Sei sulla pagina 1di 21

RIASSUNTO "CONTROLLARE E DISTRUGGERE" DI CHAPOUTOT

CONTROLLARE E DISTRUGGERE: FASCISMO, NAZISMO E REGIMI AUTORITARI IN EU (1918-45)


Introduzione
La storia contemporanea dell’Europa sembra essere ritmata da tre date determinanti: 1918, 1945, 1989.
1. Nel 1918 quattro democrazie in guerra ( la Francia, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e l’Italia) hanno
la meglio su due imperi: la Germania, che diventa una Repubblica, e l’Austria-Ungheria, di cui
scompare l’impianto sovranazionale. Un terzo impero, quello zarista, alleato dei vincitori, ma
sconfitto dalla Germania, scompare in quanto regime, spazzato via dalla rivoluzione bolscevica del
1917.
2. Nel 1945, la democrazia liberale ha la meglio sul fascismo italiano e il nazionalsocialismo tedesco.
Ne condivide il merito con il comunismo russo che estende la sua egemonia sull’Europa dell’Est,
prima di scomparire tra il 1989 e il 1991.
3. La caduta del muro di Berlino sembra annunciare ciò che viene chiamata “la fine della storia”.
D’ora in avanti la democrazia liberale alleata ad un’antropologia, quella dei diritti dell’uomo, e ad
una pratica politica, quella della rappresentanza e della sovranità del popolo, la fa da padrona.
4.
Le tre date 1918, 1945 e 1989 sembrano scandire l’avvento necessario e trionfante della
democrazia, almeno in Europa. Il XIX secolo europeo ha conosciuto, rispetto ai due millenni
precedenti, un inaudito stravolgimento delle società e delle culture.
L’industrializzazione, l’esodo dalle campagne, l’urbanizzazione, il disincanto del mondo e dell’uomo,
ormai reificato, ma anche, sullo sfondo, la Rivoluzione francese e il suo messaggio, hanno suscitato dubbi
e interrogativi in Europa: gli Stati-nazione che si costruiscono, nel XIX secolo, si rivelano esitanti sulla
natura del legame che li costituisce e sul modo auspicabile di devoluzione del potere.
I democratici celebrano la vittoria del 1918 e i trattati del 1919 come la vittoria di una concezione francese
del legame sociale e del potere politico che, di fatto, si diffonde in ogni nuova costituzione che viene
proclamata fra il 1918 e il 1920:
i nuovi Stati imitano con deferenza le leggi costituzionali del 1875, fondatrici del regime francese della
Terza Repubblica, così come il parlamentarismo britannico.
Ora, la democrazia è lontana dall’aver vinto la guerra: la prima euforia è ingannevole, come dimostra la
reazione antiliberale che ricopre il continente di regimi autoritari e fascisti a partire dal biennio 1921-22.
Il 1940 e poi il 1945 sono passati da qui: sappiamo ciò che il fascismo e il nazionalismo, fiancheggiati dai
loro amici e alleati autoritari, hanno inflitto all’umanità.

Contrariamente ad una democrazia liberale poco adatta a rinnovarsi, e fondata su postulati razionalisti e
umanisti brutalmente invecchiati dall’esperienza del 1914-18, fascismo, nazismo e altri regimi autoritari si
sono confrontati con determinazione con i problemi posti dal XIX secolo e con quelli lasciati in eredità
dalla Grande Guerra ( il legame sociale, il potere e la sua modalità di devoluzione). I nuovi regimi, il
bolscevismo e il fascismo, che hanno fatto la loro comparsa tra il 1917 e il 1922, prendono atto della
guerra e si confrontano con la sua eredità.
Rifiutando il primo e imitando parzialmente e prudentemente il secondo, vedono la luce anche alcuni
regimi autoritari che danno vita ad una terza via, né liberale né rivoluzionaria, fondandosi su un progetto
nazional-cattolico.
Quest’ultimo, pur distinguendosi dal fascismo, ha in comune con esso la pratica dittatoriale, rivendicata e
assunta del potere.
La nozione di dittatura è stata oggetto di un saggio apparso nel 1921, redatto dal giurista tedesco
Schmitt, universitario nazional-conservatore che aderirà opportunamente al nazismo dopo il 1933.
In questo saggio, divenuto un classico della riflessione giuridica e politica, Schmitt ricorda l’etimologia
della parola e cita un adagio latino: Dictator est qui dictat.
Il dittatore è colui che dice, colui che detta, colui che, dopo la sua presa di potere, è l’unico a parlare.
Concepita, durante la Repubblica romana, come un periodo di sospensione del diritto comune, la dittatura
designa, per estensione, ogni forma di esercizio del potere in cui parla uno solo: un’autocrazia senza
1
eredità né diritto divino, in sostanza, la monarchia di un XX secolo privata degli antichi fondamenti del
potere, Dio e la Tradizione.

Essendo ormai l’unico a parlare, il dittatore, che detta e impone, mette fine ai dibattiti del parlamentarismo
del XIX secolo, contestati dalla critica controrivoluzionaria del XIX secolo in poi e resi ancora più
insopportabili dal ricordo delle trincee.
Il ricordo dei commilitoni scomparsi sarà costantemente messo in contrapposizione, soprattutto da parte
dei fascisti, al rivoltante chiacchiericcio dei parlamenti. Il monologo del dittatore pretende dunque di porre
fine al dialogo, il soliloquio autoritario fa cessare il colloquio della ragioni: la dittatura ha preso atto
dell’ingresso delle masse nella politica, ma solo per ridurle a l'univocità dell’approvazione chiassosa
. Le masse devono essere ricondotte alla ragione e addomesticate, perché cessino la divisione e la
dispersione.

Non si può parlare del XX secolo senza prima fare riferimento alle trasformazioni politiche, sociali e
culturali del XIX secolo europeo e dei traumi della Grande Guerra.
Gli anni Venti del Novecento furono segnati dalla crisi della democrazia e dall’insediamento di regimi ad
essa concorrenziali.
Negli anni Trenta e Quaranta del Novecento ci furono invece le esperienze politiche concrete, escludendo
i Paesi Bassi e il Belgio che hanno conosciuto l’occupazione, senza trascurare i regimi animati da
un’ambizione autoritaria, un progetto di società appropriata e un’autonomia relativa, come fu il caso della
Francia di Vichy.

PARTE PRIMA: LE DOMANDE POSTE DALLA MODERNITA’ ( XIX) SECOLO


La storia del XIX secolo è poco conosciuta per il fatto di trovarsi tra due eventi importanti come la
Rivoluzione Francese e la Prima Guerra Mondiale.
Chapoutot non cerca in questo secolo le cause dei fascismi bensì le condizioni che hanno fatto sì che si
potessero sviluppare.

I. Il fatto nazionale
La questione dei nazionalismi, che a fine Ottocento otterrà la sua piena tradizionalizzazione, è dovuta
passare dall’opposizione, nascendo come movimento di sinistra per poi spostarsi a destra.Se a fine
Settecento l’idea di nazione ( entità giuridica dotata della facoltà di determinarsi liberamente) e di popolo
sovrano sono sovrapponibili, dal 1815 le pretese di nazionalismo e sovranità del popolo sono
ridimensionate dall’operato del Congresso di Vienna, che vuole ristabilire il potere per diritto divino.
La nazionalizzazione si fonda su una scolarizzazione e una costruzione di un’alterità con il nemico che è
ereditaria tanto quanto i tratti culturali. La nazionalizzazione delle masse, come teorizza Mosse, passa per
l’estetica della politica e dalla creazione di una serie di miti e riti per il territorio nazionale.
La soluzione di sinistra propende, invece, all’internazionalismo, individuando nella lotta tra classi il vero
conflitto, mentre quello tra nazioni sarebbe ordito dalla borghesia per sedare gli animi degli operai.

2. La rivoluzione industriale
La rivoluzione industriale sancisce un nuovo modo di lavorare insieme, vigilato e sottoposto ad un
controllo poliziesco molto severo: è in questi anni che si comincia a concepire la classe operaia come
pericolosa.
Parallelamente alla diffusione della rivoluzione industriale si deve registrare il boom demografico delle
metropoli europee; le condizioni di vita e di lavoro degli operai nelle megalopoli rasentano l’incredibile: con
esse aumentano anche le tensioni sociali.
Lo stato del periodo è decisamente liberista, favorendo una naturale competizione che avvantaggia i più
forti e lascia a sé stessi i più deboli: è significativo il fatto che il numero di suicidi aumenti contestualmente
all’aumentare della popolazione urbana.
Prima della rivoluzione le società erano Gemeinschaft, ossia basate su legami affettivi tra i facenti parte;
ora le società sono Gesellschaft, cioè libere associazioni senza vincoli emozionali.
2
In questo contesto di difficile coesistenza sociale, Marx colloca ciò che egli definisce lotta di classe ( una
lotta transnazionale) e unisce i proletari di tutto il mondo contro i padroni capitalisti.

3. L’avvenire della scienza: la ragione e i suoi doppi


Il 18 secolo gode di una concezione del tempo definita teleologia del progresso, in
contrapposizione con il Medioevo e in continuità col secolo dei Lumi; questo secolo può essere
considerato un secolo di fede escatologica, come dice Hegel, il quale voleva riconciliare la ragione con il
tempo, il pensiero con il divenire, la perennità con la transitorietà.
Lo spirito nel tempo accede alla pura conoscenza di se stesso. Per Hegel, come per tutti i filosofi della
storia, il divenire umano è retto dalla necessità.
Nel XX secolo l’idea della necessità rimarrà, ma si perderà la componente ottimistica
tipica dell’Illuminismo; solo Comte e Hugo mantengono una speranza positivistica della storia. La
concezione ottimistica verrà scossa dalla Prima Guerra Mondiale.
Il XIX secolo è anche il secolo della disaffezione a Dio: la chiesa, d’altronde, si schiera con tutte le
componenti di reazione e oppressione; anche la religione protestante si caratterizza per l’obbedienza
politica. Il declino della fortuna della religione è dovuto anche alle teorie scientifiche che prendono piede
nel sistema scolastico.

Il Romanticismo nasce come fenomeno reazionario all’Illuminismo: all’universalità del cittadino illuminista
Fichte contrappone la particolarità e l’autenticità dell’uomo tedesco ( a questo proposito sottolinea la
differenza tra uomo, particolare, e cittadino, universale).
De Maistre sottolinea il razionalismo incorporeo dei principi della Rivoluzione Francese: egli afferma che
forse il codice civile era adatto al popolo francese ma di certo non lo era per gli altri popoli europei.
Il XIX secolo vede la nascita del razzismo scientifico: l’opera di classificazione di esseri umani si pone in
continuità con la classificazione degli animali illuminista.

Marx, Nietzsche e Freud sono d’accordo nel ritenere che la ragione illuminista non sia ciò che pretende di
essere: la ragione, fondante delle teorie illuministe, non è nulla al cospetto di forze più potenti.
Sternhell sottolinea come la nascita dei fascismi non va ricercata nel 1914 ma nel sostrato culturale del
XIX secolo; bisogna però ricordare che nella creazione definitiva di questi totalitarismi l’esperienza delle
trincee gioca un ruolo determinante.

CAPITOLO 2 TEMPESTE D’ACCIAIO: LA GRANDE GUERRA


I. Mobilitazione totale, guerra totale
La rivoluzione francese ha inaugurato l’ingresso delle masse nella politica. Uno dei fatti salienti del mondo
contemporaneo ( 1789) è la massificazione del fenomeno guerriero. A partire dall’introduzione della
coscrizione, la guerra è diventata affare di tutti e di ognuno, e non più solamente dei governi, delle truppe
professioniste o dei mercenari.
La guerra assume sin da allora un inedito carattere partecipativo, che rende più grave la posta in gioco:
ciò che è in ballo ormai è la fierezza di un popolo quanto popolo e non più i territori di qualche sovrano.
Inoltre in un’epoca in cui l’accesso al servizio militare equivaleva a un certificato di virilità e il fatto di
portare un’uniforme significa prestigio, il coinvolgimento del cittadino è proporzionato allo statuto
conferitogli dalla qualità di soldato.
Il coinvolgimento collettivo nell’azione guerriera è tale che ogni arretramento diventa difficile. Il livello di
violenza progredisce così per gradi verso un fenomeno di radicalizzazione cumulativa sfociato nelle grandi
carneficine della prima guerra mondiale, in attesa dei bombardamenti a tappeto, poi nucleari, della
seconda.

La Grande Guerra è stata una guerra di massa. Ha rappresentato per 66 milioni di mobilitati,
un’esperienza di violenza quotidiana.

3
La Grande Guerra fu inoltre un conflitto di apparati industriali. Occorreva una logistica di produzione e
approvvigionamento eccezionali per fabbricare e inviare cannoni, fucili, mortai, munizioni, uniformi e cibo
ai combattenti al fronte.
La Grande Guerra inaugura così un’indifferenziazione crescente tra il fronte e le retrovie: la distinzione tra
civili e militari si dissolve a causa non solo della mobilitazione economica, ma anche per il tipo di armi e di
tattiche adottate.
L’uso del gas da combattimento non permette di orientare con precisione una nube di gas verso un
obiettivo strettamente militare. Del resto la pratica del bombardamento non mira soltanto alle trincee
avversarie: bombardare città del nemico non è più una pratica occasionale, ma un uso che tende a
diventare comune.
Infine, il timore dei franchi tiratori della guerra del 1870 induce lo stato maggiore tedesco a mettere in atto
due rappresaglie contro la popolazione civile del Belgio e del nord della Francia al minimo sospetto di
porto d’armi: agli occhi degli strateghi la distinzione tra civile e militare non ha più nulla di evidente.
Tutto ciò induce i contemporanei a parlare di “mobilitazione totale”: non è più soltanto la totalità degli
uomini validi che è chiamata a combattere, ma anche il resto della popolazione.

2. L’esperienza della violenza e della morte di massa


Aldilà dell’aspetto quantitativo è necessario interessarsi all’aspetto qualitativo di questa morte di massa.
Durante quattro anni, decine di migliaia di uomini saranno brutalizzati nel duplice significato del termine:
lesi nella loro psiche e colpiti nei loro corpi, ma verranno trasformati in bruti, esseri violenti, indotti a
uccidere da uno Stato che ha delegato loro, secondo l’espressione di Weber, il monopolio della violenza
psichica legittima.
Per oltre quattro anni la violenza non è più bandita o proscritta, ma valorizzata e incoraggiata. Tale
violenza è stata oggetto di un’adesione, di un consenso costruito da una “cultura di guerra”.
La grande guerra è stata il teatro di una larga mobilitazione degli animi. Gli intellettuali hanno
fortemente contribuito alla mobilitazione culturale, accreditando con il loro nome e la loro reputazione la
costruzione, fondamentale per una cultura di guerra, di una figura del nemico sufficientemente ripugnante
e terrificante per suscitare ardore in battaglia.
La Grande Guerra ha portato all’apogeo la squalificazione del nemico, trasformato contemporaneamente
in bestia, barbaro e diavolo.
La costruzione della figura del nemico e il significato escatologico del conflitto permettono questo
assenso dei combattimenti alla violenza. Tale adesione, prodotta da un sistema scolastico che aveva
predisposto questi quadri interpretativi e da una cultura nazionalista che aveva accuratamente
alimentato la dialettica amico/nemico, è imprescindibile per capire come 70 milioni di uomini poterono
uccidere, ferire, odiare e sopportare condizioni di vita disumane.
Non si può comprendere questo fenomeno inaudito della morte, della sofferenza di massa richiamandosi
al semplice concetto di costrizione.
Oltre a questa condizione primitiva di un’esistenza pericolosa, i combattenti della Grande Guerra
hanno fatto l’esperienza massiccia di una coesistenza quasi permanente con la morte. Il morto è ormai
solo un oggetto banale e la morte arriva così spesso che non è più un evento.
I combattenti notano la loro indifferenza nel vedere un altro crollare al suolo: ciò che prima della guerra
dava luogo al rito e al lutto ora viene appena notato. Allo stesso modo ci si chiede come, dopo quattro
anni di familiarità con la violenza, l’orrore e il macabro, una società pacificata potesse ragionevolmente
emergere in Europa e se si potesse davvero, con un tratto di penna e alcune decine di pagine dei
trattati, porre fine ad una guerra simile.

Proprio per la sua durata, per la sua persistenza e per il suo carattere estremo, la prima guerra mondiale
ha inciso in maniera duratura sulla società e sulle culture, sino a divenire l’esempio della guerra in sé.
In queste condizioni estreme i combattenti della Grande Guerra hanno scoperto l’importanza del gruppo e
fatto l’esperienza di ciò che il ricordo esalterà, dopo la guerra, sotto il nome di “solidarietà delle trincee”.
Numerosi sono gli ex combattenti ad aver esaltato la fraternità delle armi, forgiata nell’avversità e
nell’orrore: una fusione di individui ormai agglomerati dal fuoco nemico.
4
Il ritorno alla vita civile, la difficoltà per gli ex combattenti di ritornare ad una società pacificata,
indurrà molti, dopo il 1919, a celebrare la guerra ad ogni costo e a cercare di ritrovare, in diverse
organizzazioni paramilitari, quello stesso sentimento di appartenenza sperimentato nel fango e nel fuoco
dei combattimenti.
Il caso di Hitler da questo punto di vista non è un’eccezione.
Hitler ha sopportato, sofferto e vissuto la paura e le ferite del combattente medio. La costruzione di un
partito nazionalista, bellicista e paramilitare fu un mezzo per lui e per molti dei suoi simili per ritrovare, in
un mondo civile a loro ormai estraneo, questa comunità del combattimento.

3. Disagio della civiltà


La condizione dell’Europa nel 1919 è di completa siderazione e disincanto. Il bilancio di questo
scontro è disastroso. Anche in questo caso le cifre ci danno solo una pallida idea dell’inverosimile
spreco umano, materiale e culturale.
Bismark, dopo aver fatto fuoco e fiamme per costruire l’unità tedesca, temeva sopra ogni altra cosa una
guerra europea e aveva fatto di tutto per orientare le ambizioni, le energie e i rancori delle nazioni europee
verso la valvola di sfogo della colonizzazione.
Ciò di cui aveva timore si era verificato: l’Europa, sotto gli occhi degli Stati Uniti e delle colonie, si era
inflitta ferite mortali.
Con i suoi 10 milioni di morti, essenzialmente uomini giovani, l’Europa è un continente spopolato e
devastato. Le nazioni europee si sono notevolmente indebitate verso una nuova potenza militare e
finanziaria, gli Stati Uniti. Indebolita dalla guerra, l’Europa deve inoltre fronteggiare le prime serie
rivendicazioni di emancipazione che provengono dalle colonie e vede messo in discussione il suo dominio
sul mondo.
Si capisce come in queste condizioni l’Europa sia attanagliata da un’angoscia tenace, che avrebbe
fortemente segnato il periodo tra le due guerre.

CAPITOLO 3 PACE MANCATA E BRUTALIZZAZIONE: UN PERIODO TRA LE DUE GUERRE?


Come fare la pace?
Tra le nazioni la cosa si rivela ardua, come dimostrano le disposizioni, accettate molto mal volentieri, dei
trattati di pace firmati nella periferia parigina tra il 1919 e il 1920.
Fare la pace è anche mentalmente difficile: quattro anni di guerra, di familiarità con la morte, di pratica
della violenza non si possono cancellare con un decreto.
L’uscita dell’Europa dalla guerra si rivela subito complessa. Un solo uomo sembra voler credere al ritorno
incontestabile e definitivo della pace in Europa: si tratta del papa Pio XI che una volta eletto, nella sua
prima enciclica del 23 dicembre 1922 fa una constatazione lucida e disincantata della situazione europea.

I. Conquistare la pace?
L’11 novembre 1918, dopo i colloqui iniziati su richiesta del comando tedesco, si conclude l’armistizio.
Vincere la guerra non era tutto. Secondo la celebre frase del Tigre, rimaneva da “conquistare la pace”:
il trattato a venire sarebbe dunque stato una prosecuzione della guerra con altri mezzi.
I 14 Punti, resi pubblici nel gennaio del 1918, portano il segno dell’ispirazione razionalista. Le
disposizioni principali del programma di pace sono scaturite direttamente dalla riflessione dell’Illuminismo:
il diritto dei popoli di disporre di loro stessi, una diplomazia pubblica, la libertà dei mari e la fine del
protezionismo, la riduzione degli armamenti, la costituzione di una società delle Nazioni.
Wilson rifiuta di riconoscere il trattato segreto di Londra, che nel 1915 aveva concesso all’Italia dei futuri
premi territoriali.
I 14 Punti importano poco al presidente del Consiglio francese, che non intende farsi rubare una pace
conquistata a così caro prezzo. Colpito dalla guerra del 1870, afflitto dalle distruzioni e dalle perdite
umane della Grande Guerra, Clemenceau è preoccupato di una sola cosa: far pagare la Germania e
sottrarre a questo paese ogni mezzo per nuocere alla Francia.
Il trattato firmato il 28 giugno 1919 nella Galleria degli Specchi del castello di Versailles è greve di
disaccordi attuali e scontri futuri. Il caso italiano si segnala subito per la sua specificità di vincitore della
5
guerra uscito sconfitto dalla pace. In occasione del congresso di Versailles, Wilson rifiuta di riconoscere
questi accordi segreti che ritiene contradditori rispetto ai principi di pubblicità diplomatica dei 14 Punti.
Del resto non vuole danneggiare la Serbia, Stato vincitore.
Il presidente del Consiglio italiano, Orlando, non riesce ad imporre gli obiettivi di guerra del proprio
paese. Conclusi i trattati del 1919-1920, l’Italia non ottiene né colonie né riparazioni, né le terre irredente
della costa dalmata. L’Italia si ritiene assai mal ricompensata per i suoi 750.000 morti e i suoi durissimi
combattimenti. Il tema della “vittoria mutilata” mette radici nella stampa e nel discorso politico.
Nei confronti delle disposizioni dei trattati cresce una violenta reazione presso i soldati smobilitati, che
riprendono servizio negli Arditi d’Italia, organizzazione paramilitare.
Gli Arditi, guidati dal poeta e aviatore D’Annunzio, prendono d’assalto la città di Fiume il 12 settembre
1919 e creano uno Stato libero.

Quanto alla Germania, stando al trattato, essa non è più una grande potenza. La Germania è stata
esclusa dalle discussioni quadripartitiche della conferenza di pace.
Tra gennaio e maggio 1919 il governo tedesco è stato uno spettatore tenuto all’oscuro del proprio destino.
Il cancelliere socialdemocratico Scheidemann si indigna per le iniquità delle sue disposizioni.
Il 16 giugno gli alleati intimano un ultimatum: si esige una firma entro 5 giorni, pena la ripresa delle
ostilità. In queste condizioni il trattato può essere vissuto solo come un diktat.
Le disposizioni del trattato portano il segno di Clemenceau e mirano a far scomparire la Germania
come grande potenza. La Germania è umiliata dalla perdita del 15 % del suo territorio e di 6 milioni dei
propri abitanti; dal divieto di possedere un esercito superiore a 100.000 uomini, privo di aviazione, marina
e armamento pesante; dal divieto di unirsi con l’Austria; dall’articolo 231 del trattato che impone il
regolamento delle riparazioni, il cui ammontare, non ancora fissato, si annuncia esorbitante.
La Repubblica di Weimar, prima democrazia parlamentare tedesca, la cui Costituzione viene
adottata il 31 luglio 1919 in queste circostanze, non si riprenderà più dall’essere associata a una pace
percepita come ignominiosa. L’assenso ad un trattato così drastico è impossibile.

2. La guerra continua
Di fatto in Europa la guerra prosegue. Sulla costa dalmata si combatte sino a dicembre del 1920. In
Russia gli alleati intervengono contro i bolscevichi. In Germania il governo è ufficialmente in pace, ma
il suo esercito non rifiuta il sostegno logistico e diverse compiacenze materiali ai Freikorps che
continuano la guerra all’Est sino al 1921.
I Freikorps sono composti da soldati smobilitati poco disposti ad adattarsi ad una vita civile. Tollerati, e
talora impiegati dal governo, i Freikorps combattono, con il sostegno degli Alleati, i bolscevichi nei paesi
baltici. Combattono anche nell’Alta Slesia sino all’ottobre del 1921 per evitare che la regione venga
assegnata a una Polonia appena ricostituita.
Nonostante questi combattimenti gli Alleati decidono di ricongiungere la regione alla Polonia. In
Turchia il trattato di Sèvres scatena una reazione nazionalista: un colpo di stato militare rovescia il
sultano, che aveva acconsentito a condizioni estremamente dure, in particolare alla perdita di tutta la
Turchia europea, fatta eccezione per Istanbul. Il nuovo regime, instaurato da Kemal, conduce una guerra
sanguinosa contro la Grecia tra il 1920 e il 1922.

Frustrata dalla sua vittoria mutilata, l’Italia va incontro a difficoltà di riconversione economica e sociale
della pace. Lo Stato rimane fedele ad un’impostazione liberale classica e rifiuta di intervenire per aiutare
le imprese in difficoltà. Si costituiscono dei consigli operai, che talora occupano le fabbriche e rivendicano
l'autogestione dei mezzi di produzione. Nelle campagne i giornalieri e i contadini non proprietari occupano
le terre.
Di fronte a questi attentati al diritto di proprietà, gli agrari e gli industriali danno vita a due nuovi
organizzazioni, la Confagricoltura e la Confindustria, sindacati padronali.
Vengono arruolate delle milizie private e il ricorso alle milizie fasciste, gli squadristi, è frequente.

6
A più riprese la Germania è un luogo di aperti scontri tra il novembre 1918 e il novembre del 1923. Il 1
novembre si formano dei consigli dei soldati sul modello bolscevico, ai quali si uniscono gli operai.
Il 5 novembre i segretari di Stato socialdemocratici chiedono l’abdicazione del Kaiser, che diviene
effettiva il 9. L’esercito approva che il socialdemocratico Ebert diventi cancelliere e il 10 novembre gli
propone un’alleanza: di fronte alla minaccia rivoluzionaria, l’esercito accetta di tollerare un governo
formato da parlamentari socialisti.
In cambio il governo di Ebert combatterà ogni massimalismo bolscevico proveniente dalla fazione
minoritaria, detta spartachista.
Gli spartachisti escono dal governo il 25 dicembre 1918. Il 13 gennaio 1919 dopo “una settimana di
sangue” la rivoluzione spartachista finisce. Nel frattempo si organizzano le elezioni per la Costituente.
L’assemblea si riunisce il 6 febbraio a Weimar. La costituzione, profondamente liberale e democratica,
viene adottata il 31 luglio 1919.
Questa repubblica che soffre a destra per la macchia di Versailles, soffre all’estrema sinistra per la
settimana di sangue a Berlino. Con l’adozione della Costituzione, la Germania non ha finito con i disordini
civili, che proseguono sino al 1923.

3. “La brutalizzazione delle società europee”


L’Europa ha conosciuto, durante quattro anni, un’assuefazione alla morte di massa e alla violenza. La
Grande Guerra ha generato una brutalizzazione della cultura europea. Il dialogo delle ragioni che
dovrebbe segnare il ritorno alla pace, cede di fronte al monologo della forza.
Per quattro anni gli Stati hanno delegato l’esercizio di questa violenza ai soldati mobilitati. Era ben poco
realista pensare che questa liberazione della violenza potesse essere tenuta immediatamente a freno. Ciò
è particolarmente vero tanto nei paesi che hanno motivi di risentimento verso la pace, che ne contestano
l’iniquità, quanto negli altri.
A partire dalla questione del lutto e del culto dei morti caduti in combattimento, come la violenza della
guerra e la morte del combattente siano stati oggetto di un duplice movimento di banalizzazione e
magnificazione.
La morte del guerriero è banalizzata da una cultura di guerra che la nobilita, la rende desiderabile e
ne giustifica l’occorrenza. Se la pacificazione si verifica subito in Francia, paese vincitore e, pur in lutto, la
brutalizzazione è visibile nell’aperta violenza che travolge la vita politica italiana o tedesca.
La brutalizzazione è anche leggibile nella retorica e nell’iconografia dello scontro politico.
I manifesti elettorali che costituiscono l’universo iconografico della repubblica di Weimar sono segnati
da un’accentuata bellicosità. I manifesti mostrano la minaccia terrificante dell’altro, in cui dominano le
armi, il braccio alzato, l’incendio e la morte. Il canto politico e partigiano esorta a sua volta alla lotta e alla
guerra. In questo contesto di persistenza memoriale, non stupisce vedere i diversi partiti politici dotarsi di
milizie in uniforme e armate.

In Italia, come in Germania, la sofferenza delle trincee e onorevole e legittima. I partiti nazionalisti, partiti
della rivincita nutriti dal rancore suscitato dalle false sconfitte ( Germania) e dalle false vittoria ( Italia),
fanno proseliti negli ambienti degli ex combattenti.
Gli smobilitati ridotti alla disoccupazione, al vagabondaggio, si ritrovano nelle consuetudini, nelle uniformi
e nei discorsi del partito che offrono loro una fierezza, un capo, un senso, così come un nuovo nemico. La
brutalizzazione delle società europee è in effetti incoraggiata e alimentata dall’emergenza di una nuova
alterità percepita come ostile. Si constata che, a partire dal 1918, prende piede in Europa una nuova
situazione di stato di guerra contro un nemico nuovo, la rivoluzione bolscevica.

I governi francesi e inglesi temono il potere bolscevico e inviano truppe per sostenere i Russi bianchi sin
dall’agosto del 1918. Dal punto di vista diplomatico, si impone la strategia del “cordone sanitario”
elaborata da Foch: alcuni Stati-cuscinetto dovranno isolare la Russia dall’Europa occidentale.
L’indipendenza dei paesi baltici e della Finlandia è confermata, e la Francia aiuta la Polonia nella sua
guerra contro la Russia. Aldilà di queste operazioni, è una vera e propria cultura di guerra antibolscevica

7
che si radica nell’Europa occidentale. Il bolscevico, stigmatizzato in un’essenza barbara e ostile, diventa
una figura violentemente repulsiva per i nazionalisti e per i conservatori di ogni schieramento.

UNA DEMOCRAZIA OBSOLETA?1918, VITTORIA DELLA DEMOCRAZIA?


La vittoria del 1918 e la pace del 1919, identificate con le due figure di Clemenceau e di Wilson, sono
celebrate come la vittoria del diritto sul fatto e della democrazia sull’autocrazia.

I. L’ordalia del 1918, i problemi degli anni Venti


Nel 1913 un deputato socialista, Sembat, redige un libello intitolato “Faites un roi, sinon faites la pax”.
Per scongiurare la prospettiva di una prossima guerra, Sembat usa l’argomento caro ai nemici della
Repubblica: la democrazia liberale francese è incapace di sostenere una guerra contro le monarchie
coalizzate. I regimi autoritari sembrano meglio attrezzati per la guerra, quasi fossero impostati per essa.
Di fronte a ciò, la Repubblica o la monarchia parlamentare, con i loro dibattiti pubblici, la loro cultura
del dialogo, sembrano essere sfavorite.
Di fatto, durante la guerra, la pratica della democrazia parlamentare subirà di conseguenza un
aggiornamento.
In Francia, in particolare, le relazioni fra potere esecutivo e potere legislativo vengono riformate sin
dall’agosto del 1914. Il Parlamento acconsente che almeno in campo economico il governo legiferi tramite
decreto legge. Un decreto legge è si un decreto, dunque un atto regolamentare preso dall’esecutivo che
dovrebbe avere la validità e la forza esecutiva di una legge, ma senza essere stato votato dal Parlamento.
Praticato frequentemente in Francia tra il 1914 e il 1919, il decreto legge riappare negli anni Venti sino a
diventare, da eccezione che era, un metodo comune di governo. Innovazione francese, il decreto legge
ispira i costituenti tedeschi del 1919, poiché l’articolo 48 della costituzione di Weimar permette al
presidente del Reich di legiferare in casi di urgenza senza consultare il Parlamento.

Anche qui, l’eccezionalità diventa un diritto comune. Allo stesso modo, nominato presidente del Consiglio
nell’ottobre del 1922, Mussolini si affretta a far votare dal Parlamento un’abilitazione a governare per
mezzo di decreti-legge.
Se la democrazia sembra uscire vittoriosa dalla Grande Guerra, si tratterà comunque di una democrazia
modificata. Sin dal 1914 la guerra è stata presentata come una guerra del diritto contro l’ingiustizia.
Innumerevoli sono i testi che provano il carattere ordalico assegnato allo scontro tra la Triplice e la Tripla
Intesa: da un lato gli imperi autoritari, dall’altro le democrazia britanniche e francesi alleate, peraltro, con
l’autocrazia russa. La vittoria consacra la democrazia: l’impero russo non c’è più, lo zar è stato rovesciato.
Gli imperi centrali sono sconfitti: la Germania è afflitta dal trattato di Versailles mentre l’impero
austro-ungarico molto semplicemente si dissolve.

Se nel 1914 si contavano tre repubbliche, nel 1918 se ne contano 13.


La fine della Grande Guerra è una sorta di 1792 su scala continentale: ovunque viene introdotto
il suffragio universale maschile, vengono adottate delle costituzioni, eletti dei parlamenti.
La vittoria del principio democratico è visibile dal punto di vista sia interno sia esterno. È una nuova
concezione delle relazioni internazionali quella che sembra trionfare.
Il presidente degli Stati Uniti Wilson ha stilato i 14 Punti ed è nel 1919 che viene creata la Società delle
Nazioni, parlamento degli Stati, che dovrebbe evitare il ricorso allo scontro diretto.

La Società delle Nazioni, sorta di democrazia delle democrazie, avrebbe coronato l’edificio dei Lumi
nazionali e internazionali. Ora le democrazie liberali si fondano sugli stessi postulati del XIX secolo.
Questi postulati ottimisti e razionalisti: sono un tutt’uno: il primato della ragione e del dialogo razionale, la
ricerca del compromesso, la fondamentale buona volontà dell’uomo.
Con la crisi del racconto razionalista e ottimista, dopo la carneficina della guerra: è dunque il terreno
che viene a mancare alla democrazia nazionale o internazionale: il dialogo delle ragioni è stato
soppiantato dal monologo della forza, la ricerca del compromesso è scomparsa nella scia di coloro che
hanno fatto sloggiare il nemico dalle trincee.
8
Il tragico fallimento di una Società delle Nazioni nata morta, minata dall’isolazionismo americano e dalla
messa in quarantena della Russia bolscevica e della Germania, testimonia il naufragio degli ideali
dell’Illuminismo.
La società delle nazioni nata dal trattato di Versailles appare ai tedeschi e agli austriaci come la garante
di una pace imposta che non è stata né discussa né accettata e che viola i principi sui quali dovrebbe
basarsi: l’interdizione dell’Anschluss, pur auspicata dal governo austriaco, contraddice apertamente il
diritto dei popoli di disporre di se stessi.

L’ammissione della Germania, la messa fuori legge della guerra, portano per un breve momento
all’apice il progetto kantiano-wilsoniano, prima che la recessione economica e un ritorno al bellicismo
vengano a far ammainare le speranze ( aggressione italiana in Europa, guerra civile spagnola). Le
condizioni economiche non sono migliori.
Si è soliti opporre alla crescita degli anni ‘20 la grave recessione degli anni ‘30. Ma se il recupero
degli anni ‘20 è notevole e fortemente in contrasto con la depressione degli anni ‘30, un’altra visione si
impone quando si considera una cronologia di più lunga durata.
Se il periodo 1884-1914 fu segnato piuttosto da una crescita globale della produzione industriale e
agricola, il periodo 1914-1944, anche nel momento migliore dei folli anni ‘20, gli indici di produzione
riescono al massimo ad uguagliare i livelli del 1913. Questa recessione è gravida di conseguenze.
L’impotenza dei democratici di fronte a un contesto recessivo porta con sé una forte disaffezione nei
confronti dei regimi che non sanno far fronte all’impoverimento dei loro cittadini.

La Grande Depressione successiva alla crisi del 1929 provoca una grave disaffezione nei confronti delle
democrazie che sembrano decisamente impreparate in materia di economia politica.
Si innesca il ciclo depressivo che provoca la caduta della produzione e il calo del potere d’acquisto in un
circolo vizioso che gli Stati non riescono a spezzare in alcun modo.
I democratici restano legati ad una concezione ortodossa e classica delle finanze pubbliche che ripudia
sin dal 1925 la professione di fede liberale per commissionare grandi opere che dovrebbero favorire la
creazione di lavoro e di ricchezza ( Mussolini invece ne rappresenterà un esempio lampante, dal
momento che sarà il primo a volere l’intervento dello Stato nell’economia in questo senso).

A partire dal XIX secolo tutti concordano circa una concezione minimalista dello Stato, che deve limitarsi a
garantire l’ordine interno e la sicurezza delle frontiere. Ora economisti e uomini politici restano
ostinatamente fedeli ad una concezione delle finanze pubbliche in fondo assai privata: il bilancio dello
stato deve essere gestito come quello di casa.
Ogni deficit è essenzialmente negativo, ogni eccedenza è benvenuta. In virtù del difficile contesto
economico e di disposizioni costituzionali insufficienti ad assicurare la continuità dell’esecutivo, gli anni
1919-1939 sono segnati, nei regimi democratici, da una forte instabilità ministeriale.

I governi cadono, i gabinetti trattano gli affari correnti, i cittadini sono sgomenti e prestano un ascolto
sempre più attento ai demagoghi di ogni risma che condannano senza appello lo spreco e il circo
parlamentari.
Il prestigio della democrazia è dunque gravemente intaccato dall’instabilità politica e dall’impotenza
economica. La democrazia è “incapace di conquistare le simpatie delle masse”. L’immagine è
significativa: la democrazia incarnata dagli uomini di ieri che conducevano le lotte dell’altro ieri, sembra
colpita dall’obsolescenza e dalla desuetudine quanto gli abiti civili lisi ma curati dei suoi governi.
La Grande Guerra ha messo fine a tutto ciò, sostituendo al completo dell’avvocato e del professore
radical-socialista l’uniforme paramilitare del veterano aggregato a movimenti fascisti che impongono
un’immagine di modernità.

2. La crisi della democrazia italiana e l’insediamento del regime fascista ( 1918-1926)


In Italia la democrazia liberale è in crisi. Il regime non gode del credito di una vittoria senza macchia,
come in Francia. La “vittoria mutilata” non rafforza il regime. Orlando cade nel giugno 1919.
9
Il suo successore, Nitti, estende, in previsione del rinnovamento delle assemblee, il diritto di voto:
la riforma elettorale del 1919 instaura il suffragio universale maschile, ma reintroduce il sistema
proporzionale di lista, che comporta un rischio di frammentazione della rappresentanza nazionale italiana.

Di fatto, l’assemblea elettorale nel novembre del 1919 è divisa in dieci partiti. I più forti sono: il partito
socialista e il partito popolare italiano.
Questa configurazione parlamentare è preoccupante per il regime, in quanto il PSI adotta, sotto l’influenza
della rivoluzione russa, una retorica massimalista in contrasto con lo statuto sociale dei suoi quadri. Il PSI
risolve la contraddizione attraverso la scissione del congresso di Livorno che, nel gennaio 1921, fa
nascere il partito comunista italiano.

Quanto al partito popolare di Don Sturzo, esso si oppone alla tradizione laica incarnata da Giolitti, che non
ne ottiene il sostegno.
I gabinetti ministeriali si basano sin da allora su coalizioni fragili: sette governi si succedono in cinque
anni, da ottobre 1917 a ottobre 1922.
La classe politica si è scarsamente rinnovata: in campo economico il consenso liberale vieta ogni
intervento dello stato per aiutare le imprese in difficoltà di riconversione; in campo politico lo Stato italiano
dà prova di uno stupefacente liberalismo nei confronti delle agitazioni e delle violenze fasciste.

Il simbolo di questa inerzia è Giolitti. Nel giugno 1920, a 78 anni, torna per dirigere il governo. A questo
alto funzionario, ispettore delle Finanze, succede Facta.
Né lui, né Giolitti, né Nitti hanno combattuto durante la prima guerra mondiale e non sono particolarmente
giovani. Privi dell’esperienza del fronte, restano fedeli a un modo di pensare e di praticare la politica che è
divenuto estraneo agli ex soldati e ai nazionalisti che si uniscono ai ranghi fascisti.
Giolitti pensa così di poter lavorare in buona intesa con i fascisti di Mussolini, di cui facilita l’accesso al
potere: non a caso prenderà le distanze dal nuovo regime solo nel 1928, allorché Mussolini
scioglierà definitivamente il Parlamento.
A partire dal 1919, in effetti, un nuovo attore è apparso nella vita politica italiana. Il fenomeno non è solo
tipico dell’Italia: ovunque in Europa si costituiscono dei movimenti di ex combattenti che sono tornati dalla
Grande Guerra con una visione peculiare della città, dei rapporti sociali.

Il 23 marzo 1919 Mussolini riunisce ex Arditi, sindacalisti e futuristi per creare i Fasci italiani di
combattimento. Il movimento raccoglie tutti coloro la cui fiducia nell’umanesimo e nella ragione è stata
scossa dall’esperienza della guerra e che reputano superata la democrazia liberale.
Delusi dalla pace, a disagio nella società del dopoguerra, i membri dei Fasci non sanno più che fare
della loro violenza.
La deriva elettorale delle elezioni legislative del novembre 1919 riorienta il movimento verso destra. I
disordini sociali orientano il fascismo nascente, ideologicamente indefinito, verso un risoluto
anticomunismo, ciò che gli vale il sostegno finanziario degli industriali e dei grandi proprietari terrieri che
finanziano i gruppi fascisti incoraggiati allo scontro duro contro la sinistra per difendere la proprietà
privata.
Nell’estate del 1920 i Fasci mettono a punto la loro struttura paramilitare: squadre di militari violenti,
armati e vestiti di camicie nere vengono poste sotto l’autorità dei capi fascisti locali.
Gli squadristi fanno sloggiare coloro che occupano terre in Emilia e in Toscana. Utilizzati come milizia
privata e anticomunista, gli squadristi sono sempre più numerosi. Ex combattenti ed ex ufficiali smobilitati
trovano in questa attività uno stipendio, un gruppo sociale e la possibilità di mettere a frutto la pratica della
violenza acquisita durante gli anni della guerra.
Inoltre, il loro nazionalismo ferito li induce a percepire i comunisti come degli internazionalisti che
minacciano di dissolvere la nazione in un’inedita sovversione. La base fascista si compone dunque di
braccia muscolose che terrorizzano la sinistra, sotto lo sguardo distratto e benevolo delle autorità locali e
l’assenza di una reazione ferma da parte del governo.

10
Giolitti si sforza nel vedere nei fascisti un’organizzazione che può essere integrata nella democrazia
liberale. Ansioso com’è di “rendere costituzionale il fascismo” fa inserire dei fascisti nelle liste dei partiti
liberali in occasione delle elezioni municipali dell’ottobre 1920, e delle legislative del marzo 1921.

Mussolini, che fa entrare 35 fascisti in Parlamento, guadagna un’onorabilità politica che lo rinsalda nel
suo doppio gioco: lasciare che si sviluppi, alla base, la violenza del movimento che in ogni caso non può
contenere, e insinuarsi nelle stanze del potere presentandosi come un’alternativa possibile. Egli approfitta
della tribuna parlamentare per curare un profilo di destra che blandisce e seduce alcune elite economiche,
finanziarie e politiche che vedono nel fascismo un’efficace diga anticomunista.

Così Mussolini dichiara, in occasione del suo primo discorso da deputato del Parlamento italiano, di
essere un liberale. Se condivide con le sue truppe un convinto antimarxismo, Mussolini non è seguito nel
suo legalismo dalla base e dai ras locali quando risponde all’ingiunzione del presidente del Consiglio,
Bonomi, il quale impone il 3 agosto 1921, un patto di pacificazione con i sindacati di sinistra.
Il patto resterà lettera morta e l’autorità di Mussolini sul movimento viene messa in discussione. Per
riprendere il controllo dei Fasci, Mussolini ottiene al congresso di Roma che i Fasci di combattimento
diventino un partito politico, il partito nazionale fascista, di cui viene proclamato Duce.

In cambio sconfessa il patto di pacificazione e allenta le briglie alla base, il cui massimalismo consente di
confermare la debolezza dello Stato. Davanti a questa debolezza i sindacati decidono di serrare le fila e di
mostrare la propria forza con lo sciopero generale del 31 luglio 1922, che scatenerà un’ondata di violenza
fascista: il 3 agosto i sindacati fanno cessare lo sciopero.
Mussolini ha mostrato qual è il peso del suo movimento.
Sin da allora Mussolini decide di esercitare una pressione su Roma autorizzando la preparazione di un
colpo di mano che soddisfi le sue truppe, nella speranza che la semplice possibilità spaventi
sufficientemente il re da fare appello a lui.
In occasione del congresso del Partito Nazionale fascista a Napoli, il 24 ottobre 1922, Mussolini dichiara,
dando piena soddisfazione al suo uditorio massimalista, che non intende andare al potere per la porta di
servizio. Le ambizioni e le esigenze fasciste sono più alte.

Minuziosamente preparato, il colpo di stato fascista, inizia il 27 ottobre 1922: 2600 uomini iniziano la loro
marcia su Roma. Prudente, Mussolini raggiunge Milano, da dove potrà fuggire in Svizzera in caso di
problemi, in quanto sa che, di fronte ad un governo risoluto e ad un esercito bel equipaggiato, il colpo di
stato sarebbe, nel caso in cui si venisse allo scontro, votato al fallimento.
Il presidente del Consiglio, deciso a difendere il governo legale, chiede al re di firmare un decreto che
instauri lo stato d’assedio e che permetta di rendere operativa la forza militare.

Vittorio Emanuele III rifiuta, il che induce Facta a dare le dimissioni. Per evitare una guerra civile e
convinto dell’autentico afflato anticomunista di Mussolini, il 30 ottobre 1922 il re lo nomina presidente del
Consiglio.
Una volta capo del governo, Mussolini dà vita ad un esecutivo ministeriale pluralista. Ormai decisamente
antimarxista, finanziato dagli industriali e dagli agrari che utilizzano gli squadristi come una milizia
privata anticomunista, Mussolini ha da tempo messo in atto la sua virata a destra. Tuttavia, pressato
dalla base, egli non fa mistero del suo desiderio di mettere fine alla pratica liberale del potere e il 16
novembre 1922, in un discorso minaccioso, ricorre all’intimidazione. Mussolini reclama dal
Parlamento l’assegnazione dei pieni poteri.
Il 19 novembre 1922 il Parlamento vota i pieni poteri legislativi al governo Mussolini per un anno. Ormai
Mussolini può legiferare attraverso decreto legge e creare le condizioni della sua dittatura. Trasforma così
alcuni ras locali del Partito Nazionale fascista in prefetti. Crea anche il Gran Consiglio del fascismo, le cui
riunioni, a partire dal 15 dicembre 1922, sostituiscono quelle del governo.

Il 14 gennaio 1923, Mussolini crea per decreto la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale.
11
- La Milizia è un tipo di polizia che risponde direttamente al presidente del Consiglio, mentre la
Guardia reale viene sciolta il 1 gennaio dello stesso anno.
- Il comando della Milizia e quello della polizia vengono unificati.
Per ottenere una maggioranza in Parlamento Mussolini fa adottare una riforma elettorale: la legge Acerbo
del 21 luglio 1923 attribuisce la maggioranza dei seggi alla prima lista che otterrà più del 25 % dei suffragi.
Dopo lo scioglimento della camera, le elezioni legislative del 6 aprile 1924 portano all’amplissima lista,
presentata dal Partito fascista, il 66 % dei voti in un contesto di propaganda e intimidazione permanenti. Il
deputato socialista Matteotti, denuncia in un discorso tenuto il 30 maggio 1924, le condizioni in cui si sono
tenute le votazioni.

Il 10 giugno scompare. Il 13 i deputati socialisti si ritirano dal parlamento. Mussolini per alcuni mesi
sembra temporeggiare. I massimalisti del partito nazionale fascista ritrovano la loro vecchia diffidenza
dell’estate 1921 di fronte al loro capo, sospettato di voler normalizzare, anziché edificare una dittatura
senza compromessi.
Il 31 dicembre 1924, un gruppo di consoli della Milizia fascista si reca a Palazzo Chigi e impone a
Mussolini di mettere a tacere l’opposizione. Mussolini reagisce alla pressione crescente con il famoso
discorso del 3 gennaio 1925 in cui si dichiara completamente solidale con i malfattori fascisti che hanno
assassinato Matteotti, precisando chiaramente che il tempo del legalismo è passato.

Se il discorso del 3 gennaio 1925 ha il merito di dissipare gli equivoci e di rivelare la volontà del partito
nazionale fascista di instaurare una dittatura con ogni mezzo questa data è solo una tappa della lenta
fascistizzazione dello Stato italiano, processo lento, poiché Mussolini deve mediare con il re, la chiesa e le
elite agrarie e industriali.
Queste non aderiscono necessariamente ad un progetto peraltro alquanto nebuloso e vedono in lui solo il
garante dell’ordine sociale, un uomo forte che tiene a freno la minaccia della sovversione comunista.
Quando si pensa al fascismo italiano, ci appare l’immagine di Mussolini in uniforme. Questa immagine è
caratteristica della radicalizzazione totalitaria degli anni ‘30.
Ma non bisogna dimenticare il Mussolini in frac degli anni ‘20, quello che si inchina davanti al re e che
deve mediare con le forze e le elite politiche, sociali e religiose dell’Italia contemporanea.

Al confronto la radicalizzazione nazista sarà infinitamente più rapida: occorre dire che i nazisti non
avevano di fronte né un re né una Chiesa, in una parola quella tradizione culturale che Mussolini dovette
affrontare. Nel corso del biennio 1925- 1926, i giornali dell’opposizione sono vietati, come pure il partito
socialista.
Attraverso la legge del 24 dicembre 1925, Mussolini riceve l’abilitazione a governare tramite decreto
legge. La violenza e le violazioni dei diritti fondamentali diventano legali con l’adozione delle leggi di difesa
dello Stato, dette “fascistissime”.

3. Le difficoltà delle democrazie europee


3.1. La Germania
In Germania la democrazia creata dalla rivoluzione del 1918 e dalla costituzione di Weimar del 31 luglio
1919 non è amata. Figlia della disfatta, per giunta la democrazia è accusata di essere nata da una
cupa cospirazione, quella dei comunisti e di altri rivoluzionari alleatisi per pugnalare l’esercito tedesco
alla schiena.
A destra solo il Zentrum cattolico e il Partito democratico tedesco sono favorevoli al regime. Con i
socialisti della socialdemocrazia essi formano una coalizione tripartita denominata “coalizione di Weimar”.
Essa conosce la propria ora di gloria in occasione delle elezioni del febbraio 1919. Tuttavia, dopo la firma
del trattato e l’adozione della Costituzione, la coalizione precipita e non più capace di mantenere dei
governi duraturi. All’estrema destra dopo la guerra sono comparsi diversi gruppuscoli.
Uno di essi ha iniziato a federarsi con altri, a strutturarsi, e vuole a sua volta la fine della Repubblica e la
creazione di un nuovo regime: lo NSDAP ( Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi) di Hitler.
12
All’estrema sinistra i comunisti si contrappongono irriducibilmente ad un regime che ha fatto sperare sul
popolo ( vedi la repressione degli spartachisti).
La costituzione del 1919 raccoglie quindi un ben esiguo assenso fra i partiti che dovrebbero tenere in vita
la democrazia.

3.2. L’Austria
L’Austria è un paese creato alla fine della prima guerra mondiale dal trattato di Saint-Germain, firmato
il 10 settembre 1919, dopo discussioni alle quali i rappresentanti austriaci non erano stati invitati. Il
grande Impero è stato scisso in diversi nuovi Stati.
La costituzione adottata nel 1920 crea una democrazia parlamentare. Tra il 1918 e il 1920, i
socialdemocratici chiedono l’annessione alla Germania. Il rifiuto categorico opposto dagli alleati lascia
all’Austria il sapore di un diktat.
A livello nazionale i cristiano-sociali governano alleati con i nazional-tedeschi, partito conservatore che
promuove l’annessione alla Germania. Se la destra governa il paese, Vienna è amministrata da una
municipalità socialdemocratica.
Nel 1923 il partito socialdemocratico si è dotato della propria organizzazione di difesa paramilitare. In un
paese dove praticamente quasi ogni uomo adulto è un ex combattente della Grande Guerra, l’eventualità
di una guerra civile viene presa in considerazione dalle diverse forze politiche del paese.
Nel 1927 si verificano degli scontri armati. Il
15 luglio 1927 uno sciopero generale paralizza Vienna. Una manifestazione si dirige verso il Parlamento e
successivamente verso l’adiacente Palazzo di Giustizia.
Considerato il simbolo di una giustizia iniqua e di uno stato federale eternamente in mano ai conservatori,
l’edificio viene preso d’assalto e incendiato. Il prefetto della polizia di Vienna, un nazional-conservatore,
ordina di aprire il fuoco. Da parte loro, i socialdemocratici decidono di permanere nella legalità e di non
passare all’azione violenta.

3.3. La Francia: la difficile uscita dalla guerra di una democrazia


In Francia la pratica della democrazia è stata riorganizzata a partire dall’agosto 1914: il governo
Viviani comincia fin dall’agosto 1914 a legiferare attraverso decreti legge per la prima volta nella
storia della repubblica.
Il ritorno alla normalità democratica avviene nell’ultimo trimestre del 1919, che conosce una ripresa
elettorale inedita: in una serie di votazioni quasi settimanali è l’insieme del personale politico repubblicano
a venire rinnovato, dopo che i mandati elettorali erano stati congelati per più di cinque anni.
Nonostante la normalizzazione, il funzionamento della democrazia francese non esce immutato dalla
guerra.
La legge elettorale in vigore dal 1919 al 1927 dà un premio alle liste favorendo così le coalizioni. Tale
disposizione non è tuttavia sufficiente ad assicurare la stabilità del governo.
La natura del regime è al centro di cessanti interrogativi. Millerand, ex socialista gradualmente convertitosi
alle idee della destra autoritaria, reputa che il regime sia troppo parlamentare e auspica un rafforzamento
del potere esecutivo.
Nel 1924 la vittoria del Cartel des Gauches suscita una reazione inquietante, la resurrezione
dell’agitazione faziosa, che a destra si era acquietata con la fine dell’Affaire Dreyfus. L’arrivo della sinistra
alle responsabilità di governo suscita la nascita di diversi movimenti sediziosi, in particolare la creazione
delle jeunesses patriotes, lega conservatrice e pronta alla violenza.
Un documento interno delle jeunesses patriotes informa gli aderenti che esse si considerano “una
macchina da guerra nazionale di fronte alla macchina da guerra internazionale: il comunismo”.
Un’altra lega nasce nel 1925, il Fascieau, che dichiara apertamente sin dal nome di
ispirarsi al fascismo italiano. Opposti alla democrazia liberale, fondamentalmente anticomunisti e
disposti al ricorso alla violenza, questi movimenti raccolgono nel 1926 ampio consenso. L’agitazione
delle leghe si placa nel luglio 1926 con la caduta del settimo ministero in due anni della sinistra che
segna il ritorno in politica della destra.

13
3.4. La Spagna di Miguel Primo de Rivera: sette anni di dittatura ( 1923-1931)
La Spagna ha un regime di monarchia parlamentare fin dal 1876. Il suffragio universale maschile, in
vigore dal 1890, non impedisce il controllo delle elezioni da parte delle due forze dinastiche: il partito
liberale e il partito conservatore.
La Spagna è un paese rurale e agricolo, in cui l’elevato tasso di analfabetismo non conferisce alcuna
efficacia al suffragio universale. L’unico partito di opposizione, il Partito socialista operaio spagnolo,
dispone solo di un’infima rappresentanza parlamentare.
Di fronte ad un simile blocco del sistema, l’espressione delle opposizioni prende vie diverse rispetto alla
legalità elettorale senza speranza.
Nel 1917 la Confederazione generale del lavoro chiama allo sciopero generale, represso dal potere, dai
proprietari terrieri, dagli industriali che assoldano milizie private per proteggere i loro beni.
Il regime è tuttavia scosso da combattimenti ingaggiati contro l’esercito spagnolo dagli indipendentisti
marocchini che conseguono importanti vittorie. I disastri marocchini provocano la costituzione di una
commissione parlamentare che può chiamare in causa l’incompetenza di numerosi antiufficiali.
In queste condizioni, incoraggiato dal sovrano, il generale de Rivera diventa sempre più protagonista.
Alfonso XIII lo nomina ministro unico e proclama in tutto il regno uno stato di guerra. Nella sua prima
conferenza stampa, de Rivera presenta il suo potere come una necessità temporanea volta a ristabilire
l’ordine in Spagna.
Gli anni della dittatura di de Rivera lasciano un ricordo più ambivalente rispetto ai quarant’anni di un
franchismo che fece centinaia di migliaia di vittime. Non che de Rivera sia un liberale: la Costituzione del
1876 viene sospesa, i decreti del generale dittatore, controfirmati dal re, hanno forza di legge. La priorità
del generale-dittatore è di ristabilire l’onore e il morale dell’esercito spagnolo; si preoccupa inoltre di
sviluppare l’economia spagnola risanando le finanze pubbliche.
Nonostante ciò, le proteste dei socialisti non cesseranno col passare degli anni, per non parlare del
malcontento dei militari che mai si appianerà del tutto.
Questo Comporterà il 28 gennaio 1930 le dimissioni del generale-dittatore a favore di altri due militari che
proseguono la dittatura. A questo punto tutta l’opposizione si unisce il 17 agosto 1930 attraverso il
patto di San Sebastian che prevede l’organizzazione di un putsch militare teso a rovesciare la dittatura
e proclamare la repubblica.
Nel dicembre 1930 il putsch fallisce ma, consapevole del malcontento crescente, il governo prevede una
serie di consultazioni elettorali che dovranno aprirsi con le elezioni municipali del 1931. Il 12 aprile la
vittoria dei repubblicani induce il re Alfonso XIII alla fuga e alla proclamazione della seconda repubblica.
La storia spagnola è dunque singolare nel contesto del periodo fra le due guerre europee: una dittatura
precoce ( 1923) è sostituita da una Repubblica in cui per giunta la sinistra assume il potere.

3.5. Fragilità e instabilità della Repubblica portoghese ( 1910-1926)


La storia della Prima Repubblica portoghese è segnata sin dalla sua creazione nel 1910 da un’instabilità
cronica e vertiginosa. Tra il 1911, anno dell’adozione della Costituzione Repubblicana, e il 1926, che
vede i militari svuotarla della sua sostanza, si contano 8 presidenti della Repubblica, 45 governi, 5
colpi di stato riusciti.
La vita della Prima Repubblica portoghese è estremamente polarizzata. Gli scontri delle idee sono
violenti e radicali, tra i repubblicani e i sostenitori della monarchia. La rivoluzione repubblicana del
1910-1911 si ispira al modello militante degli eventi francesi del 1792-93.
Misure simboliche esprimono la fattura con l’antico regime: il real è abbandonato a favore dell’escudo,
la bandiera rossa e verde sostituisce la precedente. I repubblicani decidono inoltre l’abolizione della
nobiltà e dei privilegi, la laicizzazione dell’istruzione, lo scioglimento dell’ordine dei gesuiti, la
legalizzazione del divorzio. In questi tre casi le riforme culturali sono imponenti e rapide, e provocano
un trauma profondo presso i detentori della cultura tradizionale.

Se in Francia si crea il consenso sulla forma repubblicana del governo, in Spagna e Portogallo
l’opposizione conservatrice sfocia in un sostegno accordato a una dittatura di destra dopo che il regime
repubblicano aveva dato prova della sua mancanza di stabilità.
14
Nel 1911 si assiste alla prima rivolta monarchica che instaura una lunga serie di attentati e insurrezioni.
Da parte sua il partito repubblicano si divide. Anche l’esercito rappresenta una forza politica: se è
prevalentemente propenso al conservatorismo sociale e culturale, è a sua volta diviso e deve fare i conti
con un’ala sinistra dove dominano il repubblicanesimo e la laicità.
Sin dal gennaio del 1915 un putsch militare impone una dittatura presidenziale e un governo composto in
maggioranza da ufficiali. Si governa senza parlamento e si pone fine alla politica anticlericale della
repubblica. Questa stessa dittatura viene rovesciata quattro mesi dopo da un putsch di militari
repubblicani.

LE ALTERNATIVE ALLA DEMOCRAZIA


Dopo la Grande Guerra la democrazia liberale si trova sotto il tiro incrociato di due tipi di critiche, da
destra come da sinistra. A sinistra, le scissioni all’interno dei partiti socialisti danno vita ad un nuovo
movimento che rivendica la denominazione di “comunista”.
A destra, vengono alla luce e si diffondono due nuovi progetti di società, due concezioni dello Stato.
- Il primo, conservatore, per non dire esplicitamente reazionario, si ispira al cattolicesimo sociale;
- il secondo è il progetto fascista, più autoritario ma meno conservatore, almeno negli intenti.
-
I. La critica comunista: l’impostura della democrazia formale
La “luce che sale a Est” nel 1917 suscita ovunque in Europa scissioni all’interno dei partiti socialisti. Il
congresso di Tours ( 1920) fa nascere la Sezione francese dell’Internazionale comunista, che diventerà
il partito comunista francese nel 1935, mentre nel gennaio 1921 il congresso di Livorno vede sorgere il
Partito comunista italiano.
Quanto al Kpd tedesco, esso nasce nel 1919. Per i comunisti, la democrazia liberale è una mistificazione.
Essa pretende di accordare dei diritti che, in assenza di una reale eguaglianza, restano puramente
formali.
La rivoluzione del 1917 a elevato a dogma tutti gli scritti di Marx e Lenin. Da quel momento in avanti la
distinzione fra diritti formali e diritti reali diventa la pietra angolare di un discorso di perentorio rifiuto della
democrazia borghese. Per i partiti che hanno aderito al Komintern tutto ciò che non è di osservanza
comunista, è borghese: i socialdemocratici, la democrazia, i fascisti e i dittatori di ogni genere.
Il VI Congresso del Komintern, nel 1928, definisce il fascismo come un regime di diretta dittatura della
borghesia. Tra fascismo e democrazia non ci sono dunque differenze di natura ma solo di livello.

2. La tentazione fascista
Di fronte all’invecchiamento dei valori repubblicani e democratici, il fascismo rappresenta, agli occhi
di molti, un vento di cambiamento. Gentile sottolinea come la definizione di fascismo sia plastica e
complicata. Il fascismo non è un dogma, quanto piuttosto una cultura che si adatta al contesto storico
nei diversi temi ( ad esempio il capitalismo rifiutato nel 1919 e accettato nel 1921).
La cultura fascista si oppone come rifiutatrice della ragione e delle ideologie, in favore di un
particolarismo determinato da nazione, razza o classe sociale. Si ammette l’esistenza della guerra tra i
popoli ( Italia) e tra le razze ( Germania) e la si intende come buona e giusta, in quanto contraria al
rammollimento tipico del borghese.
La componente di lotta, che è comune al marxismo, trova qua una sfumatura esterna alla società, non
interna come avveniva tra le classi secondo “Il Capitale”.
Inoltre, mentre il marxismo sembra teorizzare la fine della guerra, il fascismo necessita di alimentare
l’opposizione identità-alterità.
Oltre alla bellicosità, i fascismi esaltano la giovinezza, nella speranza che si costituisca una società
combattiva da fronte. Il popolo dei fascismi non è una società alla quale si può partecipare o no, ma
una comunità alla quale si è indissolubilmente legati. La comunità fascista sacrificherebbe le parti in
favore del tutto, un grande organismo che regola tutto.

La creazione di questo organismo comunitario si basa sulla differenziazione dalle alterità; le leggi razziali
arriveranno in Italia solo nel 1938 e rimarranno poco radicate nella cultura italiana che si era avvalsa
15
spesso di eroi stranieri nella creazione del proprio patrimonio culturale. La concezione della storia
differenzia fascismo e nazismo: il fascismo vede nell’Impero romano un antesignano di italica virtù, ma
passato e lontano;
- il nazismo teorizza l’eternità della lotta tra razze. In questo senso la concezione artistica è diversa:
- se il fascismo promuove forme di innovazione, il nazismo si rifugia nei modelli del passato.
Entrambi i regimi si affidano all’estetica della politica. La propaganda si rivolge all’irrazionale.

3. Né liberalismo né comunismo: il progetto nazional-cattolico. L’esempio dell’AUSTRIA


Papa Leone XIII che succedette a Pio IX, per primo compie un’analisi economica dello scenario
capitalistico europeo e prova ad aprire un dialogo con le correnti repubblicane.
Con l’enciclica “Rerum Novarum” il pontefice plasma una nuova politica sociale che caratterizzerà i
cosiddetti regimi nazional-cattolici in Spagna, Austria e Portogallo.
Il papa critica il socialismo diffondendo la necessità della proprietà privata. Leone XIII non nega l’esistenza
di classi sociali che si differenziano per la loro diversa capacità di accedere alla ricchezza.
I problemi della socialità andrebbero risolti con il rispetto, da ambo le parti, dei valori cattolici. Il papa
suggerisce, tra l’altro, un ritorno alle corporazioni, in cui maestri e operai si trovavano nella stessa
associazione.
Nel 1931 Pio XI conferma ancora i valori della “Rerum Novarum” con l’enciclica “Quadragesimo anno”, in
cui ribadisce la vicinanza al corporativismo e all’organicismo.
Chi rappresenta un chiaro esempio di svolta autoritaria in senso nazional-cattolico è l’Austria, stretta da
Germania a nord ( intenzionata ad annetterla) e Italia a sud ( che vuole garantirne l’autonomia).
Quando sale al potere, Dollfuss mette a tacere tutte le opposizioni, nella speranza di poter ricreare un
sistema di governo basato su una camera delle corporazioni, simile a quella dell’antico regime.

Nel 1933 fonda il Fronte Patriottico, intenzionato a riunire le destre ( eccetto i nazisti). Nel 1934 le ostilità
tra repubblicani e forze governative sono al loro apice: l’Austria diventa stato federale. Viene rimarcato il
forte legame dello stato con la chiesa cattolica.
In comune con il fascismo il progetto nazional-cattolico ha l’autoritarismo ( Dollfuss governa con decreti
legge), soppressione del pluralismo. La sua opposizione al nazismo lo rende impopolare tra i nazisti
austriaci: viene ucciso in un tentativo di putsch ( fallito). Alla sua morte sale al potere Schuschnigg, che
vede venire meno il sostegno italiano: la strada per l’Anschluss è ormai spianata.

LA FINE DELLE DEMOCRAZIE EUROPEE


Negli anni Trenta il liberismo sembra in crisi e con lui le democrazie che lo hanno portato in auge.
Questa crisi interna alle democrazie porterà ad una diffusa instaurazione di dittature personali.

I. La fine della Repubblica di Weimar e l’ascesa dei nazisti al potere ( 1930-1933)


Il governo di Muller, che era stato tra i più duraturi, cade sulla questione Stato-Provvidenza, che non
era pronta ad assicurare un numero così alto di disoccupati ( 14 milioni) come quelli che produce la
crisi degli anni ’30. Muller si dimette e Hindenburg nomina Bruning che dal 1930 al 1932 governa
tramite decreto legge. Il governo del paese vira su un più marcato presidenzialismo.

La situazione è quasi ingovernabile: alle elezioni del 1930 Hitler forza Hindenburg al secondo turno. Von
Papen è nominato presidente, scioglie il Reichstag e si dichiara favorevole ad un cambio di regime; egli si
fa nominare commissario del Reich per la Prussia che vantava l’ultima presidenza socialdemocratica della
Germania.
La preparazione alle elezioni del 1932 si svolge in un clima di violenza, con le SA che si scontrano con le
milizie comuniste: chi ne esce più danneggiata è la Repubblica, visto che i suoi peggiori nemici prendono
una marea di voti; il presidente eletto al Reichstag è il nazista Goring.
Nel 1932 ad Hitler spetterebbe il ruolo di cancelliere nel governo di Von Schleicher: il capo dell’NSDAP

16
rifiuta sprezzantemente. Von Schleicher indice una ridistribuzione di terre ai cittadini dell’Est della
Germania, mentre Papen brama di portare Hitler al governo per poterlo manipolare. Papen riesce a
lederela figura di Von Schleicher dinanzi ad Hindenburg il quale ne provoca la dimissioni:
il 30 gennaio 1933, Hitler viene nominato cancelliere del Reich.
Fino al 1934 il governo nazista deve consolidare il suo potere, mediando con alcune forze per
schiacciarne altre. Hindenburg indice nuove elezioni dove spera di ottenere la maggioranza assoluta:
il 28 febbraio il Reichstag viene incendiato e Hitler sospende le libertà individuali “per la protezione del
popolo e dello stato” ( questa sospensione di fatto rimarrà fino al 1945). Hitler ottiene dai due terzi del
Reich di poter governare tramite decreto legge.

2. L’avvento delle dittature iberiche: Salazar e Franco


Il Portogallo dal putsch militare alla dittatura perenne ( 1926-1933) Sotto Carmona si insedia una
dittatura militare. Per risanare il debito portoghese viene chiamato per una seconda volta Salazar,
economista del centro cattolico portoghese.
Salazar si mostra da subito antiparlamentarista ma desideroso di dare al Portogallo una Costituzione. Nel
1931 Salazar crea un partito unico, creando gli scontenti tra i militari repubblicani. Nel 1933 con la
Costituzione crea l’Estado Novo.

La Spagna dalla Repubblica alla dittatura franchista ( 1931-1939) Dal 1931 la Spagna era una dittatura. Il
dibattito parlamentare si articola tra repubblicani, che guardano con simpatia alla Francia degli anni ’80
dell’Ottocento, e destre, favorevoli ai totalitarismi di destra che si preparano alla battaglia elettorale
consapevoli della infruttuosità di un eventuale colpo di stato.
Nel 1933 ci sono nuove elezioni, stavolta più favorevoli alla destra. La seconda repubblica viene vista
dalle sinistre allo stesso modo in cui i comunisti tedeschi vedevano la Repubblica di Weimar. In vista delle
prossime elezioni, la sinistra tenta di unirsi in un fronte popolare, mentre la destra dà vita al Fronte
Nazionale: vince la sinistra e Azana è di nuovo al governo.
È il 1936 e la guerriglia infuria nella “Primavera tragica”. Un putsch che coinvolge il Marocco e il sud della
Spagna dichiara Franco capo del governo.
La guerra civile spagnola contrappone la sinistra stanca di anni di autoritarismo reale ad una destra che
teme le istanze della sinistra stessa. Lo schieramento franchista riceve aiuti militari da Hitler e Mussolini,
lo schieramento repubblicano ha l’appoggio dell’URSS.
Nel 1939, dopo una sanguinosa guerra civile e grazie alla spaccatura interna alle sinistre, i ribelli vincono:
Azana scappa in Francia e Franco fa il suo ingresso a Madrid dove instaurerà una dittatura
nazional-cattolica fino al 1975.

2. La Francia dalla crisi degli anni Trenta al regime di Vichy


Negli anni Trenta la democrazia liberale viene rimessa in causa: si discute dell’effettiva efficacia del
dibattito parlamentare che produce, più che altro, una grande confusione parlamentare. Si diffonde in
molti l’idea che i dubbi che sono connaturati ad una decisione parlamentare non rendano la Francia
competitiva nei confronti dei forti autoritarismi italiano e tedesco.
Alla crisi politica si aggiunge quella demografica, che ancora soffre della Grande Guerra. C’è da
sottolineare il fatto che gran parte delle ricchezze del fascismo venissero accumulate grazie ai contatti con
le associazioni malavitose, cosa che in Francia provocava il disprezzo delle masse. Se tra le sinistre si
sviluppano in maniera più decisa dei movimenti paramilitari, anche tra le destre si diffondono movimenti
che guardano con simpatia ai fascismi ( e che molti studiosi definiscono essi stessi fascisti). Reynaud
mette su un governo ricco di opposizioni interne.
Petain ritiene che la colpa della decadenza sia della sinistra. Il 10 luglio 1940, dopo la sconfitta con i
tedeschi, a Vichy il parlamento affida tutti i poteri al governo e a Petain. La repubblica si fa da parte in
favore dello Stato.

ESPERIENZe FASCISMO, NAZISMO, SOCIETA’


Molti quando pensano al totalitarismo hanno in mente un’unità rigida, tutta d’un pezzo; in realtà non è
17
così: i totalitarismi sono più ideali che fatti, in una dinamica perennemente incompleta.
I. La coercizione e il consenso
La Arendt afferma la natura di questo nuovo regime nell’ideologia, il fondamento nel terrore; ciò che
sembra uscire dalle riflessioni della Arendt è un binomio tra manganello e microfono. In Italia era
obbligatoria la tessera del partito, in Germania l’adesione all’NSDAP non era obbligatoria ma era
impensabile poter accedere a qualsiasi carica pubblica senza essere iscritti nelle SS.
Dal 1936 aprono in Germania i primi campi di concentramento, coadiuvati da un apparato poliziesco
capillare nei diversi Stati, gestito da Himmler; inizialmente la funzione dei campi era quella di imprigionare
gli oppositori politici.

Non possiamo spiegare però 21 anni di fascismo in Italia, né il perché si sia dovuto ricorrere a bruciare
Berlino, solo con la paura: i sistemi totalitari si dotano di organismi per poter racimolare il consenso.
Studiosi come De Felice e Reichel sono tra i primi ad ammettere le capacità seduttive del totalitarismo.
Per arrivare alla massa, un multiforme accumulo irrazionale, i discorsi dei totalitarismi sono imperniati sul
discorso emozionale che scalda l’animo e che aliena il soggetto dalla sua individualità per farlo diventare
parte passiva di un organicismo.
Ciò che il fascismo e il nazismo vogliono mettere in mostra sono società unite e senza debolezze, grazie
al culto dei loro capi: il duce e il fuhrer sono amici del popolo, trasmettono fiducia in un futuro glorioso che
risolleverà dal triste presente la razza prescelta. In Italia e Germania i due stati sono interventisti, pronti ad
intraprendere campagne economiche e infrastrutturali che gli procurano facilmente il consenso. La Kraft
Durch Freude e l’Opera Nazionale Dopo-lavoro sono intenzionate a mantenere soddisfatti e felici
lavoratori tedeschi e italiani. Gli immediati effetti materiali sulla popolazione sono quelli che garantiscono
ai totalitarismi il consenso, a cui si unisce l’opera di repressione forzata del dissenso.

2. Rigenerare l’uomo
La differenza fondamentale tra nazifascismo e dittature nazional-cattoliche è la volontà di creare un nuovo
uomo, non riesumandolo dal passato, ma rigenerando l’uomo moderno con i valori di cui si fanno portatrici
le squadre di combattimento. L’esaltazione della virilità e della sportività devono accompagnare la
rinascita del nuovo uomo: Mussolini come Hitler pensa di punire i celibi e sogna di creare una società
eugenetica guerriera.
Per il fascismo lo Stato è il perno intorno a cui deve avvenire l’innovazione dell’uomo; per il nazismo lo
stato è più un mezzo per arrivare alla conquista territoriale.
L’opera di miglioramento della massa passa tramite le associazioni create dallo Stato: all’opera Nazionale
Balilla per i più piccoli si aggiunge l’Opera Nazionale dopo-lavoro. Mentre il fascismo guarda con
riconoscenza alla Roma antica ma punta ad un avvenire di novità, il nazismo è fortemente legato al
passato, di cui vuole ristabilire la purezza.
La soluzione dell’igienizzazione razziale va di pari passo con le campagne demografiche: sussidi per le
donne incinte e ideazione di un programma di verifica di purezza delle mogli dei membri delle SS. La
politica eugenetica si schiera, fin da subito, contro gli ebrei.

3.La comunità del popolo


L’immagine che noi abbiamo del nazifascismo è quella ordinata e compatta che emerge dai film di
Riefensthal, dai quali emerge sì una superiorità decisa dei capi, ma anche una uguaglianza tra i sudditi.
Mussolini per i suoi aneliti egualitari prende distanza sia dal liberalismo che dal comunismo: adotta il
corporativismo.
La soppressione dei sindacati vuole abolire la lotta di classe; accanto a questa soppressione va collocata
la fine del nazionalismo tedesco. Il mito spartano di sottrarre i figli alle famiglie per evitare una
classificazione è ben accetto dal nazionalsocialismo, anche se non furono stravolte le gerarchie sociali.
Kershaw studia l’indifferenza, più che la totale adesione, che accompagnò la popolazione tedesca.
Hitler certo non doveva essere il depositario unico del potere: a lui spetta l’ultima parola mentre le diverse
questioni sono risolte da diversi apparati, spesso simili tra loro, in vicendevole competizione.

18
Anche Mussolini fu fortemente influenzato da altri poteri, come i ras radicali del fascismo e il re Vittorio
Emanuele III; quando verrà posto dalla Germania a capo dello stato fantoccio dell’RSI si ribellerà
finalmente della fastidiosa presenza del re.

L’IMPERIALISMO FASCISTA E NAZISTA


Mentre i liberali parlano di sicurezza collettiva, per evitare quella situazione creatasi durante la Prima
Guerra Mondiale, il fascismo nasce dalla guerra e alla guerra vuole tornare.

I. Origine e orizzonte della guerra


Dopo la Prima Guerra Mondiale gli Stati cercano di adoperarsi affinché una situazione del genere non
ricapiti mai più: a partire dal 1924, superate le prime difficoltà, la Società delle Nazioni è operativa, grazie
all’operato antibellicista di Briand ( il suo progetto di un’unione europea verrà fermato solo dalla crisi
economica, che favorirà il protezionismo).
La Germania e il Giappone usciranno dalla Società delle Nazioni nel 1933, in funzione anti Komintern. Tra
il 1935 e il 1936 l’Italia invade l’Etiopia e la Germania si rimilitarizza, senza tenere conto delle direttive dei
tavoli di Versailles
. La guerra civile spagnola, che secondo i Patti di Londra del 1936 non doveva vedere l’intervento di
nessuna delle nazioni europee, vede l’effettivo non intervento di Francia e Gran Bretagna ma l’appoggio ai
ribelli da parte di fascisti e nazisti.
La guerra per Mussolini è il pane vitale per l’uomo nuovo, che si batte contro la monotonia borghese: la
creazione di un Impero è, per il Duce, il gesto più alto di umana potenza. Anche nella cultura nazista il
Kampf è un elemento fondante: Hitler non pensa ad un dopoguerra, perché la sua campagna bellica
ideale non ha fine.

2. “Imperium Romanum”
Il fascismo degli anni Trenta ha già alle spalle una decina di anni di storia: il Duce teme che si possa
assopire l’impeto su cui aveva fondato il suo movimento; per questo, dopo un’iniziale opposizione in
materia di Anschluss, Mussolini si avvicina ad Hitler e al suo giovane nazionalsocialismo, consapevole
del fatto che una prestigiosa vittoria militare poteva ridestare gli animi della penisola fascista.

Nel 1935 attacca e conquista l’Etiopia: l’Impero rinasce sui colli fatali di Roma ( il mito della romanità è
coltivato con lavori di riscoperta delle rovine a Roma).
Dal 1 novembre 1936 viene creato l’Asse Roma-Berlino, rafforzato poi dal Patto d’Acciaio, che stabilisce
le zone di interesse dei due imperi.
La politica coloniale italiana è maldestra e tenta di seguire quella di Hitler, con molte scelte sbagliate:
l’invasione della Grecia è insensata e fallimentare ( l’Italia perde posizione in Albania).
Queste sconfitte del Duce faranno calare a picco la sua fortuna, quando nel 1943 gli alleati sbarcheranno
in Sicilia: i soldati italiani depongono le armi, il Gran Consiglio del fascismo lo fa arrestare e prova a
ristabilire le prerogative monarchiche e parlamentari; liberato dalle SS Mussolini sarà di nuovo in
scena alla guida dello stato fantoccio di Salò, in una parentesi che terminerà il 28 aprile 1945, con la
sua esecuzione.

3.Hitler e la colonizzazione dell’Europa


Hitler e i pezzi grossi del nazismo presentano il Mein Kampf come un testo di gioventù e innocuo
dinnanzi alla pace europea. Già dal 1936 Hitler espone la sua volontà di ricreare l’esercito e
un’economia che possa sostenere la guerra: il Fuhrer brama la costruzione di un grande Reich tedesco.
Per Hitler una cospirazione giudaico-bolscevica impediva al popolo tedesco di ritagliarsi il suo spazio
vitale, mentre Gran Bretagna e Francia agivano su una dimensione più ampia.

L’azione di potenziamento dell’esercito inizia nel 1935 e va contro gli imperativi di Versailles: il numero di
militari viene duplicato e la Renania è rimilitarizzata. Dopo l’Anschluss la Germania punta ai Sudeti,

19
provincia che viene annessa segnando lo smembramento del territorio ceco; i governi europei non
ritengono la situazione tanto grave da dover intervenire, ritenendo la politica di Hitler limitata ad un
pangermanesimo.
Nel 1939 la Wehrmacht entra a Praga e divide in due la Cecoslovacchia: la Slovacchia è affidata ad un
governo indipendente ma sottomesso al Reich, la parte ceca è occupata militarmente e riorganizzata nel
protettorato di Boemia-Moravia. Le teorie razziali naziste fanno si che gli europei vengano concepiti allo
stesso modo in cui loro stessi concepivano i neri, gli arabi e i nativi: inferiori e degni di essere schiavizzati.
Il partito propone di riportare in patria i germanofoni sparsi per l’Europa ed utilizzarli come coloni nei nuovi
territori conquistati. La dialettica tra razza vincitrice e razza perdente è quella che guiderà la Germania
nazista alla guerra totale, durante la quale verrà intrapresa la “soluzione finale” che non è di per sé
contenuta nel Mein Kampf, ma affiora solamente dopo le conquiste ad est ed in Russia. Il genocidio degli
ebrei è un esempio inedito, poiché si trova fortemente radicato in questa cultura.

GLI STATI AUTORITARI: IL PORTOGALLO, LA SPAGNA E LA FRANCIA DI VICHY


In Portogallo, Spagna e Francia si formano degli Stati autoritari non interessati al controllo totale della
società. Mentre la distanza dai fascismi consentirà a Salazar e Franco di sopravvivere alla fine della
guerra, la Francia di Vichy, fortemente affascinata dal fascismo, ne pagherà le conseguenze.

I. Il progetto nazional-cattolico di Salazar: “Far vivere in modo normale il Portogallo”


La costituzione del 1933 non fa altro che affidare più potere al presidente, mentre la Repubblica viene
confermata. Salazar si pone come dittatore suo malgrado, statista che non ha nulla a che vedere con il
fascino militareggiante di Hitler e Mussolini.
Le intenzioni di Salazar erano quelle di far vivere in pace il Portogallo, nella sua dimensione rurale, umile
e clericale. Il dittatore vuole proteggere il suo paesedalla modernità bellica: dalla neutralità alla chiusura
delle frontiere. L’Estado Novo che deve segnare una presa di distanza dalla Repubblica, si basa sui
concetti tradizionali di Dio, famiglia, autorità, patria e lavoro. Il rapporto con la chiesa è significativo, ma
allo stesso tempo sancisce la predominanza dello Stato nelle questioni politiche.

Salazar si fa promotore di un nazionalismo che non ha nulla diaggressivo, mentre celebra il glorioso
passato portoghese. Il lavoro è organizzato dalla Costituzione attraverso le corporazioni. Sebbene il
dittatore si fosse sempre dichiarato un umanista, i controlli di polizia si intensificano per scongiurare le
opposizioni da sinistra ma anche dall’estrema destra. Negli anni più fortunati per il nazifascismo, il
Portogallo si apre alla creazione di associazioni giovanili e del dopo-lavoro, le quali verranno soppresse
dopo il 1945.

2. La Spagna di Franco
La Francia manda in Spagna il nazionalista moderato Petain per evitare di essere accerchiata da
potenze fasciste. Dal 1936 Franco è diventato capo di Stato e comandante in capo, grazie alle sue
capacità dirigenziali. Sebbene il caudillo ottenne aiuti militari dal nazifascismo per raggiungere il
potere e si fosse eretto a baluardo anticomunista, Franco fu abile a coniugare una dialettica di stampo
fascista ad una politica che da questi toni prendeva le distanze.
Al momento dell’ingresso in guerra, Franco temporeggia saggiamente, intervenendo solo nel 1941
nell’operazione Barbarossa ( cominciata nel 1939) in funzione anti-Komintern. La repressione franchista è
tremenda, le condanne sono affidate ad appositi tribunali militari.
Il governo di Franco è simile a quelli nazifascisti: pienezza di poteri al Caudillo e partito unico ( Falange
Espanola tradizionalista y des las Jons, che rappresenta la volontà di Franco di unire tutte le forze della
destra che hanno sconfitto il Frente Popular). Nel 1943, consapevole della fine dell’epopea mussoliniana,
Franco passa alla neutralità bellica. Le misure intraprese nel biennio 1931-1933 vengono superate
attraverso un’alleanza con la chiesa. Si crea uno stato monarchico e di diritto divino, ma senza re.

20
3.Vichy: un regime autoritario sotto l’occupazione
La rivoluzione nazionale voluta da Petain è nazional-conservatrice. Le istanze antidemocratiche si
riuniscono in un unico fronte che preferirebbe Hitler a Blum. Hoffmann definisce quella francese una
dittatura pluralista: istanze controrivoluzionarie, cattolicesimo sociale, nazionalismo della terra,
antisemitismo e xenofobia.
Nonostante la sconfitta con i nazisti, in Francia non si instaura una dittatura
fascista: la rivoluzione nazionale di cui Petain è il capo è una rivoluzione contro la Rivoluzione
Francese. Secondo i vertici della Rivoluzione nazionale, il 1789 avrebbe intrapreso la strada
dell’individualismo contro quella comunitaria che si vuole ricreare. Si intraprendono campagne
politiche sfavorevoli agli immigrati e ai francesi che hanno ottenuto la cittadinanza dopo il 1927, gli
ebrei vengono esclusi dagli incarichi pubblici.
L’omogeneità della patria prevede che vengano esclusi tutti i motivi di dibattito, uno su tutti quello
democratico-parlamentare. Il maresciallo Petain si riavvicina alla chiesa, con una svolta religiosa
nell’apparato scolastico e nelle associazioni giovanili.
Dal punto di vista dell’ordinamento lavorativo, il dirigismo statale prevale sulle corporazioni. Laval, a
cui viene affidata la vicepresidenza del consiglio, ritiene che la Germania vincerà la guerra ed esorta la
Francia a marciarle a fianco per riservarsi un posto di rilievo nel dopoguerra. Nella sua ultima fase i
tratti di collaborazionismo del governo di Vichy si accentuano. Il governo francese cadrà alla fine della
guerra poiché aveva compiuto il percorso inverso rispetto a Franco e a Salazar, i quali si erano
allontanati nella fase finale.
gmail.com)

21

Potrebbero piacerti anche