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CAPITOLO I

Durante la guerra fredda.

L’epoca della Guerra Fredda ha consentito trasformazioni storiche eccezionalmente importanti, non
direttamente pertinenti con il lungo duello che le ha dato il nome. Sotto la sua staticità imposta, la
guerra fredda è stata un’epoca rivoluzionaria nelle sue conseguenze più di quanto lo siano state altre
celebrate come tali dalla storia moderna e contemporanea, in particolare per quanto riguarda le
relazioni internazionali.
Il bipolarismo, fase anomala del sistema internazionale. Il sistema bipolare si differenzia da quelli
che l’hanno preceduto per due diverse ragioni. La prima è che durante la seconda guerra mondiale
la trasformazione della tecnologia militare è stata assai più radicale che nei conflitti precedenti. La
seconda è data dall’intreccio di due momenti: quello concettuale strategico e quello della tecnologia
degli armamenti. La differenza che ha fatto del sistema bipolare qualche cosa di anomalo sta in
parte nel divario di potenza militare convenzionale, ma soprattutto nel possesso da parte dei due
poli di armi atomiche in quantità e ad un livello di perfezionamento tecnologico tali da rendere il
divario con altre potenze militari incolmabile. L’Unione Sovietica poteva vedere nel sistema
bipolare un modo per meglio affermare/garantire la sua posizione di grande potenza diversa in
quanto comunista e di conseguenza isolata, che la contrapponeva a un unico interlocutore capitalista
di eguali o paragonabili capacità militari. Mentre gli Stati Uniti stabilirono, attraverso il sistema
bipolare, un rapporto privilegiato con la sola altra superpotenza considerata pericolosa e
rappresentativa della parte del mondo che non erano riusciti a coinvolgere nel loro progetto
globalista (condizione di provvisorietà). In attesa della fine dell’anomalo sistema bipolare, il
bilancio poteva anche risultare positivo se si spostava l’attenzione dal pericolo di una guerra totale
alla lunga pace, come affermava John Gaddis. Anche se l’obiezione che molti fecero a quel tempo a
Gaddis era che nell’epoca della lunga pace si ebbero decine di guerre di ambito regionale, nonchè la
guerra di Corea e del Vietnam. Non ci fu però un terzo conflitto mondiale. John Mearsheimer
(teorico del realismo offensivo) ha rivelato che i sistemi multipolari sono più inclini alla guerra dei
sistemi bipolari. “Con la fine del bipolarismo vecchie e nuove rivalità riprenderanno forza,
riportando le relazioni internazionali all’instabilità caratteristica della prima metà del secolo XX. Al
punto che sentiremo la mancanza della guerra fredda”.
Trasformazione e moltiplicazione degli stati e organizzazioni internazionali
Mentre l’evoluzione del sistema internazionale segue questo andamento anomalo e discontinuo, gli
stati subiscono trasformazioni spesso contraddittorie. Lo Stato ha ceduto spazio alla società, alla
società economica. Mentre in passato gli stati erano padroni dei mercati, oggi su molti problemi
cruciali sono i mercati a dominare i governi. Il potere sovranazionale privato ha diversi modi di
imporsi; il più noto è quello delle grandi società multinazionali, le World Corporations, che
rappresentano una drammatica evoluzione delle multinazionali americane, temute e corteggiate
alternativamente dagli anni Sessanta; una evoluzione che nel corso della guerra fredda ha reso le
grandi società stateless. Si deve parlare e tener conto anche di un processo di impoverimento morale
e culturale dei principi base che per un secolo e mezzo avevano ispirato l’idea di nazione. Tutti gli
stati del globo sono oggi ufficialmente nazioni, ma diversamente che nell’Ottocento e nel primo
Novecento, i movimenti nazionalisti della fine del secolo XX sono essenzialmente negativi e volti
alla divisione, basata sull’etnia e sulla lingua in quanto differenze, talvolta combinate alla religione.
Lo stato-nazione europeo, in effetti, dopo la seconda guerra mondiale è soggetto a pressioni e
movimenti interni miranti a ottenere maggiori suddivisioni politiche, etniche, culturali (la Catalogna
in Spagna, la Scozia e il Galles in Gran Bretagna o le formazioni di stati-etnie in seguito alla
dissoluzione della Jugoslavia). In questo nuovo contesto sono le organizzazioni sovrannazionali a
occupare la scena, assumendosi una parte della gestione delle relazioni internazionali. In particolare
lo fa un certo numero di istituzioni dai compiti specifici: come il Fondo monetario internazionale e
la Banca mondiale degli investimenti come la Nato nella regione dell’Atlantico del Nord e la
Comunità Europea nell’Europa centro-occidentale. Non si può non collocare fra questi nuovi attori
della politica internazionale della guerra fredda l’organizzazione di base, l’Onu. Non c’è dubbio che
l’Onu sia fra i maggiori protagonisti della politica internazionale dell’epoca 1945-1990. Non fosse
altro perchè ha offerto il fondamento giuridico su cui hanno operato le organizzazioni-istituzioni
successive. E non fosse altro perchè la stessa sua perdita di influenza ha rappresentato un elemento
importante delle relazioni internazionali del tardo Novecento. In un inizio del secolo XXI che vede
l’Onu messa spesso da parte e screditata, è il caso di ricordare che nell’immediato dopoguerra essa
era considerata, il punto di riferimento in modo particolare negli Stati Uniti, il punto di riferimento
influente o addirittura vincolante di ogni atto di politica estera. I nuovi stati nati dopo il 1945 dalla
decolonizzazione di territori asiatici e africani prima governati da potenze coloniali, divennero
protagonisti dell’altra crisi dell’Onu (cioà la crisi che nasceva dalla volontà del Sud del mondo di
alzare la propria voce nell’arena globale delle Nazioni Unite). Il solo fatto che in due-tre decenni si
sia avuto un aumento senza precedenti del numero degli stati del mondo poteva determinare
sconcerto e difficoltà nel meccanismo istituzionale delle Nazioni Unite, di cui i nuovi stati
divennero automaticamente membri. La forte crescita numerica degli stati ha avuto conseguenze per
l’Onu anche sul piano etico-politico. Il primo nucleo delle Nazioni unite aveva fatto propri i principi
di governo democratico, di tutela della libertà dei popoli, di ripudio della politica di conquista. Se
non che entro questo primo nucleo di Nazioni Unite figuravano almeno uno stato che non si
identificava con quei principi, l’Unione Sovietica. Quando la decolonizzazione determinò la nascita
di tanti nuovi stati, era già tardi quindi per tentare di condizionare il loro inserimento nell’Onu a una
reale osservanza dei principi di governo occidentali dei diritti umani e di libertà e
autodeterminazione dei popoli che avevano ispirato la redazione della Carta atlantica (le nuove
adesioni non fecero che accrescere la presenza di stati a regime apertamente autoritario). Con questi
limiti le Nazioni Unite nell’epoca difficile riuscirono ad assolvere almeno una parte dei compiti per
cui erano state fondate: in particolare quello di impedire il sorgere, o il far cessare quando erano già
in atto, di conflitti interni e soprattutto di guerre fra stati. Il conflitto più sanguinoso della seconda
guerra fredda, che il sistema bipolare non fu in grado o ritenne rischioso fermare, quello fra l’Iran e
Iraq del 1981-1988, ebbe termine soprattutto per l’impegno del segretario generale dell’Onu Perez
de Cuéllar.
Una “terza ondata” dell’espansione della democrazia?
Il processo di democratizzazione nel mondo va distinto in tre ondate (secondo Samuel Huntington),
la prima iniziò nel 1828 e terminò nel 1926. Questa prima lunga e ininterrotta ondata è seguita da
un flusso antidemocratico che arriva fino a metà della seconda guerra mondiale, quando è
sopraffatta dalla seconda ondata. Infine il riflusso antidemocratico del secondo dopoguerra è
seguito da una terza ondata che inizia con il 1976. L’inizio del processo di democratizzazione del
1828 viene fatto dipendere dall’introduzione del suffragio universale maschile nei vecchi stati
dell’Unione americana. La seconda ondata viene fatta iniziare in Europa; con la caduta del fascismo
in Italia nel 1943, e quindi con la democratizzazione del primo dei tre maggiori stati a regime
autoritario della seconda guerra mondiale. E questo inizio è confermato alla fine del conflitto dalla
democratizzazione degli altri due, Germania e Giappone. Tuttavia con il dopoguerra, l’inizio della
decolonizzazione in Asia e in Africa e la conseguente creazione nei due decenni che seguono di una
quindicina di nuovi Stati, le cose cambieranno. Nel senso che la seconda ondata, iniziata in due
paesi europei, Italia e Germania, viene estesa all’Asia e all’Africa: due parti del mondo nelle quali
negli anni a seguire si è riusciti a fondare Stati indipendenti e sovrani, ma non a farne delle
democrazie. Degli stati creati o divenuti indipendenti in seguito alla decolonizzazione una parte
adotta sistemi rappresentativi più spesso a partito unico che multipartitici, altri diventano presto o
tardi dittature militari o civili, altri ancora compiono aperture verso sistemi costituzionali, altri
infine precipitano in guerre civili. Soprattutto in Africa non si può dire quindi che la
decolonizzazione si accompagni a processi politici caratterizzati nella maggior parte dei casi da vere
esperienze di sistemi di governo democratici. La tesi della seconda ondata ottiene punti a suo favore
dall’indipendenza dell’India, che nel 1947 determina la nascita in un certo senso della più grande
democrazia, comunque della più popolosa. La travagliata vicenda politica del Pakistan offre invece
la dimostrazione più; importante che anche l’Asia della decolonizzazione è stata coinvolta solo fino
a un certo limite nella seconda ondata (il Pakistan ha avuto, nonostante gli sforzi della parte
progressista, un sistema di governo prevalentemente autoritario che l’Occidente ha fatto pochi
sforzi per avvaiare alla Democrazia). L’Asia della guerra fredda presenta in realtà un panorama
politico alquanto vario, ma prevalentemente autocratico. Al suo interno la democrazia indiana è una
componente importante, ma non certo prevalente.
La parte del mondo in cui probabilmente la tesi della seconda ondata e susseguente riflusso risulta
più largamente confortata (stati che passano dall’autoritarismo alla democrazia) è l’America Latina.
Nel 1960 nuovi di 10 Stati sudamericani di lingua spagnola avevano governi eletti
democraticamente, ma solo il Venezuela e la Colombia le avevano conservati nel 1973. Pertanto la
seconda ondata di democratizzazione presenta una situazione di persistente o ricorrente incertezza-
instabilità. Le perplessità sul periodo della prima Guerra Fredda non tolgono nulla all’importanza
diretta del processo di democratizzazione che si fa iniziare, come terza ondata, nell’Europa
meridionale con la rivoluzione portoghese dei garofani del 1974 e proseguire con la caduta del
regime dei colonnelli in Grecia e, anni dopo, con la morte di Francisco Franco e poi con
l’instaurazione della monarchia costituzionale di Juan Carlos di Borbone in Spagna. La terza ondata
accanto ai maggiori fenomeni di sviluppo della società globale che hanno determinato la vittoria
dell’Occidente nella guerra fredda, non può finire con il superamento dell’autoritarismo di
imposizione storico-ideologica sovietica, ma va seguita anche nelle sue ripercussioni mondiali degli
anni ‘90.
Sottosviluppo, decolonizzazione e terzo mondo
La decolonizzazione viene convenzionalmente collocata in un breve periodo di pochi decenni dopo
la seconda guerra mondiale, nel quale molti paesi coloniali diventano stati sovrani. Il sottosviluppo
si aggrava dopo la decolonizzazione: a indicare che la conquista dell’indipendenza politica in molti
dei nuovi Stati non ha determinato la fine della loro arretratezza economica e sociale. La parte
maggioritaria del globo terrestre a cui questi paesi appartengono si qualifica durante la guerra
fredda come terzo mondo non soltanto perchè è in condizioni di sottosviluppo ed è largamente
coinvolta nella decolonizzazione, ma anche perchè viene relegata sullo sfondo della situazione
internazionale, dal confronto degli altri due mondi, quello dell’Occidente capitalista e dell’Oriente
sovietico (quando nel secondo dopoguerra un giornalista francese coniò il termine terzo mondo,
sembra si ispirasse al terzo Stato della rivoluzione francese del 1789). La decolonizzazione si
impone nell’epoca della Guerra Fredda come una vera protagonista della storia per tre parti del
mondo: non soltanto per l’Asia e per l’Africa, ma anche per l’Europa, che perde la posizione di
centralità mantenuta fino a che non è stata privata delle sue dipendenze extraeuropee. E, di più,
subisce le serie conseguenze economiche, morali e psicologiche della rinuncia, e del rientro di tanti
connazionali costretti a ricostruirsi un’esistenza in una madrepatria che a volte non conoscono e di
cui hanno perduto le radici. L’evento di prima grandezza che inaugura la fase storica conclusiva
della decolonizzazione dalla dominazione europea fu l’indipendenza dell’India nel 1947, perchè una
Gran Bretagna senza l’impero indiano non è più la stessa cosa. Ma in una prospettiva più ampia e
attenta essa segna la nascita nell’India stessa di una nuova grande potenza ed un sistema
compiutamente globale.Sempre in Asia, tocca alla Francia rinunciare nel 1954 all’Indocina, mentre
il governo della quarta repubblica in Africa da un lato è coinvolto nella guerra d’Algeria, dall’altro
porta avanti con maggiore attenzione una politica di rapporti possibili con il resto dei protettorati e
delle colonie francesi del continente, finchè la quinta Repubblica del generale de Gaulle istituisce
una comunità francese entro la quale ben 15 territori africani ottengono l’autonomia (anche se c’è
nella Francia, costretta a rinunciare al suo ruolo di grande potenza, l’impulso a conservare quanto
più può della sua antica posizione coloniale). Il Regno Unito si trovò anch’esso nel corso dei
decenni seguenti di fronte ai movimenti d’indipendenza entro l’impero Commonwealth. In Africa
l’Inghilterra della guerra fredda assume posizioni notevolmente diverse. In Sudafrica guarda con
distacco alla conclusione della lotta politico-nazionale fra una minoranza bianca di provenienza
britannica e la più numerosa minoranza bianca di lontana origine olandese. Una conclusione che
vede la vittoria del partito nazionalista, l’uscita dell’unione sudafricana dal Commonwealth e la
proclamazione nel 1961 della Repubblica sudafricana. Gli sviluppi più drammatici e dolorosi della
colonizzazione britannica si hanno nella fascia fra il Kenya e la Rhodesia del sud. Sviluppi difficili
per il governo di Londra, indotto a prendere posizione contro gli atteggiamenti di supremazia bianca
dei coloni britannici di seconda o terza generazione. Finchè negli anni 60-70 l’Inghilterra riconosce
i nuovi Stati del Malawi e dello Zambia. La prova più difficile per gli inglesi è comunque quella
nella Rhodesia del sud, dove la minoranza bianca proclama l’indipendenza e trasforma con la sua
politica di Apartheid una crisi interna al Commonwealth in una crisi internazionale. La lotta politica
si conclude con la prevalenza della maggioranza africana, la conseguente modifica istituzionale e la
creazione dello Zimbabwe. Il fatto che noi usiamo ancora il termine terzo mondo, rivela fino a che
punto la guerra fredda ha lasciato la sua impronta sul nostro mondo di considerare una parte
maggioritaria del genere umano che non aveva assolutamente nulla a che fare con le origini di quel
conflitto. Una parte del terzo mondo ha qualche volta tentato di seguire linee comuni diverse da
quelle del primo e del secondo mondo, ossia del sistema bipolare. Il tentativo più noto è quello che
ha visto convergere su comuni posizioni neutrali dinanzi al confronto est-ovest soprattutto tre Stati,
l’India di Nehru, l’Egitto di Nasser e la Jugoslavia di Tito. La presenza in questo gruppo della
Jugoslavia è interessante in rapporto a una nozione di terzo mondo quanto mai elastica, al punto da
poter essere estesa a comprendere uno Stato europeo che non si riconosce nè nel primo nè nel
secondo mondo. L’India persegue una sua linea di indipendenza dai due blocchi promuovendo i
propri interessi di potenza regionale in crescita contro vicini ostili e/o prevaricatori, Pakistan e Cina.
L’Egitto è il più popoloso, ma anche il più avanzato stato, malgrado la sua mancanza di risorse
petrolifere e le sue sacche di povertà, dei paesi arabi; d’altra parte è anche quello che, grazie un
retaggio storico ineguagliabile e al suo secolare rapporto dialettico con l’Occidente, può rivendicare
una più matura identità di Stato-nazione.

Il risveglio politico dell’Islam


I paesi africani e asiatici nei quali l’Islam è la religione dominante corrispondono soltanto una parte
dell’immenso terzo mondo globalizzante. Il loro risveglio ha inizio in ogni caso molto prima della
guerra fredda. Soprattutto in Turchia e in Egitto si può parlare di sintomi di risveglio politico nella
seconda metà dell’800, ma la grande guerra determina due eventi: la dissoluzione dell’impero
ottomano e la nascita dello Stato nazionale turco. La disgregazione dell’impero del sultano-califfo
significava la scomparsa dell’organismo politico-religioso che per quattro secoli aveva tenuti
insieme popoli ed etnie diverse uniti dalla potenza militare ottomana. Questa scomparsa lascia una
situazione politica dalle diversità sconcertanti, che vede le iniziative tardo imperialistiche di Francia
e Inghilterra; l’incapacità dei popoli del medio oriente arabo di sostituire l’impero scomparso con
Stati nazionali; la presenza nell’Africa settentrionale di Stati autonomi eppure soggetti anch’essi a
dipendenze coloniali verso potenze europee: appunto la Francia e l’Inghilterra.
L’altro evento è la nascita nel 1922 dello Stato nazionale turco. La nuova Turchia afferma con
audacia la sua laicità compiendo sotto questo aspetto una vera fuga in avanti. La costituzione della
Turchia in staro nazionale è un evento che si compie in anticipo di una o due generazioni rispetto al
risveglio politico degli altri paesi musulmani; ha per protagonista un popolo di etnia diversa da
quelle dei paesi arabi vicini; e fu il risultato non di una lotta per l’indipendenza da una dominazione
coloniale europea, ma dell’iniziativa politica e dell’azione militare della nazione dominante
all’interno di un impero multietnico; infine attira l’attenzione, in particolare durante la guerra fredda
per la sua posizione-funzione geostrategica fra ovest ed est. Il risveglio politico dell’Egitto è datato
addirittura all’inizio dell’800, dopo la spedizione della Francia rivoluzionaria-napoleonica. La
ribellione del pascià Mohammed Alì al sultano di Istanbul segna l‘inizio di una evoluzione del
paese ed avvia gli egiziani a un regime rappresentativo di ispirazione occidentale, alimentando nello
stesso tempo il movimento per l’indipendenza. Questa, riconosciuta formalmente dalla Gran
Bretagna nel 1936, può considerarsi completamente realizzata solo vent’anni dopo, con la
nazionalizzazione del Canale di Suez. Il lungo e travagliato cammino verso lo Stato sovrano che ha
fatto l’Egitto deve essere considerato islamico nel senso che il popolo egiziano e in grandissima
maggioranza di religione musulmana; che l’Egitto coltiva da molti secoli una significativa
tradizione culturale islamica; e che in Egitto nasce nel 1928 il partito capostipite dei movimenti di
rivendicazione islamica antioccidentale, la Fratellanza musulmana.
Ancora più lunga è la storia dell’Algeria dall’occupazione francese del 1830 al riconoscimento
dell’indipendenza nel 1962. Dopo la lunga esperienza dell’occupazione-decolonizzazione-
assimilazione da parte della Francia, negli anni ‘50 gli algerini ricorrono alla guerra rivoluzionaria
per conquistare la loro indipendenza. Il proclama del fronte di liberazione nazionale (Fln) algerino
del 1954 si pone come intento l’indipendenza nazionale dell’Algeria nel quadro dell’Africa
settentrionale: auspicandosi l’appoggio dei fratelli musulmani. Dieci anni dopo, a indipendenza
ottenuta, la carta di Algeri si decide a constatare che l’Algeria è un paese arabo musulmano, ma per
aggiungere subito che la rivoluzione algerina deve restituire all’Islam il suo vero volto di progresso.
Turchia, Egitto, Algeria, sono emersi dal primo dopoguerra e della fase iniziale della guerra fredda
come Stati nazionali che, pur essendosi contrapposti in forme diverse all’Occidente, ne hanno
accolto i modelli politici adattandoli al mondo islamico. Questi tre maggiori esempi forniscono
l’indicazione più evidente che l’aspetto politico del risveglio dell’Islam è influenzato, più che
dall’aspetto culturale-religioso, dal rapporto con l’Europa vecchio di secoli.

L’ostacolo principale verso la realizzazione di Stati di modello e garanzie costituzionali europee, va


individuato nell’improvvisa e sconvolgente esplosione di sentimenti religiosi che si verifica
nell’epoca della seconda guerra mondiale, e che ha avuto fra le sue conseguenze il rafforzamento
dei movimenti di opposizione islamica degli stati nazionali laici e la creazione fra il 1947 il 1951
dei primi Stati islamici ortodossi: il Pakistan, l’Indonesia, la Libia. Nel 1945 si assiste alla creazione
della lega araba, cui aderiscono gli Stati arabi esistenti alla fine della seconda guerra mondiale. La
lega, concepita per essere un’organizzazione globale di base nell’ambito delle Nazioni Unite, se
risponde a una decisione dei governi di inserirsi in una comunità internazionale, va contro lo spirito
inevitabilmente antioccidentale della improvvisa sconvolgente esplosione di sentimenti religiosi
islamici del periodo. Nel 1947 viene fondato a Damasco il partito della resurrezione araba o Baath.
Il nuovo partito si limita ad accogliere dalla cultura europea soprattutto l’idea di nazione
(stravolgendone però l’interpretazione e lo spirito). Lo statuto del Baath inizia affermando che gli
arabi sono una sola nazione che ha il diritto naturale di vivere in un unico Stato. Il Baath si pone un
programma più da impero panarabo che da Stato nazionale. La prima presa del potere da parte del
partito della resurrezione araba, in Siria nel 1958; la proclamazione dello stesso anno della
Repubblica araba unita fra la Siria e l’Egitto; la crisi politica che fra il 1958 del 1963 sconvolge
l’Iraq portando al potere il Baath anche a Bagdad, premessa alla dittatura di Saddam Hussein; la
repressione dei fratelli musulmani da parte di Nasser; il colpo di Stato che il Rais egiziano attua con
successo nello Yemen nel 1962; la costituzione nel 1964 dell’organizzazione per la liberazione
della Palestina (Olp), sono eventi caratterizzati dall’assenza del fattore religioso, dando al risveglio
dell’Islam una forte impronta nazionalista.
Lo Stato di Israele e il nuovo medio oriente
La fondazione nel 1948 dello Stato di Israele imprime una svolta internazionale precisa al risveglio
politico dell’Islam, ne concentra gli sviluppi nel medio oriente e fa sorgere un problema regionale
dalle ripercussioni generali. Con la nascita di Israele e con “problema del Medioriente” si è inteso
quello dei rapporti conflittuali irrisolti fra lo Stato ebraico e gli Stati arabi e/o la popolazione araba
rimasta in Palestina, ossia la diaspora palestinese. La nascita dello Stato di Israele è posta subito in
evidenza dalla sua prima vittoria militare contro le forze egiziane, irachene, siriane, libanesi e
saudite che hanno tentato di eliminare il nuovo Stato ebraico, un elemento estraneo all’omogeneità
culturale, religiosa e sociale del Medioriente arabo. La nascita di Israele era strettamente legata alla
politica internazionale di USA, URSS, Inghilterra e Francia. Le stesse Nazioni Unite registrarono le
incognite della situazione emandno due risoluzioni: la risoluzione del 29 novembre 1947 avverte
che sul territorio del mandato britannico che sta per terminare si dovrebbero costituire due stati, uno
arabo e l’altro ebraico, e prevede un regime internazionale autonomo per Gerusalemme. La seconda
risoluzione del 1948 stabilisce che la città deve essere posta sotto il controllo dell’Onu nell’attesa di
instaurarvi un regime internazionale permanente.
L’impatto dell’instaurazione dello Stato di Israele fu traumatico perchè determinò l’inizio della
diaspora palestinese (e le diverse forme di nazionalismo arabo furono motivo di instabilità nella
regione mediorientale). Soltanto la guerra del 1967 fra Israele, Egitto, Siria e Giordania, terminata
in meno di una settimana con una vittoria di Israele, assai più impressionante nei suoi aspetti
militari e nelle sue conseguenze territoriali di quella del 1948, provocò un duro, ma netto
chiarimento della situazione al punto da essere definito lo spartiacque della storia recente del
Medioriente. L’affermazione di Israele rappresentava una realtà acquisita irreversibile, che
determinò un cambiamento nel modo degli Stati Uniti di considerare lo Stato ebraico: non più un
paese nato dagli orrori della seconda guerra mondiale per la decisione e la perseveranza di un
gruppo di profughi di procurarsi un focolare nazionale, ma una base strategica avanzata
dell’Occidente; un alleato prezioso. L’occupazione israeliana del Sinai, di Gaza, della Cisgiordania,
del Golan tolto alla Siria, se procurò allo Stato d’Israele basi e garanzie strategiche territoriali, pose
gli Arabi di fronte a una nuova fase della preminenza dell’Occidente più preoccupante di quella
terminata con il crollo delle posizioni inglesi e francesi nel decennio precedente. Lo Stato ebraico
cominciò ad essere considerato l’avanguardia di un’edizione moderna delle crociate intraprese
secoli prima dall’Europa cristiana. Conseguenze altrettanto importanti per il Medioriente ebbe il
passaggio dell’iniziativa della lotta contro Israele dagli Stati arabi circostanti alla diaspora
palestinese. L’organizzazione per la liberazione della Palestina divenne, con l’appoggio finanziario
degli Stati del Golfo, l’organizzazione di liberazione nazionale più ricca del mondo, dotandosi, nel
corso degli anni, di strutture quasi statali. Nello stesso tempo però il gruppo di azione costituitasi fin
dagli anni ‘50 intorno a Yasser Arafat mutò radicalmente i metodi della lotta contro Israele, optando
per il terrorismo. Alla fine della guerra fredda il conflitto arabo-palestinese era più che mai in corso.
Ma negli ultimi due decenni erano emersi nel Medioriente altri problemi, tanto gravi da dominare la
scena internazionale. La guerra del 1973 aveva indotto gli Stati arabi produttori di petrolio ad
aiutare Egitto e Siria contro Israele e Stati Uniti aumentando il prezzo del greggio. La crisi
economica che ne derivò fu preoccupante per tutto il mondo industrializzato. L’annus terribilis 1979
inizio con la rivoluzione in Iran e si chiuse con l’intervento militare sovietico in Afganistan. La
rivoluzione iraniana fece cadere il regime autoritario-modernizzatore dello scià e lo sostituì con una
repubblica islamica sotto la guida religiosa di giurisperiti religiosi fra cui l’ayatollah Khomeini. La
rivoluzione fece dell’Iran una teocrazia radicale, segnò l’inizio della fase di massima visibilità e
forza dell’islamismo politico, ma il regime degli ayatollah dovette tener conto della realtà interna ed
esterna all’Iran. Realtà interna di una società complessa in parte tradizionale e in parte moderna e
non insensibile al modello di Stato nazionale costituzionale proposto dall’Europa. Realtà esterna di
un mondo islamico diviso fra sunniti e sciiti che ostacolava qualsiasi progetto di espansione della
rivoluzione. Fu in questo ultimo decennio della guerra fredda che l’Iran diventò il principale
sponsor del terrorismo internazionale. L’attacco all’Iraq rientrava in questo progetto espansivo, ma
si scontrò con un altro programma di espansione, quello di Saddam Hussein (volenteroso di porsi al
centro della scena medioorientale). Negli stessi anni ‘80 l’Afghanistan occupato dai sovietici recò
l’altro contributo essenziale alla svolta religiosa del risveglio politico del Medioriente. Le resistenze
all’occupazione straniera delle tribù afghane si rivestì dell’ideologia islamista. La guerra fredda fu
vinta dall’Occidente anche in Afghanistan quando l’unione sovietica di Gorbaciov fu indotta a
rinunciare ad un’operazione militare dal peso insostenibile; ma la frammentazione tribale e
l’anarchia in cui l’Afghanistan cadde dopo il ritiro dei sovietici, crearono alla metà degli anni ‘90 le
condizioni materiali e spirituali, politiche e religiose per la conquista del potere da parte dei
talebani. Alla mancata soluzione del conflitto israeliano palestinese; crisi petrolifera; rivoluzione in
Iran; trasformazione del Afghanistan; si deve aggiungere una quinta componente: la fase iniziale
dell’espansionismo dell’Iraq di Saddam Hussein, con il tentativo di penetrare nell’Iran degli
ayatollah.
La trasformazione dell’Europa occidentale
Durante la guerra fredda la trasformazione più profonda è stata compiuta dall’Europa occidentale.
Al principio degli anni ‘50 si possono individuare due direttive di fondo per la trasformazione dell’
Europa occidentale: il trattato franco-tedesco del Eliseo del 1963 che sanziona il superamento del
contrasto secolare fra le due nazioni impegnandoli a costruire l’asse portante della politica europea;
e il trattato di Roma del 1957 con cui viene creata la Comunità Economica Europea (Cee), punto di
riferimento degli sviluppi istituzionali, economici, monetari e politici che seguiranno fino a oltre
l’Unione Europea (UE). Ma c’è una terza strada: quella della sicurezza dell’Europa occidentale.
Un’alleanza militare fra i paesi che ne fanno parte poteva avere il valore politico di una
dimostrazione di coesione e di buona volontà, ma non sarebbe certo stata in grado di fermare
l’avanzata sovietica. L’Inghilterra si fece pertanto promotrice di un coinvolgimento degli Stati
Uniti, che sarebbero stati certo in grado di garantire la sicurezza dell’Europa occidentale, ma in un
contesto politico e strategico non più europeo bensì Atlantico e si giunse alla firma, il 4 aprile 1949,
del trattato dell’Atlantico del Nord con la quale gli Stati Uniti mettono fine a una tradizione
diplomatica di astensione da alleanze vincolanti vecchie di secoli. A due anni circa dalla firma del
trattato, l’alleanza si trasforma in organizzazione dell’alleanza o Nato (North Atlantic Treaty
Organization). I paesi dell’Europa occidentale, ciascuno con la sua storia, le sue diverse dimensioni
geografiche e risorse demografiche, le sue pretese, accettano, dando vita alla Nato, di rinunciare alla
prerogativa gelosamente conservata fino ad allora dagli Stati nazionali o pre-nazionali di assolvere
individualmente al compito della propria difesa. La Nato richiede ora che i contingenti militari
nazionali forniti da ciascuno Stato membro vengano inseriti in un contesto sovranazionale integrato,
contribuendo a creare nel corso dei decenni un ambiente atlantico internazionalizzato e
intercambiabile.
Gli Stati uniti repubblica imperiale
Nella sua voluta contradditorietà il titolo del saggio di Raymond Aron Republique imperiale rimane
l’espressione più stimolante per indicare la fase della storia degli Stati Uniti in cui la superpotenza
emersa dalla seconda guerra mondiale instaura, sistema bipolare o no, la sua egemonia. Molti nel
corso della guerra fredda hanno messo in rilievo sviluppi e particolarità della fase imperiale del
secolo americano. Un America che dispone e usa tante armi non militari per vanificare una parità
con l’URSS calcolata a tavolino; che si presenta come la superpotenza egemone già prima che
l’Unione Sovietica cessi di esistere, e che finisce con il rendere strutturale e per legittimare la sua
egemonia sul mondo libero. Due premesse sono opportune per comprendere lo spirito della
Repubblica Imperiale Amerciana. La prima riguarda il concetto di impero: gli americani hanno
cominciato a parlare di impero fin dall’epoca dei padri fondatori più di 200 anni fa. In un significato
diverso da quello suggerito dalla tradizione culturale europea, cioè di una nazione americana
impegnata a promuovere il progresso e la prosperità economica individuale e a costruire su di essi
nuovi Stati dell’unione fondati su principi e norme di convivenza egalitaria e democratica, e ad
ampliare indefinitamente l’ambito nazional-imperiale spostandone in successivi periodi la frontiera.
Una seconda premessa riguarda il dibattito fra politologi e storici, che ha accompagnato lo sviluppo
dell’impero americano nel corso del Novecento. Il dibattito riguarda anzitutto il The Rising
American Empire che viene definito da Richard Van Alstyne: egli rilevava che George Washington
e i suoi contemporanei avevano in mente un imperium, ossia un dominio, uno stato, una sovranità
capace di espandersi in popolazione territorio accrescendo la propria potenza. Nel dibattito
sull’impero si tiene a sottolineare la differenza fra l’espansionismo degli Stati Uniti e
l’imperialismo delle potenze europee basata sul fatto che l’imperialismo americano è informale,
attento a realizzare l’espansione economica e commerciale che non dovrebbe portarla al controllo
politico e militare del territorio, cercando di non assumerne l’amministrazione diretta. Il titolo di
Raymond Aron Republique imperiale non colpisce tanto perché descrive l’espansione degli Stati
Uniti nel mondo, quanto perchè attira l’attenzione sul contrasto Repubblica-impero ossia sulla
trasformazione della democrazia americana in conseguenza delle sue sopravvenute responsabiltà
imperiali. Il periodo storico su cui è fondata la tesi della Republique imperiale è quello della prima
guerra fredda. L’America, uscì dal secondo conflitto mondiale ancora Repubblica, ma già imperiale
nella prospettiva globale della leadership rooseveltiana e nella sua posizione di superpotenza, inizia
una trasformazione politica e istituzionale che, a guerra fredda conclusa, le farà affrontare il nuovo
mondo degli anni ‘90 in una situazione assai diversa da quella di mezzo secolo prima. A mettere in
evidenza la svolta compiuta con lo Stato nazionale di sicurezza fu anzitutto il nuovo dipartimento
della difesa, creato riunendo in una sola struttura decisionale e operativa esercito, marina e
aviazione. Al nuovo Dipartimento furono riservati finanziamenti sempre maggiori che
contrastavano con le riduzioni di bilancio per il Dipartimento di Stato. Ciò consentì al Pentagono di
avere una propria diplomazia, oltre che naturalmente di estendere e rafforzare la struttura militare
americana nel mondo. La svolta più sconcertante riguardò il potere della presidenza. La
sovrapposizione alle istituzioni normali di organi e agenzie dipendenti direttamente dalla Casa
Bianca, era avvenuta in realtà già nei tardi anni ‘40. Il National Security Act conteneva l’istituzione
di un National Security Council, che a sua volta diede vita a una Central Intelligence Agency, la
Cia. Nel corso della guerra fredda le funzioni delle agenzie controllate dalla Casa Bianca divennero
essenziali per la gestione della politica estera americana. L’irresistibile ascesa della Casa Bianca fu
graduale. Al tempo della guerra di Corea, Truman si era già spinto a dichiarare in una conferenza
stampa che in quanto comandante delle forze armate il presidente ha l’autorità di inviare truppe
ovunque nel mondo. Così come fece Eisenhower in Libano, Kennedy a Cuba. La libertà d’azione
della presidenza portò a una trasformazione dall’interno dell’impero americano (si parlava di
Impero Unico in quanto non aveva frontiere). Geir Lundestad ha qualificato l’egemonia americana
come impero per invito, ossia chiamato in causa e accolto con soddisfazione dai paesi del mondo
che richiedono protezione militare e promozione economica. Per la prima volta nella storia l’impero
americano è contemporaneamente il più potente sul piano militare navale e terrestre ed esteso al
mondo intero. L’impero britannico era stata la prima potenza navale del mondo, ma non era mai
stato una grande potenza militare. L’impero cinese si era chiuso in un semicontinente. L’impero
persiano e l’impero romano si erano avventurati sul mare, ma non avevano mai saputo superare il
loro carattere continentale. L’impero mongolo era rimasto circoscritto al massiccio continentale
dell’Eurasia. Ma l’impero americano degli ultimi decenni del ‘900 diventa la potenza militare
dominante sia sui mari che per terra. Questa superiorità navale-militare, divenuta divario
incolmabile dopo la scomparsa dell’unico possibile avversario, si verifica in un’epoca storica in cui
altri fattori vengono considerati essenziali anche per determinare la potenza militare. Zbigniew
Brzezinski, puntualizzò negli anni ‘90 che l’impero americano è giunto a fondare la sua preminenza
sui quattro fattori decisivi della potenza: militare, economico, tecnologico, culturale (connessi l’uno
con l’altro, mentre gli ultimi tre risultano indispensabili a costruire il primo).

CAPITOLO SECONDO
La nascita del nuovo mondo.
La nascita del nuovo monodo va anzitutto considerata nella conlusione diplomatica della guerra
fredda che sanziona ufficialmente la vittoria dell’Occidente, che ha però un limite in quanto non è
riuscita a sconfiggere l’altro stato comuista dell’Oriente, la Cina che non solo sopravvive, ma si
consolida.
La conclusione diplomatica della guerra fredda
A differenza delle due guerre mondiali, la guerra fredda non terminò con un atto internazionale
formale e preciso, ma in seguito a un processo di pacificazione durato diversi anni, ossia la
conclusione diplomatica del confronto fra le due superpotenze USA e Urss che aveva dominato per
quasi mezzo secolo la situazione internazionale. L’iniziativa di una nuova distensione, che portò
questa volta all’effettivo superamento della guerra fredda, venne presa alla metà degli anni ‘80 da
Gorbaciov, segretario generale del PCUS, a cui era stato affidato il compito di porre riparo a una
situazione di declino interno dell’Urss. L’iniziativa diplomatica di Gorbaciov, per realizzarsi, aveva
ovviamente bisogno della controparte e il presidente americano Reagan poteva non sembrare
l’interlocutore più adatto. Durante il suo primo quadriennio di governo, Reagan aveva esasperato il
confronto Usa-Urss con le sue dichiarazioni, la sua politica di riarmo e soprattutto l’annuncio della
Strategic Defence Initiative (SDI), ossia dello scudo spaziale. Reagan, però, reagì positivamente
all’iniziativa sovietica. La reazione positiva di Reagan ebbe come risultato la decisione di affrontare
il contenzioso Usa-Urss in un incontro a due a Ginevra nel novembre del 1985. Gorbaciov ci
andava nella consapevolezza che l’URSS non poteva reggere il confronto militare economico. Vero
è che Reagan avrebbe potuto sconcertare il proprio interlocutore quando pose il problema non di
una riduzione, ma di una eliminazione degli armamenti nucleari: affermando di essere convinto che
gli Stati Uniti, quando avessero realizzato la SDI, non ne avrebbero più avuto bisogno. In ogni caso
Gorbaciov reagì in modo negativo alla fermezza di Reagan sulla SDI arrivando a bluffare: qualsiasi
iniziativa strategica l’America avesse preso, disse, l’Unione Sovietica avrebbe fatto altrettanto. Il
vertice di Ginevra fu comunque assai utile. Reagan e Gorbaciov contribuirono a creare le condizioni
psicologiche per una ripresa da parte delle due diplomazie, fissando per l’ottobre del 1986 un nuovo
vertice a Reykjavik. I due leader non potevano ora limitarsi a confermare un clima di distensione,
ma erano in qualche modo tenuti a realizzare progressi di merito producendo risultati concreti sulla
riduzione degli armamenti. Il segretario generale sovietico si mostrò disposto ad assumersi la
responsabilità diretta di una riduzione degli armamenti. Ma Gorbaciov chiese troppo, pretendendo
da Reagan la rinuncia alla SDI. E Reagan rifiutò di farlo interrompendo il colloquio e rischiando
con ciò di compromettere il processo avviato a Ginevra. Questo processo tuttavia non si interruppe,
le due diplomazie portarono avanti la parte di accordi immediatamente realizzabile, ossia la
riduzione del 50% delle forze strategiche. Già subito dopo Reykjavik, mentre la presunta realtà
della SDI convinceva i sovietici a proseguire i negoziati sulla riduzione-controllo degli armamenti e
a prepararsi a un nuovo vertice il congresso degli Stati Uniti riduceva le risorse finanziarie per lo
scudo spaziale al punto da renderne impossibile la costruzione. Così il terzo vertice Reagan-
Gorbaciov, libero dal condizionamento del progetto americano della SDI, potè portare alla firma a
Washington del trattato per l’eliminazione dei missili a raggio intermedio e più breve, che
rappresentò il primo risultato tangibile della diplomazia dei vertici Regan-Gorbaciov. Il trattato
impegnava le due superpotenze a distruggere i loro missili a raggio più breve entro 18 mesi e quelli
a raggio intermedio entro tre anni e stabilì una serie di condizioni e di controlli dell’effettiva
attuazione degli impegni; fra cui quella del diritto di ciascuna parte di compiere ispezioni sul
territorio nazionale dell’altra nonchè nei territori di paesi alleati o satelliti dove si trovano postazioni
di lancio Il quarto incontro fra Reagan e Gorbaciov, a Mosca nel giugno 1988 (definito il vertice
della continuità) si arricchì della partecipazione della società internazionale e con la partecipazione
dei moscoviti, che poterono toccare con mano la fine della guerra fredda quando Reagan e
Gorbaciov uscirono dal Cremlino per trovarsi in mezzo alla folla stupita e amichevole della piazza
rossa. Nel giugno 1986 nel discorso di Vladivostok, Gorbaciov si era dichiarato pronto a discutere
un eventuale aumento delle misure necessarie a creare un’atmosfera di buon vicinato con la Cina
ottenendone una puntigliosa risposta su ciò che Pechino si attendeva per migliorare i rapporti con
l’Urss: la fine dell’occupazione vietnamita della Cambogia, l’arretramento delle forze armate
dell’Urss dalla frontiera con la Repubblica popolare, il loro ritiro dall’Afghanistan. Poco dopo lo
stesso Gorbaciov lasciò intendere che l’Urss si sarebbe ritirata dall’Afghanistan e il rientro fu
effettivamente compiuto nel 1989. Era in Europa, comunque, che sussisteva il problema più
rappresentativo della guerra fredda, quello della divisione della Germania. L’unificazione tedesca
vide Gorbaciov spettatore riluttante ma annunciò alle Nazioni Unite a New York che l’Urss avrebbe
ridotto unilateralmente in misura considerevole le sue forze armate stanziate nella Germania
orientale.
Furono dunqque gli anni 1985-1988 a determinare un cambiamento epocale che si svolse sotto
l’egida dei due leader.
Verso il capitalismo globale
Il piano Marshall (proponendo-imponendo il modello americano) segna il momento in cui gli Stati
Uniti, esportando il loro modello di sviluppo, costruiscono insieme con l’Europa occidentale, lo
zoccolo duro dell’Occidente. Esso si qualifica come passaggio chiave all’espansione di un sistema
capitalistico che poi si consolida, si estende e si trasforma e si differenzia nel corso del tempo. Il
dato base della preminenza dell’economia occidentale durante la guerra fredda è indicato dalla
percentuale mantenuta nei decenni rispetto alla produzione mondiale. L’economia dell’Occidente si
mantiene sempre al di sopra del 50% della produzione mondiale ed ha sempre un’entità più che
doppia di quella del blocco sovietico: anche quando la situazione delle forze militari delle due
superpotenze registra una sostanziale parità (primo periodo della guerra fredda età dell’oro del
capitalismo). Il modello socialista sovietico, se aveva consentito per un ventennio una crescita
superiore a quella dei paesi capitalisti, aveva avuto sempre un basso indice di produttività. I
tentativi di riformare già nella seconda metà degli anni ‘60 il sistema aprendo le porte al mercato
vennero a urtare a un certo punto contro la pianificazione centralizzata che ormai faceva parte
integrante dello Stato e della società e rese la crisi del modello sovietico cronica e irreversibile. La
crisi del modello occidentale ha connotati e risultati diversi. Esso deriva dalla rinuncia del
presidente Nixon nel 1971 a mantenere il sistema di Bretton Woods, il cambio fisso del dollaro, con
la conseguente svalutazione-fluttuazione della moneta, e dall’aumento improvviso e rilevante del
prezzo del petrolio nel 1973 da parte dei produttori islamici mediorientali. Diversamente da quella
del modello sovietico, la crisi del modello occidentale col tempo viene superata, anche se l’età
dell’oro non ritornò più. La situazione economica del mondo nella seconda fase si presenta molto
più complessa. Prima ancora della crisi del modello occidentale, l’emergere delle economie
capitalistiche delle tigri asiatiche preannuncia una nuova epoca delle relazioni economiche
internazionali non più condizionata dall’espansione e dalla preminenza dell’Occidente. La nuova
instabilità economica e monetaria provoca anche una reazione europea: nel 1975 Francia e
Germania prendono l’iniziativa dell’incontro di Rambouillet fra i sette paesi più industrializzati
dell’Occidente: l’intento è di sottrarsi alle conseguenze della leadership americana dell’economia
internazionale attuando un coordinamento e stabilendo una solidarietà fra le politiche economico-
finanziarie dei paesi dell’Occidente. La crisi del regime statunitense dei primi anni ‘70 stata
suddivisa in tre sfere distinte, ma strettamente connesse: militare (Vietnam); ideologica
(indebolimento della crociata anticomunista); finanziaria internazionale. Quest’ultima sfugge a una
ricostruzione sistematica. Una schematizzazione sommaria potrebbe essere che lo zoccolo duro
dell’economia capitalistico-occidentale negli anni ‘50 aveva creato il mercato dell’euro-dollaro e
oltre all’Europa occidentale aveva coinvolto i paesi comunisti nelle transazioni commerciali con
l’Occidente rilanciando la finanza europea. Con la crisi petrolifera del 1973 si passò
dall’eurodollaro al petrodollaro. L’aumento del prezzo del petrolio impose alla moneta base un
mutamento di direzione geografica: il dollaro, che con la seconda guerra mondiale era affluito dagli
Stati Uniti all’Occidente europeo, fu ora accumulato in misura cospicua dagli Stati petroliferi del
medio oriente, che lo investirono nelle banche e nelle maggiori imprese occidentali, anzitutto
americane. L’inversione di rotta del dollaro si manifestò nel modo più vistoso negli investimenti
nelle imprese multinazionali. Nei 45 anni tra la fine della seconda guerra mondiale e l’avvento del
nuovo mondo degli anni ‘90 anche le multinazionali cambiano, sia adattandosi sia influendo sulla
struttura globale dell’economia capitalistica. Le grandi imprese americane impiantano repliche
autonome di se stesse nei paesi esteri nella prima fase della guerra fredda; mentre nella seconda
diventano il veicolo principale di una integrazione-internazionalizzazione delle economie nazionali.
Nello stesso tempo gli investimenti finanziari si trasferiscono dal settore delle materie prime a
quello della produzione industriale e infine ai servizi. Alla fine della guerra fredda multinazionali,
innovazione tecnologica e liberismo, avevano trasformato gli affari internazionali. L’instabilità
finanziaria monetaria però persiste, creando nuovi squilibri sociali. Il mondo industrializzato deve
affrontare timori e realtà di recessione economica che contrastano con la precedente situazione di
crescita continua. Vi si aggiunge l’inflazione monetaria che provoca disagio nelle società avanzate
riducendo il livello di vita dei popoli occidentali mentre ha ripercussioni tragiche nei paesi più
poveri del terzo mondo. Infine sull’economia mondiale incombe la minaccia dell’enorme
indebitamento pubblico degli Stati Uniti. Da un lato si sono avuti negli ultimi decenni della guerra
fredda la nascita di focolai di capitalismo spregiudicato ai margini orientali del continente asiatico e
il delinearsi di un’ambiziosa quanto discreta via cinese al capitalismo, ossia di un nuovo capitalismo
statalista. Da un altro lato vi è il cambiamento sopravvenuto nell’economia americana che da aperta
e integrata si fa più angusta e nazionalista. Da un altro lato ancora si ha la sfida del regionalismo
economico soprattutto europeo, che rischia di minacciare il progresso verso un’economia globale
aperta e integrata.

Vittoria dell’Occidente? Il dibattito


Il passaggio tra le due epoche della politica internazionale è accompagnato da un nutrito dibattito
fra storici, filosofi, scienziati della politica ed economisti. Il dibattito si impernia sui problemi di che
cosa stia preparandosi nelle e fra le superpotenze, di che cosa accade nei paesi soggetti per
quarant’anni all’egemonia sovietica, di quale potrà essere la situazione internazionale nel declino di
due imperi; e di che cosa potrà aspettarsi il mondo dalla sconfitta del comunismo internazionale
dalla scomparsa della superpotenza che l’ha rappresentato e guidato.
A segnare una svolta nel dibattito venne a porsi la forma provocatoria di Francis Fukuyama
(pubblicò un articolo dal titolo The end of history?) il quale sosteneva che eventi quali movimenti
di riforma dell’unione sovietica e nei paesi dell’Europa centro-orientale sovietizzati e la diffusione
della cultura consumistica in gran parte del mondo, indicavano che si era giunti al punto terminale
dell’evoluzione ideologica dell’umanità e dell’universalizzazione delle libere democrazie
occidentali in quanto forma conclusiva e finale del modo in cui l’uomo governa. La formula di
Fukuyama suscitò in ambito culturale più rifiuti che consensi. Ernesto Galli della Loggia osservò
che Fukuyama commetteva lo stesso errore compiuto a suo tempo dai marxisti di ritenere che con la
vittoria delle proprie idee, la storia fosse destinata a fermarsi e a finire; Andrè Fontaine liquidò
Fukuyama inserendolo nella tradizione ottimistica che spinge gli americani a credere di aver
scoperto con il liberalismo della democrazia le leggi della felicità promessa a tutti. Fukuyama
rispose alle critiche cercando di chiarire il senso della sua enunciazione. La fine della storia non era
cosa del presente: se l’Occidente aveva finora promosso con successo l’espansione della
democrazia, molto rimaneva ancora da fare e l’impegno poteva durare per generazioni forse per
secoli e allo stesso tempo però, Fukuyama, confermò l’inevitabilità dell’espansione della
democrazia nel mondo. E fece proprio l’argomento secondo il quale dopo la vittoria sul comunismo
sovietico, gli Stati Uniti dovevano individuare nuovi avversari con le quali portare avanti un
impegno: il primo rimaneva il comunismo nell’eventualità che nell’unione sovietica si verificassero
tentativi di restaurazione o di rivincita; il secondo era l’emergente fondamentalismo islamico; il
terzo era un nazionalismo che avrebbe potuto determinare l’imperialismo di un paese non
identificato ma relativamente grande, potente, capace. Huntington, dopo aver ricostruito
l’espansione della democrazia fino a tutti gli anni ‘80, rovesciò la tesi trionfalistica di Fukuyama
descrivendo un nuovo mondo dominato da uno scontro di civiltà. Per il politologo di Harvard,
l’elemento centrale dello scenario politico internazionale di oggi è il crescente conflitto tra gruppi di
diverse civiltà. Ciò che premeva ad Huntington era descrivere un mondo multipolare diviso in
civiltà, che, in quanto diverse, potevano combattersi oppure limitarsi a confronti, accettando le loro
rispettive realtà contigue e separate in una situazione internazionale mondiale che vedeva le grandi
civiltà avviate a sostituire le grandi potenze politico-militari del passato. Henry Kissinger, attento a
cogliere la disparità dei fattori in gioco nel nuovo mondo ne individua i più importanti, che sono per
lui: il compito che l’America, per la terza volta nel corso del ‘900, ha proclamato di volersi
assumere di costruire un nuovo mondo applicando i suoi valori; la formazione dalla seconda guerra
mondiale in poi di oltre un centinaio di nuovi stati spesso assai diversi dagli storici Stati-nazione
europei; l’emergere o l’affermarsi di Stati dalle dimensioni geografiche e demografiche di
continenti come la Cina e l’India. E, ancora, l’impegno dei vecchi Stati-nazione europei a creare
nell’unione europea un’altra entità politica dalle prospettive continentali. Eric Hobsbawm
affermava che la fase presente di crollo successivo alla fine della guerra fredda sta prolungandosi
più delle fasi di sconvolgimento generale seguite alle due guerre mondiali. L’unica luce in
quest’oscuro quadro del nuovo mondo è dato dalla scomparsa e dalla trasformazione di tutti i vecchi
attori del dramma meno uno, il che rende improbabile una terza guerra mondiale. Due problemi
preoccupano soprattutto Hobsbawm: quello della formazione di gruppi alquanto piccoli che si
oppongono all’ordine esistente per portare ovunque lo sconquasso e la distruzione; e soprattutto il
fatto che per la prima volta in due secoli il mondo manca completamente di ogni struttura
internazionale al punto da fare rimpiangere la scomparsa del consorzio delle grandi potenze che in
passato aveva imposto soluzioni. Questa mancanza fa sì che il ventesimo secolo termini in un
disordine mondiale di natura poco chiara senza che si possa disporre di un meccanismo ovvio per
porvi rimedio. Disordine mondiale è la conclusione sconfortata a cui arriva anche Pierre Lellouche,
il politologo ha accreditato l’immagine di un nuovo mondo nato sotto il segno dei tre shock: la
caduta del muro di Berlino, la dissoluzione dell’unione sovietica e la guerra del Golfo. La sua
principale preoccupazione è per i pericoli, le illusioni e i rifiuti ai quali la politica di esportazione
della democrazia che guida l’intervento armato può esporre sia l’Occidente sia il resto del mondo.
All’interno dell’Occidente potrebbe radicarsi la presunzione della superiorità in ogni tempo e in
ogni luogo del suo tipo di civiltà. Nello stesso tempo c’è da temere che le stesse democrazie
storiche dell’Occidente lascino deteriorare al loro interno i metodi di governo e i principi su cui
sono fondate. Ai pericoli interni si aggiungono per Lellouche gli errori esterni. Il primo è dato dal
fatto che il mondo in generale non è interessato ad applicare un modello occidentale estraneo alle
tradizioni, alle culture e alle strutture sociali proprie, perchè molti dei popoli che lo compongono si
trovano immersi in problemi economici, nazionali ed etnici che ritengono più urgenti di quelli di
adottare forme di governo proposte-imposte dall’Occidente. Il secondo riguarda quella parte asiatica
che ha accettato il capitalismo e il liberismo, ma non intende associarvi sistemi di governo
democratici. Gli asiatici hanno senz’altro riscritto le regole del capitalismo rendendolo più
efficiente e produttivo ma anche più spietato, al punto che in questa nuova forma esso minaccia
coloro che in America in Europa lo hanno inventato.
La disgregazione del blocco sovietico dell’Europa centro-orientale

La vittoria dell’Occidente nella guerra fredda avvenne anche per implosione del sottosistema
sovietico, che si era fondato su tre pilastri: i regimi politici e istituzionali degli Stati europei
occupati dall’armata Rossa; la rete di trattati bilaterali di assistenza militare; lo strumento
dell’intervento militare della potenza egemone quando in un paese alleato-satellite si verificava una
deviazione dell’ortodossia sovietica. L’insofferenza verso gli aspetti politici, istituzionali e sociali
dell’egemonia sovietica si era già manifestata nei tre paesi dell’Europa centrale: Polonia,
Cecoslovacchia, e Ungheria, più avanzati e quindi più coinvolti nella crisi economica
internazionale. In Polonia l’avversione diffusa verso il regime comunista, l’insofferenza verso la
dominazione russa, una tradizione cattolica permeata di sentimento nazionale, una realtà sociale
matura fondata sulla crescente industrializzazione avevano portato alla formazione di movimento
sindacale di larga ispirazione cattolica e le elezioni al soglio pontificio nel 1979 del primo papa
polacco, Giovanni Paolo II, spinsero la Polonia al centro della situazione internazionale. Tanto più
che papa Wojtyla si assunse il compito di guidare dall’esterno-interno la nazione polacca verso
l’autonomia della Chiesa cattolica. Con l’inizio degli anni ‘80 il movimento sindacale con il nome
di Solidarnosc assunse il carattere di un’effettiva forza di opposizione. Nell’ultimo decennio della
guerra fredda il pericolo che la situazione in Polonia ponesse in discussione l’egemonia sovietica si
fece di conseguenza serio, prospettando il rischio di un intervento del patto di Varsavia. Per
scongiurarlo il comandante in capo dell’esercito e Presidente del consiglio, il generale Jaruzelski,
decise di affrontare direttamente la crisi procedendo contro Solidarnosc e facendo arrestare il leader
sindacalista Lech Walesa e altri esponenti dell’opposizione. Già nella metà del decennio tuttavia si
ebbe la legalizzazione di Solidarnosc mentre il partito comunista polacco tentava di adeguarsi al
nuovo corso con un rinnovamento interno. Le elezioni di Stato diedero il 90% dei voti ai candidati
di Solidarnosc. Seguì in settembre la nomina del cattolico Mazowiecki a capo del governo. Alla
vigilia della caduta del muro di Berlino, la Polonia aveva quindi già compiuto gran parte del
cammino per liberarsi del controllo sovietico, dichiarando il suo intento di entrare in Europa. Ebbe
minore risonanza internazionale l’emancipazione dalla dominazione sovietica dell’Ungheria. Fu un
processo comunque non meno lungo di quello polacco il suo inizio deve essere collocato nel
momento in cui Kadar introdusse il nuovo meccanismo economico nel 1968. L’addio al modello
sovietico dell’Ungheria la portò presto a stabilire rapporti economico-finanziari con l’Occidente che
le assicurarono un relativo benessere e infine l’adozione nel 1989 del pluralismo politico. La
Cecoslovacchia, dopo la primavera di Praga fu costretta dall’intervento del patto di Varsavia e poi
dalla restaurazione dell’ala ortodossa del partito comunista nazionale, a seguire una linea di
adesione al socialismo che durò fin quasi al 1989. La società cecoslovacca si aprì all’economia e ai
costumi occidentali mentre l’opposizione al regime si manifestò attraverso singoli e coraggiosi atti
di protesta ed in prese di posizioni di gruppi ristretti ma di larga notorietà internazionale. Nei giorni
che precedettero e seguirono la caduta del muro di Berlino i dirigenti comunisti di Praga furono
indotti a dimettersi e si formava un governo in cui per la prima volta dal 1948 la maggioranza non
fu rappresentata dai membri del partito comunista. In una Romania che da molto tempo aveva
adottato una politica estera relativamente indipendente dal patto di Varsavia, stabilendo rapporti
diretti con paesi occidentali, la rivolta popolare nel dicembre del 1989 ebbe ragione della resistenza
del dittatore Ceausescu, che fu catturato e giustiziato dopo un processo sommario. Anche il paese
dell’Europa orientale che veniva considerato durante la guerra fredda il più fedele satellite
dell’unione sovietica, la Bulgaria si adeguò estromettendo dal potere dopo la caduta di muro di
Berlino il leader locale Zivkov. Il 1989 costituì per tutti gli Stati satelliti dell’Urss il punto di arrivo
di processi di emancipazione.
La riunificazione della Germania
Il sottosistema sovietico della guerra fredda aveva collocato in una posizione strategica la
Repubblica democratica tedesca, la presunta punta di diamante tecnologico-militare del patto di
Varsavia. Perderla, vederla annessa alla Germania federale a ricostituire una Germania più estesa,
più forte e occidentale fu considerato uno dei colpi più gravi subiti dall’Urss nel contesto della sua
generale sconfitta nella guerra fredda. Non a caso la vittoria dell’Occidente viene fatta coincidere
con una data che appartiene anzitutto alla storia tedesca, quella del 9 novembre 1989, giorno della
caduta del muro di Berlino. Le Repubblica federale e la Repubblica democratica si unirono. La
prima, dopo essersi integrata nel sistema istituzionale, economico e militare occidentale entrando
nel processo di unificazione dell’Europa comunitaria e offrendo alla Nato un teatro di operazioni
centrali in caso di conflitto con l’Urss. La seconda, la Repubblica democratica, aveva pure svolto
durante la guerra fredda un ruolo distinto. Aveva offerto all’Urss una posizione geo-strategica
speculare a quella che la Germania federale aveva nella Nato, mantenendo inoltre sul suo territorio
ingenti forze sovietiche. Gli Stati Uniti avevano sostenuto che il loro scopo finale fosse la
formazione di una Germania unita, pacifica e democratica in seguito a elezioni libere, ma si trovava
a fronteggiare la determinazione sovietica di mantenere la Germania est nel campo socialista. Nel
settembre 1987 la visita del leader della Repubblica democratica Honecker nella Repubblica
Federale fu l’occasione perché si stabilisse fra le due Germanie una serie di accordi di
collaborazione e di scambio sia nel campo tecnico-scientifico, sia per la tutela dell’ambiente e per la
protezione dalle reazioni nucleari. La svolta sopravviene soltanto verso la fine dell’anno seguente,
sotto l’impulso degli Stati Uniti, che sollecitarono Kohl a pretendere di più da Gorbaciov, ma anche
dell’esodo sempre più massiccio verso la Germania federale di tedeschi orientali, favorito
dall’apertura da parte dell’Ungheria del suo confine occidentale. Contribuì a rendere il leader
sovietico favorevole alla svolta la situazione economica e finanziaria della stessa unione sovietica,
che non esitava a ricorrere a prestiti dalla Repubblica federale; e della Repubblica democratica,
della quale Gorbaciov apprende da Krenz, in parte almeno con sorpresa, le condizioni economiche
disastrose. Le riforme infine decise dalla Germania est, fra cui le elezioni secondo metodi di
democrazia occidentale e la liberalizzazione dei viaggi dei tedeschi orientali all’estero, non fecero
che rendere più vasto e incontrollabile il movimento popolare, che portò all’evento
dell’abbattimento del muro di Berlino. Con la caduta del muro di Berlino il processo di
riunificazione entra in una fase matura. Pochi giorni dopo la caduta del muro la repubblica
democratica tenta di fermare il processo sulla formula del mantenimento dei due Stati, separati ma
tenuti a una coesistenza cooperativa. Il cancelliere Kohl, invece, alla fine di novembre annuncia un
piano in 10 punti per procedere a una riunificazione ineluttabile. La Germania unificata attraverso la
semplice annessione della Repubblica democratica alla Repubblica federale era anzitutto la
dimostrazione più clamorosa della vittoria dell’Occidente. Per l’unione sovietica voleva dire
l’arretramento dalla posizione strategica più avanzata verso l’Europa centrale. La riunificazione
poneva tutti di fronte alla costituzione di uno Stato più ricco, popoloso e potente di qualsiasi altro
Stato in Europa, uno Stato che poteva suscitare lo spettro del quarto Reich. La profonda sfiducia che
il tedesco suscita ogni volta che ottiene qualche potere è la conseguenza di quel grande terribile
timore con il quale per lunghi secoli l’Europa ha temuto il furore della belva teutonica. In questa
situazione si arriva al trattato due più quattro, ossia delle due repubbliche tedesche e delle quattro
potenze occupanti del secondo dopoguerra, che il 12 settembre 1990 sanziona la pace con la
Germania. La Francia, l’Urss, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti pongono termine qui alle loro
responsabilità riguardo Berlino e alla Germania nel suo complesso. L’articolo uno precisa: la
Germania unita comprenderà il territorio della Repubblica federale di Germania e della Repubblica
democratica tedesca e l’intera Berlino. I punti 2 e 3 dello stesso articolo riguardano il mantenimento
dei confini attuali con la Polonia e la rinuncia a rivendicazioni territoriali nei confronti di altri Stati.
La Germania inoltre rinuncia alla costruzione, possesso e controllo di armi nucleari, in osservanza
del trattato di non proliferazione nucleare del 1968. Nell’articolo otto sancisce il suo diritto di
appartenere ad alleanze, ossia di reinserirsi nella Nato. Nel momento in cui la Repubblica
democratica tedesca partecipava alla firma del trattato due più quattro, la sua dissoluzione era stata
già stabilita per il 3 ottobre. A partire da quella data, quindi, non esistettero più due Stati tedeschi,
non più due bandiere, né due parlamentari tedeschi. Ciò significava che i problemi dell’unificazione
cominciavano appena ora. La Germania occidentale contava 63 milioni di abitanti, quella orientale
soltanto 16. Durante i decenni in cui erano divise, una diventò l’economia più potente d’Europa,
l’altra dimostrò di essere più povera del paese più povero dell’unione europea. Il programma del
cancelliere Kohl risultò fondato sul progressivo svolgimento di quattro direttive: annessione pura e
semplice della Germania est; cambio alla pari del Marco con la moneta tedesco-orientale; la
sovrapposizione dell’economia di mercato della Repubblica federale e quella statalista, resa non
competitiva dell’evidente divario tecnologico della Repubblica democratica; il mantenimento della
politica internazionale entro i limiti alle forme seguite per quarant’anni dalla Germania occidentale.
È la categoria demografico-economica a dare alla nuova Germania il primato. Questo poteva far
temere che una Germania che aveva già dimostrato durante la guerra fredda e confermato nella crisi
della riunificazione di essere una grande potenza economico-finanziaria, fosse in grado di diventare
nel nuovo mondo un impero fondato sui marchi.
La fine dell’unione sovietica
La Russia sovietica non è semplicemente uno Stato dell’Europa della guerra fredda a sistema di
governo comunista più grande degli altri. Le sue dimensioni geografiche, la sua popolazione
valutata in centinaia di milioni di abitanti, le sue ricchissime risorse naturali, costituiscono il
fondamento immediato e obiettivo della sua diversità. Nata dalla prima guerra mondiale l’Urss è
impegnata fin dal suo nascere in un esperimento senza precedenti, in condizioni di isolamento
imposto dall’esterno e voluto dall’interno. Le difficoltà economiche e i segnali di arretratezza e
inadeguatezza tecnologica che preoccupavano la dirigenza sovietica avevano diverse cause,
riconducibili in buona parte all’incapacità del modello socialista di adattarsi ai mutamenti interni e
internazionali, ma anche alla sua sempre scarsa produttività alla fuga in avanti incontrollabile di un
progresso tecnologico stimolato dalla gara con l’altra superpotenza; alla mancanza di attenzione
all’ambiente naturale e le conseguenze per la vita e la salute della popolazione; alla preminenza
costante del militare sul civile. Il 26 aprile 1986 l’esplosione della centrale nucleare di Chernobyl
offre al mondo esterno un segno rivelatore della debolezza dell’Urss. Un segno che non può essere
inteso come un incidente lungo la strada, perchè la dirigenza sovietica sa che il progresso
economico e tecnologico del paese ha già provocato e sta provocando altri disastri ambientali, come
l’inquinamento del lago Bajkal, la distruzione del lago Aral, la contaminazione da biossido di zolfo
in una regione della Siberia, l’affondamento nell’oceano Artico e nel mare di Barents di migliaia di
natanti con i loro carichi di materiale radioattivo. Gorbaciov si impegnò a introdurre la perestrojka,
appunto la riforma, fondata sulla glasnost, la trasparenza. Quale che sia la politica di riforma di
Gorbaciov, essa viene interrotta dagli eventi dell’agosto 1991, con il tentativo di colpo di Stato dei
conservatori e la reazione radicale guidata da Eltsin. L’anno rappresentativo del crollo dell’Urss è
quindi il 1991 piuttosto che il 1989. Se in agosto si ha il fallito colpo di Stato con reazione vittoriosa
di Eltsin e l’esautoramento del Pcus, mentre il suo segretario generale, Gorbaciov, diventa
presidente dell’Urss, in settembre il congresso dei deputati del popolo dell’unione sovietica, prima
di sciogliersi, accetta di trasferire i principali poteri alle 15 repubbliche che l’hanno composta. Due
terzi di esse, per iniziativa della Russia, della Bielorussa e dell’Ucraina, cercano di mantenere un
rapporto confederale sostituendo l’Urss con una Comunità degli Stati indipendenti. Alla fine
dell’anno comunque l’Ucraina indice un referendum che si pronuncia per la sua indipendenza. Che
la posizione di grande potenza dell’Urss potesse crollare così come stava cedendo il suo sistema
economico-politico interno, era suggerito già alla fine degli anni ‘80 dei movimenti di
emancipazione dall’egemonia sovietica che andavano compiendosi nei paesi dell’Europa centro-
orientale. Quando Gorbaciov assunse il potere, l’espansione sovietica nel terzo mondo aveva
essenzialmente un nome: Afghanistan. Alla dirigenza sovietica veniva attribuito nel 1986 la
convinzione che un ritiro dall’Afghanistan, con conseguente stabilimento di un regime non
comunista, ossia islamico, avrebbe danneggiato il prestigio dell’Urss e provocato reazioni negative
in altre regioni sensibili alla sua influenza. Accettare la sconfitta poteva far mettere in discussione la
capacità e la risolutezza dell’Urss. Eppure lo stesso Gorbaciov pare fosse incline a credere che dal
Afghanistan bisognava uscire. L’Urss era stata per 70 anni un’unione di repubbliche socialiste. La
dirigenza moscovita seppe gestire a lungo il problema delle nazionalità diverse. L’aspettativa di
riforme suscitata dall’annuncio della perestrojka conferì una nuova attualità alla questione
nazionale. Gorbaciov non comprese come proprio la sua perestrojka potesse indurre le nazionalità a
chiedere riforme che riguardassero la loro posizione nell’Urss. Nell’Europa settentrionale si poneva
in evidenza il movimento indipendentista dei paesi baltici. A ovest, verso l’Europa centrale polacca-
tedesca, l’indipendenza era stata rivendicata addirittura già prima della formazione dell’Urss,
dall’ucraina e dalla bielorussa. A sud i paesi della regione caucasica formavano un’altra zona calda.
Ad est le repubbliche dell’Asia centrale esigevano nuova considerazione e nuovi vantaggi dal
centro dell’impero. Delle quattro zone, quella del Baltico aveva diversi motivi per collocarsi in
primo piano nel movimento delle nazionalità sovietiche: era la più occidentale, si trovavano in
condizioni economiche migliori, avevano assunto le posizioni più intransigenti avendo dietro di sè
fra la prima e la seconda guerra mondiale un periodo di indipendenza sovrana dei tre Stati nazionali
della Lituania, della Lettonia e dell’Estonia. Tutto questo indusse Gorbaciov a compiere l’atto
discutibile di affermare l’integrità territoriale dell’unione sovietica indirizzando ai lituani un
ultimatum che richiedeva la loro adesione alla costituzione sovietica e facendolo seguire da un
intervento armato che fu attuato provocando morti e feriti da parte del Kgb. Lo spargimento di
sangue sul Baltico segnò la fine dell’unione sovietica. Toccò a Boris Eltsin riprendere in mano la
situazione recandosi a Tallinn per sanzionare un reciproco riconoscimento della sovranità fra la
Russia e le repubbliche baltiche, che nel marzo 1991 avevano espresso attraverso referendum
popolari la loro volontà di essere indipendenti. L’Ucraina alla fine della guerra fredda appariva
divisa al suo interno in due parti, una occidentale indipendentista e una orientale russa. Al momento
del crollo dell’Urss, l’ucraina possedeva risorse naturali essenziali per la tecnologia avanzata civile
e militare; occupava una posizione geo-strategica altrettanto essenziale a protezione del territorio
nazionale russo verso occidente, e aveva un prezioso sbocco sul Mar Nero, dove controllava buona
parte della marina militare sovietica. Il 16 luglio 1990 gli stessi comunisti ucraini dichiararono la
sovranità del paese. Ai movimenti d’indipendenza si aggiungevano quelli di paesi più periferici,
dalla Moldavia alla Georgia, all’Armenia. La portata di questi sviluppi riguarda una fase storica
successiva all’avvento del nuovo mondo post-sovietico, che vede la rinascita, da Eltsin a Putin, di
una terza Russia.
La Cina postmaoista. Una terza via al capitalismo?
La Cina maoista prese assai presto le distanze dall’iniziale modello sovietico. Mao Tse-tung,
morendo nel 1976, lasciò in eredità ai suoi successori un paese isolato dal mondo, blindato dalla
dittatura, educato alla xenofobia, convinto di essere circondato dalle trame oscure del capitalismo. Il
suo successore dissidente Deng Xiaoping, alla fine degli anni ‘70, annunciò le quattro
modernizzazioni: agricoltura, industria, difesa e scienza, decidendo per un’importazione massiccia
di tecnologia occidentale. Egli avviò un programma di riforme che provocarono una trasformazione
rapida e profonda, che non è esagerato considerare come una seconda rivoluzione cinese. Le
riforme, avversate dai conservatori, sono accolte equivocamente dai progressisti con un primo passo
verso la democrazia, alimentando un equivoco che accompaga la modernizzazione della Cina
postmaoista fino all’episodio di Tien-an-men. Deng Xiaoping cercherà poi di promuovere ad ogni
costo il progresso economico-sociale del paese aprendo al mercato e alla proprietà privata
nell’agricoltura, nei limiti in cui queste obiettive deviazioni dei principi del marxismo-leninismo-
maoismo possono contribuire a fare della Cina un paese più moderno e quindi più prospero e
potente. La politica estera dell’era di Deng va vista nella prospettiva di in una situazione di stabilità
e sicurezza internazionale, a partire da una normalizzazione dei rapporti fra la Cina e l’America e
l’Unione Sovietica. Per quanto riguarda gli Stati Uniti la cosa non si presenta difficile perchè il
ravvicinamento diplomatico arriva a buon fine nel 1978. Più difficile si prospettano i rapporti con
l’Urss. Al pesante retaggio di dissensi, rancori e diffidenze si aggiunge nel 1979 il colpo
dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan, considerata a Pechino un altro passo decisivo
nell’attuazione del progetto sovietico di arrivare all’egemonia mondiale. La situazione cambia
soltanto nella seconda metà del 1987 con la firma del trattato per la riduzione dei missili nucleari
intermedi tra Stati Uniti e unione sovietica, che determina anche una riduzione dei missili sovietici
in Asia, rendendo meno preoccupante la posizione strategica della Cina. Il miglioramento che segue
nei rapporti fra due paesi comunisti rende possibile il vertice Deng-Gorbaciov di Pechino del
maggio 1989. Deng cercava di fare della Cina un grande paese moderno e unito, e mirava a
completare la sua unità nazionale. Hong Kong, Macao, Taiwan, il Tibet sono per Deng province
della Cina da conservare contro ogni contestazione internazionale o da riannettere. Solo Hong Kong
fu oggetto durante l’era di Deng di uno lungo e meditato negoziato con la potenza occidentale che
l’aveva creata, l’Inghilterra; negoziato che si concluse con l’annessione di Hong Kong alla Cina
come territorio a statuto speciale nel 1997. Altre vie a un progresso accelerato aprono alla nuova
Cina delle 45 zone economiche speciali create da Pechino in regioni costiere o insulari del paese,
per facilitare l’avvio di imprese commerciali o produttive straniere a compartecipazione cinese. La
Cina di Deng tiene a confermare-rafforzare una grande Cina che ha per tessuto connettivo le
migrazioni di milioni di cinesi in tutta l’Asia orientale. La diaspora cinese consentì anzitutto alla
Cina post maoista di intensificare i rapporti con i centri di espansione del capitalismo estremo-
orientale, le celebrate quattro tigri: Corea del sud, Singapore, Hong Kong e Taiwan. Al punto che
quando esse si rivelano inadeguate nella loro modestia e ristrettezza demografica e geografica a
resistere alla crisi economica che colpisce l’Asia orientale nel 1997, il colosso cinese coglie
l’occasione per stabilire la sua compartecipazione-preminenza in questi tipici centri propulsori del
capitalismo. A metà del ventennio di modernizzazione previsto da Deng si abbattè sulla Cina la crisi
di Tien-An-Men, la grande notissima piazza di Pechino dove il movimento democratico
incoraggiato a intensificare le sue manifestazioni dalla recente visita di Gorbaciov nel paese fu
repressa nel sangue il 3 e 4 giugno 1989. Tien-An-Men però non ferma Deng. Nel 1992 il
quattordicesimo congresso del partito comunista cinese fa entrare nella sua direzione molti
tecnocrati e introduce l’economia socialista di mercato. La svalutazione del 30% della moneta
cinese rilancia, conferma ed estende il flusso delle esportazioni. Il ritmo della crescita negli anni ‘90
fu tanto rapido che ha fatto constatare come la Cina del nuovo mondo sia diventata una grande
potenza economica prima di essere ricca.

CAPITOLO TERZO
L’Occidente alla prova
Il nuovo mondo deve affrontare problemi internazionali di diverso segno, anche opposti: le
ambizioni del dittatore Saddam Hussein nel Medio Oriente; il reiterato sforzo per per porre termine
al conflitto israelo-palestinese; la dissoluzione della Jugoslavia; la nuova unificazione dell’Europa
non più divisa dalla cortina di ferro; la metamorfosi della NATO, da alleanza difensivo a braccio
armato statunitense nell’area balcanica e nel medio oriente e l’esplosione dei talebani di Al-Qaeda.
La superpotenza superstite e la guerra del golfo
Dopo la conclusione del lungo confronto est-ovest, Bush si trova di fronte a una crisi mediorientale,
fra la primavera del 1990 e la fine del febbraio 1991. Saddam Hussein, reduce da otto anni di guerra
logorante e costosa con l’Iran degli Ayatollah, riteneva di aver combattuto anche per l’America e
per gli Stati arabi moderati e pretendeva di essere aiutato nel suo sforzo di ricostruzione del suo
paese come maggiore potenza strategica regionale. La presidenza Reagan aveva stabilito con l’Iraq
rapporti tali da farlo considerare un partner effettivo degli Stati Uniti in medio oriente. Nella prima
metà del 1990 Saddam insistette con i paesi arabi circostanti nella pretesa di riconsiderare i prestiti
che le avevano fatto durante la guerra all’Iran e premette affinchè non fosse abbassato il prezzo del
petrolio, che costituiva la sua principale fonte di reddito. Si mostrò particolarmente duro nei
confronti del Kuwait, denunciando la creazione recente e artificiosa del piccolo Stato e la sua
insistenza nell’esigere dal governo di Bagdad la restituzione del prestito. Mentre Saddam lanciava
segnali sempre più minacciosi, gli americani inviarono tre messaggi da Washington, fra cui uno del
dipartimento di Stato che metteva in guardia il dittatore iracheno dall’attaccare il Kuwait. Dopo
l’invasone il consiglio di sicurezza emanò ben 12 risoluzioni. Esse iniziavano con l’invito all’Iraq a
ritirarsi dal piccolo Stato astenendosi dall’attuarne l’annessione; proseguendo con il boicottaggio
commerciale, finanziario e militare dello Stato aggressore; e infine il 29 novembre offriva all’Iraq
un’ultima occasione per conformarsi alla risoluzione. La risoluzione ultimatum offriva a Saddam
Hussein la possibilità di uscire dall’impasse con una ritirata formalmente non umiliante e
concretamente vantaggiosa, dava all’eventuale intervento militare un’impronta collettiva e
generalizzante, da ‘Nazioni Unite’, e lasciava un certo tempo, oltre che per negoziati diretti con
l’Iraq, che effettivamente si svolsero, ma senza risultati, anche per iniziative da parte di Stati
contrari o riluttanti ad allinearsi alla leadership americana: come l’unione sovietica, la Francia e
l’Iran. Saddam pensò che gli americani non gli avrebbero impedito di occupare il Kuwait perchè
non volevano imbarcarsi in un’impresa oltremare, memori com’erano della guerra del Vietnam.
Quando poi si rese conto che il suo calcolo era sbagliato, il rais si preoccupò di proteggere il regime
evitando che fossero coinvolte nella resistenza le sue unità migliori. La guerra del Golfo cominciò
il 17 gennaio 1991 con incursioni aeree anglo americane, cui seguirono dopo qualche tempo
operazioni terrestri che portarono la liberazione del Kuwait e all’occupazione di alcune migliaia di
chilometri quadrati di territorio iracheno. Il conflitto non potè avere quindi particolare significato
dal punto di vista militare e di durata. Ma il fatto che rappresentasse un intervento esterno nella
regione mediorientale senza precedenti dalla seconda guerra mondiale, e che i paesi arabi si
schierarono accanto ai paesi occidentali contro uno Stato arabo, fu solo il più immediatamente
visibile dei motivi che resero la guerra del Golfo l’avvenimento cruciale del Medioriente degli anni
‘90. Il successo del presidente Bush e del segretario di Stato Baker nel tenere insieme la parte
mediorientale della coalizione, fu confermato durante il conflitto quando il laico baathista Saddam
Hussein, nella speranza di provocare defezioni o incertezze tra gli avversari musulmani, sottoposte
a bombardamento missilistico lo Stato d’Israele, cercando di dare alla sua guerra un’impronta
antisionista. Da Washington si riuscì a impedirlo ammonendo Israele di non intervenire: gli alleati
musulmani rimasero nell’alleanza, dimostrando a questo punto che per Saddam Hussein era troppo
tardi e che erano interessati alla sua sconfitta. Gli Stati Uniti avevano pertanto confermato il
controllo militare sul Medioriente, ottenuto confortanti vantaggi economici che andavano dalla
difesa di interessi petroliferi privati e pubblici, alla larga compartecipazione alle spese di guerra da
parte dei membri della coalizione, e aveva dimostrato la sua indiscussa superiorità. Nel fare tutto
questo gli Stati Uniti avevano riportato in primo piano la concezione di una comunità internazionale
riunita in un’organizzazione sovranazionale di base: l’ONU.
Mezzo secolo dopo. Il dramma di Israele
Dopo la vittoria nella guerra del Golfo Bush si sentiva incoraggiato ad affrontare la questione del
medio oriente. Il segretario di Stato James Baker si adoperò per riunire intorno a un tavolo di
negoziati i protagonisti del conflitto e nell’autunno del 1991, sotto la copresidenza di Bush e
Gorbaciov, ebbe inizio la conferenza di Madrid. Il governo israeliano rifiutò all’inizio di
parteciparvi, cedendo soltanto dopo l’avvertimento di Bush che gli Stati Uniti avrebbero potuto
sospendere il prestito straordinario che consentiva a Shamir di attuare il suo programma di governo.
Gli israeliani comunque riuscirono a far sì che i palestinesi non partecipassero con una loro
delegazione. La conferenza di Madrid risulta pertanto condizionata dalla resistenza del governo
israeliano. Una svolta nel processo di pacificazione si verifcò soltanto nel 1993 per iniziativa della
diplomazia norvegese che riuscì ad avviare ad Oslo negoziati bilaterali fra Israele e i palestinesi,
tanto riservati da essere definito uno dei segreti meglio conservati della storia della diplomazia del
‘900. I negoziati di Oslo iniziarono con la richiesta palestinese che gli israeliani si ritirassero
soltanto dalla striscia di Gaza e da Gerico. La richiesta trovò consenzienti gli israeliani. Il progetto
di accordo stabilì che gli israeliani evacuassero la striscia di Gaza e che i palestinesi vi istituissero
un’autorità il cui statuto avrebbe dovuto definire anzitutto l’ambito geografico delle sue
competenze, la questione di Gerusalemme, la posizione delle basi militari che gli israeliani
intendevano mantenere nel territorio autonomo palestinese. Gli israeliani si impegnavano a
garantire il libero accesso ai luoghi santi cristiani e musulmani. Su queste basi si giunse alla firma a
Washington nel 1993 da parte di Shimon Peres e Abu Mazen, di una dichiarazione di principi
relativa ad accordi su un autogoverno temporaneo. L’accordo di Oslo si verificava in una situazione
del Medioriente che arricchiva la politica internazionale di due elementi essenziali. Il primo era che
lo Stato di Israele era ormai la maggiore potenza militare regionale. Il secondo era il rapporto
ancora più stretto che in passato con gli Stati Uniti. Il cosiddetto dramma di Israele era determinato
dalla prolungata e logorante esperienza di un popolo che viveva da due generazioni in un territorio
nazionale ristretto, in uno stato di guerra permanente i cui metodi di lotta terroristici delle
organizzazioni anti-israeliane avevano conferito nei decenni una tragicità quotidiana. Tuttavia
questa condizione di logoramento psicologico e morale fu compensata da una politica di
insediamenti nei territori di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est. Alla fine del 1993 Rabin stabilì
un allargamento dei confini municipali della grande Gerusalemme. Nel 1996 Netanyahu si presentò
con un programma nutrito di colonizzazione delle zone arabe. La conclusione fu che gli anni ‘90
portarono lo Stato ebraico ad una situazione territoriale assai più vicina al grande Israele sognato
dagli ortodossi e perseguito dai nazionalisti. Un accordo per la striscia di Gaza e l’area di Gerico del
1994 stabilì che il periodo provvisorio dell’autonomia palestinese avrebbe portato in cinque anni a
un assetto definitivo. Oltre ad attuare il programma di colonizzazione appena detto, il partito
nazionalista Likud riuscì a ritardare i tempi del ritiro dell’esercito dalle zone concordate: fino a
quando, però, dovette cedere accettando la formazione del governo di coalizione diretto da Barak
che potè riprendere il processo di Oslo. Si era vicini al termine del secondo quadriennio della
presidenza di Bill Clinton e il presidente uscente invitò le due parti per l’11 luglio 2000 a un vertice
che avrebbe dovuto portare all’assetto generale definitivo. Sopraggiunse però il 28 settembre, a
rendere la situazione più difficile, la mossa di Ariel Sharon di recarsi alla spianata delle moschee di
Gerusalemme: fu un gesto che intendeva affermare la sovranità israeliana su Gerusalemme e
provocare la rottura del processo di pace. Seguì al gesto di Sharon la seconda intifada palestinese.
Poco prima di Natale Clinton invitò le due parti alla Casa Bianca e illustrò i suoi parametri per far
procedere i negoziati. Il 27 dicembre il governo Barak li accettò con alcune riserve, ma Arafat non
accettò. In una situazione di stallo i negoziati furono ripresi nel gennaio 2001 arrivando a risultati
che sono stati giudicati molto più vicini all’intesa conclusiva.
La dissoluzione della Jugoslavia
La dissoluzione della Jugoslavia si presenta come un fenomeno emblematico del disordine
mondiale seguito alla guerra fredda. La Jugoslavia era uno stato affrettatamente messo insieme nel
primo dopoguerra e si presenta come un processo dalla complessità unica nell’Europa Orientale
contemporanea: per il numero delle nazioni-etnie coinvolte, per la diversità storica, per il
radicamento delle fedi religiose contrapposte, per gli eccessi, le stragi, le pulizie etniche che hanno
caratterizzato il processo di dissoluzione. Dopo la fine della seconda guerra mondiale il leader
croato vincitore, il maresciallo Tito, introduce in Jugoslavia istituzioni e forme di uno Stato
comunista e federale allo scopo di eliminare o quantomeno contenere la preminenza della Serbia.
All’inizio degli anni ‘90, scomparsa da un decennio la figura carismatica e unificante di Tito, la
Jugoslavia si trova di fronte al dilemma confederazione o disgregazione. In realtà quando viene
posto questo dilemma la Jugoslavia era già avviata verso la disgregazione, che si compie attraverso
un processo più che decennale caratterizzato da secessioni e crisi. Tutte queste crisi assumono il
carattere di scontri armati più o meno sanguinosi. Nel 1991 si assiste all’indipendenza della
Repubblica slovena, lo Stato secessionista più occidentale e più fortunato anche perché circondato
da tre paesi esteri: l’Italia, l’Austria e l’Ungheria. La Croazia offrì quasi subito un secondo teatro di
guerra, contrapponendosi frontalmente alla Serbia. Il fronte croato-serbo corrispondeva al confine
secolare fra i territori amministrati dall’impero asburgico e quelli sotto l‘impero ottomano. Un terzo
teatro di guerra viene identificato nella Bosnia-Erzegovina, la regione a triplice composizione
etnica: croata, serba e bosniaca. Un quarto teatro di guerra viene fatto corrispondere infine alla
pluridecennale crisi del Kosovo, la provincia autonoma della Repubblica di Serbia al confine con
l’Albania. Le reazioni della comunità internazionale si esprimono attraverso le istituzioni coinvolte:
l’Onu, l‘unione europea e la Nato; ma si esprimono anche attraverso le singole potenze grandi e
piccole, vicine e lontane, sollecitate a intervenire dalla loro pregressa politica balcanica o dalla
eccezionale brutalità delle crisi attuali. A cominciare dagli Stati Uniti. La Francia sentiva l’impegno
di portare avanti una direttiva di appoggio alla Serbia che risaliva al primo 900. La Russia era
tradizionale protettrice della Serbia. L’Italia per la posizione geografica. La Germania appena
riunificata riconobbe in gran fretta le due prime repubbliche secessioniste della Slovenia e della
Croazia, che furono viste in quel momento da molti europei come marche di confine a sud-est di un
impero geoeconomico del Marco. Fin dal principio degli anni ‘90 Nazioni Unite, Unione Europea,
Stati Uniti e Nato attivarono una serie di interventi prima diplomatici poi militari. Nel 1992 il
consiglio di sicurezza stabilì sanzioni economiche contro la Serbia, l’Alleanza Atlantica assunse il
controllo aereo navale dell’Adriatico e in un secondo tempo decise di impegnarsi in modo più
diretto nel mantenimento della pace. Bisognò giungere al 1995 per far cessare la tragedia bosniaca,
quando i raid aerei della Nato, accompagnate dalle sconfitte dei serbi, aprirono la strada
all’intervento diplomatico americano con l’apprezzabile risultato di riunire a Dayton, il 16;
novembre, le delegazioni delle tre parti in causa, il presidente croato Tudjman, il presidente serbo
Milosevic, e il presidente bosniaco Izetbegovic. I negoziati di pace portarono in tre settimane alla
definizione di un accordo che riconosceva la Bosnia-Erzegovina come uno Stato sovrano fondato su
tre componenti territoriali-etniche distinte con un’unica capitale, Sarajevo, aperta a tutte tre ma
inseriti in una di esse, la federazione musulmano-croata. La crisi dello Stato in Jugoslavia si mette
in evidenza nella seconda metà degli anni ‘90 nel quarto teatro di guerra del Kosovo, la regione
autonoma della Repubblica di Serbia della costituzione federale introdotta da Tito. Il dramma
politico e nazionale della regione era il prodotto di due realtà conflittuali, una moderna e concreta,
l’altra antica e mitica. La prima era data dalla situazione demografica di una popolazione che era
ormai per più dell’80% di etnia albanese-musulmana. La seconda veniva dalla storia: l’intera
nazione serba collocava le sue origini proprio nella regione del Kosovo, dove nel 1383 i cristiani
resistendo all’espansione ottomana avevano combattuto un’epica battaglia. Milosevic compì nel
Kosovo una violenta operazione di polizia intesa ad annientare il movimento indipendentista locale
dell’Uck. L’attacco delle forze serbe coinvolse la popolazione civile mentre l’Uck ricorse ad azioni
terroristiche e l’ala moderata dell’opposizione kossovara si impegnò nella formazione di una
repubblica indipendente. Fu in questa fase della crisi che il governo italiano prende l’iniziativa di
attuare nella contigua Albania l’operazione alba. Intento della missione era di stabilizzare la
situazione politica albanese-kossovara, di distribuire aiuti umanitari, di controllare l’afflusso di armi
nella regione. Nel 1998 alle azioni militari-terroristiche dell’Uck, la polizia e l’esercito serbi
rispondono con una repressione indiscriminata che porta a uno dei massacri più efferati delle guerre
jugoslave a Drenica, roccaforte della resistenza kossovara. Nel marzo 1999 viene deciso
l’intervento della Nato contro la Serbia. In giugno le forze Nato entrano nel Kosovo e procedono
alla smilitarizzazione delle formazioni internazionali indipendentistiche. Si giunge all’emanazione
della risoluzione 1244 del consiglio di sicurezza del 2000 con cui il Kosovo sarebbe diventata una
provincia dotata di sostanziale autonomia nell’ambito della Repubblica federale Jugoslava. Nel
2005 Giuliano Amato, presidente della commissione internazionale sull’area balcanica, afferma che
i Balcani hanno raggiunto una relativa stabilità e vedono svolgersi elezioni non sempre corrette ma
tutto sommato libere, anche se la situazione economica e sociale rimane critica.
Verso l’unificazione dell’Europa
L’Europa uscita dalla guerra fredda negli anni ‘90 si trovò di fronte a due strade: quella
dell’approfondimento dell’unione e quella dell’allargamento che si estendeva in prospettiva a tutti
paesi del continente. I 12 Stati della CEE avevano compiuto lo sforzo significativo di sottoscrivere
nel 1986 un atto unico che li vincolava a introdurre entro il 1992 la libera circolazione dei beni, dei
servizi e delle persone nel territorio comunitario: una buona base da cui partire per elaborare il
trattato di Maastricht del 1992 che creava l’Unione Europea. Il trattato prevedeva che l’unione fosse
costruita su tre pilastri: le comunità, una politica estera e di sicurezza comune, la cooperazione
giudiziaria in materia penale. Il secondo pilastro rese perplessi i realisti circa la gestione della
politica estera che fosse cioè assunta dall’unione sostituendosi ai governi degli Stati membri. La
stessa cosa poteva dirsi per la politica di sicurezza: complicata, ma confortata dalla realtà di una
struttura militare transnazionale, la Nato, in buona parte europea. Il vero balzo in avanti verso
l’unificazione europea va comunque individuato nella creazione di una moneta unica da introdursi
dopo una preparazione che avrebbe occupato tutto il decennio. Una prima fase, consisteva nella
liberalizzazione dei capitali entro l’area comunitaria, una seconda era riservata all’attuazione della
convergenza-identità delle politiche economiche degli stati membri. ed una terza fase, da compiersi
entro il 1991, ci si proponeva di introdurre la moneta unica, che con il 2002 sarebbe entrata in
circolazione come euro. L’introduzione dell’euro può essere vista anche come un’operazione di
successo della diplomazia di grandi potenze europee quali soprattutto la Francia, ma anche la
Germania. La preoccupazione francese di impedire a una Germania riunificata, tanto popolosa e
indipendente da turbare l’equilibrio interno dell’unione, venne a coincidere con la preoccupazione
tedesca che la moneta unica europea che si voleva creare avesse la stessa stabilità che la Repubblica
federale durante la guerra era riuscita a dare al Marco e il risultato sarà l’euro, una copia del vecchio
Marco tedesco su un piano più vasto, transnazionale ed europeo. Anche nel senso specifico
dell’indipendenza della nuova moneta dalle pressioni politiche, fu garantita la creazione di un
centro di osservazione-controllo sempre vigile, la Banca centrale europea (Bce). Al momento di
sottoscrivere il voluminoso documento di Maastricht, i rappresentanti degli Stati dell’unione
avevano già formulato il proposito di dedicare nuovi accordi a materie che a Maastricht erano state
trascurate. E cercarono di farlo in numerosi incontri, ad Amsterdam nel 1997 e a Nizza nel 2000.
Ad Amsterdam (definito anche il trattato della discordia, vsito che si posero i problemi ma senza
che si compissero progressi verso soluzioni soddisfacenti) furono posti problemi dell’occupazione,
di una più stretta collaborazione in campo giuridico, dell’ampliamento del numero delle materie su
cui l’unione avrebbe dovuto procedere non più all’unanimità, ma a maggioranza, nonchè della
delinquenza e del terrorismo. Già da tempo l’allargamento era nell’aria. Nel 1994 erano entrate
nell’unione, la Svezia, la Finlandia e l’Austria, che avevano livelli di sviluppo economico,
istituzioni politico democratiche e legislazioni riguardanti diritti umani in linea con quelli dei
membri originari dell’unione. Nello stesso anno Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria, presentarono
domanda per diventare membri effettivi dando inizio a una corsa all’allargamento che coinvolse,
oltre a tutti gli Stati dell’Europa centro-orientale, anche tre dell’area mediterranea settentrionale fra
loro assai diversi e destinati a seguire percorsi diversi: Malta, Cipro e Turchia. A questo punto
cominciò a configurarsi la futura Europa, quella dei 27. Per il momento la commissione rimaneva
composta di 20 membri soltanto; quando il numero degli Stati fosse salito a 27 si sarebbe
riesaminata la questione dei voti. Una riponderazione del numero dei rappresentanti di ciascun
membro del consiglio avrebbe allora permesso di rappresentare con maggior fedeltà il peso
demografico degli Stati membri senza dimenticare però il loro peso politico. Alla Germania, che si
disse favorevole, fu chiesto di attenersi al criterio del peso politico accettando di disporre dello
stesso numero di voti di Francia, Italia e Gran Bretagna, benchè avesse una popolazione che
superava di circa 20 milioni quella di ciascuno degli altri maggiori Stati dell’unione. Nel definire il
numero dei rappresentanti al consiglio venne introdotto anche il criterio demografico, per non
correre il rischio di trovarsi di fronte a un’alleanza di piccoli se ci si fosse fondati solo sul numero
degli Stati senza tener conto delle rispettive popolazioni. L’unione compì a Nizza altri limitati
progressi nella materia sempre difficile delle decisioni a maggioranza, in cui peraltro i membri
maggiori poterono mantenere i loro veti, la Gran Bretagna sul fisco e la sicurezza sociale, la
Germania sull’immigrazione, la Francia nel campo audiovisivo, la Spagna sui fondi culturali.
Questa era l’Europa uscita dalla guerra fredda.

La Nato senza il nemico sovietico


Alla fine della guerra fredda nessuna istituzione internazionale rappresenta in modo emblematico
l’unità occidentale come Alleanza Atlantica. Quando svanì il pericolo di un’espansione sovietica
verso l’Europa occidentale, l’alleanza atlantica avrebbe potuto essere sciolta, essa rimase tuttavia in
vigore, cambiando i suoi intenti politici e la sua struttura militare. I motivi di questa sopravvivenza
sono diversi. In linea generale la situazione politica dell’unione sovietica-Russia poteva riservare
ancora sorprese. Era impensabile, d’altra parte, che i paesi membri rinunciassero ai vincoli storici
che si erano venuti a stabilire fra loro nei decenni del comune pericolo. Infine nel dopo guerra
fredda la Nato disponeva dell’unica forza militare efficiente e pronta di controllo-gestione-
soluzione delle crisi entro e fuori i limiti geografici che le erano stati assegnati. Dopo la caduta del
muro di Berlino con la dichiarazione di Londra del 1990 l’alleanza si impegnò ad essere un fattore
di cambiamento dell’attuale situazione internazionale, sostituendo l’intento della difesa contro la
superpotenza militare sovietica con quello dell’aiuto all’Europa perchè arrivi rapidamente alla sua
riunificazione (ciò in collaborazione con altre istituzioni come CEE, UE, CSCE). Il consiglio
Atlantico di Copenhagen del giugno 1991 indicava innanzitutto i compiti fondamentali della nuova
Nato fornire le basi per un environment di stabile sicurezza in Europa, fondato sullo sviluppo di
istituzioni democratiche e sull’impegno per una soluzione pacifica delle controversie. Ma l’alleanza
doveva tener conto anche del contesto globale: il controllo sulla proliferazione delle armi di
distruzione di massa; le azioni contro l’interruzione del flusso di risorse; gli interventi contro azioni
di terrorismo o di sabotaggio. Nel settembre 1992 il consiglio Atlantico decideva di impiegare le
risorse dell’alleanza a sostegno dell’opera intrapresa dall’Onu, dalla Csce e dalla CEE per stabilire
la pace nell’ex Jugoslavia. In novembre l’alleanza forniva alle forze Onu in Bosnia un quartiere
generale operativo. In dicembre si diceva pronta a sostenere le future azioni delle Nazioni Unite. La
gradualità dell’avvicinamento della Nato al problema dei Balcani indicava la cautela del passaggio
al nuovo ruolo non previsto nel trattato del 1949. L’intervento effettivo nei Balcani si verifica
comunque solo tre anni dopo. Nel 1993 la Nato si limita a compiti di controllo e interdizione degli
spazi aerei della zona di guerra e di guerriglia, per passare nell’estate-autunno del 1994 ad attacchi
aerei mirati richiesti dall’Onu. Alla fine del 1995, nel corso dei negoziati che portarono agli accordi
di Dayton, il consiglio Atlantico approva lo stanziamento di 60.000 effettivi in Bosnia. La Nato
compie così il suo primo intervento sul campo, destinato a ripetersi e a prolungarsi nel Kosovo. Le
guerre jugoslave offrono quindi alla nuova Nato le prime occasioni di interventi militari capaci di
dimostrare la sua utilità. Ma l’alleanza doveva anche preoccuparsi del vuoto di potere alla sua
frontiera dell’Europa centrale estendendo i propri vincoli agli Stati dell’ex patto di Varsavia. Il
vertice di Bruxelles del 1994 istituì il Partenariato per la pace, primo passo verso l’inserimento degli
Stati dell’Europa ex sovietica nell’alleanza, che per la Repubblica ceca, la Polonia e l’Ungheria si
verificò già nel 1999. Successivamente provvide a impegnarsi anche fuori dall’ambito geografico:
con la Russia, l’Ucraina e l’area mediterranea.
L’espansione del radicalismo islamico. I talebani in Afghanistan
Occupando militarmente l’Afghanistan pochi mesi dopo che la rivoluzione islamica aveva trionfato
in Iran, l’unione sovietica aveva preparato il terreno per la seconda rivoluzione, che avvenne negli
anni ’90, ma sulla base della resistenza dei mujaheddin afghani all’occupazione sovietica. Fra i
paesi vicini o lontani che avevano aiutato con armi, rifornimenti e denaro la resistenza afghana, il
Pakistan era quello che avrebbe dovuto concentrarsi sullo spazio lasciato vuoto immediatamente al
di là delle sue frontiere occidentali nell’Afghanistan evacuato dai sovietici. Ed in effetti il governo
di Islamabad intese farlo cercando fin dal 1988 di coinvolgere i potentati del Afghanistan
meridionale in ambiziosi progetti di strade strategiche e commerciali che avrebbero dovuto
attraversare il territorio afghano fino ai paesi dell’Asia centrale collocati dall’altra parte:
Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan. Lo Stato pakistano però aveva una stabilità precaria a causa
della religiosità inquieta e tendenzialmente fondamentalista della società musulmana. La
conseguenza fu una discontinuità di sistema politico che impedì in definitiva allo Stato pakistano di
portare a buon fine una direttiva di espansione verso l’Afghanistan. Problema Afghano e problema
pakistano appaiono ormai talmente legati da poter essere considerati due facce della stessa
medaglia. lo confermano aspetti diversi come quello che un vero confine finisce col non esistere fra
i due paesi. O come quello della forte affinità religiosa sottolineata nel 1988 dal capo dello Stato
pakistano Zia ul-Haq, quando dichiarava di voler affidare al vicino all’Afghanistan una parte della
rinascita islamica, la parte della jihad fondamentalista. Questa politica pakistana fu adottata in un
periodo in cui gli Stati Uniti non soltanto nutrivano pochi interessi per il medio oriente allargato, ma
erano contrariati dalle iniziative del governo pakistano per procurarsi l’armamento nucleare. La
fuga in avanti del Pakistan verso il nucleare indusse il governo americano a ridurre gli aiuti militari
al governo di Islamabad, mentre un segno della diminuzione del suo impegno nella regione fu che a
Washington non si diede seguito al progetto di nominare un ambasciatore in Afghanistan. Un
esponente della politica afghana, Karzai, nella primavera del 1994, attirò l’attenzione del console
americano Smyth sui talebani, un nuovo gruppo che bisognava tenere d’occhio. Sebbene a
Kandahar si fosse formato un gruppo di studenti religiosi, l’accezione più comune di talebani,
provenienti dalle scuole coraniche, soprattutto dal Pakistan occidentale che facevano capo al mullah
Omar, i talebani non si erano ancora rivelati a quell’epoca come una forza politico-militare
importante. Nel 1994 non vi erano più di 200 talebani, l’anno seguente raggiunsero le 2500 unità e
nel 1996 salirono a 12.000. Ma più che la crescita numerica, che non superò i 30.000 uomini, ciò
che caratterizzò l’impegno militare dei talebani, bensì la loro capacità di imparare rapidamente a
usare i sofisticati sistemi d’arma non individuali che ricevevano dal Pakistan e dall’Arabia Saudita.
L’occupazione talebana di Kabul nell’estate-autunno del 1996 non mise in luce una strategia di
guerra particolarmente brillante, bensì una azione di logorio con mezzi sia militari che politici ossia
rivolta alla persuasione e/o alla corruzione degli avversari. Tra l’occupazione di Kabul e l’11
settembre, il potere talebano si impegnò a completare, con mezzi militari e non, l’occupazione del
territorio afghano verso nord e verso ovest, mentre al sud adottò una nuova politica economica e
sociale che, sospendendo l’iniziale proibizione ai contadini di coltivare oppio, era passato invece a
incoraggiare la produzione, nell’intento di assicurare la sopravvivenza degli stessi contadini, di
favorirne il consenso e di esigerne i tributi, che fornivano ai talebani i mezzi necessari per
procurarsi le armi, le munizioni e carburanti per la guerra. Mentre l’Iran degli Ayatollah non si
impegnò troppo portare la rivoluzione fondamentalista fuori dalle sue frontiere, la seconda teocrazia
radicale dell’Islam contemporaneo, l’Afghanistan, era evidentemente un’altra cosa. Il remoto paese
centro asiatico riuscì in pochi anni a mettere a punto uno strumento politico-religioso-militare di
sconcertante successo, che a questo punto poteva essere disposto a trasferire la jihad oltre le sue
frontiere. E poteva farlo anche perchè disponeva del territorio strategicamente più adatto a fornire
una base operativa difficilmente raggiungibile anche dei mezzi bellici moderni. In altre parole
l’Afghanistan poteva essere portato dai talebani a partecipare ad un grande gioco che da difensivo
poteva diventare offensivo, come sembravano promettere tre eventi che si concentrano nell’anno
1996: l’occupazione di Kabul, il ritorno nel paese di Osama Bin Laden, la svolta che lo stesso Bin
Laden diede alla jihad rivolgendo dall’Afghanistan la sua dichiarazione di guerra gli Stati Uniti.
al-Qaeda e il terrorismo islamico in Occidente
A creare al-Qaeda era stato negli anni ‘80 un teologo giordano-palestinese molto impegnato nella
corrente politica dei fratelli musulmani, Abdullah Azzam, il quale aveva istituito a Peshawar un
ufficio dei servizi dei combattenti di Dio per promuovere la partecipazione di tutti i musulmani alla
lotta contro l’occupazione straniera. La resistenza in Afghanistan era solo la prima tappa della
guerra di liberazione di tutto l’Islam. Quando i sovietici si ritirarono, Azzam ritenne fosse venuto il
momento di prendere un’iniziativa più precisa e fondò Al Qaed al Sullah, la solida base: il centro
direttivo che avrebbe dovuto coordinare le azioni dei volontari accorsi in Afghanistan, per avviarli
verso nuovi teatri di guerra in tutte le parti del mondo, dove trovassero le condizioni politiche e
religiose per iniziare la lotta di liberazione dell’Islam. Ma la morte di Azzam nel 1989 arrestò
l’azione di al-Qaeda. A succedergli fu destinato il giovane saudita proveniente da una ricca famiglia
di origine yemenita Osama Bin Laden. Nell’Afghanistan della resistenza antisovietica Bin Laden
aveva svolto compiti diversi: cercare l’aiuto della famiglia reale saudita; portare un contributo
finanziario del governo, ma anche personale alla lotta dei mujaheddin e organizzare campi di
addestramento militare per i volontari provenienti da tutti paesi musulmani. Era convinto che i
mujaheddin dovevano combattere su tutti i fronti, quello anticomunista come quello contro
l’Occidente. Dopo aver assunto la guida di al-Qaeda, Bin Laden ne modificò lo spirito, i metodi e i
programmi, tenendo conto dei mutamenti sopravvenuti. Mutamenti nella situazione politica
generale della regione mediorientale, dominata dalla crisi del Kuwait e dalle sue conseguenze, fra
cui la presenza di basi americane nell’Arabia Saudita, e mutamenti sopravvenuti in lui stesso. Bin
Laden, rientrato a Riyadh, ne aveva trovato una situazione di corruzione e compromesso fra la
tradizione musulmana e l’apertura politica all’Occidente, che la presenza delle basi americane nei
luoghi più santi dell’Islam rendeva per lui insopportabile. Sentendosi straniero in patria, il capo di
al-Qaeda aveva quindi lasciato l’Arabia Saudita per il Sudan, paese islamico tradizionale e ostile da
sempre alla penetrazione occidentale. Per finanziare al-Qaeda egli continuò a ricevere donazioni da
ricchi uomini d’affari dell’Arabia Saudita, degli emirati e del Kuwait. Bin Laden vide un segno
premonitore nell’estradizione del Sudan in Francia del terrorista Carlos. L’evento dovette
concorrere a far ricercare in tempo un altro rifugio, in Afghanistan. Partito il 16 maggio 1996 dal
Sudan con la sua numerosa famiglia, Bin Laden non si recò a Kabul, ma ha Jalalabad, vicino al
confine con il Pakistan, e vi si sistemò in un alloggio quasi di fortuna. Giunse in Afghanistan
quando Kabul era ancora sotto l’assedio dei talebani e la situazione poteva non sembrare abbastanza
sicura per insediarvi la sua solida base. A meno che proprio su queste condizioni di instabilità egli
contasse per trasferire il suo quartiere generale nel paese prima che la situazione con i talebani a
Kabul si stabilizzasse: facendo così della sua organizzazione un elemento co-fondante del nuovo
potere talebano. Ritornato in Afghanistan, Bin Laden emanò dalle montagne dell’Hindukush la
dichiarazione di jihad contro gli americani che occupavano il paese dei luoghi santi, l’Arabia
Saudita. La penetrazione nella leadership talebana consistette nella formazione di una rete di
alleanze, cariche onorifiche, legami matrimoniali, incarichi amministrativi, con contributi
finanziari; partecipazione ad imprese commerciali fra i talebani e i seguaci di Bin Laden. Questi
entrò nel consiglio superiore dei talebani mentre al mullah Omar fu riservato in parallelo una
posizione onorifica in al-Qaeda. Tra il 1996 ed il 1998 si formò la miscela più pericolosa del
terrorismo islamico, nella quali i talebani fornivano una base territoriale sicura nelle montagne
afghane e al-Qaeda approntò la strategia della guerra all’America.
La repubblica imperiale alla prova
Dopo la fine della guerra fredda la direttiva di fondo della politica internazionale degli Stati Uniti fu
la promozione della democrazia e la difesa dei diritti umani. Ma l’America viene a trovarsi in una
situazione internazionale più complessa. Il compito di Bush era reso difficile dalle numerose
esigenze imposte dalla pregressa politica americana in medio oriente: rafforzare una posizione di
supremazia ereditata dall’Inghilterra nel secondo dopoguerra; estendere il controllo strategico sulla
regione con il consenso degli alleati arabi e con l’acquiescenza della Russia; non correre il rischio di
allienarsi l’Arabia Saudita; non mettere in discussione l’interesse nazionale americano nella zona
petrolifera più importante del mondo; non compromettere la possibilità di avviare a soluzione il
conflitto israeliano-palestinese. Bill Clinton vince le elezioni nel 1992 perchè più attento di Bush a
impostare la sua campagna elettorale sulla fase negativa attraversata dall’economia americana, e
perchè sa nascondere la sua inesperienza di politica internazionale dietro la rivendicazione
inoppugnabile di un’America il cui compito e adattarsi al nuovo mondo dopo la guerra fredda.
L’economia si pone come punto preliminare nella sua politica internazionale. Gli Stati Uniti devono
sostituire un’azione internazionale dettata fino a ieri da esigenze strategico-militari con una politica
economica internazionale rivolta in tutte le direzioni. Segnali negativi venivano in particolare dai
mercati finanziari. Alla fine del secolo i capitali da investimento erano enormemente aumentati e
avevano subito trasformazioni inquietanti. Accanto ai ricchissimi investitori stranieri era emersa una
cospicua categoria di investitori americani e non, che ricorrevano sempre più al debito con fondi
presi a prestito. Nasdaq, la borsa elettronica della new economy, superò già nel 1994 il volume di
affari della borsa di Wall Street, offrendo rapidi guadagni alla maggioranza di americani che ha
risparmi in borsa e creando una bolla speculativa in cui i valori azionari non hanno più alcun
rapporto con il valore reale delle imprese. Questo spinge la nuova amministrazione a rinnovare i
compiti o addirittura a promuovere la creazione di istituzioni transnazionali economiche. Così fra il
1993 ed il 1994 si concludono nuovi negoziati del Gatt (General Agreement on Tariff and Trade),
l’accordo sulle tariffe e il commercio internazionale; viene creata la Wto (World Trade
Organization), l’organizzazione mondiale per il commercio; viene ratificato il Nafta (North
American Free Trade Agreement), l’accordo nordamericano per il libero scambio. Durante l’ultimo
decennio del ‘900 la metafora dell’allargamento avrebbe costituito il pilastro è la
concezione di fondo del discorso di politica estera di Clinton. Questo trova espressione in due
dottrine, una dovuta al consigliere per la sicurezza nazionale Anthony Lake, che sostiene che è
venuto il momento di sostituire la dottrina ormai superata del contenimento dell’espansione
sovietica con quella dell’allargamento, da riferire al libero mercato, alla democrazia, ai diritti
umani, all’alleanza atlantica; l’altra dottrina prende il nome dal generale Colin Powell, l’immigrato
dalla Giamaica che come capo degli Stati maggiori riuniti nella guerra del Golfo e segretario di
Stato di George Bush ha impersonato più di qualsiasi altro cittadino americano del suo tempo la
trasformazione sociale, etnica e politica degli Stati Uniti. La dottrina di Powell ammonisce a
limitare gli interventi nelle crisi internazionali ai casi di evidente interesse nazionale. E tali
interventi devono essere compiuti con forze tali da garantire il successo, devono prevedere una
strategia d’uscita, devono perseguire intenti compresi approvati dal popolo americano. Il problema è
di sapere entro quali limiti Clinton dovrebbe usare la forza nel perseguimento dei propri obiettivi
democratici e umanitari. In questo contesto il ritiro degli Stati Uniti dalla missione multinazionale
in Somalia nell’ottobre 1993, sotto l’impulso emotivo della morte in diretta di 18 membri delle
forze speciali, divenne il punto di riferimento per una valutazione fortemente critica dell’inizio della
politica estera di Clinton. Nell’affrontare la crisi della ex Jugoslavia dopo decenni di studi dedicati,
i governi americani post-guerra fredda non potevano essere tacciati di insufficiente preparazione
storica, politica e strategica né di scarsa attenzione. Se mai si poteva parlare di esitazione a prendere
in mano la questione, ispirati anche alla propensione a ritenere che la responsabilità primaria della
crisi jugoslava toccasse agli europei. D’altra parte la situazione nella ex Jugoslavia si prestava a un
primo esperimento nell’impiego della Nato senza il nemico sovietico. Tutto questo rendeva le cose
obiettivamente complicate per il neo presidente Clinton, al punto da giustificare la sua inazione,
fino all’efficace intervento militare e poi diplomatico della metà del decennio in Bosnia, seguito da
quello nel Kosovo.
Gli anni di Clinton: premesse a una svolta?
Negli anni di Clinton la società americana subisce e si adatta a realtà politiche, etico-religiose ed
economiche che durante la presidenza di Bush eserciteranno influenze determinanti: il movimento
dei neoconservatori e la corrente religiosa dei cristiani rinati. Le origini liberali dei neoconservatori
risalgono agli anni ‘60. Soltanto più tardi il movimento viene considerato una forza politica alleata
con la destra repubblicana e con la destra cristiana. Alla fine della guerra fredda i neoconservatori
avendo perduto l’elemento coesivo dell’anticomunismo, rivelavano le loro diverse anime. A dare
loro coesione e programma arrivarono la vittoria nella guerra del Golfo e la dissoluzione
dell’unione sovietica, che determinarono una situazione internazionale capace di sollecitarli a
definire le loro basi dottrinarie di nuovo gruppo di interesse politico. L’apice di questo sforzo per
elaborare una politica estera diversa i neoconservatori lo raggiunsero con il progetto per il nuovo
secolo americano, secondo cui la politica estera e militare americana è alla deriva. A tal uopo
bisognerebbe aumentare in modo significativo le spese per la difesa; rafforzare i legami con gli
alleati democratici e sfidare i regimi ostili ai valori e interessi americani; promuovere la causa della
libertà politica ed economica all’estero; accettare la responsabilità del ruolo straordinario che
l’America svolge nel mantenere e ampliare un ordine internazionale favorevole alla sua sicurezza,
alla sua prosperità e ai suoi principi. Alla fine degli anni ‘90 i cristiani rinati forniscono a Bush Jr.
una base di consenso sempre più importante dopo che tutti protagonisti delle elezioni presidenziali
del decennio hanno dimostrato di attribuire particolare importanza al fattore religioso. Nella
campagna del 1992 Clinton si era preoccupato di dichiarare più volte di pregare praticamente ogni
sera e leggere la Bibbia ogni settimana, arrivando a dire di essere spinto da un senso di missione a
fare la cosa giusta ogni giorno. Al Gore si definì a sua volta un cristiano rinato, portando con
decisione nella campagna elettorale questa sua esperienza di cristiano rinato che pone la fede al
centro della sua vita. Il retroterra politico-religioso degli anni ‘90 ha particolare importanza
naturalmente per l’ascesa del futuro presidente Bush Jr., che fa la sua prima esperienza di vita
politica collaborando alla campagna elettorale del padre, nella quale si occupa in particolare della
destra religiosa e dei cristiani rinati. Alla domanda su chi sia il suo filosofo preferito Bush risponde:
Cristo, perchè ha cambiato il mio cuore. Una risposta di cui non sa addurre motivi efficaci, ma che
piace al pubblico e fa nascere un caso intorno alla religione del candidato Bush. Nella sua prima
elezione alla presidenza il cristiano rinato George W. Bush ottenere dai membri del suo movimento
religioso un suffragio del 51% contro il 31% dal suo avversario. Nella prospettiva di un 11
settembre che segna l’inizio di una nuova crociata si pone il problema se gli anni ‘90 debbano
essere considerati un lungo e mal compreso anteguerra. Il 1993 è l’anno su cui si puntarono gli
occhi nella ricerca del precedente che avrebbe potuto mettere sull’avviso il governo americano, ma
George Tenet, direttore della C.I.A., non risale così indietro. Forse perchè gli attentati nella prima
metà degli anni ‘90 non furono rivendicati dal capo di al-Qaeda Osama Bin Laden, che divenne per
la C.I.A. il terrorista numero uno soltanto con il 1996. L’attentato alle Khobar Towers in Arabia
Saudita avrebbe segnato in quel momento l’inizio della guerra fra i musulmani e gli Stati Uniti.
Anche se la dichiarazione di guerra inequivocabile di al-Qaeda sarebbe venuta tardi, non con la
fatwa di Osama Bin Laden del 1996, ma con quella redatta dal numero due al-Zawahiri nel 1998.
Fu allora, riferirì Tenet, che gli USA iniziarono un’intensa attività antiterroristica che durò fino
all’11 settembre e occupò quindi gli ultimi due anni della presidenza Clinton e primi otto mesi della
presidenza Bush. In quel periodo la C.I.A. fu in grado di prevenire diversi attacchi terroristici.
L’agenzia potè quindi sostenere di aver seguito con attenzione Bin Laden per più di cinque anni.
Clinton ordinò che fossero lanciati 66 missili Cruise contro i campi di addestramento dei territori
islamici in Afghanistan, ma senza successo. L’anno seguente la C.I.A. iniziò l’addestramento di 60
commandos dell’ISI (Inter-Services Intelligence) pakistano che dovevano entrare in Afghanistan
per catturare il capo di al-Qaeda. La consapevolezza di essere in guerra con al-Qaeda, le
registrazioni dell’attività giornaliere del presidente con i suoi più stretti collaboratori, attestano che
a Clinton fu subito comunicato che l’attacco alle Khobar Towers era stato rivendicato dalla branca
locale di Hezbollah con i suoi legami in Siria ed in Iran, e che è implicato un gruppo chiamato al-
Qaeda che aveva abbracciato il terrorismo per punire governo americano e saudita per la presenza
di stranieri sul suolo dell’Islam. L’impressione è che negli ultimi anni del secolo al-Qaeda fosse
vista a Washington come una delle componenti di un articolato movimento terroristico islamico
diretto contro le posizioni militari degli Stati Uniti nel mondo.

CAPITOLO QUARTO
L’unilateralismo americano
Nel corso degli anni Novanta gli USA, superpotenza superstite, dispongono delle forze militari per
sostituire al sistema bipolare della guerra fredda un sistema monopolare, ma non lo fanno.
Gli Stati Uniti e l’11 settembre
All’inizio della presidenza di George Bush egli si preoccupò anzitutto di mutare l’indirizzo della
politica economica e stabilire quali membri dell’amministrazione avrebbero concorso a dirigere la
politica internazionale. I primi a farsi carico di questa situazione avrebbero dovuto essere, oltre al
segretario di Stato Colin Powell, il vicepresidente Cheney e il segretario alla difesa Donald
Rumsfeld. Cheney e Rumsfeld erano due vecchi conservatori nazionalisti, con alle spalle lunghe
carriere politiche a contatto ma non all’interno del movimento neoconservatore. Il nuovo presidente
si trovò quindi ad avere nel suo governo almeno tre membri che apparivano più qualificati di lui per
guidare la politica estera americana. Condoleezza Rice aveva messo insieme un gruppo di persone a
vario titolo considerate competenti, i cosiddetti vulcans, che fecero a Bush un corso accelerato di
relazioni internazionali. Tutto questo non poteva evitare al neopresidente di appoggiarsi alle
competenze di esperti da collocare in categorie diverse. A cominciare dagli stessi vulcans, alla Rice,
che si qualificava per la sua competenza sull’unione sovietica-Russia, al direttore della C.I.A. Tenet
con i suoi funzionari e agenti, ai capi militari e infine ai diplomatici. Più di questi esperti, con
l’eccezione della Rice e di Tenet, a influire sulle decisioni del presidente saranno il vicepresidente
Cheney e il segretario della difesa Rumsfeld. La notizia dell’attacco alla prima torre di New York
raggiunge Bush mentre visitava una scuola della Florida. Karl Rove, il senior adviser di politica
interna che gli stette vicino, nota che Bush, come tutti intorno a lui, in un primo momento appare
incerto sull’origine dell’attacco al World Trade Center. Ma quando si verifica il secondo attacco
dice subito quietamente con voce chiara: siamo in guerra. Aggiungerà poi che era più grave di Pearl
Harbor. Il presidente insomma mostra subito di rendersi conto della gravità della situazione e
reagisce preoccupandosi anzitutto degli effetti che l’attentato può avere sull’opinione americana.
Dalla Florida Bush convoca per il pomeriggio il consiglio nazionale di sicurezza in una base aerea
nel Nebraska, difficilmente raggiungibile da attacchi terroristici. A questo primo consiglio di guerra
tocca anzitutto il compito di stabilire a chi si debba attribuire l’attacco. E il direttore della C.I.A.
non fa che confermare quanto si è già intuito nello Staff del presidente: che soltanto al-Qaeda ha la
prospettiva strategica, i mezzi e l’organizzazione per un attacco agli Stati Uniti di quella portata.
L’attribuzione dell’attacco ad un’organizzazione terroristica e non ad uno Stato, che non avrebbe
potuto evitare di esporre il suo territorio nazionale al contrattacco americano, pone l’America di
Bush di fronte a una situazione senza precedenti, e ne determina il comportamento fondato
sull’intervento sia all’esterno che all’interno. Viene emanato 10 giorni dopo l’intervento militare
americano in Afghanstan il Patriot Act: legge sul patriottismo, che prelude a provvedimenti
specifici che tolgono molte restrizioni all’operato del governo federale permettendogli di accedere
ai dati personali dei cittadini e di ridurre d’altra parte i vincoli che avevano fino ad allora impedito
all’esecutivo di operare controlli sulle istituzioni finanziarie, mentre nuovi reati e nuove pene sono
definiti in rapporto ad atti terroristici. Tony Blair invia a Bush il 12 settembre un messaggio di
incondizionata solidarietà e impegno a aderire alla linea che Bush avrebbe scelto di seguire contro i
nuovi nemici. È lui a proporre a Bush di ingiungere ai talebani di consegnare Osama bin Laden e gli
altri esponenti di al-Qaeda e di chiudere i campi di addestramento per terroristi: suggeriementi che
figurano nel monito-ultimatum rivolto da Bush ai talebani nel suo discorso del 20 settembre.
L’intervento in Afghanistan
La guerra al terrore sarebbe stata portata avanti su due fronti, interno ed internazionale: affidato il
primo al dipartimento della Giustizia e all’FBI e il secondo alla CIA e a reparti speciali delle forze
armate. Nel suo discorso del 20 settembre al congresso Bush si assume ufficialmente l’impegno
della guerra al terrore. Il 2 ottobre inizia così l’operazione Enduring Freedom. Mentre il governo di
Washington percorreva il suo difficile cammino verso l’intervento, la comunità internazionale
prendeva coscienza che si era aperta una crisi di prima grandezza. Alcuni eventi contribuirono a
caratterizzare l’intervento in Afghanistan sul piano internazionale. Il più importante riguardò la
conferma della partecipazione alla politica dell’America di Bush da parte dell’Inghilterra di Blair.
Dopo il discorso dell’ultimatum di Bush, Blair portò avanti l’opera di procurare adesioni alla causa
degli USA parlando con Putin, Chirac, Berlusconi, recandosi a Bruxelles per sincerarsi che l’UE
fosse abbastanza risoluta nel sostenre gli USA e che il Consiglio d’Europa adottasse una soluzione
soddisfacente. Putin, in cambio della sua collabrazione per l’uso di basi aeree in stati ex sovietici,
chiese agli americani di cessare la protesta contro l’intervento russo in Cecenia. Due giorni dopo
l’11 settembre la NATO emana un comunicato che impegnava i membri dell’alleanza a considerarsi
tutti coinvolti. Nell’ONU invece il segretario generale Annan fece emanare dal Consiglio di
sicurezza la risoluzione 373, che autorizzava l’uso della forza contro i terroristi, e nominò suo
rappresentante nella crisi afghana Brahimi, che poi sarebbe stato un interlocutore assai valido per
gli afghani durante la caduta del regime talebano. Il Pakistan continuava a mantenere con
l’Afghanistan relazioni particolari. Lo stato aveva aggiunto altri problemi a quelli, che non
potevano considerarsi superati, con cui era nato mezzo secolo prima: il contrasto di fondo con
l’India per il Kashmir; il dissidio sorto con gli stessi USA alla fine della guerra fredda per aver
voluto diventare una potenza nucleare, che il fragile stato pachistano aveva pagato con sanzioni
economiche e sospensione delle forniture militari; lo sviluppo, tanto importante da porsi al centro
della stessa questione afghana, della situazione anomala creata dall’effettiva assenza di un confine
di stato fra i territori tribali pachistani e l’Afghanistan orientale. In questa situazione costituì un
fattore positivo per l’America il fatto che con un colpo di stato al governo del Pakistan, due anni
prima dell’11 settembre ci fosse il generale Pervez Musharraf. La collaborazione con gli USA, che
il generale riteneva indispensabile per il suo paese, suscitava però la reazione del forte partito
fondamentalista islamico. Musharraf convinti i colleghi con la scusa che se non accettavano l’India
avrebbe preso il loro posto, comunica di accettare, ma chiede in cambio che il suo paese riceva aiuti
economici indispensabili dopo tanti anni di sanzioni e naturalmente pretendeva nuovi aiuti militari.
Contando sull’immediato schieramento dell’Inghilterra, sulle solidali prese di posizione della
NATO, sull’accordo negoziato con la Russia di Putin e con il Pakistan, l’amministrazione Bush si
avvia verso l’intervento in Afghanistan in un clima politico e psicologico interno meno
incoraggiante di quello che il presidente aveva saputo suscitare subito dopo l’11 settembre. Il 7
ottobre ha comunque inizio in Afghanistan l’intervento militare aperto. Nelle settimane seguenti,
l’Alleanza del Nord, con l’appoggio americano, inglese e russo, riesce ad occupare Mazar-i-Sharif e
il 13 novembre entra a Kabul. Lo stesso giorno l’ONU annuncia la formazione di una forza
multinazionale, la International Security Assistance Force (Isaf), il cui primo compito sarebbe stato
di mantenere il controllo internazionale sulla capitale. Fu a Sud comunque che il ritiro dei talebani
assunse aspetti politici più promettenti il mullah Omar negozia il ritiro delle forze talebane
dall’Afghanistan sudorientale, che poterono rifugiarsi oltre confine, nei teritori tribali del Pakistan.
Naturalmente incertezze ed equivoci non mancarono, ma riguardarono ciò che sarebbe seguito: il
mantenimento dell’occupazione americana e la ricostruzione di un Afghnaistan post-talebano.
Richard Holbrooke avverte che: “sarebbe stato necessario anzitutto eliminare la struttura terroristica
sorta nel paese nell’ultimo decennio si sarebbero poi dovute creare istituzioni politiche in grado di
funzionare si sarebbe dovuto affidare ad un rappresentante dell’ONU un mandato simile a quello
conferito a Bernard Kouchner nel Kosovo si sarebbe dovuto mantenere nel paese per un periodo da
2 a 4 anni un considerevole contingente civile dell’ONU, incaricato di preparare gli afghnai a
crearsi una struttura di governo nazionale si sarebbero dovute stanziare forze militari multinazionali
sufficienti a garantire la sicurezza e la riuscita dell’operazione”.
Asse del male e intervento preventivo
Con il successo militare in Afghanistan l’amministrazione Bush considera conclusa la prima fase
della guerra al terrore. Che non ha ottenuto però il suo primo intento, catturare o eliminare Osama
bin Laden e quindi non ha realizzato il desiderio del popolo americano di ottenere giustizia.
Componenti della Bush revolution (progetto neoconservatore di un “nuovo secolo americano”):
guerra al terrore dichiarata l’11 settembre ed estesa dopo l’intervento in Afghanistan oltre i limiti
suggeriti dalla geopolitica; unilateralismo che guarda con insofferenza all’internazionalismo da
Nazioni Unite cui si erano attenuti quasi tutti i governi americani dalla seconda guerra mondiale.
Bush presenta e cerca di far accettare questa revolution agli americani per due ragioni: a. Gli stessi
americani si aspettavano che fosse così perchè così avevano fatto i presidenti più celebrati del
passato. b. Bush mostrava di non voler rinunciare al metodo di lavoro seguito per conquistare la
presidenza e poi esercitarla nei primi 8 mesi del suo mandato. Nel momento in cui dichiarava la
guerra al terrore Bush si rendeva conto che la politica americana doveva compiere una svolta
importante: la reazione all’11 settembre con l’indicazione precisa di chi erano gli attentatori, chi li
avesse aiutati e dove, nonchè lo stesso intervento militare in Afghanistan, soddisfacente ma non
esaustivo, tendevano a dilazionare problemi e risultati. La prima fase della guerra al terrore allora
ne presupponeva una seconda, che prese consistenza dottrinaria e programmatica negli ultimi due
mesi del 2001. Punto di svolta è stata la denuncia di quegli stati che aiutano le organizzazioni
terroristiche nei loro attentati e soprattutto minacciano l’America e i suoi alleati con le armi di
distruzione di massa che stanno costruendo. Questi stati sono: Corea del Nord, Iran e Iraq di
Saddam Hussein (L’ASSE DEL MALE). Il passo del discorso di Bush di maggior effetto mediatico
quello sull’alleanza virtuale tra questi tre stati è un asse del male impegnato ad armarsi per
minacciare la pace del mondo (collegamento fra regimi autoritari e terrorismo). Timore che gli stati
dell’asse del male portino avanti i loro programmi di costruzione di armi nucleari, chimiche e
biologiche e che nessuno scrupolo potrebbe trattenerli dall’usare. Bush aggiunge che minacce di
questa natura richiedono un nuovo modo di pensare e che se si aspetta che si materializzino si
aspetta troppo un’azione preventiva, quando si rivela necessaria per la tutela della libertà e delle vite
americane. Unilateralismo di Bush: così definitio a seguito della decisione del presidente di ritirarsi
dal trattato ABM (anti missili balistici), sugli armamenti nucleari e dal protocollo di Kyoto sulla
riduzione delle esalazioni nocive nell’atmosfera. Negli anni seguenti saranno attribuiti alla dottrina
Bush anche altri significati specifici: la tendenza dell’America a procedere da sola (cioè non
nell’ambito delle istituzioni internazionali o delle alleanze multilaterali ereditate dall’epoca
precedente); l’abbinamento fra direttiva dell’espansione della democrazia e direttiva della guerra al
terrore; l’adesione dichiarata alla dottrina della guerra preventivan; la promozione, di matrice
neoconsevatrice senza riserve e senza limiti, degli interessi americani nel mondo. Fine concreto a
breve della strategia americana: fermare Saddam Hussein, al quale nell’ultimo decennio USA e
Inghilterra dietro mandato dell’ONU hanno cercato senza successo di impedire che opprimesse le
minoranze interne, tanto più che nel farlo il dittatore iracheno aveva usato armi di distruzione di
massa e messo in pericolo la stabilità del Medio Oriente. Non molto tempo dopo la Casa Bianca
pubblica la National Security Strategy of the United States of America, un documento ufficiale in
cui l’emergente politica di prevenzione raggiunge una formulazione che ha pochi precedenti nella
politica estera americana moderna e certamente non è in linea con la politica adottata dai
predecessori di Bush visto che considera i terroristi e i tiranni quali fonti di pericolo tanto gravi da
impegnare gli Usa in interventi preventivi.
L’intervento in Iraq
Compiuto l’intervento in Afghanistan l’America si preparava ad una nuova guerra all’Iraq, che
veniva accusato di possedere armi di distruzione di massa e ingenti risorse petrolifere tali da
potergli permettere di destabilizzare il Medio Oriente e sottoporre gli occidentali a ricatto nucleare.
Alla presa di posizione americana, il Consiglio di Sicurezza rispose con la risoluzione 1441, la
quale ingiungeva all’Iraq di sottostare alle ispezioni internazionali, ma non prevedeva l’intervento
automatico in caso di resistenza del dittatore alle nuove richieste. La risposta del governo iracheno
non solo eludeva le richieste di informazione che gli erano state fatte, ma presentava omissioni
materiali. L’ultimatum rivolto al dittatore iracheno il 17 marzo del 2003 fu l’annuncio più esplicito
della linea di condotta che gli Stati Uniti avrebbero intrapreso.
Un Occidente o due (o tre)?
Solo dopo la seconda guerra mondiale però la necessità dell’Europa occidentale e dell’America
setterntrionale di provvedere alla difesa comune contro un’espansione sovietica, ha portato ad
individuare nell’Occidente una parte del mondo che ha il suo centro non in una terra ma in un mare,
l’Oceano Atlantico. Le differenze di fondo delle sue relazioni con l’America emergono a partire
dalla presidenza Reagan fino ad arrivare a quella di Bush Jr (America ed Europa si stanno
separando, non solo dal punto di vista economico). L’opposizione alla politica americana verso
l’Iraq venne condotta da Francia, Russia e Cina. Nella situazione internazionale tesa e polemica del
2002-2003, si poteva parlare di una presa di posizione comune della vecchia Europa, quando i
governi francese e tedesco si dissociarono dall’intervento militare in Iraq. Ma se questo è il nucleo
centrale della vecchia Europa, qual è l’Europa nuova? La ‘nuova Europa’ viene identificata nella
parte centro-orientale del continente, che nell’89 si era liberata dall’egemonia sovietica, e che negli
anni ’90 si dimostrò disposta a seguire senza riserve la superpotenza leader dell’Occidente anche
nella sua politica di intervento in Medioriente.
La terza Russia:
Dopo la prima Russia, stato semibarbaro del’700 e dopo la seconda Russia, nasce con il ‘nuovo
mondo’ nasce negli anni ’90 la terza Russia. A metà anni ‘90 la situazione economica della Russia
si fece difficile, Eltsin cercò di stabilire un rapporto primario con gli USA chiedendo aiuto
finanziario agli americani. Bill Clinton accettò, ma i rapporti fra i due stati si incrinarono con la
nomina a ministro degli esteri di Primakov, la cui convinizone era che la Russia doveva unire in sé
Europa, Asia e Oriente musulmano. Eltsin, stanco e ammalato, nominò suo successore il giovane
Vladimir Putin. Putin lasciò capire subito su quali direttive primarie intendesse impostare la politica
estera russa, ovvero il ristabilimento del controllo strategico sul Caucaso e quella di riaffermare nel
nuovo mondo il ruolo della Russia come grande potenza.

CAPITOLO QUINTO
Il primo secolo XXI
L’Occidente entra in una nuova fase imprevedibile con l’inizio del secolo XXI. Due eventi segnano
questo breve periodo: il primo è l’attacco dell’11 settembre che spinge Bush a dichiarare una guerra
generale al terrorismo islamico. Il seconod è dominato dai due interventi militari successivi in
Afghanistan ed in Iraq (con conseguente spaccatura dell’Occidente). La politica internazionale
riceve la sua impronta dalla superpotenza superstite, spinta dalla Bush revolution secondo una
direttiva unilaterale. Nei due paesi gli USA perseguono intenti diversi, anche se è in Iraq che si
concentra l’attenzione dell’amministrazione Bush.
Fallimento in Medio Oriente. National Building in Iraq.
Con l’intrevento del marzo 2003 la seconda guerra all’Iraq ha inizio, ma a differenza della prima
qui l’America non può contare sulla larghezza dei consensi che l’invasione Iraquena in Kuwait le
aveva procurato (linea d’azione USA provoca una crisi nell’Alleanza Atlantica). Agli Usa rimane la
coalizione dei volenterosi, e l’Inghilterra di Blair. Gli Usa speravano di trovare le armi di
distruzione di massa che Hussein certo si era procurato per confermare agli occhi della comunità
internazionale la necessità dell’intervento militare USA. Il comando delle operazioni fu affidato al
generale Franks e fu individuato in Paul Bremer la persona a cui affidare i poteri dell’Iraq occupato,
egli si doveva tenere a stretto contatto solo con il presidente. Da qui inizia l’impegno
dell’amministrazione Bush nella ricostruzione dell’Iraq come “nation building”. Con la riconferma
del 2004, Bush vuole portare a termine il conflitto iracheno e rende noto un nuovo piano per
ricnoquistare il territorio: questa sua nuova strategia provocò una crisi economico finanziaria
internazionale. Alcune iniziative dell’occupazione americana dell’Iraq furono abbastanza
discutibili. Le conseguenze più gravi si ebbero nella creazione di condizioni spirituali e materiali di
disagio in una parte della popolazione irachena, predisponendola a considerare con rancore gli
occupanti e facilitando la penetrazione nel paese dei fondamentalisti islamici. Nel 2007, di fronte a
un’America e a una società che si attendevano l’annuncio del ritiro dall’Iraq, il presidente insistette
sul valore risolutorio di una nuova strategia militare. Contrariamente a quanto aveva potuto sperare,
George Bush Jr. non riuscì a far ricadere il risultato negativo della mancata pacificazione dell’Iraq
sul suo successore, Barak Obama, che nel 2003 era stato fra i pochi a votare contro l’intervento, e
da presidente avrebbe posto fine senza rumore all’occupazione americana del paese nel 2011.

Fallimento in Medio Oriente. I talebani in Afghanistan


Mentre gli americani concentravano le proprie attenzioni su un Iraq scollegato dal contesto generale
della Guerra al terrorismo islamico, i talebani penetrarono gradualmente nel territorio afgano. Nel
2003 la Nato assunse la direzione delle forze internazionali da inviare a Kabul, ma i suoi 15.000
effettivi risultarono in ogni caso insufficienti a controllare un paese nel quale i talebani, erano in
grado di spostarsi e nascondersi, compiere improvvisi attacchi sul campo o preparare attentati
terroristici. Mentre questa convergenza di fattori favorevoli rendeva probabile una vittoria dei
talebani, negli Stati Uniti avveniva il passaggio alla nuova presidenza. E Barack Obama, convinto
che l’Afghanistan fosse il nemico giusto, decideva di inviare altri 20.000 soldati americani.
L’Europa a ventisette. E la Russia? (E la Turchia?)

Al contrario di quanto ipotizzato da molti, la fine del secolo americano non aprì la strada a una
posizione di preminenza dell’altro Occidente, l’Europa. In primo luogo per via di un America non
disposta a rinunciare al ruolo di protagonista (attivismo di Bush) sulla scena internazionale. In
secondo luogo perchè l’Europa non era ancora divenuta uno stato federale dotato degli strumenti
istituzionali per agire su base unitaria nei settori che le avrebbero potuto attribuire la leadership
dell’Occidente sul piano internazionale. L’iniziativa rimaneva in mano all’America di Bush mentre
l’Europa non era in grado di dare una risposta omogenea né aderire alla politica d’intervento
americana in Medio Oriente. Gli allargamenti del 2004 e del 2007 portano l’Europa a 27 stati,
(processo di allargamento fu rapido). Mentre il processo verso l’approfondimento avanzava molto
faticosamente, incontrando resistenza da parte di alcuni stati membri. Uno dei momenti chiave
avvenne nel 2002 con il trattato che fissa la Costituzione per l’Europa, un testo costituzionale
comprendente un catalogo di valori e principi comuni (esito negativo, bocciata dai referendum in
Francia e Olanda). Il processo d’integrazione europeao va comunque avanti riscrivendo la
Costituzione nel trattato di riforma dell’Unione firmato a Lisbona nel 2007 (modificare senza
abolire i trattati precedenti). Con un’America impegnata nella sua politica unilaterale e
sostanzialmente fallimentare in Medio Oriente, l’Europa era concentrata sul suo programma di
allargamento dell’Unione che si fermava però in Russia. Fattori politici non fanno della terza Russia
di Putin un candidato ansioso di entrare nell’Ue. Riguardo invece la Turchia il suo ingresso è stato
ostacolato da alcuni membri di primo piano come Gemrani e Francia. L’ingresso della Turchia
sarebbe però un’occasione da non mancare in quanto creerebe un’alleanza tra Islam e Occidente,
fondamentale per combatter il terrorismo.

La Cina e il G2

\n<\/b><\/p>\n<p>L’espansione economica cinese si è


dimostrata tanto preoccupante da far considerare la Repubblica \n<\/p>\n<p>Popolare
l’unico stato capace di contrapporsi oppure di accordarsi al di sopra degli altri con la
\n<\/p>\n<p>superpotenza americana. È da temere l’avvento di
un G2 più adatto a guidare la gestione della \n<\/p>\n<p>società
globale di quanto si siano dimostrate negli anni i G7, G8, G20.
\n<\/p>\n<p><b>5.5. Il nuovo mondo a metà del
guado\n<\/b><\/p>\n<p>Dopo la Guerra Fredda, per più di un
decennio all’Occidente-Stati Uniti venne riservato il compito
\n<\/p>\n<p>di affrontare e risolvere le crisi internazionali del nuovo mondo. Questa
prima fase, che permise \n<\/p>\n<p>all’Occidente di mantenere
l’iniziativa internazionale, fu interrotta l’11 settembre. Esso viene
\n<\/p>\n<p>considerato come il primo di una serie di sviluppi incompiuti ed eventi,
che in forme e collocazioni \n<\/p>\n<p>geografiche diverse si verificarono dopo il
primo decennio del nuovo mondo sconvolgendone \nl’evoluzione e lasciandolo in una
condizione di incompiutezza.

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