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Contrariamente ad una democrazia liberale poco adatta a rinnovarsi, e fondata su postulati razionalisti e
umanisti brutalmente invecchiati dall’esperienza del 1914-18, fascismo, nazismo e altri regimi autoritari si
sono confrontati con determinazione con i problemi posti dal XIX secolo e con quelli lasciati in eredità
dalla Grande Guerra ( il legame sociale, il potere e la sua modalità di devoluzione). I nuovi regimi, il
bolscevismo e il fascismo, che hanno fatto la loro comparsa tra il 1917 e il 1922, prendono atto della
guerra e si confrontano con la sua eredità.
Rifiutando il primo e imitando parzialmente e prudentemente il secondo, vedono la luce anche alcuni
regimi autoritari che danno vita ad una terza via, né liberale né rivoluzionaria, fondandosi su un progetto
nazional-cattolico.
Quest’ultimo, pur distinguendosi dal fascismo, ha in comune con esso la pratica dittatoriale, rivendicata e
assunta del potere.
La nozione di dittatura è stata oggetto di un saggio apparso nel 1921, redatto dal giurista tedesco
Schmitt, universitario nazional-conservatore che aderirà opportunamente al nazismo dopo il 1933.
In questo saggio, divenuto un classico della riflessione giuridica e politica, Schmitt ricorda l’etimologia
della parola e cita un adagio latino: Dictator est qui dictat.
Il dittatore è colui che dice, colui che detta, colui che, dopo la sua presa di potere, è l’unico a parlare.
Concepita, durante la Repubblica romana, come un periodo di sospensione del diritto comune, la dittatura
designa, per estensione, ogni forma di esercizio del potere in cui parla uno solo: un’autocrazia senza
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eredità né diritto divino, in sostanza, la monarchia di un XX secolo privata degli antichi fondamenti del
potere, Dio e la Tradizione.
Essendo ormai l’unico a parlare, il dittatore, che detta e impone, mette fine ai dibattiti del parlamentarismo
del XIX secolo, contestati dalla critica controrivoluzionaria del XIX secolo in poi e resi ancora più
insopportabili dal ricordo delle trincee.
Il ricordo dei commilitoni scomparsi sarà costantemente messo in contrapposizione, soprattutto da parte
dei fascisti, al rivoltante chiacchiericcio dei parlamenti. Il monologo del dittatore pretende dunque di porre
fine al dialogo, il soliloquio autoritario fa cessare il colloquio della ragioni: la dittatura ha preso atto
dell’ingresso delle masse nella politica, ma solo per ridurle a l'univocità dell’approvazione chiassosa
. Le masse devono essere ricondotte alla ragione e addomesticate, perché cessino la divisione e la
dispersione.
Non si può parlare del XX secolo senza prima fare riferimento alle trasformazioni politiche, sociali e
culturali del XIX secolo europeo e dei traumi della Grande Guerra.
Gli anni Venti del Novecento furono segnati dalla crisi della democrazia e dall’insediamento di regimi ad
essa concorrenziali.
Negli anni Trenta e Quaranta del Novecento ci furono invece le esperienze politiche concrete, escludendo
i Paesi Bassi e il Belgio che hanno conosciuto l’occupazione, senza trascurare i regimi animati da
un’ambizione autoritaria, un progetto di società appropriata e un’autonomia relativa, come fu il caso della
Francia di Vichy.
I. Il fatto nazionale
La questione dei nazionalismi, che a fine Ottocento otterrà la sua piena tradizionalizzazione, è dovuta
passare dall’opposizione, nascendo come movimento di sinistra per poi spostarsi a destra.Se a fine
Settecento l’idea di nazione ( entità giuridica dotata della facoltà di determinarsi liberamente) e di popolo
sovrano sono sovrapponibili, dal 1815 le pretese di nazionalismo e sovranità del popolo sono
ridimensionate dall’operato del Congresso di Vienna, che vuole ristabilire il potere per diritto divino.
La nazionalizzazione si fonda su una scolarizzazione e una costruzione di un’alterità con il nemico che è
ereditaria tanto quanto i tratti culturali. La nazionalizzazione delle masse, come teorizza Mosse, passa per
l’estetica della politica e dalla creazione di una serie di miti e riti per il territorio nazionale.
La soluzione di sinistra propende, invece, all’internazionalismo, individuando nella lotta tra classi il vero
conflitto, mentre quello tra nazioni sarebbe ordito dalla borghesia per sedare gli animi degli operai.
2. La rivoluzione industriale
La rivoluzione industriale sancisce un nuovo modo di lavorare insieme, vigilato e sottoposto ad un
controllo poliziesco molto severo: è in questi anni che si comincia a concepire la classe operaia come
pericolosa.
Parallelamente alla diffusione della rivoluzione industriale si deve registrare il boom demografico delle
metropoli europee; le condizioni di vita e di lavoro degli operai nelle megalopoli rasentano l’incredibile: con
esse aumentano anche le tensioni sociali.
Lo stato del periodo è decisamente liberista, favorendo una naturale competizione che avvantaggia i più
forti e lascia a sé stessi i più deboli: è significativo il fatto che il numero di suicidi aumenti contestualmente
all’aumentare della popolazione urbana.
Prima della rivoluzione le società erano Gemeinschaft, ossia basate su legami affettivi tra i facenti parte;
ora le società sono Gesellschaft, cioè libere associazioni senza vincoli emozionali.
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In questo contesto di difficile coesistenza sociale, Marx colloca ciò che egli definisce lotta di classe ( una
lotta transnazionale) e unisce i proletari di tutto il mondo contro i padroni capitalisti.
Il Romanticismo nasce come fenomeno reazionario all’Illuminismo: all’universalità del cittadino illuminista
Fichte contrappone la particolarità e l’autenticità dell’uomo tedesco ( a questo proposito sottolinea la
differenza tra uomo, particolare, e cittadino, universale).
De Maistre sottolinea il razionalismo incorporeo dei principi della Rivoluzione Francese: egli afferma che
forse il codice civile era adatto al popolo francese ma di certo non lo era per gli altri popoli europei.
Il XIX secolo vede la nascita del razzismo scientifico: l’opera di classificazione di esseri umani si pone in
continuità con la classificazione degli animali illuminista.
Marx, Nietzsche e Freud sono d’accordo nel ritenere che la ragione illuminista non sia ciò che pretende di
essere: la ragione, fondante delle teorie illuministe, non è nulla al cospetto di forze più potenti.
Sternhell sottolinea come la nascita dei fascismi non va ricercata nel 1914 ma nel sostrato culturale del
XIX secolo; bisogna però ricordare che nella creazione definitiva di questi totalitarismi l’esperienza delle
trincee gioca un ruolo determinante.
La Grande Guerra è stata una guerra di massa. Ha rappresentato per 66 milioni di mobilitati,
un’esperienza di violenza quotidiana.
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La Grande Guerra fu inoltre un conflitto di apparati industriali. Occorreva una logistica di produzione e
approvvigionamento eccezionali per fabbricare e inviare cannoni, fucili, mortai, munizioni, uniformi e cibo
ai combattenti al fronte.
La Grande Guerra inaugura così un’indifferenziazione crescente tra il fronte e le retrovie: la distinzione tra
civili e militari si dissolve a causa non solo della mobilitazione economica, ma anche per il tipo di armi e di
tattiche adottate.
L’uso del gas da combattimento non permette di orientare con precisione una nube di gas verso un
obiettivo strettamente militare. Del resto la pratica del bombardamento non mira soltanto alle trincee
avversarie: bombardare città del nemico non è più una pratica occasionale, ma un uso che tende a
diventare comune.
Infine, il timore dei franchi tiratori della guerra del 1870 induce lo stato maggiore tedesco a mettere in atto
due rappresaglie contro la popolazione civile del Belgio e del nord della Francia al minimo sospetto di
porto d’armi: agli occhi degli strateghi la distinzione tra civile e militare non ha più nulla di evidente.
Tutto ciò induce i contemporanei a parlare di “mobilitazione totale”: non è più soltanto la totalità degli
uomini validi che è chiamata a combattere, ma anche il resto della popolazione.
Proprio per la sua durata, per la sua persistenza e per il suo carattere estremo, la prima guerra mondiale
ha inciso in maniera duratura sulla società e sulle culture, sino a divenire l’esempio della guerra in sé.
In queste condizioni estreme i combattenti della Grande Guerra hanno scoperto l’importanza del gruppo e
fatto l’esperienza di ciò che il ricordo esalterà, dopo la guerra, sotto il nome di “solidarietà delle trincee”.
Numerosi sono gli ex combattenti ad aver esaltato la fraternità delle armi, forgiata nell’avversità e
nell’orrore: una fusione di individui ormai agglomerati dal fuoco nemico.
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Il ritorno alla vita civile, la difficoltà per gli ex combattenti di ritornare ad una società pacificata,
indurrà molti, dopo il 1919, a celebrare la guerra ad ogni costo e a cercare di ritrovare, in diverse
organizzazioni paramilitari, quello stesso sentimento di appartenenza sperimentato nel fango e nel fuoco
dei combattimenti.
Il caso di Hitler da questo punto di vista non è un’eccezione.
Hitler ha sopportato, sofferto e vissuto la paura e le ferite del combattente medio. La costruzione di un
partito nazionalista, bellicista e paramilitare fu un mezzo per lui e per molti dei suoi simili per ritrovare, in
un mondo civile a loro ormai estraneo, questa comunità del combattimento.
I. Conquistare la pace?
L’11 novembre 1918, dopo i colloqui iniziati su richiesta del comando tedesco, si conclude l’armistizio.
Vincere la guerra non era tutto. Secondo la celebre frase del Tigre, rimaneva da “conquistare la pace”:
il trattato a venire sarebbe dunque stato una prosecuzione della guerra con altri mezzi.
I 14 Punti, resi pubblici nel gennaio del 1918, portano il segno dell’ispirazione razionalista. Le
disposizioni principali del programma di pace sono scaturite direttamente dalla riflessione dell’Illuminismo:
il diritto dei popoli di disporre di loro stessi, una diplomazia pubblica, la libertà dei mari e la fine del
protezionismo, la riduzione degli armamenti, la costituzione di una società delle Nazioni.
Wilson rifiuta di riconoscere il trattato segreto di Londra, che nel 1915 aveva concesso all’Italia dei futuri
premi territoriali.
I 14 Punti importano poco al presidente del Consiglio francese, che non intende farsi rubare una pace
conquistata a così caro prezzo. Colpito dalla guerra del 1870, afflitto dalle distruzioni e dalle perdite
umane della Grande Guerra, Clemenceau è preoccupato di una sola cosa: far pagare la Germania e
sottrarre a questo paese ogni mezzo per nuocere alla Francia.
Il trattato firmato il 28 giugno 1919 nella Galleria degli Specchi del castello di Versailles è greve di
disaccordi attuali e scontri futuri. Il caso italiano si segnala subito per la sua specificità di vincitore della
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guerra uscito sconfitto dalla pace. In occasione del congresso di Versailles, Wilson rifiuta di riconoscere
questi accordi segreti che ritiene contradditori rispetto ai principi di pubblicità diplomatica dei 14 Punti.
Del resto non vuole danneggiare la Serbia, Stato vincitore.
Il presidente del Consiglio italiano, Orlando, non riesce ad imporre gli obiettivi di guerra del proprio
paese. Conclusi i trattati del 1919-1920, l’Italia non ottiene né colonie né riparazioni, né le terre irredente
della costa dalmata. L’Italia si ritiene assai mal ricompensata per i suoi 750.000 morti e i suoi durissimi
combattimenti. Il tema della “vittoria mutilata” mette radici nella stampa e nel discorso politico.
Nei confronti delle disposizioni dei trattati cresce una violenta reazione presso i soldati smobilitati, che
riprendono servizio negli Arditi d’Italia, organizzazione paramilitare.
Gli Arditi, guidati dal poeta e aviatore D’Annunzio, prendono d’assalto la città di Fiume il 12 settembre
1919 e creano uno Stato libero.
Quanto alla Germania, stando al trattato, essa non è più una grande potenza. La Germania è stata
esclusa dalle discussioni quadripartitiche della conferenza di pace.
Tra gennaio e maggio 1919 il governo tedesco è stato uno spettatore tenuto all’oscuro del proprio destino.
Il cancelliere socialdemocratico Scheidemann si indigna per le iniquità delle sue disposizioni.
Il 16 giugno gli alleati intimano un ultimatum: si esige una firma entro 5 giorni, pena la ripresa delle
ostilità. In queste condizioni il trattato può essere vissuto solo come un diktat.
Le disposizioni del trattato portano il segno di Clemenceau e mirano a far scomparire la Germania
come grande potenza. La Germania è umiliata dalla perdita del 15 % del suo territorio e di 6 milioni dei
propri abitanti; dal divieto di possedere un esercito superiore a 100.000 uomini, privo di aviazione, marina
e armamento pesante; dal divieto di unirsi con l’Austria; dall’articolo 231 del trattato che impone il
regolamento delle riparazioni, il cui ammontare, non ancora fissato, si annuncia esorbitante.
La Repubblica di Weimar, prima democrazia parlamentare tedesca, la cui Costituzione viene
adottata il 31 luglio 1919 in queste circostanze, non si riprenderà più dall’essere associata a una pace
percepita come ignominiosa. L’assenso ad un trattato così drastico è impossibile.
2. La guerra continua
Di fatto in Europa la guerra prosegue. Sulla costa dalmata si combatte sino a dicembre del 1920. In
Russia gli alleati intervengono contro i bolscevichi. In Germania il governo è ufficialmente in pace, ma
il suo esercito non rifiuta il sostegno logistico e diverse compiacenze materiali ai Freikorps che
continuano la guerra all’Est sino al 1921.
I Freikorps sono composti da soldati smobilitati poco disposti ad adattarsi ad una vita civile. Tollerati, e
talora impiegati dal governo, i Freikorps combattono, con il sostegno degli Alleati, i bolscevichi nei paesi
baltici. Combattono anche nell’Alta Slesia sino all’ottobre del 1921 per evitare che la regione venga
assegnata a una Polonia appena ricostituita.
Nonostante questi combattimenti gli Alleati decidono di ricongiungere la regione alla Polonia. In
Turchia il trattato di Sèvres scatena una reazione nazionalista: un colpo di stato militare rovescia il
sultano, che aveva acconsentito a condizioni estremamente dure, in particolare alla perdita di tutta la
Turchia europea, fatta eccezione per Istanbul. Il nuovo regime, instaurato da Kemal, conduce una guerra
sanguinosa contro la Grecia tra il 1920 e il 1922.
Frustrata dalla sua vittoria mutilata, l’Italia va incontro a difficoltà di riconversione economica e sociale
della pace. Lo Stato rimane fedele ad un’impostazione liberale classica e rifiuta di intervenire per aiutare
le imprese in difficoltà. Si costituiscono dei consigli operai, che talora occupano le fabbriche e rivendicano
l'autogestione dei mezzi di produzione. Nelle campagne i giornalieri e i contadini non proprietari occupano
le terre.
Di fronte a questi attentati al diritto di proprietà, gli agrari e gli industriali danno vita a due nuovi
organizzazioni, la Confagricoltura e la Confindustria, sindacati padronali.
Vengono arruolate delle milizie private e il ricorso alle milizie fasciste, gli squadristi, è frequente.
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A più riprese la Germania è un luogo di aperti scontri tra il novembre 1918 e il novembre del 1923. Il 1
novembre si formano dei consigli dei soldati sul modello bolscevico, ai quali si uniscono gli operai.
Il 5 novembre i segretari di Stato socialdemocratici chiedono l’abdicazione del Kaiser, che diviene
effettiva il 9. L’esercito approva che il socialdemocratico Ebert diventi cancelliere e il 10 novembre gli
propone un’alleanza: di fronte alla minaccia rivoluzionaria, l’esercito accetta di tollerare un governo
formato da parlamentari socialisti.
In cambio il governo di Ebert combatterà ogni massimalismo bolscevico proveniente dalla fazione
minoritaria, detta spartachista.
Gli spartachisti escono dal governo il 25 dicembre 1918. Il 13 gennaio 1919 dopo “una settimana di
sangue” la rivoluzione spartachista finisce. Nel frattempo si organizzano le elezioni per la Costituente.
L’assemblea si riunisce il 6 febbraio a Weimar. La costituzione, profondamente liberale e democratica,
viene adottata il 31 luglio 1919.
Questa repubblica che soffre a destra per la macchia di Versailles, soffre all’estrema sinistra per la
settimana di sangue a Berlino. Con l’adozione della Costituzione, la Germania non ha finito con i disordini
civili, che proseguono sino al 1923.
In Italia, come in Germania, la sofferenza delle trincee e onorevole e legittima. I partiti nazionalisti, partiti
della rivincita nutriti dal rancore suscitato dalle false sconfitte ( Germania) e dalle false vittoria ( Italia),
fanno proseliti negli ambienti degli ex combattenti.
Gli smobilitati ridotti alla disoccupazione, al vagabondaggio, si ritrovano nelle consuetudini, nelle uniformi
e nei discorsi del partito che offrono loro una fierezza, un capo, un senso, così come un nuovo nemico. La
brutalizzazione delle società europee è in effetti incoraggiata e alimentata dall’emergenza di una nuova
alterità percepita come ostile. Si constata che, a partire dal 1918, prende piede in Europa una nuova
situazione di stato di guerra contro un nemico nuovo, la rivoluzione bolscevica.
I governi francesi e inglesi temono il potere bolscevico e inviano truppe per sostenere i Russi bianchi sin
dall’agosto del 1918. Dal punto di vista diplomatico, si impone la strategia del “cordone sanitario”
elaborata da Foch: alcuni Stati-cuscinetto dovranno isolare la Russia dall’Europa occidentale.
L’indipendenza dei paesi baltici e della Finlandia è confermata, e la Francia aiuta la Polonia nella sua
guerra contro la Russia. Aldilà di queste operazioni, è una vera e propria cultura di guerra antibolscevica
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che si radica nell’Europa occidentale. Il bolscevico, stigmatizzato in un’essenza barbara e ostile, diventa
una figura violentemente repulsiva per i nazionalisti e per i conservatori di ogni schieramento.
Anche qui, l’eccezionalità diventa un diritto comune. Allo stesso modo, nominato presidente del Consiglio
nell’ottobre del 1922, Mussolini si affretta a far votare dal Parlamento un’abilitazione a governare per
mezzo di decreti-legge.
Se la democrazia sembra uscire vittoriosa dalla Grande Guerra, si tratterà comunque di una democrazia
modificata. Sin dal 1914 la guerra è stata presentata come una guerra del diritto contro l’ingiustizia.
Innumerevoli sono i testi che provano il carattere ordalico assegnato allo scontro tra la Triplice e la Tripla
Intesa: da un lato gli imperi autoritari, dall’altro le democrazia britanniche e francesi alleate, peraltro, con
l’autocrazia russa. La vittoria consacra la democrazia: l’impero russo non c’è più, lo zar è stato rovesciato.
Gli imperi centrali sono sconfitti: la Germania è afflitta dal trattato di Versailles mentre l’impero
austro-ungarico molto semplicemente si dissolve.
La Società delle Nazioni, sorta di democrazia delle democrazie, avrebbe coronato l’edificio dei Lumi
nazionali e internazionali. Ora le democrazie liberali si fondano sugli stessi postulati del XIX secolo.
Questi postulati ottimisti e razionalisti: sono un tutt’uno: il primato della ragione e del dialogo razionale, la
ricerca del compromesso, la fondamentale buona volontà dell’uomo.
Con la crisi del racconto razionalista e ottimista, dopo la carneficina della guerra: è dunque il terreno
che viene a mancare alla democrazia nazionale o internazionale: il dialogo delle ragioni è stato
soppiantato dal monologo della forza, la ricerca del compromesso è scomparsa nella scia di coloro che
hanno fatto sloggiare il nemico dalle trincee.
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Il tragico fallimento di una Società delle Nazioni nata morta, minata dall’isolazionismo americano e dalla
messa in quarantena della Russia bolscevica e della Germania, testimonia il naufragio degli ideali
dell’Illuminismo.
La società delle nazioni nata dal trattato di Versailles appare ai tedeschi e agli austriaci come la garante
di una pace imposta che non è stata né discussa né accettata e che viola i principi sui quali dovrebbe
basarsi: l’interdizione dell’Anschluss, pur auspicata dal governo austriaco, contraddice apertamente il
diritto dei popoli di disporre di se stessi.
L’ammissione della Germania, la messa fuori legge della guerra, portano per un breve momento
all’apice il progetto kantiano-wilsoniano, prima che la recessione economica e un ritorno al bellicismo
vengano a far ammainare le speranze ( aggressione italiana in Europa, guerra civile spagnola). Le
condizioni economiche non sono migliori.
Si è soliti opporre alla crescita degli anni ‘20 la grave recessione degli anni ‘30. Ma se il recupero
degli anni ‘20 è notevole e fortemente in contrasto con la depressione degli anni ‘30, un’altra visione si
impone quando si considera una cronologia di più lunga durata.
Se il periodo 1884-1914 fu segnato piuttosto da una crescita globale della produzione industriale e
agricola, il periodo 1914-1944, anche nel momento migliore dei folli anni ‘20, gli indici di produzione
riescono al massimo ad uguagliare i livelli del 1913. Questa recessione è gravida di conseguenze.
L’impotenza dei democratici di fronte a un contesto recessivo porta con sé una forte disaffezione nei
confronti dei regimi che non sanno far fronte all’impoverimento dei loro cittadini.
La Grande Depressione successiva alla crisi del 1929 provoca una grave disaffezione nei confronti delle
democrazie che sembrano decisamente impreparate in materia di economia politica.
Si innesca il ciclo depressivo che provoca la caduta della produzione e il calo del potere d’acquisto in un
circolo vizioso che gli Stati non riescono a spezzare in alcun modo.
I democratici restano legati ad una concezione ortodossa e classica delle finanze pubbliche che ripudia
sin dal 1925 la professione di fede liberale per commissionare grandi opere che dovrebbero favorire la
creazione di lavoro e di ricchezza ( Mussolini invece ne rappresenterà un esempio lampante, dal
momento che sarà il primo a volere l’intervento dello Stato nell’economia in questo senso).
A partire dal XIX secolo tutti concordano circa una concezione minimalista dello Stato, che deve limitarsi a
garantire l’ordine interno e la sicurezza delle frontiere. Ora economisti e uomini politici restano
ostinatamente fedeli ad una concezione delle finanze pubbliche in fondo assai privata: il bilancio dello
stato deve essere gestito come quello di casa.
Ogni deficit è essenzialmente negativo, ogni eccedenza è benvenuta. In virtù del difficile contesto
economico e di disposizioni costituzionali insufficienti ad assicurare la continuità dell’esecutivo, gli anni
1919-1939 sono segnati, nei regimi democratici, da una forte instabilità ministeriale.
I governi cadono, i gabinetti trattano gli affari correnti, i cittadini sono sgomenti e prestano un ascolto
sempre più attento ai demagoghi di ogni risma che condannano senza appello lo spreco e il circo
parlamentari.
Il prestigio della democrazia è dunque gravemente intaccato dall’instabilità politica e dall’impotenza
economica. La democrazia è “incapace di conquistare le simpatie delle masse”. L’immagine è
significativa: la democrazia incarnata dagli uomini di ieri che conducevano le lotte dell’altro ieri, sembra
colpita dall’obsolescenza e dalla desuetudine quanto gli abiti civili lisi ma curati dei suoi governi.
La Grande Guerra ha messo fine a tutto ciò, sostituendo al completo dell’avvocato e del professore
radical-socialista l’uniforme paramilitare del veterano aggregato a movimenti fascisti che impongono
un’immagine di modernità.
Di fatto, l’assemblea elettorale nel novembre del 1919 è divisa in dieci partiti. I più forti sono: il partito
socialista e il partito popolare italiano.
Questa configurazione parlamentare è preoccupante per il regime, in quanto il PSI adotta, sotto l’influenza
della rivoluzione russa, una retorica massimalista in contrasto con lo statuto sociale dei suoi quadri. Il PSI
risolve la contraddizione attraverso la scissione del congresso di Livorno che, nel gennaio 1921, fa
nascere il partito comunista italiano.
Quanto al partito popolare di Don Sturzo, esso si oppone alla tradizione laica incarnata da Giolitti, che non
ne ottiene il sostegno.
I gabinetti ministeriali si basano sin da allora su coalizioni fragili: sette governi si succedono in cinque
anni, da ottobre 1917 a ottobre 1922.
La classe politica si è scarsamente rinnovata: in campo economico il consenso liberale vieta ogni
intervento dello stato per aiutare le imprese in difficoltà di riconversione; in campo politico lo Stato italiano
dà prova di uno stupefacente liberalismo nei confronti delle agitazioni e delle violenze fasciste.
Il simbolo di questa inerzia è Giolitti. Nel giugno 1920, a 78 anni, torna per dirigere il governo. A questo
alto funzionario, ispettore delle Finanze, succede Facta.
Né lui, né Giolitti, né Nitti hanno combattuto durante la prima guerra mondiale e non sono particolarmente
giovani. Privi dell’esperienza del fronte, restano fedeli a un modo di pensare e di praticare la politica che è
divenuto estraneo agli ex soldati e ai nazionalisti che si uniscono ai ranghi fascisti.
Giolitti pensa così di poter lavorare in buona intesa con i fascisti di Mussolini, di cui facilita l’accesso al
potere: non a caso prenderà le distanze dal nuovo regime solo nel 1928, allorché Mussolini
scioglierà definitivamente il Parlamento.
A partire dal 1919, in effetti, un nuovo attore è apparso nella vita politica italiana. Il fenomeno non è solo
tipico dell’Italia: ovunque in Europa si costituiscono dei movimenti di ex combattenti che sono tornati dalla
Grande Guerra con una visione peculiare della città, dei rapporti sociali.
Il 23 marzo 1919 Mussolini riunisce ex Arditi, sindacalisti e futuristi per creare i Fasci italiani di
combattimento. Il movimento raccoglie tutti coloro la cui fiducia nell’umanesimo e nella ragione è stata
scossa dall’esperienza della guerra e che reputano superata la democrazia liberale.
Delusi dalla pace, a disagio nella società del dopoguerra, i membri dei Fasci non sanno più che fare
della loro violenza.
La deriva elettorale delle elezioni legislative del novembre 1919 riorienta il movimento verso destra. I
disordini sociali orientano il fascismo nascente, ideologicamente indefinito, verso un risoluto
anticomunismo, ciò che gli vale il sostegno finanziario degli industriali e dei grandi proprietari terrieri che
finanziano i gruppi fascisti incoraggiati allo scontro duro contro la sinistra per difendere la proprietà
privata.
Nell’estate del 1920 i Fasci mettono a punto la loro struttura paramilitare: squadre di militari violenti,
armati e vestiti di camicie nere vengono poste sotto l’autorità dei capi fascisti locali.
Gli squadristi fanno sloggiare coloro che occupano terre in Emilia e in Toscana. Utilizzati come milizia
privata e anticomunista, gli squadristi sono sempre più numerosi. Ex combattenti ed ex ufficiali smobilitati
trovano in questa attività uno stipendio, un gruppo sociale e la possibilità di mettere a frutto la pratica della
violenza acquisita durante gli anni della guerra.
Inoltre, il loro nazionalismo ferito li induce a percepire i comunisti come degli internazionalisti che
minacciano di dissolvere la nazione in un’inedita sovversione. La base fascista si compone dunque di
braccia muscolose che terrorizzano la sinistra, sotto lo sguardo distratto e benevolo delle autorità locali e
l’assenza di una reazione ferma da parte del governo.
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Giolitti si sforza nel vedere nei fascisti un’organizzazione che può essere integrata nella democrazia
liberale. Ansioso com’è di “rendere costituzionale il fascismo” fa inserire dei fascisti nelle liste dei partiti
liberali in occasione delle elezioni municipali dell’ottobre 1920, e delle legislative del marzo 1921.
Mussolini, che fa entrare 35 fascisti in Parlamento, guadagna un’onorabilità politica che lo rinsalda nel
suo doppio gioco: lasciare che si sviluppi, alla base, la violenza del movimento che in ogni caso non può
contenere, e insinuarsi nelle stanze del potere presentandosi come un’alternativa possibile. Egli approfitta
della tribuna parlamentare per curare un profilo di destra che blandisce e seduce alcune elite economiche,
finanziarie e politiche che vedono nel fascismo un’efficace diga anticomunista.
Così Mussolini dichiara, in occasione del suo primo discorso da deputato del Parlamento italiano, di
essere un liberale. Se condivide con le sue truppe un convinto antimarxismo, Mussolini non è seguito nel
suo legalismo dalla base e dai ras locali quando risponde all’ingiunzione del presidente del Consiglio,
Bonomi, il quale impone il 3 agosto 1921, un patto di pacificazione con i sindacati di sinistra.
Il patto resterà lettera morta e l’autorità di Mussolini sul movimento viene messa in discussione. Per
riprendere il controllo dei Fasci, Mussolini ottiene al congresso di Roma che i Fasci di combattimento
diventino un partito politico, il partito nazionale fascista, di cui viene proclamato Duce.
In cambio sconfessa il patto di pacificazione e allenta le briglie alla base, il cui massimalismo consente di
confermare la debolezza dello Stato. Davanti a questa debolezza i sindacati decidono di serrare le fila e di
mostrare la propria forza con lo sciopero generale del 31 luglio 1922, che scatenerà un’ondata di violenza
fascista: il 3 agosto i sindacati fanno cessare lo sciopero.
Mussolini ha mostrato qual è il peso del suo movimento.
Sin da allora Mussolini decide di esercitare una pressione su Roma autorizzando la preparazione di un
colpo di mano che soddisfi le sue truppe, nella speranza che la semplice possibilità spaventi
sufficientemente il re da fare appello a lui.
In occasione del congresso del Partito Nazionale fascista a Napoli, il 24 ottobre 1922, Mussolini dichiara,
dando piena soddisfazione al suo uditorio massimalista, che non intende andare al potere per la porta di
servizio. Le ambizioni e le esigenze fasciste sono più alte.
Minuziosamente preparato, il colpo di stato fascista, inizia il 27 ottobre 1922: 2600 uomini iniziano la loro
marcia su Roma. Prudente, Mussolini raggiunge Milano, da dove potrà fuggire in Svizzera in caso di
problemi, in quanto sa che, di fronte ad un governo risoluto e ad un esercito bel equipaggiato, il colpo di
stato sarebbe, nel caso in cui si venisse allo scontro, votato al fallimento.
Il presidente del Consiglio, deciso a difendere il governo legale, chiede al re di firmare un decreto che
instauri lo stato d’assedio e che permetta di rendere operativa la forza militare.
Vittorio Emanuele III rifiuta, il che induce Facta a dare le dimissioni. Per evitare una guerra civile e
convinto dell’autentico afflato anticomunista di Mussolini, il 30 ottobre 1922 il re lo nomina presidente del
Consiglio.
Una volta capo del governo, Mussolini dà vita ad un esecutivo ministeriale pluralista. Ormai decisamente
antimarxista, finanziato dagli industriali e dagli agrari che utilizzano gli squadristi come una milizia
privata anticomunista, Mussolini ha da tempo messo in atto la sua virata a destra. Tuttavia, pressato
dalla base, egli non fa mistero del suo desiderio di mettere fine alla pratica liberale del potere e il 16
novembre 1922, in un discorso minaccioso, ricorre all’intimidazione. Mussolini reclama dal
Parlamento l’assegnazione dei pieni poteri.
Il 19 novembre 1922 il Parlamento vota i pieni poteri legislativi al governo Mussolini per un anno. Ormai
Mussolini può legiferare attraverso decreto legge e creare le condizioni della sua dittatura. Trasforma così
alcuni ras locali del Partito Nazionale fascista in prefetti. Crea anche il Gran Consiglio del fascismo, le cui
riunioni, a partire dal 15 dicembre 1922, sostituiscono quelle del governo.
Il 14 gennaio 1923, Mussolini crea per decreto la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale.
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- La Milizia è un tipo di polizia che risponde direttamente al presidente del Consiglio, mentre la
Guardia reale viene sciolta il 1 gennaio dello stesso anno.
- Il comando della Milizia e quello della polizia vengono unificati.
Per ottenere una maggioranza in Parlamento Mussolini fa adottare una riforma elettorale: la legge Acerbo
del 21 luglio 1923 attribuisce la maggioranza dei seggi alla prima lista che otterrà più del 25 % dei suffragi.
Dopo lo scioglimento della camera, le elezioni legislative del 6 aprile 1924 portano all’amplissima lista,
presentata dal Partito fascista, il 66 % dei voti in un contesto di propaganda e intimidazione permanenti. Il
deputato socialista Matteotti, denuncia in un discorso tenuto il 30 maggio 1924, le condizioni in cui si sono
tenute le votazioni.
Il 10 giugno scompare. Il 13 i deputati socialisti si ritirano dal parlamento. Mussolini per alcuni mesi
sembra temporeggiare. I massimalisti del partito nazionale fascista ritrovano la loro vecchia diffidenza
dell’estate 1921 di fronte al loro capo, sospettato di voler normalizzare, anziché edificare una dittatura
senza compromessi.
Il 31 dicembre 1924, un gruppo di consoli della Milizia fascista si reca a Palazzo Chigi e impone a
Mussolini di mettere a tacere l’opposizione. Mussolini reagisce alla pressione crescente con il famoso
discorso del 3 gennaio 1925 in cui si dichiara completamente solidale con i malfattori fascisti che hanno
assassinato Matteotti, precisando chiaramente che il tempo del legalismo è passato.
Se il discorso del 3 gennaio 1925 ha il merito di dissipare gli equivoci e di rivelare la volontà del partito
nazionale fascista di instaurare una dittatura con ogni mezzo questa data è solo una tappa della lenta
fascistizzazione dello Stato italiano, processo lento, poiché Mussolini deve mediare con il re, la chiesa e le
elite agrarie e industriali.
Queste non aderiscono necessariamente ad un progetto peraltro alquanto nebuloso e vedono in lui solo il
garante dell’ordine sociale, un uomo forte che tiene a freno la minaccia della sovversione comunista.
Quando si pensa al fascismo italiano, ci appare l’immagine di Mussolini in uniforme. Questa immagine è
caratteristica della radicalizzazione totalitaria degli anni ‘30.
Ma non bisogna dimenticare il Mussolini in frac degli anni ‘20, quello che si inchina davanti al re e che
deve mediare con le forze e le elite politiche, sociali e religiose dell’Italia contemporanea.
Al confronto la radicalizzazione nazista sarà infinitamente più rapida: occorre dire che i nazisti non
avevano di fronte né un re né una Chiesa, in una parola quella tradizione culturale che Mussolini dovette
affrontare. Nel corso del biennio 1925- 1926, i giornali dell’opposizione sono vietati, come pure il partito
socialista.
Attraverso la legge del 24 dicembre 1925, Mussolini riceve l’abilitazione a governare tramite decreto
legge. La violenza e le violazioni dei diritti fondamentali diventano legali con l’adozione delle leggi di difesa
dello Stato, dette “fascistissime”.
3.2. L’Austria
L’Austria è un paese creato alla fine della prima guerra mondiale dal trattato di Saint-Germain, firmato
il 10 settembre 1919, dopo discussioni alle quali i rappresentanti austriaci non erano stati invitati. Il
grande Impero è stato scisso in diversi nuovi Stati.
La costituzione adottata nel 1920 crea una democrazia parlamentare. Tra il 1918 e il 1920, i
socialdemocratici chiedono l’annessione alla Germania. Il rifiuto categorico opposto dagli alleati lascia
all’Austria il sapore di un diktat.
A livello nazionale i cristiano-sociali governano alleati con i nazional-tedeschi, partito conservatore che
promuove l’annessione alla Germania. Se la destra governa il paese, Vienna è amministrata da una
municipalità socialdemocratica.
Nel 1923 il partito socialdemocratico si è dotato della propria organizzazione di difesa paramilitare. In un
paese dove praticamente quasi ogni uomo adulto è un ex combattente della Grande Guerra, l’eventualità
di una guerra civile viene presa in considerazione dalle diverse forze politiche del paese.
Nel 1927 si verificano degli scontri armati. Il
15 luglio 1927 uno sciopero generale paralizza Vienna. Una manifestazione si dirige verso il Parlamento e
successivamente verso l’adiacente Palazzo di Giustizia.
Considerato il simbolo di una giustizia iniqua e di uno stato federale eternamente in mano ai conservatori,
l’edificio viene preso d’assalto e incendiato. Il prefetto della polizia di Vienna, un nazional-conservatore,
ordina di aprire il fuoco. Da parte loro, i socialdemocratici decidono di permanere nella legalità e di non
passare all’azione violenta.
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3.4. La Spagna di Miguel Primo de Rivera: sette anni di dittatura ( 1923-1931)
La Spagna ha un regime di monarchia parlamentare fin dal 1876. Il suffragio universale maschile, in
vigore dal 1890, non impedisce il controllo delle elezioni da parte delle due forze dinastiche: il partito
liberale e il partito conservatore.
La Spagna è un paese rurale e agricolo, in cui l’elevato tasso di analfabetismo non conferisce alcuna
efficacia al suffragio universale. L’unico partito di opposizione, il Partito socialista operaio spagnolo,
dispone solo di un’infima rappresentanza parlamentare.
Di fronte ad un simile blocco del sistema, l’espressione delle opposizioni prende vie diverse rispetto alla
legalità elettorale senza speranza.
Nel 1917 la Confederazione generale del lavoro chiama allo sciopero generale, represso dal potere, dai
proprietari terrieri, dagli industriali che assoldano milizie private per proteggere i loro beni.
Il regime è tuttavia scosso da combattimenti ingaggiati contro l’esercito spagnolo dagli indipendentisti
marocchini che conseguono importanti vittorie. I disastri marocchini provocano la costituzione di una
commissione parlamentare che può chiamare in causa l’incompetenza di numerosi antiufficiali.
In queste condizioni, incoraggiato dal sovrano, il generale de Rivera diventa sempre più protagonista.
Alfonso XIII lo nomina ministro unico e proclama in tutto il regno uno stato di guerra. Nella sua prima
conferenza stampa, de Rivera presenta il suo potere come una necessità temporanea volta a ristabilire
l’ordine in Spagna.
Gli anni della dittatura di de Rivera lasciano un ricordo più ambivalente rispetto ai quarant’anni di un
franchismo che fece centinaia di migliaia di vittime. Non che de Rivera sia un liberale: la Costituzione del
1876 viene sospesa, i decreti del generale dittatore, controfirmati dal re, hanno forza di legge. La priorità
del generale-dittatore è di ristabilire l’onore e il morale dell’esercito spagnolo; si preoccupa inoltre di
sviluppare l’economia spagnola risanando le finanze pubbliche.
Nonostante ciò, le proteste dei socialisti non cesseranno col passare degli anni, per non parlare del
malcontento dei militari che mai si appianerà del tutto.
Questo Comporterà il 28 gennaio 1930 le dimissioni del generale-dittatore a favore di altri due militari che
proseguono la dittatura. A questo punto tutta l’opposizione si unisce il 17 agosto 1930 attraverso il
patto di San Sebastian che prevede l’organizzazione di un putsch militare teso a rovesciare la dittatura
e proclamare la repubblica.
Nel dicembre 1930 il putsch fallisce ma, consapevole del malcontento crescente, il governo prevede una
serie di consultazioni elettorali che dovranno aprirsi con le elezioni municipali del 1931. Il 12 aprile la
vittoria dei repubblicani induce il re Alfonso XIII alla fuga e alla proclamazione della seconda repubblica.
La storia spagnola è dunque singolare nel contesto del periodo fra le due guerre europee: una dittatura
precoce ( 1923) è sostituita da una Repubblica in cui per giunta la sinistra assume il potere.
Se in Francia si crea il consenso sulla forma repubblicana del governo, in Spagna e Portogallo
l’opposizione conservatrice sfocia in un sostegno accordato a una dittatura di destra dopo che il regime
repubblicano aveva dato prova della sua mancanza di stabilità.
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Nel 1911 si assiste alla prima rivolta monarchica che instaura una lunga serie di attentati e insurrezioni.
Da parte sua il partito repubblicano si divide. Anche l’esercito rappresenta una forza politica: se è
prevalentemente propenso al conservatorismo sociale e culturale, è a sua volta diviso e deve fare i conti
con un’ala sinistra dove dominano il repubblicanesimo e la laicità.
Sin dal gennaio del 1915 un putsch militare impone una dittatura presidenziale e un governo composto in
maggioranza da ufficiali. Si governa senza parlamento e si pone fine alla politica anticlericale della
repubblica. Questa stessa dittatura viene rovesciata quattro mesi dopo da un putsch di militari
repubblicani.
2. La tentazione fascista
Di fronte all’invecchiamento dei valori repubblicani e democratici, il fascismo rappresenta, agli occhi
di molti, un vento di cambiamento. Gentile sottolinea come la definizione di fascismo sia plastica e
complicata. Il fascismo non è un dogma, quanto piuttosto una cultura che si adatta al contesto storico
nei diversi temi ( ad esempio il capitalismo rifiutato nel 1919 e accettato nel 1921).
La cultura fascista si oppone come rifiutatrice della ragione e delle ideologie, in favore di un
particolarismo determinato da nazione, razza o classe sociale. Si ammette l’esistenza della guerra tra i
popoli ( Italia) e tra le razze ( Germania) e la si intende come buona e giusta, in quanto contraria al
rammollimento tipico del borghese.
La componente di lotta, che è comune al marxismo, trova qua una sfumatura esterna alla società, non
interna come avveniva tra le classi secondo “Il Capitale”.
Inoltre, mentre il marxismo sembra teorizzare la fine della guerra, il fascismo necessita di alimentare
l’opposizione identità-alterità.
Oltre alla bellicosità, i fascismi esaltano la giovinezza, nella speranza che si costituisca una società
combattiva da fronte. Il popolo dei fascismi non è una società alla quale si può partecipare o no, ma
una comunità alla quale si è indissolubilmente legati. La comunità fascista sacrificherebbe le parti in
favore del tutto, un grande organismo che regola tutto.
La creazione di questo organismo comunitario si basa sulla differenziazione dalle alterità; le leggi razziali
arriveranno in Italia solo nel 1938 e rimarranno poco radicate nella cultura italiana che si era avvalsa
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spesso di eroi stranieri nella creazione del proprio patrimonio culturale. La concezione della storia
differenzia fascismo e nazismo: il fascismo vede nell’Impero romano un antesignano di italica virtù, ma
passato e lontano;
- il nazismo teorizza l’eternità della lotta tra razze. In questo senso la concezione artistica è diversa:
- se il fascismo promuove forme di innovazione, il nazismo si rifugia nei modelli del passato.
Entrambi i regimi si affidano all’estetica della politica. La propaganda si rivolge all’irrazionale.
Nel 1933 fonda il Fronte Patriottico, intenzionato a riunire le destre ( eccetto i nazisti). Nel 1934 le ostilità
tra repubblicani e forze governative sono al loro apice: l’Austria diventa stato federale. Viene rimarcato il
forte legame dello stato con la chiesa cattolica.
In comune con il fascismo il progetto nazional-cattolico ha l’autoritarismo ( Dollfuss governa con decreti
legge), soppressione del pluralismo. La sua opposizione al nazismo lo rende impopolare tra i nazisti
austriaci: viene ucciso in un tentativo di putsch ( fallito). Alla sua morte sale al potere Schuschnigg, che
vede venire meno il sostegno italiano: la strada per l’Anschluss è ormai spianata.
La situazione è quasi ingovernabile: alle elezioni del 1930 Hitler forza Hindenburg al secondo turno. Von
Papen è nominato presidente, scioglie il Reichstag e si dichiara favorevole ad un cambio di regime; egli si
fa nominare commissario del Reich per la Prussia che vantava l’ultima presidenza socialdemocratica della
Germania.
La preparazione alle elezioni del 1932 si svolge in un clima di violenza, con le SA che si scontrano con le
milizie comuniste: chi ne esce più danneggiata è la Repubblica, visto che i suoi peggiori nemici prendono
una marea di voti; il presidente eletto al Reichstag è il nazista Goring.
Nel 1932 ad Hitler spetterebbe il ruolo di cancelliere nel governo di Von Schleicher: il capo dell’NSDAP
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rifiuta sprezzantemente. Von Schleicher indice una ridistribuzione di terre ai cittadini dell’Est della
Germania, mentre Papen brama di portare Hitler al governo per poterlo manipolare. Papen riesce a
lederela figura di Von Schleicher dinanzi ad Hindenburg il quale ne provoca la dimissioni:
il 30 gennaio 1933, Hitler viene nominato cancelliere del Reich.
Fino al 1934 il governo nazista deve consolidare il suo potere, mediando con alcune forze per
schiacciarne altre. Hindenburg indice nuove elezioni dove spera di ottenere la maggioranza assoluta:
il 28 febbraio il Reichstag viene incendiato e Hitler sospende le libertà individuali “per la protezione del
popolo e dello stato” ( questa sospensione di fatto rimarrà fino al 1945). Hitler ottiene dai due terzi del
Reich di poter governare tramite decreto legge.
La Spagna dalla Repubblica alla dittatura franchista ( 1931-1939) Dal 1931 la Spagna era una dittatura. Il
dibattito parlamentare si articola tra repubblicani, che guardano con simpatia alla Francia degli anni ’80
dell’Ottocento, e destre, favorevoli ai totalitarismi di destra che si preparano alla battaglia elettorale
consapevoli della infruttuosità di un eventuale colpo di stato.
Nel 1933 ci sono nuove elezioni, stavolta più favorevoli alla destra. La seconda repubblica viene vista
dalle sinistre allo stesso modo in cui i comunisti tedeschi vedevano la Repubblica di Weimar. In vista delle
prossime elezioni, la sinistra tenta di unirsi in un fronte popolare, mentre la destra dà vita al Fronte
Nazionale: vince la sinistra e Azana è di nuovo al governo.
È il 1936 e la guerriglia infuria nella “Primavera tragica”. Un putsch che coinvolge il Marocco e il sud della
Spagna dichiara Franco capo del governo.
La guerra civile spagnola contrappone la sinistra stanca di anni di autoritarismo reale ad una destra che
teme le istanze della sinistra stessa. Lo schieramento franchista riceve aiuti militari da Hitler e Mussolini,
lo schieramento repubblicano ha l’appoggio dell’URSS.
Nel 1939, dopo una sanguinosa guerra civile e grazie alla spaccatura interna alle sinistre, i ribelli vincono:
Azana scappa in Francia e Franco fa il suo ingresso a Madrid dove instaurerà una dittatura
nazional-cattolica fino al 1975.
Non possiamo spiegare però 21 anni di fascismo in Italia, né il perché si sia dovuto ricorrere a bruciare
Berlino, solo con la paura: i sistemi totalitari si dotano di organismi per poter racimolare il consenso.
Studiosi come De Felice e Reichel sono tra i primi ad ammettere le capacità seduttive del totalitarismo.
Per arrivare alla massa, un multiforme accumulo irrazionale, i discorsi dei totalitarismi sono imperniati sul
discorso emozionale che scalda l’animo e che aliena il soggetto dalla sua individualità per farlo diventare
parte passiva di un organicismo.
Ciò che il fascismo e il nazismo vogliono mettere in mostra sono società unite e senza debolezze, grazie
al culto dei loro capi: il duce e il fuhrer sono amici del popolo, trasmettono fiducia in un futuro glorioso che
risolleverà dal triste presente la razza prescelta. In Italia e Germania i due stati sono interventisti, pronti ad
intraprendere campagne economiche e infrastrutturali che gli procurano facilmente il consenso. La Kraft
Durch Freude e l’Opera Nazionale Dopo-lavoro sono intenzionate a mantenere soddisfatti e felici
lavoratori tedeschi e italiani. Gli immediati effetti materiali sulla popolazione sono quelli che garantiscono
ai totalitarismi il consenso, a cui si unisce l’opera di repressione forzata del dissenso.
2. Rigenerare l’uomo
La differenza fondamentale tra nazifascismo e dittature nazional-cattoliche è la volontà di creare un nuovo
uomo, non riesumandolo dal passato, ma rigenerando l’uomo moderno con i valori di cui si fanno portatrici
le squadre di combattimento. L’esaltazione della virilità e della sportività devono accompagnare la
rinascita del nuovo uomo: Mussolini come Hitler pensa di punire i celibi e sogna di creare una società
eugenetica guerriera.
Per il fascismo lo Stato è il perno intorno a cui deve avvenire l’innovazione dell’uomo; per il nazismo lo
stato è più un mezzo per arrivare alla conquista territoriale.
L’opera di miglioramento della massa passa tramite le associazioni create dallo Stato: all’opera Nazionale
Balilla per i più piccoli si aggiunge l’Opera Nazionale dopo-lavoro. Mentre il fascismo guarda con
riconoscenza alla Roma antica ma punta ad un avvenire di novità, il nazismo è fortemente legato al
passato, di cui vuole ristabilire la purezza.
La soluzione dell’igienizzazione razziale va di pari passo con le campagne demografiche: sussidi per le
donne incinte e ideazione di un programma di verifica di purezza delle mogli dei membri delle SS. La
politica eugenetica si schiera, fin da subito, contro gli ebrei.
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Anche Mussolini fu fortemente influenzato da altri poteri, come i ras radicali del fascismo e il re Vittorio
Emanuele III; quando verrà posto dalla Germania a capo dello stato fantoccio dell’RSI si ribellerà
finalmente della fastidiosa presenza del re.
2. “Imperium Romanum”
Il fascismo degli anni Trenta ha già alle spalle una decina di anni di storia: il Duce teme che si possa
assopire l’impeto su cui aveva fondato il suo movimento; per questo, dopo un’iniziale opposizione in
materia di Anschluss, Mussolini si avvicina ad Hitler e al suo giovane nazionalsocialismo, consapevole
del fatto che una prestigiosa vittoria militare poteva ridestare gli animi della penisola fascista.
Nel 1935 attacca e conquista l’Etiopia: l’Impero rinasce sui colli fatali di Roma ( il mito della romanità è
coltivato con lavori di riscoperta delle rovine a Roma).
Dal 1 novembre 1936 viene creato l’Asse Roma-Berlino, rafforzato poi dal Patto d’Acciaio, che stabilisce
le zone di interesse dei due imperi.
La politica coloniale italiana è maldestra e tenta di seguire quella di Hitler, con molte scelte sbagliate:
l’invasione della Grecia è insensata e fallimentare ( l’Italia perde posizione in Albania).
Queste sconfitte del Duce faranno calare a picco la sua fortuna, quando nel 1943 gli alleati sbarcheranno
in Sicilia: i soldati italiani depongono le armi, il Gran Consiglio del fascismo lo fa arrestare e prova a
ristabilire le prerogative monarchiche e parlamentari; liberato dalle SS Mussolini sarà di nuovo in
scena alla guida dello stato fantoccio di Salò, in una parentesi che terminerà il 28 aprile 1945, con la
sua esecuzione.
L’azione di potenziamento dell’esercito inizia nel 1935 e va contro gli imperativi di Versailles: il numero di
militari viene duplicato e la Renania è rimilitarizzata. Dopo l’Anschluss la Germania punta ai Sudeti,
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provincia che viene annessa segnando lo smembramento del territorio ceco; i governi europei non
ritengono la situazione tanto grave da dover intervenire, ritenendo la politica di Hitler limitata ad un
pangermanesimo.
Nel 1939 la Wehrmacht entra a Praga e divide in due la Cecoslovacchia: la Slovacchia è affidata ad un
governo indipendente ma sottomesso al Reich, la parte ceca è occupata militarmente e riorganizzata nel
protettorato di Boemia-Moravia. Le teorie razziali naziste fanno si che gli europei vengano concepiti allo
stesso modo in cui loro stessi concepivano i neri, gli arabi e i nativi: inferiori e degni di essere schiavizzati.
Il partito propone di riportare in patria i germanofoni sparsi per l’Europa ed utilizzarli come coloni nei nuovi
territori conquistati. La dialettica tra razza vincitrice e razza perdente è quella che guiderà la Germania
nazista alla guerra totale, durante la quale verrà intrapresa la “soluzione finale” che non è di per sé
contenuta nel Mein Kampf, ma affiora solamente dopo le conquiste ad est ed in Russia. Il genocidio degli
ebrei è un esempio inedito, poiché si trova fortemente radicato in questa cultura.
Salazar si fa promotore di un nazionalismo che non ha nulla diaggressivo, mentre celebra il glorioso
passato portoghese. Il lavoro è organizzato dalla Costituzione attraverso le corporazioni. Sebbene il
dittatore si fosse sempre dichiarato un umanista, i controlli di polizia si intensificano per scongiurare le
opposizioni da sinistra ma anche dall’estrema destra. Negli anni più fortunati per il nazifascismo, il
Portogallo si apre alla creazione di associazioni giovanili e del dopo-lavoro, le quali verranno soppresse
dopo il 1945.
2. La Spagna di Franco
La Francia manda in Spagna il nazionalista moderato Petain per evitare di essere accerchiata da
potenze fasciste. Dal 1936 Franco è diventato capo di Stato e comandante in capo, grazie alle sue
capacità dirigenziali. Sebbene il caudillo ottenne aiuti militari dal nazifascismo per raggiungere il
potere e si fosse eretto a baluardo anticomunista, Franco fu abile a coniugare una dialettica di stampo
fascista ad una politica che da questi toni prendeva le distanze.
Al momento dell’ingresso in guerra, Franco temporeggia saggiamente, intervenendo solo nel 1941
nell’operazione Barbarossa ( cominciata nel 1939) in funzione anti-Komintern. La repressione franchista è
tremenda, le condanne sono affidate ad appositi tribunali militari.
Il governo di Franco è simile a quelli nazifascisti: pienezza di poteri al Caudillo e partito unico ( Falange
Espanola tradizionalista y des las Jons, che rappresenta la volontà di Franco di unire tutte le forze della
destra che hanno sconfitto il Frente Popular). Nel 1943, consapevole della fine dell’epopea mussoliniana,
Franco passa alla neutralità bellica. Le misure intraprese nel biennio 1931-1933 vengono superate
attraverso un’alleanza con la chiesa. Si crea uno stato monarchico e di diritto divino, ma senza re.
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3.Vichy: un regime autoritario sotto l’occupazione
La rivoluzione nazionale voluta da Petain è nazional-conservatrice. Le istanze antidemocratiche si
riuniscono in un unico fronte che preferirebbe Hitler a Blum. Hoffmann definisce quella francese una
dittatura pluralista: istanze controrivoluzionarie, cattolicesimo sociale, nazionalismo della terra,
antisemitismo e xenofobia.
Nonostante la sconfitta con i nazisti, in Francia non si instaura una dittatura
fascista: la rivoluzione nazionale di cui Petain è il capo è una rivoluzione contro la Rivoluzione
Francese. Secondo i vertici della Rivoluzione nazionale, il 1789 avrebbe intrapreso la strada
dell’individualismo contro quella comunitaria che si vuole ricreare. Si intraprendono campagne
politiche sfavorevoli agli immigrati e ai francesi che hanno ottenuto la cittadinanza dopo il 1927, gli
ebrei vengono esclusi dagli incarichi pubblici.
L’omogeneità della patria prevede che vengano esclusi tutti i motivi di dibattito, uno su tutti quello
democratico-parlamentare. Il maresciallo Petain si riavvicina alla chiesa, con una svolta religiosa
nell’apparato scolastico e nelle associazioni giovanili.
Dal punto di vista dell’ordinamento lavorativo, il dirigismo statale prevale sulle corporazioni. Laval, a
cui viene affidata la vicepresidenza del consiglio, ritiene che la Germania vincerà la guerra ed esorta la
Francia a marciarle a fianco per riservarsi un posto di rilievo nel dopoguerra. Nella sua ultima fase i
tratti di collaborazionismo del governo di Vichy si accentuano. Il governo francese cadrà alla fine della
guerra poiché aveva compiuto il percorso inverso rispetto a Franco e a Salazar, i quali si erano
allontanati nella fase finale.
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