crescita delle diseguaglianze sociali.
Metodologia e storiografia
(17/02) L’eurocentrismo è il pensiero secondo cui l’Europa ha un ruolo centrale di primato nella storia del
mondo. Ci sono tre tappe principali: la scoperta dell’America, la divergenza alla fine del 1700 tra l’economia
europea e le economie asiatiche, la storiografia moderna.
Con il termine storiografia s’intende l’insieme degli studi storici, degli articoli, dei saggi, ecc che si scrivono
sulla storia. La storiografia occidentale moderna nasce tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800.

Il 1492 è la data che separa il Medioevo dall’età moderna nella tradizione europea di studi storici. Il 1789,
l’anno della Rivoluzione francese, è invece la data che convenzionalmente separa l’età moderna da quella
contemporanea, mentre avviene la Rivoluzione industriale in Inghilterra. Questi sono eventi che gli europei
considerano spartiacque tra le epoche, ma che in realtà hanno un significato inferiore nella storia di altri continenti.
Questo aspetto non interessò per lungo tempo agli storici europei, che vedevano la storia mondiale come un riflesso
della storia europea.
Nella seconda metà del secolo scorso, con la decolonizzazione, questo modo di vedere la storia cambia. In questo
momento anche le tradizioni storiografiche del terzo mondo prendono voce. Certe date fondamentali nella
tradizione europea non lo sono altrettanto in altre parti del mondo.

Nel 1492, con la scoperta europea dell’America si crea un sistema di scambi transoceanici, così importante
che alcuni studiosi parlano di un sistema mondo. Inizialmente il nucleo forte è la Penisola iberica. Tra il XVII e
il XVIII secolo, questo nucleo forte europeo diventa anglo-franco-olandese. Il 1492 induce la sensazione che la
modernità sia solo una virtù europea, ma se decentrare lo sguardo e ci concentriamo non solo sulle rotte atlantiche,
ma, per esempio, sui mari del Sud-est asiatico, in quello stesso secolo, la Cina fu protagonista di flussi umani ed
economici notevolissimi con una proiezione extraregionale transoceanica di dimensioni maggiori rispetto a
quella europea. Quella europea fu una delle espansioni. La flotta imperiale cinese nei primi decenni del 1400 era
dotata dei più grandi velieri che permisero ai cinesi delle traversate oceaniche impressionati: si spinsero a nord fino
alla penisola della Kamchatka e verso ovest nell’Oceano indiano fino ad arrivare in Medio oriente, nel Mar rosso,
sulle coste dell’Africa orientale e doppiarono il Capo di Buona speranza. La Cina, in virtù di questi viaggi così
lunghi, si giudicava a sua volta il centro del mondo in quel periodo. Diversi studiosi hanno ipotizzato che le navi
cinesi arrivarono nel 1421 anche a toccare le coste americane passando dal Pacifico, giungendo sulle coste del Cile.
Questa però è un’ipotesi non confermata perché gli archivi della flotta imperiale cinese furono distrutti nel 1600.
Sono comunque ipotesi piuttosto improbabili perché la distanza che avrebbero dovuto coprire per il Pacifico dalla
Cina fino a quelle americane sono impressionanti (circa 20.000 km), mentre le imbarcazioni europee coprivano
distanze di circa 3.000 km. In questo sistema di scambi transoceanici l’entrata dell’America si deve più
probabilmente agli europei, che ne sviluppano al massimo i commerci.
Nella storia cinese di quel periodo abbiamo il 1433, quando l’élite cinese è costretta a cambiare politica, a
disinvestire sul versante dei viaggi transoceanici e a concentrarli sulla difesa militare del confine
settentrionale perché è sottoposta a un attacco dell’esercito mongolo. Gli storici ritengono che questa sia la
ragione che portò a un rallentamento dello sforzo cinese nei viaggi via mare. Abbiamo quindi una supremazia
occidentale legata però solo a circostanze storiche.

Lo storico Kenneth Pomeranz nel suo libro La grande divergenza. La Cina, l’Europa e la nascita dell’economia
mondiale moderna. si vede come gli studi sono basati sulle acquisizioni della storiografia cinese. Afferma che sotto
il profilo degli indicatori economici fondamentali, ovvero densità di popolazione, tecniche agricole, attività
proto-industriali, diffusione della moneta, consumi, speranza di vita, non esistevano differenze apprezzabili
tra le zone più evolute dell’Asia, cioè Shanghai, la regione cantonese, Osaka e Kyoto, e la pianura bengalese in
India, e dell’Europa, cioè Gran Bretagna e Germania.
La grande divergenza che porta al decollo europeo rispetto alle economie asiatiche si produce nei decenni
successivi, quando in Gran Bretagna nasce l’economia industriale. Questo avviene prima in Europa solo per
motivi accidentali, non riconducibili a fattori ascrivibili alla superiorità europea rispetto alle popolazioni asiatiche, i
quali sono la presenza in Gran Bretagna di combustibile fossile per alimentare le macchine a vapore, e il fatto
che le potenze europee potevano contare sulle risorse agricole offerte dalle Americhe, che venivano realizzate
con un uso massiccio di schiavi. Questa divergenza è qualcosa di nuovo e imprevedibile, non necessario; è un
fenomeno storicamente determinato e non eterno. Questa divergenza ha iniziato a chiudersi alla fine del 1900:
negli ultimi quarant’anni la globalizzazione di molti servizi e la delocalizzazione della produzione manifatturiera
hanno dislocato quote crescenti di attività economiche nell’asia meridionale e orientale. Nel 2010 la Cina è
diventata il maggior paese industriale, togliendo il primato agli Usa.

La storiografia occidentale moderna nasce tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800, quando si sta producendo la
grande divergenza tra Europa e il resto del mondo, in un clima culturale caratterizzato dall’Illuminismo.
Possiamo considerare naturale che il modo di guardare al passato degli storici di quel periodo fosse condizionato da
un presente che vedeva l'Europa primeggiare nel mondo, percepito come un naturale percorso di ascesa europea che
ha inizio nel 1492. La storiografia moderna ha due caratteristiche: l’approccio eurocentrico e l'interesse
prevalente per l'idea di nazione, che nasce in quei decenni a partire dalla Rivoluzione francese. L’idea di nazione
non è sempre esistita: la nazione intesa come compatta comunità con destino comune ha come prerequisito
l'uguaglianza giuridica, che viene introdotta dalla Rivoluzione francese.
Avviene quindi una svolta spaziale perché si intrecciano la storia locale e quella globale. Alla world history non
interessa la dimensione degli stati-nazione, ma una dimensione più fluida, senza confini. Questo approccio è
stato definito con il neologismo glocal. Un altro aspetto è quello degli scambi tra aree del mondo diverse: la
world history punta l’attenzione sui processi che innescano le interazioni di diversi gruppi umani, come i flussi
migratori, le fluttuazioni economiche su vasta scala, la diffusione di innovazioni tecnologiche, gli scambi
commerciali sulla lunga distanza, la circolazione di fedi religiose e la propagazione di malattie infettive. La
dimensione spaziale che interessa alla world history è una dimensione mobile, che si può rappresentare con la
metafora della rete, con la sua pluralità di nodi e di scambi. La world history si occupa di spazi che attraversano
trasversalmente i confini politici tradizionali, che variano a seconda del fenomeno storico che vogliamo
approfondire.
Alcuni studiosi preferiscono usare il termine storia trans-nazionale, che pone in maniera più incisiva l’accento
sui processi concernenti il movimento. Un’altra espressione è quella di global history, che pone al centro i
meccanismi economici della globalizzazione, gli scambi di beni e servizi, e la circolazione di modelli di
produzione e consumo. C’è il comune desiderio di superare la categoria di stato-nazione e l’approccio eurocentrico.
Questi approcci esprimono l’esigenza di considerare una pluralità di storie, approfondendo le modalità di intreccio.
L’obiettivo è costruire una storia policentrica.

Le biografie
Con il termine global lives si intendono i percorsi di vita che hanno una vocazione all’attraversamento di
frontiere. Per esempio, una categoria di persone è quella degli esuli politici: militanti politici, capi di partito,
uomini di cultura che devono fuggire dal proprio Paese per, per esempio, evitare la dittatura.
Camillo Berneri, l’intellettuale anarchico italiano più raffinato del 1900, in alcuni suoi appunti, scritti durante
l’esilio in Francia dopo che il fascismo prende il potere, scrive che l’esilio era stato sì un’esperienza di
costrizione che gli permise di esprimersi liberamente, ma era stata anche un’opportunità di scoperta, perché
nella Parigi degli anni ‘30 aveva potuto conoscere una dimensione culturale che altrimenti gli sarebbe
rimasta estranea.
In questo modo si ritorna alla concretezza del vissuto e delle scelte, che avvicina le biografie al nostro sentire.
Importantissime sono le fonti, come i diari, in cui l’autore non è condizionato da considerazioni di opportunità, le
memorie, cioè appunti presi a distanza di tempo, gli epistolari o carteggi, gli scambi di lettere. Le fonti
autonarrative non sono facilmente decifrabili: sia per la grafia, sia per i termini che non sempre sono riconoscibili
da un esterno. Gli storici italiani sono arrivati piuttosto tardi a interessarci di biografie, perché si privilegiava lo
studio delle organizzazioni di massa. Accanto alle visioni di insieme dobbiamo dare importanza anche a tutto ciò
che muove gli attori della storia. Non bisogna solo pensare alle biografie dei grandi della storia, ma bisogna dare
dignità anche ai protagonisti secondari della storia. Il materiale di studio della storia sono soprattutto le
persone, considerate come singoli individui e nel loro agire all’interno di aggregazioni più grandi. Non si può
fare storia solo attraverso le biografie, ma bisogna costruire un contesto storico preciso e seguire in maniera attenta
il percorso biografico.
Le singole vite molto spesso non si piegano alle ideologie. Una vita è piena di contraddizioni che non concordano
con le sintesi politiche e ideologiche. Ogni vita è un processo continuo di scambi interpersonali e tra diverse scale
spaziali, dalla dimensione locale a quella internazionale. Queste contaminazioni vanno a sfidare i modelli
predefiniti. Questa complessità è la materia di studio del metodo biografico. I temi che emergono studiando una
biografia sono la famiglia, le reti amicali e l’attività pubblica. La biografia unisce la dimensione pubblica e
quella privata. Fondamentale è la storia delle donne, che ha portato maggiore attenzione verso le biografie a
partire dagli anni ‘70 del secolo scorso, in cui si sviluppa il movimento femminista con la rivendicazione dei dirtti
delle donne, tra cui quella del proprio corpo, da cui l’attenzione al percorso buografico. Lo studio delle biografie
riempie anche un grande vuoto storico, perché la storia spesso è fatta al maschile. Attraverso il metodo biografico
è possibile arrivare a un rinnovamento degli studi storici.

La public history è la storia per il pubblico. È lo sforzo da parte degli studi storici di uscire dall’ambito
accademico e specialistico grazie alla divulgazione storica. Nasce negli Usa negli anni ‘70; si nutre delle
distanze che nascono in quegli anni dalla storia delle donne, dalla storia sociale e dedica grande attenzione alle
biografie. Ha stabilito un'alleanza con la dimensione digitale per rendere la storia più fruibile. Le biografie
interessano la public history perché danno concretezza alla storia, la fanno avvicinare al pubblico. Una biografia
consente di approfondire un determinato contesto storico aggiungendo elementi. Ogni vita e luogo che queste
biografie attraversano sono come degli spazi aperti influenzati da processi continui di relazioni personali e
trans-locali.
L’intellettuale Piero Gobetti invitava la sua generazione a interrogarsi sulla propria autobiografia come se si
trovassero di fronte a un problema da risolvere. Questo può essere, secondo lui, un approccio libero e
antidogmatico della storia.
Le Rivoluzioni americana e francese
La Rivoluzione americana
(22/02) La Rivoluzione americana può essere considerata un’accelerazione della storia, la prima delle grandi
trasformazioni di segno democratico che hanno modellato la storia contemporanea. Con democrazia s’intende il
governo del popolo, un concetto presente nella teoria politica fin dall’antichità ma legato solamente alla sfera
filosofica, a un linguaggio dotto ed elitario. Con l’età contemporanea e le due grandi rivoluzioni di fine 1700,
quella americana e quella francese, democrazia diventa un termine davvero popolare, legato a una battaglia politica,
alla rivelazione concreta di diritti da parte di masse sempre più ampie.

Durante la Rivoluzione americana, le tredici colonie appartenenti alla Gran Bretagna (New Hampshire,
Massachusetts, Connecticut, Rhode Island, New York, Pennsylvania, New Jersey, Delaware, Maryland,
Virginia, Carolina del Nord e del Sud, Georgia) si trasformano in uno stato indipendente, gli Stati uniti
d’America, che ha una grande novità, perché è uno Stato repubblicano e federale. In Europa, nello stesso
periodo, il modello politico prevalente era quello dell'assolutismo monarchico, dove c’è un centro che decide e
che irradia l’ordine verso le periferie; al contrario, il federalismo è la divisibilità del potere. Le ex colonie
britanniche della costa atlantica sono ancora ricordate da tredici strisce orizzontali della bandiera americana.
Nel 1776 si proclama l’indipendenza, nel 1787-1788 viene approvata la Costituzione federale; nel frattempo, tra il
1775 e il 1782 si combatte una guerra contro la Gran Bretagna.
All’inizio del XVII secolo nascono le colonie. Il primo insediamento inglese negli Stati uniti è Jamestown, in
Virginia, nel 1607. Era un piccolo villaggio di coloni occupato per iniziativa privata di una società per azioni, la
Virginia Company. La crescita fu molto lenta, perché i viaggi verso l’Atlantico erano ancora difficili. I coloni
sono agricoltori che lavorano terra e cereali e si rendono conto che il commercio del tabacco verso la madrepatria è
particolarmente redditizio. Per aumentare il giro d’affari bisognerebbe coltivare delle terre estese, ma il problema è
la manodopera, perché non era possibile soggiogare per sempre i nativi, quindi ci si affida agli schiavi provenienti
dall’Africa, che già venivano usati come schiavi nelle colonie spagnole e portoghesi in Centro e Sud America. I
primi schiavi arrivano in Nord America nel 1619. Nel 1624 gli olandesi, che già portavano gli schiavi in Nord
America, fondano il primo insediamento di quella che diventerà New York, che aveva il nome di Nuova
Amsterdam; solo una quarantina di anni più tardi questo insediamento viene conquistato dagli inglesi guidati dal
duca di York. Nella seconda metà del 1600 il governo inglese inizia ad applicare un governo più stretto sulle
colonie: per esempio, la fondazione di nuova colonia poteva avvenire solo con l’approvazione della corona inglese.
Si lasciava comunque un certo grado di autonomia e la libertà di sviluppare le proprie istituzioni culturali e
religiose: non è quindi un caso che dagli anni ‘80 del 1600 si stabilisca in Pennsylvania, più precisamente a
Philadelphia, un’importante comunità quacchera. I quaccheri erano una piccola setta protestante nata in Gran
Bretagna intorno a metà del 1600, ma che fu duramente osteggiata dalla Chiesa Anglicana e perciò trovarono
rifugio negli Stati uniti. Erano comunità pacifista e furono i primi a battersi contro la schiavitù.
Già agli inizi del 1700 le colonie britanniche danno segni di dinamismo economico e vivacità culturale
sorprendenti. A sud cresceva la produzione agricola grazie al lavoro degli schiavi, al centro-nord si
sviluppavano le attività manifatturiere e commerciali, mentre i traffici marittimi erano in espansione
ovunque. Tra le diverse attività culturali, troviamo un’editoria impegnata nella battaglia delle idee, perché fedeli al
principio di liberalismo, secondo cui gli inglesi lasciavano libertà di stampa. Il liberalismo indica l'accettazione
del pluralismo politico, a patto che rimanga nei contorni di regole ben precise. Non a caso, l'Inghilterra del
1600 è anche la culla dei partiti politici. Il forte amore americano per l’autonomia è invece dettato dal fatto che
una parte dei coloni americani arrivavano da esperienze di dissenso e avevano guadagnato nelle colonie
americane una maggiore libertà d’espressione delle proprie posizioni.
Questo maggior controllo diventa invadente nel corso del XVIII secolo. Dagli anni ‘60 del 1700 il governo
britannico inasprisce la tassazione sui coloni americani con una riforma fiscale. Gli americani vedevano questo
come una sopraffazione perché non avevano alcuna rappresentanza in parlamento. La Rivoluzione americana nasce
con il motto “No taxation without representation”. Il versante fiscale nascondeva un aspetto ulteriore: la riforma
fiscale che Londra decise di applicare era il modo per affermare in maniera più forte un controllo sui coloni
percepiti come lontani e potenzialmente indisciplinati. Le nuove leggi fiscali implicano l'intervento della
magistratura militare invece di quella ordinaria.
Negli anni ‘60 e ‘70 del 1700 i sudditi inglesi delle colonie americane iniziano a percepirsi come americani. Nella
Dichiarazione d’indipendenza i rivoluzionari americani giustificarono il loro atto di ribellione evidenziando le
violenze e inadempienze della Corona inglese. La Dichiarazione d’indipendenza è un documento intriso del
pensiero illuminista europeo. Gli estensori del documento sembravano aver presenti certi testi dell’Illuminismo
europeo, tra cui quelli di Cesare Beccaria e, in particolare, l’idea secondo cui l’obiettivo di ogni legislatore è quello
di creare la massima felicità divisa nel maggior numero. Questo richiamo alla felicità è ripreso pari pari nella
dichiarazione del 1776, in cui si assicura a tutta l'umanità il diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità.
Da ciò discendeva un principio di uguaglianza, un auspicio verso le pari opportunità e la piena partecipazione.

Mentre si scriveva la dichiarazione, mezzo milione di persone viveva in schiavitù. Pur non producendo effetti
concreti immediatamente, i principi affermati nella dichiarazione costituirono una sorta di lievito egualitario che agì
nel corso del tempo. La schiavitù sarebbe stata abolita nel 1865, ma diverse forme di segregazione continuano
anche successviamente. La contraddizione più evidente in quel momento era la condizione degli afroamericani;
poi si aggiunge il dramma dei nativi che vennero sterminati a partire dai primi decenni del 1800 con la cosiddetta
“conquista del west”, il processo di colonizzazione interna che porta gli Stati uniti a espandersi dalla costa atlantica
a quella pacifica, che inizierà durante governo di Thomas Jefferson.

Nel 1787 viene convocata a Philadelphia un’assemblea costituente, la Convenzione di Philadelphia, che scrive la
Costituzione federale; nell’anno successivo viene ratificata dai vari parlamenti dei tredici Stati. Nasce così la
repubblica federale di tipo presidenziale. Dal punto di vista di teoria politica, la novità è enorme rispetto
all’assolutismo monarchico europeo. La repubblica federale si basa su due principi fondamentali: l’idea di
sovranità di potere diviso tra l’Unione e i tredici Stati, e, al posto di un rapporto gerarchico, la divisione delle
competenze tra Stato centrale e singoli Stati. Questa novità politica risiede nei caratteri di popolazione, che era
costituita da gruppi eterogenei dal punto di vista di provenienza geografica, del bagaglio culturale e di appartenenza
religiosa. Questi elementi caratterizzavano i nascenti Stati Uniti sul versante del pluralismo e dell'autonomia:
ciascun gruppo era geloso della propria autonomia.

Agli inizi dell’Era moderna, la conquista dell’America ha segnato un passo decisivo per l'ascesa dell’Europa a
livello globale. Lo strumento essenziale di questa ascesa fu l’utilizzo massiccio di schiavi. L’America era una terra
sterminata e fertile. Era necessaria grande quantità di forza lavoro per coltivare prodotti il cui commercio era
redditizio, come zucchero, cotone e tabacco, e servivano braccia per costruire prime linee di comunicazione,
come strade e ferrovie. Per risolvere il problema della manodopera. gli europei introducono gli schiavi africani.
La schiavitù era un dato di fatto, in ambito di opinione pubblica non c’era dibattito. L’ultimo Paese delle
Americhe che abolisce schiavitù è il Brasile nel 1888. Questa è un’eredità pesantissima nelle società americane,
sia statunitense sia brasiliana
Se vediamo però delle tendenze positive, il movimento abolizionista che si sviluppa faticosamente è alla base del
moderno concetto di diritti umani. La guerra d’indipendenza tra le colonie americane e l’esrcito britannico aveva
avviato i primi movimenti abolizionisti negli Stati del nord, ma nessuno degli Stati meridionali, dove si trovava
la maggior parte degli schiavi, mosse un dito contro la schiavitù. Solo alcune personalitùà del sud, come George
Washington e Thomas Jefferson, confesserono l’avevrsione per la schiavitù e proposto di farla cessare, ma il clima
generale non era favorevole. La difesa della schiavitù coincideva con la difesa della proprietà terriera e
dell’ordine sociale vigente. Era un fenomeno in aumento perché aumentavano le produzioni agricole. Ci furono
solo alcuni piccoli provvedimenti: per esempio, nel 1808 l’importazione di nuovi schiavi divenne illegale in
tutti gli Usa, ma questa norma veniva raggirata, perché era un traffico estremamente redditizio. Chi pose il
problema in maniera efficace fu Abraham Lincoln, che riuscì a dare una curvatura economica alla questione:
fece capire all’opinione pubblica che la modernizzazione dell’economia passava attraverso l’abolizione della
schiavitù e dalla completa espressione dei settori economici sempre più importanti nel 1800, come la
manifattura, l’industria e il commercio.

Thomas Jefferson
Jefferson era un rivoluzionario, ma in modo particolare: era un proprietario terriero del sud, in Virginia, che si era
dedicato alla politica a tempo pieno perché centinaia di schiavi lavoravano per la famiglia. Se da una parte è una
figura centrale della politica americana, allo stesso tempo la sua vita mostra diverse contraddizioni. Egli sosteneva
il modello di superamento della piantagione e sosteneva il modello sociale alternativo basato sul piccolo
coltivatore; inoltre, incentivava la produzione industriale. Affermava che per arrivare all’abolizione della
schiavitù bisognava cambiare modello di sviluppo economico. Nella seconda metà del 1800 gli equilibri
economici erano cambiati: il settore industriale trainava di più del settore agricolo, quindi riuscì a imporre la sua
visione economica.

La corsa all’Ovest
Quello che i coloni americani attuarono nei confronti dei nativi fu un vero genocidio culturale oltreché umano.
All’inizio del XVII secolo c'erano circa tra i 5 e i 10 milioni di nativi. Gran parte delle tribù indiane avevano una
concezione della terra come proprietà collettiva; non formavano delle strutture stanziali, erano nomadi. I
coloni ebbero però la percezione di essere di fronte a un territorio vuoto. Si aveva l’impressione di poter modellare
a proprio piacimento l'area che ci si trovava di fronte. Per dare un fondamento giuridico ci si avvalse di un
argomento di derivazione latina, detto res nullius: tutti terreni liberi sono comune proprietà dell’umanità fino a
quando non vengono destinati a un certo uso stabile. Il territorio americano viene colonizzato come se gli
indigeni non fossero mai esistiti. Ciò è conseguenza della sconfitta militare degli indigeni e del loro spossessamento
economico, quindi la storia non ne ha mai tenuto conto.
Il dramma comincia con la corsa verso l’Ovest. Fino ad allora, era stata possibile la convivenza tra le tribù
indigene e gli insediamenti di coloni. Con la corsa verso l’Ovest lo scontro divenne inevitabile, portando alla
cacciata e distruzione dei nativi. L'eliminazione fisica ha aspetti drammatici soprattutto nel 1800. Ci fu un
tentativo di resistenza da parte degli indiani, ma era una lotta impari. Le tribù indiane vennero spinte con la
violenza e l’inganno sempre più a ovest.
La conquista del West, il mito della frontiera contiene in sé aspetti di ferocia, ma è nello stesso tempo vista
come una grande avventura popolare. I coloni che si spingevano verso ovest erano europei di fresca
immigrazione, appena arrivati negli Usa, che si muovevano in gruppi familiari che si spostavano in cerca di
condizioni di vita migliori con l’idea di recintare un pezzo di terra a tutti i costi. Interi nuclei familiari
cominciarono ad arrivare in massa a partire dagli anni ‘30-’40 del 1800. Vivevano sulla frontiera e
combattevano una battaglia per la sopravvivenza. Da 5 milioni che erano all’inizio, erano rimasti solo 237.000
nativi nel 1900. Lo sterminio avvenne anche per malattie, fame, schviavitù, trasferimenti coatti da un territorio
all'altro.
Lo sterminio dei popoli indigeni è uno dei fatti nodali della storia americana. Questo evento inaggirabile
problematizza tutta la storia degli Usa. Nel 2021, sui giornali di tutto il mondo, è uscita una notizia
raccapricciante: in Canada, nei pressi di una delle scuole di rieducazione che vennero fondate sul finire del 1800
destinate a bambini nativi americani, sono stati trovati nelle fosse comuni 215 scheletri di bambini nativi americani.
Fin dal 2015 si è costituita una Commissione per la Verità e la Riconciliazione per elaborare la verità di quanto
successo. Sono questioni ancora vive nella memoria pubblica degli Usa e del Canada.

Una seconda fase di migrazioni inizia nel 1900 quando i singoli individui si spostano negli Usa per cercare lavoro
nell’industria americana, cambiando i caratteri delle migrazioni.
La rivoluzione francese
(23/02) Nel 1789 viene pubblicata in Francia la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789,
seguendo il modello della Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776. Il concetto di nazione viene
esplicitato in maniera più chiara: è definita come una compatta comunità di destino e interessi. Se il termine
chiave della Dichiarazione americana era “felicità”, che richiama la dimensione sia individuale sia collettiva, in
quanto è la realizzazione individuale all’interno della società, il termine chiave della Dichiarazione francese è
“nazione”, un termine collettivo, che indica la volontà generale. Non a caso la definizione deriva dal pensiero di
Jean Jacques Rousseau, secondo cui nulla si doveva interporre tra l’individuo e la volontà generale.
L’uguaglianza giuridica è un’esigenza del concetto di nazione. I privilegi giuridici della società dell’antico
regime erano incompatibili con uno Stato che può pensarsi come un’unità nazionale. Il concetto di nazione è il
filo conduttore dell’Età contemporanea, anche se alla fine del 1800 ha una torsione imperialista. Hannah Arendt
vede in questa torsione le origini del totalitarismo: nazionalismi aggressivi che si delineano nell’Età
dell’imperialismo sboccano nella Prima Guerra Mondiale e avranno esito estremo con il totalitarismo.
L’evoluzione dello Stato moderno inizia dalla frammentazione territoriale dell’Epoca medievale, che piano piano
viene ridotta, arrivando alla concentrazione del potere politico nelle mani di un’autorità centrale (Stato moderno
accentrato); poi si definiscono i confini e si sviluppano apparati amministrativi sempre più complessi per il
controllo dei vari territori. Lo Stato moderno diventa nazione quando si formano identità culturali comuni. Il
concetto di nazione porta l’uguaglianza giuridica e la richiesta di una Costituzione. In precedenza, il modello
prevalente di governo in Europa era quello dell'assolutismo monarchico. Il termine “assolutismo” indica il
potere sciolto (dal latino absolutus) da ogni vincolo. Per combattere questa idea, le istanze portate dalla
Rivoluzione francese furono delle garanzie delle libertà individuali, la Costituzione e l’elezione dell'Assemblea
legislativa. Il primo risultato politico è la monarchia costituzionale.

Nel 1789 scoppia la Rivoluzione francese, che porta alla nascita dell’Assemblea costituente, all’abolizione del
sistema feudale e alla pubblicazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Nel 1791 viene
emanata la Costituzione; nel 1792 nasce la prima Repubblica francese. Dal 1793 al 1794 al governo ci sono
Robespierre e i giacobini, finché nel 1794 avviene un colpo di Stato anti-giacobino. Gli anni dal 1795 al 1799 sono
gli anni del Direttorio e dell’ascesa di Napoleone Bonaparte.

Le premesse della Rivoluzione furono diverse, tra cui la diffusione di cultura critica da parte degli Illuministi,
la vivacità culturale, la crisi fiscale dello Stato e l’incapacità di Luigi XVI di realizzare riforme.
A partire dalla seconda metà del XVIII secolo , gli intellettuali, tra i quali spiccava Diderot, si uniscono in una sorta
di parti philosophique. Questi ristretti nuclei si riunivano in alcuni café parigini. A partire dagli anni ‘70 la Francia
conosce una grande proliferazione di letteratura clandestina di carattere politico, filosofico, ma anche erotico,
usata per attaccare il clero e la nobiltà. Questa proliferazione continuò fino alla vigilia della Rivoluzione. La
vivacità dell’editoria era importante perché permetteva agli intellettuali illuministi, inizialmente circoscritti in
piccoli gruppi, di assumere voce e di raggiungere un gruppo superiore nonostante la censura. In Francia non
c'era un’istituzione politica che potesse incanalare questo dibattito, come il Parlamento, perciò la strada delle
istituzioni era bloccata. Prende corpo quindi un'attività politica dal basso: con la Rivoluzione del 1789 la politica
divaga a livello popolare. Nascono club e associazioni politiche che trovano una società ricettiva fatta di gente che
in buona percentuale leggeva e si interessava al dibattito politico. Il club politico più sviluppato è il club giacobino,
tanto che si afferma che sia il prototipo del partito moderno. La differenza con i già esistenti partiti inglesi è che
questi rimangono chiusi all’interno del Parlamento, mentre in Francia i partiti nascono nella società. Il club
giacobino dura una manciata di anni, ma è un'esperienza politica molto rilevante; il loro leader è Robespierre.

La crisi fiscale è però ciò che porta alla riunione degli Stati generali. Gli Stati generali non corrispondo a un
Parlamento: prima di tutto era estremamente lontano dall’idea del parlamentarismo liberale e i deputati degli Stati
generali non votavano individualmente, ma per stato. Questo sistema di voto faceva sì che prevalessero le idee
conservatrici di clero e nobiltà.
La nobiltà aveva dei privilegi fiscali, mentre un concetto democratico di fiscalità vuole che si paghi
proporzionalmente a quanto si ha. L’economia è stagnante. Luigi XVI faticava a imporre la strada per una riforma,
quindi convoca gli Stati generali. Il meccanismo di elezione degli Stati generali era una macchina complessa e
racchiudeva anche la partecipazione delle città più piccole, che mandavano un delegato. Questo meccanismo
elettorale prevedeva la possibilità di redigere dei cahiers de doléances, "quaderni di lamentele”, che venivano
affidati al rappresentante affinché li presentasse al sovrano. Fu un’esplosione non prevista di energie popolari e
democratiche. Uno studio ha mostrato la varietà di richieste che venivano portate al sovrano, anche con
differenze territoriali: negli ambienti rurali rimane fiducia nelle capacità provvidenziali del re, ma si contestavano i
piccoli signori; in ambiente urbano, i quaderni di lamentele contenevano rivendicazioni più politiche, influenzati
anche da una letteratura che si diffonde nei decenni precedenti. Si criticava l’assolutismo, si chiedeva una
Costituzione. Gli Stati generali iniziano i loro lavori a maggio 1789. I rappresentanti del terzo stato volevano che si
preparasse una Costituzione scritta per la nuova Francia. Nel giugno 1789 il terzo stato si costituisce da solo in
Assemblea nazionale costituente: si tratta di un atto rivoluzionario non violento.
A luglio avvengono movimenti di truppe: il re si stava preparando a usare la forza per liberarsi di ciò. Il 14 luglio
1789, la folla si reca alla Bastiglia, una prigione nel cuore di Parigi, dove c’era speranza di trovare armi per
difendere l’Assemblea costituente. Uno dei primi provvedimenti presi fu l’abolizione del sistema feudale. Il
sistema feudale era tutto ciò che portava l’assoggettamento personale un individuo a un altro, con riferimento
ai vincoli personali dei contadini verso i padroni. Vengono cancellati gli obblighi che i contadini avevano nei
confronti dei signori locali e nel clero, vengono cancellati i privilegi fiscali e vengono sciolti i tribunali signorili,
riservati alla nobiltà. Stava crollando un mondo e se ne intravedeva un altro. I costituenti guardavano anche alle
città e uno degli argomenti che più stava a cuore ai borghesi cittadini era il libero accesso agli incarichi pubblici.
Questo provvedimento creava mobilità sociale, incaranata da Robespierre, il quale era un avvocato di provincia, e
da Napoleone Bonaparte, un piccolo nobile corso.
L’articolo 3 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (“Il principio di ogni sovranità risiede
essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare un’autorità che da essa non emani
espressamente”) è importante perché, in seguito, neanche Napoleone se ne staccherà completamente e farà
consolidare ogni fase della sua ascesa al potere con il plebiscito.

Si crea un linguaggio della nazione: la diffusione di parole chiave del linguaggio nazionale va oltre i confini della
Francia. La Rivoluzione francese diventa presto un fenomeno europeo.
Nel definire l’elettorato, il corpo elettorale era deciso in base a un criterio censitario, non c’era ancora il suffragio
universale. I cittadini erano distinti in attivi, ovvero con diritti elettorali, e passivi. Questa norma sarà uno degli
obiettivi contro cui si scagliano i giacobini chiedendo il suffragio universale maschlile.
Nel 1791 uscì anche in polemica con l’approccio maschilista dei rivoluzionari la Dichiarazione dei diritti della
donna e della cittadina di Olympe de Gouge, che completa la dichiarazione del 1789.
La Rivoluzione francese porta novità politiche importantissime. Nascono i concetti di destra e sinistra perché,
sulla base delle norme fissate dalla Costituzione, si va a votare e la nuova Assemblea legislartiva aveva diverse idee
poltiche: di conseguenza, i democratici si siedono a sinistra, mentre i filomonarchici si siedono sulla destra.
Anche la politica si istituzionalizza all’interno del Parlamento, ma i club politici erano nati in precedenza. I nomi
dei vari gruppi politici derivano spesso dalle sedi in cui si riunivano. Uno dei primi a formarsi fu il club dei
giacobini, che prese il nome perché la sua sede principale era il convento di san Giacomo.

Nel 1792 la Francia entra in guerra contro Austria e Prussia. Tra i monarchi europei c’era una certa inquietudine
a causa degli avvenimenti rivoluzionari in Francia. C’era forte preoccupazione tra le monarchie di tutta
Europa. Anche Austria e Prussia erano monarchia assolute, quindi attaccano la Francia sperando di trovare un
Paese non preparato a causa della situazione rivoluzionaria. Di fondo c’è la volontà di soffocare la Rivoluzione
francese.
Il leader dei giacobini Robespierre imprime un’accelerazione al processo rivoluzionario: volevano la repubblica e
suffragio universale maschile. Organizzano quindi un colpo di Stato che ebbe successo: si arrivò alle elezioni a
suffragio universale maschile e alla proclamazione della repubblica. La prima Repubblica francese nasce nel
1792. Nel gennaio dell'anno dopo il re viene decapitato. A sinistra nasce un confronto interno tra giacobini e
girondini: entrambi erano di sinistra e repubblicani, ma i girondini, guidati da Brissot, avevano la maggioranza in
Parlamento e miravano a rafforzare l’autonomia dei dipartimenti che formavano territorio francese. Erano
legati all’idea di autonomia dei diversi territori, così che la volontà del governo centrale unformasse dall’alto tutta
la Francia. I giacobini avevano la visione opposta: volevano creare un potere pubblico accentrato per spezzare le
resistenze al cambiamento che venissero dalla periferia. I girondini difendevano la varietà di culture e politiche nel
territorio francese.
Questa dicotomia viene risolta da una seconda insurrezione nel 1793 dei giacobini che portarono Robespierre al
potere. Varano una nuova edizione della Dichiarazione e una nuova Costituzione. per la prima volta vengono
rivendicati i diritti sociali, le forme di assistenza che lo Stato deve garantire agli strati più indigenti della società. Le
istanze egualitarie che erano rimaste nei confini della politica si spostano in ambito socio-economico. Al posto del
governo democratico si afferma un “governo rivoluzionario” che si tradusse in una vera e propria dittatura. Il
governo dura fino al 1794. Si tratta della fase più radicale della Rivoluzione, passata alla storia come Repubblica
del terrore. Il potere esecutivo assunto dal Comitato di salute pubblica guidato da Robespierre è di fatto una
dittatura. Erano sostenuti dalla convinzione che una piccola minoranza politica d’avanguardia potesse
assumersi il diritto di cambiare dall’alto l’identità di un Paese.
La politica del terrore poteva alimentarsi solo in un contesto simile, con una guerra in corso e ricerca ossessiva di
nemici interni. Le rivolte ci furono contro i giacobini, sia di stampo federalista sia reazionarie promosse dalle forze
filomonarchiche. L’esperienza fu breve ma intensissima. Tutti i rivoluzionari che si affacciano sulla scena pubblica
francese si confrontano con l’eredità lasciata dai giacobini. Anche studiosi costruiscono dei paralleli tra il
bolscevismo e il giacobinismo, in quanto sono legati entrambi a delle ideologie, da una parte il comunismo,
dall’altra una certa interpretazione dell’Illuminismo; addirittura è stato interpretato come un predecessore dei
totalitarismi del 1900. Il centralismo politico è il nocciolo del giacobinismo.

Robespierre viene giustiziato nel 1794. Suo padre era avvocato, esattamente come lui; proveniva da Arras, nella
Francia settentrionale. A 31 anni era tornato a Parigi e venne eletto come deputato degli Stati generali. Era una
figura di spicco da subito nei club giacobini. In cinque anni aveva fatto tutta la sua cavalcata politica. Aveva
compiuto atti anche visionari, estremi dal punto di vista culturale, come l’imposizione del culto di nuove
divinità come la Ragione, per trasformare la quotidianità delle persone. Questa dimensione visionaria ne minò il
consenso e portò al colpo di stato antigiacobino nel 1794.

François Furet afferma che c’è continuità nella società francese prima e dopo il 1789. Il grande elemento di
continuità è il centralismo statale, che per certi versi si rafforza; è un elemento che risale alla prima metà del XVII
secolo, che si pronuncia ben oltre il 1789. Accanto alle rotture vanno tenuti d’occhio anche gli elementi di
continuità.
Durante la Repubblica del Terrore si parla di pedagogia rivoluzionaria: vengono create nuove feste pubbliche
per festeggiare e sacralizzare la Rivoluzione. Si voleva costruire una nuova religione civile dei valori
repubblicani resi metafisici. L’aspetto simbolico è l'introduzione del calendario rivoluzionario (= fascismo) nel
1793, che segni la volontà di un nuovo inizio, in cui il giorno di fondazione della Repubblica, il 22 settembre 1792,
diventa il primo giorno del primo anno nuovo. Simbolica è la sostituzione della religione cattolica con pratiche
religiose ispirate alla cultura illuminista, come la Dea della Ragione.
Napoleone Bonaparte
(24/02) Napoleone Bonaparte, come Robespierre, è una figura importante della Rivoluzione: la loro
partecipazione politica sarebbe stata irrealizzabile senza di essa. Napoleone diventa uno dei generali più importanti
e riesce a fiutare la possibilità di entrare in politica. Entrambi erano convinti che la Francia rivoluzionaria
necessitasse un governo autoritario. Tra le guerre esterne e il subbuglio della Rivoluzione, si impongono governi
forti per mantenere le redini della situazione. Ci sono dei denominatori comuni nel passaggio di governo.
Tra il 1794 e il 1799, ovvero gli anni del Direttorio, sono anni all’interno dei quali possiamo individuare come
elemento caratterizzante l’aumento di influenza dell'esercito. È infatti un paese in guerra e le gerarchie militari si
guadagnano sul campo un peso anche politico. Il potere esecutivo era detenuto dal Direttorio, composto da cinque
elementi. Dal punto di vista politico questi anni sono un ripiegamento moderato rispetto all’apice della Rivoluzione
che era stato il governo giacobino.
Nel 1795 era stata approvata una nuova Costituzione più conservatrice, allontanando da loro quindi ogni consenso.
La parabola di Robespierre termina con il colpo di Stato antigiacobino nel luglio 1794, il mese termidoro dell’anno
secondo: si parla di reazione termidoriana, durante la quale i club giacobini vengono chiusi e Robespierre e i
suoi seguaci vengono eliminati. Di fronte al Direttorio, che non brillava per iniziativa politica, e all’esercito che
acquistava sempre più forza politica, Napoleone Bonaparte sente arrivato il momento del suo colpo di Stato nel
novembre 1799. Viene messo da parte Direttorio, il mese dopo viene scritta una nuova Costituzione. Napoleone
viene indicato come Primo Console e ha il potere esecutivo, affiancato da altri due consoli. Con il primo atto
scioglie il Parlamento: l’antiparlamentarismo è uno delle caratteristiche principali del periodo napoleonico, perché
crede di essere lui l’unico rappresentante della nazione. La sua è una forma di potere plebiscitaria.

Nelle periodizzazioni più consolidate la Rivoluzione francese termina nel 1799. Il colpo di stato napoleonico è la
cesura. Ma il nuovo governo di potere incarnato da Napoleone non è una Restaurazione, perché non si torna
indietro, e non è neanche dittatura militare; è un governo autoritario che si basa sulla convinzione che solo la
dittatura fosse in grado di assicurare la coesione nazionale e di condurre alla vittoria contro potenze europee.

Napoleone però fa emergere il modello di potere plebiscitario. Si possono delineare tre caratteristiche principali
del suo governo: il plebiscitarismo, l'antiparlamentarismo e la politica estera aggressiva.
Napoleone fa i conti con il concetto di nazione, ma non passa attraverso un meccanismo rappresentativo, ma
attraverso il meccanismo del plebiscito, ovvero un pronunciamento del popolo su una persona a cose fatte. Il primo
plebiscito che napoleone realizza in Francia è quello che legittima nuova Costituzione, che lo nomina Primo
Console (1799). Tutti i plebisciti sono passaggi fondamentali per l’ascesa verso il suo potere imperiale. Il
pronunciamento popolare è in qualche modo figlio della Rivoluzione: dopo i cambiamenti sociali, un
pronunciamento democratico è necessario, anche se è comunque una modalità di partecipazione più passiva che
attiva. "Plebiscito", dal latino, significa “ordine del popolo” e serve a confermare un fatto compiuto,
rafforzandolo con la legittimazione popolare; è una forma di partecipazione popolare più demagogica che
democratica. In età contemporanea si vedono altre forme di plebiscito, per esempio nel caso di annessioni di terre
durante il Risorgimento, ma hanno diverso valore politico.
Per quanto riguarda l’antiparlamentarismo, Napoleone diceva: “Non ci sono rappresentanti in Francia all’infuori
di me. Cinque milioni di votanti mi hanno portato successivamente al Consolato, al Consolato a vita, all’Impero. Se
c’è un’autorità o un individuo che possa dire altrettanto, che si presenti, egli potrà rivaleggiare con me”. La
modernizzazione che si era affermata dopo il 1789 si manteneva tranne che nel sistema politico.
La politica estera aggressiva era invece utilizzata perché accresceva il carisma del capo ed era la valvola di
sfogo delle tensioni interne.

Napoleone crea anche una connessione tra arte e propaganda, come nel dipinto di Jacques Louis David, che
raffigura la sua incoronazione a imperatore (↙). Viene incoronato imperatore nella cattedrale di Notre Dame nel
1804; riprende il testo dei vecchi giuramenti dei sovrani francesi assoluti e viene unto con l’olio impiegato per
l’ordinazione degli ecclesiastici, segno del diritto divino. Però
non fu il Papa a mettere la corona imperiale sulla testa di
Napoleone e sua moglie coppia inginocchiata, ma prese la
corona dalle mani, diede le spalle al Papa e incoronò se
stesso, infine pose la corona anche sulla testa della moglie. Ciò
era simbolo che il potere imperiale scaturiva anche dalla
forza terrena dell'imperatore stesso, grazie alle guerre, ai colpi
di Stato e ai plebisciti.
Nel dicembre 1804 Napoleone tiene un discorso, in cui possiamo
ritrovare quattro elementi: l’investitura popolare, perché la
Corona era stata offerta dal popolo, l’atteggiamento paternalista,
la necessità di un governo forte, e l’inevitabilità della guerra.
L'investitura popolare è l’investitura diretta, quando la Corona viene offerta dal popolo.
L’atteggiamento paternalista è un atteggiamento per cui il governante mostra sollecitudine nei confronti del
benessere del popolo, ma non li considera capaci di perseguire questi fini di crescita sociale in modo
autonomo, e non riconosce diritto di avanzare richieste e rivendicazioni.
La necessità di un governo forte è un elemento già ricordato, che aveva determinato il fatto che nel 1793-94 era
stato sostenitore di Robespierre e del governo giacobino.
La guerra serve per mostrare grandezza e gloria alla Francia imperiale e il carisma del leader, ricompattava i
dissensi all’interno della società francese.

La caratteristica dello Stato napoleonico è il perfezionamento del centralismo. Da Parigi si diramava una rete
capillare di funzionari di nomina governativa che assicuravano il controllo serrato su tutto quello che
accadeva nella società. Il nodo principale è figura del prefetto, che in Francia era incaricato delle principali
articolazioni amministrative periferiche, i dipartimenti.

Dopo il 1804, Napoleone si concentra sull’interesse militare. In passato era già stato un generale di successo. Dal
1805 inanella una serie di vittorie grandiose: la sua avanzata sull’Europa suscitava in chi la subiva reazioni
contrastanti. Alcuni speravano in un rinnovamento rispetto alle società ancora ferme all’antico regime, altri
avevano paura di un’occupazione armata. L’espansionismo diede impulso alla diffusione di sentimenti nazionali
patriottici. Nel 1812 Napoleone avviò la campagna di Russia che gli fu quasi fatale: il territorio russo era
vastissimo, quindi difficilmente attaccabile. L'esercito francese subisce perdite consistenti e la coalizione
antifrancese (Russia, Austria e Prussia) gli diede il colpo di grazia. Parigi viene occupata. Il senato francese
crea un governo provvisorio e confina Napoleone prima all’Isola d’Elba e poi, dopo il suo ritorno e la sconfitta
nella battaglia di Waterloo, all’Isola di sant’Elena.

Nel 1789 Napoleone avvia un’impresa in Egitto: è una delle prime volte in cui Occidente e Medio Oriente si
scontrano e confrontano.
Nel 1808 Napoleone riesce a entrare a Madrid, mettendo in crisi la Penisola iberica, soprattutto la Spagna e quindi
le colonie spagnole in America Latina. È proprio nel 1808 che inizia il processo d’indipendenza delle colonie
sudamericane, che durerà fino al 1826, quando tutte le colonie saranno indipendenti.
Il Medio Oriente e l’America Latina
Con “Medio Oriente” intendiamo un’area geopolitica che va dal Marocco, percorre l’Africa settentrionale,
comprende la Penisola arabica e arriva fino all’Iran, e dalla Turchia allo Yemen. In quest’area c’è un
sottoinsieme indicato come Vicino Oriente, che va dall’Egitto fino all’Iraq. Dal punto di vista geografico l’area
mediorientale è composta da un pezzo di Africa e un pezzo di Asia. Il Medio Oriente è un concetto geopolitico, nel
quale entrano diverse valutazioni storico-culturali: è un’area geografica in cui domina la cultura arabo-islamica. Il
termine “islamico” fa anche riferimento ai non arabi, come i turchi e i persiani. In queste terre vivono però anche
minoranze cristiane consistenti, come in Egitto e nel Libano, ma l’islam è comunque predominante. Il punto di
partenza nello studio del Medio Oriente contemporaneo è identificato nel 1798, quando l’Egitto viene invaso da
Napoleone, evento che ha un forte valore simbolico. Per la prima volta in più di quattrocento anni il cuore
islamico veniva a contatto con l’Europa.
Tra il XVIII e il XIX secolo la maggiore potenza mediorientale era l’Impero Ottomano, che, oltre a dominare dei
cospicui territori in Europa, soprattutto nei Balcani, controllava anche l’Anatolia, l’Armenia, la Mezzaluna fertile
(le vallate tra Tigri ed Eufrate), il Nordafrica fino all’Algeria e diversi possedimenti frammentari nella Penisola
arabica.
Il concetto di Oriente è però un concetto eurocentrico per identificare qualcosa di diverso, un potenziale
antagonista. Nello stereotipo europeo, l’Oriente era un territorio povero, poco conosciuto e arretrato. Questa
visione non teneva conto che l’Oriente guardava all’Europa come qualcosa di altro da sé.

Anche il concetto di America Latina non coincide completamente con il Sudamerica, ma solo in parte. Si tratta di
un’area del continente americano dove, a partire dal 1500, si impianta la civiltà iberica. Numerose sono le
colonie spagnole, mentre una è quella portoghese. In termini geografici si divide in tre gruppi, includendo anche
parte del Nordamerica: è formato dal Messico, dai Paesi caraibici intorno all’Istmo di Panama e dal
Sudamerica. Non tutti i Paesi del Centro-america e Sudamerica sono propriamente America Latina: ci sono
territori legati per civiltà non a quella iberica, ma al mondo anglosassone, come il Belize e la Giamaica, o altre
ancora che apppartenevano all’Olanda, come il Suriname.
L’America Latina è contraddistinta da un principio di unità e allo stesso tempo di pluralità. Da un lato è unita da
un ceppo comune, la civiltà iberica, da un’eredità linguistica e religiosa, il cattolicesimo; dall’altro lato il
commercio di schiavi prima e le ondate migratorie europee tra il XIX e XX secolo hanno toccato in modo
diverso le diverse aree dell’America Latina mescolando etnie e culture. Inoltre, sono resistiti alcuni elementi
culturali e umani riconducibili ai nativi del Centro e Sudamerica.
L’indipendenza dei Paesi latino-americani e soprattutto delle colonie spagnole si consuma in appena vent’anni tra
il 1808 e il 1826. I movimenti di liberazione approfittarono della debolezza della madrepatria causata dall'invasione
napoleonica. Il Venezuela fu prima colonia a ribellarsi. Il leader del movimento indipendentista è Simon Bolivar, il
quale non solo era un ottimo militante, ma aveva anche un’elaborazione politica originale di stampo federalista.
I nazionalismi latino-americani furono però troppo forti e non accettarono la sua visione.

Il Medio Oriente
(1/03) Quando parliamo di Oriente siamo di fronte a un concetto di matrice europea. Il punto di riferimento che
stabilisce cos’è Vicino, Medio ed Estremo Oriente è l’Europa. Con Vicino Oriente s’intende l’area che va dall’Iraq
all’Egitto e dall’Anatolia allo Yemen; il Medio Oriente comprende invece l’Iran e arriva fino al Marocco. Si tratta
di un’area geopolitica unificata dalla cultura arabo-islamica, che comprende anche le popolazioni che vivono in
Medio Oriente ma non sono di origine araba, come i persiani, e le minoranze cristiane in Egitto e Libano.
Si considera la storia di questi Paesi a partire dal 1798, quando Napoleone arrivò in Egitto. Erano 400 anni che
non c’era confronto diretto tra Oriente e Occidente. La situazione politica del Medio Oriente vedeva l'Impero
ottomano come potenza principale. L’Impero ottomano era diffuso in Anatolia, ma si estendeva in Armenia,
nella mezzaluna fertile, ovvero le valli del Nilo, del Giordano, del Tigri e dell’Eufrate, poi in Nordafrica fino
all’Algeria, alcuni domini della Penisola arabica e nei
Balcani. Nonostante dopo la perdita di alcune guerre
contro la Russia l’Impero ottomano avesse dovuto cedere
la Crimea, era comunque un impero che aveva un
insediamento molto solido nell’area mediorientale.

La vera colonizzazione europea nell’area mediorientale


inizia nel 1830, quando l’esercito francese invade
l’Algeria e stabilisce una colonia. Ciò avvenne per
ragioni di prestigio e per distrarre l'opinione pubblica dai
problemi che attraversavano la Francia all’interno, perché
il regno di Carlo X stava crollando.
Con la caduta di Napoleone, viene convocato il
Congresso di Vienna nel 1815. I protagonisti sono le grandi dinastie monarchiche d’Europa, gli Asburgo
d’Austria, gli Hohenzollern di Prussia, i Romanov di Russia, gli Hannover della Germania e i Borbone francesi. Il
tentativo è restaurare l’assolutismo monarchico, riportare la storia indietro all’epoca pre-rivoluzionaria. Le
idee rivoluzionarie, l’idea di Costituzione, di nazione e di uguaglianza giuridica, avevano però avuto troppa
diffusione, perciò è un tentativo che si esaurisce in un breve periodo di tempo. Già nel 1830 avviene la Rivoluzione
di luglio a Parigi, che fa cadere il regno restaurato di Carlo X e porta alla creazione del governo liberale di Luigi
Filippo d'Orléans. L’insurrezione si espande anche nel Regno di Belgio. In generale, negli anni ‘30 e ‘40 del 1800
in Francia c’è grande fermento per la democratizzazione delle istituzioni, perciò si decide questa avventura
coloniale in Algeria.

Verso la fine del decennio c’è un secondo atto con l’occupazione inglese dello Yemen. Gli inglesi occupano il
sultanato di Aden, che si trovava in una postazione che controllava la via che conduceva all’India prima del
canale di Suez. La colonizzazione europea in Medio Oriente diventerà impetuosa negli ultimi decenni del 1800,
nell’età dell’imperialismo.

Nel 1881 avviene la sottomissione della Tunisia alla Francia, nel 1882 la Gran Bretagna occupa l’Egitto per
controllare il canale di Suez attivo solo da alcuni anni. Nel 1904 inizia il protettorato britannico sul Kuwait: tutti i
paesi del Golfo Persico diventarono protettorati britannici in quel periodo. Nel 1912 inizia il protettorato francese
in Marocco e l’occupazione della Libia da parte dell’Italia.

Il canale di Suez è un canale artificiale navigabile che si estende tra Porto Said, sul Mediterraneo, e Suez, sul
Mar Rosso. Fu Napoleone a promuovere i primi studi, ma il primo progetto dettagliato venne presentato nel 1833
dall’ingegnere Prosper Enfantin; il progetto definitivo redatto da Luigi Negrelli. La prima nave attraversò il canale
nel 1867, mentre l'inaugurazione al traffico marittimo avvenne nel 1869. Ciò causò un aumento dello sviluppo dei
commerci verso l’Africa orientale e l’Oceano Indiano perché permetteva di evitare la circumnavigazione
dell’Africa. Inizialmente gli equilibri premiavano i francesi, ma la Gran Bretagna non tardò ad affermare il dominio
sull’opera, in quanto era la via di comunicazione più veloce verso l'India. Nel 1882 la Gran Bretagna decide di
occupare l’Egitto assicurandosi il controllo della rotta per le Indie orientali.

Il confronto-scontro tra Oriente e Occidente si inasprisce a partire dagli anni ‘70 e ’80 del 1800. Fino ad allora, le
élite orientali non percepivano l’Europa come un pericolo. L’invasione coloniale fa cambiare questa percezione e si
arriva a uno scontro anche culturale tra l’Europa e il Medio Oriente. L’Europa diventa un pericolo per le
comunità musulmane, a causa della superiorità tecnologica e militare frutto della Rivoluzione industriale e dello
sviluppo del capitalismo.
In particolar modo, i tre concetti che sono una sfida per la forma mentis islamica e mediorientale sono:
1. il concetto di popolo-nazione, perché nella cultura mediorientale al posto di ciò c’era l’umma, una
comunità di credenti, che dal punto di vista politico si costituiva in istituzione sovranazionale, il
califfato;
2. la libertà, che viene risolta nell’obbedire agli ordini di Dio e servire alle necessità dell’umma;
3. la secolarizzazione, che non era ammessa a causa del fatto che l’islam è religione e società insieme, è una
dimensione omnicompresiva in cui la fede non è scissa dalla vita quotidiana e dai rapporti sociali.
L’impatto delle idee euro-occidentali metteva in discussione la tradizione arabo-islamica.

Nel 1907 in Egitto viene fondato il primo partito politico dell’area mediorientale, il cui piano si centra sulla
liberazione dal colonialismo. Questo partito si chiamava Partito nazionale, riprendendo il concetto di nazione,
ma declinandolo in chiave anticoloniale. Il leader era Mustafà Kamil. Era convinto che l’islam fosse un elemento
decisivo del principio nazionale egiziano. Mostrò aperte simpatie per l’Impero Ottomano, che, benché in crisi,
aveva ancora diversi insediamenti importanti. Le esperienze politiche che seguirono in Egitto furono su questo
solco, cercando di immaginare un nazionalismo egiziano che si staccava dalla tradizione islamica per aprirsi ai
principi del liberalismo e della laicità.
In Siria nacque il nazionalismo arabo o panarabismo. È un movimento culturale che sosteneva l'esistenza di
una nazione araba al di là dei confini dei singoli Paesi, è un nazionalismo sovranazionale con imprinting dato dal
concetto di umma.
L’allargamento dell'influenza europea diventa più pervasivo dopo la Prima Guerra Mondiale, perché si assiste al
crollo dell’Impero Ottomano. L’egemonia britannica si allarga anche alla mezzaluna fertile. I Paesi indipendenti
sono solo Turchia, Arabia Saudita, la parte settentrionale dello Yemen, l’Iran.

Dalla crisi della concezione imperiale ottomana nasce il nazionalismo turco e il Movimento dei Giovani Turchi.
Questo nasce come un movimento di intellettuali e militari con un’attitudine riformista e modernizzatrice. Gli
intellettuali riflettevano sull’abbandonare la prospettiva sovranazionale e concentrarsi sul nucleo culturale turco; i
militari erano infastiditi e vogliosi di reagire alle continue sconfitte alle quali andava incontro l’esercito ottomano.
Dal 1913 al 1918 l’Impero venne governato da militari che favorirono la nascita e il rafforzarsi del nazionalismo
turco. Si assisté dall’ottomanismo in quanto potere imperiale, a un circoscritto nazionalismo turco. Il nuovo regime
turco favorì l’indebolimento del potere religioso e maggiore insistenza sugli aspetti laici dell’azione politica e della
stessa simbologia nazionale.

In Iran c’è una forte influenza della Gran Bretagna e della Russia, ma nessuna delle due occupa il Paese con le
armi perché le due potenze si neutralizzano a vicenda. La Gran Bretagna pensava che la Persia fosse utile per
frenare l'espansione russa verso l’Asia centrale che avrebbe potuto minacciare gli interessi inglesi in Afghanistan e
in India. Il controllo indiretto dell’Iran da parte di Russia e Gran Bretagna suscitò nell’opinione pubblica persiana
un certo malcontento che si dirigeva contro lo scià di Persia, che viene assassinato nel 1896 perché colpevole di
mantenere il Paese in una condizione di arretratezza. Il malcontento porta tra il 1906 e il 1911 alla Rivoluzione
costituzionale perché viene promulgata una carta costituzionale che prevedeva una limitazione del potere del
sovrano, che prima era un potere assoluto e l’elezione di un Parlamento. Si tratta di una breve stagione riformatrice
che si chiude con la restaurazione del potere assoluto dello scià.

Questi sono tutti sintomi del risorgimento culturale arabo-islamico, collocabile tra la fine del 1800 e l’inizio del
1900. Il fulcro sono Beirut e il Cairo, che emergono come capitali dell'editoria mediorientale. Il più prestigioso
quotidiano viene pubblicato a partire dal 1875 al Cairo. Cominciano ad apparire istituzioni culturali moderne,
come la prima biblioteca nazionale del mondo arabo in Egitto nel 1870, e le prime università moderne al Cairo e a
Istanbul.
Si sviluppò anche un femminismo arabo che sosteneva l’attivo inserimento delle donne nella vita pubblica e
sociale. La principale protagonista in questa fase è Hudà Shaarawy, che veniva da una famiglia ricca egiziana. Nel
1923 fonda il movimento femminista egiziano che divenne una cassa di risonanza in tutto il mondo arabo. Diresse
due riviste sulle tematiche del femminismo, una in francese e una in arabo. Ebbe la lucidità di occuparsi delle zone
rurali più arretrate capito che il problema delle donne era particolarmente grave in quel contesto. Il femminismo
crebbe fino alla Seconda Guerra Mondiale. Il recente ripiegamento dell’islam in chiave tradizionalista e
fondamentalista ha arrestato questo movimento.

La Prima Guerra Mondiale ebbe effetti consistenti anche in Medio Oriente. A partire dalla fine, si fa ancora più
invadente la presenza delle potenze europee. Le ripercussioni avvengono proprio durante la guerra perché le
popolazioni dell’area mediorientale furono direttamente coinvolte nella guerra: i Paesi mediorientali misero a
disposizione soldati, fornendo manodopera per la costruzione di infrastrutture. Questo ebbe conseguenze sul
piano sociale perché il coinvolgimento diretto favorì rivendicazioni d’indipendenza e il rafforzarsi delle istanze
nazionalistiche che si delineano nelle prime fasi del 1900; per esempio, in Egitto si assistette alla velocizzazione
della coscienza nazionalista. Nei protettorati magrebini della Francia vennero arruolati giovani che formavano i
battaglioni arabi. Durante gli anni della guerra le potenze avevano intuito che l’Impero ottomano stava collassando
quindi l’appetito aumentava e si preparavano a mettere le mani su quanto più territorio avessero potuto, indifferenti
alle richieste d’indipendenza dei Paesi che combattevano negli eserciti dei Paesi europee. Le contraddizioni si
fanno sempre più forti.

La rivolta anti-ottomana dei nazionalisti arabi scoppia in Siria nel 1917-18, indebolì la resistenza ottomana e
favorì la vittoria anglo-francese in Medio Oriente. Nel 1918 le truppe arabe entrarono per prime a Damasco
seguite dall’esercito regolare britannico. Gli ottomani vengono cacciati da Damasco proprio dai soldati siriani. I
nazionalisti arabi progettarono un governo indipendente in Siria. In un congresso nazionale nel 1919-20 viene
proclamato il Regno della Grande Siria, che comprendeva gli attuali Siria e Libano. Ciò alle potenze europee
non andava bene, perciò la Francia interviene militarmente. Il progetto della Grande Siria rimase sulla carta, ma
venne sostenuto anche negli anni successivi. La situazione si stabilizza per un momento dopo la conferenza di pace
di Parigi che mette fine alla Prima Guerra Mondiale, in cui si stabilì spartizione del Medio Oriente asiatico tra
Francia e Gran Bretagna. Si parla di spartizione mandataria: si stabilisce un’amministrazione fiduciaria attribuita su
determinati territori a Francia o alla Gran Bretagna.
In seguito alla Prima Guerra Mondiale nasce la Società delle Nazioni con l’obiettivo di garantire una pace
duratura. La Società delle Nazioni incaricò la Gran Bretagna di gestire la situazione in Palestina e Iraq, mentre
Siria e Libano furono assegnati alla Francia. Il mandato britannico in Palestina includeva una clausola di
creare uno stato ebraico. Si voleva trovare per gli ebrei un asilo sicuro e si cercò nella madrepatria. Si sviluppa un
movimento sionista. I britannici speravano di avere appoggio in un’area in cui c’erano attriti.
Il bilancio in Medio Oriente fu fallimentare anche perché la Gran Bretagna e la Francia uscivano indebolite dalla
guerra, quindi non avevano risorse da impiegare nella gestione. Questi mandati si sono rivelati pieni di difficoltà
anche perché si scontrano con un risorgimento arabo.
Tra il 1924 e il 1926 nascono Siria e Libano come entità statali, ma senza autonomia perché erano sottoposte al
controllo francese. Si voleva creare entità statali separate per evitare il nazionalismo arabo. Il Libano era uno
Stato artificiale perché, come entità politica, non era mai esistito nella storia. I confini erano tacciati sulla carta,
è un’entità che riuniva un insieme composito di diverse religioni. La maggioranza era cristiana maronita, contraria
al nazionalismo arabo, poi c'erano i musulmani divisi tra sunniti e sciiti, e, infine, i drusi, di confessione
pala-islamica. Questa convergenza creava ostilità tra diverse comunità. La lunghissima guerra civile in Libano
(1975-89) ha radici all’interno di questi dissidi tra comunità religiose.

Nel 1925-1927 avviene la Rivolta nazionalista in Siria, repressa da un intervento militare francese con
bombardamenti su Damasco e Aleppo; nel 1928 si arriva all’elezione di un’Assemblea costituente. Nel 1929 viene
approvata una Carta costituzionale che rivendicava la formazione di una Grande Siria e la fine del mandato
francese. La nuova costituzione non venne riconosciuta dalla Francia, che ne impose una molto meno avanzata,
entrata in vigore nel 1930. Nel 1932 avvengono le elezioni politiche da cui emerse una élite di notabili moderati
graditi alla Francia; il blocco nazionalista comunque conquistò un quarto dei seggi facendo avvertire il suo
orientamento anti-coloniale. Tra 1936 e il 1939 le aspirazioni siriane all’indipendenza continuarono a essere
frustrate negli anni Trenta, quantunque nel 1936 si fossero nutrite speranze di arrivare a un accordo con il governo
francese di sinistra guidato da Léon Blum. Lo scoppio della Seconda guerra mondiale (1939) bloccò
momentaneamente il cammino autonomistico.

L’America Latina
(2/03) Anche il concetto di America Latina non è prettamente geografico: è un insieme di territori colonizzati
tra il 1400 e il 1500 dalle potenze iberiche. C’è un retaggio sotto forma di lingua, spagnola e portoghese, e
religione, cattolica, che sono la trama profonda di una cultura, perciò c’è più vicinanza di quanto si creda tra
America ed Europa latine.
In realtà esiste una pluralità di Americhe Latine; se ne individuano tre: una indiana, una bianca e una nera.
L’America Latina indiana, composta da Messico, dall’America Centrale in cui erano stanziati Aztechi e Maya
e l’area andina dove c’erano gli Incas, è un territorio in cui la maggior parte della popolazione discende da
quella autoctona, dai nativi che vivevano durante la conquista spagnola. L’America Latina bianca è formata da
Argentina, Uruguay, buona parte del Cile e Brasile meridionale, è caratterizzata da una popolazione che
discende dai colonizzatori iberici e da flussi migratori europei che raggiunsero l’America Latina tra l’Ottocento e
il Novecento. L’America Latina nera, comprendente gli Stati caraibici e il nord-est del Brasile, deriva dalla
necessità di manodopera che ha causato il commercio di schiavi dall’Africa.
Da questa pluralità deriva il concetto di etno-nazionalismo, secondo cui la comunità dev’essere fondata su base
etnica, non solo su basi culturali e linguistiche. In molti Stati latino-americani, il concetto di stato-nazione è
frammentato da divisioni etnonazionalistiche, come in Brasile tra Brasile nero e bianco. Si creano delle rigide
barriere sociali che portano problemi di convivenza civile che si manifestano anche tutt’oggi.

La storia dell’America Latina è segnata da eventi traumatici: la conquista iberica che decimò le popolazioni
indigene, lo schiavismo, la migrazione di massa di opera europea tra fine 1800 e inizio 1900.
L’America Latina non coincide esattamente con il Sudamerica, ma si sviluppa sull’America settentrionale, centrale
e Sudamerica. Inoltre, non tutto il Sudamerica è considerato America Latina: il Suriname è una colonia olandese e
la Guyana francese è una colonia francese, anche se hanno rapporti molto intensi con l'America Latina.

Il moto d’indipendenza delle colonie spagnole comincia approfittando di riflesso la storia europea, ovvero la
debolezza del governo spagnolo a causa dell’invasione di Napoleone. Tra il 1808 e il 1826 tutti gli Stati sono
indipendenti. La culla dei moti è il Venezuela; il grande leader è il colonnello Simon Bolivar, un militare con
anche la taratura di pensatore politico molto originale. Dopo il movimento d’indipendenza del suo Paese, il
Venezuela, decide di partire per liberare anche la Colombia: entra a Bogotà ed esprime la sua originalità politica,
riuscendo a creare un unico Stato che comprende il Venezuela e la Colombia, chiamato Repubblica della
Grande Colombia. L'idea di Bolivar è una lega di Stati latino-americani, una federazione in grado di mutuare
l’esperienza statunitense. Gli ambienti nazionalisti venezuelani si indispettiscono. Bolivar scende lungo la costa
del Pacifico e libera l’Ecuador e il Perù, che comprendeva anche la Bolivia. La Bolivia nasce allora perché, in
onore di Bolivar, si costituì un nuovo Stato negli anni ‘10 del 1800. Tra il 1816 e il 1818 José de San Martin
libera Argentina e Cile. Bolivar avvia subito contatti diplomatici tra i paesi per formare una federazione. In
Venezuela, nel frattempo, l’opinione pubblica si sentiva sminuite le sue istanze indipendentiste; Bolivar quindi fa
un passo indietro e, nel 1830, si ritira dalle cariche politiche.
Si è in una situazione di molteplici stati indipendenti che non hanno né tradizione né solidità istituzionale. si
affermano le élite militari, protagoniste del moto d’indipendenza. Nasce il fenomeno del caudillismo, fenomeno
politico secondo il quale la direzione politica di un Paese veniva affidata al capo militare in seguito a colpo di
Stato.

In Brasile l’indipendenza è un fenomeno incruento, un’operazione dinastica. Nel 1822 Pietro I, il figlio del re
portoghese proclama la costituzione di una monarchia indipendente di stampo costituzionale sotto la sua sovranità.
Nei due decenni successivi, il Brasile vive un periodo di stabilità, di sviluppo economico e sociale.
C’era ancora però il problema della schiavitù da risolvere. Il Brasile è l’ultimo stato delle Americhe ad abolire la
schiavitù nel 1888. Intorno a questo problema si consuma un passaggio di regime. Il figlio di Pietro I, Pietro II,
aveva governato il Brasile finché il suo potere monarchico crollò intorno alla questione dell’abolizione della
schiavtù, che va a scontentare la classe dei proprietari terrieri. Viene quindi proclamata una Repubblica, il cui
presidente, Deodoro da Fonseca, era un generale. Si instaura un governo dittatoriale, a cui seguirono regimi
dello stesso tipo autoritario. Si abbandona il modello di monarchia costituzionale.
Ancora oggi, la storica brasiliana Lilia Moritz Schwarz afferma che in Brasile c’è razzismo strutturale.

L’indipendenza del Messico ha invece degli elementi di originalità, tra cui la forte presenza di popolazione
autoctona. La rivoluzione indipendentista anti-spagnola assume una connotazione di protesta sociale
indirizzata all’abolizione della schiavitù per gli Indios e alla ridistribuzione della terra. La protesta sociale era
guidata da Miguel Hidalgo e José Morelos, due sacerdoti di campagna, persone vicine agli oppressi. Anche in
Messico erano i militari a controllare la situazione. L’indipendenza del Messico nasce nel 1824 sotto la guida
militare. Il nuovo ordinamento repubblicano conservava aspetti retrogradi e contraddittori, come i tribunali speciali
per l’esercito e la Chiesa, e nessuno fece nulla affinché gli Indios potessero integrarsi nella società e uscire dalla
condizione di schiavitù. Il regime militare propone una torsione sempre più autoritaria.
All’epoca il Messico comprendeva anche il Texas, la California e l’Arizona. I coloni di origine europea del Texas
decidono di lottare per l’indipendenza per staccarsi dal Messico. La guerra messicano-statunitense fece perdere
al Messico questa aree. C’è una situazione di instabilità interna: negli anni ‘50 si afferma un fronte progressista
guidato da Benito Juárez, il primo Indio a diventare capo di Stato nella storia americana. Si avvia una stagione di
riforme osteggiata dalle forze conservatrici, tanto che nel 1876 c’è un nuovo colpo di Stato e nuovo regime
autoritario. La rivoluzione messicana che avviene tra il 1910 e il 1917, i cui leader sono Emiliano Zapata e
Pancho Villa, è un movimento di opposizione armata contro l’autoritarismo militare e la prepotenza dei
grandi proprietari terrieri. Per mettere fine alla rivoluzione intervennero gli Usa, facendo ritornare al potere i
militari.

Spesso in America Latina si affermano regimi oligarchici di natura militare.


Quest’area è interessata dal fenomeno della pre-globalizzazione di fine 1800: le navi a vapore consentirono a
milioni di uomini di lasciare l’Europa per le Americhe. L’ondata umana portò energie nuove, i migranti erano
vogliosi di costruire un futuro migliore, portando nuove energie economiche e sociali. I Paesi latino-americani si
erano liberati dal colonialismo, ma si affermò un neocolonialismo, sotto forma di dipendenza economica:
l’America Latina si specializzò nell’esportazione di materie prime verso l’Europa, come minerali e materie
agricole, e importava beni lavorati dall’Europa. Era un rapporto economico diseguale e penalizzante. Di
neocolonialismo si parla anche oggi in riferimento all’Africa subsahariana.
Nel frattempo, si formano metropoli come Città del Messico, Caracas, Santiago del Cile e Buenos Aires, che si
trasformano da villaggi a realtà metropolitane. A questa crescita contribuisce l’immigrazione europea. La crescita
non è distribuita, ma concentrata in megalopoli, una per stato. Questa pressione popolare mette a dura prova il
liberalismo oligarchico, mettendo in moto istanze democratiche, come la richiesta di diritti e di partecipazione.
La crisi dei regimi oligarchici fu determinata dal montare di domanda di democrazia, di partecipazione e
cambiamento. Nascono partiti portatori di queste istanze, come Unione civica popolare in Argentina, Alleanza
popolare rivoluzionaria americana in Perù, ecc. Tra i punti in comune ci sono le elezioni libere e l’allargamento del
suffragio elettorale. Si sviluppano movimenti e partiti socialisti che trovano impulso nella Rivoluzione bolscevica
del 1917. Nel 1929 si tiene una conferenza di Partiti comunisti dell'America Latina. La Prima Guerra Mondiale
ha conseguenze importanti, generando scossoni decisivi per il crollo di regimi oligarchici. A partire dal 1914
molte economie si ritrovano in difficoltà perché non avevano né sbocchi sicuri per nuove esportazioni né i
prodotti che erano soliti importare: ciò mostra la fragilità dell’economia. Al posto di capitali europei arrivano gli
investimenti statunitensi, rafforzando la loro influenza. I paesi più dinamici cercarono di creare una propria struttura
industriale, con il risultato di accelerare i processi di modernizzazione, mentre nuove domande sociali e politiche
che insidiavano sempre di più regimi oligarchici. La scarsità di beni e disoccupazione provocò una grande ondata di
scioperi anche violenti che attraversano i Paesi subito dopo guerra, tra il 1919 e il 1921. La crisi economica post
Prima Guerra Mondiale si inasprisce con la crisi del ‘29. I governi non riescono a tenere le redini dei Paesi, ma non
si passa a una realtà democratica. Dove le élite al potere erano solide si assiste a una reazione autoritaria, mentre
dove la modernità era più imposta i vecchi regimi si trasformarono in populismi.

Il populismo è quando un leader politico si rivolge al popolo, con un carattere demagogico, perché il
riferimento al popolo è imprecisato. Si esaltano le virtù di semplicità e concretezza del popolo al posto del
pensiero sofisticato dell'élite. È un concetto semplificato di democrazia basato su un rapporto tra leader e popolo
senza mediazioni.
Nel corso del 1900 si individuano tre populismi:
1. quello russo di stampo socialista e rivoluzionario che nasce a fine 1800;
2. quello americano degli Usa, con un carattere mistico, millenarista, fortemente religioso, che nasce
sempre a fine 1800;
3. quello latino-americano, che si sviluppa tra gli anni ‘20 e ‘30 del 1900, con caratteri che si ritrovano
nell’esperienza europea dei fascismi.
In Russia il populismo è un movimento politico che avvocava l’emancipazione politica dei contadini.
L’obiettivo era dar vita a un socialismo rurale basato sull’autonomia delle singole comunità rurali. Aveva elementi
che l’avvicinano alla tradizione anarchica. Il movimento importante nella Russia di fine 1800 ebbe il suo momento
di maggiore notorietà quando venne assassinato lo zar Alessandro II. È la versione più rivoluzionaria del
populismo.
Negli Usa il populismo esprime ansie e timori di ceto agrario del sud nei confronti del capitalismo industriale
del nord. Aveva toni mistici e millenaristici, si invocava il ritorno a una società di piccoli proprietari terrieri contro
il denaro.
Il populismo sudamericano si sviluppa in una forma più tarda, sotto forma di peronismo in Argentina, da Juan
Domingo Perón, e di getulismo in Brasile, da Getúlio Vargas. Richiamano i concetti di democrazia senza
mediazioni, il Parlamento delegittimato e la ricerca diretta tra leader e popolo che si ritrovano anche nel
fascismo europeo. Forte è la connotazione nazionalistica, tanto che si parla di nazionalpopulismo. Il populismo è lo
sviluppo del caudillismo ottocentesco, uno sviluppo che fa i conti con le istanze democratiche che si sono
sviluppate. Serve un regime di tipo nuovo che riesca ad avere il consenso del popolo ma sempre in chiave
autoritaria, ricevendo in cambio attenzione allo sviluppo welfare. È una dinamica che si ritrova in tante esperienze
novecentesche, come nazismo, fascismo e comunismo sovietico.
L’Europa tra 1800 e 1900
(3/03) In Europa il XIX secolo è caratterizzato da regimi di stampo:
1. autoritario, ovvero i regimi che limitano la libertà di espressione, che negano il pluralismo;
2. plebiscitario, i regimi in cui il leader cerca la legittimazione nel pronunciamento del popolo-nazione
senza la mediazione di un Parlamento, fuori dai meccanismi della democrazia rappresentativa;
3. populista o nazionalpopulista, i regimi autoritari basati sui rapporti tra leader e popolo e sui
provvedimenti assistenzialistici dedicati alla popolazione, con un'attenzione a livello retorico ai ceti
medio-bassi. C’è sviluppo delle politiche sociali e del lavoro in un contesto autoritario.
I regimi nazional-populisti si sviluppano nella prima metà del 1900 perché il tema dello stato assistenziale è legato
al contesto storico di modernizzazione economica e sociale che, sia in Europa sia in America Latina, si realizza fra
il XIX e il XX secolo, con lo sviluppo industriale dei servizi, la crescita delle città, lo sviluppo dei ceti medi e dei
movimenti dei lavoratori.
Democrazia, populismo e totalitarismo hanno un rapporto complesso: nel 1900 le società si democratizzano,
ma le istanze democratiche possono avere come esito non una democrazia compiuta, parlamentare, ma bensì forme
populiste e totalitarie.

La Francia tra il 1700 e 1800 è un laboratorio per la democrazia, sia per quanto riguarda le vicende della Prima
Repubblica (1792-1804) sia per quelle della Seconda Repubblica (1848-1852). Entrambi i periodi hanno le stesse
dinamiche: le stesse istanze democratiche sono seguite da forme di governo plebiscitarie e totalitarie.
Negli stessi decenni della prima parte dell’Ottocento le istanze democratiche si sviluppano nel dibattito pubblico
europeo. Mazzini era sostenitore dello spirito associativo; affermava che unirsi per uno scopo condiviso è alla
base della democrazia. Aveva fiducia nell’iniziativa dal basso, nell'iniziativa popolare, per la conquista della libertà
e dell’indipendenza delle nazioni oppresse. Il suo pensiero di libertà delle nazioni abbracciava tutti i popoli. Negli
anni ‘30 Mazzini fondò una società rivoluzionaria col nome di Giovine Europa, chiamando a mobilitarsi i
giovani che si battessero per questi scopi. In Gran Bretagna, nel 1842, si sviluppò il Movimento Cartista, il cui
nome deriva dalla carta del popolo che viene presentata alla Camera dei Comuni. La rivendicazione principale
era il suffragio universale maschile e la remunerazione per gli eletti, così da permettere anche agli esponenti
degli strati popolari di essere eletti in Parlamento e di dedicarsi all’attività politica. La Carta fu respinta, ma arrivò
una seconda petizione, che parlava anche di diritti sociali in materia di salari e di condizioni di lavoro. Nonostante
anche la seconda petizione venne respinta, il Cartismo segnalò comunque mobilitazione inedita.
Questi sono tutti sintomi di una coscienza democratica che si rafforza in Europa e ci conduce fino al 1848, quando,
soprattutto in Francia, riemergono le idee che avevano preceduto la Restaurazione. Tutti i giovani europei
guardavano Parigi come un faro per quanto riguardava le speranze democratiche.
Alla parte più avanzata della società francese non bastava che votasse solo la parte della popolazione più abbiente.
Nel febbraio 1848 si arriva a una rivoluzione che porta alla nascita della Seconda Repubblica, i cui protagonisti
sono i centri popolari urbani. Scoppia in seguito a una manifestazione popolare per la richiesta del suffragio
universale maschile. Si arriva alla proclamazione della Seconda Repubblica fondata sul suffragio universale. Poiché
non tutti facevano parte degli ambienti urbani, si delineano anche posizioni favorevoli a un ritorno all’ordine.
Emerge la figura di Luigi Napoleone Bonaparte, nipote di Napoleone I. La sua ascesa, che lo vede diventare
prima presidente e poi imperatore, ci riporta a un regime plebiscitario che muta l’esperienza di Napoleone I. Nel
1852 assume il titolo di Napoleone III, perché il figlio di Napoleone I era già morto giovane. La sua vera forza è
stata nel proporsi come memoria di Napoleone I, che aveva conservato una straordinaria aura mitica, ravvivata
anni prima dalla traslazione dei suoi resti in un sepolcro di Parigi, l’Hôtel des Invalides.

La costituzione approvata sul finire del 1848 delineava una Repubblica presidenziale, che affida poteri
importanti al presidente visto sia come presidente sia capo del Governo. Nelle elezioni presidenziali che si
svolsero nel 1848 vinse Luigi Napoleone Bonaparte, che ottenne un numero enormemente superiore di voti rispetto
a tutti gli altri candidati. Il suffragio universale ha finito per tradire le aspettative di progressisti e rivoluzionari,
perché le campagne moderate ebbero la meglio sulle città.
Napoleone non si accontenta della situazione e nel 1851 fa un colpo di Stato, scioglie il Parlamento e annuncia un
nuovo progetto costituzionale che non prevede limiti temporali alla carica di presidente. Nel 1852 con un
plebiscito trasforma la repubblica in impero, assumendo titolo di Napoleone III, fino al 1870, dopo la guerra
franco-prussiana.
Questo mostra come serva un’alfabetizzazione democratica, ovvero che i cittadini si abituino al pluralismo
politico, affinché la democrazia arrivi davvero.

A metà del 1800 emerge un’area tedesca, dove la Prussia realizza un'unità tedesca che diventa la principale
potenza europea. Il processo di unificazione è guidato dall’alto, non vede una componente democratica come in
Italia, bensì è un’operazione guidata dal cancelliere Otto von Bismarck, la cui autorità si consolida a partire dagli
anni ‘60 del 1800. Questa unificazione procedette con due guerre vittoriose: nel 1866 la Prussia sconfisse l’Austria,
poi nel 1870 sconfisse la Francia che si opponeva al consolidamento della Germania prussiana in Centro Europa.
Il 1870 è una data periodizzante perché le conseguenze della guerra franco-prussiana sono molto rilevanti: in questo
stesso anno inizia la Terza Repubblica francese e un nuovo impero tedesco, denominato Secondo Reich perché lo
si intendeva come successore del Sacro Romano Impero. La Germania unita era posizionata saldamente al
centro del continente, si era ampliata annettendo l’Alsazia e la Lorena e aveva un’economia in grande
crescita: sviluppano una forma di capitalismo con investimenti dallo Stato a sostegno dello sviluppo dell’industria,
soprattutto di quella pesante, che negli anni garantisce una potenza militare.

Lo sviluppo industriale portò alla crescita del proletariato industriale, della piccola-media borghesia, e alla
crescita del commercio. Le società europee sviluppano strutture sociali sempre più complesse. Lo sviluppo
economico permette un miglioramento dei salari, quindi anche i ceti popolari potevano destinare una quota di
reddito all’acquisto di beni non di prima necessità. Ci si può permettere anche di arrivare a un contratto di
fornitura domestica di energia elettrica. Si ingrossa il numero di consumatori. Con le nuove dinamiche
commerciali, nascono i grandi magazzini, la pubblicità che caratterizza i giornali, le riviste, ecc e il concetto di
tempo libero, inteso come idea di tempo dedicato al consumo. Nel contesto italiano c’erano due riviste illustrate
importanti: l’Illustrazione italiana (1873) e la Domenica del Corriere (1899). A livello continentale ci sono il Daily
Mail e i quotidiani parigini. Chi se lo può permettere si informa sulle riviste riguardo a cosa succede a livello
nazionale e nel mondo.
Prendono piede anche gli spettacoli sportivi e il teatro, che a partire dagli anni ‘10 e ‘20 del 1900 incontra la
concorrenza del cinema. Iniziano gli spettacoli sportivi, soprattutto il calcio e la professionalizzazione dello sport.
L’allargamento dei consumi culturali viene delineata con la definizione di Belle Epoque, ovvero l’epoca tra la fine
del 1800 e inizio del 1900, perché c’è una dimensione spensierata, legata anche al consumo, che prima non
esisteva per i ceti popolari e intermedi.

Il cittadino consumatore diventa elettore e ciò causa anche l’ingresso del cittadino consumatore in politica,
grazie all'estensione del diritto di voto. Il rafforzamento dei ceti intermedi, dei lavoratori porta a nuovi attori
sociali che chiedono di partecipare. Il problema centrale è quello di rispondere alla domanda di inclusione
politica proveniente dai nuovi gruppi sociali, soprattutto urbani, coinvolgendoli nella politica.
Si allargano le basi sociali dello Stato. Se fino al 1870 il sistema politico più diffuso era la monarchia costituzionale
in cui il diritto di voto era limitato, 50 anni più tardi il sistema politico più diffuso era quello che prevedeva il
suffragio universale maschile. Nascono i partiti di massa, primi tra tutti i Partiti socialisti e, anche se in misura
minore, i Partiti cattolici, come lo Zentrum tedesco e il Partito popolare di don Luigi Sturzo. Emerge anche la
domanda di diritti politici da parte delle donne, perché stavano prendendo coscienza dei loro diritti, passando
attraverso una migliore istruzione e un accesso sempre più frequente al mondo del lavoro.
L’imperialismo, ovvero la proiezione aggressiva e militare dell’idea di nazione, si afferma a fine 1800, quando
inizia ad affermarsi la partecipazione ampia alla vita dello Stato. Le classi dirigenti europee cercavano una
legittimazione nel voto popolare. I cittadini erano sempre più coinvolti nelle scelte del Paese anche per quanto
riguardava la politica estera. Le colonie davano prestigio nazionale in un contesto eurocentrico, dove si era
convinti che la civiltà europea avesse il diritto di imporsi sul resto del mondo. Il coinvolgimento politico,
culturale ed emotivo di tutta la comunità nazionale è fondamentale per il concetto di imperialismo.
Per capire il fenomeno dell’imperialismo è fondamentale la partecipazione emotiva della popolazione alle imprese
coloniali. Non a caso “imperialismo” ha il suffisso -ismo, che indica una dimensione culturale ideologica. Spesso
si completa con razzismo e antismitismo, con l’identificazione di nemici interni ed esterni alla comunità sociale che
devono essere marginalizzati.
L’emancipazione femminile
(8/03) L’emancipazione femminile è la lotta per l’uguaglianza di diritti sociali e politici tra uomini e donne.
Oggi in Italia la situazione ha novità rilevanti: per esempio, per la prima volta, sia il Presidente del Consiglio sia il
leader dell'opposizione sono donne. Nonostante ciò, le diseguaglianze continuano ad essere rilevanti, come per
esempio nel settore dell’istruzione e lavorativo: si nota come nelle facoltà STEM il divario tra iscritti maschi e
femmine è molto grande. Questa divergenza deriva dal fatto che ci sono ancora pregiudizi e stereotipi sociali che
indicano le donne come meno adatte alle materie scientifiche. Nel settore privato le donne guadagnano il 16% in
meno degli uomini a parità di mansione e la differenza sale salendo nella gerarchia incarichi, arrivando al 30% in
meno. Questo ha una conseguenza nella vita privata: solitamente le donne sono coloro che prendono il congedo
parentale con una riduzione di salario, oppure le donne che subiscono violenza domestica sono trattenute dal
denunciare e andarsene perché non hanno l’indipendenza economica. Il tema del lavoro e della giusta retribuzione
ha conseguenze non solo economiche, ma anche sulla vita sociale e familiare in maniera profonda.

Le premesse dei movimenti di emancipazione femminile si individuano nell’Illuminismo, quando inizia il dibattito
sull’istruzione femminile professionale. Nella Rivoluzione francese c’è una grande pioniera nella questione:
Olympe de Gouge, che nel 1791 scrive la Dichiarazione della donna e della cittadina, contestando la
dichiarazione universale di due anni prima che riguardava solo l'universo maschile. È il primo documento che
invoca l’uguaglianza giuridica e politica delle donne. Morì nel 1793 condannata a morte da Robespierre e dal
governo giacobino, contro il quale si era scagliata in modo non violento. Tra gli atti d’accusa c’erano essersi
immischiata nelle cose della Repubblica, e aver dimenticato virtù che convengono al suo sesso. Siamo alle radici
del protofemminismo. Il suo obiettivo era includere nella categoria dei diritti universali anche la donna; è un testo
importante sul piano della filosofia politica.
Solo intorno alla metà del 1800, in alcuni circoli socialisti inglesi appare l’argomento dell’uguaglianza tra
uomini e donne. Nel 1851 esce l’articolo L’emancipazione delle donne di Harriet Taylor, l’iniziatrice del
movimento femminista inglese. Si ritrova una rivendicazione dell’ammissione giuridica e concreta delle donne
all’uguaglianza di tutti i diritti politici e sociali come i cittadini maschi. Come ambiente sociale siamo nell’alta
borghesia inglese. Suo marito John Stuart Mill si fece promotore in Parlamento della richiesta di estensione di voto
alle donne negli anni ‘60 del 1800, ma la proposta non venne accolta. Nel 1869 Mill pubblica un libro dedicato alla
disuguaglianza di genere, On the subjection of women, dove individuava nel grado di emancipazione femminile un
fattore basilare sul quale valutare il livello di civiltà di una nazione. Avviene un dialogo epistolare tra Harriet Taylor
e Sarah Moore Grimké, attivista sia per l’abolizione della schiavitù sia per l’emancipazione delle donne. Queste
prime attiviste si muovono tenendo presente la totalità del problema, anche la vita sociale concreta, le
condizioni di lavoro, gli aspetti giuridici del matrimonio, ecc. È un impegno a tutto tondo per la libertà delle donne.
Il movimento suffragista inglese si inizia a sviluppare nel 1872, quando nasce prima la Società nazionale per il
suffragio femminile da parte di Helen Taylor, e poi la Lega per il diritto di voto alle donne di Emmeline
Goulden Pankhurst. Nel 1894 le donne ottengono il diritto di voto amministrativo. Nel 1918 viene introdotto il
diritto di voto politico alle donne, inizialmente limitato alle donne sposate al di sopra dei trent’anni. Nel 1928
il suffragio politico viene esteso a tutte le donne. La Gran Bretagna è la prima nazione a muoversi in questo
ambito. In altri paesi come l’Italia e Francia bisogna aspettare la fine della Seconda Guerra Mondiale,
rispettivamente nel 1946 e nel 1945. Il collegamento tra le Guerre mondiali e la conquista del diritto di voto è
concreto: durante la Prima Guerra Mondiale, con milioni di giovani maschi impegnati al fronte, le donne
hanno assunto un protagonismo sociale e lavorativo che prima era loro precluso, ricoprendo mansioni lasciate
libere dagli uomini. Il dibattito inizia ad essere presente anche negli altri Paesi europei, anche se bisognerà aspettare
per ottenere il diritto.
Alle spalle c’era già stato il movimento per la rivendicazione del diritto di voto, che aveva preso vigore tra fine
1800 e inizio 1900. La grande animatrice di questo movimento di massa fu Emmeline Goulden Pankhurst,
supportata dal marito. Le attiviste per la conquista del suffragio vennero definite suffragette, con un appellativo
denigratorio introdotto dal giornale inglese Daily Mail. Le attiviste si riappropriano del titolo e in Gran Bretagna,
negli anni precedenti alla Prima Guerra Mondiale, le manifestazioni acquisiscono una violenza particolare,
soprattutto a Londra. Ci sono scontri anche con le forze dell’ordine. Un esempio è l'insegnante Emily Davison
muore nel 1913 gettandosi nella pista di cavalli durante una gara davanti al cavallo di re Giorgio V per legare alle
briglie del cavallo una bandiera che segnalava la battaglia delle suffragiste. Rimane travolta dal cavallo e muore; il
sovrano non si cura e ciò genera uno sciopero della fame da parte delle militanti femministe.

I primi cambiamenti non avvennero sul piano politico, ma si registrarono nella realtà sociale. Nella seconda metà
del 1800 un numero rilevante di donne iniziò gli studi superiori e universitari. Questa novità era ancora contrastata
dall’idea dominante della maternità, ma comunque gradualmente quasi tutti i sistemi universitari si aprirono alle
studentesse. C’era un’enorme differenza tra l’ambiente anglosassone in Gran Bretagna e Usa e il resto dei Paesi
occidentali. In Usa, nel 1910-11, le ragazze iscritte all’università erano già al 35%, in Gran Bretagna erano al 26%;
in Francia, Italia e Germania siamo tra il 5-6 %. Questo avviene perché sia in Usa sia in Gran Bretagna aveva già
preso piede un movimento femminista e c’erano gruppi protestanti che da tempo avevano aperto alle donne alcune
pratiche religiose, quindi il sistema ediucativo era più aperto compelssivamente. Compiuto gli studi c’era poi la
questione delle professioni: per esempio, le laureate spesso non potevano avere accesso alle professioni a causa di
barriere normative. L’apertura alle donne nel mondo del lavoro si manifesta solo nei primi decenni del 1900.

Nei Paesi europei crescono le città a livello sociale ed economico, quindi i giovani hanno possibilità di socialità
impensabili, maggiore libertà e indipendenza.
Nascono nuove tecniche anticoncezionali che superano la dimensione della sessualità connessa a quella della
maternità. È la premessa per la rivoluzione dei comportamenti sessuali che si afferma solo più tardi. Nella seconda
metà del 1900 si afferma ancora di più con la creazione della pillola anticoncezionale, resa legale in Italia nel 1971
perché c’era una legge del codice penale di epoca fascista che proibiva la contraccezione per via orale. Questo
aspetto ha effetti anche sulla pianificazione delle famiglie: migliora il tenore di vita del proprio nucleo
familiare limitando il numero di gravidanze. Inoltre, anche gli avanzamenti in medicina portarono alla discesa
dei tassi di morti infantili, cambiando scenario.
Queste trasformazioni sociali sono vissute dagli ambienti conservatori, come la Chiesa, con preoccupazione. La
Chiesa cattolica considerava illecita ogni attività volta a limitare la fecondazione. I governatori pensavano che il
calo delle nascite corrispondesse a un calo della potenza militare della nazione. Secondo queste posizioni
conservatrici e tradizionaliste, che all’epoca erano prevalenti, le donne che cercavano piacere sessuale senza
gravidanza erano accusate di favorire il declino demografico e la decadenza del Paese. Nel 1893 Cesare
Lombroso pubblicò La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, che ebbe l’effetto di rivestire di una
patina pseudoscientifica la doppia morale sessuale: agli uomini si riconosceva una naturale inclinazione all’attività
sessuale, dall’altro si negava l’attività sessuale alle donne a meno che non fosse orientata alla maternità.

La tradizione dell’8 marzo, la Giornata internazionale della donna, nasce negli ambienti popolari. Sono i Partiti
socialisti che iniziano ad agitare il tema dell’emancipazione femminile. Tutto nasce in un Congresso delle donne
socialiste nel 1910 a Copenhagen, Danimarca. Prendevano parte alla conferenza le rappresentanti di 17 Paesi e la
delegata tedesca, Clara Zetkin, propose che in ciascuna nazione si individui una data in cui svolgere una
manifestazione dedicata alla questione femminile. La mozione è approvata e negli anni successivi si iniziano a
celebrare le Giornate internazionali della donna. Si consolida la scelta dell’8 marzo, perché l’8 marzo 1917 a
Pietrogrado, Russia, le donne scendono in piazza per chiedere pane e la fine della guerra. Questo diventa un
evento di grande portata ed entra nella tradizione internazionale come la giornata dedicata ai diritti delle donne.
Il primo 8 marzo viene festeggiato in Italia nel 1921 su sollecitazione del Partito comunista d’Italia. Dopo vengono
vietate dal regime fascista e torna a essere festeggiato nell’Italia repubblicana nel 1945. Questa giornata è promossa
soprattutto dalle associazioni femminili, come l’UDI, Unione Donne Italiane, nata nel 1945.
La storia del femminismo non è solo euroamericana. Nel mondo arabo si sviluppa un femminismo negli stessi
decenni di quelli europei. La grande protagonsta è Hudà Sharawii che fonda nel 1923 il Movimento femminista
egiziano.

In Italia l’UDI nasce nell’ottobre del 1945. Nasce per l’attivismo delle donne che avevano avuto un ruolo
significativo nella resistenza al nazifascismo. Nasce dai gruppi di difesa della donna, la più importante
formazione resistenziale a carattere femminile. Il ruolo delle donne nella Seconda Guerra Mondiale portò alla
conquista del diritto di voto anche in Italia.
Il primo decreto viene emanato nel 1945 e ammette le donne a un elettorato attivo; l’eleggibilità delle
cittadine italiane viene sancito nel 1946 con altro provvedimento di legge. In questa esitazione formale c’era il
segnale di quanto la questione del diritto di voto fosse ancora contrastata. Queste esitazioni ebbero riscontri
concreti: nelle elezioni del 1946 sia politiche e amministrative le candidate ed elette sono pochissime (<5%),
nonostante le donne vadano a votare in massa. I partiti politici continuano ad essere egemonizzati da una
prospettiva maschilista in tutta la storia dell’Italia repubblicana. Tra i 556 deputati dell'Assemblea costituente per
scrivere la Costituzione, le donne erano solo 21, chiamate le “madri della Repubblica”. Si arriva nella Camera dei
Deputati alla doppia cifra (10-11%) di presenza femminile nel 1989. Oggi la percentuale è del 31%. C’è stato un
incremento a partire dagli anni ‘90 del secolo scorso, quando avviene la crisi dei grandi partiti tradizionali,
come Pci, Psi, Democrazia Cristiana, ecc. Questo scossone che vive la politica italiana e il rinnovamento che ne
esce portano a un maggior protagonismo delle donne e a un maggior equilibrio di genere all’interno delle
istituzioni. Fino a quel momento non è esagerato dire che i partiti politici avessero guardato alle donne come
serbatoio di voti piuttosto che come rappresentanti all’interno di istituzioni.

Si può affermare che la militanza delle donne ha portato:


1. il tema del welfare più a misura di donna, con lo sviluppo di servizi per infanzia, che permettono alle donne
di poter lavorare;
2. una solidarietà internazionale nei confronti di popolazioni coinvolte in conflitti come Corea e Vietnam, con
l’invio di generi alimentari e l’accoglimento di donne provenienti da quei Paesi, e nei confronti delle
popolazioni in situazione di repressione da parte di regimi dittatoriali;
3. oggi è attivo l’impegno contro la violenza sulle donne e per combattere stereotipi di genere a livello sociale;
4. l’UDI è diventata Unione Donne in Italia per raccogliere le donne anche provenienti da altri Paesi;
5. la promulgazione nel 1978 della legge 194, che consente l’aborto entro i primi 90 giorni di gestazione.
L’Africa subsahariana
Gli storici che si riferiscono alla storia dell’Africa spesso fanno riferimento solo all’Africa subsahariana. Questa
regione ha 1 miliardo di abitanti in 50 paesi circa. Il Sahara è un’enorme fascia desertica che si estende da ovest a
est, lunga circa 4000 km e larga 1500-2000 km. Il Sahara arriva a toccare il Mediterraneo in Egitto e Libia, si
forma alle pendici meridionali della catena montuosa dell’Atlante nei paesi del Maghreb (Tunisia, Algeria e
Marocco). Il confine meridionale è collocato all’altezza del Sudan, attraverso il Ciad, il Niger, il Mali e la
Mauritania. La parte meridionale è l’Africa subsahariana.

Spesso ci si occupa di storia africana dal colonialismo europeo in avanti. Prima era vista come una storia statica,
una sorta di stato di natura. Solo grazie alla decolonizzazione si è preso coscienza della storia africana. Tutti i
Paesi africani e asiatici assoggettati al colonialismo delle potenze europee come Francia e Gran Bretagna
guadagnarono l’indipendenza e intrapresero la loro via verso lo sviluppo economico e sociale. È nata quindi
un’attenzione diversa nei loro confronti, diventando loro protagonisti.
Negli anni ‘60 partono due grandi progetti di ricerca storica con attenzione pluralista della storia del mondo. Nel
1966 parte Una storia generale dell’Africa, progetto promosso dall’UNESCO, commissione dell’ONU che si
occupa di scienza, cultura ed educazione, che si occupa della storia del continente africano con attenzione al ruolo
degli africani, che diventano soggetti della loro storia. Un secondo progetto viene promosso dall’Università di
Cambridge, la Cambridge history of Africa. Sfide di questo tipo hanno arricchito il modo di studiare la storia
andando verso una visione plurale del mondo.

Nell’Africa precoloniale non c’era il modello dello Stato centrato europeo. L'idea di Stato con i suoi confini
delineati e suoi apparati è stata introdotta dal colonialismo forzatamente. Le entità politiche precoloniali erano
decentrate, non c’era l’idea di un potere centrale che governasse l'intero territorio, non c’erano istituzioni
statali centralizzate. Uno dei principi organizzativi era la parentela, il concetto di clan che lega con il filo della
discendenza le generazioni passate, presenti e future. Era un sistema sociale fortemente paritario, in cui c’era
un’idea di uguaglianza nella quale le differenze venivano sancite dall’età.
Uno degli studiosi più importanti è Amartya Sen, Premio Nobel indiano. Egli include tra gli esempi fertili di idea
di democrazia anche esperienze precoloniali di comunità locali africane, perché dava importanza a forme di
autogoverno assembleari all'interno di una comunità. Non c’era un potere centrale che egemonizza il territorio, ogni
comunità locale esercitava l’autogoverno. Erano presenti elementi egualitari: non c’era gerarchia
nell’organizzazione sociale, era diffusa la tolleranza e la discussione dei problemi. Gli uomini adulti e anziani
avevano superiorità sociale: questo retaggio che vede un comportamento di deferenza nei confronti di anziani è
riscontrabile ancora nelle modalità e atteggiamenti delle popolazioni odierne dell’Africa subsahariana. Questo
elemento allude al fatto che non solo le donne, ma anche le generazioni maschili più giovani erano escluse dai
processi decisionali, che erano sì assembleari, ma rette da logiche gerontocratiche. Le comunità locali adottavano
forme partecipative in tutti i processi decisionali. Il governo locale si basava sull’idea partecipativa e caratterizzata
dall’autogestione.
Con l’esplosione del colonialismo europeo, forme statuali vengono introdotte in maniera forzata. I confini, che
non erano presenti nella tradizione africana, sono tracciati in maniera arbitraria sulla carta. I Paesi
subsahariani vengono creati attraverso l’imposizione dall’esterno di altri Stati, prima con la formazione di
colonie e poi con la concessione a questi possedimenti territoriali dell’indipendenza dopo il 1945. Se in Europa gli
Stati nazionali erano nati attraverso processi durati secoli, in Africa queste forme statali vengono introdotte con
la violenza in tempi rapidissimi con l’occupazione coloniale tra il 1800 e il 1900, senza alcuna forma di
maturazione istituzionale. Quest’origine storica artificiosa degli Stati è una delle ragioni della loro perdurante
debolezza ancora oggi, che si configura sotto forma di debolezza istituzionale, corruzione, violenza e guerre
civili.
L’esperienza coloniale si concentra nell’età dell’imperialismo dal 1880 al 1914. Salvo poche eccezioni, il
colonialismo in Africa inizia tardi. Prima gli europei si erano limitati a stabilire insediamenti commerciali sulle
coste. La penetrazione armata è spinta dalla competizione tra i nazionalismi sostenuti da motivazioni di
prestigio, economiche e dalla dimensione culturale e dal coinvolgimento emotivo delle nazioni che
sostenevano lo sforzo imperialista del proprio Paese. I principali concorrenti furono Gran Bretagna e Francia che
occuparono circa 2⁄3 del continente africano. Parteciparono anche Portogallo, Spagna, Germania, Italia e Belgio.
La fine della Prima Guerra Mondiale, tra il 1919 e il 1939, coincide con una seconda fase del colonialismo
europeo, attraverso il consolidamento di apparati statali coloniali. La crisi economica mondiale che inizia nel ‘29
con il crollo della borsa di Wall Street arriva però anche in Africa, danneggiando le esportazioni di prodotti africani
sui mercati internazionali.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale inizia la stagione della decolonizzazione, perché le potenze europee sono
indebolite dalla guerra. Nel 1945 nasce l’ONU, che mette al centro del suo programma l’indipendenza delle
nazioni e il riconoscimento dell'autodeterminazione dei popoli. Si arrivò alla consapevolezza che la stagione del
nazionalismo aggressivo era conclusa: da questo trae spunto il fenomeno della decolonizzazione.
Il decennio cruciale per il decollo dell’Africa subsahariana sono gli anni ‘60, in particolar modo il 1960, anno in
cui vengono alla luce 17 nuovi stati indipendenti. Gli unici due stati che rimangono sotto il controllo coloniale
sono Angola e Mozambico, che avrebbero dovuto aspettare gli anni ‘70 e la fine del regime di Salazar in
Portogallo. L’esperienza coloniale in Africa durò 80 anni circa, è un’esperienza breve rispetto al colonialismo in
America Latina, ma non per questo non ha avuto effetti duraturi e profonde implicazioni.

La colonizzazione lascia un’eredità in termini di confini, di apparati amministrativi costruiti in fretta, lasciando
legami culturali ed economici. La sua eredità più evidente è quella del mantenimento della griglia dei confini
nazionali tracciati su carta, confini che raramente tenevano conto di caratteristiche etniche, politiche, demografiche
delle varie società locali. Questo contribuì ad accentuare le divisioni tra le comunità etniche quando non a crearle
ex novo. Su questo tema si vede l’origine delle guerre civili e dell’instabilità interna che ha caratterizzato l’Africa
subsahariana fino a oggi.
Le caratteristiche comuni sono la forte concentrazione del potere nelle mani di singoli leader, la presenza di regimi
dittatoriali fortemente personalistici che prendono sembianze di regimi militari o regimi a partito unico,
clientelismo e corruzione, problemi di convivenza etnica che portano a scontri politici segnati da forti
connotazioni etniche, come in America Latina l’etnonazionalismo.

Recentemente sono uscite due notizie che riportano linee di continuità con il colonialismo.
Una commissione di storici voluta da Macron è stata chiamata a far luce su alcuni fatti che riguardano il Ruanda,
che era stato una colonia francese, nella quale negli affari interni la Francia ha giocato ruolo non sempre limpido.
Nel 1994 il presidente francese Mitterand appoggiò il regime degli Hutu, l’etnia dominante in Ruanda, fino al
punto di agevolare uno dei massacri più impressionati di storia africana, che nel 1994 in pochi mesi gli Hutu
realizzarono per contro dell’etnia dei Tutsi. Ciò perché il presidente degli hutu era amico fraterno di Mitterand e,
inoltre, i Tutsi avevano la loro base operativa in Uganda, un paese confinante di una ex colonia inglese. Si vede la
logica post coloniale della difesa dell’influenza di Parigi su una ex colonia.
Negli ultimi 20 anni, 35 milioni di ettari di terra africana sono stati acquistati dalle multinazionali cinesi,
statunitensi e degli Emirati Arabi. È una nuova forma di colonialismo, più subdolo e legato a operazioni
finanziarie nelle terre africane. I Paesi coinvolti sono Congo, Sudan, Sierra Leone, Mozambico ed Etiopia.
Queste terre sono state svendute a poco prezzo e lavorate dagli africani sottopagati. Contro questa forma di
neocolonialismo stanno nascendo movimenti di contadini in lotta contro questo sfruttamento.

Negli anni ‘80 del XIX secolo il Portogallo convoca la Conferenza internazionale sull'Africa per richiamare la
necessità di un principio d’ordine. Il Portogallo cercava di salvaguardare i propri possedimenti in Africa, come
Angola e Mozambico. Si discutono le modalità secondo le quali accettare o respingere le rivendicazioni dei Paesi
europei sui territori africani. Quest’idea viene accolta dal cancelliere tedesco Bismarck perché la Germania voleva
diventare una potenza coloniale di rilievo come Gran Bretagna e Francia. La società tedesca chiedeva di avere un
ruolo da protagonista anche nell'espansione coloniale. Questa conferenza si tenne nel 1884-85 a Berlino e vi
presenziarono tutti gli Stati europei insieme agli Stati Uniti. Il trattato di Berlino del 1885 prevedeva che le nuove
acquisizioni territoriali andavano annunciate in modo formale e il riconoscimento accadeva se si era in grado
di dimostrare che la zona era occupata militarmente. Da questa regola scaturì la corsa all’occupazione. Con
poche eccezioni, tra cui l’Etiopia che conservò la propria autonomia fino agli anni ‘30, quando venne aggredita
dall’Italia fascista, in pochi anni l’Africa era occupata dalle potenze europee.
Gran Bretagna e Francia occupano 2/3 del continente e i contrasti nascono nel 1882, quando gli inglesi occuparono
l’Egitto allo scopo di controllare il canale di Suez.

In Sudafrica nel 1899-1902 avviene la guerra anglo-boera. Fu la guerra più sanguinosa combattuta sul suolo
africano, indicata spesso come l’apice dell’imperialismo europeo in Africa. Fu una guerra tra bianchi, combattuta in
Sudafrica, dove nell’ultimo quarto del XIX secolo erano stati scoperti dei giacimenti di diamanti e miniere d'oro.
La colonia britannica insidiata in Sudafrica decise di annettere anche le Repubbliche boere fondate al
confine del Sudafrica, fondate dai coloni di origine olandese.
Il colonialismo in Sudafrica ha una storia più lunga. Le prime due esperienze coloniali europee in Africa sono
quella francese in Algeria nel 1830 e quella britannica in Sudafrica. Allora la colonia inglese era chiamata Colonia
del Capo, era una parte importante dell’attuale Sudafrica. Si erano già insediati anche i coloni boeri all’epoca, fin
dalla fine del 1600. I coloni boeri decidono di lasciare la Colonia del Capo controllata dagli inglesi e fondare le
Repubbliche boere.
La Prima Guerra Mondiale
(10/03) Dalla Rivoluzione francese c’è l'idea che le istituzioni politiche devono essere espressione delle masse.
Tutti i regimi europei devono fare i conti con l’idea di nazione, con lo sforzo di governare una comunità di eguali
che chiedeva di partecipare. Il coinvolgimento della comunità nazionale non significa l’instaurazione di regime
parlamentare, ma può prendere diverse strade, come il plebiscitarismo o altri tipi di torsione autoritaria, ma
comunque la nazionale va coinvolta. Tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900 la partecipazione popolare diventò
strumento più importante di legittimazione e di rafforzamento di organi dello Stato.
In quel periodo in tutti gli Stati europei si allarga il suffragio elettorale, fino ad arrivare al suffragio universale
maschile. C’è la consapevolezza che per rafforzare lo Stato era necessario coinvolgere anche le masse
popolari. Si pone pienamente il tema della nazionalizzazione delle masse: bisogna impegnarsi a costruire e
modellare una comunità nazionale, far capire ai cittadini quali erano i diritti ei doveri che animavano la vita
nazionale, soprattutto alle popolazioni rurali. È quello che capita durante la Prima Guerra Mondiale, quando i
cittadini vengono mandati sul fronte in uno scenario completamente nuovo, in condizioni drammatiche. Questo
significava la nazionalizzazione delle masse. Il presupposto è lo stato di diritto, l’eguaglianza giuridica tra
cittadini. La nazzionalizzazione delle masse si serve di 4 strumenti:
1. l’istruzione di massa, almeno quella primaria;
2. la leva obbligatoria, che prelevava i giovani dalla loro comunità e li portava a essere inquadrati negli
eserciti, perché l’esercito è uno delle unità più simboliche dell’identità nazionale;
3. scelte di politica economica, come il protezionismo e l’applicazione di dazi doganali;
4. la partecipazione di nuove persone allargando il suffragio.
In tutti gli Stati europei si trovano applicati questi strumenti.

La riflessione va fatta sul pensiero di destra: di fronte alla Rivoluzione del 1789 e le ripercussioni succesive si
sviluppò accanto a pensiero democratico un pensiero reazionario, caratterizzato da un’ostilità verso le istanze
democratiche. Inizialmente, nel pensiero reazionario non c’era il riferimento al popolo-nazione, ma solo
l'opposizione alla secolarizzazione. I più importanti reazionari sono Joseph de Maistre e Louis de Bonald, che
esprimevano paura verso la modernità, volevano far tornare indietro la storia.
Nella seconda metà dell’Ottocento c’è un'evoluzione del pensiero conservatore. Esso fa propria la
modernizzazione delle masse, declinando questi aspetti in maniera aggressiva e competitiva, imperialista. Si
passa dal rifiuto della modernità a una curvatura di essa in senso militarista e bellicista. Il nazionalismo di fine 1800
si va a condire di diversi influssi, come il darwinismo sociale, ovvero l’applicazione arbitraria della teoria
naturalistica di Darwin alla storia delle civiltà umane. Nel 1859 Charles Darwin pubblica L’origine delle specie
dove si teorizzava il processo di selezione naturale e si affermava che solo le specie più adatte all’ambiente si
riproducono. Questa teoria applicata all’uomo assumeva un ambiguo peso culturale assumendo il significato di
supremazia della razza bianca sulle altre civiltà. Arbitrariamente si trapiantava la teoria naturalistica nel campo
delle civiltà umane. In quei decenni usciva anche l'opera di Joseph Arthur de Gobineau, un saggio sulla
diseguaglianza delle razze umane. Si passa quindi velocemente all’eugenetica, mutuando un concetto di Darwin,
quello della selezione sessuale, ovvero il controllo medico e sanitario sulle persone che si accoppiano per
portare un miglioramento della specie umana. Questa è una pratica che verrà perfezionata nella Germania
nazista. Il darwinismo sociale, l’eugenetica e il razzismo sono accomunati dal fatto che sono teorie che ragionano in
fatto di superiorità e gerarchia. In questo campo la guerra sembra l’esito naturale a cui ci si può preparare. Teorie di
questo tipo assecondano l’esasperazione del nazionalismo e dell’imperialismo dando un fondamento
pseudo-biologico.

Si inserisce anche il discorso sull’antisemitismo. È un discorso lungo temporalmente. L'avversione ha origini


antiche. Inizialmente prende forma come ostilità di carattere religioso, con il termine di antigiudaismo.
L'accusa che si muoveva era di deicidio, ricorrente fin dai primi secoli del cristianesimo. Questo aveva portato con
sé forme di discirminazione e restrizione della vita quotidiana, gli ebrei erano spesso segregati all'interno di ghetti.
Dal 1700 con l’affermarsi delle idee illuministiche e l’universalità dei diritti, la condizione di ebrei europei era
cambiata, si andava verso la parità dei diritti civili.
Nel corso del XIX secolo si manifestano resistenze culturali e sociali ai processi di integrazione. Da qui nasce
l’antiebraismo di fine 1800, indicato con il termine “antisemitismo” perché ha un carattere di razzismo con
contenuto pseudo-biologico. Il termine indica una contrapposizione non tanto religiosa, ma propriamente razziale,
richiamando i fondamenti scientifici secondo cui alla stirpe corrispondono certe attitudini sociali.
In Francia si verifica il caso Dreyfus. Dreyfus è un ufficiale dell’esercito di origine ebraica che è accusato di essere
una spia al servizio dei tedeschi nel 1894.
L’antisemitismo fece presa negli ambienti più fanatici. C’era l’idea che gli ebrei rimanessero estranei alla comunità
nazionale, c’era il pericolo che indebolissero la nazione. Iniziano anche delle pubblicazioni nel dibattito pubblico,
come quelle di Gobineau e La France juive di Eduard Drumont, che ebbe un successo enorme. L’anitseitsimo è
forte in Francia, Germania, in Europa centrale e in Russia. A Dresda c’è il Congresso internazionale antisemita
con i leader europei. Le violenze di massa più gravi caratterizzavano l’Impero russo con veri e propri pogrom,
stragi di ebrei perpetrate dalla popolazione con la connivenza delle autorità.
Furono i Partiti socialisti che si opponevano frontalmente all’antisemitismo in nome dell’internazionalismo.
Nel 1898 in Francia gli intellettuali socialisti si raccolgono nella Lega dei diritti dell’uomo e del cittadino,
riprendendo la tradizione della Rivoluzione francese. Gli ambienti democratici e socialisti si mobilitano contro
l’antisemitismo, tuttavia ciò non significa la sua scomparsa. A partire dalla fine dell’Ottocento, il germe
dell’antisemitismo accompagna il nazionalismo.

Internazionalismo e nazionalismo sono le due idee che si confrontano dal 1800. Lo scoppio della Prima Guerra
Mondiale sancisce la vittoria del nazionalismo.
L’universalismo illuminista mette le basi per l’internazionalismo. L'internazionalismo di matrice illuminista si
muove su un piano di preferenza filosofico-giuridico, mentre l’internazionalismo socialista ha ambizione e si
impegna a calare il concetto nella vita quotidiana delle masse popolari. I due concetti caratterizzano tutto il
1900. L’internazionalismo comunista deriva dalla Rivoluzione russa e dalla fondazione dell’Internazionale
comunista nel 1919. L’internazionalismo liberale nasce dalla Società delle Nazioni, creata dopo la Prima
Guerra Mondiale grazie al presidente Wilson, per garantire un’epoca di pace ed equilibrio. La Società delle
Nazioni sarà poi la premessa dell’ONU, che nasce nel 1945. Questa linea è la linea dell’internazionalismo
liberaldemocratico.

L’Europa a cavallo tra il 1800 e il 1900 è caratterizzata dalla Germania ingombrante al centro. È un Paese in forte
crescita economica e demografica, è il maggior produttore di acciaio, fondamentale per la politica di potenza
dell’esercito. Negli anni ‘80 del 1800 la Germania ha una posizione di altissimo livello per quanto riguarda la
marina militare, subito dopo quella britannica, tanto che sconfigge la Francia.
La guerra franco-prussiana e la sconfitta della Francia da parte della Germania è il tema che caratterizza i decenni
successivi: c’è un desiderio di rivincita fortissimo e la Germania ne è consapevole di questo. La diplomazia è
incentrata sulla ricerca di equilibrio europeo e sul tentativo di non dare la possibilità alla Francia di formare una
coalizione antitedesca.
Negli anni ‘70 Bismarck propose la Lega dei tre imperatori con Germania, Impero austroungarico e Impero
zarista. Quando la stella di Bismarck tramonta, si inaugura un nuovo corso voluto da Guglielmo II, che esprime la
volontà di un deciso espansionismo. Si mette da parte l'equilibrio europeo e i nuovi cancellieri tedeschi sono legati
a doppio filo all’imperatore. Guglielmo II interpretava gli umori della società tedesca, in grande crescita, che
voleva che il Paese guadagnasse importanza internazionale. L’imperialismo tedesco inizia a preoccupare le potenze
europee. Negli anni ‘90 si creò un’alleanza tra Francia e Russia (1894) e poi tra Francia e Gran Bretagna nel
1904. Questa trasformazione diplomatica è uno degli elementi che porta verso lo scoppio della Prima Guerra
Mondiale. Nel frattempo era nata la Triplice Alleanza tra Germania, Austria e Italia, sancita nel 1882. L'Italia
aderisce per una vicenda contingente successa in Nordafrica: nel 1881 la Francia aveva occupato la Tunisia, su cui
l’Italia aveva messo gli occhi, quindi il governo di Roma sceglie l’alleanza con Berlino e Vienna.

Il problema fondamentale del governo italiano nei decenni postunitari fu consolidare le strutture statali. Era un
problema enorme rispetto alla Francia e alla Gran Bretagna, che avevano già una tradizione di lungo periodo, e
rispetto alla Germania, il cui processo di unificazione era avvenuto dall’alto con un processo burocratico. Non fu
semplice colmare le fratture che caratterizzavano il Paese, non era semplice unire parti del Paese che erano state
rette da ordinamenti diversi. C’era anche il problema aggiuntivo della rottura tra la classe dirigente liberale
che aveva promosso l’unificazione e la Chiesa. Fino all’inizio del 1900 si tennero separati il mondo catolico e le
istituzioni dello Stato unitario. Il processo unitario aveva portato alla fine del potere temporale del papa.
Nel contesto italiano fu importante nel processo di nazionalizzazione delle masse l’allargamento del suffragio
universale, che avviene prima nel 1882 e poi nel 1911, quando viene introdotto il suffragio universale maschile.
La riforma elettorale fu realizzata in seguito al cambio di governo. A governare il Paese fino al 1876 fu la Destra
storica, ovvero i moderati liberali seguaci di Cavour. Nel 1876 c’era stata una rivoluzione parlamentare, ovvero la
maggioranza della Sinistra storica liberal-progressista e idealmente vicina alle correnti democratiche del
risorgimento italiano (mazzinianesimo e garibaldinismo). Il governo di sinistra introduce la riforma elettorale
del 1882 e si passa dal 2,2% al 6,9% della popolazione avente diritto di voto. Questo significa che le masse
contadine rimangono escluse dal voto, ma una buona parte dei lavoratori urbani lo acquisivano. Si anticipava il
diritto di voto ai 21 anni, si dimezzava il censo e si fissava come requisito alternativo quello dell’istruzione anziché
il censo. Ma il tasso di analfabetismo era impressionante, oltre l’80%. Non esisteva ancora l’obbligo scolastico,
quindi insieme alla riforma elettorale il governo decide di applicare una riforma dell’istruzione elementare per
rendere obbligatoria la frequenza alle scuole elementari. Al suffragio universale maschile si arriva nel 1912, anno in
cui si ha anche la guerra di Libia, che rientra nelle imprese del colonialismo italiano, dopo aver perso la Tunisia.
L’impresa coloniale corrisponde all’estensione del diritto di voto: il colonialismo richiede il consenso delle
masse popolari. In virtù della legge del 1912 il diritto di voto venne attribuito anche a coloro che ne sapevano
leggere e scrivere, ma che avessero raggiunto i 30 anni o avessero svolto il servizio militare. Alla vigilia della
Prima Guerra Mondiale il tasso di analfabetismo era del 40%.
Dal 1900 fino alla Prima Guerra Mondiale domina nella politica italiana Giolitti, tanto che si parla di epoca
giolittiana. Fu il fautore di indirizzo riformatore del governo, consapevole dell’allargamento di partecipazione
popolare alla vita politica. Dal momento che la Libia non rappresentava alcun obiettivo per le altre potenze
europee, la guerra di Libia non pregiudica il ruolo di mediatore che Giolitti aveva dato all’Italia in politica
estera. L’impresa in Libia si collocava con le trasformazioni del Paese in quel periodo: la crescita economica con
un primo sviluppo industriale, il miglioramento della società civile e l’abbassamento dei tassi di analfabetismo,
l’allargamento del voto.

Lo scenario europeo era sempre più complesso con tensioni tra Intesa e Alleanza. Nel caso di scoppio di una
guerra, l'Italia si poneva il problema se prendere parte a essa e da che parte stare.

(15/03) Gli anni della Prima Guerra Mondiale, dal 1914 al 1918, sono anni in cui accadono fenomeni e
trasformazioni sotto tutti i punti di vista, non solo militare, come per esempio la femminilizzazione consistente
del mondo del lavoro. La Prima Guerra Mondiale è anche una grande palestra di scrittura popolare. Abbiamo
milioni di lettere e diari perché al fronte i soldati si sforzano in ogni modo di scrivere per dare notizie e fare ordine
rispetto alle esperienze traumatiche del fronte. Durante gli anni di guerra, molti impararono a scrivere con l'aiuto di
chi sapeva farlo. Il tasso di analfabetismo si ridusse di circa il 10%. Ci fu anche uno sviluppo economico del
settore industriale e della medicina, con lo sviluppo di protesi per i mutilati. Le trasformazioni non si misurano
solo a livello diplomatico e militare, ma tutta la società si modernizza in un contesto drammatico.
Se nei decenni prima della Prima Guerra Mondiale si era visto un processo di estensione del diritto di voto e una
democratizzazione, durante la guerra c’è una torsione autoritaria. Questa è una dinamica che si ripete nella storia:
quando uno stato è in guerra, le libertà vengono compresse. Si deve porre fine alle divisioni politiche e sociali
affinché la comunità si compatti allo sforzo bellico. Addirittura in Gran Bretagna, la culla del liberalismo, le libertà
civili verranno duramente limitate.
Ci furono conseguenze enormi dopo la Prima Guerra Mondiale, tra cui anche il fatto che negli anni della guerra,
segnati dai partiti di massa, dai combattimenti al fronte e da un’atmosfera di militarismo, i meccanismi di
comando e obbedienza fecero sì che certi atteggiamenti passassero nel dopoguerra anche nella vita politica.
Per esempio, il fascismo riprende il rapporto tra capi e masse.
C’è un uso massiccio della fotografia per documentare quello che succede. Inoltre, la comparsa del cinema, nato
sul finire del 1800, negli anni della Prima Guerra Mondiale produce documentari e film fiction, tanto che
diventerà un tema centrale per il primo sviluppo del cinema.

Sul versante politico e culturale, bisogna tenere presente la dimensione popolare della Prima Guerra Mondiale. Il
nazionalismo surclassò l’internazionalismo: lo sviluppo di nazionalismi pervasivi fa sì che durante la Prima
Guerra Mondiale ci sarà una grande partecipazione popolare, soprattutto nelle prime fasi, con un enorme
slancio patriottico che fa sì che il conflitto venisse definito dai contemporanei come “Grande Guerra”. Non
abbiamo l’immagine della guerra come una cosa subita sempre dal popolo, perché nel 1914-15 c’è un grande
afflato popolare favorevole. La retorica nzionalista era decenni che stava facendo il suo lavoro coinvolgendo le
popolazioni, e, nelle prime fasi del conflitto, fece larga presa sulle popolazioni degli stati coinvolti, come la
Germania, Francia e Inghilterra. Le agitazioni sindacali si smorzano all'insegna del comune impegno bellico e si
celebra un’unità nazionale rinforzata. Si parla di “spirito dell’agosto 1914”.
Le cose vanno in maniera diversa in Italia, dove l'ingresso in guerra sarà caratterizzato da una spaccatura
nel Paese tra interventisti e neutralisti, cosa che non si era manifestata negli altri Paesi europei.

Dal punto di vista militare-diplomatico, ci sono due questioni che spiegano lo scoppio:
1. la contrapposizione in Europa tra due schieramenti. Da una parte c’erano Germania,
Austria-Ungheria e Italia, che però si sfilò prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale
dichiarandosi neutrale, nella Triplice Alleanza, dall’altra Francia, Russia e Gran Bretagna nella
Triplice Intesa;
2. nel 1914 a Sarajevo, in Bosnia-Erzegovina, Gavrilo Princip, un nazionalista serbo, assassina l’arciduca
Francesco Ferdinado, erede al trono di Vienna, e sua moglie. L'obiettivo era creare uno stato slavo
indipendente guidato dalla Serbia, che nascerà poi alla fine della Prima Guerra Mondiale con la
Jugoslavia, che riunisse serbi, bosniaci e croati. La Serbia era uno Stato indipendente alleato con la Russia;
la Bosnia-Erzegovina era stata assorbita nel 1878 dalla sfera di controllo austriaca, mentre prima era di
dominio dell'Impero Ottomano; la Croazia era assoggettata all’austria. L’assassinio dell’arciduca era stato
realizzato da un’associazione segreta con il supporto del governo serbo.
L'Austria-Ungheria cerca di punire la Serbia per aver appoggiato l’atto terroristico. La Russia difese la Serbia. La
Germania sostiene che nessun altro stato sarebbe dovuto intervenire. La Francia era unita alla Russia da un trattato
diplomatico di reciproca assistenza. Questa situazione porta al domino che dà il via alla Prima Guerra Mondiale.
Come data d’inizio si prende il 3 agosto 1914, quando iniziano le ostilità tra Germania e Francia. Il fronte
franco-tedesco, o fronte occidentale, è il principale della Prima Guerra Mondiale fino alla fine. La popolazione dei
Paesi accettano di buon grado lo scoppio del conflitto perché erano convinti che sarebbe stata una guerra
relativamente breve, ma in realtà è una guerra estenuante e lunghissima che termina nel 1918 e che causò
moltissime morti.

La Germania era lo stato più pronto, aveva un piano di guerra pronto da più di 10 anni perché intorno si era
creata un’alleanza contraria a loro. Il piano bellico prevedeva l’invasione della Francia da nord e così avvenne:
invasero i Paesi Bassi e il Belgio per entrare in Francia da settentrione. È una misura che i comandi francesi non si
aspettavano, quindi li colse di sorpresa. I tedeschi contavano sull’effetto a sorpresa ed erano sicuri di prendere
Parigi in 6 settimane per poi caricare armamenti e uomini sul sistema ferroviario tedesco e trasportarli sul fronte
orientale per combattere contro la Russia. Il piano tedesco quasi funziona, ma non del tutto. Dopo 4 settimane di
guerra, le truppe tedesche hanno invaso i Paesi Bassi e il Belgio, ma vengono bloccati a 30 km da Parigi. Il
governo francese abbandona la capitale e si trasferisce a Bordeaux. Lungo la Marma i francesi riescono a resistere
anche grazie a un contingente britannico. La guerra lampo tedesca finisce. Inizia una guerra lunghissima di trincea,
vengono scavate trincee lungo il confine franco-tedesco dalla Manica alle Alpi.
Sul fronte orientale abbiamo una grande potenza, la Russia, che però non è preparata e fin dall’inizio va
incontro a rovesci clamorosi. L'andamento disastroso della guerra per la Russia fu un colpo irrimediabile per il
prestigio dello zar, che nel 1917 abdica e si avvia il processo rivoluzionario fino alla vittoria dei bolscevichi di
Lenin nell’ottobre dello stesso anno. Sul fronte orientale si muove anche l'esercito di Austria-Ungheria, meno
potente di quello tedesco, che non ottiene risultati di rilievo neanche contro la Serbia. L'esercito austriaco fu
occupato dal 1915 contro l’esercito italiano. Nel momento di massima avanzata dei tedeschi nell'Impero Russo,
nel febbraio 1918, i tedeschi occuparono l’Ucraina e la Lettonia.

La guerra diventa presto una guerra di logoramento e diventano sempre più importanti i fronti interni, ovvero il
meccanismo di mobilitazione e di sostegno che la popolazione dà allo sforzo bellico della propria nazione.
Anche i fronti interni erano attraversati da tanti problemi.
In Inghilterra, fin dal 1914 c’è una torsione antiliberale con limitazioni della libertà di espressione, di
associazione e stampa. In un primo momento, la durezza viene compresa senza proteste sociali, regna la pace
sindacale. I lavoratori si mostrano pronti ad arruolarsi come volontari nell'esercito. Il fenomeno del volontariato di
guerra è un fenomeno enorme in Inghilterra. Si creano due ordini di problemi. Il primo è sull’addestramento di
questi volontari, che viene risolto con l’allestimento di accampamenti al fronte; il secondo è relativo a come
sostituire nel mondo del lavoro i giovani uomini che partivano per combattere. Per fare ciò si utilizza la
manodopera femminile. I sindacati inglesi posero un freno a questa misura perché le donne non erano
sindacalizzate e da una parte avevano paura di perdere il controllo del mondo del lavoro, dall’altra si
preoccupavano per il futuro degli uomini che sarebbero tornati. Si arriva a un compormesso tra governo e parti
sociali: agli uomini venne garantito il mantenimento del posto al rientro, mentre le donne sarebbero state costrette
ad abbandonare il posto di lavoro. Il servizio prestato agli anni di guerra contribuì a ottenere il voto politico. La
corsa all’arruolamento volontario inizia a calare dopo il grande slancio del 1914-15. Nel 1916 il governo
britannico introduce l’obbligatorietà della circoscrizione, prima per tutti i maschi celibi tra i 18 e i 41 anni, e poi
divenne generale per celibi e non celibi.
In Germania si passa a una dittatura militare. Il Parlamento viene esautorato del tutto, si riuniva solo
occasionalmente. In Germania c'era il più grande Partito socialista europeo, il Partito Socialdemocratico Tedesco.
Benché fosse un Partito marxista che non vedeva con favore la guerra, nel 1914 aderì allo sforzo bellico
senza proteste. Il conflitto si allunga e la sinistra dei socialdemocratici comincia a dimostrare scetticismo rispetto
alla sua giustezza. Si cominciano a delineare tensioni politiche che avranno sviluppi importanti. Il fronte interno
tedesco è colpito da un embargo che viene posto dalla marina britannica nel Mare del Nord ai commerci verso
la Germania, includendo anche l’importazione di generi alimentari e materie prime. Per rispondere all’embargo, i
tedeschi dal 1915 danno via alla guerra sotto i mari, una delle novità belliche della Prima Guerra Mondiale con
enormi conseguenze. I tedeschi annunciano che se non fosse venuto meno l’embargo i sommergibili avrebbero
colto a picco qualsiasi nave a largo della Gran Bretagna, sia commerciale sia civile. Questa dichiarazione tocca
nel vivo gli Usa, perché il presidente Wilson voleva continuare a commerciare con tutti, ma ciò diventava
impossibile perché l’embargo toglie un partner commerciale importante agli Usa e, in più, la guerra
sottomarina fa succedere diversi incidenti. Per esempio, nel 1915 affonda il transatlantico Lusitania, che batteva
bandiera britannica, e muoiono 128 cittadini statunitensi; se ne susseguono degli altri. La guerra sottomarina viene
inizialmente sospesa, ma poi ripresa nel 1917.
Gli Usa entrano in guerra. L’ingresso avviene ufficialmente nell'aprile del 1917. Fu la prima volta che le truppe
americane arrivano su suolo europeo cambiando le sorti della guerra. In un anno circa la guerra finisce con la
vittoria dell’Intesa e la Germania, che sembrava favorita, perde disastrosamente.

La frangia sinistra della socialdemocrazia tedesca avanza perplessità sulla guerra. Tra i personaggi principali
c’è Rosa Luxemburg, una militante e intellettuale di origine polacca diventata figura di spicco dell’ala sinistra del
Partito socialdemocratico tedesco. Si era già scagliata contro l’imperialismo e aveva mantenuto una posizione
antimilitarista, ma non fu ascoltata. Finì in carcere per le sue posizioni. Sarà poi protagonista nel 1919 dei
movimenti rivoluzionri che attraverseranno la Germania, fino al suo assassinio nel 1919.

Nel 1916 si perdono gli entusiasmi iniziali. Sul fronte occidentale assistiamo a lotte spaventose e micidiali, ma
militarmente inutili, che non portano alcun risultato, che caratterizzano la memoria della Prima Guerra Mondiale.
Tra queste si ricordano le battaglie di Verdun e sulla Somme.
La battaglia della Somme non solo dà un’impronta alla tragedia della Prima Guerra Mondiale, ma le perdite
accusate dagli inglesi fecero sì che il governo di Londra lanciasse un appello all’impero per rifornirsi di nuovi
soldati. Risposero sia gli australiani sia i canadesi inviando truppe, rispettivamente a luglio nella zona della
Turchia e a settembre. Queste dinamiche fanno sì che la guerra diventi mondiale.
Il 1917 è un un anno decisivo, dove avvengono eventi decisivi. L’ingresso in guerra degli Usa risulta decisivo, con
l’invio di uomini, risorse sanitarie e carri armati. Dopo massacri come Verdun e la Somme, nei reparti francesi
molti soldati si ammutinavano. I francesi e gli inglesi mantengono quindi la loro posizione senza azzardare
attacchi, aspettando l’aiuto americano. Mentre l'ingresso in guerra promette una svolta, in Germania si fanno
pressanti le proteste da sinistra guidate da Rosa Luxemburg che chiedono pace e riconciliazione permanente tra i
popoli.
Nel 1917 avviene anche la sconfitta militare a Caporetto. Nel 1917 sul fronte italo-austriaco, l’esercito italiano
subisce una gravissima sconfitta e le truppe austriache entrano nel territorio italiano e invadono il Friuli e il
Veneto; vengono fermati dalla linea del Piave nel 1918. L’esercito italiano si riorganizza, contrattacca e vince la
guerra contro l’Austria. La disfatta di Caporetto poteva costituire un segnale preoccupante per l’Intesa, perché
l’Italia era in guerra a fianco dell’Intesa.

Nel 1917 accade anche la Rivoluzione comunista in Russia. L'esercito russo è impreparato. A Pietroburgo le
donne manifestano per il ritorno dalla guerra e il pane l’8 marzo. Lo zar invia truppe che però solidarizzano
con i manifestanti. Nicola II quindi abdica. Si crea un governo provvisorio e in luglio arriva Aleksandr
Kerenskij, un socialdemocratico che vorrebbe instaurare in Russia una democrazia parlamentare, ma il
progetto democratico non attecchisce perché non è sostenuto. Il suo governo viene rovesciato dai bolscevichi di
Lenin. Lenin aveva passato anni precedenti in Svizzera in esilio, era rientrato in Russia grazie all’aiuto della
Germania, che sapeva che c’era la possibilità che in Russia scoppiasse la Rivoluzione e uscisse dal conflitto. La
storia della Russia è caratterizzata dalla debolezza delle correnti democratiche.
La Rivoluzione comunista in Russia poteva costituire problema per l’Intesa perché la prima decisione della Russia
post Rivoluzione fu quella di uscire dal conflitto. Ci fu un indebolimento della coalizione, però ampiamente
compensato dall’ingresso degli Stati Uniti.

La resa della Germania è determinata da un cambiamento di equilibri dettato dalle forze americane. Fu un
fenomeno strano. La Germania non stava andando incontro a una sconfitta disastrosa, anche se gli equilibri
della guerra erano cambiati. Non è una sconfitta bruciante e si poteva arrivare a una pace negoziata, ma
Berlino si arrende. In Germania ci sono tensioni sociali sempre più forti e fratture interne molto pesanti. Di fronte
alla perdita, le élite politiche scaricano la colpa sulle opposizioni, soprattutto sui socialdemocratici. L’impero
tedesco firma un decreto nel 1918 in cui annuncia un nuovo governo parlamentare, ponendo fine alla dittatura
militare. In Parlamento entrano i social democratici, a cui si lascia la responsabilità delle trattative di pace.
Da qui si sviluppa la leggenda che agevola l’ascesa al potere di Hitler, secondo cui la Germania era stata
pugnalata alle spalle dal Parlamento e dai socialdemocratici. Alla Conferenza di pace di Parigi la Germania si
presenta senza poter fare alcuna richiesta perché è resa, e quindi deve accettare le durissime condizioni poste dai
vincitori.

(16/03) Questa foto (←) rappresenta gli orfani di guerra nella


colonia marina insieme al Patronato scolastico di Ravenna e alla
Croce Rossa americana, si colloca tra il 1917 e il 1918. Ciò
mostra come ai tempi della Prima Guerra Mondiale diventa
fondamentale la dimensione locale piuttosto che quella a
livello delle istituzioni statali.
Nella seconda foto (↘) si vede il piroscafo Febo, poi ribattezzato
Andrea Costa, dal nome di una delle grandi figure del socialismo
italiano, che portò alla nascita del Partito socialista italiano nel
1892. Venne acquistato dalla giunta comunale di Bologna
all’epoca guidata dal sindaco Francesco Zanardi per rifornire la
città di carbone
per uso domestico. Questo restituisce le difficoltà di
approvvigionamento e il tentativo di far fronte a ciò. Mostra anche
l’importanza del protagonismo degli enti locali: le istituzioni più
vicine alle emergenze dei cittadini sono gli enti locali.

Diventa fondamentale il ruolo delle donne negli interventi


socio-assistenziali in guerra ai bambini, agli anziani e alle
famiglie in difficoltà, che si rendevano necessari per tamponare le
emergenze all’interno delle città. Si usa il termine maternage per indicare il fatto che, in quel frangente storico, il
ruolo femminile di cura esce dalle mura domestiche e diventa un prendersi cura della comunità.
Inoltre, inizia l'ingresso delle lavoratrici nei settori produttivi che fino a quel momento non avevano visto una
presenza femminile apprezzabile. C’è una femminilizzazione
perché era necessario rimpiazzare gli uomini partiti per il
fronte in un periodo in cui i settori produttivi vennero
ulteriormente accentuati. Si passa su scala nazionale da 23.000
a 198.000 donne lavoratrici alla fine della guerra.
Infine, le donne si trovarono protagoniste nella vita delle
famiglie: per esempio, iniziano a svolgere mansioni come
pratiche amministrative e burocratiche per ottenere licenze,
esoneri, certificati, ecc.

La Prima Guerra Mondiale è stata una grande palestra di scrittura


popolare. C’erano tante persone che avevano l’esigenza di
comunicare con i cari lontani. In quegli anni, molti soldati contadini
analfabeti o semianalfabeti provarono a scrivere per l’esigenza di
inviare qualche riga a casa. Abbiamo oggi archivi molto ampi di
lettere e diari, spesso sono testi sgrammaticati. Questo portò ad un
abbassamento notevole dei tassi di alfabetismo. Si cerca di
razionalizzare l’esperienza traumatica che stavano vivendo al fronte.
La guerra era combattuta in alta quota, sotto metri di neve. Gli inverni durante la guerra furono gli inverni più
freddi che si ricordino. La guerra italo-austriaca è definita “guerra bianca”. Ai soldati che partivano verso la
prima linea si distribuiva un opuscolo con le istruzioni al soldato per combattere i pericoli del freddo. Tra i precetti
c’era questo: “Indispensabili sono la camicia di flanella di lana, la maglia di lana da mettere sotto la camicia, il
berretto di lana detto passamontagna [...] e se dovete rimanere a lungo sulla neve al freddo è assolutamente
necessario lottare contro il sonno e il gelo [...] e se non avete occhiali affumicati, annerite, prima di partire, con un
turaccioli bruciato, la pelle dell’occhio”. Gli inverni tra il 1915-16 e il
1916-17 furono tra i più duri di tutto il 1900; si raggiunsero temperature
siberiane sulle Alpi. I comitati si incaricarono di mandare coperte,
maglioni, calze, ecc. Tanti soldati riuscirono ad arrivare a casa non ibernati
grazie al lavoro delle donne. In un conflitto così lungo, il fronte militare e
quello interno sono strettamente intrecciati. Il fronte interno è un
meccanismo di mobilitazione che coinvolse le zone non toccate dal
fronte militare. Una delle paure era perdere contatti con i cari al fronte
perché le comunicazioni non erano ottime.
A Bologna spesso le volontarie donne si incaricano di annodare i fili di
militari al fronte e persone a casa se le comunicazioni si fossero interrotte
(←). Un’iniziativa analoga si trova a Ravenna. Gli archivi e i documenti
raccolti da questi comitati sono oggi fonti straordinarie per gli storici.

La dimensione di massa è ben rappresentata


da questa foto di Bologna che mostra una
manifestazione interventista nel 1915 (→).
Lo schieramento interventista in Italia era
estremamente variegato dal punto di vista
politico: si passa dall’estrema sinistra, con i
sindacalisti rivoluzionari, gli anarchici,
all’estrema destra dei nazionalisti. La
sinistra riteneva che la guerra potesse creare
un'occasione per l’affermazione di una
rivoluzione. Le posizioni intermedie, come i
democratici, i liberali e i repubblicani, ritenevano che l’impegno in guerra potesse completare il processo avviato
col Risorgimento dal punto di vista di acquisizioni territoriali e che con la mobilitazione bellica si sarebbe potuto
chiudere il divario tra larghe parti della società italiana e lo Stato. L'impegno in guerra avrebbe portato a
compimento la nazionalizzazione delle masse. Si sentivano messaggi da posizioni di sinistra, di destra e di
moderati a favore della guerra.
In Parlamento c’era una maggioranza neutralista perché negli anni tra l’inizio del 1900 e della Prima Guerra
Mondiale siamo nell’epoca giolittiana, in cui la figura più importante era stata quella di Giovanni Giolitti, di
impronta liberaldemocratica. Giolitti voleva tenersi fuori dalla guerra perché l'Italia non era pronta. Nel 1914,
poco prima che scoppiasse la guerra, l’Italia si era sfilata dalle alleanze e si era dichiarata neutrale. Cambiano però
gli equilibri parlamentari. Salandra diventa Presidente del Consiglio; era un esponente liberale di destra, molto
autorevole e incline all’intervento, in piena consonanza con il sovrano. Quindi la maggioranza che i neutralisti
credevano di avere in Parlamento non ci fu, ma, anzi, la maggioranza era favorevole all’intervento. Gli unici a
votare contro furono i deputati del Partito socialista italiano, alcuni cattolici che si richiamavano al pacifismo della
Chiesa, e alcuni giolittiani.
Ciò che differenzia l’Italia rispetto allo spirito dell'agosto 1914 è il fatto che l’Italia si dimostra un Paese diviso
sulla scelta della guerra. Non c’è uno spirito unitario che aveva caratterizzato gli altri Paesi europei.
Nel maggio 1915 l’Italia entra in guerra. A Bologna si protegge
la Fontana del Nettuno con una struttura di legno da eventuali
attacchi austriaci (←). Gli attacchi aerei si verificano però
solo sulla costa romagnola e sono incursioni aeree che
causarono danni materiali limitati e poche decine di morti.
Nell’aviazione l’Italia contava su Francesco Baracca, che vinse
numerosi duelli aerei contro gli austriaci e morì in
combattimento aereo nel 1918. Lungo la costa adriatica si
verificarono bombardamenti e cannoneggiamenti partiti dal
porto di Trieste, che era in mano agli austroungarici.
Nonostante l’Emilia Romagna fosse nelle retrovie del fronte, fu
una regione militarizzata fin dal 1915. Venne indicata come
zona di guerra perché era una retrovia strategica. Il nodo
ferroviario di Bologna era fondamentale per le comunicazioni tra il nord e il sud del Paese, portando i soldati al
fronte e indietro morti e feriti, che ricevevano prima assistenza a partire dagli ospedali di Bologna.
Lo stato di guerra imponeva un giro di vite molto forte sulla
libertà di espressione di opinione e di stampa. Il resto del
carlino dell’epoca usciva con tanti spazi bianchi, ovvero gli
articoli censurati. La censura colpiva anche i giornali di
sinistra, come l’Avanti, che veniva passato al setaccio in maniera
ancora più severa.
Per contrastare il caro viveri e la scarsità di pane,
l’amministrazione comunale di Bologna distribuiva farina sotto le
Torri alle famiglie. La questione dei consumi è centrale.
Bisognava a dare da mangiare alle famiglie che facevano
fatica a trovare generi alimentari a basso prezzo. Il comune
stesso fa il pane e lo distribuisce. Nascono i panifici comunali,
come il Panificio pubblico di Bologna (→). Gli ambienti dei
commercianti non erano contenti del nuovo ruolo dell’ente
pubblico nell’organizzare i consumi e fissare i prezzi più bassi di
quelli di mercato.

Con la sconfitta di Caporetto anche il problema dei profughi di


guerra diventa drammatico. Gli austriaci riescono a spaccare il
fronte italiano e si inoltrano per centinaia di chilometri nel suolo
italiano. L’esercito italiano riuscì a resistere lungo il Piave.
Decine di migliaia di profughi furono costretti ad
abbandonare le case e, con carovane di cavalli o a piedi, si
dirigono verso il sud, per esempio, verso il territorio
emiliano-romagnolo (←). Si creano tensioni sociali non da poco
perché in città già in difficoltà nell’approvvigionamento di viveri,
arrivano nuove bocche da sfamare. La necessità di aiutare in una
situazione di grande difficoltà per chi accoglieva causò tensioni
sociali nei confronti dei migranti anche se erano italiani.
La necessaria assistenza ospedaliera fece sì che le discipline
mediche si sviluppassero enormemente nella Prima Guerra
Mondiale. Per esempio, l’Istituto ortopedico Rizzoli diventa
un’eccellenza nazionale per quanto riguarda le protesi (→).

(17/03) Durante la Conferenza di pace di Parigi nel gennaio 1919 ci


furono problemi enormi con situazioni critiche che condussero allo
scoppio di un’altra Guerra mondiale. Il protagonista principale fu il
presidente statunitense democratico Wilson, il primo a mettere piede
in Europa. Venne accolto dalla popolazione francese come una
semidivinità. La Francia aveva vissuto momenti difficilissimi durante
la guerra e l’esito non sarebbe stato vittorioso senza l'intervento
americano. La sua fotografia fu posta di fianco a quella dei santi nelle
chiese, tanto che aveva un’aura mitica, pressoché religiosa.
Dopo 4-5 anni di guerra, se si pensava alle ragioni che avevano portato le potenze europee a entrare in
guerra parevano risibili rispetto ai costi e alle sofferenze patite durante gli anni di conflitto. La Francia era
entrata per recuperare il possesso di Alsazia e Lorena, ma alla fine del conflitto doveva contare un numero
superiore di morti rispetto alla popolazione stessa di Alsazia e Lorena. L’Austria-Ungheria era entrata per punire il
nazionalismo serbo, ma l’Impero crollò al termine della guerra. La Germania, una delle principali potenze
economiche mondiali, venne colpita e umiliata da condizioni di pace pesantissime.
La situazione tedesche del dopoguerra è caratterizzata da un cambio di regime, con la nascita della Repubblica di
Weimar. Nell’Europa centro-orientale sono quattro gli imperi che crollano dopo la Prima Guerra Mondiale: quello
austro-ungarico, quello ottomano, quello russo e quello tedesco. Questo creò aria di grande incertezza. Nacquero
Stati che non erano mai esistiti, come la Jugoslavia e la Cecoslovacchia. La Polonia, che non esisteva da
tempo, venne ricostruita. La situazione politica dell’Europa centro-orientale era una novità.

In Germania avviene un mutamento dei confini, perdendo l’Alsazia e la Lorena e l’impero coloniale di fresca
formazione. Le colonie tedesche del Pacifico furono divise tra Giappone, Australia e Nuova Zelanda. Inoltre,
c’erano anche le indennità di guerra da pagare: fu richiesto di pagare enormi danni di guerra, il
ridimensionamento dell’esercito a un massimo di 100.000 uomini, la possibilità di avviare processi per
crimini di guerra. La condizione di Paese che aveva perso la guerra finiva per penalizzare oltremodo la Germania,
perché la cifra era spropositata ed era stata progettata per mettere in ginocchio per anni l'economia tedesca. Fin dai
mesi della Conferenza di pace ci si rese conto che condizioni come queste non potevano garantire un equilibrio nel
dopoguerra. Era impensabile punire così un Paese senza ripercussioni economiche e sociali. John Keynes,
diplomatico inglese che partecipò alla Conferenza di pace, si dimise perché si rese conto che le condizioni
avrebbero condotto l’Europa a un nuovo conflitto. Scrisse un pamphlet dal titolo Le conseguenze economiche della
pace. Le prime rate vennero versate, ma dopo la caduta della Repubblica di Weimar, uno dei primi atti di Hitler fu
quello di contraddire le più penalizzanti condizioni di pace.
Il carattere multietnico dell’Impero austro-ungarico aveva fatto sì che nel momento della mobilitazione bellica gli
ordini impartiti da Vienna alla compagine imperiale dovettero essere trasmessi in 15 lingue diverse. Sotto la scossa
della guerra si disgregò.
Si avviò al crollo anche l’Impero ottomano. Le forze britanniche al termine della guerra entrarono a Istanbul e il
sovrano assoluto dell'Impero britannico divenne sovrano. La zona mediorientale venne affidata dalla Società
delle Nazioni al controllo della Gran Bretagna e della Francia. La Gran Bretagna si prese l’impegno di
creare in Palestina un territorio destinato agli ebrei. La questione arbo-israeliana nasce in questo periodo.
Inizialmente il problema della convivenza tra ebrei e arabi rimase sottotraccia perché i coloni ebrei erano ancora
pochi. Le tensioni erano causate dalla divisione tra le due risorse principali, terra coltivabile e acqua. La situazione
si fece più critica in seguito alla presa del potere in Germania di Hitler, che emanò provvedimenti antiebraici e
causò la fuga di ebrei dalla Germania in diverse direzioni, tra cui la Palestina. Ci fu una crescita rilevante degli
ebrei negli anni ‘30, che preoccupa gli arabi che iniziano ad opporre resistenza armata, repressa però dall’esercito
britannico. L’insediamento dei coloni ebrei in Palestina avviene in assenza di uno Stato. Lo stato di Israele nascerà
nel 1948, dopo la Seconda Guerra Mondiale.
La Russia era già uscita dalla guerra nel 1917, dopo la Rivoluzione comunista. La preoccupazione relativa era
comunque presente durante i lavori della Conferenza: lo Stato russo non era riconosciuto dalle potenze europee,
anzi era guardato con sospetto, perché in tutti i Paesi si erano sviluppati movimenti di lavoratori importanti. La
vittoria della Rivoluzione comunista era stata una ventata incredibile di speranza rivoluzionaria diffusa in
tutti i Paesi a livello globale: era possibile pensare a un ordine sociale diverso. All'interno dei Partiti socialisti
presero vigore le posizioni più rivoluzionarie.
Effetti consistenti si ebbero anche in Italia: il Partito socialista italiano venne guidato non dall’ala riformista, bensì
da quella massimalista, rivoluzionaria che guardava all’esperienza sovietica. Si costituì una fazione comunista
che uscì dal partito nel 1921: con il Congresso di Livorno si forma il Partito comunista d’Italia, con Gramsci,
Togliatti, Umberto Terracini, Angelo Tasca e altri leader, ancora più a sinistra dell’ala massimalista del Psi. Effetti
ancor più forti ebbe in Germania: Rosa Luxemburg fu tra le guide nel dopoguerra di un movimento rivoluzionario
in Germania, il Movimento spartachista, che fu particolarmente forte a Berlino con un’organizzazione
rivoluzionaria che venne duramente repressa dal nuovo governo a guida socialdemocratica. Si consumò una
profonda spaccatura tra il nuovo governo tedesco e l’ala sinistra che veniva dalla socialdemocrazia tedesca che si
era radicalizzata in un movimento che voleva andare in direzione rivoluzionaria. Nasce nel 1919 l'Internazionale
comunista in Russia, che aveva l’obiettivo di mettere insieme i vari partiti comunisti dei diversi Paesi.

I tre grandi protagonisti della Conferenza di pace furono Wilson, l’inglese David George e, per la Francia,
Georges Clemenceau, che aveva già vissuto l'esperienza della guerra franco-prussiana ed era deciso che non si
potesse verificare un’altra invasione tedesca. La sua durezza irragionevole delle condizioni di pace imposte alla
Germania sono riconducibili alla volontà intransigente di Clemenceau. La filosofia di fondo del presidente
americano Wilson fu quella di garantire l’autodeterminazione dei popoli: affermava che bisogna dare dignità di
Stato a ogni nazione, senza imperialismo. La filosofia di Wilson era vissuta con prudenza persino dagli alleati.
Anche nello scenario europeo la Gran Bretagna stava fronteggiando gravi problemi in Irlanda. Nel 1922 nasce lo
Stato libero d'Irlanda, che comprende tutta l’isola tranne la parte designata come Irlanda del Nord.

Il leader francese non si accontentò del ritorno di Alsazia e Lorena, ma mise gli occhi anche sulla Renania e
sulla Saar, due regioni particolarmente importanti dal punto di vista economico. Erano due regioni di cultura
tedesca, perciò la pretesa francese di annetterle venne rifiutata da Wilson. Vennero raggiunti dei compromessi
laboriosi. Si decise che la Renania sarebbe rimasta nei confini della Germania, ma sarebbe stata
completamente smilitarizzata. Questa soluzione soddisfaceva almeno in parte i francesi rispetto un possibile
nuovo attacco tedesco e non violava i principi della diplomazia wilsoniana. Col senno di poi sono tutte armi date in
mano alla propaganda hitleriana e nazionalsocialista. Nel 1936 Hitler rimilitarizzò la Renania per mettere alla prova
la risolutezza di inglesi e francesi nel mantenere l’ordine stabilito a Parigi. La soluzione che si raggiunge nella Saar
fu di lasciarla alla sovranità tedesca, ma ne fu affidato il controllo alla Società delle Nazioni per 15 anni,
trascorsi i quali la popolazione tedesca venne chiamata a decidere con un plebiscito se voleva rimanere con la
Germania o no. Nel 1935 il plebiscito optò per rimanere con il governo tedesco. Questi sono tutti provvedimenti
umilianti per la sovranità tedesca.

In estremo Oriente cresce il Giappone, alleato con l’intesa nella Prima Guerra Mondiale perché era infastidito dal
colonialismo tedesco nel Pacifico. Al termine della guerra, acquisì parte delle colonie tedesche. Nel corso degli
anni ‘30 sarà uno degli stati che, con la propria aggressività nell’area del Pacifico, determinerà gli squilibri che
contribuiranno alla Seconda Guerra Mondiale, insieme alla Germania e all’Italia. L’ascesa del Giappone inizia a
farsi notare negli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale. Già dalla parte finale del XIX secolo sconfiggerà
ripetutamente in guerre locali altre potenze del quadrante geopolitico come Russia e Cina.
Nel maggio 1919 viene firmato il Trattato di Versailles. I rappresentanti delle potenze perdenti vennero convocati
per l’accettazione del trattato, in quanto non era una pace negoziata. Il fatto che gli esponenti del nuovo governo
vennero costretti a firmare un trattato per le colpe di un governo precedente lasciò di ghiaccio gli esponenti della
Repubblica di Weimar. I paesi vincitori non riuscirono a comprendere la novità potenzialmente positiva del
nuovo regime tedesco, che non era più un impero, ma una democrazia guidata da forze liberal-progressiste
che avevano iniziato a criticare la guerra e a chiedere la pace. Non tenere in conto del clima politico in
Germania era ottuso da parte delle potenze vincitrici. Il governo tedesco era guidato da Friedrich Ebert, colui che
firmò il trattato di pace.
Nel novembre 1918, quando viene firmata la resa tedesca, Guglielmo II era riparato nei Paesi Bassi e morirà in
esilio negli anni ‘40. Sorge un nuovo governo parlamentare. Nel gennaio 1919 viene eletta un’Assemblea
costituente che si riunì a Weimar per decidere l’assetto.

Keynes analizza la situazione e si concentra sulle caratteristiche economiche e produttive dei Paesi. Se prima della
guerra del 1870-71 le popolazioni di Francia e Germania erano uguali e l'industria tedesca era nella prima fase di
sviluppo rispetto a quella francese, superiore in quanto a ricchezza, negli anni successivi la situazione cambiò
radicalmente, sia demograficamente sia economicamente. La Francia nello stesso periodo aveva avuto andamenti
democratici ed economici stagnanti. Il ragionamento di Keynes mostra da un lato un Paese in ascesa, la Germania,
dall’altro un paese stagnante, la Francia. Si chiede come si può pretendere con degli accordi di pace di
schiacciare un’economia e una società in crescita, umiliandola, sperando che non ci siano conseguenze e
tensioni. Uno degli obiettivi era annullare l’orologio della storia, annullando i progressi della Germania fatti dopo il
1870. Si voleva distruggere il sistema economico su cui si basava la forza tedesca. Keynes prevedeva lo
scatenamento di forze umane che non avrebbero accettato quello stato di cose, su cui fece leva il
nazionalsocialismo.

La Società delle Nazioni nasce a Parigi nel 1919 su impulso di Wilson come organismo transnazionale per
garantire la pace tra gli Stati. In seguito, il Senato americano non ratifica l’adesione alla Società delle
Nazioni: il presidente degli Stati Uniti si trova in difficoltà perché non ha la maggioranza stabile nell’Assemblea. In
quel frangente storico, Wilson si trovava di fronte a un Senato nel quale prevalevano i repubblicani, che contrastano
efficacemente le decisioni del presidente. Si rifiutavano di far entrare gli Usa nella Società delle Nazioni perché si
rifacevano a una tradizione di lunga durata negli Usa, secondo cui si sarebbero dovuti concentrare solo sul
territorio americano. Era una linea di condotta che risale al secolo precedente, chiamata dottrina Monroe,
dal presidente che aveva delineato questa strategia politica. L’aspetto della Società delle Nazioni che preoccupava i
repubblicani era l'articolo 10 dello statuto della Società che impegnava i membri a salvaguardare l'integrità
territoriale di tutti i membri, vincolando anche gli Stati Uniti a regolare eventuali conflitti che sarebbero esplosi in
Europa.

La Società delle Nazioni fu comunque molto utile a risolvere questioni molto spinose, come il problema dei
profughi, che a livello europeo ammontò a un numero di 1,5 milioni. Costituì un ufficio internazionale che si
occupò di questa questione.
Un'altra questione complicata fu il destino dei prigionieri di guerra. Negli anni successivi alla fine della guerra
ci furono, attraverso frontiere europee, un andirivieni di profughi, rifugiati, prigionieri, gestiti anche grazie alla
Società delle Nazioni. Questa è un’eredità che lascerà in dotazione all'Organizzazione delle Nazioni Unite che
nascerà nel 1945. Ci si iniziava a confrontare a livello transnazionale su diversi temi, compresa la cooperazione
intellettuale, altra eredità all'ONU, in particolar modo all’Unesco.
Il primo dopoguerra
(22/03) Soprattutto nell’Età contemporanea hanno un aspetto rilevante elementi come l’emotività, le emozioni. A
partire dalle grandi rivoluzioni di fine 1700 salgono sul palcoscenico della storia gruppi sociali sempre più ampi. Le
masse salgono alla ribalta, rivendicano i loro diritti. L'emotività ha quindi una rilevanza che nelle altre epoche non
si trova alla stessa maniera. Alla base dei nazionalismi non ci sono solo motivazioni economiche, militari e
diplomatiche, ma c’è un coinvolgimento pervasivo delle popolazioni alle imprese dei propri Stati. Anche dopo la
fine della guerra, la dimensione emotiva è fondamentale perché la popolazione italiana esce dalla guerra con
aspettative molto forti, desideri precisi. Questo sarà un grosso problema sotto diversi punti di vista.

Le promesse fatte all’Italia da parte degli alleati erano di acquisizioni territoriali molto rilevanti. Queste sono in
parte mantenute a fine della guerra. Il discorso della vittoria mutilata cominciò a far presa in ampi settori della
popolazione italiana.
L’Italia entra in guerra dopo la firma di un trattato segreto con Gran Bretagna e Francia, che profilava in caso di
vittoria all’Italia acquisizioni territoriali di grande importanza: non solo avrebbero acquisito il Trentino e la
Venezia-Giulia, territori per completare il Risorgimento perché di lingua e cultura italiana, ma anche il
Sudtirolo, l’Istria e la Dalmazia, avrebbero ottenuto poi il protettorato sull'Albania e avrebbero rinforzato
l’area di influenza italiana in Medioriente tra il Mare Egeo e il Mediterraneo orientale, dove nel 1912, con la
guerra di Libia, aveva già acquisito le isole del Dodecaneso e un porto sulle coste meridionali dell’Anatolia.
Queste promesse vengono mantenute per circa la metà e per chi aveva combattuto ciò era molto difficile da
accettare. Nonostante non ci fosse stato lo spirito dell’agosto 1914, c’era comunque stata una partecipazione
molto forte e uno slancio importante. Da una parte convivono la carneficina della guerra di massa, dall’altra anche
pagine di slancio, di eroismo. È una guerra che scatena forti emozioni, forte emotività. Il fatto di non aver ottenuto i
territori promessi non riguarda solo le élite diplomatiche, ma tutta la popolazione. L’Italia acquisisce il Trentino,
l’Alto Adige, la Venezia Giulia e l’Istria. Il Sudtirolo non era stato affidato all’Italia perché, in quanto
regione di lingua e cultura tedesca, sarebbe andato contro la diplomazia sostenuta da Wilson e il principio di
nazionalità. C’era comunque il discorso dei confini naturali: le Alpi potevano completare il confine naturale
dell'Italia. L’Istria oggi è una regione divisa tra Slovenia e Croazia e la città principale è Pola.
La Dalmazia è una lunga striscia costiera che percorre la sponda orientale dell’Adriatico a partire da Zara e
spingendosi verso sud fino a Spalato e oltre. Oggi gran parte è nel territorio della Croazia ma interessa anche la
Bosnia Erzegovina e il Montenegro. La popolazione era quasi interamente slava, ma storicamente era stata prima
sotto controllo della Repubblica di Venezia e poi, nel periodo napoleonico, la Dalmazia aveva fatto parte del
Regno d’Italia. Dopo il Congresso di Vienna era stata attribuita all’Austria, che aveva operato politiche per
cancellare la cultura italiana in Dalmazia. Wilson rifiuta la possibilità che la Dalmazia passi all’Italia, nonostante ci
fosse il trattato. Non solo gli Usa non si sentivano vincolati al rispetto del trattato, ma, alla firma del trattato di
Londra, non ci si aspettava che l’Impero Austro-ungarico collassasse. Nelle condizioni geopolitiche del 1915 dare
la Dalmazia all’Italia avrebbe significato indebolire territorialmente l’Austria-Ungheria, ma nel 1919
significava andare a togliere alla neonata Jugoslavia una parte significativa del territorio. La delegazione
italiana si ritira e inasprisce la polemica chiedendo in aggiunta anche la città di Fiume, ai margini dell’Istria, che
aveva con l’Italia un legame molto forte. L’aggiunta polemica venne naturalmente rifiutata. La situazione rimase in
stallo fino al settembre 1919, quando entra in gioco Gabriele d’Annunzio che, alla testa di una colonna armata
composta da circa 2500 soldati ammutinati, occupa la città e si mantiene una situazione di tensione con
Fiume governata da d’Annunzio per circa un anno, fino al trattato di Rapallo alla fine del 1920; si arrivò a una
soluzione che faceva di Fiume una città libera sotto il controllo della Società delle Nazioni e che prevedeva il
passaggio all’Italia di una piccola parte della Dalmazia, con la città di Zara. D’Annunzio rifiuta la soluzione, ma
viene evacuato a forza in Italia. La soluzione trovata a Rapallo nel 1920 fu temporanea: poco tempo dopo sale in
Italia al potere il fascismo con Mussolini e nel 1924 si arriva a un nuovo trattato che spartisce la città di Fiume, così
il centro viene controllato dall’Italia, mentre i territori limitrofi dalla Jugoslavia. La vicenda di Fiume è molto
significativa perché mostra come le forze eversive erano capaci di sfidare il governo liberale italiano che era
fortemente in crisi e che fu scalzato dal fascismo. La questione di Fiume e della Dalmazia diffusero mito della
vittoria mutilata, secondo cui l’Italia fosse stata derubata dei territori promessi. Questo "furto" è parzialmente
risolto dal fascismo, che si promuove facendosi paladino delle richieste dei nazionalisti. Questo risentimento che si
diffondeva nella società italiana ebbe una parte rilevante nella crisi di fiducia verso la classe dirigente liberale e
invece nel credito accordato al nascente fascismo. In realtà, dopo la Seconda Guerra Mondiale le terre guadagnate
dall’Italia sul confine orientale (Istria, Dalmazia, Fiume) sarebbero passate sotto la sovranità jugoslava, tranne
Trieste e la Venezia-Giulia.
Il trattato di Londra prometteva anche un rafforzamento in area mediorientale. Quando parliamo di Anatolia
parliamo di una parte del Medio Oriente. Dopo la Prima Guerra Mondiale presentava un vuoto politico completo.
L'Impero ottomano era stato la forza egemone, ma crollò con la fine della Prima Guerra Mondiale. Istanbul
era occupata dagli inglesi, il sultano ottomano era prigioniero e diversi Paesi avevano le loro mire nella zona,
compresi l’Italia e la Grecia, perché nella Penisola anatolica viveva una minoranza di cultura ellenica. Il vuoto
viene riempito in diversi modi. L’Italia sperava di creare un’area di influenza tra il Mare Egeo e il Mediterraneo
orientale intorno al porto di Adalia. Il patto del 1915 aveva promesso una forte influenza in quell’area. Le truppe
italiane si tenevano pronte. Uno dei possibili obiettivi italiani era Smirne, che si affaccia sul Mare Egeo, ma era
l’obiettivo anche dei greci, che si mossero per primi e nel 1919 occupano la città e provocano una reazione
forte da parte dei nazionalisti turchi. L’attacco greco suscitò una grande resistenza turca che si raccolse intorno al
generale Mustafà Kemal, soprannominato Atatürk. L’obiettivo era preservare l'integrità della porzione di Impero
ottomano di lingua turca. Si sviluppò il nazionalismo turco. La guerra greco-turca fu sanguinosissima e si
concluse nel 1922 con la sconfitta greca. L'ultimo sultano ottomano fugge in esilio. Nasce nel 1924 la Repubblica
turca, il cui primo presidente fu Mustafà Kemal. I greci furono rimpatriati e i rapporti rimarranno molto tesi nel
corso di tutto il Novecento.

Gli scenari in Europa orientale sono complessi. L’implosione contemporanea di quattro imperi creò una situazione
di instabilità fortissima. Nascono una serie di nuovi Stati: la Finlandia, le Repubbliche baltiche (Estonia,
Lettonia, Lituania), la Polonia torna a nascere come Stato indipendente, la Cecoslovacchia e la Jugoslavia;
Stati come Romania e Grecia che si erano schierati a fianco dei vincitori ampliarono il loro territorio.
Nascono due esperimenti di cooperazione tra nazionalità diverse: la Jugoslavia e la Cecoslovacchia. In
Jugoslavia vediamo convivere serbi, croati e bosniaci, in Cecoslovacchia cechi e slovacchi. La cooperazione tra
nazionalità diverse fu incoraggiata per motivi geopolitici: si voleva far emergere in Europa degli stati forti che
potessero contrastare la Germania.

Interessava anche il destino della Russia comunista, Paese che si estende su due continenti, Asia ed Europa. La
Russia comunista era percepita come una minaccia. Una delle ragioni era la nascita del Comintern, l’unione di tutti
i Partiti comunisti dei Paesi europei ed extraeuropei. Aveva l’obiettivo di espandersi non solo in Europa, ma
anche al di fuori: il secondo congresso si svolge a Baku, Azerbaijan. Nascono di questo passo anche Partiti
comunisti anche in Cina e India. In quegli anni l'idea era di promuovere una rivoluzione mondiale che verrà
ridimensionata e poi ci si concentrerà sullo sviluppo e sulla difesa dell’Unione Sovietica. Tensioni sociali forti
si erano manifestate anche in Germania e Italia, che tra il 1919 e il 1920 vide manifestazioni e scioperi di massa,
indicati con il nome di biennio rosso.

Uno dei Paesi che viene coinvolto dall’onda rossa è l’Ungheria. A termine della guerra, Austria e Ungheria si
separano e si proclamano repubbliche. Nonostante dalla sconfitta militare nascano identità statali diverse, entrambe
vengono considerate come Paesi perdenti e responsabili della guerra quindi vengono applicate condizioni
penalizzanti. In seguito alla sconfitta della guerra, avviene uno smembramento territoriale: per esempio, la
Transilvania viene occupata dalla Romania anche se di lingua ungherese. In Ungheria la situazione politica si
radicalizza all’inizio del 1919 e a marzo va al potere il leader comunista Béla Kun. I Paesi vincitori non erano
felici che in uno Stato importante si affermasse un regime comunista.
La Romania sferra un nuovo attacco all’Ungheria come una forma di lotta contro il comunismo, sperando
che le potenze occidentali non interferisse. Il regime comunista collassa quasi subito e l'esercito rumeno occupa
Budapest. Il nazionalismo ungherese, guidato da Miklos Horthy, un militare in carriera, prende il potere per
quasi vent’anni. Si cambia completamente orientamento, passando a un regime autoritario di destra.
Parallelamente alla caccia dell’esercito comunista si scatena una repressione feroce contro i sostenitori del sistema
comunista precedente. Per stabilizzare la situazione in Ungheria intervengono anche Francia, Gran Bretagna e Usa
che sollecitano la Romania alla ritirata e favoriscono il consolidamento del regime militare di Horthy, che negli
anni ‘30 e ‘40 stringerà un’alleanza molto forte con Hitler. Entrambi erano ostili contro le decisioni della
Conferenza di pace di Parigi e avevano il desiderio di recuperare le perdite territoriali sentite come ferite insanabili.
L’Ungheria di Horthy fu anche uno dei Paesi che negli anni ‘30 applicò misure antisemite.

In Germania, nel corso degli anni ‘20, sembrava che la Repubblica di Weimar potesse avere una sua stabilità.
L'esito dittatoriale non sembrava auspicabile nonostante le difficoltà che il Paese aveva affrontato nel dopoguerra.
Una delle questioni era quella delle riparazioni, punto che non era stato definito una volta per tutte alla Conferenza
di pace. La quantificazione delle riparazioni venne raggiunta nel 1921 da una commissione nominata dagli
alleati e ammontava a 132 miliardi di marchi, cifra impossibile da pagare, tanto che anche la Germania dichiarò
che se volesse appianare i debiti con i Paesi ne avrebbe potuti pagare solo un terzo. La Francia minaccia di
occupare la Ruhr, regione di confine tra i due Stati. Si arriva a una distensione a metà degli anni ‘20, con il patto di
Locarno del 1925, che distende gli equilibri tra i Paesi europei e i rapporti franco-tedeschi. Le trasformazioni
avvengono sia in Germania sia in Francia. In Germania la Repubblica di Weimar ha dei ministri degli esteri di
grande qualità, Rathenau e Stresemann; il primo viene ucciso dagli ultranazionalisti tedeschi contrari allo sforzo di
appianare i contrasti con la Francia. In realtà il patto di Locarno risulterà vincente con l’aggiunta di una
rimodulazione delle riparazioni di guerra, portandole a un quarto. La Francia accetta la soluzione perché nel
frattempo anche la situazione politica francese aveva avuto un’evoluzione: nel 1924 si afferma Aristide Briand, un
convinto democratico, considerato uno dei precursori dell’idea di Europa unita.

La crisi del ‘29 fa poi precipitare le democrazie a favore dei regimi. Inizia con il crollo della borsa di Wall
Street e ha ripercussioni in tutto il mondo, ma molto forti soprattutto in Europa. I Paesi tornavano a respirare
dopo le devastazioni della Prima Guerra Mondiale, ma l’emergenza economica e quindi sociale determinata dalla
crisi e le sue ripercussioni costituisce nuovo abisso.

Il predominio prebellico delle potenze europee viene meno e salivano in primo piano Usa e Giappone. Anche
le potenze vincitrici ne escono indebolite. Le loro colonie chiedono maggior autonomia: l’imperialismo inizia a
mutare e inizia il processo di decolonizzazione. Si delineano due visoni sovranazionali diverse: quella comunista
che ha a guida la Russia di Lenin, e quella di stampo liberal-democratico che ha a capo la Società delle
Nazioni. Questo organismo ha per certi versi un bilancio fallimentare, però ha il merito di aver creato nuove
istituzioni internazionali.

La crisi economica e culturale degli anni ‘20-’30


(23/03) Tra le guerre mondiali c’è un clima di crisi, soprattutto nel ventennio tra il 1919 e il 1939. Il concetto di
crisi non riguarda solo aspetti di instabilità economica, politica e sociale, ma è una crisi di fiducia nei
confronti della civiltà europea, di stampo culturale. Anche i contemporanei definivano il periodo come “crisi”,
ne erano consapevoli. Certamente pesava l’eredità della guerra. Si sperava di dare un futuro di stabilità all'Europa,
ma questa aspettativa è stata largamente disattesa. Gli anni di guerra avevano prodotto un pessimismo, un
nichilismo diffuso. Nichilismo è parola dal carattere filosofico che identifica il nulla, indica la crisi di valori, in
cui non si hanno più punti di riferimento.
L'Europa prima della Prima Guerra Mondiale aveva visto processi di modernizzazione che aveva fatto pesare per il
destino dell'umanità. La modernità si era rivelata a pieno negli anni di guerra: da un lato le bombe e i gas,
dall’altro il ritorno alla fame. Tutto questo rivelò all'opinione pubblica quanto fosse debole la propria civiltà
nonostante lo sviluppo tecnologico. Il progresso era stata un’idea pervasiva nel secolo precedente. Il caso più
eclatante era stato quello della Germania: alla fondazione dell’impero di Bismarck 2 persone su 3 vivevano di
agricoltura, mentre alla vigilia della guerra 2 persone su 3 risiedevano in città e lavoravano nel settore industriale e
dei servizi. Questo sviluppo del capitalismo metteva in dubbio anche le vecchie tradizioni rurali. Il progresso si
associava anche a un disorientamento per essere così repentino. Il progresso nella Prima Guerra Mondiale si
ritorce contro l'umanità stessa, riceve un colpo micidiale durante la Prima Guerra Mondiale e poi ne subisce
un altro nella crisi economica che inizia nel 1929.

La crisi del positivismo era già stata notata: negli ambienti culturali francesi si era già teorizzato l'entrata della
società in periodo di decadenza, con pensatori come Baudelaire, Rimbaud e Verlaine. L’elemento di crisi era
l’affermazione del sistema capitalistico e la mentalità produttivistica che avevano instaurato una morale intorno ai
valori di piatta efficienza, che sentivano degradanti per l’uomo perché lo standardizzavano.
Il senso di crisi riguarda anche il pensiero di Nietzsche, che nella seconda metà del 1800 fa appello a forze nuove
rispetto a una società decadente.
In Francia poi Bergson respingeva interpretazioni meccanicistiche dei processi mentali e insisteva sullo slancio
vitale. Georges Sorel esaltò le potenzialità dell'irrazionale allontanandosi dalle posizioni razionaliste del 1700-800.
In Alla ricerca del tempo perduto di Proust, il vissuto è portato a una dimensione di memoria individuale con una
scomposizione del tempo.
Nel versante della pittura ci sono gli impressionisti che rifiutavano il disegno, ogni emozione acquisita dell'oggetto,
affidandosi all’impressione dell’artista. Nel campo della fisica, Einstein formula teoria della relatività, che a sua
volta dissolveva delle certezze: la posizione temporale di un corpo può essere definita solo in relazione a quella di
un altro corpo. Freud nel 1900 pubblica L’interpretazione dei sogni, puntando l'attenzione sulla dimensione
notturna, dell’irrazionale, sui processi psichici di cui il soggetto non è consapevole. Molto di quello che accade
nella Prima Guerra Mondiale esprime la dimensione notturna della civiltà europea. C’era una vera e propria crisi
culturale che aveva le sue radici in fermenti collocabili nella seconda metà del XIX secolo.

A ottobre 1929 alla borsa di Wall Street avviene una crisi finanziaria devastante dettata dalla
sovrapproduzione di merci in assenza di un mercato internazionale capace di assorbire queste merci. Aveva
innescato un meccanismo speculativo di crescita senza che ci fosse un mercato per assorbire i beni prodotti: è una
crescita senza fondamento.
Nei tre decenni prima del 1914 il commercio internazionale era cresciuto costantemente e si basava questo
equilibrio del gold standard, un tasso stabile di cambio nei diversi Paesi basato sull’oro. La Grande Guerra
scombussolò questo equilibrio che non riuscì a crearsi negli anni successivi. Le economie dei Paesi europei erano
tutte in forte difficoltà e, per tentare di proteggersi, alzarono barriere doganali, con l’effetto di deprimere il
commercio internazionale. Il tasso di crescita non riuscì a tornare ai livelli eccezionali del periodo pre-bellico.
C’era un legame di proporzionalità tra la quantità di moneta che circolava e il totale d’oro posseduto dalla Banca
Centrale di ciascun Paese perché garantiva un valore fisso della moneta rispetto all’oro.
Per finanziare lo sforzo bellico tutti i Paesi avevano preso a stampare troppa carta moneta e quindi era
venuta meno la proporzionalità; avviene quindi una svalutazione e le monete perdono valore, causando
inflazione, ovvero la diminuzione della capacità di acquisto. Perciò viene abbattuto il gold standard. Le barriere
doganali e il venire meno del gold standard mandarono all’aria la crescita del commercio internazionale. La
vitalissima industria americana che continuava a produrre beni incontra questa crisi di sovrapposizione: non c’è più
un mercato internazionale che aveva retto la crescita industriale americana come in precedenza
Gli effetti furono devastanti. Primo fra tutti c’è la caduta netta nella fiducia del sistema capitalistico. In quel
periodo il sistema capitalistico non era l’unica soluzione: c’era l’Unione Sovietica che aveva un regime
comunista, c’era fascismo in Italia e si sarebbe presto affermato il nazismo in Germania. La caduta di fiducia
in questo sistema fece sì che anche molti intellettuali cominciarono a guardare con favore a comunismo e fascismo.
La caduta della produzione industriale e del commercio fu un crollo vero e proprio. Per quanto riguarda il
commercio a livello mondiale, gli scambi scesero di 2/3 nel giro di tre anni e non si riprese per il resto del decennio.
Si scatenò la corsa al protezionismo, alzando le barriere doganali, disincentivando il commercio doganale.
Addirittura la Gran Bretagna, patria del libero mercato, nel 1931 impose dazi del 50%.
Effetti così pesanti sulla produzione e sul commercio non potevano non avere effetti umani gravi. Il colpo portato
dalla crisi arrivava a poca distanza dal colpo della guerra. La disoccupazione di massa non colpisce solo i
lavoratori manuali, ma anche gli impiegati professionisti. La conseguenza è la povertà soprattutto in sistemi sociali
che non prevedevano welfare, che cominciarono a rafforzarsi come risposta alla crisi. Di fronte alla povertà l'unica
soluzione era quella della carità, del mutuo soccorso, mettendo in comune dal basso per soccorrere i più bisognosi.
La povertà causa un peggioramento dell’alimentazione, peggiori condizioni socio sanitarie, un crollo della natalità e
l’abbandono delle città. Le città degli anni ‘30 erano caratterizzate da capannelli che aiutavano i disoccupati. Ci fu
anche un aumento dei crimini contro la povertà, come i furti.
La crisi economica favorì lo sviluppo di regimi autoritari. Il nazismo sale al potere sull’onda della crisi. In
generale, c’è un mutamento più ampio, un maggiore intervento dello Stato nelle economie e nella società: di
fronte alle disfunzioni del libero mercato, si ritiene necessario regolazione dell’economia e della società da
parte dello Stato: questo avviene in tutti i sistemi politici, a partire dalle politiche statunitensi del New Deal.

Queste politiche regolatorie si sviluppano a partire dal 1932. Tutti i paesi si mossero tardivamente, i
contemporanei fecero fatica a percepire la gravità della crisi in atto. Si decide di intervenire solo quando si prende
coscienza che la crisi non sarebbe passata. Il New Deal degli Usa si identifica come un nuovo patto sociale messo
in atto dal presidente Roosevelt, sotto forma di misure socio-assistenziali. Viene facilitato il credito a agricoltori
grazie a sovvenzioni statali. L'industria ebbe una spinta grazie a un programma di opere pubbliche. Sul versante
sociale, si avviano misure legislative per migliorare le condizioni dei lavoratori, come fissare minimo salariale e
garantire forme di assistenza.
Ricette non molto diverse si trovano nella Germania nazista che però punta il contributo soprattuto nello
sviluppo industriale del settore bellico. Il nazismo prende potere nel 1933 e questo sforzo inizia nel 1935-36. Nel
1936 il governo di Hitler introdusse la pianificazione economica quadriennale, incentrata sullo sviluppo delle
industrie militari. Si tolgono energia e risorse ai beni di consumo e destinati all'esportazione. La pianificazione
dall’alto, gli incentivi dell’industria bellica e il protagonismo dello Stato tedesco si traduce nell’acquisizione diretta
di un gran numero di aziende.
Anche nell'Italia fascista si verifica un protagonismo dello Stato con la fondazione dell’Istituto per la
Ricostruzione Industriale (Iri) nei primi anni ‘30, che acquisì un controllo nelle industrie navale, siderurgica e di
armamento. A livello economico, si adotta l’autarchia, ovvero si cerca di eliminare dalle abitudini di consumo,
soprattutto alimentari, i prodotti che venivano importati e di sostituirli con altri di produzione locale. Era una
tendenza che era vista con sospetto dagli imprenditori.
Gli scontri più duri avvengono nella Germania nazista dove si arrivò al punto della pianificazione, dove altrove non
si parlava se non in Russia. Un esempio è Fritz Thyssen, imprenditore che decide di abbandonare il Paese perché
non era disposto ad assecondare le indicazioni del governo tedesco, nonostante inizialmente fosse un grande
sostenitore dei nazionalsocialisti.

Nell'Europa degli anni ‘30 i regimi totalitari hanno diffusione incredibile. È un cambiamento favorito da molteplici
effetti della crisi economica, per certi versi sorprendente, perché c’era stata una crescita costante della democrazia
nel corso del XIX secolo.
Ci fu una varietà di percorsi verso la dittatura. Non fu solo il fenomeno di destra: per esempio, in Russia nel
marzo 1917 abdica l’ultimo zar Nicola II e c’è un tentativo di instaurare un regime democratico, che dura pochi
mesi e viene soppiantato dalla Rivoluzione bolscevica di Lenin. Il Parlamento russo liberamente eletto sciolto dai
bolscevichi aveva al suo interno una rappresentanza comunista pari al 25%, erano quindi una forza minoritaria.
Con l’affermarsi dei bolscevichi le opposizioni vengono messe a tacere. La torsione autoritaria diventa
sempre più importante con la figura di Stalin negli anni ‘30.
Il fascismo è il primo regime che si afferma nel 1922. Nell’ottobre del 1922 Mussolini riceve l'incarico di Primo
ministro. La nomina di Mussolini non significa l’instaurazione immediata della dittatura. Fino al 1925-26 ci sono
altri partiti: le opposizioni vengono messe a tacere solo con le leggi fascistissime del 1926, affermandosi come
regime monopartitico. Negli anni ‘30 si delinea sempre più come dittatura personale. Il fascismo crolla nel 1943
per effetto anche delle sconfitte militari alle quali l'esercito italiano va incontro durante la Seconda Guerra
Mondiale. Il crollo di consenso irrecuperabile inizia nella guerra sopratutto con i bombardamenti. Il fascismo è un
regime lungo, ben oltre rispetto al nazismo, grazie anche a meccanismo di consenso che il regime fu capace di
attivare.
Il nazismo tedesco deve molto alla crisi economica che colpisce l'Europa negli anni ‘30. Hitler sale al potere nel
1933 e in pochi mesi fa piazza pulita di tutte le opposizioni. Tutti i partiti vennero messi fuori legge. Negli anni
successivi si precisò la macchina del controllo e del terrore, la repressione, che venne affidata a Heinrich Himmler,
capo della guardia personale del führer, le SS, e che nel 1936 assunse il ruolo di capo di tutte le forze di polizia in
Germania costituendo un apparato repressivo spietato.
Anche nella Penisola iberica iniziano grandi dittature. Nel 1923 in Spagna si afferma la dittatura del generale
Miguel Primo de Rivera, rovesciato nel 1930, quando si afferma una nuova repubblica parlamentare. Nel 1936
inizia la Guerra civile spagnola. Le elezioni vengono vinte dal fronte di sinistra, ma l’esito elettorale non viene
accettato dalle forze militari che tentano il colpo di Stato guidate dal generale Francisco Franco. Inizia la
guerra civile fino al 1939, che termina con la vittoria dei franchisti. Nel 1939 inizia la lunga dittatura di Franco che
rimane al potere fino al 1975, quando, dopo la sua morte, c’è una lenta transizione verso la democrazia.
Inizialmente nasce come conflitto interno alla Spagna, ma presto c’è un coinvolgimento internazionale: le forze
fasciste e naziste mandano truppe a sostegno di Franco, mentre il fronte di sinistra viene sostenuto dall’Urss e dal
volontariato internazionale proveniente da tutti i Paesi di militanti antifascisti.
In Portogallo inizia una lunga dittatura: il regime parlamentare viene rovesciato nel 1926 e si instaura la dittatura
militare di Carmona. Nel 1932 il potere viene preso da Antonio de Oliveira Salazar e si afferma come nuovo
Primo ministro e mantenne il potere fino al 1968. L'esperienza dittatoriale conosce un’appendice dopo la sua morte:
si arriva fino al 1974, anno di inizio dell’esperienza democratica.
Il blocco orientale nel primo dopoguerra vive una situazione di grandi sconvolgimenti. Si creano entità statali
deboli, senza tradizioni forti. L’instaurarsi di regimi dittatoriali è favorito dalla debolezza istituzionale dei
nuovi Stati. In Ungheria, dopo un breve governo comunista si instaura la dittatura militare di Horthy. In Polonia
prende il potere l’esercito con Pilsudski. In Austria regge la repubblica democratica fino al 1934, anno in cui prende
il sopravvento un’alleanza di destra comprendente forze cattoliche e naziste guidata da Dollfuss. Inoltre, l’Austria
viene assorbita dal Reich di Hitler con l’Anschluss del 1938.
La situazione è caotica nei Balcani. Si stabiliscono delle dittature militari in Bulgaria, Jugoslavia, Grecia e
Romania. L’unico Paese senza dittatura è la Cecoslovacchia.
In Europa gli unici Stati senza regimi dittatoriali sono Francia, Gran Bretagna, Cecoslovacchia, Belgio, Paesi Bassi
e i Paesi scandinavi.

Negli anni ‘20 e ‘30 si sviluppano forti movimenti antidemocratici che accomunano sia la destra sia la sinistra
in opposizione alla politica parlamentare di stampo liberale. Sia le ricette fasciste sia il comunismo sovietico
pensavano a un ordine nuovo, che esercitava un certo fascino anche in alti strati dell'opinione pubblica europea.
L’Età contemporanea è caratterizzata da tre crisi, quella degli anni Trenta, quella degli anni Settanta e quella del
2008.
La crisi degli anni ‘70 arriva dopo un periodo di crescita economica. C'è un boom economico che si lega alla
ricostruzione postbellica e al sistema bipolare della guerra fredda, che garantiva una forma di stabilità
internazionale. La crisi che parte tra il 1973-74 con la crisi petrolifera che pesa sulla maggior parte delle economie
dei Paesi occidentali pone fine al trentennio glorioso, dove gli Stati avevano mantenuto l’abitudine iniziata per far
fronte ai problemi sociali. La crisi degli anni ‘70 permette l’affermazione di politiche neoliberiste e il
ridimensionamento dell’intervento pubblico. Si intravede una riduzione dei sistemi di welfare che si erano
rinforzati. Iniziano processi di internazionalizzazione dell’economia: la globalizzazione affonda le radici nella
trasformazione del sistema capitalistico negli anni ‘70, ma si completa con il crollo del muro di Berlino quando
coinvolge anche i Paesi socialisti.
Venuta meno questa dicotomia tra capitalismo e comunismo, la dimensione economico-finanziaria prende il
sopravvento sulla dimensione politica, riducendo anche sovranità degli Stati.
La crisi del 2008 ha indebolito fortemente i sistemi di protezione sociale. La crescita delle diseguaglianze, che
porta a crisi della democrazia e all’avanzata di diverse forme di nazionalismo, che oggi prende nome di
sovranismo.

La persecuzione antiebraica
(24/03) Negli anni ‘30 in molti Paesi europei lo stato adotta leggi antisemite: si chiama antisemitismo di Stato.
Questo non accadeva alla fine del 1800, anche se comunque c’era l’antisemitismo, ma non c’era una legislazione
di Stato a legittimarlo.

L’antisemitismo è un tema che riguarda tutta la società che adotta quei provvedimenti. In Italia la legislazione
antiebraica è del 1938. Il fascismo sale al potere nel 1922 e dal 1926 ita è regime monopartitico. Hitler prende il
potere nel 1933 e inizia subito a perseguitare gli ebrei: l’antisemitismo di Stato è un caratttere costitutivo del
nazismo tedesco, ma non lo è del fascismo italiano. Fino al 1938 l’unico Stato europeo ad avere una legislazione
antiebreaica era la Germania hitleriana. Il ragionamento chiama in causa due ordini di discorso: prima di tutto
c’è la situazione internazionale da tenere presente. Il fatto che la Germania nazista abbia leggi antiebraiche e
cominci a rivendicare la sua centralità in Europa dal punto di vista militare ed economico attira il fascino di
tutti i movimenti di destra europei, quindi si arriva a mutuare una legislazione antiebraica per conformarsi a
un Paese guida.
L’Italia non lo fa solo per rendersi gradita all’alleato tedesco: ci sono anche motivazioni interne al regime fascista
italiano. Un regime che si voleva totalitario come quello italiano, la svolta antisemita vuole creare una
mobilitazione costante degli apparati dello Stato e della società italiana, contemporaenamente civile e
miltare, contro un nemico interno. Il banco di prova per testare le capacità del fascismo era quello di mobilitare
tutta la popolazione. I regimi totalitari si basano sulla mobilitazione: bisogna avere un avversario contro il quale
concentrare gli sforzi unitari della macchina dello Stato e della comunità nazionale.
Quello che accadde in Italia venne in buona miusura sottovalutato: gli storici hanno cominciato a studiare
seriamente l’antisemitismo in Italia non prima del cinquantesimo anniversario della legislazione antiebraica (1988),
quando vennero organizzati importanti convegni di studio. Questo oblio ha molte ragioni: una di queste era la
convinzione che in Italia non fosse successo nulla di grave. I primi che si occuparono di antisemitismo in Italia
partono dalla convinzione che nella popolazione italiana non c’erano i germi dell’antisemitismo. Quando inizia ad
affermarsi in Europa l'Italia non si segnala per un antisemismo di massa facendo leva su questo aspetto. La
situazione cambia se, appena consideriamo il fatto che quando l’antisemitismo diventa legge dello Stato e viene
applicato a varie amministrazioni, non serve che sia diffuso nello Stato per produrre danni gravi, ma basta che
le norme di legge e le circolari emanate dai ministeri venissero applicate diligentemente. Bisogna
concentrarsi sul lavoro della macchina amministrativa, sulla “banalità del male” (cit. Hannah Arendt), ovvero
la routine del lavoro burocratico che fa mandare avanti procedure che in questo caso hanno l'obiettivo di
discriminare delle persone.
Nel 1938 l’Italia non è l’unico Paese che si aggiunge alla Germania per avere una legislazione antiebraica. Era uno
scenario internazionale che in quel frangente assume delle caratteristiche ben precise. A partire dalla seconda metà
degli anni ‘30 si intensificarono i rapporti tra Germania e Italia a partire dalla collaborazione che i regimi
instaurarono nella Guerra civile spagnola. La collaborazione tra Italia e Germania consolida il rapporto tra i due
Paesi che era stato persino conflittuale negli anni precedenti. Si crea l’asse Roma-Berlino. Nel 1935-36 la
Germania hitleriana, per rispondere alla crisi economica, decide per investimenti pubblici nell’industria di guerra,
cominciando a preparare il Paese all’eventualità di una guerra. Diventa chiaro che nel cuore dell'Europa sta
tornando la potenza economica e militare della Germania. Nel 1938 la Germania hitleriana acquisisce nel Reich
l’Austria con l’Anschluss e i Sudeti, un territorio della Cecoslovacchia che ha una componente importante di
popolazione di lingua tedesca. Gran Bretagna e Francia sperano ancora di poter placare la foga espansionistica di
Hitler concedendogli di aggiungere i territori limitrofi di lingua e cultura tedesca, ma Hitler non si ferma. Nel 1938,
per tutti i movimenti della destra europea, il punto di riferimento è la Germania hitleriana, Paese faro dei
nazionalismi europei. È chiaro che i Paesi interessati ad avvicinarsi alla Germania hitleriana tendono a uniformarsi,
ad adottare anche la loro ricetta dell’antisemitismo di Stato. Nel caso italiano giocano sia l’avvicinamento
inevitabile dal punto di vista diplomatico con la Germania sia l’esigenza sentita di creare una mobilitazione interna
sul tema dell’antisemitismo. Se alla vigilia del 1938 l’unico Paese europeo ad avere una legislazione
antiebraica era la Germania, alla fine si erano aggiunti l’Italia fascista, l’Austria e i Sudeti, l’Ungheria di
Horthy e la Romania, in cui c’erano forze politiche filonaziste molto forti. I vari regimi autoritari di destra europei
cominciano a polarizzarsi verso la scelta dell’antisemitismo di Stato. Erano tutti Paesi che avevano anche
motivazioni interne.

La storia italiana degli anni ‘30 è all’insegna di una mobilitazione costante. Nel 1935-36 attacca l’Etiopia. La
volontà è di costituire un impero italiano, con una retorica che va a rispolverare i fasti dell'Impero romano. La
conquista difficoltosa dell’Etiopia permette di proclamare la rinascita dell'Impero italiano. L'impresa di
Etiopia venne vissuta come la svolta decisiva da parte del fascismo. Poi nel 1936 anche l’intervento in Spagna
insieme alla Germania, nel 1938 la decisione di introdurre l’antisemitismo di Stato e nel 1940 l’entrata in
guerra contribuiscono tutti alla mobilitazione della popolazione. Dalla metà degli anni ‘30 la storia italiana
entra in una dinamica di mobilitazione militare e con l’antisemitismo anche degli apparati civili. Ci si stava
preparando alla Seconda Guerra Mondiale. L’impresa di Etiopia comportò anche l’introduzione di un’altra
legislazione razzista, quella contro i neri africani. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che questa prima legislazione
razzista sia stata un’introduzione che giustificasse la legislazione del 1938. In realtà sono due percorsi separati, non
c’è influenza. La mobilitazione è basilare per mantenere in tensione e vivo il regime totalitario, per compattare la
comunità nazionale verso un obiettivo.
I diari di Mussolini ci aiutano in questo senso a capire come matura la decisione di introdurre la legislazione
antisemita. Nel 1937 l’impegno delle truppe italiane in Spagna comincia a mostrare segni di stanchezza anche con
diserzioni e insuccessi militari. Diventa chiaro che l’Italia sarebbe uscita dal conflitto spagnolo. In quel momento
Mussolini rifletteva già sui nuovi mezzi per mantenere il clima di tensione nel Paese e confidava a uno dei suoi
principali collaboratori, Ciano, che il carattere degli italiani si deve creare nel combattimento. Si inserisce la
scelta strumentale dell’antisemitismo di Stato. La scelta di Mussolini da parte dell’antisemitismo di Stato matura
nel 1937 e viene attuata a partire dall’estate 1938. Il 1938 segna una cesura: un regime che precedentemente non
aveva una legislazione antisemita la adotta in maniera repentina. Questo mostra come anche i regimi totalitari
vivono evoluzioni interne, hanno una storia fatta di svolte, di novità. Questo fa capire anche il fatto che i rapporti
tra fascismo e la comunità ebraica non furono sempre conflittuali: nel 1930 si firmò un accordo che
permetteva di rendere enti pubblici le comunità israelitiche; tanti ebrei erano convintamente fascisti e tanti
di loro avevano percorso carriere importanti negli apparati del regime. Sul versante giuridico istituzionale nel
1938 avviene un cambiamento drastico.
Gli studiosi che si concentrano sul versante culturale mostrano come si può vedere una linea di continuità: il
fascismo anche in anni precedenti aveva mostrato attenzione per alcuni temi come l’eugenetica, e la condanna
dell’omosessualità in quanto colpevole di indebolire forza della nazione, il razzismo contro i neri. Questi aspetti del
fascismo possono far intuire una linea di continuità, un’escalation che porta fino all’antisemitismo di Stato. Da
questo punto di vista si può dire che quella del 1938 non è una cesura completa, ma fonda le radici in atteggiamenti
precedenti. Questa corsa per le leggi antisemitiche avviene per escludere in tempo per l’anno scolastico gli
studenti e gli insegnanti ebrei dalla scuola e dell’università. Dopo di che nel novembre arrivò un provvedimento
che prevedeva l’esclusione degli ebrei da tutti gli impieghi pubblici e in dicembre dall’esercito, uno dei luoghi
dell’unità nazionale. Escluderli dall’esercito significava escluderli dalla comunità nazionale. I successivi
provvedimenti vennero presi anno succ e in anni a venire fino a esclusione completa da tutta la vita sociale.
Il decreto legge del novembre 1938 fissa i criteri del sistema classificatorio. Erano considerati di “razza ebraica”:
1. chi fosse nato da genitori entrambi di “razza ebraica” anche se non professava la religione;
2. chi avesse un genitore di “razza ebraica” e altro straniero anche se non professava la religione;
3. chi fosse figlio di genitori italiani di cui anche uno solo di razza ebraica, ma che professasse la religione o
fosse iscritto a una comunità israelitica.
C’era una componente razzista biologica, di nazionalità e religiosa, ma con una netta prevalenza per
l’impostazione razzista. Si salvavano i figli di unioni miste che non risultassero appartenenti alla religione ebraica.
Tra la fine del 1938 e l’inizio del 1939 si arrivò all’esclusione degli ebrei da tutti gli impieghi privati. Questi
provvedimenti dal punto di vista pratico avevano effetti economici pesantissimi. L’impossibilità di avere un reddito
portava alla povertà e all’impossibilità dei giovani di proseguire gli studi.
Un ulteriore giro di vite si ebbe con l’ingresso in guerra dell’Italia, quando vennero presi provvedimenti aggiuntivi
come il lavoro obbligatorio: era imposto di lavorare a servizio dello Stato in mansioni molto faticose, umili. In
questa fase siamo nella fase della persecuzione dei diritti: gli ebrei italiani vengono esclusi da tutti gli aspetti della
vita sociale. Non è ancora una persecuzione delle vite, non abbiamo uno sterminio o atti di violenza fisica, al
contrario della Germania, in cui lo sterminio era già iniziato.
La persecuzione delle vite e la deportazione inizia a partire dall’autunno del 1943 con l’occupazione di gran
parte del territorio italiano da parte delle truppe naziste con la collaborazione dei fascisti rimasti fedeli a
Mussolini e alla Repubblica Sociale Italiana, un governo fantoccio gestito di fatto dai tedeschi, che instaurano
dall’italia centro-settentrionale a partire dall’autunno del 1943. Le due fasi sono in realtà collegate perché la
persecuzione delle vite viene favorita dalla persecuzione dei diritti e dalla schedatura degli ebrei.

Chi poteva dal punto di vista economico e chi se la sentiva a livello emotivo partiva per altri Paesi, come la Francia,
gli Usa, la Palestina. All’interno della minoranza ebraica italiana il 70% degli ebrei faceva parte di nuclei familiari
inseriti nel mondo dei professionisti, dei commercianti, ecc; era un gruppo a fisionomia prevalentemente borghese.
Ai divieti lavorativi si aggiunsero anche i divieti relativi alle proprietà. I limiti di proprietà vennero abbassati
fino ad arrivare all'esposizione completa. I beni che venivano requisiti agli ebrei finivano in un nuovo ente
pubblico fondato dal regime fascista, l’Ente di gestione e liquidazione immobiliare, istituito nel 1939.

La questione degli ebrei stranieri era ancora peggiore. Alcune migliaia vivevano in Italia, la loro situazione era
anche peggiore di quella degli ebrei italiani. Ancora prima delle leggi della scuola, il primissimo provvedimento
fu l’espulsione degli ebrei stranieri che andarono incontro a un destino assurdo: nonostante fossero disposti
ad andarsene dall'Italia, erano bloccati alle frontiere. Molti ebrei stranieri erano di origine tedesca, che a partire
dal 1933 fuggirono dalla Germania, quindi la legislazione del 1938 per loro fu un doppio colpo.

Dal 1943 cambia lo scenario con occupazione dell’Italia da parte delle truppe naziste. Peggiora per tanti versi la
situazione già critica degli ebrei. Non solo c’era il lavoro obbligatorio degradante e prepotente, ma anche le misure
di internamento. Al momento dell’ingresso in guerra si cominciarono a sperimentare alcune misure di internamento
destinate agli ebrei stranieri in campi di concentramento o isolandoli in comuni lontani dal loro domicilio. La più
importante era in Calabria, Ferramonti di Tarsia. Questo toccava anche agli italiani giudicati pericolosi per il regime
fascista, agli oppositori del regime. Ovunque nel Paese si presentava la stessa scena: nelle prime ore del mattino si
veniva prelevati e condotti in campi d’internamento. Era la Direzione generale della pubblica sicurezza che si
occupava della parte burocratica. La situazione cambia ancora nel 1943, quando l’Italia centro settentrionale viene
occupata dalle truppe naziste. Nel luglio del 1943 il regime fascista crolla in seguito alla perdita di consenso
all’interno della società italiana, perché la guerra stava andando disastrosamente. Gli alleati erano sbarcati
in Sicilia, quindi cominciava la risalita lungo la penisola da parte degli angloamericani. La guerra era persa e il
re decide di destituire Mussolini dalla carica di Primo ministro e affida il governo a un militare di carriera, il
maresciallo Badoglio, che conferma l’alleanza dell’Italia con la Germania, ma avvia sottotraccia trattative con gli
americani. L’armistizio con gli angloamericani viene diramato l’8 settembre 1943, quando l’esercito italiano si
sfalda e i due terzi del Paese vengono occupati dai carri armati e soldati tedeschi, già pronti al Passo del Brennero
perché si aspettavano che potesse accadere qualcosa del genere. Le forze tedesche occupano la parte centro
settentrionale del Paese perché la quasi totalità dell’Italia meridionale era già stata liberata dalla salita verso il nord
delle truppe angloamericane.

(5/04) La scena italiana a partire dal 1938 non ha solo l’antisemitismo come forma di propaganda, ma ha anche
preoccupazioni interne. C’è l’esigenza di creare un clima di mobilitazione. Per un regime totalitario non c’è
niente di più utile di individuare un nemico interno al fine di mobilitare la popolazione. A partire dalla metà
degli anni ‘30 il regime entra in una fase nuova, una fase di mobilitazione continua: si comincia con la guerra
di Etiopia (1935-36), si prosegue con la partecipazione di un contingente militare italiano nella Guerra civile
spagnola (1936-37) al fianco della Germania nazista. Tra la fine del 1937 e l’inizio del 1938 si inserisce quindi
questa scelta di introdurre l’antisemitismo di Stato. Nel settembre del 1938 ci fu una corsa ai preparativi per la
legislazione antisemita perché iniziava l’anno accademico e uno dei rpimi provvedimenti prevedeva l’esclusione
degli inegnanti e degli studenti di origine ebraica dalle scuole e dalle università. Nella seconda metà di agosto
venne realizzato in tutta fretta un censimento con l’obiettivo di individuare i potenziali perseguitati. Allora
come oggi, lo Stato italiano organizzava ogni 11 anni un censimento nazionale della popolazione; all’interno dei
censimenti veniva anche censita l’appartenenza religiosa. Durante il fascismo, il censimento non veniva solo
realizzato per conoscere, ma anche per sottomettere: era il segnale che si stava aprendo un periodo di
persecuzione, segnale che veniva dato contemporaneamente sia ai futuri perseguitati sia alla società italiana in
generale. Il censimento cominciò il 22 agosto 1938 e si doveva concludere entro pochi giorni. Già all’interno del
ministero era stata creata ad hoc qualche mese prima una nuova Direzione generale per la demografia e la razza.
Dal Ministero dell'interno dirama la rete locale che aveva come punto di riferimento le prefetture, uffici periferici
che si occupano di una singola provincia. Dal prefetto dipende il questore, un funzionario di polizia a capo della
questura, ente provinciale che si occupa dell’ordine pubblico. Al posto del sindaco, inoltre, c’era il podestà di
nomina regia perché una delle riforme del fascimso risalenti al 1926 aveva abolito le cariche elettive. A
occuparsi del censimento furono il personale delle prefetture e il personale dei comuni. Non ci furono ribellioni nei
confronti di questa iniziativa, ma ci furono solo inceppamenti dovuti dalla macchina amministrativa e per ovviare a
questi problemi il Ministero dell’interno diede anche delle indennità a impiegati e funzionari comunali che
dovettero svolgere un lavoro straordinario. Tra le modalità che si adottarono per arrivare a una conta più esatta
possibile degli ebrei ci furono anche dei mezzi rozzi, come mandare agenti di polizia a interrogare gli abitanti
chiedendo se ci fossero persone di origine ebraica che abitavano lì. Questo lavoro amministrativo aveva coinvolto
migliaia di funzionari pubblici. La macchina amministrativa non coinvolge solo il Ministero dell'interno, ma
chiama in causa tutta la macchina dello Stato perché l’esclusione degli ebrei caratterizzava tutti gli aspetti
della vita. Anche l’Iri si mobilitò per identificare al suo interno funzionari di origine ebraica per espellerli. I primi
provvedimenti legislativi vengono emanati nel settembre 1938 e poi provvedimenti si susseguirono nei mesi e anni
successivi, all’insegna di un progressivo inasprimento delle misure. I primi provvedimenti furono l’esclusione
degli ebrei stranieri e l’esclusione dalle scuole; a novembre uscì un provvedimento generale al cui interno c'erano
diversi aspetti tra i quali l'esclusione degli ebrei dagli enti pubblici. Nel dicembre del 1938 esce poi un
provvedimento che espelle gli ebrei dall’esercito, provvedimento simbolico perché l'esercito rappresenta un luogo
simbolo dell’unità nazionale. Nel 1939, nel 1940 e negli anni successivi ci fu un costante inasprimento fino ad
arrivare nel 1942 all’introduzione del lavoro obbligatorio. Ci fu anche una progressiva spoliazione degli ebrei. Di
fronte a una persecuzione che si faceva sempre più dura, chi poteva decise di andarsene; questa scelta tra il 1938 e
il 1941 venne presa da circa il 12-13% degli ebrei e si recarono soprattutto in Usa, in Sudamerica e in Palestina.

In Italia gli ebrei stranieri erano circa 9000, di cui più o meno la metà erano di lingua tedesca in fuga dal nazismo
tedesco e dall’Austria dopo l’annessione. Avevano scelto l’Italia perché fino al settebmbre del 1938 non aveva una
legislazione antisemita. Viene preso un provvedimento che caccia gli ebrei stranieri dall’Italia. La vicenda
degli ebrei stranieri che abbandonano l’Italia ha qualcosa di kafkiano, perché entrano in una macchina
burocratica difficilmente comprensibile. Le stesse prefetture italiane si rendono conto che gli ebrei stranieri sono
anche disposti ad andarsene, obbedendo all’ordine dato dal regime, ma non riescono ad abbandonare il Paese
perché non c’è l’accoglienza da parte degli Stati. Questo provvedimento già nel settembre 1939 viene sospeso
perché le stesse prefetture si rendono conto che gli ebrei se ne vogliono andare ma non possono. Nel giro di pochi
mesi si cominciano a notare nuovamente flussi di ebrei austriaci che entrano in Italia. Nell’agosto del 1939 c’è
quindi una nuova circolare dei prefetti che dice di non accogliere assolutamente gli ebrei che migrano verso
l’Italia. Nel periodo che va dal settembre 1938 al giugno 1940 circa 10.000-11.000 ebrei stranieri lasciano il nostro
Paese; di fronte a questo esodo 5000-6000 ebrei stranieri entrano in Italia. C’è quindi un andirivieni di perseguitati
che ha qualcosa di angoscioso.

L’ingresso in guerra coincide con un restringimento dei diritti. Nel caso di una minoranza già perseguitata
come quella degli ebrei, l’ingresso nella Seconda guerra mondiale corrisponde a un altro giro di vite. In
particolare inizia l’internamento, che poteva avvenire in due luoghi: o all'interno di campi di concentramento o
presso dei comuni lontani dal proprio comune di residenza; in quest’ultimo caso si parla di confino di confine.
Gli ebrei sottoposti a questo tipo di internamento erano tutti gli ebrei stranieri e gli ebrei italiani giudicati pericolosi
dal regime, cioè fossero indicati come antifascisti. Nel 1942 viene poi introdotto il lavoro obbligatorio. Una nuova
svolta si ha nel settembre 1943, quando viene annunciato l’armistizio dell’Italia con gli angloamericani (8
settembre 1943). L’Italia esce dalla guerra, abbandona l’alleanza con la Germania nazista e firma un armistizio con
gli angloamericani. In seguito, la parte centro-settentrionale del Paese viene immediatamente occupata dalle
truppe tedesche, che erano già pronte a entrare in Italia dal passo del Brennero. In queste regioni del centro-nord
con il sostegno dei tedeschi venne istituito un regime collaborazionista, la Repubblica sociale italiana o
Repubblica di Salò, guidato da Mussolini sotto il controllo tedesco. La parte meridionale era già stata liberata
dagli angloamericani, che nel luglio 1943 erano sbarcati in Sicilia e avevano iniziato una risalita verso il nord. Nel
settembre del 1943, quando viene annunciato l’armistizio, l’Italia meridionale quasi per intero è già in mano agli
alleati. In conseguenza a questo sbarco in Sicilia e alla guerra che stava andando disastrosamente, il 25 luglio
1943 Mussolini viene destituito e Vittorio Emanuele III lo fa arrestare.
Col settembre 1943 si apre una nuova stagione: si inizia a parlare di persecuzione delle vite. Fino al 1943 le
uccisioni di ebrei in Italia si contano sulle dita di una mano, gli atti di violenza fisica furono limitati. La
persecuzione delle vite fu realizzata dalla polizia tedesca e in particolare dalle SS con l’attiva partecipazione
delle strutture della Rsi. Anche i fascisti collaborarono quindi alle operazioni di sterminio di circa 7000 ebrei, che
dall’Italia furono portati nei campi di sterminio.

Alfred Lewin era un berlinese con una biografia apparentemente secondaria ma che mostra dei meccanismi
decisivi per capire il periodo dei totalitarismi. Lui faceva parte di quel gruppo di persone migrate dalla
Germania in Italia convinto di essersi rifatto una vita sicura, ma che vengono colpite dal nuovo sistema
antisemita fascista.
Alfred Lewin era nato a Berlino nel 1911 e lascia la città insieme alla madre e alla sorella nel 1936, trasferendosi a
Cremona. Nel 1938, nel momento dell’emanazione delle leggi antiebraiche, Alfred convinse la sorella a partire per
la Gran Bretagna, mentre lui rimase con la madre in Italia perché non riuscivano ad andarsene. Con il
provvedimento dell’internamento, Alfred e sua madre vengono separati: Alfred viene spedito al profilo di polizia in
un comune del Mezzogiorno e se fosse rimasto lì si sarebbe salvato perché sarebbe stato in un territorio liberato
dagli angloamericani. La madre invece era stata condotta in un campo di concentramento della zona del pesarese.
Con la madre sempre più in difficoltà, Alfred chiede alle autorità fasciste di essere spostato per ricongiungersi con
la madre. Con questa decisione Alfred lewin prende la strada sbagliata. Il loro destino si compie nel settembre
1944, quando loro si trovano nel carcere di Forlì, i cui prigionieri vengono fucilati sotto ordine delle SS con l’aiuto
dei fascisti della Rsi. La sua storia è stata scoperta grazie a un’associazione di Forlì che ha creato la Fondazione
Alfred Lewin.

La Repubblica sociale italiana con dei provvedimenti nel 1943 istituisce in tutte le province un campo di
concentramento per la raccolta degli ebrei. Oltre a ciò viene anche decretata la spoliazione completa degli ebrei.
Anche gli ultimi beni sottratti dagli ebrei vengono sempre incamerati all’ente di gestione di essi. Viene anche
istituito un campo di concentramento nazionale a Fossoli, nel modenese. Il controllo di questo campo di
concentramento viene presto preso dalle SS per l’importanza logistica che ha: è sulla linea che va verso il
Brennero e quindi verso i campi di sterminio dell’Europa centrale. Il numero di ebrei deportati dall’Italia verso
i campi di sterminio fu di circa 7800. La vicenda dei campi di sterminio non finisce nel 1945. Tutte le procedure
relative al reintegro nei luoghi di lavoro degli ebrei e alla restituzione dei beni ebraici sequestrati furono
estremamente complicate.

Come reagì la popolazione italiana davanti a queste discriminazione? Sia da parte della destra sia da parte della
sinistra non ci furono opposizioni. Tra il 1945 e il 1955 in Italia non si parlò della persecuzione antiebraica; se
si voleva ritornare al periodo del 1943-45 si parlava della resistenza. Il primo spunto di discussione uscì nel
1961, dopo 16 anni dalla fine della guerra, in particolare grazie al lavoro di Renzo de Felice, con uno studio
promosso dalle comunità israeliane. Si dovette attendere il 50esimo della legislazione antiebraica (1988) perché
si mosse lo Stato italiano in questo ambito, quando vennero messi in atto una serie di eventi commemorativi fra i
quali anche importanti commenti di studi storici importanti. Da quel momento si apre una stagione di studi
riguardante la persecuzione antisemita in Italia. In generale, è l’opinione pubblica italiana che ha sottovalutato
questo lato, dato che ha anche peso il fatto che il passaggio tra fascismo e Italia repubblicana venne
caratterizzato da una forte continuità degli apparati amministrativi, che non favorì una riflessione sugli
eventi ma anzi un oblio.
In un documento del novembre 1945 presso l’archivio di Stato di Bologna, si legge del prefetto bolognese che
risponde a una domanda posta dal Ministro dell’interno in merito alla persecuzione antiebraica. Il prefetto scriveva
che a Bologna le leggi razziali hanno avuto scarsa applicazione in casi concreti. In realtà gli studi storici mostrano
che la macchina amministrativa aveva funzionato in maniera efficiente. Un’altra tendenza era quella di scaricare
la colpa sui tedeschi.

La propaganda nei regimi totalitari


Parte fondamentale della mobilitazione delle masse è la propaganda.
Per esempio in questa foto (→) si vede una sfilata alla presenza di
Mussolini in seguito
alla vittoria nella
battaglia di Etiopia. In
quest’altra si vede
un’adunata del Gruppo
trastevere a Roma (←).
Le folle sono compatte e
inneggiano a Mussolini
stesso oppure a sue fotografie.

Un altro metodo di propaganda era l’utilizzo di veline nei giornali, che servivano per dare direttive per costruire
notizie a piacimento del regime. Per esempio alcune direttive sono: “Le fotografie di avvenimenti e panorami
italiani devono essere sempre esaminate dal punto di vista dell’effetto politico. Così se si tratta di folle, scartare le
fotografie con spazi vuoti; se si tratta di nuove strade, zone monumentali ecc., scartare quelle che non danno una
buona impressione di ordine, di attività, di traffico ecc”, “Tutti i giornali debbono riprendere le fotografie Luce
pubblicate stamane dal ‘Popolo di Roma’ in prima pagina: ‘Il Duce si prepara a salire sulla trebbiatrice’. Si fa
presente che un giornale è stato sequestrato perché ha pubblicato fotografie del Duce alla manifestazione dell’Agro
Pontino non autorizzate”, “I giornali eseguano una costante revisione di tutte le fotografie di parate militari, passo
romano, presentazione delle armi, sfilate giovanili e premilitari, pubblicando esclusivamente quelle dalle quali
risultano allineamenti impeccabili”. L’istituto che conservava le fotografie e i video che venivano poi diffusi sui
giornali era l’Istituto Luce, acronimo per L’Unione Cinematografica Educativa, creato nel 1924 con la finalità di
propaganda politica e diffusione della cultura attraverso la
cinematografia, mediante la realizzazione di cinegiornali e
documentari. L’Istituto Luce fu fondamentale anche per lo
sviluppo del cinema italiano, perché Mussolini era consapevole
della potenza di questo strumento. Sapeva che però bisognava
evitare i film di propaganda, ma che si doveva puntare invece
su film leggeri, che non facessero pensare ai problemi.
Un’altra foto significativa è questa (→) rappresentante
un’esercitazione di passo marziale ispirato al passo dell’oca
germanico.
La Seconda Guerra Mondiale e il dopoguerra
(12/04) Negli anni ‘30 nello scenario europeo e quello dell’Asia orientale ci sono in particolare tre Paesi
identificati come paesi aggressori, Germania, Italia e Giappone. Gli anni di guerra contribuiscono a far
tramontare qualsiasi speranza di coesistenza pacifica. Si arriva alla vigilia della guerra nel 1939 con il patto
Ribbentrop-Molotov tra due apparentemente opposti, la Germania nazionalsocialista e la Russia stalinista.

Il Giappone già da tempo vedeva con fastidio l'espansione coloniale della Germania nel Pacifico. Il Giappone
aveva stretto un’alleanza con la Gran Bretagna antitedesca. La sua motivazione per entrare nella Prima Guerra
Mondiale era la conquista delle colonie tedesche nel Pacifico. Tra il 1914-15 la flotta giapponese ebbe facilmente la
meglio su quella tedesca nel Pacifico. Dopodiché nel 1917 gli alleati di Gran Bretagna e Francia chiesero al
Giappone di inviare delle unità di guerra nel Mediterraneo per rinforzare la flotta. La fase cruciale della
partecipazione nipponica alla Prima Guerra Mondiale si concentra nella prima parte della guerra. Gli equilibri
internazionali all’indomani della Guerra mondiale videro poi emergere Usa e Giappone al posto delle
potenze europee fortemente indebolite dalla guerra, anche le potenze vincitrici.

L’aggressività del Giappone degli anni ‘30 arriva già dalla Prima Guerra Mondiale e si esplica nel 1931,
quando occupa la Manciuria, regione in Asia orientale importante perché ricca di risorse nel sottosuolo per lo
sviluppo dell’industria pesante, fondamentale per le politiche di potenza. Inizia quindi un’escalation
internazionale di gesti aggressivi che porterà fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Per esempio,
nel 1935 l’Italia si impegna nella guerra di Etiopia; nel 1935-36 la Germania inizia a riarmarsi, mettendo da
parte tutte le limitazioni che erano state poste dai trattati di pace dopo la Prima Guerra Mondiale; nel 1936 Italia e
Germania inviano uomini e mezzi in Spagna per sostenere le forze franchiste nella Guerra civile spagnola, dando
così inizio all’Asse Roma-Berlino; nel 1938 c’è l’annessione dell’Austria al Reich tedesco (Anschluss) e, in
seguito, l’occupazione tedesca dei Sudeti, regione appartenente alla Cecoslovacchia. Le potenze europee erano
convinte di poter tenere sotto controllo le mire espansionistiche di Hitler concedendogli di allargare i confini del
Reich fino a inglobare i territori confinanti che avessero cultura tedesca. Non avevano fatto i conti che la volontà
egemonica di Hitler si voleva applicare all’intera Europa e che metteva in conto l’idea di una guerra. Nel corso del
1939 abbiamo l’occupazione italiana dell’Albania, l’occupazione tedesca dell’intera Cecoslovacchia e
l’invasione tedesca della Polonia che porta all’inizio della Seconda Guerra Mondiale. A quel punto Gran Bretagna
e Francia capiscono che non è possibile scendere a patti con Hitler.

Gli elementi di fascino del progetto nazionalsocialista sulla destra europea erano l’esaltazione dello Stato e del
potere statale di disciplinare ogni aspetto della vita sociale, il culto della nazione e della sua potenza, le posizioni
antibolsceviche della Germania, che tranquillizzarono anche i conservatori moderati che temevano la possibilità di
una rivoluzione comunista, e la gerarchia delle razze. Bisogna anche tenere a mente il contesto della crisi
economico sociale, che aveva colpito molto anche i ceti medi.
Quello che attirava molto la destra europea era la crociata anticomunista. Ma con un colpo di scena nell'agosto
1939 Germania e Russia firmano patto di non aggressione per interessi militari e strategici. Hitler grazie a questo
patto si garantiva possibilità di concentrarsi esclusivamente sul fronte occidentale, evitando all’inizio di dover
pensare ai due fronti. Da parte sua, Stalin si garantiva acquisizioni territoriali molto importanti, come la Polonia
orientale, le Repubbliche baltiche e il territorio tra Moldavia e Ucraina, vennero inglobate nella sfera di influenza
dell’Urss, che poteva contare su un cuscinetto di protezione verso un eventuale attacco tedesco.

Dopo l’aggressione della Polonia la guerra in Europa visse uno stallo di alcuni mesi, per riaccendersi nella
primavera 1940 quando i tedeschi ottennero una serie di grandi vittorie che porteranno alla caduta di Parigi e
all’occupazione della Francia. La parte settentrionale del Paese viene occupata direttamente dai tedeschi,
mentre nella parte centro-meridionale viene instaurato un regime collaborazionista, il Regime di Vichy.
L’occupazione della Francia cambia in maniera radicale lo scenario europeo. Nel settembre 1940 si arriva al
Patto tripartito tra i tre paesi aggressori, l’Asse Roma-Berlino-Tokyo.
Gli Usa esitano a entrare in guerra, sono forti le posizioni isolazioniste, ma la caduta della Francia e l’esito della
guerra favorevole alla Germania cominciano a far comprendere alla classe dirigente e all’opinione pubblica
americana che era necessario intervenire sia in Europa sia in Asia orientale per salvaguardare gli interessi.
Un’Europa sotto l’egemonia della dittatura nazionalsocialista e un’Asia orientale posta sotto l’egemonia di un
regime militare autoritario come quello giapponese mettevano a rischio le possibilità degli Stati Uniti di continuare
a coltivare in maniera proficua i loro commerci. Nel 1941 comincia a formalizzarsi l’alleanza economica e
diplomatica tra Gran Bretagna e Usa. L’intervento statunitense in guerra arriverà solo tra la fine del 1941 e l’inizio
del 1942. Nel giugno 1941 Hitler decide di stracciare il patto Ribbentrop-Motolov del 1939 e di attaccare
l’Urss. Nel dicembre 1941 avviene l’attacco giapponese alla flotta americana. Sarà questo a determinare
l’ingresso in guerra degli Usa.

Fino al 1941 gli equilibri di guerra sono nettamente a favore della Germania hitleriana. Sono due i fattori che nel
1941 spostano gli equilibri: l’ingresso in guerra degli Usa e il contributo dato dall’Urss, in particolare nella
battaglia di Stalingrado, che dura mesi e che vede infine prevalere l’esercito sovietico che riesce a respingere
l’attacco tedesco. Salla battaglia di Stalingrado in poi ci sarà un ripiegamento delle forze tedesche. L’Urss guadagna
una posizione da protagonista nello scenario della Seconda Guerra Mondiale e nei trattati di pace. Già alla
conferenza di Teheran alla fine del 1943, che vede riuniti i rappresentanti di Gran Bretagna, Urss e anche la
partecipazione delle forze clandestine francesi, è chiaro che gli equilibri della guerra sono cambiati e che la
bilancia comincia a pendere a favore degli alleati.
Alla fine del 1943 l’Italia ha già lasciato l’alleanza con la Germania con l’armistizio con le forze angloamericane.
Inzia quindi lo sbarco americano in Sicilia e in Normandia per liberare l’Italia e la Francia dalle forze naziste.
Nel 1945 con la conferenza di Yalta si definiscono gli equilibri del dopoguerra, che saranno anche gli equilibri
della guerra fredda e quindi il confronto bipolare tra Usa e Urss.
Alla fine nel 1945 vengono lanciate le bombe atomiche sul Giappone. Se in Europa la guerra finisce nel marzo
1945, in Asia orientale finisce nell’agosto dello stesso anno. L’occupazione di Parigi nel 1940 e il controllo tedesco
sulla Francia hanno conseguenze internazionali rilevanti: da una parte la Germania acquisisce una potenza
inaspettata, un controllo di un Paese importante che ha una rilevanza enorme. Dal punto di vista dell’opinione
pubblica americana, si inizia a percepire il rischio di un’Europa occupata. Le opzioni erano diverse: c’era la
possibilità di chiudersi in se stessi, ma così facendo avrebbero snaturato il modello politico ed economico
statunitense che si basava sui commerci internazionali. La cultura americana si basava su questo, sul libero scambio
internazionale. La Carta atlantica, l’accordo tra Usa e Gran Bretagna, viene firmato nell’agosto 1941 dal primo
ministro inglese Churchill e il presidente statunitense Roosevelt. Il contenuto era la collaborazione per un nuovo
ordine internazionale di stampo liberaldemocratico, basato sull’autodeterminazione democratica dei popoli,
sul libero scambio delle merci e sulla sicurezza internazionale, rispolverando i principi wilsoniani. Con la Carta
atlantica inizia a nascere una coalizione antinazista. Non siamo ancora all'intervento militare americano, ma gli
Stati Uniti cominciano a interpretarsi come arsenale della democrazia. L’attacco giapponese alla flotta americana
nel Pacifico scioglie il dilemma degli Usa se entrare o no in guerra. Già nel luglio 1941 il Giappone aveva occupato
l’Indocina (Vietnam, Cambogia e Laos) e quindi si notava un espansionismo sempre più deciso da parte del
Giappone, ma l’attacco agli americani a Pearl Harbor fu una sorpresa.

Anche per la Seconda Guerra Mondiale possiamo fare considerazioni analoghe a quelle per la Prima Guerra
Mondiale. La Seconda Guerra Mondiale colpisce in maniera molto dura l’Europa, anche se non è combattuta solo
sul suolo europeo. Le potenze europee abbandonano le ambizioni di egemonia, non a caso alla fine della guerra
inizia il processo di decolonizzazione dettato anche dall’indebolimento delle potenze coloniali europee. Crescono
fortemente gli Usa che non sono interessati dalla guerra nel territorio nazionale e grazie alla guerra hanno
un’espansione economica enorme.
A Teheran nel 1943 si decise di aprire un altro fronte in Europa con lo sbarco in Normandia del giugno 1944
e vennero definite alcune posizioni per le ultime fasi della guerra. Intanto, per il dopoguerra si decise a Teheran
per la resa incondizionata della Germania. Non si parlava ancora di divisione del territorio, ma si parlava solo di
resa incondizionata e di riconoscimento delle conquiste sovietiche in Europa orientale. Si decideva anche la forma
dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, che sarebbe nata ufficialmente nel 1945. Nel 1945 poi si decide per le
due sfere di influenza, una americana e una sovietica, e per la divisione della Germania in due Stati, uno a ovest
di stampo capitalista e uno a est con impostazione sovietica. Questa decisione è una richiesta specifica del
presidente americano Truman che voleva scongiurare la possibilità che l’Urss acquisisse l’egemonia
sull’intera area tedesca. Anche nel caso del Giappone si arrivò alla resa incondizionata.

Le conseguenze della guerra sono enormi e di portata internazionale. Tra queste c’è l’inzio della guerra fredda, del
bipolarismo Usa-Urss che durerà fino al 1989-91, con il crollo del muro di Berlino e dell’Unione Sovietica. Si
viene a creare questo equilibrio internazionale sotto la minaccia atomica.
Nel 1945 inizia anche il processo di decolonizzazione a sottolineare un ulteriore indebolimento dell’Europa nel
quadro internazionale, che dura fino agli anni ‘60 e, in alcuni casi, fino agli anni ‘70.
Un’altra conseguenza è il tracollo dell'Europa, continente distrutto dalla guerra. Se la Prima Guerra Mondiale era
una guerra di massa, la Seconda Guerra Mondiale possiamo definirla una guerra totale, nel senso che anche le
popolazioni civili sono coinvolte pienamente nella guerra, non solo nei meccanismi di mobilitazione sociale ed
economica come nella Grande Guerra, ma anche negli atti di guerra. Basta pensare ai bombardamenti a tappeto
sulle città europee.
Per rispondere al tracollo tutti i Paesi europei, compresa l’Italia, cominciano un processo di ricostruzione
economica e sociale. Il periodo della ricostruzione fu seguito anche da un periodo di boom economico. In Italia il
miracolo economico si colloca tra la fine degli anni ‘50 e l’inizio degli anni ‘60. In quegli anni in Italia per la
prima volta, i lavoratori addetti ai settori industriali superano gli agricoltori; l'Italia diventa un Paese
prevalentemente industriale. Questo passaggio era avvenuto già in Germania alla fine del 1800. Questo boom
economico definisce poi un trentennio glorioso tra il 1945 fino alla metà degli anni ‘70, che si chiude con la
crisi degli anni ‘70 che porterà anche a un mutamento profondo del sistema capitalistico internazionale con
l’affermazione dell’idea dello Stato che deve fare un passo indietro rispetto alla regolazione dell’economia.

Il 1949 è l’anno in cui in Europa e in Asia succedono cose di grande portata.


In Europa si arriva alla nascita delle due Germanie. Nel maggio 1949 nella parte occidentale nasce la
Repubblica Federale Tedesca, filoamericana, e a est la Repubblica Democratica Tedesca, filosovietica. Ci
sono due Germanie divise che si fronteggiano al centro dell’Europa.
Anche in Asia accadono cose decisive. Dal punto di vista militare, nell’agosto 1949 in un poligono in Kazakistan
l’Urss fa scoppiare la sua prima bomba atomica, quindi colma il gap militare con gli Stati Uniti. Un’altra
questione molto rilevante è la nascita della Cina maoista. Nell’ottobre 1949 i comunisti guidati da Mao Zedong
prendono il potere in Cina, dove una guerra civile iniziata nel 1946 vedeva contrapposti il fronte comunista e quello
nazionalista. Era il Paese più popoloso del mondo ed era un successo politico importantissimo per il comunismo.
La vittoria comunista in Cina venne vissuta con grande ansia da parte degli Usa perché dopo la fine della Seconda
Guerra Mondiale avevano sperato di costruire in Cina un avamposto filoamericano per controbilanciare la presenza
dell’Urss in Asia, tanto che agli inizi della guerra civile in Cina gli americani avevano provato a svolgere il ruolo di
mediatori. Gli Usa devono rivedere le loro strategia per quanto riguarda l’Asia orientale e puntano sul
Giappone, che sarà l’avamposto americano in Asia orientale. Nel frattempo, Mosca e Pechino firmano un
accordo di alleanza a inizio 1950.
La Cina contemporanea
(13/04) Tra il 1946 e il 1949 la Cina è interessata da una guerra civile con due fronti contrapposti, quello
nazionalista e quello comunista. La guerra è vinta dai comunisti. Il Partito comunista cinese va al potere sotto la
guida di Mao Zedong il 1 ottobre 1949. Nel frattempo, le forze nazionaliste, composte da 3 milioni di persone,
trovano rifugio a Taiwan. Da qui nasce il conflitto tra Cina e Taiwan.
Negli anni successivi, Taiwan fu aiutata sostanziosamente dai punti di vista economico e politico dagli Usa. Per
questo motivo, l’isola di Taiwan ha un territorio e una popolazione circoscritta, ma dal punto di vista economico è
importantissima con il suo sviluppo industriale fortissimo, soprattutto nei settori informatico ed elettronico.

In Cina il maoismo va dal 1949 al 1976. Il 1 ottobre 1949 a Pechino Mao Zedong proclamò la nascita della
Repubblica Popolare Cinese a guida comunista. Mao è il capo del partito e diventa anche il presidente della
nuova repubblica. La Cina è infatti uno Stato monopartitico. Nel 1976 Mao muore e inizia una nuova fase della
storia della Cina all’insegna di nuove riforme economico-sociali sotto la guida di Deng Xiaoping, che prepara il
terreno per quella che è la Cina odierna, un Paese che si apre al capitalismo.

Tra il 1946 e il 1949 avviene la guerra civile. La prima fase tra il 1946-47 sembrerebbe propendere a favore delle
forze nazionaliste, ma nel 1948-49 vanno meglio le forze comuniste. Il Partito comunista cinese sale al potere nel
1949. Nel 1950 si stabilisce un’alleanza tra Pechino e Mosca, alleanza che viene testata nella guerra di Corea,
uno degli eventi decisivi nei primi anni della guerra fredda. La Corea, dal 1910 fino al 1945, era stata una colonia
giapponese e questa occupazione militare era stata anticipata anche in precedenza da una forte influenza giapponese
iniziata all’indomani della prima Guerra sino-giapponese (1894-95). Prima, la Corea era un territorio vassallo della
Cina. Ci sono sempre state pressioni molto forti da parte della Cina o del Giappone. Dopo il 1945 i coreani sperano
di arrivare a uno Stato unitario indipendente dopo la lunga colonizzazione giapponese, ma finisce nella morsa della
guerra fredda e si stabiliscono due governi diversi, a nord uno filosovietico e a sud uno filoccidentale. La divisione
tra Corea del Nord e Corea del Sud è individuata nel 38esimo parallelo.
Nel 1950 Stalin, alla luce della vittoria comunista in Cina e di altri movimenti che stanno avvenendo in Asia, come
il processo di decolonizzazione, decide di sostenere un attacco da parte delle forze nordcoreane contro la
Corea del Sud; era anche un tentativo di testare risposta degli Usa nel caso di attacco di una zona considerata
periferica. Gli Usa reagirono subito perché il governo di Washington era inquieto già per la vittoria dei comunisti in
Cina ed entrano direttamente in guerra e, inviando uomini in Corea del Sud, sostengono un contrattacco che porta al
ribaltarsi della situazione. Le forze sovietiche non intervengono perché avrebbe significato uno scontro
atomico, ma l'esercito cinese dà manforte alla Corea del Nord. La guerra continua per tre anni, fino al 1953,
quando c’è il cessate il fuoco e un accordo di pace e si ritorna a punto di partenza, con le due Coree divise. La
situazione è rimasta tale e quale fino ad oggi. La guerra di Corea è pesante e coinvolge direttamente gli Usa,
mettendo alla prova subito l’alleanza tra Cina e Urss ed è una lezione che tutti terranno presente negli anni a venire:
bisogna evitare di non rispettare le divisioni della guerra fredda.
La controprova che questa lezione fu assimilata da parte di tutti l’abbiamo nel 1956 in Ungheria, filosovietica, dove
c’è un tentativo riformista per democratizzare il Paese, ma viene schiacciato dai carri armati sovietici e nessuno
muoverà un dito per sostenere la richiesta di democrazia che proveniva dalla popolazione ungherese.

Nel 1950 avviene la collettivizzazione forzata della vita economica e sociale cinese: si abolisce la proprietà
privata sia nel settore industriale sia agricolo. Collettivizzare l’agricoltura voleva dire cambiare radicalmente
l’intera società: fu un processo che ha dell’incredibile, estremamente violento, che avvenne in pochi mesi. Invece
l’industria non era molto sviluppata se non in Manciuria quindi fu più facile. Nel caso dell’industria, gli
imprenditori vennero rimborsati dallo Stato ed espropriati delle proprie aziende che vennero nazionalizzate. Non fu
un processo cruento per lo scarso sviluppo industriale. Nel settore agricolo le cose andarono diversamente. I
proprietari terrieri vennero perseguitati e uccisi, non ci furono rimborsi, ma solo l’esproprio forzato delle terre.
Questa collettivizzazione forzata della vita economica cinese avviene rapidissimamente, nel giro di mesi, e
parallelamente bisogna trovare anche una ricetta di sviluppo economico. La Cina era un Paese profondamente
arretrato, anche l'attività agricola era condotta con mezzi arretrati e questo portava alla fame. La ricetta
trovata era quella della pianificazione sovietica, con i piani quinquennali, che in Urss avevano dato buoni risultati.
Pianificazione vuol dire che ogni 5 anni il governo centrale programma risultati economici da ottenere, tassi di
sviluppo e quantità produttive da raggiungere. Il primo piano quinquennale viene introdotto nel 1953 e caratterizza
gli anni che vanno dal 1953 al 1957. I risultati non sono male, si partiva da una situazione di emergenza sociale
ed economica, sia in termini di crescita economica sia di miglioramento degli indicatori sociali: inizia ad
aumentare l’aspettativa di vita, la partecipazione scolastica, le condizioni abitative migliorano, così come i consumi
e i salari. Mao Zedong non è soddisfatto dal punto di vista politico, gli pesa che la Cina si sia affidata a un modello
di sviluppo che viene dall’Urss. Dopo la morte di Stalin nel 1953, la nuova dirigenza sovietica di Chruščëv
aveva avviato una politica di distensione con gli Usa e l’occidente, mentre Mao voleva mantenere il clima di
tensione. Tutto porta a una rottura di alleanza tra la Cina e l’Urss e un cambio di rotta nello sviluppo economico
cinese.
Nel 1958 si arriva a una nuova ricetta: il Grande Balzo in Avanti, lo slogan che Mao lancia, che deve garantire
alla Cina uno sviluppo economico e sociale repentino, più di prima.

Henri Cartier-Bresson fece un reportage fotografico per la rivista Life per testimoniare con la fotografia cosa stava
succedendo in Cina. Gli Usa guidati da Truman erano molto interessati a quello che stava succedendo in Cina,
nonostante sperassero nella vittoria dei nazionalisti.

Un secondo reportage venne realizzato nel 1958 durante il Grande Balzo in Avanti. In queste foto si vede il lavoro
senza pause e rudimentale degli uomini per la costruzione di opere pubbliche e nelle industrie. L’indicazione
perentoria che veniva dalla classe dirigente cinese era quella di lavorare un numero indefinito di ore pur di
raggiungere gli obiettivi posti dal regime. Si intensifica anche la propaganda, a partire dai bambini nelle scuole,
per esempio con le biblioteche ambulanti.
Lo sforzo si applica anche e soprattutto per incentivare lo sviluppo industriale e la produzione di acciaio,
l’industria pesante, per garantire la potenza militare. La Manciuria era una delle poche regioni industrializzate della
Cina, perché il suo sottosuolo era ricco di carbone e ferro e quindi c’era la possibilità di sviluppare un’industria
siderurgica. Nelle comuni agricole si trovavano le fornaci da cortile al fine di produrre la maggior quantità di
acciaio. Le comuni erano accorpamenti di famiglie (fino a 5000 l’una) nelle quali tutto veniva messo in
comune, non solo la terra, ma anche le mense, i dormitori, le strutture dove lasciare i figli. Dopo aver lavorato
nei campi, i contadini dovevano anche produrre acciaio nelle fornaci.
Per queste contraddizioni e per lo spirito di volontà di potenza che non teneva conto della realtà concreta, il
Grande Balzo in Avanti si evolse in un disastro. Le braccia sottratte al lavoro dei campi fecero sì che molti
raccolti andarono persi sia per la scarsità di persone a mietere il grano quando ce n’era bisogno sia per le condizioni
meteorologiche avverse in quel momento. Il risultato fu catastrofico e causò circa 17 milioni di morti nelle
campagne cinesi per carestia in quei pochi anni. La Cina riuscì a ritornare ai livelli precedenti solo nel 1965.

La leadership di Mao alla fine del Grande Balzo subì un grave colpo. Il Partito comunista cinese si rese conto
che era necessario intervenire per fare uscire il Paese da una crisi disastrosa. Nelle scelte di politica economica
Mao venne esautorato e affiancato da un gruppo di esperti con atteggiamento meno radicale, tra cui Deng
Xiaoping, colui che prese la guida del Paese in seguito.
Se sul piano delle politiche economiche Mao vede limitato il suo raggio d’azione, rimane però il capo politico. Sul
piano politico-culturale gioca la sua ultima stagione al potere. Nel 1962 Mao impone l’avvio del movimento di
educazione socialista, il cui obiettivo era quello di rilanciare il fervore rivoluzionario. C’è anche una polemica
che Mao voleva lanciare nei confronti della classe dirigente del partito che l’ha criticato per le scelte nel settore
economico, che individua come non abbastanza improntata a uno spirito veramente socialista. Anticipa quella che
poi sarà la Rivoluzione Culturale del 1966.
Nel lanciare la Rivoluzione Culturale Mao fece affidamento sull’entusiasmo e il radicalismo degli studenti,
assecondò formazione di Guardie Rosse, un gruppo di militanti armati che assunsero un ruolo sempre più
importante anche nella lotta interna al partito. Esponenti più riformisti come Deng rischiarono più volte la vita,
alcuni vennero anche uccisi. Nell’agosto 1966 ci fu grande manifestazione a piazza Tian’anmen: 1 milione di
giovani rivoluzionari con il loro libretto rosso con le massime di Mao Zedong inneggiavano alla guida del
cosiddetto “grande timoniere”. Il potere che incominciarono a esercitare le Guardie Rosse portò la Cina sull’orlo di
una guerra civile: violenze e scontri per strada si fecero sempre più frequenti, anche perché questi si
ritenevano in diritto di andare a punire coloro che non erano considerati abbastanza rivoluzionari. Lo stesso
Mao si rese conto che bisognava fare una marcia indietro. Tra il 1968 e il 1969 venne imposto agli studenti di
smobilitare, di restituire le armi. Molte università cinesi rimasero chiuse fino al 1972, cosa che penalizzò la
formazione di un’intera generazione. Anche i militari furono investiti dell’autorità di uso della forza per sopprimere
le violenze delle Guardie Rosse. Si erano sviluppate lotte tra fazioni contrapposte anche all’interno delle Guardie
Rosse. Subito dopo milioni di giovani furono inviati nelle campagne a rieducarsi, a svolgere del lavoro
forzato nelle campagne. In tutto ciò sorprende la disinvoltura del leader cinese: avvennero tante trasformazioni
violente repentine che restituiscono lo spirito totalitario.

Gli anni ‘70 rappresentano l’ultima fase del governo di Mao. L'ultimo atto importante è il disgelo con gli Usa, un
cambiamento di rotta rispetto alla direzione della Cina precedente. Nel 1972 avvenne un incontro tra Nixon e Mao
in Cina. Per la prima volta la Repubblica Popolare Cinese viene riconosciuta a livello internazionale ed
entrerà nell’ONU.

(14/04) Dal 1949 al 1976 il Paese attraversa dei traumi enormi: prima l’esasperata collettivizzazione
dell’agricoltura e delle industrie, e poi, negli anni ‘60, la Rivoluzione Culturale.
Nel 1972 la Cina entra in un sistema di relazioni diplomatiche normali, anche con i Paesi occidentali, entrando
anche all’interno dell’ONU, dalla quale era stata esclusa in precedenza. Dopo la morte di Mao si avvia un processo
veloce di demaoizzazione, di critica aspra rispetto al passato maoista con particolare riferimento al periodo
del Grande Balzo in Avanti. Si fa la resa dei conti dell’eredità di Mao, all’insegna di superamento di quella
vicenda. È anche un processo di riforma economica: l’economia cinese viene ristrutturata, soprattutto alla metà
degli anni ‘80. Nel giro di pochi anni si fa piazza pulita delle collettivizzazioni, torna la proprietà privata sia in
agricoltura sia nel settore industriale. Sono riforme che avverranno tra il XX e il XXI secolo verso il primato
dell’economia mondiale. Il protagonista di queste riforme è il leader cinese Deng Xiaoping, uno dei dirigenti del
Pcc, che fin dagli anni del Grande Balzo in Avanti aveva sollevato caute critiche nei confronti della condotta di
Mao. Già dall’inizio degli anni ‘60 si era fatto notare come uno degli esponenti di spicco del partito ed era riuscito a
passare indenne attraverso gli anni della Rivoluzione Culturale ed era ancora sulla breccia quando morì Mao.
Dai primi anni ‘80 il governo decide di aumentare la possibilità dei contadini di avere degli appezzamenti di
terra privati e gli permette di commerciare autonomamente i prodotti della terra, senza conferirli allo Stato.
Alla metà degli anni ‘80 l’agricoltura collettivizzata era scomparsa. Anche il settore industriale si al apre sistema
capitalistico: si apre la possibilità di avere la proprietà privata e investimenti stranieri, che diventeranno
sempre più frequenti perché le imprese straniere e occidentali si accorgono della convenienza di produrre in Cina,
dove c’era una manodopera a basso costo, non sindacalizzata e con orari di lavoro sostanzialmente senza limiti.

Gli anni ‘80 sono decisivi per l’economia globale. Con la crisi economica degli anni ‘70 che colpisce duramente i
Paesi occidentali avviene una trasformazione complessiva del sistema capitalistico con l’affermazione delle
politiche neoliberiste. Il neoliberismo è una dottrina economica che sostiene che convenga lasciare il mercato a
briglia sciolta, che è in grado di autoregolarsi, che è dannoso che lo Stato intervenga controllando le dinamiche
economico-sociali e crede dell'individualismo economico.
Prende corpo sempre di più il fenomeno della delocalizzazione, lo spostamento della produzione altrove. Si
delocalizzano le attività produttive parzialmente o totalmente in Stati in cui la manodopera costa meno. Il
decollo economico cinese corrisponde con questo mutamento complessivo dell’economia globale. La produzione
manifatturiera occidentale delocalizza sempre maggiormente verso la Cina e verso altri paesi dell'Asia orientale, ma
non solo, anche dell’Europa orientale. Dopo il crollo dell’Urss la globalizzazione dei mercati si afferma anche nei
Paesi ex comunisti.
Nel 2010 la Cina diventa il maggiore produttore industriale del mondo, superando gli Usa. Sono cambiamenti
impressionanti tanto quanto quelli che hanno attraversato il periodo maoista. La Cina è un paese con una sfera
economica pienamente capitalista, mentre ha un’impostazione politica comunista monopartitica. In Cina c’è
un’importantissima classe imprenditrice, enormi multinazionali, ecc, ma politicamente non esiste il concetto di
pluralismo politico, le dottrine sono le stesse di quelle di Mao. L’attuale presidente Xi Jinping è sia il capo di
partito, del governo, segretario militare...
È un rapporto non facile, che si trova esemplificato in un avvenimento che mette in contrasto due grandi figure, Xi
Jinping e Jack Ma Yun, imprenditore e fondatore di Alibaba. Tra i due c’è stato uno scontro frontale, che
possiamo leggere come uno scontro tra il partito e la sfera economica. Questo scontro ha avuto il suo apice tra il
2020-21. Lo scontro ha rivelato la volontà fermissima del partito di affermare il suo potere assoluto, anche sulla
sfera economica. Nel 2016 si tiene in Cina una riunione del G20, il forum dei 20 Paesi più industrializzati al
mondo. In quell'occasione Jack Ma Yun cominciò a tessere una propria diplomazia senza la presenza di
rappresentanti del Pcc, una sorta di diplomazia parallela, che insospettì Xi Jinping e che metteva in discussione
l'autorità assoluta del partito. Nell’ottobre 2020, Jack Ma Yun criticò pubblicamente le politiche economiche
finanziarie del governo, tacciandole come arretrate rispetto alle dinamiche internazionali. Jack Ma Yun viene
convocato dal partito e dall’agenzia di stampa ufficiale, nella quale si ribadiva che nessuno potesse criticare la linea
economica del governo. Da quel momento non si fermò solo alla convocazione, ma Jack Ma Yun è apparso molto
raramente in pubblico, gli è stato impedito di realizzare alcune operazioni in borsa e Alibaba, la sua impresa, è stata
messa sotto controllo. Xi Jinping mostra così che anche il settore privato deve considerarsi sottomesso agli equilibri
del partito.
L’Asia orientale
Nella storia del 1900 dell'Asia orientale i due principali antagonisti sono Giappone e Cina, tanto che ci sono ben
due guerre sino-giapponesi tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900.
Le principali caratteristiche della società giapponese sono:
1. la centralità dell’imperatore come figura sacra e simbolo dell’unità del paese;
2. l’importanza dell’aristocrazia militare, soprattutto tra il XII e il XIX secolo. Aveva anche dato vita a una
classe militare, che è stata sì ridimensionata nel 1800, ma che rimane comunque come centralità dell’aspetto
militare;
3. l’etica sociale confuciana, un sistema etico che ha alcune caratteristiche come l’obbedienza al
superiore, una forte gerarchia sociale e la subordinazione delle esigenze individuali alla compattezza e
all’armonia della collettività.

Fino a metà del XIX secolo il Giappone è un paese chiuso rispetto ai contatti con l’esterno. Nei decenni tra gli anni
‘70 e ‘80 del XIX secolo inizia uno sviluppo militare e industriale molto forte. Lo sviluppo industriale in
Giappone inizia prima della Cina e della Russia. Nel contesto asiatico, il Giappone si muove per primo nel
colmare la divergenza che si era creata tra l’economia dei Paesi europei e asiatici a partire dalla seconda
metà del 1700.
Tra gli anni ‘70 e ‘80 del 1800 inizia anche il processo complessivo di modernizzazione della società giapponese.
In politica rimane la centralità dell’imperatore, ma egli stesso dona al popolo una Costituzione imperiale che
prevede anche delle elezioni a suffragio ristrettissimo (poteva votare solo l’1% della popolazione) e i ministri del
governo non rispondevano al Parlamento, ma all’autorità imperiale. In qualche modo si voleva rispondere allo
spirito del tempo.

Nel 1894-95 c'è la prima guerra sino-giapponese, in cui il Giappone sconfigge la Cina anche grazie allo sviluppo
economico e militare e ottiene Taiwan e il passaggio sotto la sua sfera di influenza della Corea, al momento
senza alcuna occupazione militare.
Nel 1900 il giappone partecipa alla rivolta dei boxer in Cina, rivolta antioccidentale che venne sostenuta dalla
dinastia imperiale dei Manciù (Qing). Si parla di rivolta dei boxer perché l'avanguardia di questa rivolta venne
assunta dai giovani che praticano il kung fu, che veniva equiparata alla boxe in occidente. Parteciparono anche
diversi eserciti occidentali, tra cui quello della Gran Bretagna, con cui poi il Giappone firmerà un trattato.
Nel 1904-5 il Giappone combatte contro la Russia, altro grande avversario nel quadrante dell’Asia orientale. La
vittoria pesante del Giappone consente di occupare alcuni avamposti della Manciuria.
Nel 1914-18 il Giappone prende parte alla Prima Guerra Mondiale con una partecipazione defilata, ma che
permette di acquisire le colonie tedesche nel Pacifico e un peso internazionale crescente. Nel 1931 c’è
l’occupazione della Manciuria nella quale c’erano già insediamenti militari. Era una regione strategica militarmente
e a livello industriale.
Nel 1937 c'è la seconda guerra sino-giapponese che anticipa la Seconda Guerra Mondiale, che termina nel 1945
con la perdita della Guerra mondiale per cui il Giappone deve rinunciare alle imprese militari in corso. Il 1945 è un
anno drammatico per il Giappone, non solo per una perdita delle colonie repentina, ma per l'evento tragico dello
scoppio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Il 6 agosto 1945 alle 8.15 un bombardiere americano
rilascia la bomba atomica su Hiroshima. Ormai i giapponesi erano abituati ai bombardamenti americani, ma questo
era qualcosa di nuovo e diverso. Morirono circa 50.000 persone all’istante. Questo bilancio non conta i morti nel
periodo seguente per radiazioni. Quando arriva la notizia che la missione era stata compiuta, il presidente
americano Truman dichiara che non era mai stato così felice di fare un annuncio. La bomba distrugge il Giappone,
ma era già chiaro che avrebbe perso la Guerra. Era una questione di tempo che sarebbe finita, ma con le due
bombe atomiche si vuole mettere in ginocchio il Paese. A quel punto la guerra in Europa era già finita con la
resa della Germania. Non si sapevano effetti della bomba atomica, perché era la prima volta che veniva usata. La
resa del Giappone non arrivò subito: la classe dirigente giapponese temeva che gli Usa volessero passare per armi
l’imperatore e la famiglia imperiale. Allora il 9 agosto 1945 viene sganciata un'altra bomba su Nagasaki e muoiono
25.000 persone civili. Dopo la seconda bomba, il Giappone accetta la resa incondizionata, annunciata alla
popolazione dall’imperatore Hirohito il 14 agosto con un messaggio radiofonico. Era la prima volta nella storia
che i cittadini giapponesi sentivano la voce dell'imperatore. La resa del Giappone, oltre a cambiare volto del Paese
facendolo diventare un anteposto americano in Asia orientale, produce anche una serie di ripercussioni immediate.

Corea e Taiwan conquistano l’indipendenza. Questi paesi vivranno nella seconda metà del 1900 uno sviluppo
economico rilevante anche grazie agli aiuti economici americani.
Tra gli anni ‘70 e ‘80 in tutti i Paesi in quest’area avvengono cambiamenti profondi: in Cina muore Mao Zedong
e si apre un nuovo ciclo, il Giappone si afferma come potenza economica a livello globale. Dopo il 1945 il
Giappone subisce un processo di ricostruzione e rilancio economico molto veloce. All'inizio degli anni ‘80 la
crescita economica del Giappone arriva al suo culmine: 4 delle 10 più grandi fabbriche di automobili del mondo
erano giapponesi. Lo sviluppo è stato così rapido da costituire addirittura una minaccia per gli interessi economici
americani.

In Corea si crea a sud la Repubblica di Corea, filoccidentale, che alla fine degli anni ‘70 è un Paese
politicamente assoggettato a una dittatura militare iniziata all’inizio degli anni ‘60, che aveva dato impulso alla
crescita economica ma a scapito di qualunque apertura da punto di vista politico. Quando il dittatore viene ucciso,
la Corea del Sud entra in un nuovo periodo in cui si afferma il pluralismo politico.
In Corea del Nord si afferma un particolare tipo di regime comunista, di tipo familistico. È un Paese sempre
più chiuso su se stesso. La caratteristica dinastica si stabilisce tra la fine degli anni ‘70 e l'inizio degli anni ‘80,
quando Kim Il-sung comincia a introdurre il figlio, Kim Jong-il, nella nomenclatura politica e militare gettando basi
per il suo incarico.

Anche a Taiwan le cose cambiano. Era stata una colonia giapponese fino al 1945, ma nel 1949 al termine della
guerra civile in Cina diventa il rifugio dei nazionalisti in fuga dalla Cina. Taiwan si distingue dalla Cina per il
pluralismo politico. Lo sviluppo di Taiwan venne aiutato nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale da
aiuti americani.
La Russia contemporanea
(19/04) La Russia è retta da un sistema presidenziale e al presidente sono attribuiti poteri molto forti. C’è una netta
prevalenza della figura del presidente rispetto al Parlamento. In particolar modo, durante il governo di Putin, a
partire dal 2000, ha queste caratteristiche:
1. una direzione politica di governo accentrato e fortemente personalizzato, in cui è presente un leader
supremo che alimenta un culto di se stesso;
2. una sottomissione dell’individuo e dei suoi diritti alle esigenze dello Stato;
3. una retorica da grande potenza, in particolare indirizzando sua ostilità verso l’occidente;
4. nonostante non sia uno Stato monopartitico, c’è una forte ostilità contro il dissenso politico, contro qualsiasi
tipo di critica nei confronti del governo e dello Stato. Questa ostilità nei confronti della critica si è
tradotta anche in un controllo molto serrato degli organi di comunicazione. Per esempio, il sistema
televisivo è stato posto da Putin sotto il diretto controllo dello Stato. Fin dalle origini, c’è la Duma, il
Parlamento russo, con una molteplicità di partiti, ma i partiti di opposizione hanno margini di manovra
molto limitati, sono molto cauti nell’avanzare critiche nei confronti del governo e sembrano
accontentarsi di condividere alcune responsabilità nella gestione di affari interni.
In Russia è presente una Costituzione presidenzialista che attribuisce forti poteri al presidente, che sono stati
ulteriormente incrementati nella prassi di potere introdotta da Vladimir Putin. Le caratteristiche moderne ci
riportano ad elementi di lungo periodo: la mancanza di tradizioni liberali democratiche, la debolezza della
società civile e l'opinione pubblica rispetto allo Stato, la persistenza di una tradizione imperialista, aggressiva
verso l’esterno. Per misurare storicamente queste tare della società russa, è necessario partire dall’Impero zarista.

Tra l’Età moderna e contemporanea ci sono tre versioni di Stati territoriali della Russia:
1. l’Impero russo (1721-1917), una monarchia assoluta particolarmente dispotica, il cui fondatore è Pietro
il Grande;
2. l’Unione sovietica (1917-1991), regime monopartitico, il cui unico partito era il Partito bolscevico o Partito
comunista dell’Unione sovietica;
3. l’attuale Federazione russa (1991), che dal punto di vista territoriale rappresenta la taglia minima rispetto
alle due versioni precedenti.
La versione statale che assicurò la maggior influenza politica nel mondo fu l’Unione sovietica. Dopo il 1945
fino al 1992 si stabilisce il bipolarismo tra Usa e Urss, le due superpotenze nucleari, con le loro rispettive sfere di
influenza, considerate intangibili. La compagine statale che si avvicina di più allo Stato-nazione è la
Federazione russa, perché le due versioni precedenti erano caratterizzate da gruppi etnici in quantità
superiore rispetto all’attuale versione.

L’Impero zarista era particolarmente dispotico. La lotta politica ancora alla fine del 1800 era segreta, mentre,
negli stessi decenni, in Europa, i sistemi politici si stanno fortemente democratizzando, andando verso il suffragio
universale maschile. In Russia la dimensione politica era ancora clandestina.
Nasce una prima forma di opposizione all’impero con il Populismo russo, un movimento politico che si affaccia
in Russia clandestinamente fin dagli anni ‘70 del 1800; si opponeva da un lato allo zarismo, ma vedeva con
ostilità anche i primi sviluppi capitalistico-industriali che iniziavano a vedersi in Russia nelle grandi città. Il loro
modello sociale erano le comunità agricole russe dove una rivoluzione agraria avrebbe redistribuito le terre: era un
progetto che si basava sulla logica comunitaria, sulla redistribuzione delle terre, su un progetto anti-centralistico e
richiamava per certi versi una prospettiva anarchica. Il Populismo russo ebbe anche delle espressioni terroristiche
con un attentato eclatante, nel 1881, quando venne colpito lo zar Alessandro II, che venne ucciso dai populisti.
Paradossalmente, Alessandro II era il meno dispotico degli zar e stava realizzando delle riforme sociali
importanti come l'abolizione della servitù della gleba (1861), sistema che prevedeva la sottomissione dei
contadini rispetto ai padroni e che i contadini fossero legati alla terra, di conseguenza vendendo la terra si
vendevano anche i contadini. La condizione dei contadini comunque non era migliorata granché, anzi per certi versi
era peggiorata, perché il signore almeno garantiva da mangiare; era una situazione simile a quella degli schiavi
africani in America dopo l’abolizione della schiavitù. L’attentato ad Alessandro II fece sì che i successori
Alessandro III e Nicola II diedero un ulteriore giro di vite rispetto ai caratteri autoritari e polizieschi. I populisti
vennero ripresi tra fine 1800 e inizio 1900, quando si introdussero alcune forme di modernizzazione economica
favorite dallo Stato, impegnandosi per uno sviluppo industriale, soprattutto nei settori siderurgico e
meccanico per garantire la potenza militare.
Per quanto riguarda l’imperialismo, le principali direttrici di espansione militare dell’Impero russo erano l’Europa
balcanica, per l’ambizione di unire sotto un unico Stato tutte le popolazioni slave (panslavismo), l’estremo
Oriente, contesto geografico nel quale la Russia finirà per scontrarsi e subire gravi colpi contro il Giappone per
la Manciuria e la Corea, l’Asia centrale, soprattutto Persia e Afghanistan. L’imperialismo russo non costituisce
un unicum del paese, ma se nei Paesi dell’Europa occidentale l’imperialismo riuscì a garantire una maggiore
coesione nazionale, questo non si verificò a causa del carattere multietnico che caratterizzava il grande Impero
russo.

Nel frattempo, cominciarono a crearsi altri movimenti clandestini di opposizione:


1. nel 1898, il Partito operaio socialdemocratico russo, di impronta marxista, idea che si era potentemente
diffusa nelle classi lavoratrici a partire dalla pubblicazione del Manifesto del Partito comunista (1848) di
Marx ed Engels. Presto, nel 1903, si divide in due filoni:
a. i bolscevichi, che prenderanno potere nel 1917 guidati da Lenin, adottavano il modello del partito
piccolo, di rivoluzionari di professione, che costituivano poche cellule che si insediavano nei
luoghi di lavoro e che si preparavano all’ora della rivoluzione;
b. i menscevichi, riformisti, che puntavano a un lavoro politico culturale più paziente in vista di una
trasformazione democratica e socialista del Paese;
2. nel 1902, i liberali, la cui compagine si chiama prima Unione della liberazione e poi Partito democratico
costituzionale. Il loro obiettivo era emanare una Costituzione che garantisse i diritti dei cittadini a partire
dai diritti di associazione, di espressione, ecc;
3. sempre nel 1902 si sviluppa anche il Partito socialista rivoluzionario, con una connotazione politica
fortemente anarchica.
È importante notare anche come nella società russa aumentasse il malcontento nei confronti del sistema zarista per
diversi motivi. Nelle città cominciarono a costituirsi delle comunità operaie, prive di qualunque tutela, perché
non esistevano i diritti del lavoro. Non soddisfatti della propria condizione erano gli ex servi della gleba, i
contadini, gruppo costituito da milioni di persone. L'abolizione della servitù della gleba, anzichè favorire
un’ascesa sociale, aveva fatto sì che si passasse alla condizione di braccianti che cercavano di sopravvivere
con meno garanzie di sussistenza rispetto a prima. Lo scontento si stava diffondendo anche tra proprietari
terrieri.
Lo sviluppo industriale veniva realizzato attraverso investimenti pubblici; questi soldi lo Stato li prendeva
vassando i proprietari terrieri, insofferenti rispetto alle politiche di modernizzazione. I fenomeni di
modernizzazione politica e sociale cominciavamo a far nascere i ceti medi di impiegati e professionisti, che si
avvicinarono sempre di più al programma dei liberali.

La crisi cominciò ad arrivare con la guerra russo-giapponese del 1904. Fu una durissima sconfitta per la Russia,
quasi sorprendente. Il Giappone cominciò a mettere le mani sulla Manciuria e la sconfitta con il Giappone fu un
grandissimo colpo al prestigio del governo zarista.
In questo clima matura la prima Rivoluzione russa del 1905. Nel gennaio 1905 si costituisce a San Pietroburgo
un’assemblea di lavoratori di fabbrica, una forma associativa popolare formata da un sacerdote della Chiesa
ortodossa, che inizialmente aveva avuto un permesso dell’imperatore. Quest’associazione operaia presenta le sue
istanze allo zar Nicola II, che puntavano a realizzare non il programma rivoluzionario, ma un programma liberale,
che avrebbe causato una rottura visibile rispetto alla forma statale zarista. Chiedevano una serie di
miglioramenti nelle condizioni di lavoro. Nel gennaio 1905 si organizza una manifestazione popolare che si dirige
verso il Palazzo d’Inverno, sede dello zar. Non era una manifestazione ostile, ma questo venne considerato
inaccettabile e la manifestazione si trovò davanti alle fucilate dei militari.
Tra gli operai cominciarono a crearsi i soviet, i consigli operai, che si proponevano come strumenti di
autogestione della stessa produzione. Si stava sviluppando una vera e propria rivoluzione contro lo zar. La
situazione stava sfuggendo di mano, quindi Nicola II decide di concedere alcune riforme, come la libertà di
associazione, di stampa e viene convocato un primo Parlamento elettivo, quindi nel 1905 nasce la Duma.
Queste concessioni furono un ripiegamento momentaneo, perché nel 1906, dopo aver imprigionato le personalità
più in vista del movimento rivoluzionario, lo zar diventa ancora padrone della scena e la Duma, ogni qualvolta le
elezioni davano come risultato una maggioranza sgradita allo zar, veniva chiusa.
Gli anni che precedettero la Prima Guerra Mondiale videro un alternarsi di manifestazioni e repressioni da parte
delle forze dell’ordine e quindi uno scollamento tra lo Stato e la società. La netta chiusura del potere zarista a
ogni forma di serio rinnovamento condannò il potere zarista al crollo definitivo, che arrivò sotto l’urto della
Prima Guerra Mondiale. Se la guerra russo-giapponese aveva mostrato crepe molto profonde, l'impatto della
Grande Guerra costituì la fine dell'Impero zarista.

Nel febbraio del calendario ortodosso 1917 l’Impero crollò. Dopo c’è il tentativo breve di introdurre in Russia un
sistema di democrazia rappresentativa, che venne realizzato dai menscevichi e dalle esigua pattuglia dei liberali.
Questo tentativo si infrange contro la Rivoluzione d’ottobre.
Nell’ottobre 1917 i bolscevichi di Lenin prendono il potere. Negli anni successivi inizia quasi subito una guerra
civile che vede contrapposti le forze comuniste da quelle anticomuniste. Tra il 1918 e il 1920 si inizia a delineare il
nuovo regime che prende il nome di comunismo di guerra: è la statalizzazione totale della produzione
industriale, la statalizzazione dei beni, dei prelievi forzati di derrate alimentari dal settore agricolo privato
per esigenze dello Stato e dell’esercito. Anche il lavoro viene militarizzato. È un regime durissimo, una struttura
sociale e politica senza precedenti, fondato sulla dittatura di un unico partito e sulla preminenza del settore statale. I
comunisti vincono la guerra civile consolidando il potere e il grande malcontento che aveva provocato il
comunismo di guerra convisse Lenin a cambiar almeno in parte rotta.
Nel 1921 viene messo in atto la Nep, la Nuova politica economica, una forma di economia mista che accanto
alle forme di collettivizzazione consentisse anche delle piccole forme di proprietà privata. Questa nuova
stagione durò pochi anni, perché nel 1924 Lenin muore. All’interno del Partito iniziano lotte intestine molto aspre
tra una corrente di sinistra guidata da Trotskji e una corrente di destra guidata da Bucharin. In una situazione di
ostilità interna ed esterna la Nep viene abbandonata e il sistema sovietico va verso una dittatura sempre più totale.

Nella seconda metà degli anni ‘20, nel Partito si afferma la figura di Stalin. Dal 1927 inizia ad espellere dal
Partito tutte le opposizioni e introduce nel Paese la pianificazione economica, con la collettivizzazione
completa sia del settore industriale sia del settore agricolo. L'imperativo è il rafforzamento militare. L’Urss può
sperare di sopravvivere solo chiudendosi in se stessa e rafforzandosi dal punto di vista militare.
L’epoca dello stalinismo inizia nel 1927 e termina nel 1953 con la morte del dittatore. È un’epoca tristemente
nota per la violenza politica che Stalin applicò: epurazioni, detenzioni di massa nei gulag, persecuzioni, ecc. La
fase stalinista dell’Urss è fase più dura dal punto di vista della violazione dei diritti umani e dei crimini contro
l’umanità.
In questa fase si collocano due carestie, una del 1932-33 e poi una del 1946. La prima fu provocata dalla politica
irresponsabile del governo stalinista, dalla collettivizzazione agricola esasperata voluta da Stalin, come nel caso del
Grande Balzo in Avanti della Cina maoista.
Gli anni dello stalinismo comprendono gli anni della Seconda Guerra Mondiale, durante la quale l’Urss si afferma
come grande potenza a livello mondiale grazie all’industrializzazione forzata realizzata dai piani
quinquennali. La vittoria militare ottenuta sulla Germania nazista nella battaglia di Stalingardo (1942-43), che
consente l’avanzata dell’Armata Rossa e il ripiegamento delle truppe tedesche. È uno dei Paesi vincitori della
Seconda Guerra Mondiale in alleanza con Usa, Gran Bretagna e Francia. La vittoria nella Seconda Guerra
Mondiale conferisce all’Urss un grande prestigio internazionale e all’interno del Paese nasce anche un
patriottismo russo. Ancora oggi Putin si sta preparando i festeggiamenti del 9 maggio, che ricordano la vittoria
dell’Urss nella Seconda Guerra Mondiale.

Tra il 1944 e il 1952 avviene la sovietizzazione dell’Europa orientale grazie all'occupazione di questi Paesi da
parte dell’Urss. Per esempio, nel 1949 viene creata la Repubblica Democratica Tedesca filosovietica. L’Urss sarà
anche in grado di esercitare una forte attrazione anche verso molti paesi colonizzati. In tanti casi questi Paesi
guardavano con interesse alla pianificazione sovietica come ricetta di sviluppo. Per questo Paesi come Corea
del Nord, Vietnam del Nord, Cuba, Cina guardarono con interesse al sistema sovietico, ma anche Egitto, Iraq, India,
Siria e Algeria.
Lo scenario internazionale della seconda metà del 1900 vede il bipolarismo tra due superpotenze.
La vicenda dell’Urss termina nel 1991 con il crollo di questa compagine statale e la fine del comunismo.
L'economia viene completamente trasformata, diventa capitalista e la fine del comunismo in Europa sovietica
consente il rafforzamento nei processi di globalizzazione dell’economia.

In Europa occidentale i diversi Partiti comunisti hanno accettato pienamente la condizione dell’Urss, ma
dall’altra parte hanno accettato completamente di muoversi in un contesto democratico.
La vicenda del Partito comunista italiano inizia nel 1921 sotto l’effetto della Rivoluzione russa del 1917, sul
modello leninista del piccolo partito con cellule rivoluzionarie che cercavano di realizzare la rivoluzione. In realtà
si trovarono davanti all’affermazione del fascismo e l’anno successivo il Partito comunista d’Italia entra in
clandestinità. Alcuni militanti finiscono in carcere, altri preferiscono l’esilio, ecc. La vera svolta è la resistenza dal
1943 al 1945, quando cominciano ad organizzarsi le bande partigiane che combattono contro l’occupazione
nazifascista. Il Pci assume la leadership del movimento di resistenza. Quello che era un piccolo partito
diventa un partito sempre più importante, acquisendo grande prestigio tra i lavoratori. Nel dopoguerra
diventa un grande partito di massa, basato sulle sezioni di partito pubbliche, e accetta la democrazia, che
contribuisce a fondare. Si mantiene fino agli anni ‘70 il legame con l’Urss, finché Enrico Berlinguer allontana il Pci
dalla realtà dell’Urss.
L’India
(20/04) L’India tra il 2022-23 è diventato il Paese più popoloso al mondo, superando la Cina. È un Paese particolare
a partire dalle lingue ufficiali, l’hindi e l’inglese, per il passato coloniale molto importante che ha il Paese, fino
al 1947. Anche nelle relazioni internazionali è particolare: da una parte il governo di Nuova Delhi dialoga con la
Russia e la Cina all’interno dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, che in Asia è una realtà
internazionale molto importante che associa una dozzina di Paesi, tra cui Cina, Russia, India, Pakistan e altri Paesi
dell’Asia centrale, la sua funzione è controbilanciare l’influenza americana nell’Asia centrale e orientale, nata
all’inizio degli anni 2000; dall’altro lato l’India dialoga anche con il Giappone e l’Australia nell’ambito del
Quad, un’alleanza quadrilaterale per contenere l'espansionismo cinese nell’area dell’indo-pacifico. Se da sempre il
Giappone e l’Australia rappresentano dei solidi alleati degli Usa, l’India tiene una duplice posizione.
L’avvicinamento almeno parziale tra India e Usa è avvenuto nel corso degli ultimi decenni, a partire
dall’inizio degli anni 2000, grazie agli Usa che cercavano un ulteriore alleato per contenere il grande sviluppo
cinese. In precedenza, l’India era stata piuttosto vicina all’Urss, in quanto era uno di quei Paesi protagonisti del
processo di decolonizzazione che avevano guardato con fascino all'esperienza sovietica, pensando che fosse una
ricetta efficace anche per il proprio sviluppo. È un grande Paese con un forte attivismo internazionale. Inoltre, nel
2023 è presidente del G20.

Tra il XVII e il XVIII secolo, inizia la penetrazione commerciale britannica in India, grazie all’azione della
compagnia commerciale Compagnia delle Indie Orientali. La denominazione “India orientale” risale al XV
secolo quando venne scoperta l’America. La differenza era che le Indie occidentali erano i Paesi caraibici, le Indie
orientali erano l’area dell’Asia del sud-est.
Nel 1858 la Gran Bretagna assume il controllo diretto dell’India. Si passa da un controllo commericale a un
controllo politico vero e proprio. Il colonialismo britannico ha fine nel 1947 grazie alla vittoria di un
movimento indipendentista guidato da Gandhi.

L’India che viene progressivamente colonizzata a partire dal 1600 da parte britannica è un Paese ricco. L’Impero
indiano era costituito da diversi regni. La regione più ricca era il Bengala, nel nord-est, dove si trova il delta
del fiume Gange e la città di Calcutta. La East India Company punta subito verso il Bengala e insidia delle basi
commerciali. L’India non reagisce perché è un impero politicamente frammentato, costituito da più regni che
avevano un sovrano ciascuno. Il sovrano del Bengala cercò di reagire a questa occupazione commerciale, ma senza
successo. L'influenza della Compagnia continuò a crescere finché costringe le autorità bengalesi a riconoscere il
diritto di esazione delle imposte. Di fatto la Compagnia divenne sovrana del Bengala. Avviene quindi
un’invasione commerciale sempre più pervasiva realizzata dai funzionari della Compagnia delle Indie
Orientali.
Agli occhi dello Stato britannico, questo controllo indiretto poteva avere dei vantaggi, evitando un impegno
diretto dal punto di vista militare-politico, ma aveva anche uno svantaggio: la Compagnia delle Indie, man
mano che accresceva il potere in India, sfruttava territori preoccupandosi meno degli interessi generali del
governo di Londra. Per questo, a partire dalla fine del 1700, il governo londinese cominciò a imporre controlli
sempre più severi all’azione delle Compagnia delle Indie che precludeva al completo smantellamento e
all’instaurarsi di un controllo diretto sull'India nel 1858, quando la Gran Bretagna nominò un governatore generale.

A metà 1800 nasce la Indian Civil Service, apparato amministrativo piuttosto snello ed efficiente, composto
inizialmente solo da funzionari inglesi, i quali rivestivano le maggiori cariche amministrative ed esecutive della
colonia. Nel corso del tempo, tra la classe media indiana si stava sviluppando la richiesta di poter accedere
anch’essi alle cariche amministrative dell’Indian Civil Service. Questa richiesta fu accolta negli anni ‘80 del
1800. In quel momento in Gran Bretagna c’erano governi liberali, che rispetto ai conservatori avevano un
atteggiamento più riformista e propenso ad accettare le richieste della popolazione. Questa richiesta significava una
nuova possibilità di mobilità sociale. Si accompagnò alla traduzione di una più ampia libertà di stampa. C’erano
una serie di limitazioni, come la mancanza di uguaglianza giuridica tra inglesi e indiani, aspetto di forte
arretratezza. Esistevano restrizioni che limitavano la possibilità di fare processi a cittadini inglesi da parte di
tribunali indiani.
Le pressioni e battaglie condotte dall’opinione pubblica indiana non ottengono risposte positive da parte
degli inglesi. Questo causò un diffuso risentimento e portarono alla costituzione di diverse organizzazioni
popolari che si proponevano di veicolare le loro istanze nell’opinione pubblica indiana. Nel 1885 i loro
principali leader si accordarono per dare vita a un unico organismo politico, il Congresso nazionale indiano, che
avrà un ruolo decisivo nel processo d’indipendenza nel secolo successivo. Fin dall’inizio, il Congresso si schierò in
difesa degli interessi dei ceti professionisti sorti sotto il dominio inglese, nonché degli studenti indiani. Nel
frattempo il Movimento d’indipendenza indiano diventa un movimento di massa grazie anche alle strategie di
lotta non violente, grazie all’ideologia di Gandhi. Dopo la Seconda Guerra Mondiale nel 1947 il movimento
nazionale di Gandhi riesce a ottenere l’indipendenza, Gandhi muore nel 1948.

La decolonizzazione
Con la decolonizzazione nasce il concetto di terzo mondo. Nello schieramento bipolare della guerra fredda
c’era il mondo dell’est e dell’ovest, ma con la decolonizzazione nasce anche il sud del mondo, quella schiera
di Paesi americani e asiatici che nel secondo dopoguerra guadagnano l’indipendenza.
Si vede questo processo nei dati dell’ONU. Nel 1945 ne facevano parte 51 nazioni, di cui 9 asiatiche e 3 africane;
nel 1965, le nazioni erano 120, di cui 70 tra Asia e Africa; alla fine del 1900, c’erano 190 Paesi.

Nel 1946 guadagnano l’indipendenza Siria e Libano dalla Francia.


Nel 1947 il processo colpisce India, Pakistan, Sri Lanka e Birmania.
Nel 1948 la Gran Bretagna lascia la Palestina e nasce lo Stato d’Israele.
Nel 1949 l’Indonesia diventa indipendente. In Indocina (Vietnam, Laos, Cambogia) i francesi cercano di reprimere
un movimento nazionalista.
Negli anni ‘50 l’epicentro della decolonizzazione è nel Medio Oriente e nel Nordafrica.
Nel 1956 Gran Bretagna e Francia muovono guerra all’Egitto che aveva nazionalizzato il canale di Suez, ma senza
successo.
Nel 1962 l’Algeria raggiunge l’indipendenza dalla Francia dopo una lunga guerra.
Negli anni ‘60 si arriva all’indipendenza dell’Africa Subsahariana.
Il processo di decolonizzazione prosegue anche negli anni ‘70, soprattutto per le colonie portoghesi in Africa, che
dovettero attendere fine del regime dittatoriale nel 1974.
Alla fine del processo possiamo dire che le grandi potenze europee sono ridotte a delle potenze di rango
regionale, senza l’influenza internazionale che avevano un tempo.

Nel 1955 avviene la conferenza di Bandung, in Indonesia. Si riuniscono i governi di 29 Paesi asiatici e africani
che avevano appena guadagnato l’indipendenza. Questo segna una cesura perché questi 29 Paesi segnalano che
bisogna superare il bipolarismo est-ovest e pensare a una cooperazione internazionale tra nord e sud del
mondo. Emergeva il punto di vista dei Paesi del sud del mondo che avevano l’esigenza di pensare a un futuro verso
lo sviluppo e uscire dalle logiche di rivalità della guerra fredda.

Su alcuni paesi freschi di indipendenza esercita un’influenza l’Urss: era finito lo stalinismo nel 1953 e il nuovo
gruppo dirigente sovietico si pone come interlocutore privilegiato per le nuove nazioni nascenti. Nei confronti
dei Paesi che uscivano dall’esperienza del colonialismo, l’Urss contava su alcuni aspetti accattivanti, come
l’ideologia marxista-leninista anticoloniale, il sistema di economia pianificata che poteva costituire modello
convincente per lo sviluppo economico di Paesi arretrati impegnati ad uscire da una situazione di
sottosviluppo, e la possibilità dell’Urss di fornire armamenti.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale si crearono alcuni stati comunisti, come Cina, Vietnam del Nord, Corea del
Nord e Cuba, mentre altri, come India, Egitto, Siria, Iraq e Algeria, si avvicinarono all’Urss ispirandosi al modello
sovietico.
Nuovi equilibri economici e politici del pianeta dal crollo dell’Urss a oggi
Nel 1991 crolla l’Urss, ma già dagli anni ‘80 il sistema sovietico è in profondo affanno, in particolare per due
ragioni: la competizione militare con gli Usa era un fardello pesantissimo per l'economia sovietica, che non
cresceva più come un tempo. Ormai da tempo la pianificazione sovietica si era sclerotizzata, l'economia era
stagnante e tenere il passo nella competizione militare nucleare con gli Usa era diventato sempre più pesante. Dal
1985 al Cremlino c’è nuovo leader, Gorbačëv, che, consapevole della crisi del sistema sovietico, cerca di salvare
l’Urss in due modi: cercando la pacificazione con l’occidente e con una serie di riforme interne. Riuscì sul versante
internazionale, favorendo la fine incruenta dell’antagonismo con gli Usa, ma non riuscì sul versante delle forme
interne. Il decadimento interno del regime sovietico era forse troppo profondo.

Dal 1989 scompare il potere sovietico nell’Europa orientale, travolta da movimenti pacifici che cancellano i regimi
comunisti. Le due Germanie si riunificano. Nel 1991 crolla l’Urss e nasce la Federazione russa. Molti, a questo
punto, pensavano alla vittoria degli Usa. In realtà si stavano disegnando nuovi scenari globali. Negli anni ‘80 la
Cina comincia la sua corsa allo sviluppo economico. In particolar modo, tre fenomeni caratterizzano il periodo: la
discesa del peso economico dell'Ue, la flessione degli Usa e la crescita della Cina.

In questi ultimi anni, stiamo vedendo il tramonto simultaneo di due epoche storiche: quella della rivoluzione
industriale iniziata a fine 1700 che aveva prodotto la grande divergenza tra lo sviluppo europeo occidentale e quello
asiatico, e l’epoca dell'egemonia statunitense affermatasi nel corso del 1900, che sembra vittoriosa con la fine
dell’Urss, ma che invece ha trovato un nuovo antagonista, la Cina. Stiamo assistendo a profondi mutamenti di
sistema, che stanno ridisegnando il sistema internazionale, che tenderà ad essere sempre più plurale e policentrico.
L'importanza degli Usa non scomparirà per l’ampiezza e la ricchezza dell'economia americana, ma la crisi profonda
riguarda l'Europa, che non ha più un ruolo internazionale di grande portata.

La questione meridionale
(21/04) Prima dell’unità, l’Italia era divisa in diversi stati regionali, i più importanti erano il Regno delle Due
Sicilie, con la capitale a Napoli, e il Regno di Sardegna, con capitale a Torino. Dopo il 1948, nel Regno di Sardegna
viene emanata una Costituzione che garantisce alcune libertà fondamentali molto importanti per favorire la
modernizzazione della società, mentre nel Regno delle Due Sicilie permane l'ancien régime. Il divario si crea per
tre fattori: i trasporti e, in particolare, le ferrovie, il credito e il sistema bancario, fondamentale per sviluppare le
iniziative economiche all'interno della società, cha causa il fatto che al sud non si sviluppi l’imprenditoria, e
l’analfabetismo molto più alto nel Regno delle Due Sicilie.

Successivamente si possono individuare due frangenti in tutti i periodi, sia nell’Italia liberale, sia fascista sia
repubblicana.
Nel 1887 il governo decide di introdurre una tariffa protezionistica per proteggere l’industria che si sta sviluppando
nelle regioni del nord, che però penalizza l’agricoltura del Meridione. Negli anni relativi alla Prima Guerra
Mondiale (1915-18), lo Stato italiano investe risorse sullo sviluppo dell’industria di guerra, e quindi cresce ancora
perché gli investimenti pubblici si dirigono verso il settore industriale.
Durante il fascismo accadde la stessa cosa per diverse scelte fatte dal governo di Mussolini:
1. la battaglia del grano aveva l’ambizione di rendere il Paese autosufficiente nella produzione di frumento, in
quanto era il nutrimento della nazione per essere forte e aggressiva. Questi investimenti penalizzano ancora
una volta la produzione delle colture agricole vocate all’esportazione;
2. nel corso degli anni ‘30, il fascismo, anche in ottica di potenza, investe molto nell’industria pesante per
aumentare anche la potenza militare del proprio esercito, andando a creare una divaricazione ulteriore con lo
sviluppo industriale e l’economia del Mezzogiorno che viene abbandonata.
Le scelte di politica economica vanno in direzione di un accrescimento del divario. La situazione cambia nella
Seconda Guerra Mondiale.
Nel 1946 nasce la Repubblica italiana. Si è consapevoli dell'emergenza relativa alla questione meridionale. Si pensa
di fare grandi investimenti pubblici verso il Mezzogiorno, come la cassa per il Mezzogiorno, che consisteva in una
serie di investimenti pubblici per sviluppare e modernizzare la produzione agricola per dotare il sud di infrastrutture
per entrare nella modernità economica. Alcuni risultati vengono raggiunti. Questa stagione di intervento pubblico
viene officiata dalla criminalità organizzata che, anche per carenza dello Stato italiano, si impossessa di almeno una
parte delle risorse indirizzate verso il sud. Inoltre, la fase di crescita dell’economia complessiva finisce con la crisi
economica degli anni ‘70 a partire dallo shock petrolifero, perciò vengono meno anche le risorse per finanziare gli
interventi pubblici. Bisogna quindi incrementare l’istruzione, migliorare la produzione, ecc. più che far affidamento
sugli investimenti, ma suscitando l’iniziativa della interna alla popolazione.

Le migrazioni
(26/04) Il tema delle migrazioni si collega con la storia dei divari regionali, in particolar modo nel Trentennio
glorioso, nel boom economico. In questa fase di crescita economica si notano migrazioni interne particolarmente
intense da sud verso nord, verso il triangolo industriale (Torino-Milano-Genova). Si migra anche da zone interne
verso le pianure e le coste. Ciò trasformò profondamente il panorama delle città: per esempio, al nord si sviluppano
delle periferie enormi.
Le rimesse sono il denaro che gli immigrati riuscivano a risparmiare e a inviare alle famiglie in patria attraverso i
vaglia postali. In Italia dal 1876 al 1976 ben 26 milioni di italiani lasciarono il proprio Paese per raggiungere una
meta all’estero. Le rimesse dei migranti costituirono un contributo importante anche per l’economia nazionale.
Si sviluppano anche le catene migratorie: quando si decideva di partire, spesso si voleva raggiungere qualcuno che
già si conosceva nel Paese di destinazione perché era un grosso aiuto per integrarsi, trovare lavoro e casa, quindi i
migranti seguivano queste catene migratorie. Questo spiega anche come, nella storia delle migrazioni, le mete
cambino gradualmente. Tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900 si vede gradualmente uno spostamento verso gli Usa
piuttosto che verso l’America Latina, ma è un fenomeno graduale. Per motivi culturali l’America Latina garantiva
una maggiore probabilità di integrazione, ma poi si preferisce gli Usa per il grande sviluppo economico e
industriale.
L’Italia a metà degli anni ‘70, soprattutto dal 1976, da Paese di emigrazione diventa Paese di immigrazione. La fine
dei flussi migratori dall’Italia verso l’estero si presenta negli anni ‘70 perché lo sviluppo industriale e il settore dei
servizi si consolida, diventando una meta appetibile per i lavoratori di altri Paesi.

Il Sessantotto
Durante il Sessantotto nasce una partecipazione femminile: le donne che dovettero rompere con i pregiudizi ancora
presenti nella società italiana, che vedevano la figura femminile relegata all’ambiente domestico. Il senso di
incertezza, di insicurezza si vede anche nel linguaggio, per esempio con una forte presenza dell’avverbio “forse”.
Infine, i ruoli di leadership erano quasi esclusivamente attribuiti a uomini.
In quegli anni i partiti erano ancora molto forti, a partire dalla sinistra, che cercano di confrontarsi col movimento.
Spesso sono proprio i giovani del Sessantotto a criticare i partiti politici, critica che poi si misura nella successiva
crisi dei partiti e del loro distacco con la società.

La guerra in Ucraina
(3/05) La Nato è un’alleanza militare che nasce nel 1949, quando si consolidano gli equilibri della guerra fredda.
Univa gli Usa, il Canada e i Paesi dell’europa occidentale. Nel 1955 nacque come risposta il patto di Varsavia,
alleanza che univa l’Urss e i Paesi sotto la sfera di influenza comunista. Gli equilibri della guerra fredda furono
segnati da tensioni tra Nato e patto di Varsavia. Con la fine dell’Urss, molti Paesi hanno deciso di aderire alla Nato,
tra cui l’Ucraina.
La guerra in Ucraina inizia sul finire del febbraio 2022. Questa guerra ci mostra come lo scorso secolo ha un peso
determinante anche oggi con la sua eredità, perché affonda le sue ragioni in fenomeni accaduti nel coso del XX
secolo. Per il retaggio storico dell’Ucraina, che prima era parte dell'impero zarista, poi dell’Urss, la Russia avanza
le sue pretese sul territorio.
L'anno scorso, un discorso di Putin dice che la Russia vuole “denazificare” l’Ucraina, per queste ragioni:
1. nel 1941, durante la Seconda Guerra Mondiale, quando la Germania nazista occupa l’Ucraina, larga parte
della popolazione, stanca del governo sovietico, simpatizza per gli invasori e si crea un’armata ucraina di
insurrezione che appoggiava apertamente i tedeschi. Erano forme di nazionalismo ucraino. Nell'ambito di
questa ripresa si crea una vera e propria divisione, una SS, formata da soldati ucraini, che combattevano
usando come vessilli la bandiera gialla e blu che oggi è quella della nazione ucraina. Già nel 1917 si erano
creati diversi gruppi combattenti che si scontrarono con l’Armata Rossa, cercando di evitare che la
rivoluzione comunista si espandesse al territorio ucraino;
2. le affermazioni di estrema destra che presero rigore in Ucraina dopo lo scioglimento dell’Urss, che non
hanno mai avuto peso nel Parlamento ucraino, ma che si sono fatti sentire con azioni violente e propaganda
nella società ucraina, soprattutto dal 2014. In effetti, l’attuale crisi ucraina inizia nel 2014, con una rivolta
antigovernativa, che portò alla fuga del presidente Viktor Yanukovich, filorusso. In quel frangente, è una
rivolta che ha tante sfumature, ma in cui giocarono un ruolo anche le formazioni di estrema destra e che in
qualche modo crearono subbuglio e fecero sentire la loro presenza anche nei fatti del 2014, riportando
simboli nazisti tedeschi.
Si innesca un'escalation politico-militare. Il nuovo governo in Ucraina è filoccidentale, favorevole all’Ue e alla
Nato. Questo inquieta la Russia, preoccupatissima dell’espansione verso est della Nato, quindi Putin decide di
occupare la Crimea. Sempre nel 2014 l'occupazione russa della Crimea crea delle ripercussioni anche nel Donbass,
in cui la cultura e la lingua russa sono prevalenti, quindi questa comunità richiede l’autonomia. Si scatenano quindi
combattimenti duri tra forze filorusse ed esercito ucraino. Nel 2015 c’è un cessate il fuoco, si arriva agli accordi di
Minsk, firmati sotto l’egida di Francia e Germania. Secondo questi accordi, il Donbass rimane all’Ucraina, ma deve
essere riconosciuta la sua forte autonomia. Tuttavia il governo di Kiev non ha mai applicato i punti principali
dell'intesa, anche per le minacce esercitate da gruppi di estrema destra. A partire da questa tensione, si arriva a
all’invasione della Russia del febbraio 2022; è un’aggressione in contrasto con l'attuale ordine internazionale e
quindi condannata da Ue e Nato.

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