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STATO E MERCATO NEL DIBATTITO PARLAMENTARE IN ITALIA

DURANTE LA TERZA LEGISLATURA (1958-1963)


a cura di Marco Mezan

Sommario

Introduzione
1. Natura e limiti della ricerca p. II
2. Le fonti p. VI
3. La bibliografia p. VII

Capitolo I Il dopoguerra e la ricostruzione sociale ed economica dell’Italia (1945-1958)


1. L’Italia da ricostruire tra ’45 e ’48. Lo squilibrio economico e i disagi sociali p. 1
2. L’intervento americano: l’European Recovery Program e l’adesione dell’Italia p. 2
3. Da un’economia ‘liberale’ a un’economia mista in Europa e in Italia p. 4
4. L’Italia dalla ricostruzione al boom economico p. 11

Capitolo II Il progetto di governare lo sviluppo


1. La III legislatura repubblicana (12 giugno 1958 – 15 maggio 1963) e l’avvio del
centro-sinistra p. 22
2. La politica economica e sociale nel periodo 1958-1963 p. 32
3. La nazionalizzazione dell’energia elettrica: i contenuti del provvedimento p. 41

Capitolo III La nazionalizzazione dell’energia elettrica: il dibattito in aula


1. La nazionalizzazione alla Camera dei Deputati e al Senato p. 56
2. Lo scontro politico sul merito del provvedimento p. 56
3. La nazionalizzazione e la Costituzione p. 62
4. La nazionalizzazione e il CNEL p. 69
5. Il problema dell’indennizzo degli azionisti p. 73

Appendice documentaria
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

Introduzione

1. Natura e limiti della ricerca


Il presente lavoro non ha inteso soffermarsi unicamente sul mero e semplice aspetto
economico della questione relativa al problema della nazionalizzazione del settore elettrico italiano.
L'analisi del dibattito parlamentare, svoltosi nel 1962, inerente la decisiva scelta se implementare o
meno l'intervento statale in uno dei settori fondamentali dell'economia del tempo andava oltre la
scelta, giusta o sbagliata che fosse, puramente tecnica. Si tratta di una questione che travalica il
singolo aspetto economico per addentrarsi nel più complicato ed intricato campo politico, arrivando
a costituire, in alcuni sporadici casi, solo un mezzo per raggiungere il proprio fine.
Vengono dunque analizzati i complessi rapporti che, nel secondo dopoguerra, hanno caratterizzato,
nelle diverse economie di tutti gli stati, in qualche caso in maniera preponderante, in altri casi in
modo più lieve, i rapporti tra politica ed economia. Il caso italiano risulta di particolare interesse,
non tanto per la decisione in sé di nazionalizzazione, quanto per come questa è avvenuta. In altri
paesi europei, alcuni di stampo più liberale, altri caratterizzati da una scelta basata prevalentemente
su un forte intervento da parte dello Stato in campo economico, il processo di nazionalizzazione era
già avvenuto una quindicina di anni prima. Ecco allora che per meglio comprendere come e perché
questo sia avvenuto così tardivamente in Italia, occorre addentrarsi nella situazione politica italiana
dalla fine della guerra fino ai primi anni '60 e capire come questa si sia evoluta. Senza tralasciare,
naturalmente, l'aspetto economico che costituisce in ogni caso il punto cardine che ha dato il via a
tutta la questione.
Dal punto di vista economico, ci si trova in un periodo storico in cui l'energia elettrica
costituiva un fattore produttivo decisivo e necessario per lo sviluppo industriale dell'intero paese,
oltreché il punto di riferimento per valutare il grado di benessere sociale raggiunto dopo gli stenti
della ricostruzione. Quindi la prima domanda da porsi è stata: era giusto lasciare il settore elettrico
italiano in mani private mantenendo il modello economico liberista o era giusto che la mano
pubblica agisse in modo che il problema divenisse questione di interesse nazionale e fosse in
siffatto modo gestito? A questa domanda, nel mio lavoro, non ho dato risposta. Non tanto perché
non mi sia fatto una mia idea, anzi, quanto perché si tratterebbe solo di un'opinione, che potrebbe
essere o meno condivisa da chi legge ma lascerebbe il tempo che trova. Ho preferito esporre, spero
in maniera corretta e completa, le diverse voci che nel periodo inquadrato, si espressero a favore o
contro il provvedimento, motivandole con le loro ragioni, lasciando dunque al lettore la possibilità
di costruirsi una propria opinione. Per rendere maggiormente l'idea ho cercato di sottolineare gli
aspetti che legavano tale scelta al tempo in cui fu compiuta, condizione necessaria per una corretta
valutazione dell'insieme. Non che oggi l'energia non costituisca più un fattore fondamentale, si può
invece affermare che sia il perno indispensabile della società odierna. I consumi, a livello
industriale e civile, sono incrementati in modo esponenziale e tutto si fermerebbe senza energia
elettrica. La differenza è nel modo e nella possibilità di produrla. Le tecnologie si sono evolute a tal
punto che al giorno d'oggi risulterebbe quasi più economica l'autoproduzione, non solo per le grandi
aziende ma persino per il singolo cittadino. Certo, per la costruzione di grandi impianti (ad esempio
per la pericolosa produzione di energia dal nucleare o per l’eolico) sarebbe necessario ancora un
massiccio intervento economico, pubblico o privato che fosse ma, a mio parere, non essenziale
come lo era cinquant’anni fa. Dimostrato dal fatto che molte delle centrali idroelettriche, punta
d'orgoglio del sistema industriale italiano dei primi del Novecento, siano ora relegate al mero ruolo
di siti di archeologia industriale. Senza contare che da un po' di tempo a questa parte (almeno da
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dieci anni, da quando c'è stata la liberalizzazione del mercato elettrico) l'ENEL ragiona in termini
privatistici con lo scopo principale di raggiungere un utile economico, cosa invece che i principali
promotori del provvedimento di nazionalizzazione (ad es. Fanfani e La Malfa) temevano ed
avversavano con decisione.
Considerando che, nel periodo in cui venne prospettata la nazionalizzazione, tutte queste alternative
non erano presenti, ma si oscillava tra la principale produzione idroelettrica ed una futuribile
produzione nucleare, si rendeva necessario un ingente investimento di denaro per esercitare
l'attività. Le possibili soluzioni erano dunque due: proprietà privata o proprietà pubblica. Attraverso
lo scorrere del presente lavoro vengono dunque analizzate anche le questioni economiche inerenti
l'intero settore e l'opportunità di trasferire o meno l'attività di produzione di energia elettrica sotto il
controllo pubblico. Ma l'opportunità economica ad una simile trasformazione viene analizzata
anche nelle diverse forme che avrebbe potuto prendere il provvedimento, cercando di capire se la
nazionalizzazione alla fine sia stata la soluzione migliore.
Dal punto di vista politico la situazione appare un po' più complicata. La valutazione sulla
scelta del provvedimento di nazionalizzazione va ricercata in un arco di tempo ben più ampio e, a
voler ben vedere, ci si può addentrare addirittura al finire del secolo XIX. L'idea di nazionalizzare le
imprese, caratterizzate da un interesse generale così preminente da non poter essere gestite in
maniera consona dall'apparato privato, era ai tempi molto in auge, sì che in ambito italiano
possiamo riscontrare il provvedimento di nazionalizzazione delle ferrovie risalente appunto ai primi
anni del secolo XX. Ma la politica italiana, lungi dal voler imporsi se non attraverso molteplici
regolamentazioni, nell'amministrazione del settore elettrico, aveva lasciato la gestione dell'affaire
alle mani private, tranne una piccola parentesi all'inizio degli anni Trenta dovuta alla crisi
economica mondiale che non risparmiò l'Italia. Al termine del secondo conflitto bellico, la
questione della nazionalizzazione del settore elettrico ritornò prepotentemente alla ribalta grazie
soprattutto alla nuova concezione di economia mista che si stava affermando sempre più a livello
mondiale e al fatto che due paesi molto vicini al''Italia, la Francia e l'Inghilterra, avevano adottato la
misura in questione. Ma i tempi non erano ancora maturi. La guida politica dell'Italia era in mano
saldamente alla Democrazia Cristiana, partito di centro che nei primi anni governava con un occhio
di riguardo verso il liberismo economico, cercando di porre in essere la minor ingerenza possibile
da parte dello Stato nella sfera economica del Paese. E' nella prima metà degli anni Cinquanta che
le voci politiche, legate alla sinistra ma anche al centro, si fanno sentire sempre più rivendicando un
provvedimento che, a detta loro, avrebbe già dovuto essere adottato. Nonostante tutto bisognerà
attendere ancora una decina di anni perché le forze politiche di centro si convincano a dar vita alla
nazionalizzazione e che quelle di sinistra acquisiscano abbastanza potere da riuscire ad imporre il
loro pensiero. E qui è posto il dilemma attorno a cui si dipana l'intero lavoro. Fu il provvedimento
della nazionalizzazione adottato perché ritenuto realmente utile e necessario o fu una scelta politica
determinata dalle esigenze di voler limitare il potere economico nelle mani private? Da quanto
emerge dall’analisi degli interventi compiuti da alcuni esponenti politici si può evincere come una
parte dei centristi al governo fosse realmente convinta dell’utilità di questo provvedimento.
Personaggi come Fanfani o La Malfa andavano da tempo asserendo come la nazionalizzazione del
settore elettrico fosse imprescindibile o comunque come fosse necessario “rivoluzionare” il settore
elettrico allora vigente. Un’altra parte (consistente) di democratici cristiani non era fermamente
convinta del progetto, ma diedero il loro appoggio per il “quieto vivere”, ovvero per far durare il
Governo che li vedeva sempre in maggioranza e quindi per mantenere quella forma di potere che
dal dopoguerra in poi avevano sempre gestito. Vi erano invece i socialisti che sostenevano da tempo
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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

a gran voce una presa di posizione più energica da parte dello Stato e vedevano nei tempi di
attuazione del provvedimento un ritardo che aveva già danneggiato il Paese. La maggior parte dei
socialisti era risolutamente sicura dell’utilità della nazionalizzazione e l’aveva posta come punto
nodale del nascente IV governo Fanfani con forti pressioni e sotto la minaccia di far cadere lo stesso
se non si fossero presi provvedimenti in merito. I comunisti invece non vedevano di buon occhio il
progetto perché convinti si trattasse solo di un espediente per cambiare mano nella proprietà delle
imprese elettriche e null’altro. Dall’altra parte si ritrovavano i partiti di destra e di estrema destra
come missini, monarchici e liberali, che invece furono contrari al provvedimento più per principio
che per altro. Analizzando il dibattito parlamentare si può infatti riscontrare come tutta
l’opposizione, esercitata dai suddetti, non avesse reali pretese ma cercò di basare il proprio dissenso
su cavilli burocratici peraltro poco convincenti.
Lo scopo del presente lavoro è quindi quello di cercare di meglio comprendere in che modo il
mondo politico italiano dei primi anni Sessanta si sia approcciato ad un provvedimento che era
fortemente voluto dall’opinione pubblica e che in precedenti esperienze aveva mostrato validi
fondamenti di utilità.

Essendo l'argomento trattato di grande interesse, di vasta portata, nonché di un periodo


storico abbastanza recente, le fonti risultano copiose. Ho potuto così attingere, oltreché al disegno di
legge in oggetto e alle relative relazioni della maggioranza e della minoranza, agli atti parlamentari
inerenti le discussioni tenutesi presso la Camera dei Deputati, a partire dalla seduta del 28 luglio
1962 (a mio parere abbastanza importante per capire in che modo si sarebbe indirizzato l'intero
dibattito) fino all'approvazione finale.
Mi hanno poi aiutato molto ad impostare e sviluppare il discorso tutti gli interventi, sotto forma di
articoli di giornale, comizi, discorsi tenuti in differenti contesti, brevi dissertazioni, dichiarazioni,
scritti vari e così via degli esponenti politici, degli esperti economici e dei rappresentanti di
entrambe le fazioni.
Per quanto riguarda la mole di pubblicazioni inerenti l'argomento trattato, dall'affermazione
dell'economia mista in Europa dal secondo dopoguerra in poi, all'andamento economico e politico
dell'Italia nello stesso periodo, all'argomento precipuo riguardante il settore elettrico, questa risulta
imponente. Qui mi sono soffermato ad indicare i lavori da cui ho preso maggiormente spunto,
sicuro che chi vorrà approfondire l'argomento, potrà consultare l'elenco bibliografico dei testi ivi
riportati.

Mi duole però constatare che il presente lavoro possiede due limiti ben precisi: il primo è
oggettivo, mentre il secondo è soggettivo. Per ciò che riguarda il primo il lettore verificherà
chiaramente che viene preso in considerazione solamente il dibattito alla Camera dei Deputati e non
quello al Senato. Questo perché gli atti della discussione in Senato sono stati pubblicati, ma non
sono disponibili on-line. Benché siano disponibili le relazioni di maggioranza e minoranza prodotte
in Senato non ho inteso approfondire il discorso in quanto il dibattito più acceso e coinvolgente si
svolse alla Camera, mentre al Senato questo fu meno incisivo (e lo si può constatare anche dalla
durata che ha avuto il primo rispetto al secondo). Il secondo limite riguarda l'autore del lavoro,
ovvero me medesimo. Quando mi è stato proposto l'argomento lo ho accettato di buon grado perché
lo ritenevo interessante. Purtroppo però ero abbastanza digiuno in materia se non per le nozioni di
massima di cultura generale. Se questo ha fatto in modo che affrontassi l'argomento con maggior
impegno, con la scrupolosità tipica del novizio, dall'altra parte ha fatto sì che scoprissi nuove fonti o
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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

riferimenti bibliografici nel corso d'opera quando avevo già concluso le sezioni inerenti, qualche
volta modificando o aggiungendo i dati (nei casi in cui era necessario), altre volte constatando
solamente le nuove nozioni apprese.

Lo scritto è così strutturato: nel primo capitolo ho sottolineato come, al termine della II
Guerra Mondiale, si fosse affermata, in Italia e in Europa, l'economia di tipo misto nelle sue diverse
varianti. Mi premeva dare rilievo al fatto che ci si era resi conto che non era più possibile lasciare
che l'economia proseguisse secondo i principi della “mano invisibile”. Soprattutto al termine di un
conflitto che lasciava poche speranze di una rapida ripresa economica senza un aiuto importante
come poteva essere quello dello Stato. Di necessità virtù dunque. Un introduzione indispensabile
per poter poi affrontare l'argomento della nazionalizzazione del settore elettrico e di una
considerevole ingerenza statale in campo economico. Mi sono poi focalizzato sulla situazione
italiana scorrendo abbastanza rapidamente l'evoluzione politico-economica dal termine del conflitto
al 1958, anno di svolta per l'Italia in cui si registrò il principio del boom economico e, in campo
politico, prese avvio la stagione del centro-sinistra. E' stato importante mettere in risalto
l'andamento politico ed economico del paese nel decennio successivo al termine della guerra poiché
ha costituito il punto d'appoggio su cui si è basata poi la politica economica dell'inizio degli anni
Sessanta che portò al provvedimento di nazionalizzazione oggetto della tesi.
Nel secondo capitolo mi sono invece soffermato sul periodo in questione, ovvero il quinquennio che
va dal 1958 al 1963, dal punto di vista politico (nel primo paragrafo), dal punto di vista economico
(nel secondo paragrafo) e sul provvedimento di nazionalizzazione, le sue cause e i suoi effetti (nel
terzo paragrafo). E' stato un passo obbligatorio per poter registrare gli effettivi mutamenti nella
situazione italiana rispetto al periodo precedente. In campo politico, dopo qualche tentennamento,
prese avvio la stagione del centro-sinistra che sarà uno degli elementi caratterizzanti la politica
italiana negli anni a venire. In campo economico si verificò una situazione congiunturale mai avuta
e che molto probabilmente mai si ripeterà, che farà in modo che quel quinquennio venga ricordato
come quello del “miracolo economico italiano”. Una volta delineato il profilo economico e politico
dell'Italia dell'inizio degli anni Sessanta mi focalizzo sul provvedimento della nazionalizzazione del
settore elettrico italiano. Vengono analizzate tutte le motivazioni politiche ed economiche che
portarono alla decisione di porre in essere la nazionalizzazione. Il perché sarebbe convenuto attuare
tale provvedimento, confrontandosi anche con le esperienze precedenti avutesi all'estero, le
alternative e le posizioni dei vari schieramenti politici, oltreché quelle dei singoli deputati e dei più
rilevanti rappresentanti dell'economia del tempo.
Nel terzo capitolo infine ho lasciato la parola agli esponenti politici che alla Camera dei Deputati
hanno dato il via al dibattito politico, distinguendo nei diversi paragrafi quali fossero state le
opposizioni e quali le repliche. Per delineare il confronto mi sono basato sostanzialmente sulla
relazione di maggioranza che accompagnava il disegno di legge e sulle tre relazioni elaborate
dall'opposizione aggiungendo citazioni e complementi dei più importanti esponenti politici che
presero forma nel corso del vivace dibattito in aula che caratterizzò la decisione sul provvedimento.
Dopo un breve cappello introduttivo mi sono soffermato sulle questioni di maggiore rilevanza.
Prima fra tutte lo scontro sul merito del provvedimento, a seguire le critiche che vennero opposte
riguardo l'incostituzionalità del provvedimento stesso e la mancata audizione della Commissione
nazionale dell'economia e del lavoro. Ho evidenziato poi un elemento importante quale quello del
problema dell'indennizzo degli azionisti. Per evitare inutili ripetizioni ho creduto di riportare, per

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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

ciascuna argomentazione, gli interventi di un solo esponente politico, aggiungendone molteplici


unicamente ove lo ritenevo necessario.

Tra i documenti riprodotti ho creduto di riportare i più importanti, ovvero la composizione


della Commissione appositamente istituita per valutare il disegno di legge sulla nazionalizzazione,
il testo del disegno di legge presentato alla Camera dei Deputati il 26 giugno 1962, la relazione di
maggioranza a sostegno del provvedimento e le tre relazioni di minoranza in opposizione e infine il
testo della legge come promulgata dal Presidente della Repubblica.

2. Le fonti

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presentata al Parlamento il 22 maggio 1962;

La nazionalizzazione dell'industria elettrica in Italia. Leggi e decreti di attuazione, Roma 1963;

VI
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

La nazionalizzazione dell'industria elettrica in Italia. Relazioni parlamentari presentate dal


governo e dalle commissioni speciali della Camera dei deputati e del Senato (giugno-novembre
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VII
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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

Capitolo I Il dopoguerra e la ricostruzione sociale ed economica dell’Italia (1945-1958)

1. L’Italia da ricostruire tra ’45 e ’48. Lo squilibrio economico e i disagi sociali


Al termine del secondo conflitto mondiale l’intera Europa si venne a trovare in una situazione
rovinosa, sia dalla parte dei vinti, sia da quella dei vincitori.
In Italia, nonostante fosse tra i paesi europei coinvolti nel conflitto tra i meno danneggiati, si aveva
comunque a che fare con un paese stravolto. I danni peggiori si riscontrarono nel settore dei
trasporti e in quello abitativo1. Era un’Italia di macerie. Nelle città interi quartieri erano ridotti a un
ammasso di rovine, nelle campagne paesi e villaggi erano guastati dalle operazioni belliche ivi
compiute. Ancora peggiore era la situazione delle strade, dei ponti e delle attrezzature portuali, delle
ferrovie e del materiale rotabile, del settore aeronautico; il loro grado di inutilizzo si aggirava tra il
50 e il 70%2.
Non era invece così catastrofica la situazione degli impianti industriali, soprattutto al nord3,
dove si registravano perdite inferiori al 10% se si considera anche che le necessità belliche avevano
di fatto potenziato gli impianti esistenti.
In ogni caso si poteva riscontrare un calo della produzione agricola che era praticamente
dimezzata rispetto all’anteguerra, quella industriale era scesa a meno di un terzo. Per quanto
riguarda il settore agricolo i danni maggiori erano stati causati dalla distruzione di impianti e
fabbricati rurali e da un impoverimento del suolo che, per lungo tempo, non era stato concimato.
Anche il patrimonio boschivo e quello zootecnico aveva subito danni non indifferenti, tutto ciò
comportava un conseguimento di risultati nettamente inferiori a quelli che si avevano negli anni
immediatamente precedenti al conflitto.
Per quanto concerne il settore industriale, la minor produzione non era dovuta all’impossibilità
materiale di svolgere adeguatamente la produzione, quanto a circostanze che dalla guerra traevano
la propria origine. La prima, com’era naturale, era la carenza di materie prime necessarie per
avviare qualsiasi processo produttivo. La seconda era la mancanza quasi totale di valuta pregiata4,
andata perduta con le sovrabbondanti spese militari e con l’indennità di occupazione che la
Germania, durante gli ultimi anni di guerra, si era arrogata il diritto di prelevare5. Questa condizione
era strettamente legata alla prima in quanto le materie prime si riuscivano ad acquistare, sul mercato
estero, solamente in valuta pregiata.
Un’ulteriore limitazione era data dal fatto che gli impianti industriali, benché poco danneggianti e
quindi pronti a riprendere senza indugio la produzione, necessitavano una riconversione da una
situazione di guerra ad una di pace e, contestualmente, un rinnovamento tecnologico, dopo che il
ventennio protezionista fascista aveva in parte “isolato” la situazione industriale italiana rispetto ai
Paesi tecnologicamente più avanzati. Inoltre in Italia non si poteva vantare la presenza di un numero
significativo di grandi gruppi industriali6 quanto piuttosto una sequela di piccole aziende a

1
P. Galea, Tra ricostruzione e sviluppo in A. Leonardi, A. Cova, P. Galea, Il Novecento economico italiano. Dalla
Grande Guerra al “miracolo economico” (1914-1962), Bologna 1997, p. 201.
2
Ibid., p. 201.
3
Le distruzioni si concentrarono nel Mezzogiorno e nel centro dove il sistema industriale era più debole e dove i due
eserciti occupanti (tedesco ed alleato) si fronteggiarono per due anni.
4
Sostanzialmente dollari.
5
Tale prelievo forzoso aveva depauperato le riserve d’oro italiane.
6
Pochi erano i grandi gruppi industriali, quali FIAT, Montecatini o Edison, comunque non si poterono minimamente
paragonare ai grandi gruppi industriali americani.
1
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

prevalente carattere artigianale il che comportava una dispersione delle risorse e bassi livelli di
produttività.
Uno dei problemi maggiori che si riscontrò in Italia in quel tempo, o meglio in tutta Europa7,
fu quello della svalutazione della moneta. La lira perdeva sempre più colpi rispetto al dollaro che,
invece, si rafforzava dato il forte aumento dei prezzi americani e la persistenza di un mercato nero
che non agevolava affatto la situazione. Un'altra fonte di inflazione era stata l’emissione di carta
moneta aggiuntiva da parte degli alleati8 e l’impossibilità di controllo da parte del governo italiano
su tale emissione. In questo modo le monete circolanti in Italia erano tre: la moneta (ufficiale) del
Regno d’Italia, le lire emesse dalla Repubblica Sociale Italiana e le AMlire. E l’inflazione
galoppava. Si ritornò addirittura a forme di baratto, dove le sigarette fornivano una comoda e
divisibile merce di scambio. Se i prezzi aumentavano sempre più, i salari non seguivano lo stesso
andamento, seppur crescendo, lo facevano ad un ritmo pari alla metà di quello inflativo. A
corollario di tutto ciò vi era il contesto occupazionale che era semplicemente allarmante. A metà ’46
oltre un milione e mezzo di italiani si trovavano senza lavoro e sei mesi dopo furono circa due
milioni.
Non erano stati sufficienti, a tamponare la crisi, né il “Prestito Pubblico per la Ricostruzione”
promosso dall’allora ministro del Tesoro, né un credito di 130 milioni di dollari e gli aiuti materiali
in macchinari e materie prime dell’United Nations Relief and Rehabilitation Administration
(UNRRA), programma che il governo americano aveva proclamato durante il primo anno di pace.
Non meno preoccupante era la situazione sociale che si ripercuoteva, di conseguenza,
sull’andamento della politica e dell’economia. La guerra, com’è naturale, si era portata dietro un
ingente carico di lutti e sofferenze (in Europa i morti furono circa 42 milioni9, senza contare gli
invalidi, i feriti o i dispersi). Se a questo si aggiunge che la popolazione sopravvissuta era allo
stremo, priva di un tetto o di un ricovero, con pochi mezzi di sostentamento10, mancante di vestiario
e abbigliamento11, disoccupata o con un salario che non le permetteva di raggiungere le condizioni
di vita minime, si intuisce facilmente come il malcontento crescesse giorno dopo giorno. In questa
situazione, per due anni, il governo fu guidato da un'ampia coalizione che comprendeva tutti i partiti
antifascisti. La situazione cambiò nel maggio del ’47 quando socialisti e comunisti furono
estromessi dal governo e l’orientamento politico si spostò al centro (De Gasperi fu assertore di una
tregua politica al fine di evitare le proteste di piazza contro l’aumento del costo della vita e
l’evoluzione salariale inadeguata), permettendo a Luigi Einaudi, diventato Ministro del Bilancio, di
mettere in atto il suo piano di soluzione del problema di inflazione.

2. L’intervento americano: l’European Recovery Program e l’adesione dell’Italia


C’è quasi da meravigliarsi nel capire come l’Italia sia potuta risorgere nel giro di pochi anni
e portarsi a ridosso dei paesi industrializzati in breve tempo.
All’inizio del 1947 l’inflazione pareva inarrestabile come il passivo dei conti pubblici e le casse
dello Stato erano vuote. Ora però poteva fare affidamento sull’European Recovery Program che gli
Stati Uniti, attraverso il segretario di Stato George Marshall, avevano annunciato nel giugno dello

7
Come Kindleberger sottolinea «L’Europa arrivò alla fine della guerra in un bagno di moneta» cfr. C.P. Kindleberger,
Storia della finanza in Europa occidentale, Bari 1987, p. 554.
8
Le cosiddette AMlire.
9
Tra civili e militari.
10
La scarsità di alimenti aveva fatto tornare i livelli di alimentazione a quelli di cinquant’anni prima.
11
Un curioso aneddoto rivela come Alcide De Gasperi, nella sua visita ufficiale a Washington nel gennaio del 1947,
dovette farsi prestare un cappotto.
2
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

stesso anno per poi approvarlo nell’aprile di quello successivo. E' nell'aprile del 1948 che la spinta
economica programmata dal governo iniziò a prendere forma. Sia per la logica ferrea della
programmazione voluta da Einaudi, ma soprattutto perché fu in quel periodo che cominciano ad
arrivare gli aiuti americani previsti dall'European Recovery Program (ERP).
Il piano, elaborato dal governo americano e proposto all'Europa dall'allora Segretario di Stato
George Marshall12 mirava ufficialmente alla stabilizzazione economica e politica dell'Europa in
vista di una ricostruzione adeguata per un veloce recupero della situazione economica
dell'anteguerra. In tal modo si provava a dare ossigeno alle economie europee stremate dalla guerra
e si cercava di farle tornare a camminare con le proprie gambe.
Inoltre si premeva per garantire le condizioni di vita minime ed evitare così disordini che potessero
sfociare in rivolte o, su larga scala, in rivoluzione. Assicurando un adeguato regime alimentare e le
materie prime necessarie ad una ripresa delle attività industriali e, di conseguenza, dell'occupazione,
si poteva controllare lo sviluppo di un paese e, al contempo, ingraziarselo.
E fu così che si diede inizio ad un'opera di sostegno dell'economia italiana che si estrinsecò sotto
diverse forme. Per primo vi fu la cancellazione dei debiti, dopodiché iniziarono i reali aiuti
materiali. L'80% di quanto pattuito venne erogato sotto forma di forniture gratuite di beni e servizi,
il rimanente 20% direttamente in valuta come prestito da parte della Eximbank13. Tra i beni erogati,
a parte le merci e le materie prime di sicura importanza14, vi furono macchinari e impianti che
disponevano delle più avanzate tecnologie americane, portando quindi un progresso all'intero
sistema industriale italiano. Tra i servizi si annoveravano invece i corsi di formazione e l'assistenza
tecnica posti in essere da tecnici americani direttamente in loco, il che permetteva di sfruttare
adeguatamente ed appieno le nuove tecnologie relative a macchinari e impianti.
Di questi aiuti, l'85% furono a fondo perduto, ovvero i paesi a cui erano destinati non avevano
obbligo di rimborso. Se però erano dei privati ad usufruire dei vantaggi promossi dall'ERP, questi
dovevano pagare il corrispettivo equivalente al valore delle merci o dei servizi acquistati al governo
italiano. In tal modo, anche se in modo indiretto e in valuta nazionale, gli aiuti figuravano come
effettuati verso lo Stato e non verso terzi, ed andavano a sommarsi ad un fondo speciale costituito
appositamente dallo Stato presso la Banca d'Italia e destinato alla ricostruzione. In realtà il
programma di aiuto presupponeva una serie di altri scopi che, direttamente e/o indirettamente,
avrebbero favorito il governo USA nella sua perenne lotta al comunismo e nella sua espansione
economica. George Marshall si rese abbastanza esplicito con il governo italiano affermando che, nel
caso di una vittoria elettorale della sinistra, gli aiuti economici materiali e i prestiti sarebbero
cessati. Inoltre, un massiccio aiuto economico verso l'Italia e l'Europa occidentale creava una certa
sudditanza (sia effettiva che psicologica) di tutti i principali paesi verso gli Stati Uniti e verso le sue
idee politiche. L'ERP fu dunque la base per la formazione del Patto Atlantico e di una presenza
USA costante nel vecchio continente in contrapposizione all’"Impero comunista".
Dal lato economico, se pure gli esborsi a titolo gratuito (o quasi) da parte del governo
americano non furono ingenti, il ritorno (immediato o a lungo termine) fu significativo. Il piano
Marshall prevedeva che il prestito fosse condizionato, ovvero i dollari prestati dovevano, nella
maggior parte dei casi, essere utilizzati per acquistare merci, beni e servizi direttamente in America.
In tal modo agli americani risultava conveniente finanziare le importazioni degli altri paesi che,
acquistando direttamente negli USA, accrescevano il reddito nazionale americano mantenendo

12
Ed è per questo che verrà meglio ricordato come "Piano Marshall".
13
P. Galea, Tra ricostruzione e sviluppo cit., p. 241.
14
In ordine di grandezza erogata distinguiamo alimentari, combustibili, materie prime, prodotti agricoli, etc.
3
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

florida l'economia statunitense. In secondo luogo il governo americano aveva richiesto di rispettare
alcune requisiti per aderire all'ERP ovvero una stabilità monetaria15, una progressiva tendenza al
pareggio dei conti dello Stato ed una completa liberalizzazione degli scambi. In questo modo il
governo americano si assicurava una costante e duratura possibilità di commercializzazione con
l'estero e apriva gli sbocchi per nuovi mercati16.
A questo punto la domanda sorge spontanea: come si pose il governo italiano di fronte alla
proposta USA e perché vi aderì? La risposta è semplice: non vi era scelta! Per i nostri governanti,
dopo la primavera del 1947, vi era una sola alternativa. Ovvero accettare le condizioni proposte dal
governo americano o soccombere alla situazione disperata in cui versava il paese e rimanere nel
limbo di una mancata crescita economica.

3. Da un’economia ‘liberale’ a un’economia mista in Europa e in Italia


Indiscutibilmente la guerra aveva lasciato il segno. In ogni campo. Ed anche sul futuro sviluppo
economico dell’Europa e la sua stretta relazione con l’intervento statale in questo settore.
La tradizione europea già vantava un’idea di mercato in cui lo Stato coesisteva con le forze
economiche private, sia per sviluppare settori di importanza fondamentale nell’economia di un
paese, sia per dar maggior risalto ai problemi d’interesse collettivo. Ed un profondo intervento
statale si era già potuto riscontrare nel periodo compreso tra i due conflitti17, ma l’apogeo si
raggiungense solo dopo la fine del secondo conflitto che portò ad una salda affermazione
dell‘economia mista18.
Innanzitutto vi fu una conferma ed una contestuale accentuazione del concetto di “nazione” quale
stato unitario che non doveva più solo mirare ad una politica economica di “pareggio” di bilancio,
ma che poteva anche accettare dei deficit di bilancio pur di raggiungere determinati obiettivi utili
alla collettività. La priorità non era più solo quella di lasciare che l’economia esprimesse le sue
potenzialità attraverso il libero mercato e potesse, di conseguenza, soddisfare le necessità di un
paese; ma si dava ampio spazio ad ulteriori urgenze quali le politiche di welfare ed una più equa
distribuzione del reddito, politiche di spesa per sostenere la domanda e/o l’occupazione, una
stabilità monetaria per dare maggior agio a importazioni ed esportazioni, una più ampia e completa
offerta di servizi pubblici, soprattutto la sanità o l‘istruzione. Insomma si puntava maggiormente ad
obiettivi di crescita economica e sviluppo sociale, lo Stato era visto quasi come un deus ex machina.
Ma come nacque l’idea di economia mista e come prese sempre più piede in Europa fino a
diventare il fondamento di molti stati nel XX secolo?
E’ interessante notare come già, nel XVIII e XIX secolo l’economia di mercato, caldamente
teorizzata e sospinta dagli economisti contemporanei ed appoggiata dagli stati nazionali in piena
“Rivoluzione Industriale”, fosse già sotto pressione. Le notevoli discrasie che si erano venute a
formare tra l’esigua “elite” di imprenditori/capitalisti e le notevoli masse di lavoratori sottopagati e
sfruttati avevano portato ad instabilità interne e conseguenti lotte di classe19. Inoltre, sul piano
internazionale, la continua ricerca del mantenimento della crescita economica nazionale
comportava, da una parte, l’alternarsi di economie protette da dazi doganali sempre più alti e,

15
Difatti il cambio lira/dollaro rimarrà immutato dal 1949 fino all'inizio degli anni Settanta.
16
V. Castronovo, La storia economica. Il periodo della ricostruzione in Storia d’Italia, IV, Torino 1975, p. 385.
17
Un‘influenza decisiva l’aveva avuta la Grande Depressione seguita dalla crisi del 1929 e la conseguente affermazione
delle teorie keynesiane.
18
M. Salvati, Economia e politica in Italia dal dopoguerra a oggi, Milano 1984, p. 25.
19
G. del Vecchio, Politica economica, Torino 1968, pp. 18-19.
4
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

dall’altra, da una costante ricerca di una certa supremazia sugli altri stati che non poterono non
sfociare in aggressioni armate come avvenne nella prima metà del XX secolo.
Come già sottolineato, la libera economia di mercato provava uno scarso interesse a fornire servizi
di utilità pubblica, se non adeguatamente retribuiti o comunque sempre nell’ottica di un profitto o, a
lungo termine, di un ritorno economico. Era d’uopo quindi un intervento pubblico, che in alcuni
casi si estrinsecò in maniera blanda, in altri un po’ più forte. Se le prime avvisaglie c’erano state già
nei secoli precedenti al XX20 si può affermare che il trampolino di lancio di un imponente
intervento pubblico nell’economia fu il periodo successivo alla Grande Guerra, in particolare i primi
anni ‘30, mentre la sua definitiva consacrazione si ebbe al termine della II guerra mondiale.
Come detto quindi, l’economia di libero mercato subì il colpo di grazia con l’avvento della Grande
Depressione. I meccanismi automatici, che avrebbero dovuto operare sul mercato attraverso il
comportamento di imprenditori e lavoratori, nell‘ottica di raggiungere una situazione ottimale, non
funzionarono. Fu quindi necessario l’intervento governativo per attuare, artificialmente, questi
meccanismi e rimuovere la situazione negativa che si era venuta a creare.
Ma la differenza principale tra quel che avvenne negli anni ‘30 e quanto invece accadde negli anni
‘50 si può rilevare proprio in questo. Se le economie europee dei primi tre decenni del XX secolo
erano ancora fermamente ancorate ad un economia di libero mercato21, esse dovettero ricredersi ed
adottare ingenti provvedimenti governativi per poter fronteggiare la crisi, di necessità virtù quindi,
al termine del secondo conflitto mondiale le decisioni interventiste furono adottate quasi
spontaneamente, sulla base delle convincenti esperienze precedenti. A dare un aiuto a questi
interventi, sempre a differenza di due decenni prima, ci fu l’esigenza di attuare un libero mercato
internazionale, che fu quasi imposto dagli Stati Uniti.
Ed ecco allora, in piena crisi, il formarsi di governi socialdemocratici che assumevano il pieno
controllo dell’economia come avvenne in Belgio, in Olanda e nei paesi nordici (Svezia e Norvegia).
In altri casi invece i governi tenevano sotto controllo indirettamente alcuni comparti agricoli,
industriali e dei servizi, ovvero la base dell’economia del tempo22, o più direttamente con alcune
nazionalizzazioni, le ferrovie, le principali banche, il settore aeronautico e militare in Francia, le
poste, il telegrafo e il telefono, parte delle ferrovie e la Reichsbank in Germania, le banche e buona
parte del settore industriale in Austria, mentre l’Inghilterra, ancora fedele alle teorie classiche di
Smith azzardò una nazionalizzazione dei trasporti pubblici nell’area di Londra e delle linee aeree
ma pose le basi per una serie di progetti che furono attuati nell’immediato dopoguerra23.
L’Italia fascista adottò anch’essa provvedimenti diretti ed indiretti. Indiretti attraverso l’adozione di
prezzi imposti sulle derrate agricole e tramite sovvenzionamenti ed aiuti ai due settori portanti
(agricoltura e industria), diretti costituendo l’IRI nel 1933 che acquistò la maggior parte delle quote
di partecipazione delle banche nelle imprese e quindi assumendo il controllo di queste ultime.
Si era convinti che il sistema economico, come fino ad allora concepito e strutturato, non fosse di
per se stabile, o meglio, non fosse capace di far fronte a variabili esogene che intaccavano il sistema
stesso. Ed ecco che alle teorie classiche e neoclassiche sorse una nuova corrente di pensiero, il cui
fautore fu John Maynard Keynes che sintetizzò ciò che già era risultato evidente e cioè che accanto

20
Soprattutto nei campi in cui veniva richiesto un maggior esborso economico quali, ad esempio, banche e ferrovie.
21
Ad eccezione dell’Unione Sovietica dove, con il predominio del pensiero socialista e l’attuazione di piani
quinquennali, non si ebbero particolari problemi nonostante la “Grande Crisi” che attanagliò il mondo intero.
22
Come avvenne, ad esempio, in Italia, Francia Germania e Portogallo cfr. H. Van der Wee, L’economia mondiale tra
crisi e benessere (1945-1980), Milano 1989, p. 237.
23
Come la nazionalizzazione della Banca d’Inghilterra passarono allo Stato l’industria del carbone, quella elettrica, del
ferro e dell‘acciaio, del gas, le ferrovie, la navigazione interna, l’aviazione civile e, più tardi, le poste.
5
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

agli operatori di mercato ce ne dovesse essere un altro capace di sopperire alle mancanze dei singoli
attori dell'apparato privato. Quest’operatore, ovvero lo Stato, oltre che parte attiva dell’intero
sistema economico, doveva essere anche supervisore e, se necessario, doveva attuare le correzioni
necessarie perché si evitasse o si mitigasse ogni crisi economica.
Fu così che, grazie a situazioni congiunturali di gran peso, si ebbe un definitivo crollo del sistema
precedente ed un passaggio quasi spontaneo ad un nuovo modello economico, sostenuto da
differenti gruppi sociali spesso apertamente in contrasto fra loro.
L’economia mista si basava sull’equilibrio tra tre elementi: governo, sindacati e imprese. Il governo
mirava alla piena occupazione e ad un'equa suddivisione nel reddito e nella ricchezza, obiettivi
raggiungibili tramite strumenti fiscali e monetari. Agendo sulla spesa pubblica, essa modificava la
domanda cercando di evitare situazioni di crisi o di iperattività economica, mantenendo la domanda
a livelli ottimali. La leva governativa di azione sulla spesa pubblica si estrinsecava attraverso gli
investimenti in infrastrutture e in imprese nazionalizzate, oltre che con l‘adozione di misure fiscali.
I sindacati e le imprese, dal canto loro, raggiunsero una situazione di equilibrio. Più alti salari
portavano ad una migliore produttività e ad un aumento dei consumi, stabilendo quindi una
condizione soddisfacente per entrambe le parti, a prima vista antagoniste tra loro24.
E per quanto si riuscì a constatare, nei due decenni successivi alla fine del conflitto le economie
(miste) europee25 volarono letteralmente, alternando solamente cicli di crescita più veloce a cicli più
lenti; fu dunque l‘intervento dei governi a risollevare l‘economia negli unici due brevi periodi di
recessione che colpirono l’Europa26 negli anni ‘51/‘52 e ‘57/‘58, grazie all‘aumento di commesse
pubbliche e alla contestuale diminuzione delle tasse.
I provvedimenti governativi contribuirono sostanzialmente a mantenere un andamento della
domanda crescente, anche nei periodi di “crisi” dove veniva stimolata infondendo fiducia nel
sistema, movimentando le aspettative di crescita e rendendo il sistema economico più stabile.
Certo un'economia mista non significava solamente un intervento governativo a sostegno
dell’economia per evitare situazioni di crisi o comunque per mantenere il mercato in una posizione
efficiente. L’economia mista andava oltre, cercando di unire un sistema economico “sano” ad un
sistema economico “giusto” attraverso la nazionalizzazione di imprese di importanza strategica
(come, ad esempio, quelle che operavano come monopoli naturali), i deficit di bilancio per un
aumento della spesa pubblica per la creazione di infrastrutture, edilizia pubblica, elementi quali
sicurezza, istruzione o sanità27. Le tasse dovevano servire anche per raggiungere una situazione di
pieno impiego o comunque un livello di disoccupazione minimo; per quanto riguarda le aliquote
fiscali esse dovevano essere progressive per livellare la ricchezza.
Ma l'economia mista, così come teorizzata da Keynes, ovvero nata per correggere i limiti del
libero mercato con l'aggiunta di un elemento (lo Stato) che sopperisse alle mancanze del sistema, fu
solamente il “quid”, il trampolino di lancio per la sua naturale evoluzione che presupponeva ben più
ragguardevoli sviluppi28. Il dibattito sulle possibilità del modello keynesiano di fare fronte alle
difficoltà di mercato attraverso una politica di sostegno della domanda aggregata mise in moto un
confronto aperto tra gli economisti postkeynesiani per valutare e porre rimedio alla nascita di nuovi

24
P. A. Toninelli, Il ruolo dello Stato nell’economia in L’intervento pubblico nell’economia italiana tra le due crisi
(1929-1973), a cura di P. Galea , Milano 2002, pp. 26-27.
25
Che avevano raggiunto oramai un’ampia dimensione.
26
Entrambe nacquero negli Stati Uniti per trasferirsi poi oltre atlantico.
27
Uno tra i primi paesi ad adottare un sistema sanitario pubblico, ovvero in cui le tasse servivano a pagare le spese
sanitarie, in questo modo accessibili a tutti, fu la“liberale” Inghilterra nel 1944.
28
H. Van der Wee, L’economia mondiale cit., p. 241.
6
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

fattori di squilibrio29. Keynes affidava all’operatore pubblico numerosi compiti; con il passare del
tempo questi compiti si estero e assunsero maggiore rilievo. All’inizio gli obiettivi rimasero quelli
classici, ovvero una produttività ai massimi livelli, l’aumento del reddito in relazione all’aumento
della produttività, la stabilità dei prezzi, la piena occupazione e l'equilibrio della bilancia dei
pagamenti. Ma più si proseguiva, più ci si legava ad un’idea che lo Stato, oltre che controllare e
manovrare l’economia nella giusta direzione, dovesse assicurare un benessere e che questo fosse
ben suddiviso. Ecco allora che la crescita economica assunse un’accezione meno “economica” e più
“sociale” legata ad un’equa distribuzione del reddito, che uno Stato poteva ben governare attraverso
leve quali una tassazione patrimoniale e maggiori imposte di successione, un’imposizione fiscale
progressiva, l’imposizione di salari minimi vincolanti.
Con il termine della Seconda Guerra Mondiale l’Europa, che si trovava in una situazione
rovinosa, si risollevò grazie agli aiuti americani ma anche grazie all'intervento degli stati a sostegno
dei singoli sistemi economici. La ricostruzione post-bellica era di difficile (o addirittura
impossibile) attuazione per il solo settore privato e fu anche per questo che un intervento pubblico
fu ben visto ed accettato da parte di tutti gli schieramenti al governo, destra o sinistra che fossero.
Ma non fu solamente un intervento di tipo regolatore30 quanto un massiccio ausilio alla propulsione
economica tramite la crescita di un elemento, oramai necessario, sul mercato: lo stato imprenditore.
Quest’ultimo, attraverso le nazionalizzazioni, ebbe un ruolo fondamentale per il sostegno delle
economie dei singoli paesi.
La nascita (o la sostituzione ad imprese di carattere privato) di imprese nazionali aveva due
fondamentali obiettivi: sopperire alle carenze di un’economia di mercato e sostituirsi alla sfera
privata per poter raggiungere finalità che richiedevano l'azione pubblica. E’ il caso dei monopoli
naturali31 che, se non regolamentati32 o gestiti direttamente dall’autorità pubblica33, avrebbero
comportato una non regolare fornitura e diseconomie per gli utenti finali. Un’impresa pubblica
inoltre può porsi l’obiettivo di operare come promotore di uno sviluppo sociale dove vi siano
maggiori carenze34, perseguendo quindi logiche non di profitto, finalità irrinunciabile nel caso di
impresa privata. Non per ultimo, una gestione pubblica di imprese a forte impatto sul sistema
economico nazionale, poteva contare sul fatto che queste ultime possano lavorare secondo criteri
antieconomici in periodi di trend negativo per l’economia o a favore di ceti meno abbienti,
diminuendo in tal modo la sperequazione nella distribuzione del reddito.
Anche se in tutti gli Stati vi erano differenti convinzioni sul fatto che occorreva abbandonare
un’idea di libero mercato affidato solamente al settore privato per orientarsi verso un’economia
interventista dove la mano pubblica era necessaria per rilanciare la situazione oramai allo sbando,
l’adozione di un’economia mista si estrinsecò in modi differenti. Raggruppandole in tre diversi
modi di agire possiamo distinguere una variabile neocollettivista, una neoliberale ed una fondata
sulla cooperazione delle parti sociali35.
Nella prima possiamo ritrovare la Francia, la Gran Bretagna e l‘Italia. In Francia grazie al fatto che
il Partito socialista e il Partito comunista parteciparono attivamente al governo ed anche al fatto che

29
M. Ricciardelli, Alcuni aspetti del più recente dibattito teorico in Cultura e politica di fronte al dualismo
dell’economia italiana, Napoli 1981, pp. 21-22.
30
Come avvenne negli Stati Uniti, dove i danni post-bellici avevano di poco attecchito sull’economia.
31
Come tutti i servizi di pubblica utilità quali acqua, luce, gas, etc.
32
Politica adottata negli Stati Uniti.
33
Caso europeo.
34
In aree e settori arretrati.
35
H. Van der Wee, L’economia mondiale cit., pp. 241 sgg.
7
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

già nel periodo intercorso tra le due guerre vi erano state alcune nazionalizzazioni, il passo risultò
naturale. A cominciare dal settore finanziario, quando già la Banca di Francia era in mano allo
Stato, altri quattro grandi istituti di deposito furono nazionalizzati. Si passò poi al settore
assicurativo (32 compagnie di assicurazione), a quello energetico (gas, carbone ed elettricità) e a
quello dei trasporti (settori automobilistico e aeronautico) raggiungendo così l'obiettivo di
concentrare nelle mani dello Stato circa un quinto della produzione industriale francese che ora si
trovava in mano allo stato. E sarebbe continuata così se tra gli anni 1947 e 1949, prima i Comunisti
e poi i Socialisti non fossero stati esclusi dal governo36. Ma per coordinare lo sviluppo e la crescita
economica, alle nazionalizzazioni venne affiancata una precisa pianificazione che sostenne i settori
industriali principali tralasciando, momentaneamente, il settore dei beni di consumo. Tale piano,
conosciuto meglio con il nome del suo ideatore ovvero Jean Monnet, riuscì bene nell’intento che si
era prefissato: portare l’economia francese alla pari di quelle più sviluppate, mediante la nascita e la
diffusione di grandi imprese superando un assetto fondato su una moltitudine di piccole imprese a
conduzione familiare. Al termine del Piano Monnet (quadriennale e prorogato di altri due anni) fu la
volta di un altro progetto che si basò principalmente su un preciso controllo, attuato dal Ministero
del Tesoro, sugli investimenti pubblici in modo diretto e indirettamente su quelli privati37.
In Gran Bretagna, anche se l’approccio seguì sempre la linea neocollettivista, non vi fu una vera e
propria pianificazione per la paura di poter cadere nella trappola di uno stato autoritario, come la
politica stalinista stava dimostrando in Unione Sovietica. Così le autorità britanniche scelsero di
nazionalizzare solamente le industrie di basilare importanza, che però avevano un peso
fondamentale sull’ intera economia quali energia, trasporti ed infrastrutture, mentre si dedicarono
maggiormente ad una politica di equa distribuzione del reddito. Attraverso il controllo di queste
vitali industrie, le partecipazioni in altre imprese private, la nazionalizzazione della Banca
d’Inghilterra, il Governo britannico riuscì a gestire la situazione anche se, dopo la parentesi
laburista che durò fino al 1951, i conservatori, tornati al potere allentarono, di fatto, il controllo
statale sull’economia arrivando a denazionalizzare i trasporti su gomma e parte del settore
siderurgico. A patire dagli anni ‘60, vista l’esperienza positiva francese, anche il governo britannico
cambiò rotta adattandosi a tale stile ed attuò una sorta di pianificazione, per dare maggiore fiducia
al mercato che si stava arenando.
Anche la situazione italiana si modificò verso questa direzione. Di sicura influenza furono i
provvedimenti adottati negli altri due sopraccitati paesi, a stretto contatto con la stessa e dotati di
un’economia assai solida. Inoltre si può affermare che il passo più grosso verso l’economia mista
era già stato fatto sotto il governo fascista nel 1933 con la creazione dell’IRI (Istituto per la
Ricostruzione Industriale) che aveva rilevato le quote di partecipazione delle banche miste in una
moltitudine di imprese italiane e nel 1937, quando all’IRI si diede un carattere definitivo
modificando il progetto iniziale.
Alla fine della seconda guerra mondiale l’IRI, nonostante la sua effettiva natura statale, si affrancò
sempre più dal Governo e riuscì a farsi promotore di innumerevoli iniziative diventando il primo
finanziatore nell’economia italiana il cui principale obiettivo era quello di incoraggiare e
promuovere gli investimenti affinché la crescita fosse costante. Lo stato pianificava, all’inizio a
breve termine, dopodiché il piano di sviluppo assunse risvolti addirittura decennali, e l’IRI
contribuiva attraverso grandi finanziamenti in diversi settori. Si può quindi riscontrare un rilancio
dell’IRI, che da simbolo dell’autarchia fascista diventò un reale strumento di sviluppo economico

36
Su pressioni statunitensi.
37
H. Van der Wee, L’economia mondiale cit., p. 242.
8
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

pubblico. Oltre a ciò i finanziamenti della Banca d’Italia e delle principali banche nazionalizzate o
comunque sotto il controllo pubblico agevolarono lo sviluppo industriale come pianificato dal
Governo. L’intervento statale puntava soprattutto ad incentivare lo sviluppo delle infrastrutture, un
potenziamento dei settori di base e una valorizzazione delle terre incolte.
Ma la situazione politica in cui si ritrovò l'Italia al termine della seconda guerra mondiale fu del
tutto particolare. Una volta terminata la dittatura fascista, salirono al governo tutte le forze
contrapposte al fascismo stesso. Si ebbe dunque un governo misto, composto da forze antagoniste,
che creò non pochi problemi alla crescita sociale ed economica del paese. Difatti democristiani,
socialisti, comunisti, liberali, etc. avevano pochi argomenti in comune e non riuscirono a trovare un
accordo. Fu solo nel 1947 che Alcide de Gasperi, leader democristiano di ritorno da Washington,
riuscì a cacciare le sinistre fuori dal governo. Ma, nonostante ciò, egli comprese che la sola via per
la ricostruzione era una politica di espansione industriale per superare la crisi economica e la
povertà e per fare ciò dovette avvalersi dell’aiuto di esperti, consulenti e accademici il cui pensiero
spaziava dal centro a sinistra. Prese dunque avvio quella che venne ribattezzata come la stagione del
“centrismo riformista”, dove le linee guida rimasero quelle volute dai democristiani ma si
adagiarono viepiù sulle idee di quegli stessi esponenti di centro che avevano una vigorosa
propensione riformatrice38.
Il forte carattere programmatico della Carta Costituzionale sul versante economico non fu il
risultato di un preciso orientamento verso il welfare e una politica riformista di tipo keynesiano. Era
dovuta a un compromesso tra i principi della Democrazia Cristiana, critica nei confronti del
capitalismo39, e l’idea statalista dei partiti di sinistra. Inoltre influì il fatto che una ragguardevole
fetta del sistema economico, ereditato dal fascismo, appartenesse di fatto alla mano pubblica.
Alla fine della guerra, la volontà di intervenire fu paralizzata dal braccio di ferro tra la sinistra e i
liberisti.
L’orientamento democristiano a favore di un’integrazione dell’Italia nel blocco occidentale facente
capo agli Stati Uniti non era dovuto tanto ad una piena condivisione di tali modelli economici
quanto piuttosto ad una sorta di fiero antagonismo all’idea statalista filosovietica seguita dal PCI. E
fu proprio a causa di questa motivazione, unita alla volontà di voler compiacere il governo
statunitense, che la Democrazia Cristiana nella persona del suo esponente di punta, Alcide De
Gasperi, affidò le sorti economiche del paese ad una figura, quella di Luigi Einaudi, che riuscì a
trascinare l’Italia fuori dall’impasse e indicò la via che l’economia italiana avrebbe dovuto seguire.
Non dico che fu certamente quella corretta, ma comunque fu decisiva per iniziare una ripresa che,
con le opportune correzioni e modifiche, avrebbe portato l'Italia verso un'espansione economica
senza precedenti.
Di stampo liberista, la politica einaudiana maturò in poco tempo una serie di decisioni che
causarono la rottura quasi definitiva con i partiti della sinistra e la DC, segnando l’andamento
dell’Italia nel periodo post-bellico.
Le prime misure, efficaci, prese da Einaudi erano volte a risanare il bilancio e a stabilizzare la
moneta tramite l’abolizione dei prezzi amministrati, l’aumento delle imposte su redditi e capitali,
l’aumento del tasso di sconto unito ad una vigorosa stretta creditizia volta al controllo della
circolazione monetaria40. La ferrea politica economica di Luigi Einaudi inoltre permise all’Italia di
38
G. Morcaldo, Intervento pubblico e crescita economica: un equilibrio da ricostruire, Roma 2007, p. 63.
39
Il partito Democristiano presentò grosse argomentazioni morali per una più equa distribuzione del reddito ed un
ampliamento dei servizi pubblici già prima dell‘affermazione dell‘economia mista quale sistema economico per
eccellenza.
40
Impegnò le banche ad una riserva obbligatorie del 25% dei depositi.
9
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

poter contare in pieno sull’assistenza degli Stati Uniti. La cura austera proposta da Einaudi ebbe sia
effetti positivi che, ovviamente, negativi.
Gli effetti positivi si notarono già dopo qualche mese, le esportazioni aumentano e l'inflazione si
attenuò.
Gli effetti negativi furono un aumento della disoccupazione e la mancanza di una programmazione
economica volta alla ricostruzione.
Le scelte di governo sull’economia che attuarono una sorta di compromesso tra un indirizzo neo-
liberista e l’interventismo pubblico furono oggetto di un ripensamento con la predisposizione del
“Piano Vanoni”41. Quest'ultimo, concepito nei primi anni ’50, prevedeva una politica di
programmazione di stampo keynesiano basata sull’utilizzo della spesa pubblica come strumento per
un impiego ottimale delle risorse e per raggiungere la piena occupazione, non riuscì a decollare
perché osteggiato da entrambi gli schieramenti e per la scomparsa prematura del suo ideatore.
Nello stesso momento il passaggio da un regime ultraprotezionista a un liberismo quasi sfrenato,
che presupponeva un intenso sviluppo dei rapporti commerciali con l’estero aveva lasciato alle
imprese la massima agibilità coerentemente con i principi di un’economia di mercato.
Un differente approccio ad un’economia di tipo misto, il cosiddetto approccio neoliberale, fu
adottato, in Europa, dalla Germania occidentale. E lo fu ancor più che rispetto alla stessa corrente di
pensiero adottata negli Stati Uniti42. Ma fattore ben più importante fu la voglia della Germania di
superare completamente ciò che era stato attuato nel periodo nazista. Così nell’immediato
dopoguerra, al contrario di quanto stava avvenendo nelle altre economie, vi fu una forte
denazionalizzazione e una suddivisione delle grandi banche o di grosse aziende industriali in
piccole e medie imprese. Si era ritornati idealmente quasi ad un’economia di tipo liberale in cui
però lo Stato fungeva da regolatore e da strumento anticrisi. Questa scelta non fu esente da
modifiche. All’inizio venne prediletta questa linea di pensiero, mitigata dal fattore che i lavoratori
potessero partecipare alla gestione aziendale onde evitare rivolte, ma ben presto fu chiaro che, per
attuare la ricostruzione, era necessario un deciso intervento statale e il passo successivo fu quello
della pianificazione degli investimenti sia delle grosse che delle piccole e medie imprese. E non si
fermò qui. La pianificazione passò da breve a medio - lungo termine, il governo si fece stabile
promotore di una crescita economica sempre maggiore e, fatto di non minore importanza, utilizzò
gli avanzi di bilancio per aumentare il benessere sociale. L’economia tedesca occidentale nel tempo
abbandonò il modello neoliberale per adottarne uno molto simile ad un’economia neocollettivista.
Una forma intermedia tra quella neocollettivista e quella neoliberista fu adottata in altri paesi
dell’Europa occidentale, ovvero l’Austria, il Belgio, i Paesi Bassi e la Svezia dove più che un
intervento diretto dello Stato nell’economia si scelse di puntare sul sistema delle consultazioni al
vertice tra le parti sociali. In questo modo si cercava di raggiungere degli accordi tra le varie
organizzazioni in apparente antitesi tra loro, incontri ai quali poteva partecipare anche il Governo
alla stessa stregua e con gli stessi poteri delle altre parti43. Il caso svedese è di particolare interesse
in quanto l’intervento pubblico congiunturale, teorizzato da Keynes, fu attuato già in precedenza
rispetto alle teorie da quest’ultimo elaborate, ovvero all’inizio degli ani ‘3044. In seguito il Governo
fece da ammortizzatore garantendo benefici fiscali alle imprese ed incoraggiò le istituzioni affinché

41
Redatto dall’allora Ministro delle Finanze, Ezio Vanoni.
42
Il fatto che gli Stati Uniti “occupassero” questo paese fu rilevante, l’adozione di questa politica fu anche un riflesso di
quanto già portato avanti nell’economia americana.
43
I. T. Berend, An Economic History of Twentieth-Century Europe: Economic Regimes from Laissez-Faire to
Globalization, Cambridge 2006, p. 213.
44
H. Van der Wee, L’economia cit., pp. 257 sgg.
10
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

creassero delle riserve che servissero a mantenere un buon equilibrio durante gli anni di recessione.
L’attività governativa non si arrestò qui ma crebbe quale garante di una politica antimonopolistica,
favorendo anzi la differenziazione e l’imprenditoria da una parte e la mobilità e la qualificazione del
lavoro dall’altra. Il punto di maggior rilievo fu la legislazione sociale. Il governo svedese si adoperò
per un’equa distribuzione del reddito tramite imposte fortemente progressive, garantì stipendi
minimi e sicurezza sul lavoro e ampliò a dismisura la rete di servizi pubblici.

4. L’Italia dalla ricostruzione al boom economico


Le devastazioni subite dal Vecchio Continente ad opera degli eserciti che lo calpestarono,
dei bombardamenti e delle conseguenti operazioni belliche, le perdite in vite umane, gli sforzi
economici nonché l'enorme dispendio di energie profuse nell'adeguarsi ad un'ottica militare
piuttosto che civile, portarono a pensare che, con molta fatica, si sarebbe potuto ristabilire un
equilibrio in pochi anni. E invece fu proprio così. Tutti gli studiosi sono concordi nello stabilire che
il 1948 fu l'anno di svolta45. E all'Italia andò ancora meglio, perché non vi fu solamente un ripristino
della situazione antecedente al conflitto, ma un susseguirsi di eventi e scelte azzeccate che portò a
quello che tutti indicano come il “miracolo economico italiano”.
Sicuramente la situazione congiunturale, gli aiuti americani, le regole imposte dagli stessi per
un'economia aperta, il fatto che i maggiori competitori ed antagonisti (in primis la Germania) si
trovassero in una situazione peggiore tale da ridurre la concorrenza al minimo, la voglia di riscatto
della popolazione italiana che si trovava in una situazione disastrata, permisero di risollevarsi
velocemente. Un fattore determinante furono le scelte di politica economica che, facilitate dalle
esigue alternative, spinsero il Paese ad imboccare la giusta via. E così l'Italia, che si era sempre
trovata ad arrancare dietro ai paesi maggiormente industrializzati, si riprese in modo tale da
raggiungere, in un solo ventennio (1950-1970), lo sviluppo che altri paesi europei avevano portato a
compimento in un arco di tempo maggiore46.
Le prime avvisaglie si ebbero già nel 1947 quando si intuì che il governo di centro, con De Gasperi
al potere, intese avviare una politica moderata votata maggiormente ad un'idea di rinascita
economica dell'Italia piuttosto che ad un'ideale politico fine a se stesso. De Gasperi si affidò
principalmente a uomini votati al liberalismo economico, come Einaudi o Pella, il cui obiettivo
principale rimase quello della stabilità monetaria e di un bilancio in pareggio ma non ignorò
personaggi del calibro di Fanfani, Gronchi, La Pira e Dossetti della sinistra democristiana. Pian
piano e, in modo del tutto naturale, si avrà un passaggio da una direzione moderata (1947-1950), ad
un centrismo maturo (1950-1954) e ad un suo declino (1954-1958) fino ad arrivare a linee di
pensiero molto più vicine alla sinistra che al centro.
Un primo passo fu quello di arrestare il crescente deprezzamento sulla moneta. Questa fioriva, a
fronte di una domanda sempre maggiore, a causa del crollo della produzione agricola e industriale e
della conseguente scarsità di beni. La liquidità era eccessiva per la presenza di tre differenti
tipologie di cartamoneta, oltre ad una cambio sfavorevole lira/dollaro imposto dalle truppe
occupanti americane. A questo si può aggiungere la necessità che aveva lo Stato italiano di
spendere, mettendo nuova moneta in circolazione dunque, per avviare il processo di ricostruzione
con nuove infrastrutture e garantendo alla popolazione consumi di sussistenza a prezzi inferiori a
quelli di mercato. Avendo abolito il collocamento forzoso dei titoli pubblici, l'unica alternativa era
quella di stampare nuova cartamoneta per provvedere alle spesa pubblica.

45
P.Galea, Tra ricostruzione e sviluppo cit., p. 217.
46
Ibid., p. 283.
11
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

Ad aggravare questa situazione vi fu, nel 1946, la decisione di adottare la scala mobile. Causa e
conseguenza della situazione inflazionistica in cui ci si ritrovava, la scala mobile fu un
provvedimento che tutelava i salari degli operai, ma che creava, al contempo, anche inflazione. Il
primo obiettivo era dunque quello di una stabilizzazione monetaria.
Due furono le correnti di pensiero prevalenti, quella proposta dalla sinistra e quella, infine adottata,
dal governo, o meglio dall'uomo incaricato dal governo stesso di risollevare le sorti del Paese, Luigi
Einaudi.
La sinistra italiana proponeva, per uscire da questa fase inflativa, una proroga dei prezzi politici per
i beni di consumo, inferiori a quelli di mercato, permettendo quindi di occultarne il crescente
aumento. In aggiunta richiedeva un cambio della moneta, per risolvere la complicata situazione
monetaria vigente nel periodo e, allo stesso tempo, per fare uscire allo scoperto gli speculatori, sia
coloro che si erano arricchiti, sia quelli che si stavano ancora arricchendo sfruttando la situazione
favorevole. Inoltre, per far sì che la crescita inflazionistica non sussistesse solamente come
elemento negativo, vi era l'intento di canalizzare gli investimenti tramite un controllo, da parte dello
Stato, delle importazioni e dell'erogazione del credito bancario; le risorse dovevano essere
convogliate verso attività a sostegno del rilancio economico del paese.
Ma questa linea di pensiero rimase utopica, prevalendo quella proposta da Luigi Einaudi che aveva
tutto il potere per poterla imporre.
La prima mossa, di fatto indovinata, fu quella di adottare una stretta creditizia in aperto contrasto
con la politica liberista fino ad allora accolta47. Furono fissati dei limiti all'erogazione del credito
bancario (unica forma di finanziamento allora diffusa) frenando quasi immediatamente la
circolazione monetaria e, di conseguenza, l'inflazione. Naturalmente contingentando il credito non
solo si bloccò l'inflazione ma anche l'attività produttiva. Recessione e disoccupazione aumentarono
di pari passo sostituendosi, come posizione critica, all'inflazione. E come se non bastasse Einaudi
decise, prima di aumentare i prezzi amministrativi imposti48 e, successivamente, di abolirli.
Tali decisioni ebbero un impatto sociale assai pesante per la popolazione italiana, ma meno
sull'economia in quanto ulteriori provvedimenti portarono ad una rapida e decisa liberalizzazione
degli scambi con l'estero, spostando il baricentro dell'economia verso il mercato straniero anziché
sul mercato interno49.
Questi due accorgimenti sintetizzano quella che sarà la politica economica italiana per almeno un
decennio. Stretta creditizia50 ed un'indiscussa apertura internazionale dell'economia italiana51 furono
il trampolino di lancio per un accelerato sviluppo economico che di lì a poco tempo avrebbero
ribaltato completamente la situazione disastrosa in cui si trovava il Paese. Venne posta in essere una
politica interventista, da un lato, in cui lo Stato determinava come e quanto il settore privato doveva
essere finanziato, e molto liberale dall'altro, in cui lo Stato lasciava libere di agire le forze di
mercato, fossero esse nazionali o estere.
47
Praticamente Einaudi agì, nei due anni seguenti la fine del conflitto, in modo contrario a quanto teorizzato e
prospettato dalla sinistra.
48
Soprattutto del pane, bene primario dell'epoca.
49
A causa dei bassi salari la domanda interna non riuscì, all'inizio, a trainare l'economia, cosa che invece fece
eccellentemente quella estera cfr. R. Petri, Storia economica d'Italia dalla Grande Guerra al miracolo economico
(1918-1963), Bologna 2002, p. 193.
50
Oltre ai finanziamenti limitati, ulteriori misure furono l'aumento della riserva obbligatoria che ciascuna banca doveva
depositare e l'aumento del tasso di sconto dal 4% al 5,5% (Ibid., p. 185).
51
La scelta fu obbligata per imposizione statunitense ma l'Italia cavalcò l'onda per aumentare nettamente le esportazioni
e per rifornirsi di materie prime di cui scarseggiava. Non solo si adeguò aderendo, nel 1946, al Fondo Monetario
Internazionale e alla Banca Mondiale istituite due anni prima con gli accordi di Bretton Woods, ma si adoperò perché
queste misure fossero realmente efficaci e diminuì le tariffe daziarie (Ibid., pp. 197-198).
12
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

Ma come fece lo Stato italiano a controllare e garantire che tali provvedimenti fossero attuati
correttamente? Fu abbastanza semplice su entrambi i versanti. Da un lato bastò evitare di imporre
dazi o contingentamenti su prodotti e investimenti (o comunque di abbassarli notevolmente) da e
per l'estero, liberandosi da una qualsivoglia forma di protezionismo52; dall'altra parte, avendo lo
Stato il controllo dei principali istituti di credito53 e di una parte importante del settore industriale
passato all'IRI nel 1933, non fu difficile tenere sotto sorveglianza l'economia e verificare che tutto si
svolgesse secondo quanto era stato prestabilito.
Quest'anomalia italiana, rispetto agli altri paesi industrializzati, nacque proprio da questi fattori. La
presenza pubblica nell'economia (in ogni settore, da quello agricolo, a quello industriale, a quello
finanziario) era nata dall'esigenza di riuscire a salvare il capitale industriale e finanziario del paese
dopo la crisi che aveva attanagliato l'Italia alla fine della Grande Guerra e specialmente dopo quella
più poderosa che aveva colpito l'Europa all'inizio degli anni '30. Per proteggere l'economia italiana
erano stati necessari interventi di salvataggio da parte dello Stato, ma non tanto come sviluppo di un
disegno economico ben pianificato, quanto come singole partecipazioni atte a tamponare le
problematiche che si presentavano di volta in volta. Ecco allora come l'ente pubblico non si
manifestò quale risultato di una programmazione organizzata puntigliosamente
dall'amministrazione pubblica quanto come ente pubblico autonomo dalla stessa. Si creò così un
modello analogo a quello privatistico ma con la proprietà pubblica delle imprese, caratterizzato
dalla mancanza di un coordinamento generale e di un indirizzo unitario. Si avevano e sarebbero nati
nel decennio successivo, una moltitudine di enti pubblici o società per azioni a partecipazione
statale al di fuori del controllo diretto del governo. Le scelte decisive vengono affidate ai manager
pubblici che controllavano le aziende stesse piuttosto che ad una preventiva pianificazione generale
da parte dello Stato54.
Questa tipologia di gestione tutta italiana nacque dal fatto che l'intervento pubblico in campo
economico era scaturito dalla necessità di porre rimedio agli ingenti danni provocati dai periodi di
recessione che avevano colpito l'Italia nei primi decenni del XX secolo e dagli errori dei privati. Al
termine del secondo conflitto mondiale, l'Italia si trovava ancora in una situazione dove pochi
gruppi privati mantenevano il controllo dei settori a più alta intensità di capitale e dove potevano
contare su una situazione di tipo monopolistico o comunque predominante55. Le altre attività erano
frazionate in una miriade di piccole imprese artigiane che non incidevano, se non limitatamente,
sull'intera economia. Il passaggio di grandi gruppi dal controllo privato a quello pubblico, in questa
situazione oligopolistica, come accadde per l’energia elettrica, avvenne in maniera naturale e non
progettata, trasformando di fatto la maggioranza partecipativa e gli obiettivi aziendali, ma
conservando il quadro economico esistente.
In questo contesto, un convinto assertore del liberalismo economico quale Einaudi dovette chinarsi
alle necessità del momento ed aprirsi ad una visione più ampia che includeva l'interventismo statale,
pur rimanendo preponderante la linea liberista al governo. Nelle decisioni effettive crebbe una linea
di tipo riformista. Personaggi del calibro di Amintore Fanfani si misero in luce già nel 1949 quando,
nel febbraio dello stesso anno, realizzò il piano per l'edilizia popolare. Come già precedentemente

52
La liberalizzazione degli scambi che partì dal 1950 fu inarrestabile, già nel 1951 questa si poté misurare nel 75%
circa di materie prime e merci cfr. V. Castronovo, L'Italia del miracolo in Italia moderna. Immagini e storia di
un'identità nazionale, III, Milano 1983, p. 261.
53
Retaggio della crisi che aveva colpito il settore bancario agli inizi degli anni '30.
54
Come vedremo in seguito fu il caso di Enrico Mattei.
55
Un esempio palese è quello dell'elettricità, dove alcune società, la EDISON in particolare, avevano il monopolio
produttivo e distributivo dell’intera rete elettrica.
13
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

accennato, un rilevante problema sociale al termine della guerra fu quello degli alloggi. Il
patrimonio abitativo era rimasto severamente danneggiato dai bombardamenti soprattutto nei grandi
centri urbani56 e se a questo si sommano gli altri problemi quali il naturale deperimento degli stabili
scampati alla distruzione, l'urbanesimo costante e l'aumento della popolazione si capisce quale fosse
l’entità del problema. Considerando inoltre la stasi produttiva e, di conseguenza, ricostruttiva che
colpì l'Italia negli anni dopo il '47 a causa della stretta creditizia messa in atto dal governo, si può
facilmente intuire come emergesse una carenza di circa un milione di alloggi. Per dar vita ad un
settore in stallo fu dunque necessario un intervento statale, che si manifestò appunto con l'edilizia
popolare ispirata da Fanfani.
Su iniziativa di altri “riformisti” di fatto appartenenti sempre alla DC quali Donato Menichella,
Francesco Giordani, Pietro Campilli ed Ezio Vanoni nel 1950 venne creato un nuovo ente di diritto
pubblico ovvero la Cassa per le opere straordinarie di pubblico interesse nelle regioni meridionali
più comunemente nota come Cassa per il Mezzogiorno e venne dato il via alla parallela riforma
agraria. Durante i primi anni di vita, la Cassa per il Mezzogiorno concentrò i suoi interventi nel
primario e nel potenziamento delle opere pubbliche, ovvero promosse investimenti a sostegno
dell'agricoltura (che era dislocata principalmente nel centro-sud Italia) e finanziò opere pubbliche
nel Mezzogiorno per la creazione di infrastrutture57. Di fatto l'istituzione di questo ente pubblico
ebbe un duplice vantaggio. Il primo fu quello di promuovere lo sviluppo in un area italiana che si
era sempre trovata in una posizione arretrata58. Oltre a favorire ed implementare il settore agricolo
la Cassa per il Mezzogiorno, con il passare del tempo, si preoccupò di introdurre e/o modernizzare
il settore industriale attraverso incentivi finanziari volti all’industrializzazione e alla localizzazione
di impianti ad alta intensità di capitale (elettrico, metallurgico, meccanico, chimico, trasporti e
telecomunicazioni) con uno sbocco sicuro nelle regioni meridionali. I prodotti di base a basso costo
forniti da questi impianti erano decisamente appetibili per le industrie del Nord. Il secondo
vantaggio fu quello di poter sfruttare le risorse monetarie esterne. I finanziamenti governativi, per
quanto generosi, non erano di fatto sufficienti a sviluppare il piano come previsto, ma lo
stanziamento di fondi a favore di aree depresse o comunque arretrate era favorevolmente accolto
dagli organismi internazionali che, attraverso la Banca Mondiale, stanziarono 300 milioni di dollari
a favore dell'Italia. La questione meridionale divenne dunque una carta vincente per massimizzare i
benefici degli aiuti internazionali a favore dell'Italia59.
Ma l’Italia non poteva fare affidamento solamente sui contributi provenienti dall’estero (che prima
o poi sarebbero terminati) ma doveva sviluppare una robusta organizzazione atta a garantire un
gettito fiscale adeguato alle esigenze. Dato che le tasse sono il mezzo principale per la raccolta di
fondi da parte dello Stato, che deve poi reimpiegarli in servizi utili per i cittadini, una riforma del
sistema fiscale era un passo necessario e decisivo per un Paese che era in forte via di sviluppo e
mirava ad un rapido progresso. Ad Ezio Vanoni, l'allora Ministro delle Finanze ed esponente
democristiano della corrente “riformista”, è ancora da attribuire una riforma fiscale di perequazione
tributaria, che venne alla luce nel febbraio del 1951. Questa riforma cercava dunque di ridurre

56
Milano, Roma, Genova, Bologna, Torino, Napoli, etc.
57
Nel 1952 venne lanciato un piano dodecennale di 1.280 miliardi che per il 70% furono spese per opere di bonifica,
miglioramento, sistemazione montana e riforma agraria mentre il restante fu impiegato per la creazione di infrastrutture
cfr. R. Petri, Storia economica d'Italia cit,, p. 205.
58
Fin dal secolo precedente.
59
L. D'Antone, Straordinarietà e Stato ordinario in Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, a cura di F.
Barca , Roma 1997, p. 599.
14
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

un’evasione fiscale che aveva oramai raggiunto livelli inaccettabili60 e porre le basi perché le
decisioni di politica economica fossero supportate da un’appropriata copertura finanziaria.
Sempre nel '51 cominciò un riassetto dell'IRI e, contestualmente, delle aziende a partecipazione
statale che proseguirà per un paio d'anni fino al suo completamento. La presenza di un istituto quale
l'IRI era indispensabile ma, essendo i tempi maturati, necessitava di una trasformazione. L'IRI non
era più il simbolo dell'autarchia fascista che faceva cadere dall'alto le decisioni sulle imprese e, di
conseguenza, sull'economia, ma doveva diventare il traino per lo sviluppo del settore economico
pubblico che ora cercava di rispettare i criteri di economicità. Se si tiene in considerazione che lo
stesso Istituto, al termine della guerra, si trovò in bilico tra lo smantellamento e il mantenimento del
suo ruolo61, si evince che, nonostante la linea di fondo voluta dal governo centrista, la politica
economica dovette fare i conti con la realtà. Non a caso fu lo stesso presidente di Confindustria, il
cattolico liberale Angelo Costa, a difendere l’esistenza dell’IRI per il semplice fatto che mancavano
i capitali privati per garantire la continuità delle singole imprese ad esso appartenenti.
Come già accennato precedentemente, il mantenimento dell'Istituto e la sua trasformazione, furono
il risultato di un abile compromesso tra forze politiche antitetiche tra loro. Mantenendo l'IRI si
garantiva un essenziale controllo governativo sull'economia nazionale e una possibile ingerenza per
correggere la sua evoluzione, ma il fatto che le aziende (a partecipazione statale) facenti parte dello
stesso venissero gestite per conseguire obiettivi commerciali e tecnici tipici dell'impresa privata
piuttosto che quelli propri della pubblica amministrazione, lasciava un certo margine di libertà
economica.
Un altro importante tassello per lo sviluppo dell'economia italiana del tempo fu la costituzione,
nel 195362, al termine proprio di quel periodo di modernizzazione che aveva interessato l'IRI,
dell'Ente Nazionale Idrocarburi. L'ENI fu il classico esempio di impresa pubblica che non fu
costituita su un preciso disegno voluto dalla Democrazia Cristiana al governo, quanto alla
risoluzione di un singolo manager pubblico, Enrico Mattei, sostenuto da esponenti della DC. Egli,
nel 1945, era stato nominato Commissario Straordinario dell'AGIP, l'Azienda Generale Italiana
Petroli fondata nel ventennio precedente su iniziativa statale per risolvere l'annoso problema degli
approvvigionamenti di gas naturale e di petrolio, le cui inadeguate riserve facevano dipendere
l’Italia dal mercato estero (principalmente statunitense) nonostante l’inizialmente vigorosa
protezione doganale allora vigente63. Mattei era stato incaricato di smantellare l'AGIP64 ma egli,
dopo aver parlato con i tecnici dell’azienda non solo non chiuse l’AGIP, ma andò oltre creando
appunto l'ENI65. Questo ente pubblico doveva sopperire al fabbisogno energetico delle famiglie o
delle piccole imprese a prezzi minori rispetto a quanto presente sul mercato internazionale imposto
dalle potenze oligopolistiche straniere. La resistenza alla creazione dell'ENI fu soprattutto
nazionale con i grandi gruppi monopolistici privati che volevano tutelare i loro interessi, dopo esser

60
Con il tempo però si comprenderà che questa riforma va a scapito di chi percepisce un reddito fisso rispetto a chi
percepisce un reddito difficilmente verificabile.
61
A causa dello stato sconquassato in cui versava al termine della guerra tra industrie distrutte o orientante
prevalentemente al settore bellico.
62
Alcuni sostengono che fu questo il punto di svolta nella politica economica italiana, personalmente ritengo che si
tratti di un passo importante in un percorso organico iniziato precedentemente.
63
E. Cianci, Nascita dello Stato imprenditore in Italia, Milano 1977, pp. 74 sgg.
64
In teoria perché lascito del governo fascista, in pratica perché in forte contrapposizione all'impresa privata,
dipendente dalle società americane.
65
Naturalmente ebbe il sostegno di alcuni importanti esponenti del governo, in particolare Alcide De Gasperi ed Ezio
Vanoni.
15
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

riusciti a riconquistare una posizione di prestigio durante il periodo della ricostruzione66. La legge
che istituiva l'ENI riservava allo stesso l'esclusiva della ricerca e dell'utilizzo di pozzi, miniere e
cave presenti sul territorio nazionale, come poi confermato da una seduta parlamentare (“Sulla
nuova disciplina governativa concernente le ricerca degli idrocarburi”) del 1956 che attuava un
disegno di legge appunto del 195367. Sfruttando le scoperte di giacimenti di gas metano nel
Lodigiano e nel Cremasco e dei giacimenti di petrolio (esigui) a Cortemaggiore, Mattei riuscì a
convincere prima il governo e poi l'Italia intera che fosse possibile attuare una politica energetica
con l'Italia capace di giocarsela alla pari con le concorrenti estere. In realtà non era così, ma lo
spirito e l'intraprendenza di Mattei fecero in modo che l'ENI, azienda pubblica votata al reperimento
ed alla distribuzione di una risorsa necessaria, ovvero l'energia, costituisse parte fondante del
miracolo economico italiano. Il progetto di legge, presentato dal ministro Vanoni, ma su un disegno
dello stesso Mattei precedente di due anni, prospettava, tra le argomentazioni, il fatto che un simile
strumento avrebbe avuto un effetto moltiplicatore sull'economia italiana, aumentando di
conseguenza il benessere e il reddito nazionale68. La creazione di questo ente era, per l'epoca, un
punto di svolta nella politica di intervento in campo economico da parte dello Stato, non tanto per la
tipologia di intervento, che si può ritenere marginale data la scarsità di materie prime energetiche
sul territorio italiano, quanto perché determinò l'inizio di un mutamento dei rapporti tra pubblico e
privato che col tempo andrà sempre più accentuandosi. Dal punto di vista formale l'ENI non fece
altro che raccogliere, in un unico complesso, realtà pubbliche già esistenti (AGIP, Anic, Romsa,
Snam ed Ente Nazionale Metano), ma con la precisa intenzione e scopo politico di assicurare
all'ente stesso il monopolio di fatto di un settore di grande interesse con buone prospettive e
profitti69. Da quel momento, l'impresa pubblica avrebbe svolto soltanto un ruolo di ripiego, ma tra
imprese private e aziende statali si sarebbe aperta una chiara concorrenza. Il passo successivo, in
ambito energetico, sarebbe stato quello della nazionalizzazione dell'energia elettrica.
Attraverso questi interventi legislativi si ebbe quindi una ridefinizione dei ruoli, delle
caratteristiche e delle funzioni delle imprese a controllo pubblico. Questa non era affatto una nuova
idea. Il concetto che l'Italia necessitasse uno sviluppo industriale maggiore (essendo quello agricolo
ancora preponderante) e che lo Stato dovesse coadiuvare quest'espansione era ben chiaro fin
dall'inizio del secolo in alcuni ambienti70. Il dubbio che invece rimane è quello di capire se questi
interventi fossero l'unione di posizioni necessarie lungo un'unica linea strategica quanto piuttosto
una serie di interventi ad hoc indispensabili per migliorare l'economia del tempo. Risulta abbastanza
chiaro che gli interventi politici in campo economico riflettevano solo in parte una reale strategia
volta ad accrescere, passo dopo passo, il settore produttivo nazionale, perché rispecchiavano, più
che un reale interesse economico, la volontà dei rappresentanti politici di mettere a frutto la loro
posizione per sopperire alle diverse carenze del sistema Paese tramite provvedimenti di
emergenza71. In effetti risulta indubbia la volontà dello Stato di interporsi nelle scelte economiche
tramite una serie di interventi coordinati e continuativi che facevano trapelare la tendenza della
classe politica a privilegiare lo sviluppo industriale del paese. Vi fu, sul piano politico, la presa di

66
B. Amoroso e O. J. Olsen, Lo stato imprenditore, Roma-Bari 1978, pp. 67-68 e 71.
67
U. La Malfa, Discorsi parlamentari, II, (1946-1957), Roma 1986, pp. 567 sgg.
68
F. Rugge, Il disegno amministrativo: evoluzioni e persistenze in Storia dell'Italia repubblicana, II. La trasformazione
dell'Italia: sviluppo e squilibri, Torino 1995, p. 241.
69
B. Amoroso e O. J. Olsen, Lo stato imprenditore cit., p. 73.
70
E. Cianci, Nascita dello Stato imprenditore in Italia cit., p. 9.
71
V. Castronovo, I cinquant'anni della repubblica italiana in Storia, economia e società in Italia (1947-1997), a cura di
M. Arcelli, Roma 1997, p. 29.
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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

coscienza del ruolo rilevante che bisognava attribuire alle partecipazioni statali72. Si può dunque
constatare che nel quinquennio successivo al secondo conflitto mondiale (1948-1953), appena
l'Italia si incamminò verso la ricostruzione, venne dato l'avvio ad una serie di provvedimenti volti
alla riorganizzazione delle partecipazioni economiche dello Stato non essendo però definitivamente
superati i motivi di casualità e frammentarietà di questo sviluppo industriale73.
Dopo un periodo di transizione che andò dal termine della guerra fino all'inizio degli anni '50,
periodo in cui si può anche giustificare la tendenza governativa a prendere provvedimenti singoli
che non facevano parte di un progetto unitario, si registrò (nel corso del decennio in questione) un
più attivo intervento dello Stato nell'economia che sostenne un rapido sviluppo in determinati settori
realizzando una modernizzazione ed un'evoluzione di alcune strutture, ma al contempo si poté
notare l'immobilismo ed il degrado di alcune altre74. Dopo il 1945 risultava evidente la mancanza di
disciplina delle imprese pubbliche e un comportamento aziendalistico molto simile a quello delle
imprese private; questo rendeva inadeguata la presenza pubblica nell'economia nazionale che
impediva una concreta azione di sostegno dove più era necessario come risultò evidente nei forti
ritardi che si manifestarono nello sviluppo industriale del sud del Paese. Nei decenni successivi
economisti e oppositori politici avrebbero riferito che, nonostante gli sforzi prodotti, l'intervento
pubblico non riuscì a raggiungere le finalità ad esso assegnate, non riuscendo ad impedire effetti che
con esso si volevano75. Secondo alcuni studiosi, nonostante si facesse di tutto per uscire dalla
stagnazione ed avviarsi verso una ripresa economica, maturando nuovi orientamenti di politica
economica anticipatori della linea riformista, la Democrazia Cristiana mirava sostanzialmente,
come obiettivo primario, a raggiungere un maggiore controllo degli apparati amministrativi e quindi
a mantenere le distanze il più possibile dagli oppositori politici76. Questa preoccupazione a
mantenere un centro di potere e quindi ad affidare posti di responsabilità a persone che fossero
fedeli al partito77 fu causa, in diversi frangenti, di un'amministrazione frammentaria e per niente
ottimale. Ciò si può comprendere da come procedettero e si evolsero certi progetti. La Cassa per il
Mezzogiorno, ad esempio, nata con ottime intenzioni, non riuscì a raggiungere il proprio scopo
nonostante gli enormi sforzi profusi nel cercare di migliorare il settore agricolo e far crescere una
“civiltà industriale” nel Sud del Paese. A lungo andare si finì per aumentare ancor più il divario
territoriale, lasciando libero il Nord di svilupparsi sempre più e attirare, di conseguenza, parecchia
manodopera dalle regioni disagiate. La compartecipazione e le sovvenzioni pubbliche elargite con
questo provvedimento risultarono inadeguate soprattutto data la loro natura disorganica e non
unitaria78.
Ed uno dei punti cruciali, in questa fase del dibattito politico in cui la linea “riformista” stava
prendendo il sopravvento, fu proprio l'amministrazione degli enti pubblici. Su tale questione difatti
si concentrarono tensioni e dissensi in quanto, l'intervento pubblico in campo economico fu oggetto
di progetti di riorganizzazione e miglioramento. La linea conservatrice teorizzava la necessità di
limitare l'accrescimento di questa realtà, mentre i più progressisti sostenevano a gran voce un
maggior intervento dello Stato, sia per fini economici ma anche per raggiungere obiettivi sociali.

72
P. Saraceno, Il sistema delle imprese a partecipazione statale nell'esperienza italiana, Milano 1975, p. 37.
73
G. Bruno, Le imprese industriali nel processo di sviluppo (1953-75) in Storia dell'Italia repubblicana, II. La
trasformazione dell'Italia: sviluppo e squilibri, Torino 1995, p. 402.
74
S. Colarizi, Storia d'Italia, XXIII. La II guerra mondiale e la repubblica, Torino 1984, pp. 664 sgg.
75
G. Amato, Economia politica e istituzioni in Italia, Bologna 1976, p. 157.
76
F. Rugge, Il disegno amministrativo: evoluzioni e persistenze cit., pp. 237-238.
77
O, come veniva riportato al tempo, allo “Stato democratico”.
78
S. Colarizi, Storia d'Italia cit., p. 668.
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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

Entrambi comunque convergevano sull'idea che fosse necessaria una maggiore sorveglianza degli
enti pubblici economici79.
Una via d'uscita da questa situazione fu proposta da Ezio Vanoni attraverso un programma ben
definito (Piano Vanoni) che, come già visto, ebbe effetti molto limitati, ponendo però le basi
politiche e culturali per l'elaborazione di successivi programmi di riforma. La linea programmatica
del suo “Schema” prevedeva lo sviluppo della politica economica con lo scopo di pianificare e di
dare una direzione organica agli interventi pubblici; nello stesso tempo si voleva incrementare,
tramite incentivi e/o azioni frenanti, l'attività dell'iniziativa privata, per raggiungere una stabilità
anche a livello sociale. L'obiettivo di una crescita equilibrata e di un riequilibrio regionale poteva
essere raggiunto attraverso l'utilizzo di imprese pubbliche nella politica locale per rimediare alle
carenze dell'industria privata. Di fatto, il problema della pianificazione rimase subordinato alla
volontà di raggiungere, a tutti i costi, lo sviluppo. Ricostruire e avanzare interventi in campo
economico in maniera programmata risultava essere ancora un’illusione80.
L'insuccesso di tale proposta si basò fondamentalmente sul fatto che i responsabili della politica
governativa non si resero conto, o, molto più pragmaticamente, non accettarono, che tale compito
spettasse principalmente ad essi e che quindi al settore pubblico non fosse applicabile il lassez
faire81. La concezione che continuava a persistere fu quella che l'intervento pubblico fosse
necessario in quanto il libero mercato non era capace di autoregolarsi e, al contempo, un'ingerenza
statale non fosse così dannosa e tale da provocare distorsioni nell'ambiente economico; ma sempre
nei limiti della necessità, senza eccedere nelle intromissioni pubbliche nella sfera economica. Gli
strumenti con cui lo Stato partecipava nell'economia erano molteplici, ma non ci si proponeva di
dare loro un indirizzo organico perché rimanevano sempre inseriti in un sistema fondato su una
logica di tipo liberista82. Siffatto pensiero si può tranquillamente riassumere in una frase
pronunciata da De Gasperi nei confronti dell'onorevole Di Vittorio che aveva tentato, con il Piano
di lavoro della CGIL, di realizzare una programmazione economica pubblica. De Gasperi asserì:
“fosse vero onorevole Di Vittorio che basti avere un bel piano per ricostruire veramente qualche
cosa” concludendo l'intervento poi con “non sono i piani che mancano, mancano i quattrini”83.
La linea riformista crebbe negli anni ’50 quando fu assegnato un ruolo più attivo alle imprese
pubbliche in campo economico; è proprio dalla metà degli anni '50 che si affermò la svolta
interventista e lo Stato rafforzò il proprio ruolo imprenditoriale84. Il termometro di tale espansione
si può benissimo riscontrare nei rapporti che intercorsero nel periodo tra il settore privato e quello
pubblico. All'inizio degli anni '50 la grande industria si riteneva soddisfatta dell'alleanza con la DC
che le garantiva un'impronta liberale e, allo stesso tempo, contrastava i sindacati rossi. L'azione del
governo, tanto sul versante specificatamente politico, quanto su quello economico, aveva senza
dubbio favorito una forte ripresa dell'iniziativa economica da parte di tutti gli industriali, sia
pubblici, sia privati85. Negli anni successivi la diffusione delle imprese pubbliche a danno di quelle
private e le sempre maggiore ingerenza della mano pubblica in campo economico lasciava sempre

79
F. Rugge, Il disegno amministrativo cit., p. 242.
80
S. La Francesca, La linea riformista. La testimonianza dei diari di Amintore Fanfani (1943-1959), Varese 2007, p.
124.
81
Le scelte per una politica di sviluppo, a cura di Redazione di “Stato Democratico”, Milano 1959, pp. 18 sgg.
82
S. La Francesca, La linea riformista. cit. p. 122.
83
Ibid., p. 125.
84
S. Colarizi, Storia d'Italia cit., pp. 666-667
85
G. Mori, L'economia italiana tra la fine della II guerra mondiale e il “secondo miracolo economico” (1945-58) in
Storia dell'Italia repubblicana, II. La costruzione della democrazia (dalla caduta del fascismo agli anni '50), Torino
1994, p. 212.
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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

più l'amaro in bocca ai grandi imprenditori privati. Gli industriali privati riconobbero in queste
circostanze una crescita della sfera di influenza dell'industria pubblica e la recepirono come una
minaccia dei loro interessi precostituiti. Le riforme attuate dal governo vennero dunque interpretate
come un tradimento da parte della Democrazia Cristiana. E' del 1954 la decisione della
Confindustria di rifugiarsi nel PLI per cercare di contrastare il disegno dello Stato imprenditore
portato avanti dalla DC86. E ciò perché la Confindustria respingeva pregiudizialmente l'idea che la
programmazione economica da parte del governo potesse creare dei punti di riferimento utili a tutte
le imprese, stimolare la produzione e garantirne degli sbocchi che l'economia di libero mercato non
sarebbe riuscita a garantire87. Dal lato del governo lo stesso De Gasperi si era lasciato persuadere da
quanti, appartenenti al suo stesso partito politico, sostenevano l'idea di un cambiamento nel modo
di gestire i rapporti tra politica ed economia e prendere, di conseguenza, le distanze dal “quarto
partito”, ovvero quello formato dai liberisti e dai difensori del libero mercato. De Gasperi, in ogni
caso, manteneva una linea liberista ammonendo i suoi colleghi di partito a “non esagerare con il
potere dello Stato”88. Lo spostamento verso nuovi equilibri politici avvenne con il passaggio di
consegne da De Gasperi a Fanfani (Fanfani, alla guida della DC dal 1954, svolse il suo compito
seguendo due indirizzi: rafforzare il capitalismo di Stato accanto a quello privato e cercare di
coinvolgere in questo processo i lavoratori dell’agricoltura e dell’industria89). L'intensificazione
dello sviluppo tra liberismo economico e intervento pubblico portò, nel corso del 1957, alla
decisione di far uscire dalla Confindustria le imprese appartenenti all'IRI90. Se fino ad allora, bene o
male, vi era stata un'interazione considerevole tra pubblico e privato, questa andò sempre più
affievolendosi venendosi a creare una sorta di aperto antagonismo. La riorganizzazione del settore
pubblico veniva ora considerata dai vertici democristiani come una leva dal peso rilevante per dare
un indirizzo alla politica economica e per riuscire a gestire i rapporti con la Confindustria.
In questo clima risultò quasi naturale il passaggio da una serie di interventi di riorganizzazione alla
creazione, nell'inverno del 1956, del Ministero delle partecipazioni statali. Sicuramente non fu un
lampo a ciel sereno, le prime avvisaglie di questa innovazione si possono già riscontrare nel lontano
1949 con la legge Tupini per le opere pubbliche degli Enti locali. Sempre nello stesso anno, venne
discussa in Parlamento l'ipotesi di affidare ad un organo dell'Esecutivo compiti di coordinamento
delle partecipazioni pubbliche. Nel 1950 venne nominato un ministro senza portafoglio il cui
compito era quello di coordinare gli enti economici a partecipazione pubblica. La proposta più
concreta, da cui poi avrebbe tratto origine la decisione di creare un Ministero delle partecipazioni
statali, fu quella avanzata, nell'aprile del 1951, da Ugo La Malfa. Egli presentò in Parlamento la
relazione su “la riorganizzazione delle partecipazioni economiche dello Stato” di modo che
esistesse un organismo responsabile dell'intero settore dell'economia nazionalizzata91. In realtà “un
controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria” era già
previsto ed era affidato, secondo quanto previsto dall'art. 100 della Costituzione, alla Corte dei
Conti. Lo stesso articolo aggiungeva che la stessa Corte dei Conti, una volta effettuato tale
controllo, “riferisce direttamente alle camere sul risultato del riscontro eseguito”. Tale prescrizione

86
S. Colarizi, Storia d'Italia cit., p. 609.
87
G. Amato, Economia politica cit., p. 163.
88
V. Castronovo, Premesse e attuazione del miracolo in Italia moderna. Immagini e storia di un'identità nazionale, III,
Milano 1983, p.264.
89
M. Capanna, Monopoli, DC, compromesso storico, Milano 1975, p. 112
90
F. Barca e S. Trento, La parabola delle partecipazioni statali in Storia del capitalismo cit., p.213.
91
M. Salvati, Amministrazione pubblica e partiti di fronte alla politica industriale in Storia dell'Italia repubblicana,
(vol. I). La costruzione della democrazia, Torino 1994, p. 491.
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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

poteva sembrare idonea e sufficiente a garantire un corretto utilizzo delle risorse pubbliche e
mantenere l'amministrazione degli enti pubblici al vaglio del sistema statale. Sennonché tale norma
era stata disapplicata o applicata con gravi incongruenze, tali da assoggettare al controllo della
Corte dei Conti istituti di rilievo irrisorio ed esentarne magari altri di ben altro valore92. Tale
regolamentazione fu sottoposta a modifiche con un progetto di legge presentato da Pella nel 1953
ed approvato cinque anni dopo93. Si trattava, in ogni caso, di un controllo giuridico - contabile degli
enti economici che, sul piano politico invece, tendevano ad una solida autonomia. Con la
costituzione del Ministero per le partecipazioni statali94 vennero di fatto attribuite funzioni di
coordinamento e controllo degli enti pubblici e delle aziende partecipate ad un organo dello Stato
che era direttamente correlato ad altri organismi quali il Parlamento, il governo o alcuni ministeri
(Tesoro, Finanze, etc.) affinché vi fosse una linea guida che rispecchiasse le decisioni governative
nei diversi settori dell'economia nazionale95. Le aziende a partecipazione statale diventarono
dunque delle realtà a se stanti rispetto alle imprese private. Con il nuovo Ministero cambiava la
mission delle imprese pubbliche che fino ad allora era stata al pari delle imprese private con cui si
trovavano in un rapporto di concorrenza o, spesso, di connivenza, la massimizzazione del profitto.
Pur essendo enti pubblici autonomi costituiti in società per azioni, includevano una partecipazione
statale che, da quel momento, diventò uno strumento di controllo e di intervento politico. Il
successo non era più identificato nella redditività o nella massimizzazione del profitto, ma nella
produttività sociale e nell'occupazione. Questo fu anche un tentativo di imporre, alle imprese
pubbliche, un controllo politico attraverso la riduzione dell'autonomia manageriale.
Chiaramente un simile provvedimento non poté non causare una certa avversità da parte
dell'opinione pubblica, in particolar modo dei grandi gruppi economici privati. Se, in buona
sostanza, con la costituzione di questo Ministero si puntava ad un consolidamento e ad un
potenziamento del settore pubblico in campo economico con un contestuale distacco dalla sfera
imprenditoriale privata, questo cambiamento avvenne in modo che non risultasse troppo traumatico
per il mondo economico italiano come si era sviluppato fino ad allora, affermando in maniera
graduale l’ingerenza statale in campo economico e occultandola con provvedimenti che con il
tempo si fecero più preminenti. Il governo, difatti, presentò la legge come se fosse un
provvedimento di politica amministrativa, ossia un rimedio per razionalizzare tutti gli interventi e le
partecipazioni fino ad allora effettuate dallo Stato senza un ordine costituito e per creare un assetto
concreto per ciò che si sarebbe fatto nel futuro. Si prospettava dunque la creazione di un semplice
strumento di governo che poco aveva di che condividere con il mondo economico. Onde evitare poi
di cadere nella trappola burocratica fu fissato un tetto massimo di dipendenti (100 unità) e si
rinunciò alla formula organizzativa della direzione generale96. Tale linea di pensiero fu comunque
utopica se si pensa che, per coordinare l'azione di quest'organo con gli altri ministeri, dovette essere
formato un comitato interministeriale presieduto comunque dal Ministro delle partecipazioni statali
per mantenere un unico responsabile che si occupasse dell'intero settore. La creazione di questo
Ministero costituì un passo fondamentale nella vita politico-economica dello stato italiano,
accentuando sempre più la linea di pensiero che si era instaurata al governo, ma non fu però la

92
F. Rugge, Il disegno amministrativo cit., pp. 242-243.
93
Ministro del Tesoro e che veniva considerato il più liberista tra i democristiani.
94
L. 1589 del 22 dicembre 1956.
95
G. Bruno, Le imprese industriali cit., p. 404.
96
F. Rugge, Il disegno amministrativo cit., p. 244.
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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

svolta di gestione amministrativa e di politica economica nella direzione dell'utilità pubblica, quanto
un potente strumento di rafforzamento dei partiti di governo97.
In conclusione si può asserire che la riorganizzazione delle società a partecipazione statale portò ad
un consolidamento del gruppo di forze politiche che aprivano al centro-sinistra pervenendo ad una
politica economica orientata ad un più attivo intervento dello Stato in campo economico e ad un
preludio del cambiamento di rapporti di potere che si sarebbe verificato nei grandi gruppi finanziari
ed industriali italiani98.
L'intervento statale in campo economico però non si può quantificare solamente in quanto
prodotto dagli enti pubblici o dalle aziende a partecipazione statale. Difatti non si può non
considerare l'indotto che gli investimenti pubblici crearono favorendo le imprese private. Si può
notare come, dal termine della guerra al biennio '63-'64, in materia di spesa pubblica, si registrò
sempre un'eccedenza delle spese sulle entrate99. La creazione di infrastrutture e la concessione di
incentivi per realizzarle furono sicuramente grandi propulsori, di impronta pubblica, dell'economia
italiana. Vi fu ad esempio un massiccio investimento nel settore dei trasporti (a favore dell’industria
privata) come la costruzione dell'Autostrada del Sole, iniziata nel 1956, e lo sviluppo della rete
stradale italiana che permise alla FIAT ed all’Alfa Romeo di allineare la propria produzione agli
standard europei, con molte più automobili in circolazione e di cilindrata superiore, sfruttando
l’appoggio governativo e l’incentivo alla realizzazione delle più adatte arterie di grande
scorrimento.

97
Tale tesi è sostenuta da storici di sinistra come M. Salvati, Amministrazione pubblica e partiti cit., p. 491.
98
B. Amoroso e O. J. Olsen, Lo stato imprenditore cit., p. 71.
99
S. La Francesca, La linea riformista cit., p. 118.
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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

Capitolo II Il progetto di governare lo sviluppo

1. La III legislatura repubblicana (12 giugno 1958 – 15 maggio 1963) e l’avvio del centro-sinistra
Nel corso del decennio 1950-1960 la forza del centrismo venne sempre più scemando nel
panorama italiano; ma non fu una sorpresa, la direzione politica che stava prendendo piede in Italia
era sempre più disposta verso orientamenti progressisti. Svariate erano le motivazioni ma è
possibile ipotizzare come le forze di governo legate alla sinistra, in realtà, non furono mai escluse
dalla politica italiana, semmai accantonate per qualche tempo. Fin dal principio si era potuto
riscontrare come, sin dal termine della guerra, la ricostruzione sociale e politica si era posta come
traguardo finale l'eliminazione dalla vita pubblica italiana di tutti gli aspetti del fascismo1. La
rottura col passato fu radicale e ancor più lo fu il mutamento politico che segnò il passaggio dalla
monarchia e dalla dittatura fascista ad un regime democratico. Difatti, nel biennio 1945-1947, in
Italia governò un insieme di forze che spaziavano dal centro alla sinistra, ovvero tutto ciò che non
apparteneva al ventennio precedente2. Fu solo nel 1947, come già visto, che vi fu l'ascesa della
Democrazia Cristiana quale partito di punta del governo e la contestuale estromissione dei partiti di
sinistra (socialisti e comunisti). D'altronde la situazione internazionale, che si era venuta a creare,
spingeva l'Italia verso una presa di posizione che permise ad Alcide de Gasperi, uomo simbolo della
DC, di concretizzare al meglio le sue idee senza alcun intralcio. Ma se nei primi anni di egemonia
democristiana il governo poté realizzare i propri piani senza che fosse posta in essere una materiale
opposizione per carenza di valide alternative3, con il prosieguo venne chiaramente alla luce come il
centrismo stava avviandosi lentamente verso il declino. Ma non solo per una chiara riuscita di
partiti quali il PSI o il PCI, quanto per l’affermazione sempre più netta di una linea di pensiero,
interna alla DC, che si apriva a sinistra. All'inizio del nuovo decennio si possono far risalire i primi
segnali di una volontà, da parte di alcuni esponenti democristiani, di aprire un dialogo verso la
sinistra come si evince dagli scritti di Don Mazzolari4 o dal comportamento di Amintore Fanfani o
Giovanni Gronchi che nel 1955 sostituisce Luigi Einaudi alla Presidenza della Repubblica grazie
anche ai voti dei socialisti e dei comunisti5. Un primo sintomo fu la “sconfitta” della Democrazia
Cristiana nelle elezioni del 1953 che pose definitivamente la parola fine al centrismo teorizzato da
De Gasperi e aprì la strada all'alleanza di centro-sinistra con il PSI che nel frattempo decise, per
liberarsi dall'egemonia comunista, di presentarsi a quelle stesse elezioni con delle liste autonome6.
La maggioranza democristiana non era più assoluta e quindi il partito non poteva più governare
incontrastato, fu costretto a ricorrere a delle alleanze che comportavano, di conseguenza, lo
scontento di una parte consistente del proprio elettorato nonché l'uscita di scena del suo capo
storico, impossibilitato a formare un governo. Gli alleati tradizionali, quali PLI, PRI e PSDI non
erano in grado di coprire il divario che avrebbe permesso alla DC di raggiungere una maggioranza
atta a governare e quindi ci si ritrovava dinanzi ad un bivio: o coalizzarsi con la destra monarchica e
i missini, ovvero i principali antagonisti della democrazia, oppure accordarsi con la sinistra
comunista e socialista, ovvero gli avversari per antonomasia del “blocco occidentale” e della
coalizione di cui faceva parte anche l'Italia. Da quel momento prese avvio e proseguì per tutta la
legislatura un susseguirsi di governi monocolori democristiani dalla durata relativa. Nel luglio del
1
L. Bedeschi, La sinistra cristiana e il dialogo con i comunisti, Parma 1966, p. 228.
2
Con una prevalenza di forze cattoliche, liberali e marxiste.
3
In realtà le sinistre diedero vita ad una forte resistenza che si manifestò tuttavia solamente a parole e non nei fatti.
4
L. Bedeschi, La sinistra cristiana cit., pp. 324 sgg.
5
S. Colarizi, Biografia della prima repubblica, Roma-Bari 1996, p. 51.
6
Tale decisione fu però compiuta in pieno accordo con il PCI, Ibid., p. 49.
22
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

1954 si provò a stabilizzare la situazione, con risultati però effimeri, eleggendo, quale segretario
della DC, Amintore Fanfani in sostituzione di Alcide De Gasperi. In quel momento si chiuse una
fase importante della storia del Paese e se ne aprì un'altra di transizione. In realtà Fanfani era ben
conscio di quale sarebbe stato l'alleato della compagine democristiana, data la maggiore affinità
politica che intercorreva tra il suo partito e i socialisti piuttosto che rivolgere lo sguardo verso
destra. E la collaborazione cominciò proprio dai socialisti che, nel tempo, accrebbero sempre di più
le distanze dai comunisti dopo che, nel 1956, vi fu, da parte del segretario del Partito Comunista
Sovietico Chruščëv, la denuncia dei crimini commessi da Stalin durante il periodo di guida
dell'Unione Sovietica. Sempre nello stesso anno, la violenta repressione russa ai danni dei rivoltosi
ungheresi giocò a favore della corrente autonomistica del PSI. In questo modo i socialisti poterono
trapiantare all'interno della maggioranza di governo la loro peculiarità di alternativa di sinistra oltre
a quella comunista. L'alleanza che prese forma a lungo andare tra la corrente di centro-sinistra della
DC e il PSI venne favorita dunque da un'evoluzione avvenuta all'interno della DC stessa, dai
mutamenti avvenuti in campo nazionale (trasformazione economica e sociale del Paese) ed
internazionale (ridimensionamento del comunismo sovietico) e dalle trasformazioni ai vertici della
Chiesa Cattolica. In questo ambito, prima con i silenzi, poi con sue stesse affermazioni idealizzate
durante il suo magistero ecclesiastico e riportate nelle encicliche, papa Giovanni XXIII assunse un
atteggiamento di maggior distacco dalla lotta politica italiana7. L'affermarsi delle idee riformiste di
papa Giovanni XXIII avvenne in modo graduale lasciando così spazio per diverso tempo all'interno
della stessa Chiesa alle diverse tendenze che la tormentavano internamente, fossero esse
conservatrici o progressiste.
Un primo passaggio verso questa distensione tra democristiani e socialisti avvenne nel periodo '55-
'58 quando, con alla Presidenza della Repubblica il democristiano Giovanni Gronchi, si ebbe la fine
del congelamento della Costituzione.
L'apparato legislativo fino ad allora adottato era ancora di stampo fascista nonostante la
Costituzione e i dettami perseguiti fossero completamente differenti. Oltre alla sinistra anche la DC
era consapevole delle contraddizioni insite nel sistema legislativo ultraconservatore. Il cambiamento
politico della DC, forte dell'attivismo manifestato da Fanfani in tale direzione, mise in moto il
processo di attuazione della Costituzione che era rimasto immutato rispetto agli anni precedenti
l'avvento della democrazia. Con l'attuazione della Corte Costituzionale nel 1955, del Consiglio
dell'economia e del lavoro nel 1957 e con il Consiglio Superiore della Magistratura nel 1958, la
Democrazia Cristiana abbandonò l'idea di un controllo totale del potere non solo legislativo messo
in pratica mediante la maggioranza parlamentare a favore di appositi organi in tal senso costituiti8.
Ciò avvenne sia perché oramai i democristiani non avevano più la sicurezza di una maggioranza
assoluta, ma anche perché si resero conto che l'unica via d'uscita dalla situazione di disorientamento
in cui si trovava il partito era quella di riconquistare dei solidi alleati a cui bisognava concedere pur
qualcosa. In siffatto modo venne “restituito” il favore che aveva permesso a Gronchi la nomina
quale Presidente della Repubblica, si strinse sempre più un'intesa con la sinistra parlamentare e si
accentuò maggiormente il distacco dalla destra che fino ad allora non era stato così netto. Fu
proprio dal 1953 che si pose la parola fine a quell'equilibrio politico che aveva avuto la sua
manifestazione nel centrismo di De Gasperi9. Vi fu ancora qualche tentativo di resistenza sia interno

7
B. Gariglio, I mediatori. La rappresentazione della Democrazia Cristiana in L'Italia del Novecento. Le fotografie e la
storia (il potere da De Gasperi a Berlusconi, 1945-2000), Torino 2005, pp. 196-197.
8
S. Colarizi, Storia d'Italia cit., p. 760.
9
P. Craveri, Storia d'Italia, XXIV, la repubblica dal 1958 al 1992, Torino 1995, p. 1.
23
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

al Parlamento, sia esterno. Le obiezioni interne chiaramente provenivano dai monarchici e dal MSI
che, forti della loro posizione di rilievo nel Sud agricolo, riuscivano ancora ad avere voce in
capitolo nelle amministrazioni locali del Mezzogiorno. Quelle esterne arrivavano direttamente da
componenti della Chiesa che invitava la DC ad optare per una coalizione con i neofascisti e i
sostenitori della monarchia piuttosto che con le sinistre. L'idea di base di Fanfani, che adesso
guidava il partito, era quella di creare un movimento autosufficiente, cercando in tal modo di
svincolarsi dalle pesanti relazioni che lo legavano alla Chiesa, agli americani, alla Confindustria e al
“quarto partito”. Nel primo e nel secondo caso, come abbiamo visto, lo fece scegliendo tra gli
alleati quelli che erano meno invisi alla Santa Sede e agli alleati d'Oltreoceano, nel terzo attuando
un'inversione di marcia da quanto era stato fatto fino ad allora e passando da una politica economica
liberista ad un chiaro interventismo dello Stato in campo economico, affrancandosi da quella che
veniva definita la “destra economica” grazie anche all'alleanza con Enrico Mattei. Come è noto tale
percorso culminò con la creazione, nel 1956, del Ministero delle partecipazioni statali. L'entrata in
scena di Fanfani e del suo programma di modernizzazione però non intendeva chiudere
definitivamente la parentesi degasperiana10 o porre fine al connaturato conflitto tra liberismo e
comunismo, quanto ricercare pratiche soluzioni e terze vie utili allo sviluppo sociale ed economico
del Paese11 in un contesto di cambiamenti continui che stavano sempre più radicandosi in Italia. In
poche parole non aveva più ragion d'essere il concetto su cui De Gasperi aveva basato la politica
che andava dalla fine della guerra ai primi anni '50, ovvero il tema della ricostruzione. La formula
del centrismo risultava oramai logora e necessitava di un rinnovamento per trasformare il ruolo
della Democrazia Cristiana all'interno del contesto politico nazionale. I mutamenti che si erano
radicati in Italia e che continuavano a svilupparsi richiedevano delle trasformazioni anche in campo
politico come era risultato evidente dalle elezioni del '53. Se la svolta ideologica avvenne proprio in
quell'anno si dovette però attendere un quinquennio per vederla messa in pratica. In questa fase di
transizione non vi fu più il classico antagonismo tra comunismo e anticomunismo ma la spaccatura
si dipanò tra centro-destra e centro-sinistra12 e la contrapposizione per tutta la seconda metà degli
anni '50 fu proprio su questo. Il confronto tra destra e sinistra per avvicendarsi al governo accanto al
partito che godeva di una netta prevalenza su tutti gli altri, ovvero i democristiani, fu il leit motiv
durante tutta la III legislatura e palesò, secondo uno storico vicino al PCI come Carlo Pinzani,
l'incapacità del partito cattolico di porre in essere concretamente un indirizzo politico che fosse in
grado di affrontare in maniera congrua le sempre più crescenti esigenze del Paese13. Di
conseguenza, all'interno della stessa DC si riproposero le divisioni tra chi optava per la destra e chi,
invece, preferiva in maniera più o meno sfumata intensificare i rapporti con i socialisti e quindi
prediligeva un'apertura a sinistra14. E' il caso di Amintore Fanfani, che dopo il primo tentativo posto
in essere durante la II legislatura, ci riprovò. Era il 1° luglio 1958 ed egli si insediò a capo del suo
secondo governo unendosi al PSDI e approfittando dell'astensione alla Camera del PRI. La nomina
a Presidente del Consiglio da parte del suo partito avvenne con voto unanime15 e fu accettato anche
il suo indirizzo di centro-sinistra che prevedeva, tra i punti chiave, un maggior distacco nei rapporti

10
Il lascito di De Gasperi era difatti troppo importante, la sua politica era la sintesi del partito e del Paese stesso che
fino ad allora si era basato unicamente sul sistema democristiano.
11
S. La Francesca, La linea riformista. cit., p. 151.
12
S. Colarizi, Biografia della prima repubblica, Roma-Bari 1996, p. 53.
13
C. Pinzani, L'Italia repubblicana in Storia d'Italia, IV, dall'unità a oggi, Torino 1976, p. 2610.
14
S. Colarizi, Storia d'Italia cit., p. 762.
15
L'unanimità ricostituita era la conseguenza del buon successo elettorale piuttosto che l'accordo conseguito tra le
diverse correnti interne al partito.
24
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

tra Stato e Chiesa ed un interventismo statale in campo economico di forte impatto. Ma anche
questa volta il governo di Fanfani non ebbe lunga vita, appena qualche mese. Il programma posto in
essere dallo stesso Fanfani era inadeguato rispetto alle forze politiche che avrebbero dovuto
sostenerlo. Per di più la politica fanfaniana scontò la volontà e la determinazione di porre la
Democrazia Cristiana quale perno centrale di tutto il sistema politico italiano nonostante la
maggioranza relativa e le inimicizie che si venne a creare per un tale comportamento. Le altre forze
politiche erano consapevoli che una simile presa di posizione presupponeva una restrizione della
democrazia in cui non era attuabile un avvicendamento di governo data anche l'esiguità delle
alternative. Il sistema politico italiano si avvicinava pericolosamente verso la partitocrazia ed a un
apparato di regime16. Come chiaro esempio vi fu la scelta oculata da parte di Fanfani di volgere lo
sguardo verso il PSDI piuttosto che al PSI che, a quelle stesse elezioni, aveva guadagnato maggiori
consensi rispetto agli anni precedenti. Ma tale scelta fu coerente alle idee di Fanfani che in questo
modo poteva mettere in pratica la sua manovra di “occupazione del potere”, ovvero il controllo da
parte della DC delle funzioni di governo e delle strutture pubbliche17. Preferendo i
socialdemocratici ai socialisti avrebbe limitato l'ingerenza che questi ultimi avrebbero potuto
opporre nel momento che si trovavano al governo impegnando i democristiani ad accettare dei
compromessi sulle tematiche trattate. Lo stesso Nenni, l'allora segretario del PSI, dichiarò che la
Democrazia Cristiana, appena vinte le elezioni, si era preoccupata più di mantenere il proprio
equilibrio interno anziché impegnarsi sui problemi che riguardavano le nuove tendenze che
emergevano nel Paese18. In aggiunta si poté constatare come Fanfani si fosse arroccato su posizioni
molto caute sul versante delle coalizioni. Se era indubbia la sua volontà di volersi incamminare
verso un'apertura a sinistra, altrettanto cauto era il suo modo di agire. In un sistema politico
fortemente focalizzato sul ruolo centrale della Democrazia Cristiana la collocazione degli alleati,
fossero questi di destra o di sinistra, era fondamentale per portare avanti un programma di governo
che la DC, partito di maggioranza relativa, poteva solo stabilire ma non imporre. Il tentennamento
di Fanfani complicò i giochi cercando egli di fare una politica di centro-sinistra senza però
l'appoggio delle stesse forze di centro-sinistra19. Gli oppositori politici non furono la ragion d'essere
per cui il governo Fanfani non riuscì a procedere, anzi probabilmente ebbero un influsso ridotto se
non insignificante sulla sua caduta rispetto ad altri fattori. L'indirizzo autoritario e verticistico che
Fanfani aveva adottato nella sua gestione del partito, e che mirava in maniera dissimulata a
sovvertire l'equilibrio precedentemente costituito attraverso un programma fortemente progressista,
alimentò una contestazione molto forte all'interno del partito stesso da parte di chi, sul partito, aveva
ancora un'influenza rilevante se non decisiva. Forte era il desiderio delle gerarchie ecclesiastiche e
della destra cattolica di far cadere Fanfani il cui tentativo politico era troppo spregiudicato, o
meglio, immaturo per i tempi. Uno dei principali antagonisti a Fanfani e alla sua linea di pensiero fu
costituita da gruppi della Chiesa Cattolica per due concreti motivi. Il primo riguardava il crescente
orientamento verso sinistra ed un naturale avvicinamento verso le forze politiche che erano in tal
senso indirizzate. Il risultato fu quello di accrescere i contrasti in seno alla Chiesa Cattolica e, di
riflesso, al partito politico che la rappresentava all'interno del governo italiano, la Democrazia
Cristiana20. Il lungo pontificato di Pio XII, che segnò forse il momento di maggior ingerenza da
parte della Chiesa nello Stato italiano non aiutò di certo la presa di posizione di Fanfani; anzi lo
16
P. Craveri, Storia d'Italia cit., pp. 9-10.
17
Ibid., p. 9.
18
C. Pinzani, L'Italia repubblicana cit., p. 2612.
19
P. Craveri, Storia d'Italia cit., p. 12.
20
C. Pinzani, L'Italia repubblicana cit., p. 2614.
25
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

ostacolò ulteriormente dichiarando apertamente una preferenza, da parte della Chiesa, affinché la
Democrazia Cristiana si alleasse con partiti di destra, monarchici o neofascisti che fossero, piuttosto
che orientarsi verso il comunismo. La seconda motivazione che faceva sì che la Santa Sede fosse in
aperto contrasto con il segretario del partito era costituita dal fatto che Fanfani, forte di una
maggioranza indiscussa da più di un decennio, cercasse in tutti i modi di dare origine ad
un'autonomia democristiana rispetto alle autorità ecclesiastiche e agli organismi ad essa collegati.
Ciò era stato possibile grazie al rafforzamento organizzativo che lo stesso Fanfani aveva posto in
essere, e all'idea radicata che la DC svolgesse un ruolo centrale nel sistema politico italiano,
occupando i posti di maggiore rilievo.
Se vi era una certa vivacità nella corrente fanfaniana, altrettanto si può dire per i movimenti ad essa
contrapposti. Fanfani era stato prescelto dallo stesso De Gasperi come suo successore21 non perché
rispecchiasse le sue stesse idee politiche ma perché De Gasperi stesso, conscio che il Paese
necessitava di cambiamenti soprattutto ai vertici politici, sapeva che per colmare il vuoto da lui
lasciato era necessario trovare un esponente di partito dalla personalità carismatica e forte e che,
naturalmente, avesse la caratteristica della novità in questo campo. La scelta era caduta su Fanfani,
ma fin dall'inizio si era compreso come, se vi era una larga fascia del partito che lo sosteneva, ne
esisteva una discordante che portava avanti idee contrastanti. Era il caso, ad esempio, di Andreotti
che con esplicite dichiarazioni si pronunciò a favore del centro-destra, o di Pella e Scelba che non
approvavano l'operato di Fanfani ma l'appoggiavano per “dovere di partito” o come Segni e
Tambroni che non ebbero nessuna remora a presentarsi come propugnatori di una possibile crisi di
governo nel dicembre 1958. A queste manifestazioni esplicite va addizionato il fenomeno dei
“franchi tiratori” che, seppur appartenenti al medesimo partito, erano in grado di non far
raggiungere la maggioranza in Parlamento ai provvedimenti facenti parte del programma portato
avanti da Fanfani22.
Un’ulteriore ostilità verso Fanfani e la sua linea di governo fu messa in atto dalla Confindustria o
comunque da tutti quegli interessi privati che vedevano nell'interventismo statale un limite alla loro
libertà d’azione. La politica di un deciso intervento in campo economico da parte del governo aveva
creato non poco scompiglio, non tanto per il distacco tra impresa pubblica e impresa privata, quanto
per il fatto che si ebbe uno sganciamento effettivo delle imprese pubbliche o a gestione pubblica
dalla Confindustria, aumentandone l'autonomia e svincolandole al contempo dal controllo privato.
Con dei presupposti del genere risultò palese che il II governo instaurato da Fanfani non avrebbe
potuto resistere a lungo. Già alla fine del 1958 il governo si trovò in minoranza, ma in qualche
modo si riuscì a salvare. Fu poco più tardi, nel gennaio del 1959, appena sei mesi dopo
l'instaurazione effettiva, che Fanfani si arrese. La goccia che fece traboccare il vaso furono le
dimissioni dell'allora Ministro del lavoro, il socialdemocratico Vigorelli, presentate il 23 gennaio
1959. Deluso dalla situazione che si era venuta a creare e dal continuo boicottaggio interno (lo
stesso Andreotti dichiarerà a posteriori che la sua corrente si era “svenata” per sbarrare il passo a
Fanfani23) dovuto anche al fatto che si stava concentrando troppo potere nelle mani di un singolo
esponente di partito (Fanfani difatti riuniva in sé le cariche di Presidente del Consiglio, di
Segretario del partito e di Ministro degli affari esteri), ed esterno, di lì a poco Fanfani fece cadere il
governo e pochi giorni dopo si dimise anche dalla carica di Segretario del partito. La caduta di
Fanfani fu molto di più che una crisi di governo. Essa rappresentava il fallimento della linea su cui

21
Durante il congresso della Democrazia Cristiana a Napoli del 26-30 giugno 1954.
22
P. Craveri, Storia d'Italia cit., p. 12.
23
L. Radi, Tambroni trent'anni dopo. Il luglio 1960 e la nascita del centrosinistra, Bologna 1990, p. 76
26
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

la Democrazia Cristiana aveva cercato di muoversi, anche se questo non avvenne in modo nitido e
senza conflitti. In un primo momento sembrò addirittura che la stessa unità politica democristiana,
che tanto era stata celebrata, fosse destinata ad un rapido tramonto, ma non si erano fatti i conti con
la solidità della componente ideologica. Per tamponare la situazione difatti venne chiesto a
Giovanni Gronchi, Presidente della Repubblica, di nominare un governo dato che all'interno della
DC si era venuto a creare uno scontro fortissimo. Non si poteva puntare ad una maggioranza di
centro per i veti reciproci degli ex alleati, non si poteva prevedere un centro-sinistra per le
contraddizioni interne alla DC e infine non era nemmeno possibile un'alleanza con la destra perché
avrebbe creato altre fratture nel partito24. Lo stesso Gronchi, avendo constatato che l'apertura a
sinistra (pur condividendola) risultava abbastanza utopica come concezione atta a formare (e
soprattutto a far durare) un governo, affidò l'incarico ad Antonio Segni con la motivazione che era
necessario valutare tutte le condizioni dopo il fallimento del governo precedente e che in tal
maniera la Democrazia Cristiana si sarebbe trovata in una situazione interlocutoria, tale da
permettere allo stesso partito, che aveva un ruolo centrale nel sistema politico italiano, di scegliere
tra i due diversi sistemi di alleanze e valutare se fosse meglio una soluzione di centro-destra oppure
una di centro-sinistra. A pochi mesi di distanza dunque dall'operato di Fanfani e delle sue idee si
passò ad un equilibrio parlamentare di centro-destra. Il governo di Segni era effettivamente un
monocolore ma faceva fondamento sull'appoggio esterno di liberali, monarchici e missini. Gli
auspici di una svolta a destra, in contrapposizione a quanto fino ad allora preferito, ovvero l'apertura
a sinistra, trovavano per la prima volta un indubbio punto saldo nella DC. Alla corrente interna
favorevole a questo posizione si aggiungeva l'incontrastato sostegno esterno della Chiesa Cattolica
e dei potentati economico-industriali intimoriti da un nuovo possibile orientamento a sinistra25. Il
pericolo, tanto paventato nel passato, che la destra potesse risorgere e tornare a governare sembrava
ben lontano. Il buon risultato ottenuto durante le elezioni del 1958 sia da parte della DC che del PSI
relegava la Destra italiana ad un ruolo di minoranza; ma grazie alla forte influenza del centrismo
democristiano che contrastava le correnti di sinistra del partito, la Destra, nonostante la chiara
sconfitta politica subita in quel periodo, riuscì a lasciare una propria traccia nella prassi di governo
del Paese26. Lo stesso Nenni metteva in guardia i comunisti dal tipo di opposizione da attuare in
quanto, secondo lui, la Destra non cercava altro che un'opposizione unica (retta dai comunisti) a cui
poteva contrapporsi e guadagnare consensi. Circostanza che non si sarebbe verificata lasciando
invece distinte le due opposizioni, socialista e comunista. Dopo circa un anno di attività però anche
il governo Segni cadde. All'origine della crisi vi fu certamente la decisione del PLI di ritirare
l'appoggio al governo Segni perché era considerato eccessivamente blando nel contrastare il
comunismo. In effetti la volontà di Segni si estrinsecava in tutt'altro modo. Egli tentava invece di
prendere le distanze dalla Destra cercando di riproporre il centrismo vecchia maniera che per tanto
tempo aveva accreditato la Democrazia Cristiana. Ma se quel poco di fiducia che socialisti e laici
riponevano in Segni non fu alla base della sua rinuncia a governare ed alla sua caduta, fu la forte
opposizione che la Chiesa Cattolica ostentava nei suoi confronti a porre il veto definitivo dato che
quest’ultima era convinta che la possibilità di alleanza politica tra cattolici e socialisti fosse il primo
passo verso la definitiva rottura dell’unità dei cattolici intorno alla Democrazia Cristiana27. Un dato
di fatto risultò comunque dal profondo contrasto che si instaurò tra gli indirizzi di governo e la

24
Ibid., p. 63.
25
P. Craveri, Storia d'Italia cit., p. 25.
26
Ibid., p. 36.
27
Ibid., p. 62.
27
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

maggioranza che li sosteneva e gli ideali progressisti che oramai erano connaturati nell'intero
Paese28. Il Presidente della Repubblica avrebbe potuto rinviare alle Camere il governo Segni caduto
in crisi, ma preferì non farlo per evitare di dover poi sottostare ad eventuali richieste impegnative da
parte della Destra e per non mettere una volta di più in pericolo l'equilibrio interno del partito. Ciò
che fece Gronchi invece fu di proporre un incarico ad Aldo Moro per tentare un governo di centro-
sinistra. Al rifiuto del segretario del partito l'incarico fu affidato a Fernando Tambroni, personaggio
che il Presidente della Repubblica scelse sfruttando il suo potere di nomina e superando le
indicazioni dei gruppi parlamentari. Le intenzioni del Capo dello Stato furono quelle di cercare un
ministero pendolare che avrebbe potuto ricevere i voti non concordati dalla Destra per poi iniziare
un dialogo con i socialisti. L'obiettivo finale era sempre quello di raggiungere una maggioranza, ma
non ci si poteva orientare esplicitamente a destra a causa delle insistenti pretese dei monarchici,
mentre affidarsi unicamente ad un'intesa di centro-sinistra voleva dire tornare a sperimentare tutte le
difficoltà che si erano riscontrate precedentemente29. Mettere d'accordo tutte le forze politiche fu
impossibile. I liberali si dichiararono favorevoli ad una maggioranza democratica con l'intento di
escludere i socialisti, i socialdemocratici si espressero per una maggioranza definita, ma palesavano
il timore che il fine della maggioranza fosse quello di sciogliere anticipatamente le Camere, i
monarchici si rifiutarono di dare il loro voto senza prima mettere ben in chiaro ciò che avrebbero
avuto in cambio, i socialisti chiesero in cambio del loro voto che il governo effettuasse scelte
programmatiche di chiara rottura con il passato e un deciso spostamento a sinistra. L'unica
soluzione paventata e alla fine adottata dalla DC fu quella di instaurare un governo transitorio dato
che il centro-sinistra non era al momento realizzabile e il centro-destra oramai superato. Si chiedeva
ai partiti dunque un periodo di tregua in cui il governo “ponte” avrebbe accettato qualsiasi apporto e
non avrebbe effettuato alcuna preclusione di sorta30. Gli unici che erano disposti a dare il loro
sostegno, gradito o meno, erano i missini che non chiedevano di concordare i voti pur di reinserirsi
nel gioco politico. Fu così che Tambroni accettò il voto del MSI disposto a sostenere il governo
provvisorio in attesa di futuri accordi maggiormente stabili e dette vita ad un governo monocolore.
Tambroni però non impostò il suo governo come provvisorio, anzi cercò di avviare un programma
che aveva un ben più ampio respiro, della durata decennale addirittura. Anche se il programma non
era certamente di destra, si attirò le critiche di tutte le forze politiche che vedevano, in questo, un
tentativo di governare con la sola forza democristiana, escludendo tutti gli altri partiti, tranne i
missini che appunto gli avrebbero fornito incondizionatamente un appoggio. Insomma, nonostante
le intenzioni e le idee programmatiche di Tambroni non fossero orientate a destra, tutto fece
presupporre che il solo modo di proseguire per questo governo era quello di affidarsi a questi ultimi.
Qui i paradossi democristiani giunsero al culmine perché Tambroni, che era molto legato al
Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, antico leader del raggruppamento della sinistra
cattolica, venne incaricato dallo stesso di cercare una convergenza con i socialisti e invece finì con
il trovare il sostegno determinante del MSI31. E un impostazione del genere non aiutò certo il
governo a durare a lungo. Difatti dopo qualche mese accadde l'inevitabile. Il governo dovette
appoggiare in qualche modo le richieste dei missini, in una logica di do ut des, e quindi concesse
l'autorizzazione al MSI per tenere il proprio congresso nazionale a Genova. Ciò scatenò
manifestazioni popolari in tutta Italia che culminarono non sempre (per ironia della sorte invece a

28
C. Pinzani, L'Italia repubblicana, cit., pp. 2628-2629.
29
L. Radi, Tambroni trent'anni dopo cit., p. 87.
30
Ibid., p. 88.
31
S. Lupo, Partito e antipartito. Una storia politica della prima Repubblica (1946-78), Roma 2004, p. 162.
28
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

Genova non accadde nulla) in scontri sanguinosi con le forze dell'ordine. Si contarono cinque morti
a Reggio Emilia. Il ricordo della dittatura fascista era ancora vivo ma, oltre ai partigiani, anche i
giovani che al momento della dittatura fascista erano appena nati, si ritrovarono a manifestare in
piazza e nelle strade. La preoccupazione maggiore, stando alle parole di Togliatti, era che potesse
realizzarsi “...un'affermazione politica nuova...[che]...avrebbe cambiato qualcosa della situazione
del Paese, pesando in modo abbastanza grave su tutto lo sviluppo della nostra situazione politica.
Bisognava impedire che questo avvenisse, ed è stato il sentimento antifascista, democratico e
nazionale delle masse lavoratrici e delle forze della resistenza appartenenti a tutti i partiti, che è
insorto per impedire che ciò avvenisse”32. Sia le forze politiche votate a sinistra ma anche i centristi
erano scontenti del governo in essere, o meglio della presenza ingombrante della Destra che
ritornava dopo quindici anni a riacquistare voce in capitolo. Difatti, sempre secondo Togliatti,
“l'esistenza di questo governo è il fatto principale che turba l'ordine della vita della nazione.
L'esistenza di questo governo spezza quell'unità delle forze nazionali che sempre, anche nei
momenti di acuti contrasti di classe, dovrebbe trovare il suo posto nella sfera politica. Si liberi
l'Italia da questo governo se davvero si vuole una distensione...ebbene, condizione primordiale ed
essenziale per una distensione effettiva è che vi sia da parte del governo un analogo impegno al
rispetto assoluto dei principi sanciti nella Costituzione repubblicana33”. Di lì a poco Fernando
Tambroni, conscio dell'animosità suscitata dal suo governo, presentò le dimissioni. Ovviamente non
fu solamente il congresso missino con i suoi strascichi violenti e le disapprovazioni a tale
provvedimento da parte di gran parte del mondo politico e non a portare alla caduta del governo
Tambroni. Fin da quando si era instaurato quattro mesi prima, vi era stata una fiera opposizione sia
da parte della sinistra, sia del movimento parlamentare progressista che deteneva una relativa forza
in campo politico. La grave crisi che si consumò non fu unicamente da imputare a questi ultimi ma
anche al pervicace rifiuto democristiano di un'organica apertura a sinistra. Molti videro difatti, nei
quattro mesi del tentativo effettuato da Tambroni l'ultimo sussulto delle forze democristiane che si
opponevano alla politica di centro-sinistra34.
Ma in questo periodo di transizione in cui la DC non disdegnava di volgere lo sguardo verso destra,
il centro-sinistra era in forte odore di rinnovamento per riproporsi in maniera trionfante. I
cambiamenti cominciarono proprio prendendo spunto dalle cause che avevano provocato il
fallimento precedente. Come si è visto Fanfani, nonostante avesse dei validi programmi e buone
intenzioni, aveva fallito nel suo intento principalmente perché aveva messo avanti a tutto la sua
personale egemonia sul partito, relegando ad un ruolo subordinato i colleghi del suo stesso gruppo
politico, e del partito sul sistema politico italiano e sullo Stato, relegando gli alleati ad un ruolo
secondario. Le resistenze alla linea politica di Fanfani e della sua apertura a sinistra erano ancora
molte e non venivano solo dai soliti Andreotti, Pella o Scelba ma anche da altri uomini a lui molto
vicini come Rumor o Segni35. Nel trambusto che si era venuto a creare con la caduta del II governo
Fanfani, appena un mese dopo, ed esattamente nel marzo del 1959, avvenne una scissione nella
corrente fanfaniana di “Iniziativa Democratica” creata nel 1951 dallo stesso con personaggi del
calibro di Segni, Taviani e Rumor. Tale separazione, che al tempo fu definita clamorosa, si realizzò
durante una riunione tenutasi a Roma nel convento delle suore di Santa Dorotea e fu proprio per
questo che, al gruppo di maggioranza capitanato dagli stessi Taviani e Rumor che si venne a
32
P. Togliatti, Contro il governo Tambroni, contro la rinascita del fascismo, discorso pronunciato alla Camera dei
Deputati il 12 luglio 1960.
33
Ibid.
34
B. Gariglio, I mediatori. La rappresentazione della Democrazia Cristiana cit., p. 198
35
L. Radi, La DC da De Gasperi a Fanfani, Soveria Mannelli 2005, p. 185.
29
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

formare da questa separazione, venne dato il nome di “Dorotei”36. La formazione di un nuovo


gruppo all'interno dell'area centrista (con un'apertura maggiormente favorevole a sinistra piuttosto
che a destra) della Democrazia Cristiana era quanto il partito stesso necessitava per tirarsi fuori
dall'impasse che si era venuta a creare con l'impossibilità del governo Fanfani ad operare e la scarsa
volontà di buona parte dei democristiani di indirizzarsi a destra. Respingere le dimissioni di Fanfani
da segretario del partito voleva dire che si correva il rischio di tornare nelle passate sabbie mobili,
accettarle significava che si sarebbe dovuto trovare un nuovo leader che rispecchiasse i punti
essenziali del partito, che condividesse la scelta dell'indirizzo politico (elemento fondamentale
quale che fosse il suo orientamento) e che sigillasse quell'alleanza con la destra che si era venuta a
creare pian piano. Non potendo quindi scegliere tra tutti i vecchi appartenenti a “Iniziativa
Democratica” i Dorotei fecero uscire, quasi a sorpresa, la candidatura di Aldo Moro. Egli infatti non
aveva dato nessun adito, fino ad allora, di essere un leader, ma fu scelto piuttosto perché
rappresentava un punto comune d'incontro, in primis per i Dorotei e successivamente per tutti gli
altri appartenenti al partito. Egli era un cattolico sociale e la sua laicità era quella della tradizione
popolare. Non era facile etichettarlo da una parte e dall'altra come non era possibile ravvisare quale
suo mentore qualche personaggio già affermato del partito37. La sua coerenza intellettuale e politica
fece in modo che, nonostante egli non fosse un convinto sostenitore del centro-sinistra, lo stesso
riuscì a portare indenne il partito alla collaborazione coi socialisti consolidando la sua posizione
all'interno del sistema politico del Paese attraverso alleanze e mediazioni che al contempo non gli
fecero perdere di vista l'obiettivo finale che era appunto l'ordinamento democratico dello Stato. La
felice intuizione di Moro fu quella di capire che per poter seguire senza errori gli sviluppi storici,
politici, economici e sociali che si stavano evidenziando sempre più nel Paese, era di fatto
necessaria un'apertura a sinistra che diventava quindi una priorità irrinunciabile. Moro sapeva bene
che una tale presa di posizione avrebbe causato malumori sia interni sia esterni al partito e quindi
collocò la Democrazia Cristiana quale perno centrale di questo percorso, istituzionalizzando la
classe dirigente che avrebbe compiuto le scelte migliori in campo politico mantenendosi autonoma
da qualsiasi ingerenza extra governativa, ma che al contempo non poteva prescindere dagli
insegnamenti religiosi della Chiesa Cattolica da cui aveva sempre tratto l'ispirazione38. Dal lato
interno tentò, fin dall'inizio39, di ricucire i rapporti tra i due blocchi (centro-destra e centro-sinistra)
per evitare uno scontro frontale e, al contempo, mantenere l'unità del partito. A chi, all'interno della
DC, gli si opponeva affermando che l'autonomia politica era comunque soggetta al diritto della
Chiesa ad interessarsi alle vicende politiche dello Stato, Moro ribatteva che “l'apertura ai socialisti
non è espressione di una caparbia volontà di collegare marxismo e cristianesimo o marxismo e
democrazia. Essa nasce dalla constatazione delle forze motrici della nostra storia e dalla necessità di
convogliarle in modo che servano la democrazia40”. In definitiva Moro ribadiva l'importanza
fondamentale dell'autonomia di scelta politica e l’esigenza di mantenere l'unità del partito che era
l’unico punto di riferimento dell'elettorato cattolico. Per dirla con parole sue la Democrazia
Cristiana era e doveva restare un “partito di cattolici che operano in politica”.

36
Il dualismo tra “fanfaniani” e “dorotei” caratterizzerà la scena politica degli anni successivi creando un centro di
gravità attorno al quale si schiereranno gli altri appartenenti al partito cfr. Ibidem, p. 186.
37
P. Craveri, Storia d'Italia cit., p. 26.
38
M. Marchi, Una leadership politica in azione: Moro e l'apertura a sinistra, Atti del convegno internazionale tenutosi
a Roma il 17-20 novembre 2008, p. 4
39
A partire dal Congresso nazionale della DC tenutosi a Firenze nell'ottobre del 1959.
40
A. Moro, Scritti e discorsi (1951-1963), II, Roma 1982, p. 780.
30
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

Alla fine di maggio del 1960 Moro, al termine del Consiglio Nazionale della DC, fece approvare
definitivamente l'idea di apertura a sinistra quale concetto insito nell'operato politico del partito.
Dilazionandola nel tempo, Moro fece in modo di assicurarsi l'unità del partito e nel frattempo
cominciò con delle sperimentazioni locali di apertura che lo portarono a scontrarsi con i settori più
conservatori delle gerarchie ecclesiastiche come avvenne a Milano, dove gli venne rimproverato il
fatto che la Democrazia Cristiana avrebbe dovuto essere maggiormente conforme agli interessi della
Chiesa. Moro ribadì sempre la sua posizione di leader cattolico impegnato in politica e rassicurò
l'elettorato cattolico che la DC non avrebbe trascurato mai il mandato ricevuto per la difesa dei
valori morali e religiosi ma lo avrebbe attuato nella vita democratica del Paese e quindi con l'idea di
poterlo svolgere attraverso un dialogo che si rivolgeva a differenti ideologie. In definitiva
l'elettorato avrebbe indicato la via da percorrere ma spettava alla DC il compito di scegliere come
concretamente attuare il proprio mandato politico. Con l'ascesa di Moro dunque la Democrazia
Cristiana riuscì a ritrovare nuovamente una propria identità e lo fece volgendosi verso alleanze
orientate a sinistra come, negli anni precedenti, con Fanfani e Tambroni non era riuscita a fare.
La caduta dei due governi di centro-destra, ma soprattutto dell'ultimo che aveva aperto una
grave crisi nel Paese, dimostrò come la Democrazia Cristiana non riusciva a reggere la svolta a
destra. Nel susseguirsi delle alternanze delle correnti democristiane l'idea dell'apertura a sinistra si
impose quale soluzione equilibrata. Due erano i leader democristiani in grado di portare avanti
questo tipo di politica. Fanfani, che già in precedenza aveva dimostrato che non avrebbe avuto
problemi a proseguire con un governo di centro-sinistra che operasse con nettezza di scelte, e Moro,
dall'altra parte, che riteneva l'apertura di centro-sinistra come l'unica soluzione ammissibile per
mantenere la Democrazia Cristiana al centro della politica del Paese e ben salda al comando e, nel
contempo, con la possibilità di governare lo sviluppo in un'Italia che stava mutando radicalmente il
proprio aspetto economico e sociale. E così, fin dal luglio 1960, con la caduta del governo
Tambroni, venne affidato a Fanfani l'incarico di formare un nuovo governo che risultava essere il
terzo per il leader democristiano. Si trattava di un governo monocolore che si insediava grazie
all'astensione dei tradizionali alleati socialisti e dei monarchici. Ma fu ancora troppo presto per
poter rivendicare delle alleanze salde verso sinistra che non suscitassero contrasti nel partito e dagli
oppositori abituali. Moro ribattezzò il III governo Fanfani, dato il suo carattere interlocutorio, come
il governo delle “convergenze parallele”. Dopo circa un anno di governo i socialisti presentarono
una mozione di sfiducia a tale governo perché ritenevano che questo non stesse adoperandosi in
modo adeguato per sfruttare la favorevole congiuntura economica e tutte le specificità ad essa
connesse come lo sviluppo dei mezzi di produzione e della classe lavoratrice. In tal modo, sempre
secondo il PSI, il governo stava privando l'Italia degli eccellenti risultati che avrebbe potuto
conseguire41. Analoghe critiche erano state rivolte al governo non da forze avversarie, bensì da chi
era molto più vicino a Fanfani. La Malfa difatti presentò un'istanza di disapprovazione per quanto si
stava facendo (anzi, non facendo) per una questione che gli era stata sempre a cuore, ovvero il
Mezzogiorno, in un periodo in cui in Italia si registrava il miracolo economico. Nonostante il
dibattito acceso, la maggioranza parlamentare confermò la fiducia al governo Fanfani, ma l'odore di
crisi rimaneva nell'aria. A distanza di sei mesi dalle critiche (costruttive) portate avanti in
Parlamento si instaurò un altro governo, sempre presieduto da Fanfani, che però stavolta contava tra
gli alleati i socialdemocratici e i repubblicani ed era basato su un preventivo accordo di programma
con i socialisti che lo sostennero esternamente con la loro astensione42. Fu questo il primo vero

41
P. Craveri, Storia d'Italia cit., p. 98.
42
S. Lupo, Partito e antipartito cit., p. 166.
31
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

governo di centro-sinistra che nacque soprattutto grazie all’intervento di Moro all’ottavo Congresso
Nazionale della DC tenutosi a Napoli alla fine del gennaio 1962. Con un intervento che durò ben
sette ore, Moro riuscì persuadere tutto il partito della necessità di avviare la politica di centro-
sinistra (alla fine solo Scelba e il suo gruppo, “Centrismo popolare”, risultò contrario). Ed il
programma del governo appena nato era carico di riforme. Il dibattito si era spostato non più su che
programma adottare ma su come realizzarlo. Secondo le sinistre era necessario creare degli
strumenti ad hoc per poter sviluppare al meglio le riforme in questione. Per i democristiani invece si
sarebbe dovuto continuare ad utilizzare gli strumenti operativi esistenti senza dover modificare le
normali procedure. A La Malfa, Ministro del bilancio, toccò impostare la questione della
programmazione che affrontò in maniera originale coinvolgendo l'intera amministrazione in questo
progetto, forzando la tradizionale organizzazione verticale per settori43. La politica di
programmazione messa in atto da Fanfani nel suo quarto governo e portata avanti egregiamente da
La Malfa non poteva che uscirne rafforzata nei suoi connotati interventisti. La politica di centro-
sinistra riuscì finalmente ad affermarsi e raggiungere il successo. Fanfani e La Malfa avevano
caratterizzato quella prima breve stagione del centro-sinistra. Nel prosieguo non faranno più parte
del governo con il compiacimento dei loro detrattori appartenenti alla Destra politica e con pochi
rimpianti da parte della Sinistra. Sta di fatto che con la loro uscita il governo perderà quel potenziale
di attivismo e dinamismo che era insito nella loro personalità44.

2. La politica economica e sociale nel periodo 1958-1963


All'inizio della III legislatura l'Italia si trovava già in pieno boom economico. L'industria
italiana era diventata il settore trainante e, chiaramente, coinvolgeva buona parte della popolazione
attiva e il mercato del lavoro che ad essa era legato. La crescita economica era costante e
raggiungeva dei livelli mai eguagliati, né precedentemente, né successivamente. Lo sviluppo
economico si tirava dietro anche quello sociale, con un aumento del reddito pro-capite pari quasi al
doppio rispetto a pochi anni prima; crescevano, per logica, anche le esigenze degli italiani
trasformandone i bisogni ed ampliandoli. Al volgere del decennio le condizioni economiche e
sociali erano mutate a tal punto che influirono drasticamente sul modello di sviluppo economico e
sul sistema politico. L'avvento del centro-sinistra con l'apertura della DC ai socialisti fu sintomatico
quanto difficilmente evitabile. Un impetuoso stravolgimento squarciava gli equilibri politici che
fino ad allora avevano caratterizzato la situazione italiana portando i socialisti al Governo o
comunque ad influenzare le scelte politiche della maggioranza e indirizzando la stessa verso nuovi
sbocchi di politica economica45.
Una valida ed adeguata politica governativa in campo economico era dunque necessaria per
agevolare e sospingere i cambiamenti in atto. Ed era quello che era intenzionato a fare il Governo
potenziando l'interventismo statale. Il progetto riformistico che si stava imponendo nel centro-
sinistra può essere esaminato sotto due diversi profili a seconda che si sottolinei il suo contenuto
programmatico o quello politico. Il primo aspetto prendeva forma dall'inesorabile riscontro degli
squilibri, settoriali e territoriali, che il rapido sviluppo aveva portato con sé e che necessitavano di
un intervento da parte dello Stato per riequilibrarli, facendo entrare in questo modo in gioco
l'aspetto politico. Sulla necessità di intervento da parte dello Stato per mitigare gli squilibri sociali si
era espresso anche il Papa contemporaneo, Giovanni XXIII, con la sua enciclica Mater et

43
P. Craveri, Storia d'Italia cit., p. 111.
44
Ibid., p. 123.
45
P. Craveri, Storia d'Italia cit., pp. 91-92.
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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

magistra46. Sicuramente egli era l'esponente di maggior rilievo dell'ambiente cattolico che si
pronunciava a favore di una responsabilità crescente dello Stato. Con una simile responsabilità
dunque, alcuni esponenti della DC riuscirono a far sentire la loro voce e ad imporre le loro idee
all'interno del partito di maggioranza. A partire dal segretario del partito, Aldo Moro, auspicava una
programmazione economica orientativa, ovvero prevedeva la necessità di un intervento pubblico
volto a creare un quadro di orientamento per gli investimenti privati. L'azione doveva intendersi non
come un'azione correttrice di quanto già era avvenuto ma come una componente della politica di
sviluppo. Chi non si tirò indietro fu certo il Presidente del Consiglio, nonché ex segretario del
partito democristiano, Amintore Fanfani che vedeva nello stesso partito uno strumento di
trasformazione piuttosto che di conservazione della società italiana, attraverso un'iniziativa
dinamica del Governo in ambito legislativo ed amministrativo che fosse in grado di gestire la
pluralità di aspetti su cui bisognava intervenire47. Anche Ugo La Malfa, l'allora Ministro del
bilancio, era dello stesso parere. Ma più pragmaticamente egli optava per scorgere la soluzione ad
una politica (interventista) che era fuori discussione. Uno dei problemi centrali che lo stesso La
Malfa si poneva era dunque quello di trovare gli strumenti adatti alla programmazione, da un lato
con l'insieme delle strutture di governo e la pubblica amministrazione, dall'altro con le
organizzazioni rappresentative degli interessi sociali. Anche una personalità di rilievo vicino alla
Democrazia Cristiana, l'economista Pasquale Saraceno, si cimentò in questa disputa supportando il
maggior ruolo che avrebbe dovuto sostenere lo Stato per promuovere lo sviluppo in atto utilizzando
la spesa pubblica come alternativa alla domanda di mercato e creando dei centri di sviluppo a fianco
e in concorrenza con l'industria privata, che non si sarebbe mai messa a rischio su questo terreno.
Includendo il ruolo della spesa pubblica negli investimenti in cui l'impresa pubblica si sostituiva a
quella privata egli, senza tanti giochi di parole, proponeva un'accentuazione del ruolo dell'economia
mista che era, a questo punto, presentata quale terza via tra liberismo e comunismo. La Democrazia
Cristiana non poteva illudersi di accrescere il suo consenso popolare senza un'incisiva politica di
riforme e, al contempo, l'adottare provvedimenti di riforme politiche, economiche e sociali avrebbe
reso più fluido il rapporto con la sinistra comunista, sia a livello parlamentare, sia a livello
sindacale.
Le basi che influenzarono l'ingerenza dello Stato in questo campo si possono ravvisare in alcune
decisioni politiche adottate negli anni precedenti che sottolinearono la volontà politica di
intromettersi in campo economico. Le direttrici che misero in moto la macchina dell'intervento
statale che da quel momento non si sarebbe più fermata erano quattro: l'edilizia popolare, le opere
pubbliche, la riforma agraria e la creazione della Cassa per il Mezzogiorno. Ma se la prima esaurì i
suoi effetti in poco tempo, le altre tre invece, con risultati alterni, continuarono per lungo tempo ad
ottenere energici effetti ed esercitarono influenze positive come base di lancio per le vigorose
politiche riformiste dell'inizio degli anni Sessanta48. Le politiche governative che si svilupparono
nel tempo presero forma dai governi centristi di inizio decennio per poi ampliarsi sempre più con
l'apertura a sinistra, individuando nell'intervento pubblico un adattamento al modello di sviluppo
che ne amplificava le qualità o sopperiva (o comunque ne diminuiva gli effetti) alle mancanze. Lo
spostamento a sinistra dell'equilibrio politico era un punto significativo nel dimostrare i
cambiamenti in atto e di quanto si stavano prendendo sempre più le distanze dalle strategie
46
Al capitolo II egli sottolineò come l’intervento dei poteri pubblici in campo economico dovesse possedere il
“carattere di orientamento, di stimolo, di coordinamento, di supplenza e di integrazione [e] deve ispirarsi al "principio di
sussidiarietà"”.
47
P. Craveri, Storia d'Italia cit., p. 109.
48
M. Salvati, Economia e politica in Italia cit., p. 53.
33
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

economiche-politiche che avevano caratterizzato tutto il periodo che dalla fine della guerra era
proseguito fino quasi al termine degli anni Cinquanta. La successione di riforme istituzionali che
desse la facoltà ai governi di perseguire un disegno di sviluppo che fosse coerente per un periodo di
tempo abbastanza lungo tale da permettere un loro consolidamento, aveva il sua punto d'appoggio
nella trasformazione profonda che aveva interessato i vertici politici del Paese.
Come del resto era avvenuto, anche se in maniera differente l'una dall'altra, in due stati che erano a
stretto contatto con l'Italia. In Francia una solida maggioranza politica consentiva al governo
gollista di mantenere un programma che aveva come intento prevalente lo sviluppo del settore
industriale, e per fare ciò escludeva le forze politiche e sindacali del movimento operaio, come era
avvenuto anche in Italia nel corso degli anni Cinquanta. Un metodo praticamente opposto49 era
invece applicato in Austria, ma il punto in comune era la stabilità del governo guidato da un partito
socialdemocratico che si poneva come obiettivo finale la piena occupazione e la sempre maggiore
diffusione di uno stato di benessere50. Ma se i presupposti erano buoni, se le basi per uno sviluppo
economico e sociale erano state poste e la congiuntura economica era estremamente favorevole,
durante il quinquennio1953-1958 le scelte politiche che avrebbero dovuto dare una spinta al motore
economico italiano, rimasero tali e non si trasformarono in concrete realizzazioni che potessero
avere un impatto energico sull'intera economia. Benché il reddito nazionale fosse aumentato in
misura superiore al 5% (ma forse questa fu al contempo una delle cause che convinse la classe
politica che si stava proseguendo su una strada corretta, non intuendo, invece, che tale successo era
piuttosto la conseguenza di una situazione congiunturale favorevole a livello economico), i
problemi della disoccupazione e della depressione esistente in molte zone geografiche
(Mezzogiorno in primis) erano rimasti tali51. Occorreva dunque una politica economica unitaria per
dominare fatti ed eventi di così eccezionale importanza, anche se, in un certo senso, contrastanti. Il
progresso economico e il raggiungimento di livelli più elevati di reddito lasciava scoperta una serie
di bisogni che potevano essere colmati solo da accurate manovre di politica economica e sociale.
Un simile interventismo aveva visto un punto di arrivo decisivo nella creazione di quel Ministero
delle partecipazioni statali che aveva modificato per sempre la politica industriale dell'impresa
pubblica; essa stava trasformando i criteri di economicità in scelte volte all'incremento
occupazionale e allo sviluppo dei settori in stato di necessità e di quelli propulsivi, la nascita del
nuovo Ministero aveva modificato, in modo definitivo, i rapporti tra impresa pubblica e privata. Un
passo fondamentale nella politica di sviluppo fu certamente quello di sostenere ed accrescere le
partecipazioni statali, anche per sopperire alle debolezze che scaturivano dal capitalismo italiano e
dagli squilibri che si poterono osservare nell'andamento del suo sviluppo. Durante la segreteria di
Fanfani lo sviluppo delle partecipazioni statali divenne parte integrante della politica della DC.
Secondo Fanfani le partecipazioni statali sarebbero state un nodo fondamentale anche per la lotta
contro le posizioni monopolistiche dove “con la sua azione amministrativa e legislativa nel campo
della determinazione delle concessioni, del credito, dei prezzi, delle tassazioni, lo Stato impedisca la
formazione e l'esercizio di monopoli nocivi all'economicità del nostro sistema, al progresso della
nostra economia, alla libertà della nostra democrazia”52. Lo sviluppo delle partecipazioni statali era
la risposta che il Paese necessitava per sostenere l'impegno economico in generale e, più nello
specifico, per migliorare l'apparato industriale in due dei settori che erano di vitale importanza per
49
Il movimento operaio aveva una robusta voce in capitolo partecipando attivamente alla vita politica.
50
M. Salvati, Economia e politica in Italia cit., pp. 68-69.
51
Da “La voce repubblicana” del 6 marzo 1957 in U. La Malfa, La politica economica in Italia 1946-1962, Milano
1962, p.349.
52
A. Fanfani, Relazione al VI congresso in I congressi nazionali della DC, Trento 1956, p. 606.
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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

la crescita ovvero quello dell'acciaio e quello dell'energia. Qualche anno dopo la creazione del
Ministero in questione si volle dare un'impronta decisiva a questo valido strumento con cui la
politica poteva trovare uno spazio nella vita economica del Paese. Gli ammodernamenti, l'impiego
razionale dei mezzi di produzione, la programmazione più efficiente e la preparazione professionale
(attuata attraverso l'organizzazione di corsi professionali atti ad ampliare in modo efficace il ritmo
formativo e di ricambio dei dirigenti italiani ai vari livelli)53 furono le misure prese per ottenere un
miglioramento della gestione aziendale diretta ad un contenimento dei costi sempre nell'ottica della
massima produttività, per poter offrire i servizi alle migliori condizioni possibili o, nel caso di
aziende che operavano nell'ordinario settore industriale, la capacità di sostenere la concorrenza. La
macchina delle partecipazioni statali era ormai predisposta alla costituzione di nuovi centri
propulsivi e al potenziamento di quelli esistenti per sostenere e dare maggior impulso all'intera
attività economica nazionale. Lo strumento delle partecipazioni statali fu dunque un mezzo
fondamentale a disposizione della politica in quanto permise di cercare di raggiungere tre
importanti obiettivi. Il primo era quello di dare una spinta a quei settori propulsivi54 utili all'intera
vita economica, fornendo uno stimolo all'espansione dell'attività produttiva (dove la carenza
dell'industria privata poteva costituire un freno) o spronando la concorrenza privata (tranne in alcuni
casi, la presenza dello Stato nell'economia non intendeva essere esclusiva) per ottenere migliori
livelli qualitativi a prezzi inferiori con il risultato di accrescere il benessere collettivo. Il secondo
obiettivo accertava come uno strumento così potente come quello delle partecipazioni statali
permettesse al Governo di perseguire le politiche generali dallo stesso emanate. Le imprese a
partecipazione pubblica non solo dovevano riuscire a raggiungere positivamente gli obiettivi
specifici che erano loro propri, ma dovevano operare in una visione più ampia risultante dalla linea
programmatica che lo Stato intendeva promuovere in campo economico. Il disegno complessivo
che il Governo intendeva attuare vedeva nelle imprese a partecipazione pubblica il fattore di
avanguardia che avrebbe orientato l'intervento statale nelle sue linee guida. Infine il terzo obiettivo
era quello di coadiuvare ed incentivare lo sviluppo nelle aree depresse, il Mezzogiorno su tutte. Era
infatti palese che, senza un intervento da parte dello Stato, le zone del centro-sud non sarebbero mai
riuscite a riguadagnare il terreno perduto da prima della guerra, come era chiaro che tali apporti
esterni esigevano un'entità e determinate caratteristiche a cui solo lo Stato era in grado di
provvedere. L'intenzione non era più solo quella di costruire infrastrutture idonee a sostenere lo
sviluppo, ma quella di incentivare gli investimenti in campo industriale come era accaduto nei primi
anni ’50. Ed è ciò che la politica fece. Creò e organizzò dei grandi centri produttivi55 intorno ai
quali avrebbero dovuto sorgere ed ampliarsi iniziative di minore grandezza56. Purtroppo questo
punto, rispetto agli altri due, sarebbe stato raggiunto in minima parte dai governi successivi dal
dopoguerra in poi. Nonostante i numerosi sforzi profusi e gli investimenti effettuati, le grandi opere
del Mezzogiorno sarebbero state catalogate come “cattedrali nel deserto”.
Per controllare che la linea politica economica prestabilita nel campo delle partecipazioni statali
fosse messa in atto correttamente il Parlamento poté inoltre usufruire di un apposito strumento di
controllo previsto nella legge istitutiva del Ministero delle partecipazioni statali: la relazione
programmatica. Per come si sviluppò, la relazione non solo permetteva di misurare a consuntivo la
funzione di coordinamento attuata dal Governo, ma esponeva le linee generali che lo Stato avrebbe
53
M. Ferreri Aggradi, Le partecipazioni statali nella politica di sviluppo in Conferenza tenuta a Roma il 25 giugno
1960 per la chiusura del VII anno accademico dell'Istituto Superiore per la Direzione Aziendale, pp. 17 sgg..
54
La definizione di “settori propulsivi” era stata introdotta da Ezio Vanoni nel suo “Schema” del 1955.
55
Un esempio su tutti può essere il centro siderurgico a ciclo integrale costruito a Taranto.
56
M. Ferreri Aggradi, Le partecipazioni statali nella politica di sviluppo cit., pp. 30 sgg.
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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

dovuto perseguire nel successivo esercizio finanziario nel campo delle partecipazioni57. Questa si
rivelò un mezzo molto utile che assicurò ai governi Fanfani un eccellente controllo di quanto in
precedenza deciso e un ottimo spunto su quanto ancora da fare.
Certo i tempi erano cambiati. Gli effetti dello sviluppo avevano reso sempre meno necessario
l'intervento dello Stato per salvare aziende in crisi, ora il punto era quello di rafforzare le
partecipazioni come vera e propria scelta di politica economica. Nell'operare le sue scelte Fanfani
poté fare affidamento sulla collaborazione di importanti manager come Enrico Mattei dell'ENI.
Importante fu anche il ruolo dell’IRI che, dopo essere stato sull’orlo dello smantellamento,
dall'inizio degli anni '50 aveva subito profonde modifiche che nel giro di un decennio la condussero
a divenire la più grande società italiana con 120 imprese e 280.000 addetti58. A partire da settori
fondamentali come la produzione dell'acciaio, passò presto ad avere un'influenza primaria nella
costruzione delle autostrade ed assunse il monopolio delle comunicazioni telefoniche e dei trasporti
aerei. Grazie al fatto che la sua attività mirava principalmente ai settori di base e alle infrastrutture,
l'operato dell'IRI non provocò un forte contrasto con l'imprenditoria privata, anzi in alcuni casi
produsse indubbi vantaggi, favorendo lo sviluppo delle società per azioni delle imprese non statali.
Del resto l'IRI comprendeva un insieme di imprese eterogenee spesso con una rappresentativa
partecipazione privata su cui la mano pubblica svolgeva uno scrupoloso controllo. Va inoltre notato
che, malgrado l'energica politica interventista dispiegata con le partecipazioni e con l’affermazione
del governo di centro-sinistra, la politica continuava a limitare o addirittura ad evitare interventi
diretti nei settori in cui la presenza dell'imprenditoria privata garantiva il necessario sviluppo
economico e il benessere sociale. Risultava altresì chiaro che, per difendere quella parte di
economia di mercato che agiva nel sistema economico italiano, la politica economica doveva porsi
quale obiettivo quello di rimuovere tutte quelle situazioni in cui una posizione di privilegio,
pubblica o privata che fosse, finiva con lo snaturare il concetto di concorrenza che era alla base del
libero mercato. In contrapposizione a questi orientamenti si mosse l'ENI che, per la tipologia di
attività svolta, incontrò non poche opposizioni da parte degli imprenditori privati, sia italiani, sia
stranieri. Con la creazione dell'ENI e la successiva elezione di Fanfani a segretario della
Democrazia Cristiana, gli equilibri economici erano mutati inesorabilmente a favore del settore
pubblico, cosa che non passò inosservata ma generò anzi una crescente protesta da parte della
Confindustria e di gran parte del mondo imprenditoriale privato. L’azione dinamica dell’ENI fu il
frutto della capacità imprenditoriale di Enrico Mattei, promotore e capo dell'ENI. La sua politica
combattiva trovava un appoggio sia nell'opposizione di sinistra, sia nelle correnti di sinistra della
DC che basavano la loro politica riformista principalmente sulle imprese a partecipazione statale e
che facevano dell'ENI e di Mattei59 la loro punta di diamante. In ogni caso l'imprenditoria privata
non era compatta nel fare fronte comune per contrastare l'ingerenza statale in quello che fino ad
allora era stato il proprio campo d'azione. Se le società energetiche o chimiche60 vedevano nell'ENI
un ostacolo insormontabile e pericoloso, in quanto non erano in grado di opporre un’efficace
strategia difensiva, altre grandi società (come FIAT ed Olivetti ad esempio) non erano affatto
contrarie ad un impegno vigoroso da parte dello Stato in campo energetico, anzi vedevano in questo
intervento uno stabile appoggio per la loro attività.

57
S. Fergola, Le “partecipazioni di Stato e la “relazione programmatica” in Rivista di politica economica, fasc XI,
nov. 1960, anno L, III serie, pp. 6-7.
58
Y. Voulgaris, L'Italia del centro-sinistra (1960-1968), Roma 1998, p. 68.
59
Dal momento della sua costituzione nel 1953 al momento della morte di Mattei, avvenuta nel 1962, si può
indubbiamente affermare che l'ENI fu Mattei e Mattei fu l'ENI.
60
La Montecatini subì un duro colpo con l'entrata dell'ENI nel settore dei fertilizzanti.
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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

In definitiva lo sviluppo delle partecipazioni statali, dal momento della loro affermazione decisiva
nel 1956, fu assai significativo e non si arrestò neanche quando il loro più fervente sostenitore che
era anche in grado di imporsi politicamente, ovvero Fanfani, per un breve periodo non fu più
segretario del partito cattolico né Presidente del Consiglio. Oramai i rapporti di forza tra settore
privato e pubblico erano mutati a favore di quest'ultimo e di conseguenza anche il rapporto che
intercorreva tra potere politico ed economico. L'intervento statale attraverso le partecipazioni era in
grado ora di coprire le debolezze del capitalismo italiano, favorendo una sempre maggiore
autonomia del potere politico in campo economico. Le correnti di centro-sinistra della DC si erano
legate indissolubilmente alla componente delle partecipazioni statali sia perché l'allargamento del
settore pubblico nell'economia era visto come un valido strumento per una politica di riforme, sia
perché, grazie a questa tipologia d'intervento, si consolidarono sempre più gli stessi movimenti che
avevano contribuito a crearla61. Lo sviluppo delle partecipazioni statali fu dunque l’esito del
notevole processo di crescita dell'economia italiana, ma al contempo ebbe il difficile compito di
imporsi per poter indirizzare, o comunque gestire in modo congruo, l'espansione economica in atto.
La crescita del sistema produttivo non poteva difatti essere gestita come un movimento automatico
destinato a continuare all'infinito senza riflessi negativi. Il processo di sviluppo doveva essere reso
stabile tramite scrupolose manovre di politica economica, che dovevano anche evitare che ci fossero
interruzioni o rallentamenti nel processo di sviluppo. Gli squilibri territoriali e l'irregolare crescita
di alcuni settori rispetto ad altri fece “ritenere quindi necessaria l'adozione di una politica
programmata che indirizzi l'evoluzione economica del Paese nel senso più corrispondente alle
esigenze di uno sviluppo equilibrato”62. E fu proprio nel biennio 1962-1963 che si poté dare il via a
tutte quelle riforme che, approfittando della situazione di forte dinamismo dell'economia,
apportarono le necessarie modificazioni senza incontrare forti ostacoli. “La politica di
programmazione che oggi ci si propone di attuare non è altro, in sostanza, che un'azione rivolta,
mediante gli opportuni istituti e strumenti, a indirizzare i processi di sviluppo in maniera che si
tenga conto degli squilibri esistenti e dei problemi insoluti...”63. La classe politica italiana
rappresentativa della maggioranza parlamentare era dunque pronta ad imprimere una svolta
riformistica nella politica economica italiana. Se nel 1958, all'epoca del primo governo Fanfani, i
programmi settoriali di sviluppo economico erano ancora prematuri, qualche anno più tardi, con il
III e il IV governo Fanfani, si giunse alla possibilità di poter assumere impegni importanti di
carattere pluriennale. E se le riforme economiche erano entrate a far parte del pensiero politico degli
esponenti della maggioranza, queste non riguardavano più solamente gli investimenti in
infrastrutture ma si allargavano, sconfinando nel campo delle spese per le riforme strutturali ed
istituzionali64. Con questo il Governo intendeva prediligere un impegno di programmazione
economica generale come punto di svolta rispetto a quanto fatto fino ad allora dalla classe politica e
come punto di partenza nella determinazione di una “nuova” politica. Gli obiettivi della
programmazione erano la conservazione dei sostenuti livelli di sviluppo, la soluzione ai persistenti
squilibri, la modernizzazione dello Stato e delle politiche sociali. Per fare ciò la programmazione
doveva coinvolgere tutti i settori con la priorità verso alcune direttrici quali l'agricoltura e il
Meridione e il contestuale rafforzamento degli obiettivi sociali con un occhio di riguardo verso le
abitazioni, la sanità e l'istruzione. E per gestire il complicato intreccio tra politica ed economia, tra
61
Y. Voulgaris, L'Italia del centro-sinistra cit., p. 72.
62
U. La Malfa, Problemi e prospettive dello sviluppo economico italiano in “Nota aggiuntiva” presentata al
Parlamento il 22 maggio 1962.
63
Ibid.
64
U. La Malfa, La politica economica cit., p. 472.
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ideologia liberale in aperto contrasto con le scelte e le motivazioni addotte dal Governo in carica65 e
ideologia progressista e riformatrice, Fanfani costituì la “Commissione Nazionale per la
programmazione economica”, organo composto da esperti, economisti, rappresentanti degli
imprenditori e dei lavoratori, che aveva l'incarico di predisporre le linee di un piano di sviluppo
economico nazionale. La Commissione presieduta dal Ministro del bilancio66 non intendeva
soverchiare l'ordine prestabilito degli organi di potere, ma voleva essere un punto di riferimento e di
ispirazione per lo sviluppo della politica economica in Italia, rimanendo sottoposta al giudizio
inequivocabile del Parlamento e al coordinamento tra attività di programmazione svolte in sede
nazionale ed in sede regionale, armonizzando la propria azione con quella promossa dalle iniziative
locali. L'esistenza della Commissione nasceva dal Parlamento e nel Parlamento stesso aveva il suo
traguardo finale67, trovando lungo il suo cammino le soluzioni che riguardavano i problemi che
nascevano nel Paese e si materializzavano in Parlamento e a cui quest'ultimo doveva porre rimedio.
Una tale concretizzazione rendeva l'istituzione di questo organo quale scelta di politica economica
vincolata ad un equilibrio parlamentare e democratico del Paese. Attraverso quest'istituto il
Governo diede alla politica di programmazione una svolta indispensabile alla vita politica italiana.
La finalità ultima della nascente Commissione era principalmente quella di fornire
un'organizzazione tecnica alla difficile attività di programmazione economica statale che doveva
coordinare tutte le forze produttive del Paese (spesso in antagonismo tra loro) e mettere d'accordo
tutte le parti sociali per raggiungere obiettivi economici di rilievo, ma anche quella di dare il proprio
contributo al mondo politico costretto a confrontarsi con le problematiche economiche quali parte
integrante della vita politica e sociale del Paese.
Il carattere aperto della Commissione era facilmente intuibile analizzando le forze che la
componevano. Accanto ad economisti ed esperti che dovevano indirizzare l'attività economica dello
Stato in maniera tale da poter cavalcare la situazione congiunturale favorevole e mantenere le
condizioni di sviluppo, si potevano ritrovare esponenti delle maggiori organizzazioni
rappresentative delle forze economiche e sindacali del Paese. In tal modo essi venivano portati a
conoscenza in termini reali dei problemi che si ponevano in essere e potevano, attorno ad un tavolo
comune, discuterne apertamente e concepire delle soluzioni. D'altronde se era indubbia la volontà
del Governo di assistere la parte più debole nel difficile braccio di ferro tra imprenditori e
lavoratori, si poteva al contempo notare come, se si consideravano alcuni progetti di riforma relativi
al miglioramento dei servizi sociali, gli atteggiamenti e le intenzioni di alcune componenti politiche
del centro-sinistra appoggiassero il capitalismo italiano di modo che usufruisse di alcuni interventi
correttori nel modello di sviluppo che favorivano il movimento operaio, tale da avere una
contropartita da questi ultimi come consenso politico.
Questi punti fermi manifestavano quella che era la concezione del centro-sinistra in merito al
rapporto che intercorreva tra Stato ed economia: programmazione e riforme per superare gli
squilibri strutturali, riorganizzazione e contestuale miglioramento dei tradizionali settori
dell'economia e della struttura occupazionale attraverso il delicato meccanismo delle partecipazioni
statali, assunzione da parte dello Stato di un ruolo centrale che, attraverso la programmazione,
sarebbe divenuto un punto di riferimento tra capitale e lavoro e la modifica sostanziale dei rapporti

65
Al punto di essere tacciati di essere filo-marxisti dalla componente di destra della DC.
66
All'epoca Ugo La Malfa.
67
U. La Malfa, La politica economica cit., p. 519.
38
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

con il movimento dei lavoratori e con i sindacati concedendo loro una voce in capitolo al fine anche
di costruire il consenso riformistico68.
L'affermazione e la proposizione del poderoso programma riformistico vide la luce nel febbraio
1962, all'avvio del IV governo Fanfani. Il programma di questo dicastero conteneva numerosi
propositi di riforma, alcuni andarono a buon fine in poco tempo, altri necessitarono di più tempo,
altri ancora non diedero i frutti sperati. Ma il punto fondamentale fu l'iniziativa legislativa che
Fanfani riuscì ad intraprendere nei primi mesi di quel suo nuovo governo su questioni critiche per la
politica delle riforme. L'istituzione delle regioni, la riforma della pubblica amministrazione, il piano
per la scuola, i patti agrari, la riforma fiscale, il rilancio dell'edilizia popolare, la legislazione
urbanistica, la nazionalizzazione dell'energia elettrica e una serie di piani settoriali (es. autostrade,
ferrovie, etc.) furono i punti cardine per far fronte ai problemi che emergevano dallo sviluppo
economico e sociale. Per quanto riguarda la politica agraria era necessaria una programmazione che
aiutasse l'agricoltura a compiere ampi processi di trasformazione produttiva e, contestualmente,
consentisse una rapida industrializzazione sì da correggere le distorsioni che vedevano nel Sud
agricolo ed arretrato un punto debole dello sviluppo economico italiano. L'agricoltura italiana
evidenziava ancora su un dualismo tra pochissime grandi aziende ed una miriade di piccoli
produttori (a volte al limite dell'autoconsumo) con attività produttive scarsamente o per nulla
meccanizzate, dimensioni delle superfici coltivate irrisorie e scelta delle colture errate. Il progetto di
coloro che sostenevano la programmazione fu quello di intervenire ampliando le dimensioni delle
aziende medio - piccole e favorirne la meccanizzazione. Ma per vedere qualche risultato si dovette
attendere la seconda parte del decennio.
Per la riforma della pubblica amministrazione e fiscale vennero istituite due apposite commissioni
che avevano il compito di migliorare l'operato di queste due branche dell'attività pubblica in
conformità ai cambiamenti dinamici che stavano attraversando l'Italia. La riforma della pubblica
amministrazione vide la DC muoversi con i piedi di piombo in quanto il decentramento
amministrativo e l'istituzione delle regioni a statuto ordinario avrebbe inevitabilmente portato
all'insediamento di una maggioranza di sinistra al governo di alcune regioni. Accese discussioni vi
furono circa l'opportunità di varare i progetti di legge sull’autonomia regionale, ma non si andò
oltre alla costituzione della quarta regione a statuto speciale: il Friuli Venezia-Giulia. La riforma
fiscale riguardava fondamentalmente l'imposta cedolare sui titoli azionari. Per diminuire le evasioni
ed avere un maggior accertamento fiscale si era reso obbligatorio il principio della nominatività dei
titoli e l'obbligo, per gli operatori di borsa, di una denuncia mensile delle operazioni a termine
effettuate. In questo modo ogni percettore di dividendi (e di conseguenza debitore fiscale) doveva
lasciare il proprio nominativo all'atto del ricevimento del pagamento. Gli elenchi con tali nominativi
poi dovevano essere inviati al fisco. Veniva inoltre introdotto un acconto fiscale del 15% sugli utili
azionari.
La stessa DC, che aveva lasciato procedere durante i primi mesi di Governo la dinamica attività
legislativa progressista, bloccò, nell'autunno di quello stesso anno, la laboriosa opera riformista. Per
evitare una caduta del Governo, Aldo Moro appoggiò quella battuta d'arresto, evitando però di
mettere in discussione il dicastero e la sua concezione di apertura a sinistra. Si arrivò così ad un
“accordo di legislatura”, proposto dai socialisti e accettato dai democristiani, che prevedeva una
coerente politica di fedeltà alle alleanze con il pieno rispetto dei valori morali e religiosi. Si riuscì
così nell'intento di non far cadere il governo, ma si sospese l'attività riformista. L'accordo di

68
Y. Voulgaris, L'Italia del centro-sinistra cit., p. 100.
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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

legislatura, puntando su visioni generali e non particolari, si rivelò astratto nel suo incedere e fu
caratterizzato, nel suo prosieguo da un nulla di fatto69.
Naturalmente non era possibile scindere l'aspetto economico da quello sociale, l'uno
influenzava ed era influenzato dall'altro. La rapida modernizzazione e il massiccio sviluppo
economico imponeva riforme politiche e sociali oramai indispensabili che a loro volta avevano dato
il via alla stagione di apertura a sinistra. Senza le mutazioni in campo sociale non si sarebbero avute
le riforme economiche, senza queste ultime le modificazioni in campo sociale non avrebbero
raggiunto quelle vette che avrebbero contribuito alla definitiva modernizzazione dell'Italia. Il
centro-sinistra era stato concepito dalla corrente fanfaniana e dai suoi sostenitori nel partito anche
per rispondere a nuove esigenze culturali e sociali e alla sempre maggiore influenza, in campo
politico, del movimento dei lavoratori. Attraverso un mutamento qualitativo del modello di
sviluppo (che in Italia prese la forma di una marcata modernizzazione e razionalizzazione della
struttura produttiva e occupazionale) e dei rapporti economico-sociali, si manifestava in tutto il suo
slancio la ferma intenzione di dar seguito alle politiche di sostegno allo “Stato sociale” (scuola,
casa, sanità, previdenza) che attribuivano all'intervento pubblico lo sviluppo delle politiche sociali e
la redistribuzione del reddito migliorando decisamente quanto era stato fatto fino ad allora,
soprattutto tra le due guerre quando il fascismo, secondo Craveri, aveva cercato di attuare questa
scelta politica con risultati inadeguati70. L'estensione delle politiche sociali fu dunque una
conseguenza significativa dello sviluppo economico e fece aumentare il consenso popolare e la
legittimazione del potere del partito di governo. I primi passi erano stati compiuti poco prima o
all'inizio della legislatura con la creazione del Ministero della sanità nel marzo del 1958 che aveva
il compito di “provvedere alla salute pubblica” (art. 1) e cercava di ricondurre sotto un'unica
responsabilità ministeriale una serie di competenze e politiche tra loro omogenee. Oltre ad un
ingerenza sugli enti che fornivano prestazioni sanitarie il Ministero aveva compiti di vigilanza sugli
enti a carattere previdenziale e assistenziale e quindi tutelava, in un certo modo, la massa di
lavoratori a questi ultimi strettamente legati. Poco più di un anno dopo si venne a creare il Ministero
del turismo e dello spettacolo, anche per rispondere ai crescenti bisogni sociali che si andavano
affermando anche tra i ceti meno abbienti e, contemporaneamente, per incidere su una delle
industrie trainanti del miracolo economico, agevolata anche dalla completa apertura degli scambi
commerciali che aveva caratterizzato la politica estera di quegli anni. Le riforme sociali che
segnarono in modo più marcato il passo furono proprio quelle adottate dal IV governo Fanfani,
coerentemente a quanto avveniva in tutti i paesi avanzati e al consolidamento delle politiche sociali
realizzate dai partiti cattolici. Ed in effetti la spesa pubblica e quella sociale aumentarono
costantemente durante tutto il periodo71; quest'ultima fu tra quelle più elevate in Europa a fronte
però di una contropartita, data dal forte aumento delle entrate degli oneri sociali pagati dai datori di
lavoro. L'ampliamento dei servizi sociali si spinse sul settore dell'istruzione con l'istituzione della
scuola media unica; fu elevato l'obbligo scolastico ai 14 anni di età e, con una serie di
provvedimenti slegati tra loro, venne dotata di nuovi mezzi anche l'Università. Si cercava di correre
ai ripari in un settore dove alcuni paesi, come la Francia e la Germania, che da tempo avevano
capito che alla base del progresso e dello sviluppo vi doveva essere una buona istruzione, avevano
provveduto a consolidare questa pratica già nel corso della prima Rivoluzione Industriale. Anche
l'edilizia popolare ed economica ebbe un ulteriore spinta quando fu approvata la legge che favoriva

69
P. Craveri, Storia d'Italia cit., p. 121.
70
Ibid., p. 96.
71
Y. Voulgaris, L'Italia del centro-sinistra cit., p. 73.
40
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

l'acquisizione, anche mediante esproprio, di aree fabbricabili a questa destinate. Questa attività non
risultò disarticolata, bensì si cercò di inquadrarla in strumenti di pianificazione urbanistica che si
ispiravano al modello inglese, olandese e dei paesi scandinavi72. La destra contestò duramente tale
provvedimento in quanto temeva che il meccanismo di esproprio e riallocazione delle aree
fabbricabili segnasse la fine della proprietà privata della casa. In realtà un simile accorgimento
tendeva a frenare quei fenomeni di speculazione che si erano registrati negli anni '50, quando
all'edilizia venne affidato il ruolo di settore trainante dell'economia. Ulteriori provvedimenti furono
quelli di innalzare la soglia pensionistica di un 30%, scelta che portò la pensione di anzianità media
attorno alle 100.000 lire annue, l'incremento delle pensioni di invalidità, altri interventi minori nella
sanità riguardanti le coperture assicurative, e interventi in campo occupazionale con l'aumento dei
sussidi di disoccupazione, il rinnovamento dell'assetto degli uffici di collocamento e la nuova
organizzazione dei servizi per la maternità e l’infanzia.
Anche le partecipazioni statali furono elemento fondante di una crescita sociale, in quanto
influirono in modo decisivo sulla corrispondenza tra relazioni industriali e movimenti sindacali. Il
distacco delle imprese pubbliche dalla Confindustria, che avvenne nel 1957, dava la possibilità alle
prime di stringere accordi direttamente con i sindacati, cosa che trovò una fiera opposizione da parte
dell'associazione degli imprenditori che vedevano in tal modo venir meno la loro egemonia nei
rapporti industriali. Questo fu il mutamento che forse si trovò a manifestare i suoi effetti più
determinanti nel panorama italiano di inizio anni '60. L'enorme flusso migratorio non modificò
solamente, in modo radicale, il rapporto tra le ormai sorpassate società agricole del Meridione e le
più moderne città industriali del Nord73, ma permise di ridisegnare gli equilibri sociali tramite il
rafforzamento della classe operaia, alimentata dal massiccio e costante flusso migratorio che dalle
campagne del Sud si accingeva a raggiungere le città del Nord. La crescita del peso sociale del
movimento dei lavoratori portò ad un miglioramento delle condizioni del mercato del lavoro ed a un
conseguente influenza sempre maggiore dei sindacati nella vita politica del Paese. Si era dunque
passati da un modello di tipo repressivo ad uno di tipo integrativo che vedeva nel centro-sinistra la
formula parlamentare che meglio poteva rappresentare una tale situazione. Accordi precisi
lasciarono spazio ad uno scambio politico-sociale, una tregua salariale, la pace sociale ed un
consenso elettorale a fronte di riforme che avrebbero migliorato le condizioni di vita dei lavoratori e
avrebbero riparato agli errori che si erano commessi fino ad allora74. La partecipazione dei
lavoratori all'elaborazione e all'esecuzione del piano economico prospettato dalle forze politiche al
Governo non era più soltanto simbolica ma diventava effettiva.

4. La nazionalizzazione dell'energia elettrica: i contenuti del provvedimento


Il 27 novembre 1962 la Camera dei Deputati approvò75, in via definitiva e dopo un lungo e
laborioso percorso durato quasi sei mesi, il disegno di legge di nazionalizzazione del settore
elettrico presentato in Parlamento il 26 giugno di quello stesso anno e redatto da un comitato
ristretto composto da esperti della DC, di tre ministri tecnici, La Malfa, Tremelloni e Trabucchi, dal
Governatore della Banca d'Italia Carli e da Riccardo Lombardi per il PSI76. Il 6 dicembre 1962 il

72
P. Craveri, Storia d'Italia cit., p. 118.
73
Soprattutto nel “triangolo economico” del tempo tra Torino, Milano e Genova.
74
M. Salvati, L'origine della crisi in corso in Consumi sociali e sviluppo economico in Italia 1960-1975, a cura di
Mario Centorrino, Roma 1976, p.241.
75
Già approvato dal Senato il 16 novembre.
76
P. Craveri, Storia d'Italia cit., p. 114.
41
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

provvedimento fu tramutato in legge (n. 1643) con una maggioranza schiacciante (404 voti
favorevoli e 75 contrari).
Perché fu scelto proprio il settore dell'energia elettrica per dare attuazione al progetto di creazione
di nuovi rapporti tra Stato ed economia?
Prima di tutto perché si trattava di uno dei settori trainanti dell'economia e che, con il passare del
tempo, non avrebbe fatto che incrementare le proprie potenzialità. Il fabbisogno di energia elettrica
era sempre più in aumento in un Paese in forte crescita come l'Italia, sia nei consumi privati (la
vendita di elettrodomestici era decuplicata nella seconda metà degli anni '5077) che in quelli
industriali. I consumi di energia elettrica, dall'inizio degli anni Trenta al 1960 erano aumentati di
circa sei volte, nel periodo la crescita della domanda di energia era stata addirittura superiore
all'incremento del reddito nazionale. Anche la produzione non era da meno classificando l'Italia al
quarto posto in Europa dietro solamente ai maggiori produttori industriali quali Regno Unito,
Germania e Francia78. Di conseguenza l'industria elettrica, alla vigilia della nazionalizzazione, si
trovava in una fase espansiva agevolata dal fatto che in quegli anni una politica di contrazione dei
tassi di interesse ed una concomitante politica che favoriva il ricorso al credito a breve termine
avevano permesso l'espansione del capitale circolante favorendo le esigenze fisiologiche del settore
alla costante ricerca di capitali. Dunque un settore basilare, propulsivo ed in espansione, il punto
nevralgico attorno al quale girava l'economia del Paese; l'energia elettrica era la fonte preponderante
di energia che poteva condizionare lo sviluppo delle altre imprese e, di conseguenza, dell'intera
nazione. Una politica di programmazione economica responsabile non poteva prescindere dalla
stessa. Inoltre, secondo il pensiero di molti, non sarebbe bastato intervenire sulla gestione delle
società elettriche (magari con una qualche legge o decreto legge), ma era necessaria una riforma
strutturale ben più drastica che producesse cospicui mutamenti in questo settore produttivo.
Un secondo argomento vedeva la possibilità di prendere spunto e ricalcare le orme di quanto era già
stato fatto già molti anni prima, con risultati positivi, in altri paesi del continente europeo vicini
all'Italia, e per la precisione in Gran Bretagna e in Francia, ed in parte anche in Austria. In questi
contesti l'aver percorso questa strada non aveva significato l'introduzione di un principio
collettivista o marcatamente dirigista in nazioni che operavano con un sistema di economia di
mercato come si temeva accadesse in Italia. In Francia si era proceduto alla nazionalizzazione del
settore elettrico fin dal 1946. E' vero che, in un paese dove il potere politico e amministrativo era
fortemente centralizzato, quello fu il periodo delle nazionalizzazioni e che quella del settore
elettrico restava inscindibile dalle altre, ma, con il senno di poi, fu considerata positivamente79. Si
trattò della riappropriazione di un servizio pubblico la cui gestione era stata concessa in precedenza
al settore privato. Anche in questo caso fu necessario attendere un po' di tempo, esattamente due
anni, prima che la legge fosse approvata, non tanto per la decisione in sé ma sul contenuto e sul
come adottarla; vi erano vari punti delicati da risolvere. In Gran Bretagna la nazionalizzazione
avvenne nel 1948 ed anche qui ebbe motivazioni sia tecniche e pratiche, sia ideologiche80. Anche in
Inghilterra, e a differenza dell'Italia, il periodo compreso tra la fine della guerra e l'inizio degli anni

77
Da un'indagine svolta dall’Enel nel 1962 in quegli anni, risultava che il 72 per cento degli utenti possedeva il
frigorifero, il 64 per cento il televisore, il 42 per cento la lavatrice, il 28 per cento lo scaldabagno elettrico e soltanto il 2
per cento la lavastoviglie.
78
R. Coltelli e A. De Stefano, Ente nazionale per l'energia elettrica (ENEL) Legislazione e atti parlamentari, Milano
1963, p. 24 e p. 26.
79
H. Morsel, Modelli ed esperienze della nazionalizzazione in Francia in La nazionalizzazione dell'energia elettrica.
L'esperienza italiana e di altri paesi europei, Roma-Bari 1989, p. 53.
80
L. Hannah, Modelli ed esperienze della nazionalizzazione in Gran Bretagna in La nazionalizzazione dell'energia
elettrica cit., p. 15.
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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

'50 fu denso di nazionalizzazioni, alcune anche in settori non di pubblica utilità. Quella del settore
elettrico fu rilevante perché nonostante lo stesso fosse gestito da una moltitudine di imprese (ben
600 tra private e municipalizzate); queste operavano ognuna in regime di monopolio o in
concorrenza effettivamente molto limitata. Questo portò, necessariamente, ad una diminuzione delle
imprese esistenti prima e alla definitiva nazionalizzazione poi, quando la British Electricity
Authority incorporò i grandi consorzi che si erano formati dalla fusione delle imprese antecedenti.
In questo caso la nazionalizzazione fu una scelta compiuta dal governo laburista per ovviare,
oltreché al regime di monopolio, al frammentario sistema di distribuzione fino ad allora esistente.
Una terza ragione, per quanto riguarda l’Italia, va individuata nel fatto che, quando nella primavera
del 1946, la Commissione economica dell'Assemblea Costituente fece circolare un questionario in
cui si richiedeva, qualora si fosse pervenuti ad un processo di nazionalizzazione, quali settori
avrebbero dovuto avere la precedenza, dagli ambienti economici, scientifici e tecnici più accreditati
la risposta fu pressoché unanime segnalando il settore elettrico quale priorità assoluta. Anche in
alcuni comparti politici era rivendicata a gran voce (La Malfa ne era un deciso sostenitore), ma
l'estromissione delle sinistre dal Governo nel 1947 e il pervicace rifiuto di De Gasperi sbarrarono la
strada a questa prospettiva.
Una quarta motivazione si individua nella convinzione diffusa che il passaggio di proprietà dalle
mani private a quelle pubbliche avrebbe reso tutto il settore molto più solido e stabile. L'aver alle
spalle un colosso pubblico, pronto a sostenere finanziariamente l'intero sistema, dava poi garanzie
all’intero sistema economico. La necessità del ricorso a ingenti mezzi finanziari, che fossero in
grado di sostenere l'operatività dell'intero settore tramite lo sviluppo delle attrezzature tecniche, era
uno dei problemi maggiori per l’industria elettrica che doveva farsi trovare pronta ai forti tassi di
crescita della domanda che si erano e si sarebbero manifestati nel periodo. L'affidabilità e
l’efficienza della gestione dell’intero sistema elettrico era legata indissolubilmente alle capacità di
adeguamento dell’apparato produttivo e, di conseguenza, uno degli elementi fondamentali che la
politica di investimento delle industrie elettriche doveva fronteggiare quotidianamente era senza
dubbio la capacità di procurarsi i mezzi finanziari necessari81. Il settore privato, considerando i bassi
livelli di autofinanziamento, poteva solo fare affidamento alle tasche degli istituti di credito con
tutte le problematiche del caso (la crisi degli anni '30 ne fu un chiaro esempio). Procedere alla
nazionalizzazione e quindi affidarsi alle risorse finanziarie pubbliche era per molti osservatori
sinonimo di funzionamento efficiente del sistema elettrico per ciò che riguardava
l'approvvigionamento dei mezzi monetari e finanziari necessari alla sua regolare evoluzione.
Altro elemento fondamentale che fece sì che si procedesse in tale direzione era quello da sempre
rilevato anche in ambienti liberali, ossia che il settore elettrico fosse quello in cui pochi grandi
gruppi operavano in regime di monopolio con danno per gli utenti, costretti a sopportare prezzi
mediamente più alti rispetto agli altri paesi europei nei quali il sistema elettrico era tra l'altro meglio
gestito. La produzione e la distribuzione elettrica aveva raggiunto un controllo tale da parte di poche
società private82 che, nonostante le sempre maggiori proteste che arrivavano sia dall'utenza civile
sia da quella industriale, qualunque ipotesi sulla natura giuridica venne relegata ad un secondo
piano83. Gli imprenditori elettrici, anche grazie ai finanziamenti elargiti a giornali e partiti, potevano
contare su un appoggio esterno rilevante pronto a sostenere i loro interessi e a difenderne le loro
81
F. Gullì, La gestione pubblica del servizio elettrico in Europa, Milano 1993, pp. 1 sgg.
82
Appoggiate finanziariamente da grossi istituti di credito che ne sancivano, in tal modo, l'indipendenza da qualsiasi
controllo pubblico.
83
B. Bottiglieri, L'industria elettrica dalla guerra al “miracolo economico” in Storia dell'industria elettrica in Italia,
IV, a cura di V. Castronovo, Roma-Bari 1994, p. 62.
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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

ragioni. Si arrivò ad affermare che “Il trust elettrico costituisce il nucleo centrale, la mente
dirigente, del sistema monopolistico italiano...uno Stato nello Stato”84. Nel contempo la
concorrenza era praticamente nulla data l'impossibilità per gli utenti finali di poter decidere verso
chi rivolgere la propria domanda (non potendosi rivolgere ad un'azienda concorrente che distava
centinaia di km.). Anche lo Stato, che controllava un quarto del mercato attraverso l'IRI, non si
comportava in modo diverso, l’IRI gestiva le società elettriche sotto il proprio controllo, seguendo
una logica privatistica85. Una motivazione in più per un governo di centro-sinistra era quella di
combattere l'orientamento conservatore e antisindacale dei grandi gruppi privati che, in questo
campo, si muovevano con troppa libertà. Le sinistre parlamentari, socialisti in testa, consideravano
le stesse società elettriche, per dimensioni e posizione, la struttura principale del capitale
monopolistico privato italiano, a cui occorreva porre un freno. Sarebbe falso dunque dichiarare che
le forze di centro al Governo procedettero alla nazionalizzazione solo perché lo ritenevano giusto,
sicuramente questo fu un aspetto importante, ma non si può non scorgere, in questa decisione, la
volontà di una ricerca di maggioranze più ampie che comprendessero parte delle sinistre, tra l'altro,
anche se non ufficialmente confermato, era risaputo che i socialisti avevano posto come conditio
sine qua non l'adozione di tale provvedimento. Quindi, oltre che una necessità economica la
nazionalizzazione e la conseguente liquidazione del monopolio elettrico assumeva, per le sinistre,
anche un valore simbolico. Nel mondo politico, i gruppi privati a capo delle maggiori società
elettriche non godevano di un supporto determinante e furono appoggiati solamente dai liberali e
dai partiti della destra più estrema, questi ultimi più per spirito di contraddizione ai loro antagonisti.
Anche all'interno della DC, tranne qualche sporadico caso, le correnti conservatrici giunsero ad un
compromesso rendendosi favorevoli alla nazionalizzazione86. La liquidazione di questi gruppi
aveva perciò un valore simbolico per la sinistra, oltre agli effetti economici che sarebbero derivati
dal trasferimento del settore dal controllo privato a quello pubblico87. Le società che gestivano in
Italia il sistema elettrico erano una moltitudine88 ma a loro volta controllate da pochi grandi gruppi.
L'Italia settentrionale era feudo di tre grandi società, la SIP, la EDISON e la SADE e in minor misura
dalla TRENTINA, l'Italia centrale era suddivisa tra la CENTRALE sul versante tirrenico e la UNES su
quello adriatico mentre l'Italia meridionale era coperta dalla SME. La Sicilia e la Sardegna era
ripartite rispettivamente tra SGES e SES. Il controllo pubblico, che ammontava al 25% della fornitura
nazionale, era gestito dalla Finelettrica, holding di proprietà dell'IRI, che controllava la SIP, la SME e
la UNES ma, come già detto, queste società venivano gestite in maniera simile alle aziende private.
Chi ancora cercava di opporsi al monopolio privato erano le aziende elettriche municipalizzate89
che fin dall'inizio del secolo avevano rappresentato l'unica alternativa al controllo dei grandi gruppi
e avevano servito principalmente i piccoli consumatori. Una diversa alternativa arrivava dagli
autoproduttori, ovvero dalle società che, nonostante fossero impegnate in altri settori dell'economia,
producevano energia elettrica per i propri consumi; ma, solo in pochissimi casi (ad es. la Terni),
ottenevano un surplus da commercializzare. Queste esigue alternative non incidevano sugli equilibri
del mercato dove i grandi gruppi privati continuavano ad imporsi.
Va infine ricordato che la nazionalizzazione fu richiesta non solo perché il settore funzionava in
modo non confacente alle esigenze del mercato, ma anche perché, sia pure in presenza di una

84
E. Scalfari, Introduzione in Le baronie elettriche, a cura di S. Bocca, Bari 1960, p. 8.
85
Ibid., p. 73
86
Y. Voulgaris, L'Italia del centro-sinistra cit., p. 135.
87
B. Amoroso e O. J. Olsen, Lo stato imprenditore cit. pp. 85-86.
88
Nell'immediato dopoguerra se ne contavano ben 259.
89
Tra le maggiori quelle di Milano, Torino e Roma.
44
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gestione più corretta, esso non aveva la possibilità di fornire la stessa quantità di energia allo stesso
prezzo su tutto il territorio nazionale, soprattutto non era in grado di svolgere una politica
differenziata rispetto al prezzo e alla fornitura in aree sottosviluppate per farle progredire
economicamente90. Il servizio elettrico non raggiungeva tutti gli italiani: il censimento generale
della popolazione del 1961 rilevava che più di 700.000 abitazioni, pari al 5,1 per cento di quelle
censite, erano prive di elettricità. Il divario nei consumi elettrici era particolarmente accentuato tra
Nord e Sud, segno del grande malessere che affliggeva il Meridione. Nelle regioni meridionali
difatti si potevano riscontrare consumi per abitante inferiori di oltre la metà rispetto al Centro-Nord,
soprattutto in campo industriale, ma il problema maggiore era nella dispersione e nel frazionamento
delle utenze che rendeva la distribuzione dell'energia più onerosa91. I bassi livelli di consumo di una
larga parte del Paese (il Centro-Sud) gravavano sull'intera nazione, relegandola fra i paesi con i
consumi più bassi dell'intera Europa occidentale. Quindi, attraverso una pianificazione su scala
nazionale e non locale, tenendo conto dei bisogni di ogni zona, potevano essere soddisfatte tutte le
richieste nella maniera più economica sfruttando gli impianti migliori e assumendo rischi
ragionevoli. La situazione di stallo che era finalizzata al conseguimento del massimo profitto con il
minimo dei costi impediva poi la costruzione di nuovi impianti o l'ampliamento di quelli esistenti,
quando non ne esisteva la convenienza economica ad ampliare la rete di distribuzione in assenza di
un effettivo tornaconto. L'iniziativa pubblica era preferita a quella privata in quanto il servizio
poteva essere gestito in maniera più soddisfacente; si voleva che l'interesse generale prevalesse
sull'iniziativa privata relegata alle decisioni di pochi e soprattutto legata a soli criteri di economicità.
Erano vantaggi che molto spesso non si potevano misurare in termini monetari, ma erano di
indubbio valore per la civiltà della nazione. Ragioni di efficienza, di equità e di rilancio economico
spingevano tutte verso un'unica direzione: il controllo da parte dello Stato su un settore, quello
elettrico, considerato a ragion veduta il più potente fattore di sviluppo del periodo.
La nazionalizzazione dell'industria elettrica era una misura già da tempo richiesta92, per spezzare un
monopolio privato che risultava come ostacolo allo sviluppo delle forze produttive da una parte e
dei consumi dall'altra93. Contro i monopoli, di cui il settore elettrico era prova lampante, si erano
espressi esponenti di rilievo come Amintore Fanfani, presidente del Consiglio in carica. Infatti “la
vittoria contro l'accentramento di potere nelle mani di pochi sarà data dalla disciplina dei monopoli,
da una politica economica programmata di sviluppo, da una politica fiscale severa ma giusta e
tempestiva...lo Stato spesso deve dare l'esempio moderando l'esercizio dei pubblici monopoli, e
contenendone comunque la espansione entro i limiti dalla legge prefissati94”. Anche Ugo La Malfa,
Ministro del bilancio del Governo che provvide alla nazionalizzazione era dello stesso parere. La
Malfa era ben conscio che l'esercizio del monopolio in regime di un libero mercato era causa di
maggiori distorsioni quali, fra le altre cose, la possibilità di poter gestire un grande potere politico
derivante dall'accumulazione di uno smisurato potere economico. Egli presupponeva diverse vie
attuabili dallo Stato per poter uscire da questo vincolo. Le più semplici erano un intervento
legislativo anticonsortile che mirasse a ristabilire le condizioni di libera concorrenza, una politica di

90
Il primo atto che prevedeva tariffe agevolate per il Sud risale all'aprile del 1961.
91
E. Colombo, Testimonianze in La nazionalizzazione dell'energia elettrica cit., pp. 234-235.
92
Nei convegni organizzati dagli “Amici del Mondo” tra il 1955 e il 1960 se ne discusse ripetutamente cfr. E. Rossi,
Elettricità senza baroni, Bari 1962, pp. 53-54.
93
E l'opposizione a tale provvedimento era proseguita di pari passo per tutto il tempo cfr. Associazione nazionale
imprese distributrici di energia elettrica, Aspetti e problemi della nazionalizzazione, Milano 1946.
94
Dal discorso tenuto da Amintore Fanfani al Congresso della DC di Napoli il 27 gennaio 1962.
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controllo dei prezzi (attuabile attraverso il CIP)95, un intervento fiscale attraverso un prelievo
maggiore eseguito sulle attività svolte in regime di monopolio. Accanto a questi mezzi, quando
questi ultimi non fossero riusciti a raggiungere lo scopo, La Malfa ne prevedeva uno di natura più
estrema: la nazionalizzazione. In questo modo era possibile restituire al consumatore quegli utili di
monopolio che il monopolista avrebbe invece fatto propri96. Un giudizio analogo era stato espresso
da un liberista come Luigi Einaudi che nel 1948 aveva ricordato che “il monopolio sta alla radice
delle sopraffazioni dei forti contro i deboli, delle punte di ricchezza stravaganti e immeritate…è
falso che la proprietà sia il furto. L’inventore della frase, Proudhon, oggi probabilmente la
muterebbe, egli stesso, nell’altra: il monopolio è il furto…smantellato l’edificio dei favori legali ai
monopolisti, ben poco rimarrà in vita. E quel che rimarrà potrà essere combattuto con imprese
pubbliche, esercite da enti creati all’uopo e vincolati nelle tariffe dai prezzi a carico dei
consumatori”97 Dunque era quasi naturale che, con l’appoggio di differenti correnti politiche, il
tema della nazionalizzazione fosse solo una questione di tempi e di modi data anche la congiuntura
politica che si era venuta a creare nel paese, ovvero l'apertura dei democristiani a sinistra e
l'inserimento dei socialisti nell'area di governo. Si trattava solamente di far concordare i quattro
partiti che gestivano la maggioranza parlamentare nel Paese e che avevano un diverso
atteggiamento circa le varie possibili soluzioni. Che si prendesse una risoluzione in merito era già
deciso, dall'annuncio che fece Amintore Fanfani durante la dichiarazione programmatica per il varo
del suo IV governo, nel marzo del 1962, quando ricordò l'impegno del Governo, entro tre mesi dal
voto di fiducia, a presentare un provvedimento di “razionale unificazione del sistema elettrico
nazionale”. Per attuare una più organica politica dell'energia vi erano varie soluzioni possibili.
Poteva essere creato un apposito organismo avente il compito di determinare la politica dell'energia
elettrica nei riguardi di tutti i complessi, sia pubblici, sia privati. Lo scopo ultimo di questo
organismo era quello di regolare la situazione tariffaria e fissare le condizioni per l'esercizio
unitario degli impianti senza incidere sugli assetti proprietari delle aziende. Una seconda possibilità
prevedeva una “irizzazione” ovvero la creazione di un apposito ente di gestione di proprietà
dell'IRI, ente che avrebbe acquistato i pacchetti azionari di maggioranza dei grandi gruppi elettrici
del Paese. Questa soluzione, benché meno dispendiosa rispetto alla nazionalizzazione (l'IRI già
controllava parte delle società elettriche italiane), non fu adottata in quanto le società che operavano
sotto l'IRI lo facevano secondo un criterio privatistico, cosa che avrebbe impedito dunque di
orientare la pratica tariffaria verso un prezzo pubblico dell'energia e una politica più orientata verso
l'aspetto sociale piuttosto che quello economico. Una terza eventualità prevedeva il passaggio del
settore elettrico in toto nelle mani dello Stato con l'unificazione dell'industria elettrica sotto il
controllo della sfera pubblica. Anche questo proposito fu però scartato perché avrebbe dovuto
comportare la creazione di un apposito Ministero per espletare tutte le incombenze inerenti la
gestione che sarebbero state di competenza diretta dello Stato e quindi sottoposte a tutte le regole
burocratiche che questo comportava. La gestione, che non era affidata ad un organismo con
personalità giuridica propria, avrebbe sofferto la mancanza di autonomia decisionale e di prontezza
e celerità nell’assunzione delle disposizioni che necessitava un simile settore soprattutto in rapporto
al dinamismo mostrato dall'economia di quel periodo. Infine vi era la nazionalizzazione, attraverso
la creazione di un apposito ente pubblico dotato di una propria autonomia e concepito per esercitare
95
Secondo La Malfa questa soluzione era più consona nel caso dei servizi pubblici anche se egli prediligeva la
nazionalizzazione all'ingerenza di un Comitato interministeriale dei prezzi cfr. U. La Malfa, La politica economica cit.,
p. 433.
96
Da un discorso di Ugo La Malfa ad un convegno del “Mondo” tenutosi a Roma nel febbraio 1955 (Ibid., pp. 432 sgg.)
97
Articolo di Luigi Einaudi sul “Corriere della Sera” del 25 aprile 1948.
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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

un potere pubblico connesso all'attività economica. Questo ente, dalla personalità giuridica di diritto
pubblico, avrebbe esercitato direttamente le attività di produzione, trasformazione, trasporto e
distribuzione dell'energia elettrica da qualsiasi fonte prodotta. Fra le varie soluzioni fu proprio
quest'ultima ad essere prescelta. La presenza di un ente pubblico, creato opportunamente e atto a
garantire una gestione più svelta e più idonea ad una siffatta attività, fu ritenuta indispensabile per
le circostanze in cui ci si trovava. A chi si opponeva fu ribadito che non si trattò di un
provvedimento ‘statalista’, elaborato con l’intento di allargare sempre più il controllo pubblico in
campo economico, ma di una diretta concretizzazione dell'articolo 43 della Costituzione di cui
presentava tutti i requisiti, ovvero costituiva uno dei servizi pubblici essenziali, era una fonte di
energia e veniva esercitato in una situazione di monopolio98 e comunque non si mirava ad un
controllo assoluto ma piuttosto a trasferire allo Stato gli impianti per aumentarne la produzione e
migliorarne la distribuzione, il tutto ad un prezzo congruo e senza squilibri e che quindi permettesse
a tutte le attività di svilupparsi99; né di un provvedimento “classista” in quanto i maggiori fruitori
del servizio non erano i consumatori più poveri ma gli stessi imprenditori privati. Si trattò quindi di
un provvedimento meramente strumentale per creare una concreta e seria politica di sviluppo
economico del Paese a vantaggio di tutti, o almeno, questa era l'idea di fondo che fu alla base della
scelta.
Fin dai primi passi l'industria elettrica, data la sua centralità nel sistema economico, fu
oggetto di un acceso dibattito sulla necessità che lo Stato esercitasse o meno un controllo su questo
importante settore produttivo100. Tale dibattito non solo coinvolse la classe politica in toto ma anche
l'intera opinione pubblica che si era orientata ad un atteggiamento favorevole alla nazionalizzazione
per porre rimedio alla posizione di monopolio delle società elettriche che miravano ad assicurarsi il
maggior ricavo possibile aumentando periodicamente le tariffe a danno non solo dei piccoli utenti
ma anche della grande industria che in quegli anni di espansione economica aveva bisogno di
sempre maggiore energia. D'altronde sin dalla fine dell'Ottocento si era compreso che il campo della
produzione elettrica era un fattore di progresso industriale e civile in quanto si trattava di una forma
di energia efficiente che liberava l'Italia dal vincolo di inferiorità economica dovuta alla mancanza
della tradizionale fonte di energia: il carbone101. E di nazionalizzazione si iniziò a discutere fin dal
1898102, quando il settore era ancora ai primordi, sostenuta da Francesco Saverio Nitti, Giovanni
Solinas Cossu e da un giovanissimo Luigi Einaudi che vedeva nella nazionalizzazione un fattore
costitutivo di un nuovo e più vivace svolgimento dell'economia nella società italiana. Ma si trattava
ancora di una proposta che rasentava l'utopia, data l'incapacità dello Stato di assumere funzioni
imprenditoriali, soprattutto in un settore di vitale importanza in piena evoluzione tecnologica che
cresceva a ritmi vertiginosi e con una tecnologia di prim'ordine. Peraltro gli interventi pubblici nel
settore elettrico si poterono riscontrare fin dal principio, perché si era consapevoli che chi operava
in questo mercato si trovava in una situazione in cui non era possibile esercitare la normale

98
Interessante la disputa che l'autore propone tra i tre articoli della Costituzione, 41, 42 e 43 ed il caso dell'energia
elettrica in Italia cfr. V. del Punta, Riflessioni attorno alla progettata nazionalizzazione delle fonti di energia in Rivista
di Politica Economica, fasc. IV, anno L, III serie, aprile 1960, pp. 7-8.
99
I patrocinatori della nazionalizzazione sostenevano anzi che si trattava di una battaglia profondamente liberale cfr. A.
Battaglia, Testimonianze in La nazionalizzazione dell'energia elettrica cit., p. 241.
100
La proposta iniziale, risalente ai primi decenni del secolo XX, fu quella di optare tra il controllo statale di un'impresa
privata o di procedere alla completa nazionalizzazione cfr. B. Bottiglieri, L'industria elettrica dalla guerra al “miracolo
economico” cit., pp. 61-62.
101
Al contrario delle fonti idriche, mezzo principale di produzione di energia elettrica, di cui è ricca.
102
G. Mori, La nazionalizzazione in Italia: il dibattito politico-economico in Storia dell'industria elettrica in Italia,
(vol. V), a cura di G. Zanetti , Roma-Bari 1994, p. 148.
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concorrenza. Inoltre si era consapevoli, anche a quel tempo, che si trattava di un bene essenziale per
lo sviluppo economico e civile. Sempre nell'ottica di promuoverne la produzione e un più
economico svolgimento del servizio dal 1884 si favorì la concessione dello sfruttamento delle acque
pubbliche per la produzione idroelettrica e nel 1894 si semplificarono le possibilità per ottenere
servitù per gli elettrodotti in modo da rimuovere gli intralci che frenavano l’estensione delle reti con
il conseguente sviluppo delle trasmissioni a distanza di energia elettrica. Entrambe queste normative
vennero poi tradotte nel “Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici”
approvato nel 1933 con Regio Decreto n. 1775. Nel 1903 furono varate apposite disposizioni che
incoraggiavano lo sviluppo degli impianti gestiti dagli enti pubblici e nel 1919 l'intervento fu più
diretto con sovvenzioni a carico dello Stato per i nuovi impianti idroelettrici. Nel 1916 invece si
erano stabilite regole per ovviare allo strapotere dei pochi produttori di energia (decreto Bonomi)
che costituì un fattore riequilibrante della struttura industriale elettrica italiana, oramai ordinata su
robuste basi. Una simile prescrizione era dovuta soprattutto alle lamentele dei grandi utilizzatori di
energia elettrica (come il settore siderurgico e quello meccanico) che protestarono contro la
speculazione sulle acque pubbliche ai fini della produzione elettrica. Il decreto prevedeva che le
concessioni fossero accordate di preferenza a chi proponeva un utilizzo più razionale delle stesse o
per maggior interesse della collettività. E in ogni caso sarebbero scadute inderogabilmente dopo
cinquant'anni e gli impianti, gli edifici e i macchinari sarebbero stati riscattati dallo Stato al loro
valore corrente. Durante il periodo della dittatura fascista vi fu una notevole espansione del settore
elettrico103. Gli industriali del settore, forti del notevole ascendente che potevano vantare a livello
politico, sfruttando l'importanza e il ruolo strategico intrinseco del settore per lo sviluppo
economico del Paese104, esercitarono forti pressioni e richieste sul Governo del tempo. Riuscirono
così ad evitare l'applicazione del Decreto Ministeriale per la riduzione delle tariffe e furono
addirittura in grado di ottenere l'attuazione di un vecchio decreto che convalidava l'aumento delle
tariffe dell'energia elettrica. Il Governo dittatoriale, d'altronde, sosteneva la parte più forte e non
solo non si curò delle lamentele dei gruppi industriali che chiedevano un ridimensionamento delle
tariffe, ma arrivò a sciogliere i consorzi che si erano formati tra i cittadini/utenti che si lamentavano
per il prezzo dell'energia elettrica. Sempre durante il ventennio, a seguito della grande crisi dei
primi anni '30, fu necessario l'intervento dello Stato per salvare i grandi gruppi elettrici che
avevano fondato la loro espansione grazie ai massicci investimenti provenienti da istituti di credito
italiani ed esteri e che, in quel frangente, si ritrovavano in una situazione rovinosa. L'IRI, creato per
salvare le banche, acquisì il controllo di molteplici partecipazioni elettriche tra cui la SIP (Società
Idroelettrica Piemonte) che sarebbe poi stata una pedina rilevante nel successivo passo della
nazionalizzazione. Questa statalizzazione involontaria durò ben poco, proprio perché gli
imprenditori privati erano consapevoli dell'importanza di questa parte dell'economia e si
affrettarono a riacquisirla il prima possibile105 e nel contempo si redasse il succitato Testo Unico per
regolamentarla. Si era ancora lontani dalla nazionalizzazione, ma si profilò comunque un controllo
indiretto da parte dello Stato. Fu solo nel secondo dopoguerra, ancor prima che si formasse ed
affermasse il governo di centro-sinistra, che la questione interessò i diversi gruppi politici a partire
dalle forze centriste (la corrente di sinistra della DC e i fanfaniani), dai partiti intermedi
(socialdemocratici e repubblicani) e infine da quelli di più spiccata concezione di sinistra (socialisti
103
B. Bottiglieri, L'industria elettrica dalla guerra al “miracolo economico” cit., p. 63.
104
In un altra dittatura, quella sovietica, Stalin nel corso degli anni Trenta assurse al ruolo di eroe per aver elettrificato il
Paese ancora in forte grado di arretratezza industriale.
105
L'intervento pubblico degli anni '30 non brillò per efficienza e in ogni caso l'IRI era stato concepito come un istituto
dalla validità limitata.
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e comunisti)106. Nel 1944 fu istituito il Comitato Interministeriale Prezzi (CIP) che aveva il compito
di stabilire le tariffe (già sotto il controllo dello Stato, dovuto per necessità, nel corso della guerra) e
nel giro di un paio di anni lo stesso iniziò ad emanare nuove disposizioni relative ai prezzi delle
forniture ma, un sistema di tariffe unificate verrà applicato solamente nel 1961 per ovviare alla
disparità di trattamento dei diversi utenti107, nonostante vi fossero stati tentativi precedenti108 a cui
era seguita la costituzione dei fondi di conguaglio per risarcire le stesse imprese elettriche obbligate
ai prezzi imposti. Nel periodo della ricostruzione l'intervento pubblico assunse via via aspetti
vincolistici per tutelare l'interesse a che l'energia elettrica fosse fornita a tutti i potenziali utenti e
alle condizioni più economiche. All'inizio l'ingerenza fu blanda con tre disegni di legge ordinari
(uno del ministro Tupini e due del ministro Aldisio). Nel 1950 ci fu una proposta di legge più
significativa da parte di Riccardo Lombardi che aveva constatato che nel settore elettrico vi erano
molteplici enti pubblici, aziende statali ed imprese a partecipazione pubblica che operavano
ciascuna per conto proprio per mancanza di collegamento. Perciò egli propose di riunirle in un
consorzio che avesse lo scopo di coordinarne l'attività nel campo della produzione, del trasporto e
della distribuzione. In tal modo ci si riservava anche la possibilità, in un futuro quando le
concessioni fossero scadute e gli impianti fossero passati alla proprietà dello Stato, all'eventuale
costituzione di un'azienda statale. Tale idea rimase solo una proposta come la successiva, presentata
dallo stesso Lombardi nel 1958, di procedere alla nazionalizzazione. Sempre nel 1958 si compirono
però importanti passi redigendo precise norme che regolamentavano la redazione dei bilanci delle
società elettriche, affinché fossero conformi ai particolareggiati criteri indicati e ci fu la prima
proposta ufficiale di nazionalizzazione da parte del II Governo Fanfani, al momento in carica.
Secondo alcuni questo provvedimento arrivò addirittura tardivamente in quanto lo Stato necessitava
di avere un maggiore controllo, un'appropriata regolazione del mercato e le giuste opportunità per
uno sviluppo in un settore come quello elettrico che presentava oramai una struttura industriale
consolidata e raggruppata attorno a pochi grandi gruppi. L'industria elettrica era uno dei centri
motori del capitalismo italiano privato ed al contempo era necessaria anche allo stesso capitale
privato per eliminare il crescente costo energetico non più tollerabile per lo sviluppo degli altri
comparti industriali. La creazione dell'ENEL ampliava il campo d'azione e gli strumenti di
intervento dello Stato nel sistema industriale italiano e incideva radicalmente sulla struttura
economica nazionale contribuendo a realizzare quel più complesso disegno di programmazione
economica voluta dal Governo in carica109. La finalità ultima della decisione, come progettata dal
Governo, prevedeva infatti un'azione volta allo sviluppo economico e sociale che mirasse alla
copertura dei futuri fabbisogni, a ridurre al minimo i costi di impianto e di esercizio e
all'applicazione di tariffe idonee per ogni situazione e come affermò lo stesso Fanfani nel suo
discorso del 2 marzo 1962, “garantendo...l'autonomo equilibrio economico dell'eventuale ente”.
Una gestione unitaria del sistema elettrico nazionale avrebbe permesso il pieno sfruttamento delle
possibilità di interconnessione e un miglior grado di utilizzazione degli impianti. Attraverso un
coordinamento sempre più esteso nella programmazione e nello sfruttamento degli impianti
sarebbero derivati consistenti riduzioni dei costi dell'energia. Ma l'obiettivo primario ed immediato
a cui si faceva riferimento e su cui tutti erano d'accordo fu quello di assicurare le condizioni per un
esercizio unitario del sistema elettrico nazionale e, in particolare, l'attuazione di uno stretto
106
Y. Voulgaris, L'Italia del centro-sinistra cit., p. 135.
107
Marcate erano le differenze tra Nord e Sud, tra città e campagna e tra i diversi settori dell'economia cfr. B.
Bottiglieri, L'industria elettrica dalla guerra al “miracolo economico” cit., p. 73.
108
Nel 1953 fu effettuato un tentativo unificando le tariffe per consumi fino a 30 kW (Ibid., p. 72).
109
G. Bruno, Le imprese industriali cit., p. 409.
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collegamento fra impianti generatori e impianti di trasporto in modo da eliminare investimenti non
necessari e impieghi irrazionali di energia110. Proprio per contrastare le carenze che fino ad allora
avevano caratterizzato l'industria elettrica italiana frazionata in grandi gruppi regionali ed
interregionali; carenze che limitando l'interconnessione delle reti, comportavano un maggiore
fabbisogno di impianti e di linee di trasporto e non permettevano di sfruttare le economie di scala
che si sarebbero potute realizzare con un sistema integrato. Con un simile provvedimento inoltre,
poteva realizzarsi tempestivamente il collegamento della rete italiana con le analoghe reti di
interconnessione in corso di avanzata costruzione da parte degli altri paesi membri della Comunità
Economica Europea. Certo la decisione nacque anche da motivi di ordine politico. Per i socialisti si
trattava di una riscossa dell'industria pubblica che fino ad allora aveva svolto un ruolo subordinato
per tamponare le attività dei grandi interessi privati mentre ora, con la nazionalizzazione111, si
procedeva a spezzare i legami tradizionali che univano la Democrazia Cristiana alla destra liberista
economica e, conseguentemente, a quella politica. Anche Fanfani era della stessa idea e prese
spunto da queste dichiarazioni per affermare che lo Stato democratico doveva difendere la
democrazia dai gruppi politici di orientamento autoritario e anche dalle pressioni dei gruppi
economici112, per i socialisti si trattava anche di mettere alla prova gli altri partner della coalizione
verificando la loro effettiva volontà riformatrice. Con la nazionalizzazione dell'industria elettrica il
governo di centro-sinistra sancì il definitivo mutamento degli equilibri che si erano con il tempo
manifestati tra industria pubblica ed industria privata.
Una visione differente si poteva riscontrare nell'estrema sinistra. Secondo gli appartenenti a
questa frangia la nazionalizzazione non era altro che un'identica forma di produzione avente
comunque la stessa direzione di quella capitalistica113. I rapporti sociali rimanevano immutati come
gli elementi a questi correlati. Il salario, ad esempio, era sempre soggetto alla legge del mercato, sia
che provenisse da un'azienda monopolistica privata sia che fosse elargito da un'azienda statale.
Sempre nel ragionamento che riguardava il “falso obiettivo delle nazionalizzazioni”114, era che
queste ultime avrebbero rappresentato sempre una forma di concentrazione di mezzi di produzione
e capitali al pari di quanto si poteva riscontrare in un economia capitalistica in regime di monopolio.
Si riteneva dunque che non era possibile perseguire uno sviluppo attraverso l'accumulazione,
pubblica o privata che fosse, di capitali; anzi attraverso la nazionalizzazione si rischiava di
aggravare quei fattori di crisi già presenti nel sistema capitalistico. Per certi versi questo
rispecchiava il pensiero di La Malfa che accettava un ragionamento di questo tipo dato che “poiché
con altri mezzi non riusciamo ad evitare la costituzione di posizioni di monopolio e di utili di
monopolio, noi, attraverso la nazionalizzazione, restituiamo al consumatore quei potenziali utili di
monopolio che il monopolista faceva propri. Questo a mio giudizio è il fondamento economico
della nazionalizzazione. Perché se alla nazionalizzazione questo fondamento economico mancasse,
evidentemente essa, in un regime di economia libera, non avrebbe scopo alcuno: sarebbe un peso
più che un vantaggio, per il consumatore...comunque, sottolineo che l'azienda di Stato deve essere
un'azienda che sopprime gli utili di monopolio e quindi agisce in maniera economicamente più
vantaggiosa per i consumatori...ora io ho sempre difeso il settore pubblico dell'economia, ma in

110
La nazionalizzazione dell'industria elettrica in Italia. Relazioni parlamentari presentate dal governo e dalle
commissioni speciali della Camera dei deputati e del Senato (giugno-novembre 1962), Roma 1962, pp. 19-21.
111
Quella delle imprese elettriche doveva fungere da prova per eventuali ulteriori nazionalizzazioni cfr. S. Lupo, Partito
e antipartito cit., p. 166.
112
A. Fanfani, Centro-sinistra '62, Milano 1963, p. 44.
113
A. Cervetto, Il ciclo politico del capitalismo di Stato 1950-1967, Milano 1989.
114
Come apparve in un articolo su “L'Impulso” del 31 dicembre 1955.
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quanto sia amministrato con criteri di costi economici e costituisca quindi una pietra di paragone. In
caso diverso, non ha nessun valore l'economia pubblica rispetto all'economia privata.”115 Per
ovviare a tutto ciò il governo doveva fare, nel regolare l'organizzazione e il funzionamento
dell'ENEL, tutto quello che era necessario per evitare che la nazionalizzazione dell'energia elettrica
si traducesse in una semplice sostituzione di una 'baronia' pubblica alle 'baronie' private116. Il
pericolo maggiore che si temeva era dunque che questa mossa non fosse altro che un atteggiamento
derivante dal desiderio del partito di Governo di rafforzare il proprio potere politico attraverso un
incremento del potere economico in mano allo Stato senza portare nessun miglioramento al settore
elettrico italiano se non addirittura un deterioramento. Ma le cose, fortunatamente, non si svolsero
come i più fieri avversari avevano predetto. Scopo della legge fu quello di assicurare ai servizi di
produzione, di trasporto e di distribuzione dell'energia elettrica un ordinamento valido ed efficace
per conseguire ogni possibile riduzione dei costi ed assicurare la tempestiva copertura di ogni
possibile fabbisogno di energia da chiunque e dovunque richiesta.
I voti contrari all'approvazione della legge vennero dai partiti di destra mentre lo scontro
“interno”, tra democristiani e socialisti, non fu tanto sul merito della nazionalizzazione ma su come
sarebbe dovuta avvenire. Difatti questa non si sarebbe svolta attraverso la forma dell'esproprio
brutale ma tramite l'acquisto da parte dello Stato delle proprietà private, pagando quindi indennizzi
molto alti agli industriali elettrici. Il diverbio si concentrò sulla forma istituzionale che avrebbe
dovuto assumere l'impresa nascente e il metodo di risarcimento degli espropriati. Per ciò che
riguarda il primo punto la DC sosteneva la realizzazione di una nuova impresa mista sul modello
delle partecipazioni statali e con il supporto dell'IRI, appoggiando tale argomentazione con il fatto
che il costo sarebbe stato minore dato che l'IRI controllava già una buona parte delle imprese
elettriche, che non vi sarebbero stati grossi sconvolgimenti nel mercato azionario e che esisteva già
un precedente (andato a buon fine) avvenuto pochi anni prima con la statalizzazione delle imprese
telefoniche; mentre i socialisti (con l'appoggio di Mediobanca) avrebbero preferito una public
corporation, per facilitare l'assoggettamento del nuovo ente pubblico (ENEL) alla programmazione
nazionale di imminente attuazione grazie al fatto che accentrava nelle sue mani tutta l'industria
elettrica del Paese. I socialisti ricordavano il fatto che l'IRI mirava fondamentalmente al profitto o
comunque doveva tener conto degli interessi degli azionisti privati. Inoltre le aziende elettriche già
appartenenti all'IRI venivano da tempo duramente criticate per la loro imitazione (e spesso
collusione) con le pratiche monopolistiche delle società private117. Sul risarcimento lo scontro
verteva sulla forma dell’indennizzo dovuto direttamente agli azionisti o alle aziende. Alla fine si
giunse ad un compromesso: il nuovo ente di Stato sarebbe stato come voleva il PSI mentre il
risarcimento sarebbe stato pagato nei termini proposti dalla DC. A favore della tesi sostenuta dai
democristiani vi furono anche i repubblicani e il governatore della Banca d'Italia, Guido Carli, che
fu irremovibile al pari dei socialisti sulla questione della forma da scegliere per la società di nuova
costituzione. Tutti erano però concordi che la misura dell'indennizzo non dovesse essere né irrisoria,
né iniqua. Fu predisposto un risarcimento di 1.500 miliardi di lire (somma calcolata in base alle
quotazioni di mercato, il valore dei titoli per le imprese quotate in borsa, il valore a bilancio per le
altre), che l'Ente di nuova costituzione avrebbe dovuto pagare in venti rate semestrali nel corso di
dieci anni ad un interesse del 5,5% (giungendo ad un ammontare di 2.265 miliardi di lire) e con la

115
Da un discorso di Ugo La Malfa ad un convegno del “Mondo” tenutosi a Roma nel febbraio 1955 cfr. U. La Malfa,
La politica economica cit., pp. 434-435.
116
R. Coltelli e A. De Stefano, Ente nazionale per l'energia elettrica cit., p. 21.
117
B. Amoroso e O. J. Olsen, Lo stato imprenditore cit., p. 86.
51
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possibilità di scontare le semestralità mancanti presso il sistema creditizio118. Questa scelta fu


ampiamente criticata, perché raffrontandosi ad altre realtà europee (Inghilterra e Francia), che
avevano provveduto già da tempo alla nazionalizzazione, si oppose il fatto che il tempo minimo di
ammortamento del risarcimento era di vent'anni e non così breve tale da far gravare sul nuovo ente
un ingente peso finanziario. Il dibattito più acceso fu però quello di stabilire verso chi sarebbe stato
versato il risarcimento. Mentre i socialisti sostenevano la tesi che questo andasse versato
direttamente agli azionisti sotto forma di obbligazioni con l'obbligo di costituzione di fondi
d'investimento, favorendo così il ruolo pianificatore dello Stato, che avrebbe potuto orientare i
capitali distribuiti tra i piccoli azionisti verso gli investimenti dallo stesso emessi, i democristiani e
gli altri partiti minori di governo, oltreché i grandi gruppi economici che appoggiavano la
nazionalizzazione, prevedevano invece che questo dovesse essere versato alle società stesse con la
possibilità per i piccoli azionisti di esercitare il diritto di recesso subentrando direttamente, per il
valore delle azioni, nel credito che la ex società elettrica vantava nei confronti dello Stato, pena lo
scioglimento definitivo delle società che fino ad allora avevano costituito l'oligopolio elettrico che
invece in questo modo sarebbero state tenute in piedi per proseguire l'attività utilizzando la
consolidata esperienza, l'organizzazione e i capitali e che, con la ragguardevole somma del
risarcimento che sarebbe stata quindi immessa nei circuiti produttivo - finanziari, avrebbero
costituito degli importanti centri imprenditoriali e finanziari. In questo modo si garantiva inoltre che
questi nuovi capitali del risarcimento sarebbero stati reinvestiti nel sistema economico collocando
una ragguardevole liquidità e si sarebbero conservati i centri di attività e le capacità imprenditoriali
che costituivano l'ex oligopolio dell'industria elettrica dando così un nuovo impulso ai diversi
settori dell'attività produttiva. Si ripropose quindi la stessa situazione che si era già vista
sessant'anni prima ed adottata per le ferrovie in cui le ex società ferroviarie avevano poi investito
proprio nel settore elettrico. Le scelte di investimento non erano però più influenzate dalla
pianificazione statale ma erano lasciate alle valutazioni del capitale privato. Optando per
quest'ultima soluzione i cambiamenti sarebbero avvenuti in modo graduale, senza traumi o fratture.
Il provvedimento della nazionalizzazione comportò comunque uno sconvolgimento degli equilibri
economici preesistenti andando ad incidere in modo significativo sull'industria privata. Tale scelta,
difatti, si rivelò errata. Fu deciso di tenere in vita le ex società elettriche che però, private della loro
attività nel settore energetico, non riuscirono a mantenere la posizione autorevole precedentemente
raggiunta. I gruppi dirigenti delle società elettriche non si dimostrarono all'altezza del compito a
loro affidato. La capacità imprenditoriale degli ex oligopolisti elettrici non era appropriata e questi,
pur impegnandosi in altre attività economiche non riuscirono ad evitare una situazione decisamente
fallimentare. Tra le imprese private le scelte non furono azzeccate e gli investimenti prodotti, a
lungo andare, causarono non pochi problemi e situazioni di crisi. Caso esemplare fu la creazione
della Montedison derivata dalla fusione della Edison con la Montecatini per investire i capitali del
risarcimento nei settori petrolchimico e chimico. All'inizio degli anni '70 si necessiterà di un solido
intervento statale per riportare in pareggio la situazione aziendale. Ma anche il resto andò disperso
in iniziative che si rivelarono poco redditizie119. La difficoltà riscontrata dal settore privato fu quella
di ritrovarsi in un ruolo imprenditoriale quando, fino ad allora, si era operato come semplici
percettori di rendite sicure. Andarono a buon fine invece gli indennizzi rivolti alle aziende
pubbliche (l'IRI controllava, attraverso la Finelettrica, numerose società elettriche in varie parti
d'Italia), dove le imprese che in precedenza erano partecipi nel compartimento elettrico si

118
R. Coltelli e A. De Stefano, Ente nazionale per l'energia elettrica cit., p. 51.
119
E. Colombo, Testimonianze in La nazionalizzazione dell'energia elettrica cit., p. 239.
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dedicarono ai settori siderurgico e telefonico con il compimento, in quest'ultimo caso, del progetto
di unificazione del servizio e portando a termine il progetto STET. Si poté dunque riscontrare che la
scelta svolta dal Governo nel decidere a chi andassero distribuiti i risarcimenti fu infelice. Le
ingenti risorse d’indennizzo che furono affidate al capitale privato non produssero dunque i risultati
sperati, anzi si rivelarono quasi controproducenti. Probabilmente se le stesse avessero avuto un
indirizzo da parte pubblica, sia pure indirettamente tramite Mediobanca e le altre banche pubbliche,
forse si sarebbe potuto riorganizzare in modo confacente il capitale privato industriale italiano. Una
volta di più si manifestò la necessità di un più deciso intervento pubblico in campo economico, cosa
che non avvenne per dare libero spazio ad un’economia di mercato che oramai aveva fatto il suo
tempo.
Dal punto di vista politico i gruppi favorevoli alla modernizzazione e ad un rafforzamento delle
partecipazioni statali rinvigorirono la loro posizione creando un buon viatico per una maggiore
affermazione del centro-sinistra nonostante la forte campagna propagandistica messa in atto dagli
ex oligopoli elettrici, dalle forze conservatrici e dalla stampa ad essi favorevole. Secondo questi
gruppi il provvedimento di nazionalizzazione si poneva come il primo passo di una politica che
avrebbe portato alla fine della libera economia, anche perché si legava ad un'altra misura, adottata
dal Governo pochi mesi prima, che prevedeva la tassazione degli utili azionari120. Questa poderosa
promozione conservatrice fece correre ai ripari la DC che assicurò pubblicamente che non vi
sarebbero state altre nazionalizzazioni, mentre i socialisti chiarirono che tale provvedimento non era
stato attuato per scelta ideologica ma per necessità di uno sviluppo economico del Paese. Ma i
tentativi di tranquillizzare l'opinione pubblica non raggiunsero i risultati sperati e la conseguenza fu
una flessione dei valori di borsa con la successiva fuga di capitali all'estero, perché con
l'avvicinamento dei socialisti al Governo e le conseguenti prime riforme si diffuse il panico. La
nazionalizzazione ebbe anche l'effetto di rafforzare le correnti politiche (anche interne alla DC
stessa) che reclamavano un freno dell'attività riformatrice portata avanti fino ad allora dal centro-
sinistra. Si era ancora in una situazione dove una certa parte del mondo economico italiano non
approvava le regole imposte dalla via democratica sviluppata dal Governo, ma cercava
prepotentemente di dettare le sue leggi non accettando alcune decisioni politiche, e l’approvazione
della nazionalizzazione del settore elettrico ne era la chiara dimostrazione. Molte furono le proteste,
alcune addirittura virulente, che si mossero all'indirizzo del Governo. La tesi principale, sostenuta
dai detrattori di questa decisione, vedeva nella nazionalizzazione la giustificazione politica di chi
voleva sovvertire l'ordine economico e politico del Paese (le sinistre e chi le appoggiava) per
arrivare al punto di un'economia collettivizzata e al regime politico che a questa si confaceva
(quello dell'Unione Sovietica). Ma se i potentati economici privati erano contrari alla
nazionalizzazione perché la vedevano come un ostacolo ai propri interessi ed un ingerenza da parte
dello Stato in un campo, quello economico, in cui sarebbe dovuto intervenire il meno possibile,
dall'altro lato il problema che si poneva era differente. Per i più accaniti sostenitori della
nazionalizzazione questa doveva essere gestita secondo una buona amministrazione il che implicava
che non vi fosse nessuna politicizzazione (la “malattia” che ha sempre contraddistinto le aziende di
Stato) ed una severa e razionale conduzione per non trovarsi in condizioni d'inferiorità rispetto alle
aziende private. Da tutto ciò si evince come la decisione di nazionalizzare il settore elettrico in Italia
non nascondeva la possibilità di assumere un controllo politico predominante attraverso la gestione
di settori fondamentali dell'economia, mentre l'obiettivo restava quello di sviluppare al meglio detti
settori ed utilizzare in modo ottimale le risorse per agevolare e rendere migliore l'espansione
120
Y. Voulgaris, L'Italia del centro-sinistra cit., p. 136.
53
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

economica dell'intero Paese e soddisfare la crescente domanda di energia consentendo condizioni


uniformi di trattamento. A tal proposito si cercò di impostare un rigido e scrupoloso controllo
sull'ente di nuova costituzione. La legge del dicembre 1962 fu solo quella costitutiva dell'ENEL
mentre ulteriori norme sulla sua organizzazione vennero stabilite con decreti successivi come quello
di approvazione dello statuto che l'ente autonomo si dette. All'ENEL vennero trasferite tutte le
imprese elettriche del paese con le sole eccezioni delle imprese municipalizzate (che dovevano però
divenire concessionarie dell'ente stesso e perciò gestite e coordinate nell'interesse generale121) e
degli autoproduttori. L'ente pubblico doveva svolgere la propria attività secondo le direttive imposte
da un comitato di Ministri che comprendeva rappresentanti del Bilancio, Tesoro, Industria e
Commercio, Lavori Pubblici, Partecipazioni Statali, Agricoltura e Foreste e doveva essere
presieduto dal Presidente del Consiglio dei Ministri. Questi organi avevano il compito di far
funzionare l'ente secondo criteri di economicità ma con l'esigenza di un equilibrato sviluppo
economico del paese specialmente per quanto riguardava la politica tariffaria. Lo scopo ultimo era
quello di gestire il nuovo ente secondo criteri di correttezza e apartiticità122 e per questo il Ministro
dell'industria e commercio doveva controllare che lo stesso ente seguisse pedissequamente le
direttive impartite dal Comitato. Il medesimo Ministro, di concerto con quello del bilancio stabiliva
i compensi degli organi di governo e ne approvava i bilanci. Il consiglio di amministrazione era
nominato dal Presidente della Repubblica sentiti i precedenti Ministri. Infine vi era un controllo
consuntivo da parte della Corte dei Conti123.
Alla luce di quanto accaduto dal 1963 si può dunque asserire che la strada della nazionalizzazione
del settore elettrico in Italia fu, nonostante gli ostacoli e i problemi insorti al momento della sua
attuazione, una valida strategia attraverso la quale il Paese e il suo apparato produttivo sono riusciti
a crescere ed a diminuire le distanze che li separavano dalle altre economie. Tuttavia, a mio avviso,
il provvedimento avrebbe potuto essere più incisivo e conseguire migliori risultati se si fossero
adottate alcune sostanziali differenze che riguardavano la dotazione di capitale iniziale e i termini
dell’indennizzo. Naturalmente non si può prescindere dalla situazione in cui il Governo si trovava,
dalla strenua opposizione cui era soggetto ed anche alle volontà di parte dei suoi sostenitori che,
comunque, erano favorevoli alla nazionalizzazione, ma rispettando alcuni termini che garantissero
una certa libertà economica. Anche l’opinione pubblica, seppur bendisposta nei confronti del
provvedimento, in qualche misura lo temeva e cercava nell’operato del Governo quel compromesso
che l’avrebbe resa più sicura.
Per fare questo si decise che il nuovo ente costituito, l’ENEL, non avrebbe avuto nessun fondo di
dotazione, ma avrebbe dovuto gestire l’attività utilizzando i beni e gli impianti espropriati. In questo
modo il Governo si metteva al riparo da chi avrebbe potuto sostenere che l’esecuzione di tale
provvedimento celava un considerevole spreco di denaro pubblico che non si sarebbe avuto
continuando a far gestire il settore dall’industria privata. Così facendo però si mise in estrema
difficoltà il nuovo ente pubblico che, non solo non avrebbe potuto immediatamente dedicarsi ad
migliorare ed ammodernare impianti e reti di distribuzione ed avventurarsi nel nuovo campo di
sperimentazione del settore ovvero l’energia nucleare, ma avrebbe dovuto far fronte al gravoso

121
Confederazione della municipalizzazione federazione nazionale aziende elettriche municipalizzate, Le aziende
elettriche municipalizzate e la nazionalizzazione dell'energia elettrica, Atti del convegno di studi svoltosi a Venezia nei
giorni 11 e 12 ottobre 1963, pp. 15 sgg.
122
Gli organi di governo dell'ENEL dovevano rispondere a criteri di competenza esclusivamente tecnica e non
rappresentativa.
123
F. Rugge, Il disegno amministrativo: evoluzioni e persistenze cit., pp. 261-262.
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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

pagamento dell’indennizzo che, al contrario delle altre esperienze che si erano avute in campo
internazionale, era previsto che fosse completato nel giro di un decennio.
Il secondo punto riguarda l’indennizzo. Se questo fosse stato corrisposto direttamente agli azionisti
probabilmente avrebbe portato migliori risultati, facendo rientrare il capitale circolante nel sistema
sotto forma di investimenti e di risparmio. Anche in questo caso però, si dovettero fare i conti con i
forti potentati industriali privati che premevano invece per mantenere la loro posizione
predominante nel sistema economico italiano.

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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

Capitolo III La nazionalizzazione dell’energia elettrica: il dibattito in aula

1. La nazionalizzazione alla Camera dei Deputati e al Senato


Il dibattito parlamentare sulla nazionalizzazione del settore elettrico italiano fu molto acceso
ed iniziò alla Camera dei deputati sabato 28 luglio 1962 sulla relazione redatta dalla Commissione
speciale nominata il 27 giugno di quello stesso anno1 per riferire, illustrare e commentare il disegno
di legge presentato dal Presidente del Consiglio dei Ministri, Amintore Fanfani, dal Ministro
dell'industria e del commercio Emilio Colombo, dal Ministro del bilancio Ugo la Malfa e dal
Ministro del tesoro Roberto Tremelloni di concerto con tutti gli altri ministri, nella seduta del 26
giugno 1962. Questa relazione governativa, numero 3906, è suddivisa in tre capitoli. Il primo tratta
l'evoluzione dell'industria elettrica in Italia dai primordi al 1961, il secondo illustra le linee per una
politica nazionale dell'energia mentre il terzo dettaglia la nuova disciplina. E' interessante notare
come nessuno dei leader dei partiti politici favorevoli alla nazionalizzazione abbia preso la parola
mentre violenta fu la replica degli oppositori, partiti dell'estrema destra e liberali su tutti, che
organizzarono varie forme di ostruzionismo, peraltro poco convinte, nel tentativo di evitare
l'approvazione del provvedimento2. La forte opposizione fu dovuta anche per le precedenti
dichiarazioni di Riccardo Lombardi, da sempre fiero sostenitore di tale provvedimento, che riteneva
che quest'ultimo avrebbe dovuto causare “una rottura nell'equilibrio economico tradizionale”3. Fra i
numerosi interventi svoltisi durante la lunga discussione spiccarono per aggressività e competenza
quelli di Almirante, Alpino, Biaggi, Cortese e Trombetta tra gli oppositori, Napolitano e Natoli tra i
pacati sostenitori, Donat-Cattin, Ripamonti e Vittorino Colombo tra gli espositori favorevoli senza
riserve4. Alla relazione di maggioranza sopra citata presentata alla Camera dei Deputati da Danilo
De' Cocci fecero da contraltare tre relazioni di minoranza portate a compimento il 27 luglio. La
prima era quella dei liberali Alpino e Trombetta, la seconda del missino Ernesto De Marzio e la
terza quella dei monarchici Casalinuovo, Covelli e Olindo Preziosi. Quando la legge passò alla
Camera questa fu presentata in Senato l'8 novembre dello stesso anno e fu accompagnata da una
relazione di maggioranza con relatore Pietro Amigoni della DC mentre per la minoranza si fecero
avanti il liberale Battaglia, il missino Nencioni e il monarchico D'Albora.
Alle ore 10 dunque del 28 luglio 1962 in Parlamento prese avvio il dibattito per l'”Istituzione
dell'Ente per l'energia elettrica e trasferimento ad esso delle imprese esercenti le industrie elettriche”
che sarebbe continuato in aula per parecchie sedute. La discussione si prospettava di vivo interesse
e fu terreno di colpi e scontri duri ma sempre nei canoni della correttezza.

2. Lo scontro politico sul merito del provvedimento


Il provvedimento di nazionalizzazione del settore elettrico italiano, fortemente voluto dalla
maggioranza al governo del Paese, si basava su alcuni assunti di fatto ineccepibili come ben
esplicato nelle relazioni esposte in Parlamento. La decisione di attuare la nazionalizzazione aveva

1
Le copie della relazioni si possono trovare in La nazionalizzazione dell'industria elettrica in Italia cit. oppure vedi
anche, nel presente lavoro, Appendice n. 3,4,5 e 6.
2
B. Bottiglieri, L'industria elettrica dalla guerra al “miracolo economico” cit., p. 83.
3
Da una dichiarazione dello stesso Lombardi apparsa sul “Corriere della Sera” del 21 giugno 1962.
4
G. Mori, La nazionalizzazione in Italia cit., pp. 161-162.
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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

fondamento in svariate motivazioni che, agli occhi di gran parte dei deputati ma anche dei cittadini
italiani, erano imprescindibili al punto in cui si era giunti5.
Prima di tutto si faceva riferimento allo sviluppo industriale in Italia e ai relativi consumi elettrici;
ricordavano poi lo sviluppo economico sociale generale del Paese e le prospettive future con
conseguenti aumenti del fabbisogno energetico. Con riguardo a tutto ciò si faceva notare che la
normativa vigente vedeva sì, con il passare del tempo, un intervento sempre maggiore dello Stato,
ma questo non era comunque ispirato ad una energica e coordinata direttiva di politica economica6.
Attraverso questo nuovo provvedimento si sarebbe valutato l'intero sistema elettrico come un tutto
unitario come invece, al momento, non poteva essere fatto7. Sempre secondo De' Cocci “l'attuale
struttura pluralistica dell'industria elettrica italiana, frazionata senza alcun criterio razionale in
grandi e medi gruppi zonali, limita l'interconnessione delle reti e comporta un maggiore fabbisogno
di impianti e una moltiplicazione di linee di trasporto, limitando lo sfruttamento delle economie di
scala8”. A tal proposito il socialista Roberto Lombardi asseriva senza ombra di dubbio che la
situazione vigente aveva dimostrato “l'impossibilità o l'estrema difficoltà di provvedere ad un
congruo e razionale sistema di unificazione dell'energia elettrica, in un'azienda ripartita fra settori e
fra regioni, con diversi regimi, con diverse utenze, con diverse possibilità di perdite e profitti”9. Con
la creazione di un ente pubblico apposito invece, si sarebbe potuto provvedere nel modo più
economico possibile al soddisfacimento della crescente domanda e si sarebbe potuto assicurare a
tutte le categorie di utenze, indistintamente, l'energia richiesta a condizioni uniformi10. Per
confermare tutto ciò lo stesso De’ Cocci prese, come validi esempi, le esperienze che si erano avute
in altri paesi, Francia ed Inghilterra per la precisione, facendo notare come l'adozione di un simile
provvedimento aveva portato quei paesi ad ottimizzare i risultati nel campo energetico. E anche per
l'Italia “per risolvere degnamente e nel modo più semplice ed economico i problemi creati (non solo
nel nostro paese ma in tutti i paesi) dall'esistenza di industrie elettro-commerciali così fortemente
differenziate rispetto ai settori della distribuzione, alla qualità della utenza ed ai costi di produzione
e di distribuzione, la soluzione principe, la soluzione ideale è quella nazionalizzatrice”11 perché “la
struttura attuale della nostra industria elettrica genera doppioni e sprechi e il solo rimedio è l'azienda
unica che, non potendo essere privata, non può che essere nazionale”12 dato che è un “sistema
arcaico connesso intimamente con la sua natura di azienda non unica, ripartita in attività
settoriali”13. E questo perché, sempre secondo Lombardi, “la nazionalizzazione che pensiamo di

5
Riccardo Lombardi, gran sostenitore del provvedimento, espresse così in aula il suo giudizio “La nazionalizzazione è
una esigenza imperiosa e indilazionabile” in Atti parlamentari, Camera dei Deputati, III legislatura – Discussioni (di
seguito AC), seduta del 1° agosto 1962, p. 32190.
6
Secondo Roberto Lombardi “I problemi apparentemente limitati e particolari delle tariffe non potevano trovare la loro
soluzione organica e razionale se non in un provvedimento integrale di nazionalizzazione dell'esercizio dell'energia
elettrica” (Ibid., p. 32188).
7
Relazione presentata da Danilo De' Cocci alla Camera dei Deputati n. 3906 in La nazionalizzazione dell'industria
elettrica in Italia cit., p. 93.
8
Ibid., p. 94.
9
AC, seduta del 1° agosto 1962, cit., p. 32189.
10
Sempre secondo Lombardi “Proprio il problema fondamentale della obbligatorietà della fornitura, proprio il problema
della generalità delle tariffe e della loro riduzione non possono trovare altra soluzione che nella nazionalizzazione
integrale dell'apparato elettrico” (Ibid., p. 32188).
11
Ibid., p. 32189.
12
Ibid., p. 32189 e ancora lo stesso parlando della situazione elettrica italiana aggiungeva che “...è generatrice di
sprechi, di disordine e di ingiustizie. L'azienda unificata è una necessità tecnica ed economica...l'azienda unica non può
essere privata” (Ibid., p. 32190)..
13
Ibid., p. 32192.
57
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

fare...ha un carattere di razionale utilizzazione di un patrimonio collettivo a fini collettivi [e]


soltanto un'azienda unitaria può operare un coordinamento nella produzione e nella distribuzione,
può operare per una programmazione razionale degli impianti, può operare per garantire, non in
previsione di una particolare favorevole situazione congiunturale, ma in qualunque situazione
congiunturale...”14.
Un altro punto a favore della nazionalizzazione del settore elettrico sostenuto a gran voce dalla
maggioranza cattolica era la questione morale che constatava che “...questa fortissima
concentrazione in mano di pochi...può costituire una ragione morale e politica dell'attuale
intervento” e che “la democrazia cristiana [intende] compiere un singolo atto, motivato e
giustificato dal bene comune, per rendere veramente libera l'economia e incanalarla nello stesso
tempo al servizio dell'uomo e della società” e alla fine “deve essere considerata non l'unicità, ma
l'eccezionalità della misura”15 “perché lo Stato, anziché di ceti e gruppi privilegiati, divenga lo Stato
democratico”16.
Per fugare ogni dubbio inerente la posizione politica del Governo italiano, De' Cocci tenne poi a
precisare che il suddetto provvedimento non nascondeva nessun attentato all'iniziativa privata e, di
conseguenza, nessun clamoroso passo verso lo “statismo”17 nonostante fosse ben chiaro che “se
siamo per la nazionalizzazione dell'industria elettrica è perché la concepiamo inserita in uno schema
di programmazione” data “la sua utilità come strumento di politica economica”18 essendo questo
“un passaggio di proprietà che è strettamente connesso con la politica economica nuova che si vuole
condurre, cioè con la politica di programmazione e di pianificazione democratica” poiché “la
politica di piano realizza l'intervento pubblico diretto nella misura in cui è necessario per garantire il
pieno e razionale sviluppo della libera iniziativa e il riequilibrio tra i settori produttivi tra le zone
territoriali e delle condizioni sociali”19. E se non si era giunti precedentemente a questo
provvedimento era solo perché “questo atto non poteva essere compiuto nel periodo ‘centrista’,
poiché in quel periodo questa, come altre iniziative connesse con una politica di programmazione,
sarebbe comunque stata impedita dalla natura della coalizione, dall'accanimento con cui gli interessi
elettrici sarebbero stati difesi dal partito liberale. Questo atto caratterizza l'avviamento della politica
di centro-sinistra [e] la nazionalizzazione dell'industria elettrica è un fatto caratterizzante la politica
nuova”20
Naturalmente la minoranza non si trovava in accordo con quanto affermato dal De' Cocci e dagli
altri oratori; nel dibattito si distinsero i deputati liberali Alpino e Trombetta che nella loro relazione
condensarono tutti i dubbi e tutte le rimostranze dell'opposizione.
In principio, giusto per cercare di celare la loro posizione di parte, cercarono di esporre dati
oggettivi, come il fatto che aver solamente proposto una simile soluzione aveva portato a gravi
implicazioni di ordine politico e sociale come la pesante crisi delle borse e la diffidenza dell’intero
mondo economico italiano nei confronti di un ingerenza pubblica che aveva sempre più il sapore di
un governo filo-comunista21. Gli stessi ravvisavano un andamento dell’Italia in controtendenza

14
Ibid., pp. 32190-32191.
15
Donat-Cattin in AC, seduta del 2 agosto 1962, p. 32292.
16
Ibid., p. 32297.
17
La nazionalizzazione dell'industria elettrica in Italia cit., p. 125.
18
Sempre Lombardi in AC, seduta del 1° agosto 1962, cit., pp. 32203 e 32197.
19
Donat-Cattin in AC, seduta del 2 agosto 1962 cit., p. 32293.
20
Ibid., p. 32295.
21
Cfr. anche Guido Cortese già Ministro liberale dell’industria “A tal fine ci sono cose che si devono fare e cose che
non si devono fare: per esempio, non si devono provocare crisi di sfiducia fra i risparmiatori e fra gli imprenditori con
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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

rispetto agli altri paesi del blocco occidentale, non si trattava di una decisione moderata come si
poteva riscontrare nelle altre economie miste europee, ma di una “soluzione integralista della
statizzazione”22. Alla fine si sarebbe trattato di un provvedimento richiesto solo per finalità politiche
(voluto fortemente soprattutto dal PSI)23 ma, la nazionalizzazione in sé, era “dannosa
economicamente, assurda giuridicamente, pericolosa finanziariamente”24. La logica prettamente
politica (e non economica) prevedeva dunque una riforma della società in senso marxista,
imperversando quindi uno statalismo economico sempre più invadente e foriero dello statalismo
politico25. Era dunque evidente che si era nella “impossibilità di trovare altra paternità di questo
provvedimento se non nella dottrina, nella volontà, nell'azione politica dei partiti di estrema
sinistra”26. Sempre nello stesso contesto accusavano il Governo, che non avendo sviluppato una
politica di piano27, non si poteva sapere se questo provvedimento sarebbe stato urgente e prioritario
per lo sviluppo economico del Paese, alla luce anche di precedenti obblighi imposti dallo Stato (ad
es. l’unificazione delle tariffe o l’obbligo di allacciamento e fornitura a qualsiasi utente lo
richiedesse). Per raggiungere gli obiettivi previsti sarebbe bastata l’unificazione del sistema vigente
con la creazione di enti di controllo e coordinamento, lasciando immutata la struttura proprietaria
dell’industria elettrica28. Sempre secondo i due oppositori il sistema elettrico italiano già presentava
una configurazione efficiente, riscontrando già un buon controllo e coordinamento dell’intero
sistema, un’autodisciplina (a mio giudizio facilitata dal fatto che non vi era concorrenza), una
capacità di contenere i costi perché comunque la distribuzione alla fine avveniva su scala nazionale,
una disponibilità di energia sempre crescente29, il controllo delle tariffe tramite il C.I.P.30. Per
ribadire poi tale concetto, gli oppositori sottolineavano come il livello dei prezzi si trovava in una
posizione intermedia rispetto agli operatori stranieri; ciò dipendeva solamente dalle condizioni
tecniche in cui si doveva operare (e, di riflesso, il neonato ente pubblico si sarebbe poi trovato nella

provvedimenti di nazionalizzazione non giustificati da validi e obbiettivi motivi di natura tecnica ed economica, né
sprecare per siffatte nazionalizzazioni mezzi che sarebbero meglio impiegati per il razionale perseguimento degli
obiettivi di una bilanciata politica di sviluppo” in AC, seduta del 31 luglio 1962, p. 32103.
22
La nazionalizzazione dell'industria elettrica in Italia cit., p. 152 e anche il democristiano Giuseppe Gonella “Noi ci
accingiamo alla statizzazione della nostra economia elettrica dopo che in altri Stati più evoluti del nostro la
statizzazione da tempo si è dimostrata non utile, ma dannosa allo sviluppo economico nazionale e agli interessi del
popolo [dato che] l'esperienza di quindici anni ha dimostrato essere un mezzo inefficace per l'aumento del benessere
nazionale” in AC, seduta del 2 agosto 1962 cit., pp. 32325 e 32328.
23
Anche il deputato De Marzio, nella sua relazione, sostenne in maniera convinta questa tesi arrivando ad affermare che
la DC era assolutamente contraria a questo provvedimento (Ibid., p. 297) e “la democrazia cristiana porta questo
disegno di legge alla discussione e all'approvazione del Parlamento solo ed esclusivamente per tenere in piedi il suo
Governo di centro-sinistra condizionato dall'appoggio del P.S.I.” cfr. Romualdi in AC, seduta del 2 agosto 1962 cit., p.
32300.
24
La nazionalizzazione dell'industria elettrica in Italia cit., p. 154.
25
Ibid., p. 199 e Romualdi “vi è solo e soprattutto una preoccupazione di carattere squisitamente politico: di non dare
strumenti di potere in mano alle correnti sinistrorse dei vari partiti di Governo” perché la “storia ci insegna che in tutti i
paesi dove il comunismo è arrivato al potere ha incominciato come da noi” in AC, seduta del 2 agosto 1962 cit., p.
32303.
26
Ibid., p. 32301.
27
Secondo Covelli, Casalinuovo e Olindo Preziosi la politica di piano avrebbe visto il suo sviluppo solamente quando si
sarebbe arrivati ad una conclusione di potere, a seconda che fosse prevalsa la DC o il PSI (La nazionalizzazione
dell'industria elettrica in Italia cit., p. 307).
28
Ibid., p. 156 e Romualdi “Tutti hanno capito perfettamente le ragioni politiche, ma quali siano le ragioni tecniche ed
economiche nessuno l'ha capito, forse perché non c'è niente da capire, forse perché è tutto chiarissimo...” AC, seduta del
2 agosto 1962 cit., p. 32301.
29
Riportarono i dati che mostravano come dal dopoguerra fino agli anni ’60 la somministrazione di energia elettrica era
andata crescendo progressivamente.
30
La nazionalizzazione dell'industria elettrica in Italia cit., p. 167.
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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

medesima situazione) e che comunque le depressioni territoriali e settoriali presenti nel Paese non
erano causate dai prezzi ma dalle situazioni contingenti31. Anche un provvedimento di facile
attuazione, più attenuato e meno costoso come quello dell’”irizzazione”, che avrebbe visto la
rilevazione delle società private lasciando intatto il vasto azionariato, era stato scartato perché non
rispondeva ai crismi di controllo egemonico del potere politico dello Stato come i governanti si
erano prefissi di realizzare.
Sempre secondo il duo Alpino-Trombetta ci si trovava di fronte ad una situazione quasi
paradossale; fino ad allora il sistema elettrico italiano poteva contare su un complesso di aziende
bene articolate, vitali ed in continua espansione, in definitiva su di un apparato ad elevata
efficienza32, mentre se si fosse proseguito sulla strada prospettata e tradotta dal disegno di legge ci
si sarebbe ritrovati di fronte ad un mastodontico ente di nuova costituzione che avrebbe necessitato
anni per darsi un assetto organico perché sarebbe incorso in un procedimento di avviamento lungo
ed articolato, oltre a ritrovarsi in una situazione di pericoloso accentramento di poteri e
competenze33. Quindi l'attuazione di una simile proposta non avrebbe fatto che creare maggiori
costi di esercizio e una minore efficienza oltre a far dipendere da un'unica società, per quanto
colossale ma che agiva in regime di monopolio, le condizioni di mercato e la sorte dell'industria
elettrotecnica nazionale e costruttrice di materiale elettrico, di macchinari ed apparecchiature
(turbine idrauliche e termiche, alternatori, caldaie, etc.). La programmazione esclusiva si sarebbe
dunque esplicata in due sensi, nella produzione di energia elettrica e nell'acquisizione dei mezzi di
produzione. Per suffragare maggiormente la loro tesi si rifecero direttamente ad alcune tesi esposte
da chi si trovava al momento al governo ribaltandole, facendo cioè credere che si fosse affermato
tutto ciò perché si riteneva sbagliata la procedura di nazionalizzazione contrariamente a quanto si
proponeva. Si arrivò a citare due dei massimi esponenti della Democrazia Cristiana, ovvero il
segretario Moro che in una precedente dichiarazione aveva pronunciato il seguente discorso per
tranquillizzare gli animi: “La Democrazia Cristiana conferma che essa non ritiene che altri settori
della vita economica debbano soggiacere ad una restrizione che ha per noi carattere sussidiario e
singolare” e La Malfa che aveva confermato che “la nazionalizzazione dell'industria elettrica è un
provvedimento limite, che riguarda un servizio pubblico e che, soprattutto non apre la strada ad
altre nazionalizzazioni, ma la chiude”. A chiosa di tutto ciò il missino Romualdi dichiarò “Si dice:
non ne faremo più. Il che in fondo è una confessione della incapacità di credere al bene di questo
provvedimento”34.
In una via di mezzo, se vogliamo, ritroviamo i comunisti, estremamente favorevoli al
provvedimento, ma scettici sulle scelte di attuazione. Il PCI puntava a soluzioni molto più radicali,
da “statalismo sovietico”. Tra tutti riporto alcune considerazioni di un esponente di sicuro rilievo
nel partito, Giorgio Napolitano. Per dirla come Lombardi in un suo intervento a posteriori volevo

31
Curioso a tal proposito l'intervento del liberale Guido Cortese che nel suo discorso affermò “Uno Stato che conservi
ed elevi l'altissimo livello tecnico raggiunto nel settore, ci sembra il frutto di una visione piuttosto utopistica” AC,
seduta del 31 luglio 1962 cit., p. 32098.
32
Sosteneva la medesima tesi Cortese che paragonò la nazionalizzazione delle ferrovie in quanto sistema arretrato a
quella invece del settore elettrico in pratica efficiente (Ibid., p. 32095).
33
La nazionalizzazione dell'industria elettrica in Italia cit., pp. 223 sgg. e Romualdi “...anche perché non ci vorremmo
trovare immediatamente...di fronte a un altro E.N.I., cioè a un ente che...fa il comodo suo” e Palazzolo “Invece si creano
nuovi enti, si crea l''ENEL' che è vicino di casa dell’E.N.I., che prolificherà duecento commissari, se basteranno, cioè un
esercito di vampiri sul sangue dei contribuenti italiani” in AC, seduta del 2 agosto 1962 cit., pp. 32304 e 32325.
34
AC, seduta del 2 agosto 1962 cit., p. 32305.
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“soffermarmi sulle osservazioni degli onorevoli Natoli e Napolitano. Essi si sono espressi con
moderazione e hanno mostrato di apprezzare la legge”35.
Al principio Giorgio Napolitano sottolineò come al provvedimento di nazionalizzazione
“apertamente contrari si dichiarano solo i gruppi della destra liberale, monarchica e 'missina',
favorevole un larghissimo schieramento di partiti che va dal centro a tutta la sinistra”36. Poi, per
mostrare che la nazionalizzazione non era voluta solamente dai partiti dell'estrema sinistra, pensò
bene di citare le parole che Moro, segretario della Democrazia Cristiana, aveva detto al congresso di
Napoli di appena un mese prima, ribadendo “la presente esigenza del coordinamento dell'industria
elettrica in Italia” con il timore che rimanesse “il dubbio che le forme parziali ed esterne di
unificazione si rivelassero col tempo inadeguate”. Subito dopo però spuntò l'anima “marxista”
dell'oratore che sottolineò l'attuale “politica perseguita dalle società elettriche: politica di tariffe di
favore per i grossi utenti e di alte tariffe per la gran massa degli utenti, di esose condizioni di
fornitura, di spudorate violazioni tariffarie, ecc.”37 riferendosi agli utenti finali quali famiglie e
piccoli fruitori. Ma si prodigò anche a difesa delle industrie asserendo “come assolutamente
inattendibili siano i dati che parlano di una minima incidenza del costo dell'energia sui costi totali di
produzione”38. Certo non si risparmiò anche per difendere la disuguaglianza territoriale
riprendendo come “l'ingegner De Biasi ha apertamente giustificato e teorizzato il maggior prezzo
dell'energia elettrica nel Mezzogiorno, affermando che esso si spiega con la maggior incidenza
degli oneri di trasporto e di distribuzione”39. Quanto detto dimostrava “l'impossibilità di garantire il
raggiungimento di certi obiettivi” a causa della “politica monopolistica dell'industria elettrica
italiana”40 e gli “inconvenienti della 'struttura frazionata' della industria elettrica o i danni della
politica monopolistica delle società elettriche”. Dopo questo preambolo venne al dunque
dichiarando come fosse “indispensabile...porre in mano pubblica quella fondamentale leva di una
politica di sviluppo che è costituita dal controllo delle fonti di energia” e richiedendo quindi che
“l'ente conduca una politica nuova...che si differenzi radicalmente da quella seguita dalle società
elettriche commerciali private e a partecipazione statale” e “un orientamento antimonopolistico
generale della programmazione”41.
A complemento di tutto ciò sferrò un attacco verso il gruppo dirigente della Democrazia Cristiana
[che] è ben lontano dall'essersi dato una prospettiva generale di politica antimonopolistica”42 e che
quindi “le forze più avanzate della maggioranza di centro-sinistra, tutte le forze di sinistra...non
accettino i limiti dell'impostazione moderata che da parte del gruppo della Democrazia Cristiana si
tende a dare al provvedimento di nazionalizzazione”43. L'obiettivo della compagine comunista era
ben riassunto, gli stessi inseguivano ”un allargamento della democrazia ed una politica di progresso
sociale” nonché “soluzioni democratiche ed antimonopolistiche”44.

35
AC, seduta del 1° agosto 1962 cit., p. 32200.
36
Ibid., p. 32169.
37
Ibid., p. 32170.
38
Ibid., p. 32170.
39
Ibid., p. 32171.
40
Ibid., p. 32171.
41
Ibid., p. 32173.
42
Ibid., p. 32175.
43
Ibid., p. 32176.
44
Ibid., p. 32176.
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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

3. La nazionalizzazione e la Costituzione
La questione che prese il via immediatamente per troncare sul nascere la discussione, fu
presentata dall'opposizione; essa verteva sul fatto che il disegno di legge, per come impostato, non
era costituzionalmente valido e nel prosieguo sarebbe incorso nei giudizi degli organi competenti a
giudicarne la legittimità e quindi sarebbe stato dichiarato nullo o comunque mondato delle parti non
lecite, rendendo vano l'intero dibattito che stava per principiare. In questi interventi della Destra
d'opposizione apparve subito evidente l'intenzione di porre in atto alcuni tentativi ostruzionistici
(anche se chiunque si pronunciasse tendeva a sottolineare che l'intervento nasceva solamente dal
fatto che si cercava di far rispettare la legalità e nulla più) per cercare di bloccare il dibattito
addirittura prima che cominciasse, adducendo l'incostituzionalità delle procedure adottate. Se non
fossero riusciti ad eliminare il provvedimento in toto, gli oppositori avrebbero almeno voluto
rinviarlo di qualche tempo, per poi farlo slittare, causa vacanze, a settembre dove magari qualcosa
sarebbe cambiato45.
Tra i primi interventi, da parte dell'opposizione, scontraria al provvedimento, si può registrare
quello di Giovanni Roberti del MSI che fece subito presente come un commentatore politico (di cui
si riservò il nominativo) nei giorni precedenti, esaminando il provvedimento, aveva addotto almeno
una decina di motivazioni per cui tale proposta risultava incostituzionale. In questo modo,
dubitando della legittimità del disegno di legge, egli invitava il Presidente del Consiglio in primis e
l'Assemblea poi, a prenderne nota onde evitare che, a posteriori, il giudizio degli organi competenti
a valutare la costituzionalità o meno dell'atto, avrebbe inficiato la cagione della discussione. Ma non
contento di questa pregiudiziale “alla fonte” il Roberti attaccò specificando che la Commissione
speciale, incaricata di redigere una relazione in merito all'oggetto, Commissione di cui anch'egli
faceva parte come minoranza, avrebbe violato l'articolo 72 della Costituzione46 e precisamente il
secondo comma47. Al secondo comma, infatti, si specifica che nell'istituire la Commissione speciale
atta ad esaminare il progetto di legge ad essa appositamente affidato, non ci si può avvalere, cosa
che invece venne fatto, del termine abbreviato di trenta giorni per ultimare i lavori a cui è preposta
se non in casi particolari. Per poter usufruire della procedura abbreviata bisognava che il disegno di
legge fosse dichiarato “urgente”, cosa che, a detta del Roberti, non era possibile dato che l'urgenza
era riferibile solo per disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale, per quelli di
delegazione legislativa o di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, di approvazione di
bilanci e consuntivi48 e insistette sul quarto comma del medesimo articolo che specifica quando
fosse possibile ammettere tali deroghe e quando invece si doveva seguire il procedimento ordinario.
Sempre secondo il Roberti, riducendo il tempo dell'esame della procedura si interferiva anche sul
modo dell'esame della procedura stessa che non poteva più essere valutata correttamente, ma lo si
sarebbe fatto frettolosamente, con la conseguenza che quest'ultima sarebbe stata falsata. A parere
del Roberti questa proposta di legge non ricadeva nella possibilità di procedura abbreviata e per
darne giustificazione citò i costituenti che avevano elaborato tale norma e le successive
interpretazioni o alcuni precedenti provvedimenti che, per importanza, avevano richiesto la
procedura d'urgenza. La motivazione di tutto questo scompiglio, sempre secondo lo stesso
parlamentare, si esplicava nel fatto che dai partiti di maggioranza e con l’assenso del Presidente del

45
AC, seduta del 28 luglio 1962 cit., p. 31927 e anche “...violazione alla quale l'Assemblea sta andando incontro per
questa ragione di incomprensibile fretta, di inopportunissima e deprecabile fretta” cfr. Ibid., p. 31938..
46
L'articolo stabilisce a quale procedura le Camere debbano obbligatoriamente riferirsi nella formazione di una legge.
47
AC, seduta del 28 luglio 1962 cit., pp. 31922 sgg.
48
Ibid., p. 31923.
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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

Consiglio, era stata impartita la direttiva che questo disegno di legge avrebbe dovuto essere
approvato entro il 15 di agosto di quell'anno, e dato che le vacanze non erano contemplate nel conto
dei giorni di procedura come sottolineato dall'art. 35 del regolamento della Camera, si sarebbe
slittati oltre il termine previsto. In conclusione Roberti adduceva che solo per questa motivazione, di
chiaro interesse personale e non collettivo, si sarebbe dichiarata l'urgenza del provvedimento. Per
rincarare la dose lo stesso esponente parlamentare aggiunse che non accusava minimamente chi
aveva approvato l'urgenza di volere mettere in piedi una legge-truffa quanto l'intenzione di voler
dare allo Stato un assetto marxista piuttosto che liberista come previsto dalla Costituzione49. Se la
truffa c'era, era quella della procedura di formazione della legge come lo stesso aveva esposto, iter
che avrebbe inficiato l'intera norma bollandola come legge-truffa appunto. E questo, per le parole
dello stesso, si sentiva nell'aria già che i piccoli risparmiatori, azionisti delle società che sarebbero
confluite nell'ente pubblico di nuova costituzione, si sentivano defraudati del loro patrimonio (anche
se, come affermò lo stesso Roberti, non era vero).
All'eccezione di incostituzionalità sollevata dal Roberti replicò direttamente il Presidente della
Camera Giovanni Leone che asserì che tale obiezione avrebbe dovuto essere posta nel momento in
cui era stata chiesta l'urgenza dal Governo o successivamente quando questa era stata accolta dalla
Camera. Lo stesso Leone volle aggiungere che se avesse avuto il minimo sentore che tale misura
fosse stata incostituzionale avrebbe richiamato l'attenzione dell'Assemblea al momento della
richiesta medesima. A complemento, per controbattere l'ultima asserzione di Roberti, affermò che
gli aveva consentito di esporre le sue rimostranze perché utili nella valutazione complessiva della
legge e perché la sua risposta fugava ogni dubbio in merito. Invitava al contempo lo stesso Roberti a
non insistere nella sua eccezione sia perché era tardivamente posta, sia perché avrebbe messo in
dubbio la regolarità di una procedura avviata con il consenso del Presidente della Camera dei
Deputati50. Per fugare ogni perplessità comunque proponeva la sua interpretazione riguardo
l'articolo 72 della Costituzione precedentemente messo in discussione. Secondo Leone, sia nel caso
di procedura assembleare integrale, sia in quella abbreviata, si trattava di prassi “normali” adottabili
indifferentemente, mentre le eccezioni presenti nel quarto comma erano riferite alla procedura
“decentrata” ovvero quella in base alla quale le Commissioni erano investite del potere di
approvazione diretta dei provvedimenti. La Commissione deliberante era vietata nei casi previsti dal
quarto comma dell'articolo ma nulla invece impediva di dichiarare urgenti i disegni di legge
concernenti tali materie. Concludeva dichiarando perciò infondata (oltre che tardiva) tale eccezione
di incostituzionalità propugnata dall'esponente missino.
Ma le eccezioni di incostituzionalità da parte dell'opposizione non erano ancora giunte al termine. Il
deputato Aldo Casalinuovo del Partito Monarchico Popolare reiterò le argomentazioni
precedentemente sostenute dal Roberti a nome del suo gruppo, sostenendo in pieno la tesi enunciata
dall'esponente missino ma anch'egli, in conclusione, si dovette arrendere a quanto esposto in
precedenza da Leone, accettandolo suo malgrado. Casalinuovo però insistette sul fatto che il
provvedimento stesso presentava altri aspetti di illegittimità costituzionale tali da dover richiedere
un riesame della legge seduta stante. Il suo pensiero era chiaro: dato che esisteva una carta
costituzionale questa andava rispettata (o, in extremis, modificata – ingiustamente – per far
corrispondere il disegno di legge alla Costituzione) ma fino a quando le norme che fondavano la
Costituzione prevedevano determinati principi, queste dovevano essere rispettate e chiunque

49
Ibid., p. 31929.
50
Ibid., p. 31931.
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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

cercasse di dilatarle pur di venire rapidamente all'approvazione delle leggi o di non rispettarle nella
formulazione di una legge si sarebbe trovato dalla parte del torto e non avrebbe potuto continuare
con il suo operato, esattamente come, secondo il Casalinuovo, ci si ritrovava in quel momento. Ma
egli fece molto di più. Enumerò una serie quasi infinita di articoli della Costituzione51 contro i quali
andava a scontrarsi il disegno di legge oggetto della discussione. Secondo il Casalinuovo, se la
suddetta legge fosse stata approvata, la Corte costituzionale avrebbe dovuto correggerla con
rigorose censure. Per non essere tacciato di ostruzionismo elencò succintamente quali erano le
ragioni che lo portavano a ritenere incostituzionale tale norma. In principio, perché secondo lo
stesso era il caso più eclatante, citò l'articolo 76 della Costituzione e lo relazionò con l'articolo 138.
L'esponente del Partito Monarchico riteneva che il disegno di legge in discussione non solo
disciplinava e plasmava materia costituzionale ma, andando in contrasto con quest'ultima, assumeva
anche valore di disegno di legge di revisione costituzionale e come tale doveva essere trattato.
Quindi doveva seguire l'iter per la discussione e l'approvazione delle leggi che avevano per oggetto
materia costituzionale come disciplina l'articolo 138 e non era dunque possibile una delegazione
legislativa come stabiliva l'articolo 76. Secondo lo stesso Casalinuovo il disegno di legge sulla
nazionalizzazione quindi, trattando materia costituzionale se non addirittura di revisione
costituzionale, non ammetteva la delega legislativa ai sensi degli articoli 76 e 138. In particolare
egli richiamò l'attenzione sul fatto che in un unico provvedimento erano presenti una parte operante,
normativa e dispositiva, e un'altra parte di delegazione al Governo, ritenendo tale commistione
improponibile e contraria al citato articolo 76 mentre la relazione redatta dalla maggioranza della
Commissione considerava questo ibridismo valido a tutti gli effetti poiché il disegno conteneva tutti
gli elementi che l'articolo 76 della Costituzione esige. Per Casalinuovo questa sola ragione doveva
bastare a convincere i membri della Camera a non andare oltre e quindi a non iniziare neanche la
discussione generale del disegno di legge in oggetto. In conclusione Casalinuovo asseriva
veementemente che il disegno di legge in questione conteneva una serie di incompatibilità con la
Costituzione tale da farlo dichiarare nullo fin dalla sua origine e da rendere impossibile una
qualsivoglia discussione alla Camera, ma restava d'obbligo una battuta d'arresto per procedere, con
calma, seguendo tutti i criteri stabiliti dalla carta costituzionale. Anche i liberali Alpino e
Trombetta, nella loro relazione di minoranza, si erano pronunciati indicando il provvedimento non
conforme all'articolo 76 della Costituzione ma, secondo loro, in quanto i criteri e i principi direttivi
della delega legislativa non erano sufficientemente determinati. Il provvedimento risultava dunque
incostituzionale dato che all'articolo 11 rimandava all'articolo 2 non stabilendo i criteri e i principi
che il Governo avrebbe dovuto adottare. In assemblea fu invece Aldo Bozzi, sempre del Partito
Liberale, a rimarcare quanto espresso dai suoi colleghi di partito. Secondo il Bozzi in questo caso il
Parlamento avrebbe dato al Governo l'investitura per l'esercizio di funzioni legislative sottoposte
però ad alcuni limiti e per la precisione alla definizione degli oggetti, all'indicazione di un tempo
limitato entro il quale la funzione legislativa doveva essere esercitata, alla determinazione di
principi e criteri direttivi. Scorrendo l'articolo 2 del disegno di legge Bozzi citava che se erano
definiti alcuni oggetti quali le norme relative ai poteri del Comitato dei ministri e del Ministro per
l'industria e il commercio, all'organizzazione, alle funzioni e ai trasferimenti il tutto riconducibile al
novello ente in costituzione vi era una parte generica che per la precisione dichiarava “...e a quanto
altro previsto dalla presente legge” che non era definita, lasciando dunque carta bianca al Governo
per legiferare. Mancava dunque l'indicazione di un oggetto oltre ai principi e ai criteri direttivi
51
Esattamente gli articoli 4, 41, 42, 43, 47, 76, 81 e 99 cfr. Ibid., p. 31933.
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Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

rendendo perciò tale disegno di legge incostituzionale. Il Bozzi però non era così categorico
chiedendo l'annullamento del disegno di legge ma si “accontentava” di correggere questo errore
attraverso un semplice emendamento52 per evitare prima di tutto che si creasse un precedente
giuridicamente e politicamente molto pericoloso e per evitare che, a posteriori, la Corte
Costituzionale annullasse la legge in toto53. A replicare quanto esposto fu il socialista Lucio Mario
Luzzatto che diede risalto al fatto che l'articolo 76 della Costituzione stabiliva solamente che vi
potesse essere tranquillamente la delega, bastava che questa fosse a tempo determinato e per oggetti
definiti attraverso la precisazione di principi e criteri direttivi. Ebbene Luzzatto confermò che il
tempo determinato esisteva (180 giorni) e che i criteri e i principi direttivi erano ben specificati in
due articoli (art. 4 e 5) del disegno di legge mentre il “quant'altro” si sarebbe riferito ad altri oggetti
indicati nel seguito del disegno di legge come agli articoli 8 e 13; essendo il “quant'altro” quindi
norma di richiamo e non norma generica come il Bozzi sosteneva54. Proseguendo l'esponente
socialista ribadì che anche sugli altri articoli della Costituzione, in presunto conflitto con il disegno
di legge, citati in precedenza, non sussisteva la ragion d'essere. Sulla disputa se tale legge dovesse
essere per forza elaborata dal Parlamento o potesse essere delegata intervenne a difesa il Ministro di
Grazia e Giustizia Giacinto Bosco che citò l'articolo 77 della Costituzione che stabilisce che la
delegazione ha per scopo di autorizzare il Governo ad emanare decreti che abbiano valore di legge
ordinaria, e per rafforzare il concetto produsse dei precedenti legislativi che riguardavano le riforme
agrarie del 1950 e del 1951 che erano state adottate con legge delegata e la cui legittimità era poi
stata confermata dalla Corte costituzionale. E sempre per rimanere in tema di precedenti legislativi
confermò che vi era stata l'istituzione di enti pubblici con potestà proveniente dallo Stato
direttamente con legge delegata55. Anche in questo caso sentenze della Corte costituzionale ne
avevano dichiarato la legittimità costituzionale. Si riferiva all'ineccepibile verifica dei precedenti
(ed in questo caso “Esistono nel nostro ordinamento giuridico centinaia, per non dire migliaia...”56)
anche per legittimare la questione della legge composta in parte da norme immediatamente
operative e in parte da norme delegate come opposto dal Casalinuovo in precedenza. E sempre ai
precedenti della riforma agraria si rifece per rimarcare, come in quei casi, i criteri ed i principi
furono assai più generici mentre in questo caso, data la materia così delicata, il Governo aveva
provveduto a specificare in maniera precisa e dettagliata i principi e i criteri, più di quanto era stato
fatto in casi precedenti. Inoltre sottolineò come tutte le leggi adottavano il procedimento normale
tranne quelle costituzionali o di revisione costituzionale esplicitamente previste dalla stessa ed
aggiunse che non ogni legge prevista dalla Costituzione fosse legge costituzionale. Concluse
ribadendo quanto già espresso da altri suoi colleghi sul fatto che la costituzionalità del
provvedimento era fuori discussione e che il rispetto della legalità costituzionale costituiva
l'obiettivo finale sia del Parlamento, sia del Governo. A rincarare la dose si aggiunse il Presidente
Leone che, oltre a ricordare che sia lui, sia Bosco fossero giuristi e quindi ferrati in materia,
confermò che per adottare la procedura come prevista dall'articolo 138 occorresse che si legiferasse
su questioni costituzionali o di revisione costituzionale mentre questo non poteva essere applicato
per semplici leggi attuative di istituti previsti dalla Costituzione o di norme in essa contenute.

52
Il gruppo dei liberali puntava principalmente ad una richiesta di sospensiva.
53
AC, seduta del 28 luglio 1962 cit., p. 31939.
54
Ibid., p. 31954.
55
Ibid., p. 31957.
56
Ibid., p. 31957.
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Ma il Casalinuovo proseguì con la sua arringa in quanto (così diceva) si sentiva motivato dal senso
del dovere ad esporre le ulteriori motivazioni che rendevano il disegno di legge incostituzionale e
quindi neppure suscettibile di una valida discussione alla Camera. La seconda ragione che addusse
il rappresentante monarchico prendeva spunto proprio da quell'articolo 43 che la maggior parte dei
membri della Camera aveva ritenuto il punto di partenza da cui trarre il titolo di validità
costituzionale del disegno di legge. Anzi lo stesso allargava il presupposto di non validità
costituzionale anche ai due articoli precedenti e proprio dall'interpretazione congiunta dei tre
articoli (41, 42 e 43) della Costituzione si percepiva come i suddetti costituissero piuttosto cagione
di invalidità. Partendo dall'articolo 41, Casalinuovo, si ricollegava all'articolo 4 sempre della
Costituzione che egli aveva già proceduto ad indicare in precedenza come uno degli articoli in
contrasto con la proposta di legge in atto. Secondo il Casalinuovo il fatto che l'articolo 4 citava, tra
le altre cose, ”La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni
che rendano effettivo questo diritto” mentre all'articolo 41 si sottolinea che “...l'iniziativa economica
privata è libera” e al 42 “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge” era una
dimostrazione di come la proposta di legge avanzata dalla maggioranza andasse in conflitto con la
Costituzione perché se era vero che successivamente all'articolo 43 si prevede che in caso di
interesse generale di servizi pubblici, di fonti di energia o di monopolio la proprietà economica
privata possa essere trasferita allo Stato, questi concetti non potevano essere presunti ma dovevano
essere ampiamente dimostrati e documentati57. Continuando egli asserì che l''iniziativa economica
privata (in questo caso le imprese industriali elettriche) non era svolta in contrasto con l'utilità
sociale e non vi era un forte interesse generale tale da ammettere l'espropriazione. Ma anche se
fosse stato considerato tale, anche in questo caso sembrava evidente come la materia affidata al
disegno di legge fosse costituzionale e come tale andava disciplinata seguendo l'iter esposto
nell'articolo 76 e già in precedenza enunciato. Lo stesso concetto era stato ribadito nella relazione di
minoranza dei liberali Alpino e Trombetta che però si erano focalizzati sulla questione della
mancata dimostrazione della pretesa utilità sociale (ad esempio non si era chiesto un parere al
CNEL) e quindi si necessitava di una valutazione concreta dei motivi di interesse generale e di
utilità sociale che avrebbero portato al provvedimento dato che, sempre ricorrendo agli art. 41, 42 e
43 della costituzione, la proprietà privata era stabilmente riconosciuta e solo eccezionalmente, per
motivi di utilità ed interesse generale, la Costituzione prevedeva una deroga. In aggiunta gli stessi,
sempre in riferimento all'articolo 41, contestavano il fatto che, essendo l'iniziativa economica
privata tutelata dalla Costituzione, era palese il contrasto con l'articolo 12 del disegno di legge che a
partire dal 1° gennaio 1962 impediva alle imprese suscettibili di espropriazione di compiere atti
amministrativi che ne avrebbero diminuito la consistenza patrimoniale e l'efficienza produttiva,
norma tra l'altro dal valore retroattivo e dalla durata indefinita, ovvero fino a quando il
provvedimento non fosse diventato legge o fosse decaduto.
A più riprese tornò all'attacco il Roberti per reiterare con la pregiudiziale di incostituzionalità del
disegno di legge, questa volta rifacendosi anch'egli agli articoli 41 e 42 della Costituzione. Il
Roberti partì dal presupposto che l'intero sistema giuridico-economico italiano si basava sulla
libertà di iniziativa economica e sul riconoscimento e la tutela del principio della proprietà privata
(articoli 41 e 42) e che quindi l'articolo 43 stabiliva un'eccezione ai primi due prevedendo delle
deroghe ai concetti sopra esposti e stabilendo che l'espropriazione e il trasferimento allo Stato di
imprese o categorie di imprese rappresentasse l'anomalia al sistema tassativo dell'ordinamento
57
Ibid., p. 31936.
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costituzionale. Per attuare questa deroga l'articolo 43 richiede una forma speciale, ovvero la stesura
di una legge, mentre in questo caso si sarebbe concretizzata attraverso la forma del decreto
legislativo. E così, mentre l'iter legis classico prevedeva l'esame analitico da parte delle due
Camere, nel secondo caso il Parlamento si doveva limitare a stabilire dei criteri e delle direttive
senza che quest'ultimo poi potesse entrare direttamente in gioco nel processo formativo della legge.
Il rappresentante missino precisò che l'articolo 43, dato il carattere di deroga e di eccezione che
rappresentava, richiedeva specificatamente l'adozione di una “legge” con tutte le procedure ad esso
connesse. Per suffragare la sua tesi citò inoltre una passata sentenza della Corte Costituzionale nella
quale si specificava che la possibilità di emanazione di atti normativi diversi dalla legge vera e
propria fosse ammesso quando l'articolo recitava “in base alla legge” e non specificasse invece
direttamente “la legge”. A conferma di tutto ciò riportò anche i lavori di qualche giuspubblicista
come Ferrari o Fois che in precedenti pubblicazioni avevano analizzato tale questione. Terminava
dunque affermando che per poter applicare questa eccezione (art. 43) non era possibile il ricorso a
forme legislative secondarie ma si necessitava la forma speciale che il costituente aveva stabilito,
ovvero la “legge”. In caso contrario si sarebbe incorsi in situazioni di illegittimità e
incostituzionalità58. In aggiunta egli riportava come, nel caso specifico, ci si ritrovava in una
situazione di sovrapposizione di attività dell'esecutivo che verrebbe a formare il provvedimento e,
successivamente, ad attuarlo violando in tal modo l'articolo 113 che prevede la tutela
giurisdizionale e amministrativa del cittadino, tutela che sarebbe venuto a mancare nel caso si fosse
proceduto con l'attuazione di un decreto legislativo anziché di una normale legge, annullando perciò
il principio della divisione dei poteri. Terminata l'esposizione il Presidente informò che secondo
l'articolo 89 del regolamento due deputati potevano esprimersi a favore e due contro. Toccò quindi
al democristiano Raffaello Russo Spena che volle precisare che se si fosse seguito alla lettera
quando dichiarato dai suoi colleghi Caslinuovo, Roberti e Bozzi si sarebbe dovuta qualificare la
Costituzione come rigida e paralizzante, inadatta a disciplinare qualsiasi riforma economica e
sociale del Paese. Continuando precisò come con la dizione “quanto altro previsto dalla legge” non
si trattava di una delega in bianco data al Governo come sostenuto a gran voce dagli esponenti di
destra, quanto ad evitare un'elencazione di singoli oggetti che già erano previsti in altri articoli di
legge. Non si violava dunque l'articolo 76 della Costituzione. Continuando il deputato Russo Spena
sottolineò che la proposta non era una legge derogatrice, abolitrice o riformatrice della
Costituzione59 e quindi non necessitava di tutto l'iter previsto e reclamato dagli stessi oppositori. In
conclusione bisognava solamente valutare se tale legge era nell'ambito costituzionale. A questo
aggiungeva, per ribattere alle accuse di incostituzionalità propugnate dagli esponenti di destra,
quanto già riportato da Danilo de' Cocci nella sua relazione ovvero che la proposta di legge era
coerente con l'articolo 43 in quanto si trattava di beni pubblici essenziali oltreché di una fonte di
energia. Quindi Russo Spena concluse che le obiezioni proposte erano prive di fondamento e che lui
e il suo gruppo avrebbero votato contro la pregiudiziale. Si sentì a questo punto chiamato in causa
anche Antonino Tripodi del MSI che ripropose l'annoso problema già indicato se l'articolo 76
tollerasse o meno la delega legislativa. Anche secondo il Tripodi ogni qualvolta si ritrovava il
termine “la legge” anziché richiami più incerti (“secondo la legge”, nell'ambito della legge”, etc.) il
legislatore intendeva che la personalità giuridica dello Stato fosse regolata da una legge formale e
non delegata. Dopodiché si perse a ricordare tutti i casi della Costituzione dove si sottolineava il

58
Ibid., p. 31944.
59
Ibid., p. 31946.
67
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termine “la legge”60 richiamando l'attenzione sul fatto che ove si regolavano i rapporti economici e
sociali (art. 41, 42, 43, 44 e 45) si escludeva sempre che si potesse provvedere a legiferare
delegando il Governo ma che si doveva sempre provvedere con una legge ordinaria operata dalle
due Camere. In aggiunta segnalò il fatto che per alcune categorie di leggi era esclusa a priori la
possibilità di delega al potere esecutivo ovvero per tutte quelle leggi di autorizzazione e
approvazione, per evitare la possibilità che vi fosse il controllo di un atto da parte dello stesso
organo che lo aveva compiuto (e come era il caso, secondo lo stesso, della presente legge sulla
nazionalizzazione dell'energia elettrica). Infine per addurre la completa incostituzionalità della
norma in oggetto, il Tripodi valutava come inesistenti i principi e i criteri direttivi che invece
dovevano essere nella stessa presenti, oltreché una dizione sbagliata degli stessi61. Continuava
considerando che l'ente che si sarebbe venuto a creare avrebbe avuto un potere d'imperio sostitutivo
di quello dello Stato e per siffatto motivo soltanto il Parlamento poteva regolarlo stabilendone i
limiti, i termini e le funzioni con una legge ordinaria come tre illustri precedenti ben
esemplificavano62. Ma, sosteneva sempre il missino, questo caso era ancora più aberrante perché ci
sarebbe stato il Parlamento che delegava il Governo che a sua volta delegava un Comitato di
ministri che a sua volta avrebbe delegato l'ente; una delega nella delega della delega. Senza contare
il fatto che egli riteneva più importante ovvero che l'organo rappresentativo, ovvero il Parlamento,
veniva esautorato dalle sue funzioni dall'organo esecutivo, ovvero il Governo e che lo Stato
rinunciava alla sua piena sovranità a vantaggio del Governo che poteva in tal modo gestire
autonomamente la questione. Rinunciando alla sovranità parlamentare, rifiutandosi di ascoltare il
parere del CNEL e trasferendo al Governo la possibilità di fare tutto ciò che gli conveniva, era per il
Tripodi un paradosso, la rinuncia alla sovranità popolare che proprio il neonato governo di centro-
sinistra tanto decantava. A chiosa di tutto ciò ribadiva, una volta di più, che il disegno di legge così
concepito non trovava nella Costituzione la norma che lo potesse suffragare dato che non rispettava
lo spirito e i principi informatori della Costituzione stessa63.
A questo punto fu la volta del socialista Lucio Mario Luzzatto che si espresse anch’egli a nome di
tutto il suo partito. Come incipit volle sottolineare che tutto quanto detto fino ad allora, a parte le
molte divagazioni fuori tema, non presentava alcuna attinenza né con la pregiudiziale né con la
costituzionalità quanto piuttosto era inerente al merito della legge stessa e delle sue disposizioni.
Iniziò col rimarcare che l'articolo 72 ben esposto dal Roberti e altrettanto ben replicato dal
Presidente della Camera non era presente nella pregiudiziale. Poi ribadì il concetto che anche
quanto riguardava l'articolo 138 era fuori discussione in quanto quest'ultimo prevedeva che si
trattasse di leggi di revisione costituzionale mentre la proposta di legge in oggetto attuava sì una
norma costituzionale, ma non aveva rilevanza costituzionale. Con riguardo all'articolo 4, non aveva
nulla a che vedere con la proposta di legge in questione, come l'articolo 47. Per quanto riguardava
invece il punto focale degli articoli 41, 42 e 43 per i quali si dichiarava che non era dimostrata
l'utilità generale il Luzzatto replicava che non occorreva una motivazione ma era sufficiente
l'indicazione degli obiettivi che la norma intendeva seguire e quindi il richiamo ai principi della
Costituzione a cui si atteneva (art. 43). In conclusione egli affermava che lui e il suo gruppo si
sarebbero espressi votando contro la pregiudiziale in quanto la legge in oggetto non solo non era

60
Art. 24, 30, 33, 37, 51, 65, 75 95, 100, 102, 108, 113 e 117.
61
AC, seduta del 28 luglio 1962 cit., p. 31950.
62
Per la precisione la creazione dell'I.N.A.-Casa del 1949, della Cassa per il mezzogiorno del 1950 e dell'ENI nel 1953.
63
AC, seduta del 28 luglio 1962 cit., p. 31952.
68
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

incostituzionale, ma era una legge di attuazione di una norma costituzionale. A questo punto riprese
la parola il Ministro di Grazia e Giustizia Giacinto Bosco che manifestò la sua curiosità nel seguire
la discussione sia perché la questione si rivelava importante, sia perché egli aveva seguito l'iter
formativo del provvedimento dal principio. E fino a quel momento il suo convincimento sulla
costituzionalità del provvedimento era uscito più che rafforzato stando al dibattito che si era svolto
fino ad allora in aula64. E per dimostrare tutto ciò sottolineò come i costituenti avessero affermato
che il settore delle fonti di energia era di sicuro e preminente interesse generale citandolo appunto
nell'articolo 43 e comunque il giudizio ultimo su questo concetto sarebbe in ogni caso toccato al
Parlamento che avrebbe deciso con apposita votazione, ma non era questo il caso in quanto il
legislatore costituente aveva già provveduto a farlo.
Per fugare ogni dubbio ci si rifece comunque alla relazione di maggioranza esposta da De' Cocci
che sottolineava che la Costituzione non imponeva le nazionalizzazioni ma le prevedeva (art. 42),
chiedendo un sacrificio alla proprietà privata a favore dell'interesse generale e nel successivo
articolo 43 specificava bene quali erano i criteri di interesse generale (servizi pubblici essenziali,
fonti di energia, situazione di monopolio) e come lo stesso De' Cocci affermò l'energia elettrica era
una fattore indispensabile e rispondeva ai summenzionati criteri.
Un'altra rimostranza sempre opposta dal duo Alpino-Trombetta rimandava all'articolo 102 della
Costituzione che vieta in modo assoluto l'istituzione di giudici straordinari e speciali rafforzato
dall'articolo 25 che stabilisce che nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito
mentre l'articolo 5 del disegno di legge invece prevedeva l'istituzione di una Commissione
competente per decidere sui ricorsi contro le liquidazioni effettuate dall'ente. Tutte queste eccezioni
di incostituzionalità furono comunque messe ai voti e su un totale di 374 votanti i voti favorevoli
furono 315 e i contrari solamente 59. Di conseguenza la Camera non approvò tali pregiudiziali.

4. La nazionalizzazione e il CNEL
Un'ulteriore mozione posta dalla minoranza fu quella di contestare il fatto che non si fosse
voluto consultare il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, organo competente in materia.
In aula i deputati liberali Aldo Bozzi e Vittorio Emanuele Marzotto presentarono una risoluzione
che prevedeva che, dato l'indirizzo economico, finanziario e sociale del provvedimento in
discussione, si richiedesse un parere del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro a norma
dell'articolo 99 della Costituzione e dell'articolo 8 della legge 5 gennaio 1957 n. 33, da presentare
entro 8 giorni dalla data di richiesta; nel frattempo l'esame del disegno di legge sarebbe stato
sospeso65. La natura della richiesta era chiara: la procedura d'urgenza adottata, la delega ad una
Commissione ristretta, la materia del provvedimento delicata e complessa facevano sì che si
ritenesse d'uopo il consulto di un organo a tale realtà preposto. Il liberale Bozzi aggiunse poi che
questa richiesta nasceva dal fatto che quando, tre mesi prima, il Presidente del Consiglio Fanfani
aveva presentato il nuovo governo, aveva dichiarato che entro un determinato termine avrebbe
proposto al Parlamento la soluzione meglio adatta agli interessi del paese riguardo al settore
elettrico. Ma tale dichiarazione avrebbe celato un accordo sottobanco tra DC e PSI e che la
nazionalizzazione era stata già decisa a priori. La richiesta di un parere al CNEL, organo di
consulenza in materia economica e sociale del Governo e delle Camere, su un provvedimento di
tanta importanza era, secondo il Bozzi, più che necessaria in quanto una valutazione di un

64
Ibid., p. 31955.
65
Ibid., p. 31961.
69
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

organismo a tal guisa investito e al contempo libero rispetto ad ogni rappresentanza politica,
avrebbe reso un'idea più democratica nel governo del Paese. Non essendo poi un organo politico ma
tecnico, il parere del CNEL avrebbe potuto essere accettato in toto o in parte dalla Camera, oppure
rifiutato completamente. Ma era quasi d'obbligo come citò l'esponente liberale riprendendo
l'articolo 8 della legge del 1957 dove il CNEL “…dà i suoi parei su materie che investano indirizzi
generali in campo economico e sociale” e questa legge segnava proprio un indirizzo di politica
economica e sociale; inoltre si sarebbe rassicurato il Paese e l'opinione pubblica consultando
l'organo creato proprio a tal fine. Sempre secondo il Bozzi la mancata audizione da parte del
Governo al CNEL rimandava ad una situazione di quasi regime, dove chi era alla maggioranza
decideva, e ciò che decideva era giusto. Rincarava la dose aggiungendo come questo fosse un
provvedimento inutile e dannoso, una riforma di struttura voluta più per ragioni politiche che non
per il vero progresso del Paese e il benessere della collettività66. Un motivo in più che lo stesso
addusse per consultare il CNEL fu quello che a quel tempo le partecipazioni statali nel settore
elettrico erano notevolissime67, ma dato che i fini indicati nella proposta di legge erano quelli “di
assicurare con minimi costi di gestione una disponibilità di energia adeguata per quantità e prezzo
alle esigenze di un equilibrato sviluppo economico del paese” e che fino ad allora questo non si era
ottenuto (il fatto che fossero proposti indicava che questi fini non erano stati realizzati) nonostante il
massiccio intervento pubblico, voleva dire che c'era qualcosa che non andava e che era d'obbligo un
consulto con il CNEL68 In realtà il deputato liberale non aveva tenuto conto del fatto che la
partecipazione statale nel campo elettrico era comunque solo di un quarto del totale e che comunque
le aziende elettriche pubbliche erano gestite dall'IRI in modo privatistico e quindi al pari di tutte le
altre presenti nel mercato. Ma egli insistette sul punto chiedendosi e chiedendo in aula come si
poteva pensare che un nuovo ente pubblico potesse raggiungere effetti ed obiettivi che comunque
fino ad allora non erano stati conseguiti. L'unica soluzione sarebbe stata quella di rivolgersi ad un
organo non politico che in un clima distaccato esaminasse da un punto di vista tecnico il congegno e
la struttura della proposta. E al contempo ci si sarebbe messi al riparo di fronte alla pubblica
opinione oltre alla propria coscienza. Lo stesso reiterò aggiungendo sì che il Governo aveva il
potere di consultare l'organo e non il dovere, ma che alla fine si trattava di un potere-dovere69 e che
bastava dunque la richiesta di un numero esiguo di deputati (come era) per dar seguito a tale istanza.
E anche se molti suoi colleghi provavano un senso di sfiducia nel CNEL questa era senza
fondamento perché fino ad allora quell'organismo aveva elargito pareri sempre validi e apprezzabili
e comunque non avevano mai intralciato l'attività del Parlamento (si trattava comunque solamente
di un parere che poteva essere accettato o meno). Era una forma di collaborazione indispensabile in
una società democratica da parte di un organo tecnico che aveva sicuramente voce in capitolo. Ma,
continuò, si sarebbe rifiutato il ricorso al CNEL sempre per quelle ragioni della fretta volute dalla
maggioranza e in tal caso la ragione del numero soffocava la logica e il buon senso70. Poi ricordò le
parole del senatore Zoli che nel 1957, inaugurando il CNEL, disse che “il Consiglio nazionale
dell'economia e del lavoro può offrire un luogo d'incontro e di distensione tra le opposte forze
economiche e politiche che ora scuotono violentemente il Paese...anziché di ostacolo e di intralcio

66
Ibid., pp. 31963-31964.
67
A detta del Bozzi, in realtà la proprietà pubblica nel settore ammontava al 25%.
68
AC, seduta del 28 luglio 1962 cit., p. 31964.
69
Ibid., p. 31965.
70
“...violazione alla quale l'Assemblea sta andando incontro per questa ragione di incomprensibile fretta, di
inopportunissima e deprecabile fretta” cfr. Ibid., p. 31938.
70
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

agevolerà l'opera dei maggiori organi costituzionali per l'esercizio delle loro funzioni”. E proseguì
con le citazioni riferendosi al deputato Campilli, presidente del CNEL, che in un suo lavoro
precedente aveva affermato con rammarico che “l'esperienza di questo triennio attesta la vitalità
dell'istituto, pone tuttavia in luce la necessità di una più organica cooperazione del Consiglio con
l'attività legislativa e con la politica economica e sociale.” Il deputato liberale terminò confermando
che non si trattava di una manovra ostruzionistica e ciò era confermato dal fatto che egli aveva
richiesto un termine molto breve (otto giorni) perché lo stesso organo potesse manifestare il suo
parere e che quindi tale domanda di sospensione non sarebbe stata altro che una breve battuta di
arresto utile però a valutare l'opportunità del provvedimento e a tranquillizzare e garantire l'opinione
pubblica.
A favore della sospensiva intervenne in seguito anche il monarchico Olindo Preziosi che iniziò
subito sottolineando che anche lui e il suo gruppo non intendevano affatto fare dell'ostruzionismo
ma intervenivano per l'adempimento di un dovere e per senso di responsabilità71. Lo stesso Preziosi,
al contrario di quanto sostenuto dal Bozzi in precedenza, vedeva nell'atto di consultare il Consiglio
nazionale dell'economia e del lavoro non una semplice convenienza od opportunità ma un vero e
proprio dovere, e il non averlo fatto portava ad un inadempimento costituzionale ai sensi dell'art.
99. E per comprovare il suo pensiero citò quanto era stato scritto dalla Commissione istituita al
momento della costituzione del CNEL In quella relazione si sosteneva che, mentre la Commissione
all'unanimità riteneva che i pareri del CNEL non fossero vincolanti, una parte di quella
Commissione considerava che comunque questi dovessero essere necessariamente richiesti quando
si fosse trattato di materie che comportavano indirizzi di politica economica, finanziaria e sociale.
La non obbligatorietà era dovuta al fatto che non era possibile specificare una delimitazione dei casi
e delle materie in cui sarebbe comunque stato richiesto obbligatoriamente tale parere, rendendo alla
fine il consulto vincolante per ogni provvedimento e comportando in tal modo un intralcio e un
ritardo nell'attività legislativa. In aggiunta paragonò il CNEL ad altri due organi ausiliari, il
Consiglio di Stato e la Corte dei Conti, il cui parere era obbligatorio perché avrebbe fornito consigli
tecnici a chi invece non era esperto in materia ma si assumeva l'onere di legiferare. Aggiunse poi
che la necessità di un parere del CNEL era d'obbligo poiché con questo provvedimento si sarebbe
attuata una rivoluzione economica con grave ripercussioni nell'economia nazionale quando, sempre
a detta del Preziosi, le industrie elettriche private si stavano comportando in modo più che
soddisfacente ed efficiente. A questo punto intervenne il deputato Antonio Giolitti del partito
socialista per fare le sue considerazioni contro la sospensiva. Per prima cosa ribadì che, come
sottolineato dal Preziosi, la Commissione aveva decretato all'unanimità che i pareri del CNEL non
fossero vincolanti mentre solo la minoranza sosteneva il contrario, cosa che avvalorava la tesi che si
trattava solo di una facoltà e non di un dovere. Continuò poi illustrando come la consultazione
facoltativa dell'organo a tal scopo preposto veniva effettuata per valutazioni di convenienza e di
opportunità se vi fossero stati dei dubbi sulla validità dell'indirizzo politico o sugli aspetti tecnici del
provvedimento. Ma di dubbi, almeno secondo il deputato socialista, non ne sussistevano perché era
dal 1945 che la questione era sulla cresta dell'onda, erano state vagliate tutte le possibilità e prese in
considerazione una vasta gamma di soluzioni tecniche e non occorreva un'ulteriore parere tecnico
che avrebbe confermato quanto già vagliato in precedenza. Concluse facendo rilevare che all'inizio
del dibattito il deputato Bozzi riteneva che i trenta giorni assegnati alla Commissione che doveva
valutare tale provvedimento fossero un termine troppo breve e poi, per avere un parere dal CNEL
71
Ibid., p. 31966.
71
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

ne bastavano solamente otto. Un'incongruenza che esplicitava che tale parere era voluto solamente
perché si tentava di far risaltare le rappresentanze di interessi politici che prevalevano in
quell'organo, rappresentanze che erano ben presenti in aula e che si erano espresse fino ad allora72.
Dichiarò quindi che lui e il suo partito richiedevano che la proposta di sospensiva fosse respinta.
Anche il deputato Casalinuovo non si fece mancare l'occasione per dare contro alla maggioranza e
al provvedimento su questa materia. Riferendosi sempre all'articolo 99 e rimarcando che la funzione
ultima del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro era quella di organo di consulenza delle
Camere e del Governo in materia economica per l'appunto. Pur riconoscendo che la consulenza di
tale organo costituisse una facoltà e non un obbligo, egli biasimava il Governo per averlo,
nell'occasione, esautorato ed aggiungeva che il fatto che non ci si fosse avvalsi della sua consulenza
proprio quando invece sarebbe stato il caso di far ricorso allo stesso (come in molti altri casi
precedenti in materia di partecipazioni statali) stridesse con la legittimità del disegno di legge
proposto e si domandava se non fosse proprio perché il parere dello stesso organo sarebbe stato in
contrasto con le norme che lo componevano, com'era di recente avvenuto in un altro caso.
Aggiungendo che la proposta di legge era troppo rilevante perché il Governo non avesse sentito
l'esigenza di avvalersi di tale facoltà e richiedere la consulenza. Ma dato che tale facoltà non era
sola prerogativa del Governo, ma poteva essere esercitata anche dalla Camera egli esortava i suoi
componenti a rifletterci sopra e a richiedere in definitiva la consulenza del Consiglio nazionale
dell'economia e del lavoro in materia. Richiedeva dunque formalmente che la Camera procedesse
nella possibilità di avvalersi di un parere da parte del Consiglio nazionale dell'economia e del
lavoro.
A favore della stessa intervenne anche Raffaele Delfino del MSI che ribadì quanto già espresso dal
Preziosi, ovvero che l'unico motivo per cui non era stata accettata l'obbligatorietà del parere del
CNEL era la difficoltà di poter catalogare con certezza tutti quei provvedimenti che avevano
rilevanza economica e finanziaria. Aggiunse che quando vi fu la discussione della legge istitutiva
del CNEL in aula, il deputato comunista Di Vittorio affermò che, per i problemi dei monopoli e
dello sviluppo industriale, tale organo era indicatissimo per discutere tali questioni. Non pago
aggiunse che, sempre nella stessa discussione, il deputato socialista Lizzadri tacciava di involuzione
la decisione del Governo di rendere facoltativa la consulta dell'organo stesso quando questo era nato
con la convinzione che la richiesta del suo parere fosse obbligatoria “sui progetti di legge che
implicano direttive di politica economica e sociale di carattere generale e sui relativi regolamenti di
esecuzione”73. Proseguì illustrando quali, secondo lui, erano le motivazioni per cui il Governo
aveva deciso di non chiedere il parere. Queste consistevano nel fatto che il Governo riponeva scarsa
fiducia nel CNEL anche se quest'ultimo, quando interpellato dallo stesso Governo (ma anche da
precedenti governi), aveva svolto il suo compito con capacità e diligenza. Ogni volta che gli erano
stati richiesti dei pareri, confermò il Delfino, dimostrò di saperli esprimere. Un altro motivo vedeva
il fatto che per redigere il disegno di legge in questione ci si era avvalsi dei pareri di tecnici “più o
meno privati”74 e di segretari di partito e che i pareri dei tecnici non si erano trovati d'accordo con la
proposta di legge. Concluse dicendo che riteneva legittima, necessaria e responsabile la proposta di
chiedere il parere del CNEL e che lui e il suo partito avrebbero votato a favore della sospensiva.
Prima della votazione intervenne ancora il Ministro dell'industria e del commercio Emilio Colombo

72
Ibid., p. 31969.
73
Ibid., p. 31970.
74
Ibid., p. 31971.
72
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

che, oltre che confermare quanto detto in precedenza dai suoi alleati, sottolineò che la Camera
aveva votato l'urgenza per questo provvedimento e che sospendere la discussione per sentire il
parere del CNEL (che tra l'altro al momento non era disponibile) significava procedere ad una
sospensione sine die75.
Anche su questa proposta di sospensiva si giunse alla votazione, ed anche in questo caso si ebbe un
risultato abbastanza simile alla precedente: su 351 votanti 298 furono i voti contrari e 53 i
favorevoli. La sospensiva non era approvata.

5. Il problema dell'indennizzo degli azionisti


Un ulteriore contrasto che prese forma tra le diverse forze politiche verteva su una materia
molto delicata quale l'indennizzo che si sarebbe dovuto dare agli azionisti, sui metodi di
distribuzione dello stesso e sul quantum.
Se la maggioranza insistette sul fatto che questo era congruo ed adeguato, non era dello stesso
avviso la minoranza.
A sostenere la tesi di quanto quest'ultimo fosse equo si prodigò il Ministro di Grazia e Giustizia
Giacinto Bosco che si riferì ad illustri precedenti e analogie. Ricordò che in passato, per la
nazionalizzazione delle ferrovie, questo era stato differito addirittura in 60 annualità e corrisposto in
titoli di Stato e non in denaro. Rammentò inoltre che sia in Francia, sia in Inghilterra, altri due paesi
in cui erano avvenute le nazionalizzazioni del settore elettrico, le azioni erano state trasformate in
obbligazioni a tasso ridotto. Nella legge sulla riforma agraria invece l'indennizzo era stato
corrisposto in titoli non negoziabili e come, successivamente, numerose sentenze della Corte
costituzionale avessero ritenuto tale indennizzo legittimo76. Anche De' Cocci, per rinforzare la sua
tesi che l'indennizzo era corrisposto a valori di mercato, in breve tempo (dieci anni) e con un
interesse appropriato, si rifece a sentenze della Corte Costituzionale e in particolare alla numero
61/57 della riforma agraria che enunciava “è deferito al legislatore di stabilire l'equa misura, oltre il
modo e il tempo di indennizzo”. Il socialista Roberto Lombardi giunse ad affermare che
l'opposizione “ha così potentemente contribuito ad allarmare ed ingannare l'opinione pubblica e a
fare accusare il Governo di voler rapinare gli azionisti elettrici”77 mentre “se si fosse dovuta fare sul
serio un'analisi di costi basata sulle stime, probabilmente, gli attuali possessori di impianti
riceverebbero un compenso minore di quello che la legge loro assicura basandosi sulla valutazione
del mercato” ma si decise in altro modo “proprio perché non possiamo danneggiare una massa di
risparmiatori e i loro legittimi interessi [e] abbiamo dovuto fare un trattamento, non equo, più che
equo, al di là del lecito, al di là del giusto, anche ai detentori non di piccole azioni, ma di masse
importanti di titoli azionari”78.
L'opposizione provò a ribattere con Casalinuovo che prese in causa l'articolo 47 della Costituzione
in cui si afferma che lo Stato incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme mentre, in questo
caso, oltre a trasformare l'indennizzo di espropriazione da reale e contestuale quale doveva essere in
“speranza futura di simbolica retribuzione”79, poneva una trasformazione coatta del libero azionista
anziché tutelarlo. Più corposa fu la replica dei deputati Alpino e Trombetta che nella loro relazione
elencarono una serie di motivi che, a detta loro, rendevano l'indennizzo incostituzionale o

75
Ibid., p. 31972.
76
Ibid., p. 31956.
77
AC, seduta del 1° agosto 1962 cit., p. 32195.
78
Ibid., pp. 32198-32199.
79
AC, seduta del 28 luglio 1962 cit., p. 31938.
73
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

comunque non valido. La motivazione più sostanziale riguardava il fatto che l'indennizzo da
corrispondersi aveva un valore di molto inferiore al valore venale degli impianti e delle reti di
distribuzione. A garanzia della proprietà privata, come recitava la Costituzione, l'indennizzo
avrebbe dovuto essere congruo, giusto e commisurato al valore dei beni espropriati. Cosa invece
che non era, dato che non rispecchiava il valore degli impianti ed in più non era costante ma si
differenziava a seconda delle tipologie d'impresa trattata. Secondo i due oppositori il giusto prezzo
del bene sarebbe dovuto consistere da quanto sarebbe scaturito da una libera contrattazione di
compravendita cosa che invece non era avvenuta. Inoltre non era neanche determinato perché
doveva essere stabilito dal nuovo ente e quindi in un momento successivo all'esproprio. In aggiunta
sarebbe stata solo una promessa di pagamento dilazionata in dieci anni mentre, come da articoli 42
e 43 della Costituzione, sarebbe dovuto consistere in una somma di denaro contestuale. Infine lo
Stato si sarebbe arricchito illegittimamente in quanto avrebbe assorbito beni reali e avrebbe
corrisposto beni nominali, rischiando anche di far partecipare gli espropriandi ad una svalutazione
monetaria80.
Se lo scontro, tra maggioranza e opposizione, si concentrò sulla questione se il risarcimento fosse
congruo o meno, vi fu un altra questione riguardo l'indennizzo, dibattuta però in precedenza, tra
democristiani (con l'appoggio dei repubblicani) e socialisti. Questi ultimi sostenevano che il
rimborso sarebbe dovuto andare direttamente agli azionisti mentre i primi ritenevano più corretto
effettuarlo direttamente alle società in modo da poterle mantenere in vita. Come già esposto
precedentemente, e come venne poi ribadito in aula81, l'accordo tra DC e PSI prevedeva che la
forma della nuova società avrebbe rispettato la volontà del gruppo capeggiato da Lombardi mentre
il risarcimento sarebbe stato come previsto dai democristiani, anche per la ferma volontà del
governatore della Banca d'Italia Guido Carli, strenuo difensore di questa tesi.
In sede parlamentare il problema non venne fuori dunque, se non per qualche rimostranza da parte
dei più acerrimi antagonisti del potentato economico privato, ovvero i comunisti, e per un lieve
accenno del democristiano Donat-Cattin. I primi sostenevano infatti che “resteranno dunque in vita
le società già elettriche, e saranno stimolate a fusioni e a trasferimenti ad altre attività, si
accorderanno loro straordinarie agevolazioni fiscali. Si tende dunque a favorire un processo di
riassestamento del capitale delle società già elettriche, attraverso una attiva concentrazione di esse
per il tramite delle società finanziarie che già oggi collegano saldamente i diversi gruppi”82 e che
quindi “...uno dei punti deboli di questo provvedimento è proprio costituito dalla spoliazione di 400
mila azionisti popolari...”83. Rincarava la dose Giorgio Napolitano che aggiungeva che in questo
modo “...non si potrebbe impedire ai gruppi colpiti di riorganizzarsi e di tentare di trasferire in altri
settori le disponibilità che loro comunque deriverebbero dall'indennizzo” concludendo “...che la
legge, così come è congegnata, rende più rapida la ripresa dei gruppi colpiti e accresce i mezzi a

80
La nazionalizzazione dell'industria elettrica in Italia cit., p. 205.
81
Così Napolitano “...nella discussione svoltasi in Commissione, l'onorevole Riccardo Lombardi, con molta schiettezza,
ha ricordato che la soluzione che poteva impedire il mantenimento in vita delle società, e cioè la soluzione di un
indennizzo mediante rilascio di obbligazioni ai singoli azionisti, era al primo posto nell'ordine di preferibilità proposto
dal Partito Socialista Italiano, ma che nel corso delle trattative ci si era resi conto che per evitare un grave turbamento
del mercato finanziario sarebbe stato in quel caso necessario ricorrere a un sistema di intervento pubblico assai
avanzato, ed ha aggiunto non esservi le condizioni politiche per far passare una soluzione di questo tipo” (AC, seduta
del 1° agosto 1962 cit., p. 32173).
82
Così Natoli in AC, seduta del 31 luglio 1962 cit., p. 32079.
83
Ibid., p. 32080.
74
Stato e mercato nel dibattito parlamentare in Italia durante la terza legislatura (1958-1963) Marco Mezan

loro disposizione per penetrare in altri settori, col fine non certo di soddisfare esigenze di progresso
generale ma di crearsi nuove posizioni di privilegio e di potere”84.
Anche il democristiano Donat-Cattin osservò pacatamente che “non ho difficoltà a ripetere che
avrei preferito un indennizzo attraverso obbligazioni indicizzate, più rispondente alle esigenze del
piccolo azionista di quanto non sia l'attuale formula, che apre orizzonti di larghe possibilità per i
gruppi che controllano le attuali società; formula che, di conseguenza, è più rispondente alle
esigenze dei grandi azionisti”85.

84
AC, seduta del 1° agosto 1962 cit., p. 32173.
85
AC, seduta del 2 agosto 1962 cit., p. 32296.
75
Appendice documentaria
a) Commissione speciale per l'esame del disegno di legge n. 3906
(dal sito web della Camera dei Deputati)
Commissione speciale per l'esame del disegno di legge n. 3906

Numero dei componenti: 45

PRESIDENTE
TOGNI Giuseppe (DC)

VICEPRESIDENTI
ALPINO Giuseppe (PLI)

LOMBARDI Riccardo (PSI)

SEGRETARI
BERRY Mario (DC)

BUSETTO Franco (PCI)

ALTRI MEMBRI
AMATUCCI Alfredo (DC)

ANDERLINI Luigi (PSI)

BATTISTINI Giulio (DC)

BELOTTI Giuseppe (DC)

BIAGGI Nullo (DC)

CASTAGNO Luigi (PSI)

COLASANTO Domenico (DC)

COMANDINI Federico (PSI)

COSSIGA Francesco (DC)

COVELLI Alfredo (PDI)

CURTI Aurelio (DC)

DAMI Cesare (PCI)


DE’ COCCI Danilo (DC)

DE MARZIO Ernesto (MSI)

DOSI Mario (DC)

FAILLA Virgilio (PCI)

FERRARI AGGRADI Mario (DC)

GALLI Luigi Michele (DC)

GIOLITTI Antonio (PSI)

GRANATI Feliciano (PCI)

GUERRIERI Emanuele (DC)

ISGRO’ Lorenzo (DC)

KUNTZE Federico (PCI)

LONGO Luigi (PCI)

LONGONI Tarcisio (DC)

NAPOLITANO Giorgio (PCI)

NATOLI Aldo (PCI)

ORLANDI Flavio (PSDI)

PASSONI Luigi (PSI)

PICCOLI Flaminio (DC)

RADI Luciano (DC)

RAFFAELLI Leonello (PCI)

REALE Oronzo (GRUPPO MISTO)

ROBERTI Giovanni (MSI)

SCHIRATTI Guglielmo (DC)

SOLIANO Francesco (PCI)


SULOTTO Egidio (PCI)

TROMBETTA Mariano (PLI)

VOLPE Calogero (DC)

ZUGNO Faustino (DC)


b) Disegno di legge n. 3906 del 26 giugno 1962
(dal sito web della Camera dei Deputati)
c) Relazione della commissione speciale sul disegno di legge n. 3906
(Relatore: DE’ COCCI per la maggioranza)
(dal sito web della Camera dei Deputati)
c) Relazione della commissione speciale sul disegno di legge n. 3906
(Relatori: ALPINO e TROMBETTA, di minoranza)
(dal sito web della Camera dei Deputati)
d) Relazione della commissione speciale sul disegno di legge n. 3906
(Relatore: DE’ MARZIO ERNESTO, di minoranza)
(dal sito web della Camera dei Deputati)
PAGINA BIANCA
e) Relazione della commissione speciale sul disegno di legge n. 3906
(Relatori: COVELLI, CASALINUOVO e OLINDO PREZIOSI, di minoranza)
(dal sito web della Camera dei Deputati)
PAGINA BIANCA
f) LEGGE 6 dicembre 1962, n. 1643
(da La nazionalizzazione dell'industria elettrica in Italia. Leggi e decreti di attuazione, Roma 1963)

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