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Le terre/Interventi
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I edizione: novembre 2004


© 2004 Fazi Editore srl
Via Isonzo 42, Roma
Tutti i diritti riservati

Progetto grafico di copertina: Maurizio Ceccato


Copertina: Giovanni Scarfini

ISBN: 88-8112-589-7

www.fazieditore.it
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Andrea Ricci
DOPO IL LIBERISMO
PROPOSTE PER UNA POLITICA ECONOMICA
DI SINISTRA

prefazione di Luciano Gallino


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Prefazione
di Luciano Gallino

Scorrendo l’indice di questo libro, sulle prime verrebbe da dire che sia-
mo dinanzi a tre libri in uno, ovvero a una platea di argomenti oltremodo
ampia. La globalizzazione e il fallimento, nel settembre 2003, della confe-
renza di Cancun promossa dall’Organizzazione Mondiale per il Commer-
cio; il declino dell’Europa e la storia del trattato di Maastricht; la politica
industriale italiana, la riforma del sistema pensionistico e le lotte dei lavo-
ratori di Melfi nella primavera 2004: i temi affrontati nelle pagine che se-
guono sono davvero numerosi quanto in apparenza eterogenei.
Tuttavia, a mano a mano che si procede nella lettura ci si rende conto
che l’autore non si è limitato a fare un giro di ricognizione dei grandi te-
mi riportabili a una politica economica di sinistra. Li ha collegati organi-
camente uno all’altro, mettendone in risalto le complesse interdipenden-
ze. In tal modo diventa evidente, per dire, come la riforma della previ-
denza sociale testè varata dal governo non sarebbe stata altrettanto re-
gressiva se non avesse avuto sullo sfondo il neoliberismo che ispira tutta
la politica economica dell’Unione Europea. Cancun e Melfi sono distan-
ti, e le questioni del commercio internazionale laggiù discusse dai delegati
di oltre cento paesi sono diversissime dai problemi di orario e di paga che
qui hanno mobilitato gli operai Fiat. Ma, a ben vedere, entrambi gli even-
ti possono venire correttamente interpretati – è quanto fa l’autore – come
espressione di quella mondializzazione delle resistenze che è un segno
delle crepe apertesi, a causa delle sue stesse deficienze strutturali, nel pro-
getto globalitario. E, al tempo stesso, come una dimostrazione che, in de-
terminate circostanze, è ridiventato possibile dire no dal basso alle pre-
tese di organizzare il mondo, la produzione e la vita in un unico modo
omogeneo e livellatore, che provengono dall’alto.
Farà discutere, questo libro. Anzitutto, ovviamente – visto il suo sot-
totitolo –, in tutto l’arco della sinistra. È pur vero che alcuni dei temi che
Ricci propone di inserire da capo nell’agenda politica della sinistra han-
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VIII LUCIANO GALLINO

no già fatto in essa la loro ricomparsa, seppure con qualche timidezza, e


perfino in quella del centrosinistra. Di reddito di cittadinanza, per dire
(che Ricci preferisce chiamare «salario di cittadinanza» per sottolinear-
ne il necessario rapporto con il lavoro), oggi parlano anche esponenti del-
la Margherita. Così come si è ricominciato a parlare nel centrosinistra di
distribuzione del reddito. D’altra parte, se si disponessero le proposte
dell’autore su un asse continuo – un’ascissa – indicante un progressivo
aumento dei loro contenuti di sinistra, combinate con le sue critiche al
pensiero e alla pratica neo-liberali in Italia e nella UE, è dato presumere
che la grandezza dei consensi a loro riguardo, misurati a partire dall’alto
sull’ordinata, andrebbe diminuendo nello stesso arco della sinistra.
Essi resterebbero forse numerosi fin che si parla in generale di declino
industriale, poiché da un anno o due questo tema è entrato tra i suoi pun-
ti di attenzione. La curva dei consensi si manterrebbe elevata anche fin-
tanto che si parla, in modo parimenti generico, di equità. Peraltro è pre-
vedibile che la curva s’inclinerebbe verso il basso piuttosto bruscamente
quando l’autore arrivasse a proporre che il declino industriale vada com-
battuto non soltanto con incentivi alle imprese e sostegni alla ricerca, ma
anche per mezzo di nazionalizzazioni; tanto per fare un nome, della Fiat.
O che, per raggiungere un grado più elevato di equità, un mezzo cui si
potrebbe ricorrere sarebbe un aumento di diversi tipi di tasse e una pa-
rallela riduzione dell’evasione, dell’erosione e dell’elusione fiscale, per
complessivi 30-32 miliardi di euro l’anno. Oppure che gran parte dei guai
italiani derivino da tutto l’impianto complessivo del trattato di Maastri-
cht (un tema su cui i giudizi nella prima parte del libro paiono in verità
un po’ trancianti), piuttosto che dai modi in cui la politica italiana af-
frontò o meno i nodi del suo adattamento al nostro paese.
Sbaglierebbe però chi, vedendo che le proposte dell’autore contengo-
no un maggior tasso di contenuti di sinistra via via che si avanza sull’a-
scissa, decidesse di ritirare quasi subito il suo consenso sull’ordinata. Gli
converrebbe prima proseguire la lettura. Anzitutto perché Ricci sa ben
argomentare la maggior parte delle sue proposte. E conosce come orga-
nizzare efficacemente i suoi dati. Dati che provengono da fonti istituzio-
nali politicamente ineccepibili come Bankitalia, Commissione Europea,
Eurostat, ISTAT, OECD. I quali però, quando sono utilizzati con rigore teo-
retico e abilità interpretativa, dicono spesso il contrario di ciò che di so-
lito gli si vuol far esprimere.
Ad esempio, dinanzi alle ricorrenti accuse di parte imprenditoriale e
governativa rivolte al costo del lavoro, che sarebbe eccessivo e costitui-
rebbe quindi uno dei maggiori freni alla competitività dell’economia ita-
liana in Europa, i dati elaborati dall’autore su fonti OECD mostrano un’al-
tra verità. Se i salari sono elevati come si dice, al punto di comprimere gli
investimenti, la loro quota sul PIL dovrebbe essere costante o crescente.
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PREFAZIONE IX

Per contro, i dati qui riportati dicono che tra i secondi anni Settanta e i
primi anni del Duemila la quota dei salari sul valore aggiunto totale del
settore privato ha subito un crollo superiore a quello di ogni altro paese
europeo. In Italia essa perde ben 14,4 punti, scendendo dal 76,6 al 62,2,
mentre la stessa quota perde 10,5 punti percentuali in Francia, solo 4,4 in
Germania, 2,3 in Spagna e ne guadagna addirittura 1,8 in Gran Bretagna.
Sono tutti paesi che si collocano parecchie posizioni più in alto dell’Ita-
lia nelle classifiche internazionali della competitività.
Nella sostanza, gli argomenti ben costruiti, e i dati presentati con rigo-
re e chiarezza, fanno sì che quando le si esamini in dettaglio le proposte
di politica economica contenute in questo libro appaiano assai meno scan-
dalosamente radicali di quanto non farebbe pensare la loro intitolazione.
Se il termine “riforme” non fosse stato svuotato di senso dalle recenti leg-
gi in tema di lavoro e previdenza, come dall’uso che di esso talora fanno
esponenti del centrosinistra, molte delle proposte delineate in questo libro
si potrebbero agevolmente collocare sotto tale nome. Una delle più im-
portanti di esse riguarda la riduzione dell’evasione fiscale. Nel 2004 in Ita-
lia, scrive l’autore, si sono prodotti almeno 220 miliardi di euro di reddi-
to non sottoposto ad alcun prelievo fiscale. È in larga misura il prodotto
dell’economia sommersa, equivalente a nientemeno che il 17 per cento del
PIL. Se si riuscisse a far scendere in cinque anni la quota di evasione fisca-
le di soli 7 punti, avvicinandola così a quella degli altri paesi europei, le en-
trate fiscali potrebbero aumentare di 8 miliardi di euro all’anno. A regime,
questa sola riforma porterebbe quindi alle casse dello Stato e dell’INPS –
e tramite esse, si può ipotizzare, a investimenti in istruzione, ricerca e pro-
tezione sociale – circa 40 miliardi di euro a ogni esercizio.
L’obiettivo è ambizioso, perché le difficoltà sono molte, come dimo-
stra il fallimentare tentativo del governo in carica di far emergere il som-
merso: si attendevano due milioni di domande di regolarizzazione indi-
viduali, ne sono arrivate quattromila. Ed è un obiettivo di sinistra, sia per-
ché il solo porselo significa provare a guidare la politica economica ver-
so una maggiore giustizia sociale, non solo fiscale; sia perché si tratta di
scontentare una quota di elettori orientati prevalentemente verso il cen-
tro, se non addirittura verso destra. Che è una delle ragioni per cui po-
chi governi hanno provato sul serio a contrastare il sommerso.
Dovrebbe però restare evidente che laddove parole come “riforme”, e
magari “socialismo”, tornassero ad avere un senso, proposte del genere
apparirebbero buone candidate per figurare nella piattaforma di una rin-
novata sinistra europea, aggregatrice di domande politiche emergenti in
molteplici forme, quanto risolutamente post terza via. Che qui e ora tali
proposte possano rischiare d’apparire poco realiste, ovvero, detto altri-
menti, politicamente azzardate perfino per talune sensibilità di sinistra, al
punto da non accettare nemmeno di discuterne, dimostrerebbe sempli-
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X LUCIANO GALLINO

cemente quanto la nostra società e il mondo si siano spostati a destra. Re-


sta da sperare, per richiamare una bella metafora cara a Ricci, che il ven-
to stia davvero cambiando. Dando maggior respiro a chi osi sostenere che
la politica economica, anche nei suoi aspetti più tecnici, dovrebbe torna-
re ad essere un elemento di un progetto di società, di convivenza civile, di
persona, alternativo al progetto politico ora globalmente predominante,
piuttosto che un cauto adattamento a quest’ultimo.
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Premessa
di Andrea Ricci

«A volte tornano». Neocentrismo, concertazione


e politica dei due tempi
Se la globalizzazione è in crisi e l’Europa è in declino, allora l’Italia sta
precipitando. Questa è l’immagine che, forse meglio di ogni altra, è in gra-
do di sintetizzare la fase attuale dell’economia italiana. Sulla base di tutti
i principali indicatori di sviluppo economico, l’Italia è la maglia nera al-
l’interno di un’Europa che arranca e indietreggia nella competizione glo-
bale. Negli ultimi tempi l’allarme per il rischio di una decadenza epocale
dell’Italia è cresciuto e ha contagiato anche le sedi ufficiali della politica e
dell’accademia, oltre che l’opinione pubblica. Si moltiplicano gli appelli,
spesso retorici, a uno spirito di unità e di concordia nazionale per far fron-
te comune a questo rischio. Persino la Confindustria, che per prima, no-
nostante gli enormi vantaggi che il padronato ha conseguito dalla linea di
prudenza e di collaborazione sindacale, ha praticato unilateralmente la
rottura delle relazioni industriali, torna oggi a parlare della necessità di ri-
lanciare il metodo della concertazione per far fronte ai problemi del pae-
se, senza peraltro riconoscere per nulla la pesante responsabilità del mon-
do imprenditoriale per quanto è successo all’economia italiana.
Si tenta, in questo modo, di replicare un copione già visto negli anni
Settanta, quando, di fronte a una seria emergenza economica che trovava
nell’inflazione a due cifre il suo elemento di principale acutezza, si chia-
marono tutte le forze politiche e sociali a collaborare per la salvezza del
paese e a rinunciare alle proprie rivendicazioni particolari in nome di un
presunto interesse nazionale. Venne allora praticata e universalmente ac-
cettata la cosiddetta “politica dei due tempi”, in base alla quale prima oc-
correva ripristinare i meccanismi di crescita e stabilizzare il sistema eco-
nomico e poi si sarebbe potuto aprire il capitolo delle necessarie riforme
sociali e strutturali. Sappiamo tutti come andò a finire. La sinistra parla-
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XII ANDREA RICCI

mentare e sindacale accettò questa impostazione e inaugurò una politica


di moderazione salariale e di “responsabilità istituzionale”, che trovò i
suoi momenti più significativi nella svolta dell’EUR, dove la CGIL abban-
donò il terreno della conflittualità sociale in nome della “politica dei red-
diti” e della concertazione, e nei governi di solidarietà nazionale, dove il
Partito Comunista, al suo massimo storico in termini di consenso eletto-
rale, diede per tre anni il suo appoggio esterno a un monocolore demo-
cristiano. Come già era accaduto negli anni Sessanta con i primi esecuti-
vi di centrosinistra, il primo tempo di questa politica realizzò per intero i
suoi obiettivi, ma il secondo tempo, quello delle riforme e dell’equità so-
ciale, non arrivò mai.
Un poderoso processo di ristrutturazione dell’apparato economico del
paese, fondato sul decentramento produttivo e territoriale, mutò il volto
dell’industria italiana e spezzò la forza politica e sindacale del movimen-
to operaio, vincendo le residue resistenze spontanee dei lavoratori e de-
strutturando, anche attraverso la leva di una disoccupazione di massa, le
stesse soggettività individuali e collettive del mondo del lavoro. A segui-
to di questi processi, nel corso degli anni Ottanta, la fase più acuta del-
l’emergenza economica venne superata, l’inflazione fu domata e la società
italiana visse una breve stagione di spensieratezza e di ottimismo, che vi-
sta a posteriori rivela un carattere paradossale. Il prezzo di quella illuso-
ria euforia fu pagato interamente dai lavoratori, in termini di peggiora-
mento delle condizioni di vita e di restringimento dei diritti. Alla fine del
decennio l’avvento su scala mondiale del neoliberismo impose alle classi
dirigenti italiane, politiche e imprenditoriali, di sbarazzarsi di un sistema
di governo divenuto ormai, nelle nuove condizioni di competizione glo-
bale, una palla al piede per i suoi costi e per le sue inefficienze. Si entrò
così nell’era di Maastricht. Vedremo in questo libro che cosa essa abbia
significato e significhi tuttora.

Invertire i tempi. L’equità sociale come presupposto


della crescita economica
Nonostante tutti gli sforzi, le contraddizioni strutturali dell’economia
italiana sono rimaste inalterate, e anzi gli squilibri profondi del modello
di sviluppo economico e sociale del secondo dopoguerra si sono ulte-
riormente aggravati. Essi, infatti, non trovano la loro origine primaria nel-
la sfera della politica istituzionale, ma affondano le loro radici nelle rela-
zioni sociali dominanti e nei caratteri di fondo del capitalismo italiano e
della sua traiettoria di sviluppo. Per questa ragione la “politica dei due
tempi”, prima l’emergenza e poi le riforme, è destinata, oggi come allora,
all’insuccesso. La riattivazione dei meccanismi di crescita economica e di
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PREMESSA XIII

progresso sociale non può avvenire senza incidere in profondità sulle di-
storsioni strutturali della formazione economica e sociale del capitalismo
italiano, sui suoi assetti di classe e sulle sue mentalità consolidate. In altre
parole, occorre invertire i tempi della partita. È giunto il momento di ri-
vendicare prima le riforme e poi, come naturale conseguenza, l’uscita dal-
l’emergenza economica.
In questi anni il termine “riforma” ha subito un radicale processo di
trasformazione semantica. Se prima esso stava a intendere la necessità di
migliorare le condizioni di vita e di partecipazione democratica delle mas-
se popolari e delle classi subalterne, nel corso dell’ultimo decennio le
“riforme” sono state invocate dai poteri costituiti per smantellare diritti e
conquiste sociali. Si parla così di «riforma delle pensioni» per ridurre la
copertura previdenziale dei lavoratori vecchi e nuovi, di «riforma del
mercato del lavoro» per estendere precarietà e insicurezza e così via. Le
classi subalterne sono state così spogliate anche degli strumenti linguisti-
ci attraverso cui esprimere le proprie esigenze e le proprie rivendicazio-
ni. La stessa facoltà di parlare viene, in questo modo, negata alla radice a
chi non ha il potere di decidere nemmeno del significato delle proprie pa-
role. Ciò vuol dire che dobbiamo inventare un nuovo vocabolario della
protesta e della lotta? Non credo che sia questa la giusta soluzione. Dob-
biamo invece smascherare la perversione linguistica dei poteri dominan-
ti e affermare che ridurre pensioni e salari non costituisce una “riforma”
ma, al contrario, una restaurazione delle forme più arcaiche del dominio
di classe, una estensione dei privilegi e delle prerogative per i ricchi e i po-
tenti. Rivendicare una politica di riforme, d’altro canto, non vuol dire in-
vocare una politica “riformista”. Il riformismo è una corrente politica che
ha praticato la moderazione, la gradualità, il compromesso aprioristico
come unico mezzo per realizzare le riforme. Ciò che occorre, nell’Italia di
oggi, è invece una rottura, un salto, una discontinuità rispetto all’evolu-
zione storica dell’organizzazione economica e sociale.
L’attuale risorgenza delle ipotesi neocentriste e concertative, che vivo-
no all’interno di entrambi gli schieramenti politici e che trovano ispira-
zione nei poteri economici e finanziari italiani e internazionali, produce,
quindi, il classico effetto che si manifesta ogniqualvolta si tenta di ripete-
re la storia passata, un effetto farsesco e grottesco. L’Italia di oggi non ha
bisogno di retorica patriottarda né di appelli stantii ai buoni sentimenti.
Sappiamo ormai che questi atteggiamenti hanno un solo fine, quello di
non disturbare il manovratore. Non siamo più negli anni Settanta, quan-
do un potente ciclo di lotte operaie e studentesche, senza pari in Europa,
aveva strappato alle classi dominanti italiane una serie di importanti con-
quiste sociali. Allora si disse, strumentalmente, che la causa dei mali eco-
nomici era da addebitare alla eccessiva rapidità di quelle trasformazioni
sociali e alla conflittualità antagonista che esse portavano con sé. E gli er-
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XIV ANDREA RICCI

rori, di moderazione e non di estremismo, della sinistra di allora avvalo-


rarono queste tesi. Ma oggi? Veniamo da venticinque anni di pace socia-
le, di moderazione sindacale, di egemonia del pensiero unico neoliberista
anche dentro la parte maggioritaria della sinistra politica. È, appunto, far-
sesco e grottesco ripetere, come pappagalli, le stesse cose di trenta anni
fa. Le parti si sono capovolte. Se negli scorsi decenni era la sinistra alter-
nativa ad essere rappresentata e percepita come nostalgica di un passato
ormai definitivamente morto, oggi avviene il contrario. Sentire quelle
stesse forze politiche e sociali, spesso le medesime persone, che da più di
un decennio tengono in mano le redini della politica, dell’economia e del-
la cultura italiana, ripetere i proclami del passato e, addirittura, a volte
scagliare invettive contro chi, in tutti questi lunghi anni, ha dovuto subi-
re la loro arroganza e la loro vuota supponenza, produce un sentimento,
non più di rabbia, ma di pena. Di pena per lo stato del nostro paese e per
la meschinità delle sue classi dirigenti.
In questi ultimi anni, tuttavia, il mondo è cambiato, e anche nel profon-
do della società italiana si avvertono segnali di una nuova stagione di ri-
sveglio intellettuale e morale. La crescita e la diffusione di nuovi movi-
menti sociali, che in forma reticolare pulsano dentro il corpo vivo dei no-
stri territori con una coscienza profonda del legame esistente tra la di-
mensione globale e quella locale dei problemi, ci dicono che qualcosa di
importante sta avvenendo. Il compito ineludibile di queste forze del cam-
biamento in gestazione non è tanto quello di capire ciò che già si sa, aven-
dolo direttamente sperimentato sulla propria pelle, quanto quello di spie-
gare a tutti, anche a coloro che in buona fede sono ancora prigionieri del-
l’utopia negativa del neoliberismo, perché siamo giunti a questo punto e
come è possibile uscirne. È per questo che dobbiamo, seppur con fatica,
conoscere e analizzare i fatti e saperli interpretare, e da questo sforzo ri-
partire per trarre nuove analisi e nuove proposte per cambiare in meglio il
mondo in cui viviamo. A questo scopo è dedicato questo libro.
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Ringraziamenti

Le considerazioni contenute in questo libro scaturiscono dalle innumerevo-


li occasioni di discussione e di confronto che in questi anni ho avuto nel corso
del mio impegno politico. I seminari, i convegni, le riunioni, ma anche le con-
versazioni private e i momenti conviviali che occupano la gran parte dell’atti-
vità politica e di movimento, sono stati per me occasioni di crescita culturale e
di conoscenza viva della realtà, e hanno integrato in modo prezioso i miei stu-
di e le mie letture. Senza questa concreta esperienza un libro come questo non
sarebbe stato nemmeno concepibile. È impossibile in questa sede riconoscere
i debiti intellettuali nei confronti di tutti coloro che mi hanno stimolato e aiu-
tato a trovare idee e ispirazioni. Mi sia consentito ringraziare soltanto alcuni di
coloro con i quali ho avuto maggiori occasioni di lavoro e di confronto sui te-
mi oggetto di questo libro: Paolo Ferrero e Alfonso Gianni. Un ringraziamen-
to va, infine, alla direzione e alla redazione del quotidiano «Liberazione», che,
attraverso una continua e a volte pressante sollecitazione a scrivere commenti
e articoli sulle materie di attualità economica, mi ha dato l’opportunità di ri-
flettere più a lungo su molti degli argomenti presentati in seguito.
Naturalmente, quanto ho scritto ricade interamente sotto la mia responsa-
bilità, esprime le mie personali opinioni e non coinvolge minimamente nessun
altro soggetto, individuale o collettivo.
A.R.
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DOPO IL LIBERISMO
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Agli operai e alle operaie di Melfi


Ai campesinos e alle donne maya di Cancun
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Prologo
Cancun, penisola dello Yucatán, Messico, settembre 2003.
Il vento si è fermato

Cancun è una striscia di terra messicana, lunga e stretta, che separa il


Mar dei Caraibi da una laguna tropicale infestata di alligatori. Fino a
trent’anni fa era solo un minuscolo villaggio di pescatori, con poche ani-
me: una piccola penisola incontaminata, vicina alle rovine delle antiche
città maya e tolteche, segno di un perduto splendore. Oggi è diventata
una delle principali mecche del turismo di massa nordamericano, disse-
minata di una catena ininterrotta di alberghi in stile californiano, che si
estende senza soluzione di continuità per oltre venti chilometri. Tutto si
è trasformato da quando le multinazionali del turismo hanno deciso, a ta-
volino, che aveva caratteristiche perfette per diventare il luogo di vacan-
za di milioni di cittadini americani. E così Cancun è cresciuta, superando
il mezzo milione di abitanti, tutti al servizio, come camerieri, giardinieri,
cuochi, autisti, addetti alle pulizie, del turista occidentale. Tutti campesi-
nos o figli di campesinos, venuti qui da ogni parte del Messico alla ricer-
ca di qualche spicciolo, mancia, o souvenir da vendere per pochi dollari
ai vacanzieri.
È così che trent’anni dopo hanno scelto Cancun per tenere la V con-
ferenza ministeriale del WTO (World Trade Organization), la potentissima
organizzazione mondiale del commercio. Cancun è di nuovo sembrata, a
tavolino, un luogo ideale per concludere un accordo storico che avrebbe
dovuto eliminare tutti gli ultimi ostacoli che ancora si frappongono a una
totale liberalizzazione del commercio internazionale delle merci, dei ser-
vizi e dei beni agricoli e ambientali. Perché proprio Cancun? Innanzitut-
to, Cancun è in Messico, un paese amico degli USA, lontano e costoso da
raggiungere per i giovani del movimento altromondialista che infiamma
l’Europa. D’altra parte, per molti messicani e latinoamericani, arrivare e
soprattutto risiedere anche solo per qualche giorno a Cancun vuol dire
spendere il salario di un intero anno di lavoro. Inoltre, la popolazione di
Cancun, che vive di turismo e di convegni, non vede di buon occhio ma-
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6 DOPO IL LIBERISMO

nifestazioni e proteste. Infine, Cancun può essere facilmente isolata. È


sufficiente bloccare i due ingressi dell’unica strada che percorre la stretta
penisola per l’intera sua lunghezza.
Insomma, tutto è stato calcolato per evitare il ripetersi di quanto ac-
cadde a Seattle, nel novembre di quattro anni prima, quando per la pri-
ma volta l’opinione pubblica mondiale scoprì l’esistenza di un largo mo-
vimento avverso alla globalizzazione neoliberista1. Allora, la mobilitazio-
ne di un eterogeneo e combattivo fronte sociale bloccò la III conferenza
del WTO, che si concluse con un nulla di fatto. Le quattro giornate di lot-
ta popolare, poi denominate la “battaglia di Seattle”, ebbero un’impor-
tanza straordinaria, non solo per l’immaginario collettivo della comunità
mondiale, ma persino per la teoria dei movimenti sociali2. Per la prima
volta nella storia, infatti, la politica globale, incarnata da una istituzione
poco nota al grande pubblico e distante dalla vita quotidiana dei cittadi-
ni, anche se dotata di poteri formidabili come il WTO, divenne oggetto di
mobilitazione di un vasto arcipelago di attori locali e nazionali, organiz-
zati in reti, per lo più informali e decentralizzate, di relazioni e di comu-
nicazioni. Da allora in poi, tutto è cambiato e gli incontri dei potenti del-
la Terra hanno assunto un nuovo volto. Da momenti di propaganda del-
l’ideologia dominante sono diventati luoghi della rappresentazione del
conflitto globale contro il neoliberismo. Nati e pensati come strumenti di
legittimazione della sovranità costituita, amplificati dalle liturgie e dalle
cerimonie a uso e consumo dei mezzi di comunicazione di massa, si sono
trasformati in vettori di aggregazione di un nuovo potere costituente,
quello della comunità dei popoli del mondo. Sono ormai lontani i tempi
in cui, in occasione di tali eventi, le notizie più seguite riguardavano il me-
nu delle cene di lavoro o l’abbigliamento delle consorti dei grandi della
Terra. Da Seattle a Genova a Cancun, l’opinione pubblica mondiale par-
tecipa ora con passione alle voci di critica e di proposta di un altro mon-
do possibile, che si levano, in nome dei diseredati del mondo, nelle stra-
de e nelle piazze che circondano i palazzi ufficiali.
Per riprendere, dopo Seattle, il percorso interrotto della globalizza-
zione neoliberista ci sono voluti gli shock provocati dagli attentati dell’11
settembre e dall’avvio della guerra infinita al terrorismo. Nel novembre
2001 a Doha, nell’arido e militarizzato deserto della penisola arabica, la
IV conferenza del WTO ha avviato il programma finale della globalizza-
zione neoliberista, mettendo nell’agenda negoziale tutto quanto rimane-
va ancora insoluto in tema di liberalizzazioni e di privatizzazioni. Il ter-
mine dei negoziati del round di Doha fu fissato al 31 dicembre 2004.
Cancun doveva essere l’ultima conferenza prima della scadenza. Quella
decisiva.
Alla vigilia del vertice Cancun comincia a cambiare volto. Non sol-
tanto per le reti metalliche che vengono issate, a chilometri e chilometri
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PROLOGO 7

di distanza dai luoghi della conferenza, per sbarrare il passo ai “non ad-
detti ai lavori”. E nemmeno per l’invasione di migliaia di militari e poli-
ziotti messicani, con i loro fucili e i loro mezzi da combattimento, affian-
cati da centinaia di agenti in borghese, europei e statunitensi. Cancun sta
subendo un’altra piccola invasione, questa volta non di turisti. Nelle stra-
de della città cominciano a vedersi autobus sgangherati e polverosi, ben
diversi da quelli lussuosi, con bagno e aria condizionata, al servizio degli
occidentali. Sono pieni di campesinos e di indios, venuti dal Chiapas e dai
luoghi più sperduti del subcontinente messicano, dopo viaggi durati
giorni, percorrendo migliaia di miglia lungo strade impossibili. Hanno
aderito all’appello di Via Campesina, il movimento mondiale che orga-
nizza oltre 70 milioni di braccianti e di piccoli agricoltori di ogni conti-
nente, per contestare il vertice WTO. Possono stare solo pochi giorni, ac-
campati nei parchi della città, perché devono tornare a lavorare i loro mi-
seri campi. E in mezzo a loro ci sono migliaia di altre persone, strane a
vedersi da queste parti. Sono contadini sudcoreani e asiatici e tanti ra-
gazzi e ragazze del movimento europeo e nordamericano, anche loro qui
per la stessa ragione.
Per cinque giorni sulle strade di Cancun è un susseguirsi di manife-
stazioni di massa, di azioni di protesta individuali e di gruppo, di conte-
stazioni, tutte rigorosamente pacifiche. Sono i campesinos a guidare e a
dirigere tutto. Ad andare avanti, a ridosso delle truppe schierate a prote-
zione delle strade che conducono ai palazzi del vertice, sono le donne
maya, vestite dei costumi tradizionali del loro popolo, pieni di colori sgar-
gianti, che, armate di cesoie e di funi, tagliano e tirano giù le reti metalli-
che, i muri eretti per tenere lontano questo popolo dai luoghi del potere.
I pochissimi, per lo più studenti messicani, che erano giunti a Cancun con
intenzioni bellicose, si mettono agli ordini dei dirigenti e dei militanti
contadini e aiutano le donne maya a fare il loro lavoro, passando loro cor-
de e attrezzi. La serena tranquillità di quelle donne, la calma dei loro uo-
mini, abituati da secoli a sopportare i più orribili soprusi senza piegarsi,
covando sempre dentro di sé la certezza di una superiore dignità umana,
contagiano tutti. Anche i militari e la polizia adottano forme di conteni-
mento prudenti e il più possibile pacifiche.
Ma anche dentro i palazzi ovattati dove si svolge la conferenza sono ri-
petuti gli episodi di contestazione e di boicottaggio non violento dei la-
vori, che hanno come protagoniste le tante associazioni e organizzazioni
non governative (ONG), ammesse come osservatrici per sostenere la cau-
sa di un commercio più equo e solidale e per offrire servizi di consulen-
za e di ricerca alle delegazioni dei paesi più poveri. C’è una stretta rela-
zione, concordata preventivamente, tra le azioni del movimento e delle
ONG dentro e fuori il palazzo, in nome di un comune obiettivo: il vertice
deve fallire. D’altra parte, da parecchi mesi in ogni continente il movi-
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8 DOPO IL LIBERISMO

mento si prepara a questo appuntamento, attraverso reti nazionali e cam-


pagne internazionali. Trascorrono così i primi cinque giorni.
È il pomeriggio del 14 settembre 2003, ultimo giorno del vertice WTO.
Nel blindato Palazzo dei Congressi, sede dei lavori, il clima è di silenziosa
attesa, resa più elettrizzante dal caldo tropicale. Regna ancora l’incertezza
sull’esito finale del vertice, si attendono da un momento all’altro notizie.
Improvvisamente si levano grida concitate, si vedono movimenti scompo-
sti da parte di un gruppo di delegati delle ONG, che partecipano come os-
servatori esterni ai lavori. Sono urla di gioia e di vittoria. È appena uscito
dalla sala della riunione l’ambasciatore del Kenya, che ha pronunciato so-
lo quattro parole, ma pesanti come macigni: «Il vertice è fallito». Un con-
sistente gruppo di paesi africani, tra i più poveri del mondo, ha deciso di
ritirare le proprie delegazioni senza concludere nessun accordo, subito se-
guiti da una gran parte dei paesi del Sud del mondo. La V conferenza del
WTO si conclude senza nessun risultato, nemmeno uno straccio di docu-
mento sulle modalità di prosecuzione futura dei negoziati. Il WTO, così co-
me lo si era conosciuto fino ad allora, non esiste più, è sprofondato in uno
stato comatoso da cui ancora nessuno sa se e come potrà uscire.
Immediatamente la notizia esce dal Palazzo dei Congressi e si diffon-
de, come un tam tam, tra le migliaia di manifestanti del movimento che
da cinque giorni assediano il vertice. Campesinos del Chiapas, contadini
sudcoreani, militanti della sinistra latinoamericana e tanti ragazzi e ragaz-
ze del movimento europeo e nordamericano erompono in manifestazioni
di gioia, in canti e balli. L’allegria della vittoria è funestata solo dal ricor-
do di Lee Kyung Hay, l’agricoltore sudcoreano militante di Via Campesi-
na che, nel corso dell’imponente manifestazione di quattro giorni prima,
dopo essersi arrampicato sopra il muro di ferro che sbarrava la strada ver-
so i palazzi del vertice, si era suicidato facendo harakiri alla maniera orien-
tale in segno di protesta contro il WTO. A nulla sono valsi i soccorsi subi-
to prestati da medici e infermieri che manifestavano insieme a lui. Una
morte non necessaria, la perdita di un uomo giusto.
In quei giorni, tutti coloro che erano fisicamente presenti a Cancun o
seguivano gli eventi da lontano, in ogni parte del mondo, via Internet o
attraverso le trasmissioni televisive satellitari autogestite dal movimento,
ebbero la sensazione di un vento che si stava placando. Un vento che da
più di un decennio spirava gelido su tutto il pianeta. Un vento del Nord.
Il vento del neoliberismo.
Ma perché è così importante il fallimento del WTO a Cancun? E che
cosa ha contribuito a questo esito?
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PARTE PRIMA
Per un altro mondo
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1. Il WTO e la globalizzazione neoliberista

1.1. Uso e significato del termine “globalizzazione”

Il termine “globalizzazione” è diventato ormai di uso corrente, tanto


nei discorsi quotidiani quanto nel linguaggio specialistico. Esso viene uti-
lizzato per indicare, in maniera sintetica, le trasformazioni della società
contemporanea. La fortuna di questo termine, come spesso accade, è
strettamente legata alla sua genericità, alle sue qualità allusive ed evocati-
ve, più ancora che esplicative. In ultima analisi, ciò che ne ha determina-
to il successo è proprio la sua ambiguità e la sua poliedricità. Il termine
“globalizzazione” assume, infatti, significati diversi a seconda dei contesti
in cui esso viene utilizzato. Per un lungo periodo ha goduto di una valen-
za semantica esclusivamente positiva, indicando sinteticamente i molte-
plici aspetti del processo di modernizzazione in corso. Successivamente,
con l’emergere delle contraddizioni intrinseche a quei processi, ha assun-
to anche una valenza meno positiva o addirittura negativa e ha comincia-
to ad essere utilizzato anche da coloro che erano critici rispetto agli effet-
ti delle trasformazioni in atto.
Ma cosa si intende in senso generale con il termine “globalizzazione”?
La globalizzazione indica un processo di crescente interdipendenza e in-
terconnessione tra spazi e dimensioni differenti, in modo tale che ciascun
evento che accade in uno di essi produce un effetto immediato e diretto
sull’intero insieme dello spazio globale. Applicato alla realtà economica e
sociale, il termine globalizzazione indica il deperimento delle barriere tra
i differenti spazi nazionali e tra le diverse dimensioni della vita collettiva.
La globalizzazione non è dunque un fenomeno attinente soltanto allo
spazio fisico e geografico, ma anche a quello economico e sociale. Per
questa ragione essa non è equivalente ai termini di “mondializzazione” o
di “internazionalizzazione”. Il termine “globalizzazione” comprende il si-
gnificato di questi due concetti, ma rispetto ad essi è più significativo, ne
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12 DOPO IL LIBERISMO

incorpora altri e diversi. Non è solo il mondo ad essere diventato globa-


le, ma anche la vita sociale. Eventi che in passato rimanevano chiusi, nei
loro effetti, all’interno delle frontiere nazionali, divengono oggi immedia-
tamente eventi globali. È questa, possiamo dire, un’accezione orizzonta-
le, geografica, della globalizzazione. Inoltre, eventi un tempo confinati al-
l’interno di una determinata sfera delle attività umane, influenzano oggi
direttamente l’insieme della vita collettiva, secondo un’accezione vertica-
le, sociale, del termine.
Quali sono allora i meccanismi attraverso cui si esercitano queste uni-
versali interdipendenze e interconnessioni? Affinché una molteplicità di
dinamiche sociali possa essere costituita da una rete di reciproche inter-
dipendenze occorre che vi sia almeno un elemento, un vettore comune a
tutte, in grado di veicolare il cambiamento derivante dal verificarsi di uno
specifico evento in una di esse. Nel mondo contemporaneo questo vetto-
re comune è la merce. La mercificazione integrale degli spazi di vita è il
substrato su cui poggia l’attuale globalizzazione. Fattore decisivo della
trasformazione in merce degli spazi di vita è stata la completa liberalizza-
zione dei mercati che ha contrassegnato gli ultimi due decenni. Anche
qui, liberalizzazione intesa in un duplice senso. In primo luogo, come eli-
minazione dei controlli e delle barriere nazionali ai movimenti delle mer-
ci reali e finanziarie, materiali e immateriali tra i diversi Stati. In secondo
luogo, come eliminazione all’interno delle frontiere nazionali dei poteri di
controllo, di intervento, di regolamentazione pubblici. Questo processo
di liberalizzazione ha determinato da un lato l’unificazione dei mercati
nazionali e la costituzione di mercati globali per le singole merci e, dal-
l’altro, l’unificazione dei mercati delle singole merci in un unico mercato
globale. Poiché la quintessenza della merce, ovvero la sostanza che essa
rappresenta al di là delle apparenze, è il denaro, allora il mercato globa-
le, il mercato dei mercati, altro non che è il mercato finanziario globale,
motore ed esito della globalizzazione.
Tuttavia, non è affatto detto che l’universale interdipendenza e inter-
connessione degli spazi di vita debba avere come unico vettore la merce
e debba quindi derivare obbligatoriamente dalla liberalizzazione dei mer-
cati e dalla mercificazione integrale degli spazi di vita. Attraverso il vet-
tore merce si realizza una interdipendenza e un’interconnessione sponta-
nea, estranea alla coscienza e alla volontà degli uomini, incontrollata e in-
controllabile nelle premesse e negli esiti, cioè in definitiva alienata ed
estraniata. La globalizzazione in atto è dunque un gigantesco meccani-
smo di alienazione e di estraniazione, che sussume sotto di sé tutte le di-
mensioni della vita individuale e collettiva.
L’universale interdipendenza e interconnessione delle sfere di vita po-
trebbe, viceversa, essere anche il prodotto di una scelta collettiva consa-
pevole degli uomini, rispondente direttamente ai loro bisogni, senza la me-
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1. IL WTO E LA GLOBALIZZAZIONE NEOLIBERISTA 13

diazione della cosa, della merce. Il marxiano «uomo universale» è, ad


esempio, il motore e l’esito di un’altra globalizzazione. Per questa ragione,
l’uso del termine “globalizzazione” senza aggettivi, senza ulteriori specifi-
cazioni è poco significante per descrivere il processo storico reale che stia-
mo vivendo. Anzi, l’uso del termine “globalizzazione” per indicare le tra-
sformazioni in corso di realizzazione ha di per sé una valenza apologetica,
in quanto allude ed evoca un percorso di liberazione dai vincoli e dalle ri-
strettezze che fin qui hanno limitato lo sviluppo onnilaterale dell’umanità.
Come correttamente definire allora la globalizzazione odierna? È chia-
ro che questo interrogativo se lo pone oggi solo chi, in qualche modo,
adotta un atteggiamento critico e riflessivo verso i processi reali. La glo-
balizzazione in atto è la realizzazione delle tendenze immanenti nel modo
di produzione capitalistico. Attraverso di essa la colonizzazione capitali-
stica delle sfere di vita supera ogni preesistente barriera, raggiunge la sua
massima espansione e pone il capitalismo come totalità universale. Dun-
que è la globalizzazione capitalistica ad essere oggetto di analisi, di critica
e di lotta.
Proprio perché la globalizzazione in atto sviluppa al loro massimo gra-
do le tendenze generali intrinseche alla natura del modo di produzione ca-
pitalistico, e in quanto tali presenti in nuce in ogni fase del suo sviluppo,
non sono pochi, tra i marxisti, coloro che sostengono che «non c’è niente
di nuovo sotto il sole», che in realtà il capitale è, fin dal suo sorgere, glo-
bale e soltanto accidenti e particolarità storiche gli hanno in passato impe-
dito di realizzarsi pienamente nella sua vera dimensione. Al più saremmo
oggi di fronte a una manifestazione quantitativamente più rilevante di
quelle tendenze generali e immanenti, senza alcuna importanza qualitativa.
D’altra parte, già nel 1848 Marx ed Engels scrivevano nel Manifesto del
Partito Comunista una descrizione pioneristica e, allora, profetica della ten-
denza all’espansione incessante e continua del capitalismo sull’intero pia-
neta. Per questa ragione, è diffuso tra i marxisti un atteggiamento diffi-
dente, quando non apertamente ostile, all’uso del termine “globalizzazio-
ne”. Di questo termine si vede solo il suo carattere ideologico e apologeti-
co o, quando il suo uso è promosso da chi si professa antagonista, si giu-
dica l’uso dell’espressione “globalizzazione capitalistica” come prova di
poco rigore scientifico nell’analisi della realtà, derivante da una scarsa co-
noscenza della teoria marxista o, peggio, da una volontà revisionista ispi-
rata dalla moda o da una insana e pericolosa passione per il “nuovismo”.
La trasposizione politica di questa tesi, che viene compiuta da alcuni
settori della sinistra radicale, riguarda la piena validità ancora oggi del-
le categorie analitiche, e conseguentemente delle strategie politiche, uti-
lizzate un secolo fa dalle correnti rivoluzionarie del marxismo. In parti-
colare, è oggetto di un rinnovato interesse teorico la categoria classica
dell’imperialismo, rielaborata in termini di competizione tra grandi
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14 DOPO IL LIBERISMO

blocchi geopolitici piuttosto che tra singoli Stati nazionali1. L’oggetto


del contendere all’interno della sinistra di alternativa non riguarda la
congruenza e l’esattezza delle analisi compiute dai principali teorici
marxisti dell’inizio del secolo scorso, né la bontà del loro metodo di ri-
cerca, bensì l’applicabilità al capitalismo del XXI secolo delle stesse ca-
tegorie concettuali che ispirarono l’azione politica della sinistra comu-
nista di allora.
È senza dubbio vero che il termine “globalizzazione” è spesso usato a
sproposito anche da chi è contro di essa, per coprire un deficit di analisi
con l’evocazione di un concetto generico e vago. Così come è vero che,
da parte di alcuni critici della globalizzazione non marxisti, si vuole far in-
tendere che saremmo di fronte a un radicale mutamento di sistema, per
cui nell’era della globalizzazione avrebbe perduto di ogni fondamento la
stessa analisi marxiana del modo di produzione capitalistico e dei suoi
meccanismi di dominio e di sfruttamento. Altre volte, più semplicemen-
te, si abusa del termine “globalizzazione” senza connettere ad esso alcun
significato reale, per quanto generico ed evocativo esso possa essere. In
tutti questi casi, il termine “globalizzazione” diventa la foglia di fico, più
o meno grande, dietro cui si nasconde il diabolico meccanismo dell’inte-
grazione all’ideologia dominante.
Tuttavia, se questi rischi reali vengono combattuti considerando la ca-
tegoria della “globalizzazione” come una pura categoria ideologica e poli-
tica, negando ad essa ogni valenza cognitiva sulla realtà, si commette, in
buona fede, un grave errore: quello di chiudersi in una sterile dogmatica
tesa a ricostruire la realtà sulla base del proprio pensiero, fisso, immutabi-
le e perennemente vero. In questo modo, il marxismo degenera in religio-
ne rivelata e diventa, come ogni religione rivelata e non intimamente vis-
suta, un potentissimo strumento di conservazione. In realtà, a quei rischi
reali di integrazione al pensiero dominante insiti nell’uso del termine “glo-
balizzazione” occorre rispondere in maniera diametralmente opposta, co-
struendo con rigore un’analisi critica della globalizzazione capitalistica.
La stessa cosa che fece proprio Lenin con il termine di “imperiali-
smo”, bisogna fare oggi con la categoria della “globalizzazione”. Anche
allora l’impero, come oggi il mondo globalizzato, assumeva per i cantori
della colonizzazione una valenza positiva, evocando i fasti dell’Impero
Romano. Considerare la globalizzazione come un processo materiale e
strutturale di modificazione del sistema di produzione capitalistico non
vuol dire negare le tendenze generali e immanenti alla sua natura, ma vuol
dire individuare le forme specifiche in cui quelle tendenze generali e im-
manenti si manifestano nell’attuale epoca storica. È questo l’unico modo
per fare del marxismo uno strumento vivo di analisi concreta della realtà
e delle sue trasformazioni. E nella fase attuale la globalizzazione del capi-
tale si manifesta nelle forme e attraverso il veicolo del neoliberismo, del-
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1. IL WTO E LA GLOBALIZZAZIONE NEOLIBERISTA 15

la sua ideologia e delle sue politiche. Per tale ragione, la definizione cor-
retta della globalizzazione attuale è quella di globalizzazione neoliberista.

1.2. Realtà e mito della globalizzazione economica

Nella seconda metà del XX secolo il valore delle esportazioni mondia-


li è aumentato di sessanta volte, mentre il valore della produzione mon-
diale è soltanto sestuplicato, a dimostrazione del fatto che il prezzo di una
unità di prodotto contiene in media un ammontare dieci volte maggiore
di costo di input importati2. La quota di gran lunga prevalente di questo
straordinario incremento del commercio internazionale si è concentrata
nell’ultimo decennio del secolo. Infatti, l’aspetto più caratteristico del
processo di globalizzazione economica degli anni Novanta, insieme all’e-
splosione dei mercati finanziari globali, è stato il rapido aumento del
commercio internazionale di beni e servizi. Misurate in termini di valore
monetario nel periodo 1990-2000, a fronte di una crescita economica
mondiale pari in media al 2,3 per cento all’anno, le esportazioni sono pro-
gredite a un tasso triplo del 7 per cento. Più intensa è stata la crescita del-
le esportazioni di manufatti industriali (7,8 per cento) e dei prodotti mi-
nerari (7,7 per cento) rispetto a quelli agricoli (3,2 per cento). Tra le aree
più dinamiche nel commercio internazionale spiccano la Cina, con un in-
cremento dell’export del 14 per cento annuo, l’America Latina (8 per
cento), l’Europa orientale (7 per cento) e il Nord America (6 per cento).
Più indietro l’Unione Europea (4 per cento), il Giappone (3 per cento) e
l’Africa (3 per cento)3.
Se non vi sono dubbi sul fatto che il peso del commercio internazio-
nale nel corso degli anni Novanta abbia raggiunto livelli mai sperimenta-
ti nel secondo dopoguerra, è invece oggetto di dibattito tra gli economi-
sti e gli storici il paragone con l’epoca della prima globalizzazione capi-
talistica, quella del periodo 1870-1913, interrotta dallo scoppio del pri-
mo conflitto mondiale e successivamente dalla grande depressione degli
anni Trenta. Secondo alcuni studiosi quanto accaduto nell’ultimo quin-
dicennio non costituirebbe una novità assoluta nella storia del capitali-
smo perché un analogo fenomeno si sarebbe verificato nel corso del XIX
secolo, in particolare nei decenni precedenti la prima guerra mondiale,
durante i quali la quota in valore delle esportazioni rispetto al PIL rag-
giunse nei paesi sviluppati livelli di poco inferiori a quelli raggiunti nel
corso degli anni Novanta4. Infatti, ad eccezione dell’Europa occidentale,
dove una parte rilevante del commercio internazionale è oggi costituita
da scambi all’interno dell’Unione Europea (UE), nelle altre principali
aree economiche mondiali la quota delle esportazioni sul PIL è di un or-
dine di grandezza paragonabile nei due periodi. Ad esempio, nel 1910 le
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16 DOPO IL LIBERISMO

esportazioni erano il 6 per cento e il 12 per cento rispettivamente negli


USA e nel Giappone contro il 9,6 per cento e l’11,8 per cento del 2003 .
5

Secondo questa tesi, dunque, la novità dell’attuale fase del sistema capi-
talistico risiederebbe principalmente nella globalizzazione finanziaria,
derivante dalla completa liberalizzazione dei movimenti di capitale, piut-
tosto che in quella reale, che avrebbe soltanto recuperato le dimensioni
già conosciute prima della grande crisi del capitalismo della prima metà
del XX secolo.
Per capire se questa rapida espansione del commercio internazionale
corrisponda a effettive modificazioni strutturali subite dal capitalismo nel
corso dell’ultimo ventennio oppure nasconda, come in un grande gioco
dell’oca della storia, un ritorno alle origini dopo la parentesi del “secolo
breve”, è utile partire da un più accurato esame della dimensione empiri-
ca assunta dal fenomeno del commercio internazionale rispetto alla prece-
dente fase di globalizzazione. In questo senso, l’analisi della crescita delle
esportazioni espressa in volume, cioè in quantità fisiche di merci, ci forni-
sce un’immagine più esatta rispetto a quella data dalla loro espressione in
valore, cioè in quantità monetarie, perché consente di depurare le variabi-
li dagli effetti puramente nominali derivanti dalle variazioni delle quota-
zioni relative tra le diverse valute e dei prezzi dei diversi beni commercia-
ti. Infatti, mentre le variazioni in termini di valore possono essere determi-
nate da variazioni delle ragioni di scambio6, la differenza in termini di vo-
lume fisico del commercio internazionale è più indicativa dei mutamenti
reali subiti dai processi di produzione e di consumo su scala globale.
Nel periodo 1950-70 le esportazioni in volume sono cresciute circa il
50 per cento più rapidamente del PIL. Negli anni Ottanta la crescita del-
le esportazioni tende ad accelerare relativamente alla produzione e lo
scarto arriva all’80 per cento. Ma la vera e propria esplosione avviene ne-
gli anni Novanta, quando il tasso di crescita medio annuo delle esporta-
zioni mondiali in volume (6,5 per cento) supera di ben 2,6 volte il tasso
di crescita del PIL (2,5 per cento) e tale differenza si mantiene costante an-
che nei primi tre anni del nuovo secolo, nonostante la crisi economica. Il
grafico 1 illustra visivamente la divaricazione nella rapidità della crescita
in volume delle esportazioni rispetto alla produzione mondiale che si è
avuta negli anni Novanta.
Nell’ultimo quindicennio è dunque accaduto qualcosa di nuovo nel-
l’economia globale, che ha mutato la composizione e l’organizzazione dei
processi produttivi. Ma cosa si può dire rispetto alla fase antecedente al
primo dopoguerra?
Secondo le stime di Paul Bairoch nel corso del XIX secolo l’espansio-
ne del volume del commercio internazionale è progredita a un ritmo dop-
pio (il 4 per cento) rispetto a quello della produzione lorda (il 2 per cen-
to), con «una progressione priva di precedenti storici»7. Tuttavia, analiz-
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1. IL WTO E LA GLOBALIZZAZIONE NEOLIBERISTA 17

Grafico 1. Crescita del prodotto interno lordo mondiale e del volume delle esportazioni
nella seconda metà del XX secolo. (Fonte: nostre elaborazioni su dati WTO 2003, base
1990 = 100).

zando l’area economica più dinamica dell’epoca, l’Europa occidentale e


la Gran Bretagna, si scopre che in nessun periodo economico dell’Otto-
cento, nemmeno nell’epoca aurea del liberismo commerciale europeo de-
gli anni 1842-70, il tasso di crescita della quota di esportazioni sul reddi-
to è stato così elevato come nell’ultimo quindicennio8. Possiamo allora
concludere che è corretto parlare oggi di globalizzazione reale dell’eco-
nomia mondiale molto più di quanto non lo sia stato in tutta la storia pre-
cedente del capitalismo. Inoltre, non va dimenticato che mentre nel cor-
so del XIX secolo in una gran parte dei paesi del Sud del mondo i modi di
produzione prevalenti erano ancora di tipo tradizionale, oggi tutti gli
scambi internazionali sono interni al mercato capitalistico, che è diventa-
to ovunque il modo di produzione e di scambio universalmente domi-
nante9. Infine, un altro fenomeno, non rilevato dalle statistiche del com-
mercio internazionale, che però indica una intensificazione dell’interdi-
pendenza strutturale delle economie ben maggiore di quella passata, è
quello delle vendite sul mercato interno di beni prodotti da filiali di im-
prese estere presenti sul territorio nazionale. Basti pensare che, in base a
una stima della Banca Mondiale, nel 1992 le vendite sui mercati europei
delle filiali delle imprese industriali statunitensi sono ammontate a ben
tre volte il valore delle esportazioni dirette americane in Europa10. Siamo,
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18 DOPO IL LIBERISMO

dunque, di fronte a novità strutturali, di carattere quantitativo e qualita-


tivo, del sistema capitalistico che, pur non cambiandone i meccanismi di
fondo, meritano tuttavia di essere indagate e comprese.
Le ragioni di questo fenomeno sono complesse e attengono alle profon-
de trasformazioni subite dai modelli di organizzazione della produzione,
tanto è vero che nel corso dell’ultimo ventennio è profondamente cam-
biata la composizione delle esportazioni mondiali, con un netto calo degli
scambi di materie prime e una notevole crescita dei manufatti a medio-al-
ta intensità tecnologica11. È stato inoltre calcolato che, alla fine degli anni
Novanta, oltre il 30 per cento del totale delle esportazioni mondiali era co-
stituito da scambi interni alle reti di produzione verticalmente integrata
organizzate dalle grandi imprese multinazionali, le quali, ancor più degli
Stati nazionali, sono state le principali protagoniste dell’espansione degli
scambi internazionali12. Nel 1999 la classifica delle prime cento economie
del mondo, misurate in termini di PIL per gli Stati nazionali e di fatturato
per le imprese, vedeva presenti ben cinquantuno multinazionali e soltan-
to quarantanove paesi e la quota di fatturato delle prime duecento impre-
se transnazionali sul PIL mondiale è arrivata al 27,5 per cento, dal 25 per
cento del 198313.
Questi dati provano che l’interdipendenza reale tra le diverse econo-
mie nazionali è considerevolmente aumentata nel corso dell’ultimo quin-
dicennio, tanto che l’internazionalizzazione dei processi di produzione ha
raggiunto livelli mai sperimentati nel secondo dopoguerra. In altre paro-
le, siamo di fronte a un fenomeno che non è limitato alla sola dimensio-
ne finanziaria, pur così massiccia, ma investe modificazioni strutturali
delle economie reali, attraverso una intensificazione della divisione inter-
nazionale del lavoro senza precedenti storici. In questo senso l’uso del
termine “globalizzazione” per delineare i tratti salienti e innovativi della
fase economica attuale è appropriato, pur nell’ambito di una specifica-
zione che ne evidenzi il legame con il modello neoliberista.
La globalizzazione invece diventa mito quando, come fanno i sosteni-
tori del neoliberismo, viene automaticamente associata a un migliora-
mento generale del benessere economico e sociale della popolazione
mondiale14.
Il mutamento di paradigma produttivo avvenuto negli ultimi venti an-
ni del secolo scorso non sarebbe stato possibile senza la liberalizzazione
e la deregolamentazione dei mercati dei beni e dei servizi, che si è avuta
nel corso degli anni Novanta. Ad esempio, nel periodo 1991-99 la tariffa
media applicata sulle importazioni si è più che dimezzata, passando nei
paesi industriali dall’8,5 per cento al 4 per cento e nei paesi in via di svi-
luppo dal 24,3 per cento all’11,3 per cento15. Nel 1913 la tariffa media nei
paesi occidentali era del 13 per cento, mentre nelle colonie, che com-
prendevano una buona parte del continente africano e di quello asiatico,
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1. IL WTO E LA GLOBALIZZAZIONE NEOLIBERISTA 19

prevalevano ancora rapporti di monopolio commerciale con la madrepa-


tria16. La riduzione delle barriere tariffarie non è tuttavia correlata con
una maggiore crescita economica, cioè non è statisticamente provato che
i paesi che hanno sperimentato i maggiori tassi di sviluppo siano proprio
quelli che hanno liberalizzato di più i propri mercati, anzi spesso è acca-
duto il contrario, come nel caso dell’India e della Cina17. Si può quindi af-
fermare che i maggiori benefici della liberalizzazione commerciale globa-
le, in termini di tassi di crescita economica, li hanno ottenuti proprio quei
paesi che hanno resistito di più all’apertura dei propri mercati interni, a
dispetto di quanto sostiene la dottrina neoliberista del commercio inter-
nazionale18. D’altra parte, la stessa cosa era accaduta nella precedente fa-
se di espansione del commercio internazionale del XIX secolo19.
Questa smentita dei benefici effetti delle ricette neoliberiste trova con-
ferma nell’analisi delle conseguenze economiche e sociali globali dello
straordinario incremento degli scambi internazionali, rese ancora più
acute dal persistere di andamenti demografici divergenti nell’economia
mondiale20. Nel corso degli anni Novanta in ben cinquantadue paesi, pre-
valentemente dell’Africa subsahariana e dell’Europa orientale, il reddito
pro capite è diminuito rispetto al decennio precedente. La disuguaglian-
za nella distribuzione del reddito è drammaticamente cresciuta sia tra
paesi che all’interno degli stessi. Infatti, per quanto riguarda la distribu-
zione territoriale, nel 1980 il reddito mediano21 del 10 per cento dei pae-
si più ricchi (ultimo decile) era 76,8 volte quello del 10 per cento dei pae-
si più poveri (primo decile); nel 1999 esso è diventato 121,8 volte. Stessa
cosa è accaduta nella distribuzione sociale: se nel 1980 il reddito dell’ul-
timo decile più ricco della popolazione mondiale era 78,9 volte quello del
primo decile più povero, nel 1999 era diventato maggiore per ben 117,7
volte. La divaricazione tra ricchi e poveri è cresciuta non solo all’interno
dei paesi meno sviluppati, ma ovunque. Ad esempio, all’interno degli USA
il reddito dell’1 per cento più ricco era pari a dieci volte quello mediano
nel 1979 e a ventitré volte nel 1997. L’indice di Gini22, che misura il gra-
do di concentrazione nella distribuzione del reddito, mostra un conside-
revole aumento della disuguaglianza nel corso degli anni Novanta23. Si-
gnificativo il fatto che questo processo di concentrazione del reddito è av-
venuto in tutti i gruppi di paesi, indipendentemente dal loro livello di svi-
luppo. Insomma, la crescita della disuguaglianza nell’ultimo quindicen-
nio è un fenomeno omogeneo su scala planetaria.
A seguito di queste dinamiche, all’inizio del nuovo secolo ancora un
miliardo e centocinquanta milioni di persone, pari al 22,7 per cento del-
la popolazione mondiale, vivono in condizioni di povertà assoluta con
meno di un dollaro al giorno e il loro reddito complessivo è addirittura
diciotto volte inferiore al fatturato delle prime duecento imprese tran-
snazionali che occupano appena lo 0,78 per cento della forza lavoro
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20 DOPO IL LIBERISMO

mondiale. Sono invece ben due miliardi e ottocento milioni, pari al 56 per
cento degli abitanti del pianeta, gli esseri umani che riescono a malapena
a sopravvivere con meno di due dollari al giorno. Più di ottocento milio-
ni di persone soffrono la fame. L’1 per cento più ricco della popolazione
mondiale ha un reddito pari a quello del 57 per cento più povero; il 10
per cento dei cittadini più ricchi degli USA, cioè venticinque milioni di
persone, guadagnano e consumano come il 43 per cento della popolazio-
ne mondiale, cioè come due miliardi di persone. Nel 1999 i profitti delle
dieci più grandi imprese transnazionali sono stati superiori al reddito na-
zionale di un intero grande paese come il Bangladesh, che conta 140 mi-
lioni di abitanti, e quelli delle duecento più grandi imprese multinazionali
sono cresciuti a un incredibile tasso medio annuo del 21,3 per cento nel
periodo 1983-99.
Queste cifre mostrano in maniera inequivocabile che il modello di svi-
luppo neoliberista degli anni Novanta, fondato sulla globalizzazione de-
gli scambi commerciali e finanziari internazionali e sulla privatizzazione
di ogni residuo spazio pubblico, ha accentuato, a volte in maniera dram-
matica, le disparità economiche e sociali mondiali. Chi ne ha tratto mag-
giore vantaggio, in termini di giro d’affari e di guadagni, sono state le
nuove imprese transnazionali globali, che ormai operano indifferente-
mente su tutti e cinque i continenti del pianeta. Il principale veicolo su
scala globale di queste politiche è stato il WTO, la nuova istituzione inter-
nazionale della globalizzazione, superiore per efficacia e poteri alle stori-
che istituzioni di Bretton Woods (Fondo Monetario Internazionale e
Banca Mondiale).

1.3. Che cosa è il WTO

Il WTO nasce nel 1995, a seguito degli accordi di Marrakech dell’anno


precedente, che conclusero il lungo ciclo negoziale dell’Uruguay Round,
iniziato nel 198624. L’istituzione di un’organizzazione mondiale del com-
mercio era stata già prevista negli accordi di Bretton Woods del 1944, at-
traverso la creazione dell’ITO (International Trade Organization), che do-
veva affiancare il Fondo Monetario e la Banca Mondiale. L’istituzione del-
l’ITO venne formalmente sancita a conclusione della conferenza delle Na-
zioni Unite sul Commercio e l’Occupazione che si svolse a Cuba nel mar-
zo del 1948 con la firma da parte di 53 paesi della Carta dell’Avana25. In
coerenza con i principi di politica economica allora dominanti, gli obietti-
vi fondamentali dell’ITO, stabiliti dalla Carta costitutiva dell’Avana, non
erano quelli della promozione della liberalizzazione commerciale, ma di
assicurare un ordinato funzionamento del commercio mondiale, compati-
bile e funzionale alle esigenze di sviluppo economico, di piena occupazio-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 21

1. IL WTO E LA GLOBALIZZAZIONE NEOLIBERISTA 21

ne e di rispetto dei diritti sociali all’interno degli Stati membri. A tal fine
veniva riconosciuto il diritto dei singoli Stati ad adottare forme di prote-
zionismo commerciale quando queste fossero finalizzate allo sviluppo eco-
nomico interno e al mantenimento della sicurezza e dell’indipendenza
economica nazionale. Soltanto le pratiche di protezionismo competitivo,
miranti ad acquisire impropri vantaggi commerciali a danno degli altri
paesi, come era accaduto negli anni Trenta, erano vietate dalla Carta isti-
tutiva della nuova organizzazione. Particolarmente significativo era il rico-
noscimento, contenuto nell’articolo 7 della Carta, che «le inique condi-
zioni di lavoro, in particolare nei settori esportatori, creano difficoltà al
commercio internazionale» e che pertanto la loro presenza era motivo di
sanzione legale nell’ambito delle procedure di risoluzione delle controver-
sie commerciali vigenti all’interno della nuova organizzazione. Allo stesso
modo veniva riconosciuto agli Stati membri il diritto di adottare ogni ap-
propriata misura, compresa quella dell’espropriazione, per impedire agli
investimenti diretti esteri di minare il benessere e l’autonomia economica
nazionale. A tal fine, la competenza legale e giurisdizionale dell’ITO non
era limitata soltanto all’attività dei governi e delle istituzioni pubbliche, ma
si estendeva anche alle imprese private operanti sui mercati internaziona-
li, che erano ugualmente soggette al rispetto dei principi sanciti dalla Car-
ta dell’Avana. Come si può osservare, i principi ispiratori dell’ITO erano
ben lontani da quelli propugnati dalla classica teoria liberista del com-
mercio internazionale e trovavano fondamento nell’idea che il funziona-
mento dei mercati dovesse essere regolato politicamente sulla base delle
necessità di sviluppo economico e di benessere sociale.
Nel 1949, tuttavia, il Congresso degli USA respinse la ratifica del trat-
tato costitutivo della nuova organizzazione, giudicandolo troppo lontano
dai principi del libero mercato e nocivo per gli interessi nazionali. L’anno
successivo il presidente Truman annunciò il ritiro unilaterale degli USA
dall’ITO, che quindi non riuscì mai a vedere la luce e rimase allo stadio di
un brillante progetto di governance economica mondiale. Fu così che per
quasi mezzo secolo il sistema commerciale internazionale fu basato sul
GATT (General Agreement on Tariffs and Trade, o Accordo Generale sul-
le Tariffe e il Commercio), avente sede a Ginevra, con competenze mol-
to limitate, relative solo al commercio di manufatti industriali, e con scar-
si poteri sanzionatori, per la cui applicazione era richiesta l’unanimità dei
consensi degli Stati membri. Questa situazione durò fino alla fine degli
anni Ottanta quando, in epoca di neoliberismo trionfante, proprio colo-
ro che si erano sempre opposti alla creazione di una istituzione mondia-
le del commercio, gli USA, proposero la creazione del WTO per persegui-
re finalità esattamente opposte a quelle che ispirarono nell’immediato do-
poguerra il progetto dell’ITO.
A differenza del suo predecessore, il GATT, l’ambito di attività del WTO
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22 DOPO IL LIBERISMO

non è limitato al commercio internazionale dei beni industriali, ma si


estende su un amplissimo spettro di questioni, come ad esempio il com-
mercio internazionale dei prodotti agricoli e dei servizi, gli investimenti
reali e finanziari all’estero, i diritti di proprietà intellettuale, la regolamen-
tazione interna dei mercati, la normativa sugli appalti pubblici, l’immi-
grazione e l’ambiente. È stato giustamente notato a questo proposito che
l’accordo di Marrakech «poneva in una volta sola, e con rare eccezioni,
tutti i campi dell’attività umana sotto il condizionamento immediato o
programmato della nuova organizzazione»26. Una di queste rare eccezio-
ni, esplicitamente esclusa dall’ambito del WTO, riguarda la regolamenta-
zione internazionale dei diritti del lavoro, a dimostrazione della distorsio-
ne strutturale di questa organizzazione verso l’approccio neoliberista27.
Attraverso questa inedita estensione qualitativa, il WTO interferisce pesan-
temente con le scelte di politica economica degli Stati membri e rappre-
senta una forte limitazione alla sovranità nazionale, poiché la sua giurisdi-
zione si estende anche al comportamento dei governi regionali e locali, ol-
tre che di qualsiasi altro ente pubblico o avente funzione pubblica.
Scopo istituzionale dichiarato del WTO è promuovere la liberalizzazio-
ne dei mercati e di rendere la circolazione delle merci e dei servizi la più
libera possibile. In un suo opuscolo ufficiale di presentazione28, il WTO si
autodefinisce come un’organizzazione che, pur essendo composta da Sta-
ti, ha come obiettivo quello di «aiutare le imprese produttrici di beni e
servizi a condurre i loro affari», rendendone lo svolgimento più sicuro e
profittevole, al riparo da cambiamenti improvvisi dei quadri politici na-
zionali. Infatti, è da sottolineare come tutti gli accordi WTO contengano
una forte distorsione a favore delle politiche neoliberiste: mentre è sem-
pre possibile per un paese estendere unilateralmente la liberalizzazione
dei mercati interni, non è possibile al contrario recedere da liberalizza-
zioni già realizzate. In questo ultimo caso, il paese sarebbe costretto a su-
bire pesanti sanzioni e obbligato a onerose compensazioni. In virtù di
questa clausola, gli accordi WTO assumono un carattere praticamente ir-
reversibile per ciascun paese preso individualmente. D’altra parte, lo stes-
so atto di adesione al WTO impegna i paesi membri a perseguire una «li-
beralizzazione progressiva e crescente». In sintesi, il WTO è una possente
organizzazione di protezione globale dei diritti della proprietà privata in
tutto il pianeta, quale mai si era vista nella secolare storia del capitalismo.
Il WTO, a differenza delle altre istituzioni economiche internazionali, è
dotato dei poteri di coercizione necessari a garantire il rispetto degli ac-
cordi che ricadono sotto la sua giurisdizione. Questi poteri derivano al
WTO dal meccanismo di risoluzione delle dispute commerciali. Esso fun-
ge, infatti, da tribunale commerciale internazionale. I suoi verdetti, emes-
si attraverso una procedura poco trasparente e sottratta a qualsiasi con-
trollo da parte dell’opinione pubblica, sono insindacabili e immediata-
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1. IL WTO E LA GLOBALIZZAZIONE NEOLIBERISTA 23

mente operativi e, in caso di condanna, consistono nell’applicazione di


sanzioni economiche e commerciali nei confronti del paese imputato, an-
che al di fuori del settore oggetto di controversia. Dato il mandato istitu-
zionale del WTO e l’ideologia neoliberista di cui è intriso, l’interpretazione
degli accordi, in sede di disputa legale, è sempre improntata esclusiva-
mente alla salvaguardia degli interessi commerciali, senza alcuna conside-
razione verso altri aspetti, di natura sociale o ambientale, che possono es-
sere implicati nella questione29. Il WTO, contrariamente al precedente
GATT, non fa parte del sistema delle Nazioni Unite e quindi non è vinco-
lato al rispetto dei principi sanciti nelle Dichiarazioni e nelle Carte sui di-
ritti umani e sociali dell’ONU. L’ambito giuridico in cui si colloca il WTO
non è quello del diritto internazionale, ma quello del diritto commerciale.
Anche in questa limitata ottica è, comunque, presente un’asimmetria:
il ricorso al WTO come sede giudiziale è consentito agli Stati membri solo
per tutelare gli interessi di imprese nazionali che operano su un mercato
estero, mentre, viceversa, non sono ammessi ricorsi per tutelare diritti
collettivi o individuali danneggiati dall’attività di un’impresa estera che
opera sul territorio nazionale. In questo modo, di fronte al tribunale com-
merciale internazionale, le imprese ricoprono sempre, sia pure attraverso
la mediazione del proprio Stato, il ruolo di accusatori, mentre la parte
dell’imputato è esclusiva prerogativa degli Stati e delle comunità locali.
Altra caratteristica chiave dell’architettura giuridica del WTO è costitui-
ta dall’obbligo da parte dei paesi membri di un’adesione integrale a tutti i
trattati che ricadono all’interno del suo sistema. Non sono ammesse ade-
sioni parziali a singoli trattati, come accadeva nel regime di regolazione
commerciale precedente. O tutto o niente, o la completa integrazione nel-
l’economia globalizzata oppure il completo isolamento: è questa la sola
scelta che rimane a ogni paese dopo l’istituzione del WTO. È chiaro che
mentre i paesi più forti (come le potenze occidentali, ma anche come la Ci-
na, che fa parte del WTO dal dicembre 2001, o come la Russia, che è in pro-
cinto di aderire) potrebbero comunque giocare un ruolo economico in-
ternazionale anche senza la loro partecipazione, per i paesi più fragili dal
punto di vista politico ed economico, come la quasi totalità dei paesi del
Sud del mondo, non esiste alcuna possibilità di scelta di tipo individuale:
la loro adesione al WTO, con tutti gli obblighi da essa derivanti, è un im-
perativo forzoso di sopravvivenza economica. Non è un caso che anche
Cuba, un paese certamente non allineato alla dominante ideologia neoli-
berista, abbia aderito al WTO appena pochi mesi dopo la sua costituzione.
Inoltre, l’adesione al WTO e la liberalizzazione unilaterale del commer-
cio estero sono diventate condizioni obbligate per accedere agli interven-
ti di sostegno finanziario del FMI e della Banca Mondiale. Nel corso degli
ultimi anni è cresciuta infatti, anche attraverso la costituzione di formali
sedi di consultazione e di confronto reciproco, la collaborazione tra le
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24 DOPO IL LIBERISMO

principali organizzazioni economiche internazionali. Si è così instaurata,


tra queste, una sorta di divisione del lavoro per la produzione della glo-
balizzazione neoliberista: FMI e Banca Mondiale, attraverso i programmi
di aggiustamento strutturale e le condizioni di prestito, svolgono il lavo-
ro preliminare di preparazione delle condizioni interne della liberalizza-
zione, mentre il WTO gestisce l’inserimento e il mantenimento del paese
nell’economia globalizzata30. In questo modo, dagli originari 76 paesi ade-
renti al WTO fin dalla sua costituzione, avvenuta il primo gennaio 1995, si
è passati, in soli otto anni, agli attuali 145 membri effettivi e ai supple-
mentari trentuno paesi con lo stato di osservatori, di cui ventotto con pro-
cedura di adesione in corso. Ormai, l’adesione degli Stati al WTO è quan-
titativamente comparabile a quella dell’ONU. Esaminando la lista dei pae-
si aderenti od osservatori, si può notare una curiosa coincidenza: sono as-
senti i paesi a cui gli USA e i loro alleati hanno fatto guerra nell’ultimo de-
cennio (Iraq, Afghanistan, Repubblica di Iugoslavia, che solo recente-
mente è stata ammessa in veste di osservatore come Serbia e Montenegro)
e i paesi compresi nella lista dei cosiddetti “Stati canaglia” (Iran, Siria, Li-
bia, Corea del Nord) stilata dall’amministrazione Bush. Ma si può real-
mente credere che si tratti solo di una curiosa coincidenza?
Formalmente, il WTO è l’istituzione internazionale più democratica fra
quelle esistenti, in quanto vige il principio «uno Stato un voto», a diffe-
renza del FMI e della Banca Mondiale, dove il peso dei paesi è commisu-
rato alla loro forza economica, e dell’ONU, dove i membri permanenti del
Consiglio di Sicurezza hanno il diritto di veto. In realtà, le cose stanno
esattamente all’opposto. In primo luogo, negli ormai dieci anni di esisten-
za del WTO, in nessuna occasione le decisioni sono state assunte con il me-
todo della votazione, ma sempre attraverso il consenso unanime di tutti i
paesi membri. In secondo luogo, la risoluzione delle dispute è affidata a
un organo tecnico, composto da sette “esperti”, sempre scelti tra econo-
misti di rigorosa fede neoliberista o tra ex dirigenti di imprese multinazio-
nali, ed è così sottratta alla potestà degli Stati membri. Il giudizio di que-
sto collegio tecnico può essere invalidato solo attraverso il consenso una-
nime di tutti i paesi membri, compresi i ricorrenti e i chiamati in giudizio,
una fattispecie praticamente impossibile da verificarsi. In terzo luogo, le
decisioni vengono in realtà prese al di fuori delle istanze ufficiali, in sedi
informali a cui partecipano solo gli Stati politicamente ed economicamen-
te più forti – primi fra tutti quelli del cosiddetto “Quadrilatero” (USA, UE,
Canada e Giappone) – e successivamente imposte, attraverso una siste-
matica opera di persuasione forzosa, all’insieme degli Stati membri. Spes-
so a questi decisivi incontri informali, le cosiddette “green rooms”, pren-
dono parte con propri rappresentanti anche le imprese multinazionali, che
partecipano in vari altri modi all’attività del WTO, sia finanziandone i mee-
ting, come è avvenuto per le riunioni preparatorie della conferenza di
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1. IL WTO E LA GLOBALIZZAZIONE NEOLIBERISTA 25

Seattle, sia collocando propri uomini dentro le delegazioni ufficiali nazio-


nali. La ICC, la Camera di Commercio Internazionale, che raccoglie oltre
7.000 multinazionali, stanca della finzione della partecipazione informale,
ha da tempo inoltrato richiesta di ammissione ufficiale e autonoma ai la-
vori del WTO. Non di rado capita che i principali funzionari del WTO pro-
vengano da imprese multinazionali o vengano assunti da queste alla sca-
denza del loro incarico31. Tutto questo accade mentre molti paesi del Sud
del mondo, mancando delle risorse finanziarie, umane, tecniche e profes-
sionali per seguire costantemente l’attività del WTO, vengono esclusi dalle
decisive fasi istruttorie e preliminari alle conferenze plenarie. Infine, l’in-
tera attività del WTO si svolge in un clima di segretezza e di opacità, senza
una sostanziale e puntuale informazione esterna e senza un reale confron-
to con la società civile e con l’opinione pubblica. Tutti questi elementi ren-
dono il WTO un’organizzazione essenzialmente ademocratica, priva di tra-
sparenza e chiusa a ogni rapporto con i cittadini32. Perfino le assemblee
parlamentari degli Stati membri sono sostanzialmente escluse da ogni fun-
zione decisionale e spesso anche da ogni informazione, tanto che alla vigi-
lia del vertice di Cancun una commissione congiunta di deputati europei
e nazionali dei paesi dell’UE ha ritenuto necessario approvare un docu-
mento formale per protestare contro la carente o nulla informazione sui
negoziati fornita alle stesse assemblee elettive33.
Tra i circa sessanta accordi ricadenti sotto la giurisdizione del WTO,
quelli certamente più gravidi di implicazioni, oltre all’originario GATT sui
prodotti industriali, sono il TRIPS (Agreement on Trade Related Aspects
of Intellectual Property Rights) sulla proprietà intellettuale, il GATS (Ge-
neral Agreement on Trade in Services) sui servizi e l’AoA (Agreement of
Agriculture) sull’agricoltura. Attraverso di essi il processo di mercifica-
zione di ogni spazio sociale e di vita e l’appropriazione privata di ogni be-
ne naturale ha trovato una cornice giuridica globale.
Il TRIPS34 è un accordo che, già nella sua attuale stesura, garantisce in
pieno i diritti e i privilegi monopolistici delle grandi imprese multinazio-
nali, attraverso la tutela assoluta dei brevetti, dei marchi e dei copyright.
Quando sarà pienamente implementato da tutti i paesi, alla fine cioè del
periodo transitorio di graduale applicazione garantito a quelli che, nella
terminologia delle istituzioni internazionali, sono definiti Paesi in Via di
Sviluppo (PVS), il cosiddetto capitale immateriale godrà di tutele finora
ancora sconosciute allo stesso capitale materiale. Attraverso il TRIPS la
brevettazione degli elementi di base della vita umana, animale e vegetale
diventano fonti di rendita monopolistica per le multinazionali della bio-
tecnologia e dell’agroalimentare, spogliando popoli e comunità indigene
delle risorse della loro terra, usate da millenni. Grazie ad esso, ciò che
può essere brevettato non è più, come accadeva prima, soltanto l’organi-
smo naturale modificato dall’intervento umano o la tecnica usata a tale
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26 DOPO IL LIBERISMO

scopo, ma l’informazione genetica che esso contiene in natura e tutti i


possibili utilizzi35. Con il TRIPS, dunque, la conoscenza scientifica e la frui-
zione artistica diventano patrimonio monopolistico di pochi.
Ma l’aspetto forse più ignobile dell’accordo sui diritti di proprietà in-
tellettuale è che, in virtù di esso, milioni di persone nel Sud del mondo so-
no condannate alla morte per malattia a causa degli alti prezzi dei farmaci
imposti da “BigPharma”, il cartello delle multinazionali farmaceutiche.
Inoltre, poiché i paesi poveri non costituiscono un mercato profittevole, la
ricerca e la produzione dei farmaci è rivolta, pressoché esclusivamente, al-
la cura delle malattie tipiche dei paesi ricchi, mentre le malattie epidemi-
che e tropicali, che flagellano interi popoli del Sud del mondo e che sa-
rebbero facilmente debellabili, sono del tutto ignorate dal cartello farma-
ceutico. A dimostrazione di ciò sta il dato sul consumo di farmaci: i paesi
ricchi (USA, Europa e Giappone) nel 1999 hanno consumato farmaci per
263 miliardi di dollari, mentre i paesi del Sud del mondo (Asia, Africa e
America Latina), dove vivono oltre i tre quarti della popolazione mondia-
le, hanno potuto spendere soltanto 46,5 miliardi di dollari per le medici-
ne necessarie alla loro salute36. Nell’era della globalizzazione neoliberista il
diritto alla vita è diventato anch’esso una merce di lusso, un prodotto di
nicchia, come l’alta moda o le Ferrari, riservato ai consumatori opulenti.
Dopo una lunga e difficile controversia, durante la conferenza di Doha
nel 2001, è stato infine ammesso che l’accordo sui diritti di proprietà in-
tellettuale non è applicabile alle misure intraprese per proteggere la salu-
te pubblica. In questo modo, si è riconosciuta la possibilità per i PVS di
produrre in proprio i farmaci essenziali per la vita umana senza essere co-
stretti a pagare gli esosi diritti alle multinazionali detentrici del brevetto
farmaceutico. È rimasto tuttavia aperto il problema per quei paesi pove-
ri che non hanno le risorse industriali e tecnologiche per produrre in pro-
prio i farmaci salvavita. L’accordo TRIPS, infatti, prevede la possibilità di
produrre i farmaci al di fuori del brevetto esclusivamente per l’offerta in-
terna e non per l’esportazione. Il negoziato in corso avrebbe dovuto ga-
rantire le modalità di accesso ai farmaci per tutti i paesi, compresi quelli
che non dispongono di una industria farmaceutica nazionale. Il negozia-
to doveva concludersi entro il 31 dicembre 2002, affinché non fosse con-
siderato parte integrante del round negoziale complessivo e non diven-
tasse merce di scambio con altre questioni relative alla regolamentazione
del commercio internazionale, ma l’opposizione degli USA ha impedito di
accogliere le proposte formulate dal presidente del Consiglio TRIPS, che
prevedevano deroghe ai brevetti per tutti i medicinali necessari per cura-
re ogni forma di malattia epidemica, per i principi attivi di base dei far-
maci e per la strumentazione diagnostica necessaria al loro uso. Gli USA
sostengono che le eccezioni ai diritti di proprietà intellettuale devono es-
sere previste solo per la distribuzione dei farmaci direttamente necessari
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1. IL WTO E LA GLOBALIZZAZIONE NEOLIBERISTA 27

per alcune, ben definite e circoscritte, gravi malattie (AIDS, malaria e tu-
bercolosi), mentre in tutti gli altri, numerosi casi di emergenza sanitaria il
“sacro” diritto di proprietà (intellettuale) dovrebbe essere onorato37. In
attesa che questa controversia si risolva, milioni di persone, soprattutto
bambini, continuano a morire come mosche a causa di malattie che ri-
chiederebbero banali cure mediche e farmaceutiche.
A differenza degli altri accordi, il TRIPS ha un effetto opposto a quello
propugnato dall’ideologia neoliberista. Esso garantisce legalmente il mo-
nopolio, sopprimendo il libero mercato, a dimostrazione che la dottrina
della libera concorrenza è solo un orpello ideologico, la cui validità viene
prontamente negata ogniqualvolta si pone in contrasto con gli interessi
del capitale dominante38.
L’accordo sull’agricoltura è stato la causa principale del fallimento del-
la conferenza di Cancun e di esso ci occuperemo in seguito. Vale invece
la pena, per capire il ruolo che si vuole assegnare al WTO come agente
principale della globalizzazione neoliberista, soffermarsi sull’accordo
GATS, che è quello che desta più preoccupazioni per l’effetto potenzial-
mente devastante che avrebbe sulle popolazioni dell’intero pianeta.

1.4. Il GATS e lo spettro della privatizzazione globale

Il GATS venne firmato nel 1994, al termine dei negoziati dell’Uruguay


Round (1986-1994), ed è entrato in vigore dal primo gennaio 199539. Pri-
ma di allora non esisteva alcun accordo di questa natura. Il GATS concer-
ne la definizione di regole multilaterali per il commercio internazionale dei
servizi e il suo rispetto da parte di tutti i paesi aderenti è soggetto al siste-
ma di procedure per la risoluzione delle controversie del WTO, di cui è par-
te integrante.
L’importanza economica del GATS è enorme. Il settore dei servizi pro-
duce dal 50 per cento al 70 per cento del prodotto interno lordo di ogni
paese. In appena otto anni il commercio internazionale di servizi è più
che raddoppiato in valore: le esportazioni di servizi sono passate dai 531
miliardi di euro del 1992 ai 1.194 miliardi di euro del 2000. Il mercato è
dominato dalle grandi imprese multinazionali statunitensi, europee e, in
minor misura, giapponesi: gli USA hanno una quota del 25 per cento sul-
le esportazioni mondiali, l’Unione Europea del 24,3 per cento, il Giap-
pone del 6,2 per cento, il Canada del 3,4 per cento, la Cina del 2,7 per
cento e il resto del mondo del 38,3 per cento.
Il GATS si applica a tutti i servizi in ogni settore, ad eccezione di quelli
forniti «nell’esercizio dell’autorità governativa». Questa ultima definizio-
ne si presta, per la sua genericità, a interpretazioni contrastanti e perico-
lose per la gran parte dei servizi pubblici. Infatti, l’articolo I comma 3 del
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28 DOPO IL LIBERISMO

testo dell’accordo specifica cosa debba intendersi per «servizi offerti nel-
l’esercizio dell’autorità governativa». Essi sono quei servizi che non sono
offerti «né su una base commerciale, né in competizione con uno o più
fornitori di servizi». Così come formulata la definizione è ambigua e sog-
getta a potenziali contenziosi in sede WTO. Gli unici servizi pubblici cer-
tamente esenti sono quelli forniti esclusivamente dalle pubbliche autorità,
in regime di monopolio legale, a titolo gratuito. I settori che rientrano in
questa categoria, al di là di ogni ragionevole dubbio, sono veramente po-
chi (ad esempio, difesa nazionale o emissione di moneta legale). Persino
l’amministrazione della giustizia non è interamente compresa in questa
definizione, esistendo in molti paesi alcune funzioni giudiziarie (ad esem-
pio, quelle notarili o quelle di arbitrato) gestite da soggetti privati. Allo
stesso modo l’ordine e la sicurezza pubblica non rientrano interamente
nella definizione in senso stretto, data la sempre più diffusa pratica di ap-
paltare a imprese private funzioni di protezione e di sorveglianza carce-
raria. Certamente non vi rientrano né la fornitura dei beni essenziali (ac-
qua40, energia, trasporti, gas) che, anche qualora fossero sotto l’esclusivo
monopolio pubblico, prevedono in genere il pagamento di un corrispet-
tivo da parte dell’utente, né tanto meno la fornitura dei servizi sociali
(sanità, istruzione, assistenza e previdenza) che, oltre a prevedere in ge-
nere una forma di compartecipazione al costo da parte dell’utente
(ticket, tasse d’iscrizione, contributi sociali), sono in genere forniti anche
da imprese private. In altre parole, il GATS potenzialmente riguarda la
quasi totalità dei servizi, compresi i servizi pubblici essenziali, i servizi
educativi e quelli sociali. La conferma in questo senso viene da un do-
cumento ufficiale del Segretariato del WTO, stilato sulla base di consul-
tazioni con tutti i paesi membri, in cui sono elencati tutti i settori di ser-
vizi oggetto di negoziazione in ambito GATS. I settori elencati, a loro vol-
ta suddivisi in sottosettori, sono dodici: business, comunicazioni, edili-
zia e ingegneria, distribuzione, istruzione, ambiente, finanza, sanità e
servizi sociali, turismo, cultura sport e intrattenimento, trasporti, altri
servizi. Non manca proprio nulla.
L’osservanza delle regole del GATS non riguarda solo le autorità nazio-
nali, ma anche le autorità regionali e locali, quindi tutti gli enti pubblici, e
perfino i soggetti giuridici privati che agiscono sulla base di funzioni loro
conferite da enti pubblici (ad esempio, ordini professionali, scuole, uni-
versità, ospedali, ecc.) operanti all’interno del territorio dello Stato ade-
rente. Ciascun paese membro deve dichiarare in un’apposita lista quali
settori di servizi intende liberalizzare e sottoporre integralmente alle rego-
le del GATS e in quali tempi deve essere resa effettiva la liberalizzazione.
Il GATS stabilisce due tipologie di regole. La prima tipologia è costitui-
ta dalle regole di carattere orizzontale che si applicano a tutti i settori di
servizi coperti dall’accordo. La seconda è costituita dalle regole di carat-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 29

1. IL WTO E LA GLOBALIZZAZIONE NEOLIBERISTA 29

tere verticale che si applicano solo a quei settori di servizi inseriti, in se-
guito agli esiti della contrattazione multilaterale in sede WTO, dai governi
nazionali in un’apposita lista. La più importante regola orizzontale è quel-
la relativa al trattamento di “nazione più favorita” e stabilisce l’obbligo di
trattare ogni fornitore di servizi allo stesso modo, impedendo qualsiasi for-
ma di privilegio o discriminazione tra i differenti fornitori esteri. In que-
sto modo si vieta ai governi nazionali di stabilire relazioni preferenziali con
determinati partner commerciali per ragioni politiche o sociali.
Le due più importanti regole verticali sono quelle relative all’accesso
al mercato e al trattamento nazionale. Le regole per l’accesso al mercato
stabiliscono l’eliminazione di ogni vincolo quantitativo e di ogni barriera
all’entrata per la fornitura di servizi, siano essi erogati da imprese nazio-
nali o estere. Gli Stati, in altre parole, non possono impedire a nessuna
impresa, nazionale o estera, pubblica o privata, di entrare nel mercato e
di competere a parità di condizioni con le imprese già operanti nel setto-
re. Le regole sul trattamento nazionale stabiliscono che le imprese stra-
niere debbono essere trattate esattamente come le imprese nazionali pub-
bliche e private. Sono così vietate differenziazioni fiscali, erogazione di
sussidi, incentivi e aiuti alle imprese nazionali e regolamentazione nor-
mativa specifica sugli investimenti esteri. Ovviamente, i settori sottoposti
alle regole verticali non possono vedere alcuna forma di monopolio pub-
blico, o anche solo di offerta pubblica di servizi in forme e con criteri di-
versi da quelli privatistici e aziendalistici in regime di libera concorrenza.
I settori di servizi che ricadono sotto le regole di carattere verticale risul-
tano così completamente privatizzati e deregolamentati, e operano in re-
gime di totale liberalizzazione interna e internazionale.
L’accordo GATS del 1994 ha avuto finora un impatto reale limitato per-
ché i servizi inclusi dai singoli paesi membri nella lista di quelli compresi
integralmente all’interno dell’accordo sono stati pochi. La sua importan-
za tuttavia non va sottovalutata perché essa consiste: a) nella definizione,
per la prima volta, di un quadro di regole, di vincoli e di procedure mul-
tilaterali per il commercio internazionale dei servizi; b) nell’estensione dei
poteri e delle competenze del WTO al commercio dei servizi, oltre che a
quello dei beni; c) nella fissazione di un formale impegno da parte dei
paesi membri di estendere progressivamente la liberalizzazione al mag-
gior numero di settori possibile; d) nell’obbligo da parte dei paesi mem-
bri di iniziare, entro sette anni dalla firma dell’accordo, un nuovo round
negoziale per l’estensione del GATS.
In conformità a quest’ultima condizione, nel febbraio 2000 è stata as-
sunta la decisione in sede WTO di iniziare un secondo round negoziale per
l’allargamento del GATS, denominato GATS 2000. Nella conferenza WTO di
Doha del 2001 sono state definite le modalità, le procedure e gli scopi del
round GATS 2000, secondo il seguente calendario: entro giugno 2002 ogni
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30 DOPO IL LIBERISMO

paese membro sarebbe stato tenuto ad avanzare le richieste di liberaliz-


zazione dei settori di servizi a cui fosse interessato nei confronti di ciascun
altro paese. Quindi, entro marzo 2003, ogni paese avrebbe risposto alle
richieste pervenute e avanzato le proprie offerte di liberalizzazione del
mercato interno. Successivamente sarebbero partite le negoziazioni mul-
tilaterali, con chiusura obbligatoria entro il primo gennaio 2005. Il verti-
ce WTO di Cancun costituiva quindi un appuntamento decisivo per la de-
finizione dei nuovi accordi GATS.
I negoziati tuttora in corso, inoltre, non riguardano solo l’ampliamen-
to dei settori sottoposti alle regole del GATS ma anche la modifica di al-
cuni aspetti essenziali della disciplina attuale. Particolarmente rilevanti
sono quelli relativi alla modifica dell’articolo VI.4 sulla regolazione nazio-
nale (requisiti di qualità ambientale o sociale, concessioni e licenze, stan-
dard tecnici). Le proposte in discussione intendono sottoporre all’arbi-
trato del WTO ogni regolazione nazionale in ogni settore dei servizi, com-
presi quelli non liberalizzati. Se queste proposte fossero accettate, vi sa-
rebbe un’inversione dell’onere della prova: sarebbe cioè lo Stato a dover
provare che la nuova regolazione del settore è stata improntata al princi-
pio della «minore restrizione possibile al commercio» o in altri termini
che «nessun irragionevole o sproporzionato peso, limitante la liberalizza-
zione del mercato, è stato posto sulle imprese nazionali o estere». In tal
modo si verificherebbe un forte restringimento della sovranità democra-
tica, poiché nessuna normativa a tutela del benessere sociale o dell’am-
biente sarebbe teoricamente sottratta al giudizio insindacabile del WTO,
che verrebbe ad assumere un’importanza paragonabile a quella di una
corte suprema internazionale, competente in merito all’intero spettro dei
diritti sociali in ogni angolo del pianeta. È questa la forma scelta dalle
multinazionali, in accordo con i governi neoliberisti, per recuperare e
rendere vigenti, in altra forma, i contenuti dell’Accordo Multinazionale
sugli Investimenti esteri (MAI, Multinational Agreement on Investment),
precedentemente fallito a seguito della forte mobilitazione contraria del-
l’opinione pubblica internazionale41.
Si capisce allora con quanta preoccupazione le forze antiliberiste del
mondo intero guardassero all’appuntamento di Cancun. L’esito della V con-
ferenza del WTO poteva rappresentare il momento della definitiva e irrever-
sibile vittoria globale del neoliberismo o l’inizio della sua sconfitta.

1.5. Il fallimento di Cancun

Con il fallimento della conferenza di Seattle nel 1999, il processo di


globalizzazione sembrava aver incontrato resistenze politiche e sociali ta-
li da rimetterne in discussione le fondamenta. Da un lato, la crescente in-
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1. IL WTO E LA GLOBALIZZAZIONE NEOLIBERISTA 31

soddisfazione dei paesi del Sud del mondo per gli effetti negativi sullo svi-
luppo delle loro economie derivanti dall’applicazione degli accordi del-
l’Uruguay Round e dalla nascita del WTO si era tradotta nella resistenza
ad aprire una nuova fase di negoziati per estendere la liberalizzazione dei
mercati e nella rivendicazione di una revisione di alcuni aspetti essenzia-
li degli accordi vigenti42. Dall’altro lato, l’emergere di un forte movimen-
to di protesta contro la globalizzazione aveva prodotto una crisi di con-
senso e di legittimazione nei confronti delle istituzioni economiche inter-
nazionali e delle politiche neoliberiste. Questi due fattori, i contrasti in-
terstatuali e la mobilitazione popolare, si erano reciprocamente rafforza-
ti e avevano prodotto l’insuccesso del WTO a Seattle. Dopo Seattle, i ne-
goziati in seno al WTO si erano paralizzati e lo stesso ruolo di questa isti-
tuzione sembrava destinato a un sensibile ridimensionamento. In questa
situazione, la stessa strategia della globalizzazione neoliberista, così come
era stata perseguita e realizzata nel corso degli anni Novanta, era entrata
in crisi. Prima dell’11 settembre 2001 sembrava prevedibile, a causa de-
gli irrisolti contrasti interstatuali, che anche la IV conferenza di Doha, pre-
vista a novembre 2001, si concludesse con un nulla di fatto e confermas-
se la crisi profonda del WTO43.
Il clima di guerra permanente e infinita, imposto dagli USA dopo gli at-
tentati terroristici al World Trade Center, ha cambiato radicalmente la si-
tuazione. Al vertice di Doha è stato così lanciato un nuovo e molto am-
bizioso round negoziale, paragonabile per estensione, rilevanza e moda-
lità all’Uruguay Round, pietra miliare della globalizzazione neoliberista44.
Il Doha Round, come l’Uruguay Round, ha assunto la forma capestro del
singolo negoziato complessivo. Le questioni principali oggetto del nego-
ziato sono: l’ulteriore liberalizzazione dell’agricoltura, l’estensione del
GATS finalizzata alla privatizzazione dei beni comuni (in primo luogo ac-
qua ed energia), dei servizi sociali e dell’istruzione, la completa elimina-
zione delle barriere commerciali per i prodotti industriali con l’estensio-
ne del GATT, la liberalizzazione integrale degli investimenti reali e finan-
ziari all’estero, la definizione di standard globali per la libera concorren-
za sui mercati interni, la definizione di normative globali per lo svolgi-
mento degli appalti pubblici a garanzia della libera concorrenza, l’acces-
so ai farmaci per i paesi poveri, l’individuazione dei trattamenti speciali e
differenziati per i PVS45, le relazioni tra accordi ambientali e accordi com-
merciali. Come si può vedere, lo spettro di questioni oggetto di negozia-
to copre l’intera struttura del modello della globalizzazione neoliberista.
La questione su cui è formalmente saltata la conferenza di Cancun è
stata quella concernente le cosiddette Singapore issues, cioè i negoziati in
materia di investimenti all’estero, politiche interne per la libera concor-
renza, trasparenza negli appalti pubblici e agevolazioni per il commercio
lanciati nella I conferenza WTO svoltasi a Singapore nel dicembre 199646.
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32 DOPO IL LIBERISMO

Queste nuove tematiche commerciali sono particolarmente sostenute dai


paesi industrializzati e temute da quelli più poveri, perché sono finalizza-
te al rafforzamento dei diritti delle imprese transnazionali che operano sul
mercato globale. Secondo i paesi industrializzati, attraverso un accordo
sulle Singapore issues si dovrebbe istituire un quadro normativo mondiale
per tutelare ogni forma di investimento all’estero (reale e finanziario, di
breve e di lungo termine), per garantire la permanenza di mercati interni
in regime di libera concorrenza e per imporre ai governi di approvvigio-
narsi unicamente sul libero mercato mondiale senza perseguire finalità
economiche strutturali attraverso gli appalti pubblici di beni e servizi. Con
le Singapore issues il campo d’azione del WTO si allargherebbe ben oltre la
sfera del commercio internazionale e arriverebbe a configurarsi come un
quadro normativo, istituzionale e organizzativo globale di governo dell’e-
conomia mondiale, funzionale al neoliberismo. Dopo un lungo braccio di
ferro nei giorni del vertice di Cancun, un gruppo consistente di paesi afri-
cani ha deciso di interrompere ogni trattativa su tali questioni e così, poi-
ché il negoziato si svolgeva secondo la modalità dell’accordo integrale, ha
posto fine alla conferenza senza produrre nessun risultato, nemmeno sul-
le questioni, poche per la verità, dove un avanzamento era possibile47.
Tuttavia, l’oggetto di contenzioso più aspro a Cancun, quello che real-
mente ha fatto fallire la conferenza, è stata la liberalizzazione del com-
mercio agricolo48. L’oggetto dei negoziati riguarda la riduzione delle bar-
riere, dirette e indirette, al commercio internazionale di prodotti agrico-
li. I principali assi negoziali nell’ambito del Doha Round sono tre:

1) il sostanziale miglioramento dell’accesso al mercato per i prodotti agri-


coli, attraverso l’abbattimento dei dazi e delle tariffe e la riduzione del-
le restrizioni quantitative alle importazioni (quote). Nonostante la sti-
pula dell’Accordo sull’Agricoltura (AoA) al termine dell’Uruguay Round
(1994), le tariffe agricole sono rimaste molto più elevate di quelle sui
prodotti industriali, dato che la tariffa media mondiale sui prodotti
agricoli ammonta ancora oggi al 62 per cento. L’AoA aveva avuto come
scopo principale la trasformazione delle barriere non tariffarie in bar-
riere tariffarie. Il negoziato in corso verte sul passaggio alla seconda fa-
se della liberalizzazione agricola, quella della riduzione al minimo dei
dazi e delle tariffe;
2) la riduzione, in vista della totale abolizione, di ogni forma di sussidio
alle esportazioni. Questa forma di sostegno alla produzione agricola è
presente soprattutto nei paesi industrializzati. Sull’identificazione del-
le forme di sussidio all’export è in atto un contenzioso tra UE e USA. In-
fatti, l’UE considera oggetto di negoziato anche le forme indirette di
sussidio, come i crediti agevolati agli esportatori agricoli, mentre gli
USA, che impiegano in questa misura circa sei miliardi di dollari all’an-
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1. IL WTO E LA GLOBALIZZAZIONE NEOLIBERISTA 33

no, sono contrari a questa interpretazione e intendono limitare la trat-


tativa solo agli aiuti diretti per l’esportazione di prodotti agricoli;
3) la sostanziale riduzione delle forme di sostegno alla produzione agri-
cola nazionale che distorcono il commercio. L’Accordo sull’Agricoltu-
ra definisce tre categorie di sostegno alla produzione nazionale, di-
stinte sulla base di differenti colori: la “scatola gialla”, che include tut-
te quelle forme di sostegno che sono considerate distorsive della pro-
duzione e del commercio (cioè che modificano direttamente i prezzi
sui mercati agricoli); la “scatola verde”, che include quelle misure che
non hanno per nulla, o che hanno solo marginalmente, effetti distorsi-
vi (ad esempio, fondi per la ricerca, scorte di cibo per la sicurezza na-
zionale, assistenza strutturale, finanziamenti agli agricoltori in caso di
eventi straordinari di mercato, programmi di risanamento ambientale,
programmi di assistenza regionale); la “scatola blu”, che comprende
tutte quelle misure, in teoria ricadenti dentro la “scatola gialla”, con-
siderate come eccezioni consentite alla regola di riduzione al minimo
dei sussidi interni (ad esempio, programmi per la limitazione della
produzione agricola, quote di produzione). È questo il tema più con-
troverso. L’UE sostiene che soltanto la categoria gialla è oggetto di ne-
goziato, perché le altre sono finalizzate al perseguimento di obiettivi
strategici (tutela ambientale e sicurezza alimentare). L’UE è la princi-
pale sostenitrice di un approccio multifunzionale all’agricoltura, se-
condo cui la disciplina interna e internazionale della produzione e del
commercio agricolo deve essere finalizzata non solo alla loro pura cre-
scita quantitativa, ma anche a scopi qualitativi. Gli USA e la gran parte
dei PVS accusano l’UE di camuffare, dietro considerazioni ambientali e
sanitarie, una politica protezionistica. Per questa ragione, gli USA e i
PVS sostengono che anche la categoria verde debba essere oggetto di
riduzione e che la categoria blu vada eliminata e fusa con la categoria
gialla, in modo che le forme di sostegno ivi previste possano essere og-
getto di successivi negoziati per la loro riduzione.

Può apparire curioso che, nella società dell’informazione e delle nuo-


ve tecnologie, sia un settore antico e tradizionale a decidere sullo svilup-
po o sul regresso della globalizzazione neoliberista. Bisogna però consi-
derare che a livello mondiale il settore agricolo assorbe ben il 45 per cen-
to dell’occupazione totale. Infatti, se è vero che nei paesi ad alto reddito
gli agricoltori sono appena il 4 per cento della forza lavoro complessiva,
nei paesi a basso reddito essi superano il 70 per cento degli occupati e in
quelli a medio reddito arrivano all’incirca al 30 per cento. Quindi, ogni
sia pur piccola modifica delle condizioni di produzione e di commercia-
lizzazione dei beni agricoli provoca un impatto enorme in termini sociali
in gran parte della popolazione del pianeta. Inoltre, oggi il settore agri-
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34 DOPO IL LIBERISMO

colo è fortemente interconnesso con i nuovi settori della biotecnologia e


dell’ingegneria genetica, che rappresentano l’ultima frontiera della ricer-
ca scientifica e delle prospettive di profitto delle grandi multinazionali.
Infine, è proprio nel settore agricolo che gli USA e l’UE concentrano la
gran parte delle misure protezionistiche per sostenere la produzione e il
reddito dei propri agricoltori, impedendo così l’accesso sui loro mercati
dei prodotti del Sud del mondo.
Infatti, i sussidi erogati ai produttori agricoli dai paesi dell’OECD (l’or-
ganizzazione che raggruppa i paesi più industrializzati) ammontano a cir-
ca 360 miliardi di dollari all’anno, più di sei volte le risorse destinate da-
gli stessi Stati alla cooperazione internazionale allo sviluppo. Inoltre, dal
1997 a oggi, i sussidi agricoli sono cresciuti del 28 per cento. Nel maggio
2002 gli USA, nell’ambito del programma di spesa pubblica lanciato al-
l’indomani dell’11 settembre 2001 per far fronte all’incipiente recessione,
hanno emanato il Farm Bill Security and Rural Investment Act, che pre-
vede un aumento dell’80 per cento dei sussidi agricoli con uno stanzia-
mento di ulteriori 180 miliardi di dollari per i prossimi dieci anni. Infine,
è da rilevare che la struttura dei sussidi nei paesi OECD è tale da favorire
le imprese multinazionali del settore agroalimentare, a discapito dei pic-
coli produttori agricoli nazionali ed esteri.
La liberalizzazione ineguale del mercato agricolo ha già provocato una
forte dipendenza dalle importazioni di cibo, soprattutto per i paesi più
poveri. Infatti, l’enorme differenza di produttività esistente tra un’agri-
coltura basata su metodi di coltivazione tradizionale, rispettosa dei cicli
naturali, come in gran parte avviene nei paesi del Sud del mondo, e un’a-
gricoltura fortemente intensiva, che utilizza grandi quantità di capitale per
macchine, pesticidi e biotecnologie, come avviene nei paesi ricchi, è tale
da mettere fuori commercio, nonostante la bassa remunerazione del lavo-
ro, i piccoli contadini del Sud del mondo. Inoltre, l’inserimento nel mer-
cato mondiale delle agricolture tradizionali determina un mutamento del-
le colture dalle produzioni alimentari locali a quelle, più remunerative, di-
rette ai mercati ricchi, conducendo così a fragili specializzazioni mono-
produttive, alla perdita della biodiversità e alla dipendenza alimentare49.
A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, per la prima volta, l’in-
sieme dei PVS ha riscontrato un deficit crescente nella bilancia commer-
ciale dei beni agricoli. Uno studio dell’UNCTAD (United Nations Confe-
rence on Trade and Development) ha evidenziato che nei paesi a basso
reddito nel periodo 1997-1999 la quota di importazioni agricole sul tota-
le delle importazioni è pari al 20 per cento, contro una media mondiale di
circa il 6 per cento. La dipendenza alimentare è un forte ostacolo allo svi-
luppo economico, perché assorbe un’ingente quantità di risorse e di valu-
ta pregiata che potrebbe essere utilizzata per il benessere sociale, l’istru-
zione, la formazione e il progresso tecnologico. La completa liberalizza-
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1. IL WTO E LA GLOBALIZZAZIONE NEOLIBERISTA 35

zione del mercato agricolo produrrebbe così la perdita della sovranità ali-
mentare degli Stati, la distruzione della piccola proprietà contadina e il
conseguente esodo rurale di centinaia di milioni di persone, con un dram-
matico aggravamento dei problemi urbani e la rimozione delle normative
di tutela della sicurezza alimentare e di salvaguardia dell’ambiente. In
questo modo l’alimentazione dell’intera umanità verrebbe consegnata
nelle mani di poche grandi imprese multinazionali americane e, in minor
misura, europee. È per queste ragioni che proprio sul tema dell’agricoltu-
ra si è infranta la marcia della globalizzazione neoliberista.
Entro il 31 marzo 2003, sulla base del calendario negoziale stabilito
nella conferenza di Doha, i paesi membri del WTO avrebbero dovuto già
raggiungere un accordo quadro sulle modalità e sui parametri da appli-
care in materia di commercio agricolo, lasciando alla conferenza di Can-
cun il compito di definire i dettagli concreti del nuovo accordo. A causa
dei contrasti esistenti, tuttavia, alla vigilia dell’apertura della conferenza
di Cancun non si era ancora raggiunto alcun accordo. Il testo predispo-
sto dal coordinatore del negoziato agricolo Stuart Harbison, che tentava
una mediazione tra le diverse posizioni espresse, non aveva accontentato
nessuno e pertanto non era stato accettato come base dei negoziati. A
questo punto, il 13 agosto 2003 gli USA e l’UE assumono l’iniziativa e ren-
dono nota una posizione comune, inviata al WTO come proposta di ac-
cordo quadro sui negoziati agricoli. Il coordinatore del Consiglio genera-
le WTO, Peréz del Castillo, prende unilateralmente l’iniziativa di elabora-
re un testo di possibile compromesso, reso noto il 24 agosto. La proposta
di Castillo viene ufficialmente allegata alla bozza del testo ministeriale che
costituisce la base delle discussioni di Cancun. L’allegato ricalca sostan-
zialmente le posizioni espresse dagli USA e dalla UE, non contenendo né
una quantificazione delle riduzioni delle protezioni agricole di ciascuno,
né un orizzonte temporale definito in cui esse debbano obbligatoriamen-
te attuarsi. Gli unici impegni certi riguardano la definizione di una nuo-
va data limite per raggiungere un accordo sulle modalità del negoziato e
di un termine per avanzare proposte alternative, in ogni caso precedente
l’inizio della V conferenza ministeriale.
Ma qui arriva la prima sorpresa. In passato, il raggiungimento di un
accordo tra le due principali potenze economiche globali, gli USA e l’UE,
era sufficiente per determinare un’adesione unanime di tutti gli altri pae-
si membri, incapaci di coalizzarsi e di avanzare proposte indipendenti. È
per questo che il testo dell’accordo europeo-statunitense viene allegato,
senza alcuna consultazione, al testo ufficiale della conferenza del WTO.
Stavolta, invece, numerosi paesi del Sud del mondo contestano immedia-
tamente la proposta di accordo quadro, giudicandola schiacciata sulle
posizioni dei paesi ricchi. Il Brasile annuncia che il testo proposto costi-
tuisce una base inaccettabile per la continuazione dei negoziati. Vengono
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 36

36 DOPO IL LIBERISMO

allora avanzate ufficialmente proposte alternative autonome. Le più rile-


vanti sono quelle avanzate separatamente da tre gruppi di paesi del Sud
del mondo. La prima proposta proviene da 20 paesi, diventati poi 21 a
Cancun e per questo chiamati G2150. Il G21 raggruppa PVS esportatori agri-
coli (tra i principali Brasile, Cina, India, Egitto, Venezuela, Nigeria e In-
donesia), che rappresentano il 65 per cento della popolazione mondiale e
il 50 per cento della produzione agricola. Il G21, oltre a chiedere una più
estesa riduzione delle protezioni agricole europee e statunitensi, rivendi-
ca la necessità di concordare misure e strumenti per favorire l’esporta-
zione dei prodotti tropicali e di altri prodotti agricoli verso i paesi svi-
luppati. In questo senso, il G21 propone una differenziazione sia in ter-
mini temporali, sia in termini quantitativi, della riduzione delle protezio-
ni agricole tra paesi sviluppati e PVS. La seconda proposta alternativa vie-
ne avanzata da un gruppo di 6 paesi a basso reddito, coordinati dalla Re-
pubblica Dominicana. In questa proposta si chiede che i prodotti agrico-
li dei paesi a più basso reddito siano sottoposti a una riduzione media del-
le tariffe al massimo pari alla metà di quella dei paesi sviluppati. Inoltre,
si chiede la definizione di un elenco di prodotti speciali dei PVS, comple-
tamente esenti da ogni forma di riduzione tariffaria, sui quali quindi è ri-
conosciuta la possibilità di una totale protezione doganale. La lista di pro-
dotti speciali deve essere autonomamente compilata dai PVS e non con-
cordata con i paesi sviluppati. La terza proposta proviene dai paesi afri-
cani e dai paesi meno sviluppati e riguarda l’immediata abolizione dei
sussidi europei e statunitensi alla produzione di cotone. Come si vede l’e-
lemento comune a queste richieste è la rivendicazione di un trattamento
speciale e differenziato per i paesi poveri e in via di sviluppo rispetto agli
obblighi maggiori assunti dai paesi più ricchi.
Nonostante i ripetuti tentativi di arrivare a un compromesso anche
parziale, sostenuto dagli USA e dall’UE, i paesi del Sud del mondo, guida-
ti dal blocco del G21, non solo non cedono rispetto alle posizioni espres-
se alla vigilia, ma si irrigidiscono rifiutando di discutere e affrontare ogni
altra questione senza aver prima ottenuto integralmente quanto richiesto
in materia agricola. Per la prima volta, le grandi potenze economiche oc-
cidentali si trovano di fronte a un blocco unito di grandi paesi del Sud del
mondo in grado di coalizzare intorno a sé la grande maggioranza degli
Stati membri su una piattaforma alternativa e non solo su un’opera di pu-
ra resistenza. Il WTO, pensato come strumento principe della globalizza-
zione neoliberista, a Cancun è diventato, al contrario, la sede della criti-
ca ai rapporti di scambio ineguale tra Nord e Sud del mondo. È per que-
sto che, dopo qualche giorno di aspro negoziato, si è inceppato.
A Cancun si è visto quanto sia gli USA sia l’UE fossero interessati a sal-
vare il WTO, magari anche soltanto con un accordo di facciata. Su questo
desiderio nessuna differenza si è manifestata nel ristretto club dei paesi
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1. IL WTO E LA GLOBALIZZAZIONE NEOLIBERISTA 37

ricchi. Certo, il salvataggio del WTO non poteva comportare il prezzo del-
la rimessa in questione dei cardini della globalizzazione neoliberista. Per-
ché di questo si è trattato, e non di un semplice scontro sui sussidi agri-
coli. Infatti, accogliere le richieste del Sud del mondo in materia di agri-
coltura significa riconoscere la necessità di un nuovo ordine economico
internazionale, fondato sul controllo politico dei flussi commerciali e fi-
nanziari. Il gruppo dei 21 paesi del Sud del mondo, nuovo protagonista
della scena politica mondiale, non rivendica semplicemente la liberaliz-
zazione agricola, come si è tentato in un primo tempo di far credere. Il
G21 ha posto, sia pure in una forma ancora incompiuta, il tema della so-
vranità alimentare come criterio fondamentale del commercio e della
produzione agricola mondiale. È il contrario del laissez faire, della fissa-
zione di regole formali universalmente valide. È invece la richiesta di re-
gole commerciali differenziate tra paesi (e tra classi sociali) con diverso li-
vello di sviluppo e di potere economico. È la richiesta di una regolazione
politica dei prezzi mondiali per perseguire finalità economiche e sociali.
Viene così colpito il cuore del modello neoliberista, cioè il meccanismo di
formazione dei prezzi secondo il libero gioco delle forze di mercato. Nel
sistema liberista non importa ciò che sta dietro il prezzo di mercato, sia
esso sfruttamento brutale, devastazione ambientale o sussidio. Ciò che
conta è il rispetto di condizioni astrattamente uguali per tutti i concor-
renti. Qui si è conficcata la freccia scagliata dal Sud del mondo, quando
pretende regole e condizioni diversificate e più vantaggiose per i poveri e
i deboli, oppure quando chiede la fine dello scambio ineguale che si na-
sconde dietro la formale uguaglianza del mercato. Questa pretesa viene
avanzata oggi per l’agricoltura, ma domani potrà esserlo per tutti i setto-
ri economici. Il tenace rifiuto opposto alla pressante richiesta degli USA e
della UE di liberalizzare gli investimenti esteri ne è la dimostrazione. In so-
stanza, la richiesta posta dal Sud del mondo è una significativa redistri-
buzione della ricchezza mondiale. Una parziale compensazione della ra-
pina subita in due decenni di globalizzazione neoliberista. Questa istan-
za può essere soddisfatta solo negando i principi del libero mercato, solo
iniziando a fuoriuscire dal dominio incontrastato del capitale globale. Di
questa necessità il movimento è oggi, dopo Cancun, ben più conscio dei
governi del Sud del mondo.
Non sono stati quindi i conflitti tra USA e UE a far fallire il WTO, ma l’e-
splicita e diretta contestazione del neoliberismo che si è manifestata, sia
pure in forme e con contenuti diversi, sia nell’assalto alla zona rossa sia
nei palazzi ufficiali di Cancun. La resistenza di USA e UE alle richieste del
Sud non deriva da un’ostinata, quanto irrazionale, difesa degli interessi
particolari di poche grandi imprese agroindustriali, uniche e vere benefi-
ciarie del sistema dei sussidi. USA e UE hanno, insieme, colto benissimo il
carattere strategico dei contrasti in materia agricola. Hanno capito che
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38 DOPO IL LIBERISMO

cedere voleva dire minare le fondamenta dell’attuale ordine economico


mondiale. Anche in quel caso, ovviamente, il WTO, che è insieme figlio e
levatrice di questo ordine, sarebbe entrato in crisi. Allo stesso modo, i pae-
si del G21, tra loro diversi sia politicamente che economicamente, hanno
trovato compattezza e unità sull’obiettivo strategico, non sui singoli detta-
gli. Sugli interessi particolari i blocchi che si sono fronteggiati a Cancun
sono entrambi divisi al proprio interno. Ciò che li tiene insieme è un co-
mune interesse fondamentale, di conservazione per gli uni, di radicale
trasformazione per gli altri. Qualora l’ordine neoliberista fosse sostituito
da un altro, i blocchi si disgregherebbero e si aprirebbero nuove faglie e
nuove fratture.
È tuttavia significativo che il G21 abbia continuato a riunirsi anche do-
po il fallimento di Cancun, dandosi una forma stabile di coordinamento
e di relazione che prevede periodiche riunioni per definire una comune
posizione sulle principali questioni economiche internazionali. Così come
è indicativo del mutamento del clima globale il fatto che dopo Cancun il
progetto ALCA, ovvero la formazione di un’area di libero scambio nell’e-
misfero americano tenacemente voluta dall’amministrazione Bush, abbia
subito una battuta d’arresto grazie all’opposizione, in particolare, del
Brasile e del Venezuela.

1.6. L’ALCA e il neoliberismo in America Latina

L’ALCA è l’acronimo in lingua spagnola dell’Associazione per il Libero


Commercio Americano. Il progetto di costituzione di un’area di libero
scambio, comprendente 34 paesi (tutti gli Stati americani e caraibici tran-
ne Cuba), fu lanciato a Miami nel I Summit delle Americhe promosso dal-
l’amministrazione Clinton nel dicembre del 1994 come estensione conti-
nentale dell’accordo NAFTA (North American Free Trade Agreement) di
libero commercio tra USA, Canada e Messico, entrato in vigore il primo
gennaio di quello stesso anno. L’avvio ufficiale delle trattative avvenne nel
II Summit delle Americhe di Santiago del Cile nell’aprile 1998, nella for-
ma del singolo negoziato, che prevedeva, come accade nel regime WTO, il
raggiungimento di un accordo complessivo su tutti i settori senza nessu-
na possibilità di accordo parziale51. L’amministrazione Bush ha subito ri-
lanciato con forza questo progetto, non nascondendone i veri scopi. Una
prima versione dell’accordo è stata varata nel luglio 2001, poi aggiornata
con la seconda versione elaborata dal comitato negoziale nel novembre
dell’anno seguente. Successivi vertici governativi panamericani hanno fis-
sato la conclusione dei negoziati nel 2004, per consentire l’entrata in vi-
gore dell’accordo entro il 2005. Il progetto è entrato dunque nella sua fa-
se finale e decisiva.
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1. IL WTO E LA GLOBALIZZAZIONE NEOLIBERISTA 39

I negoziati si sono svolti finora nel più completo segreto, senza alcuna
forma di partecipazione della società civile e senza nessuna trasparenza
sul contenuto delle discussioni. Solo attraverso la decisione unilaterale as-
sunta da alcuni governi, in particolare da quello del Venezuela, di infor-
mare l’opinione pubblica sullo svolgimento dei negoziati, è stato possibi-
le acquisire notizie sui contenuti dei colloqui ufficiali. Le proposte avan-
zate dalle organizzazioni della società civile americana non solo non sono
state accolte nelle varie stesure delle bozze di accordo, ma non hanno ri-
cevuto nessun tipo di risposta52.
L’agenda dell’ALCA è la stessa del WTO, con l’aggravante di una estre-
mizzazione selvaggia dei principi neoliberisti: totale liberalizzazione del
commercio dei beni, dei servizi e dei capitali, privatizzazione integrale del
settore pubblico e dei beni comuni, rimozione di ogni regolamentazione
per gli investimenti esteri delle imprese multinazionali. In particolare, es-
sa prevede la copertura, sotto le norme dell’accordo, di tutti i settori pro-
duttivi dei beni e dei servizi, nessuno escluso; vincola tutti i livelli di go-
verno, nazionali, regionali e locali; prevede l’abrogazione automatica di
tutte le leggi e i regolamenti che impediscono alle imprese estere di ope-
rare liberamente all’interno dei paesi membri; rende irreversibili i prov-
vedimenti di liberalizzazione e di privatizzazione decisi in attuazione de-
gli accordi. Nessuno strumento di riequilibrio territoriale è previsto: le re-
gole dell’ALCA varrebbero allo stesso modo per tutti i paesi, grandi o pic-
coli, indipendentemente dal loro livello di sviluppo, senza nessuna forma
di compensazione per i più deboli e svantaggiati, come ad esempio av-
viene con i fondi strutturali dell’Unione Europea. È evidente come, in un
continente così eterogeneo come quello americano, che comprende sia
l’economia più ricca del mondo (USA), sia quelle più povere (Haiti e gli
Stati centroamericani), queste clausole produrranno ulteriori, drammati-
ci squilibri territoriali. La realizzazione dell’ALCA priverebbe dunque i
paesi latinoamericani di qualsiasi sovranità economica e impedirebbe
ogni forma di politica economica nazionale autonoma dagli interessi e dai
voleri delle imprese transnazionali, in particolare di quelle statunitensi. In
questo senso il progetto dell’ALCA è ben più di un’area di libero scambio:
esso definisce e fissa una vera e propria Costituzione economica conti-
nentale che impone un ordine neoliberista sottratto a ogni legittimazione
democratica.
L’ALCA costituisce inoltre la forma giuridica di un nuovo progetto di
colonizzazione dell’America Latina da parte degli USA. Come ha di re-
cente dichiarato il segretario di Stato Colin Powell, l’obiettivo degli USA è
«garantire per le imprese nordamericane il controllo di un territorio che
si estende dall’Artico all’Antartide e il libero accesso, senza nessuna for-
ma di ostacolo, dei nostri prodotti, servizi, tecnologie e capitali in tutto
l’emisfero». La vertiginosa e inarrestabile crescita del deficit estero nel-
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40 DOPO IL LIBERISMO

l’interscambio con i paesi asiatici rende infatti strategica per gli USA la
creazione di un’area di sbocco per le esportazioni nell’intero continente
americano al fine di una parziale compensazione dello squilibrio della
propria bilancia commerciale.
Un legame profondo esiste tra il progetto neoliberista dell’ALCA e il
processo di militarizzazione dell’America Latina. Di fronte alla crescita
dei movimenti popolari la risposta ormai prevalente è quella della re-
pressione e del controllo militare, direttamente gestiti e coordinati dalle
Forze Armate statunitensi. Sono più di centomila i soldati di paesi lati-
noamericani inviati dai loro governi ad addestrarsi in 275 scuole militari
degli USA per apprendere le tecniche della repressione. Esemplari pro-
getti di questa strategia di militarizzazione sono il Plan Colombia e il Plan
Puebla Panama (PPP). Il Plan Colombia, lanciato nell’aprile 2000 con il
pretesto della lotta al narcotraffico, prevede l’istituzione in territorio co-
lombiano di basi militari USA permanenti in grado di costituire una forza
di pronto intervento nelle aree politicamente più critiche dell’America
Latina (Venezuela, Colombia, Ecuador, Bolivia, Perù)53. È inoltre oppor-
tuno ricordare che quest’area del continente latinoamericano è tra le più
ricche dell’intero emisfero per risorse naturali (petrolio e biodiversità),
considerate strategiche dalle grandi imprese transnazionali. Il PPP è for-
malmente un progetto per la costituzione di un polo di sviluppo econo-
mico in una vasta area comprendente otto Stati della Repubblica Federa-
le del Messico e tutti i paesi centroamericani (Guatemala, Belize, Hon-
duras, El Salvador, Nicaragua, Costa Rica e Panama). L’obiettivo è quel-
lo di creare una zona di infrastrutture (in particolare di trasporto) e di ser-
vizi comprendente l’intero Centroamerica a disposizione delle imprese
transnazionali USA. Annessi fondamentali di questi piani di sfruttamento
economico sono il rafforzamento e l’ammodernamento del sistema di in-
frastrutture militari USA, per la cui realizzazione si prevede lo sradica-
mento dal territorio di decine di comunità indigene per costruire strade,
aeroporti e basi militari54.
Sul piano economico-sociale, invece, l’arma più potente in mano agli
USA per imporre il progetto è quella del debito estero. Infatti, attraverso
i vincoli finanziari imposti dall’indebitamento, che rendono i paesi lati-
noamericani fortemente dipendenti dalla capacità di esportazione, gli USA
e le organizzazioni economiche internazionali tentano di imporre l’ALCA
e la liberalizzazione commerciale. Basti pensare che nel corso degli ultimi
tre anni i paesi latinoamericani hanno pagato 464 miliardi di dollari al ca-
pitale finanziario internazionale per il servizio del debito estero, con un
flusso finanziario negativo, al netto dei nuovi crediti, di oltre trenta mi-
liardi di dollari annui, finiti in particolare nel mercato dei capitali statu-
nitense. Nello scorso decennio, tra servizio del debito, fuga di capitali e
scambio ineguale, l’America Latina ha trasferito ben mille miliardi di dol-
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1. IL WTO E LA GLOBALIZZAZIONE NEOLIBERISTA 41

lari, destinati a finanziare i “deficit gemelli”, statale e commerciale, degli


USA. ALCA e debito estero sono anche le armi più potenti per imporre al-
l’intero continente latinoamericano la “dollarizzazione”, cioè la sostitu-
zione delle monete nazionali con il dollaro anche per quanto concerne la
circolazione monetaria interna, cosa che avrebbe come inevitabile conse-
guenza una totale espropriazione della possibilità di conduzione autono-
ma delle politiche finanziarie55.
Nel corso dell’ultimo decennio i governi neoliberisti dell’America La-
tina, sotto la costante pressione delle amministrazioni USA e delle orga-
nizzazioni economiche internazionali, hanno cominciato ad applicare
unilateralmente le ricette propugnate dall’ALCA, provocando un dram-
matico impoverimento delle masse popolari e una caduta verticale dei li-
velli di attività economica. Nel 2003 il PIL pro capite nell’America Latina
e nel Caribe è stato inferiore al livello del 1997, con 227 milioni di pove-
ri (venti milioni in più rispetto a sei anni prima) e un tasso medio di di-
soccupazione urbano dell’11 per cento. Tutto ciò ha prodotto la nascita
di imponenti movimenti popolari di opposizione che si sono diffusi e ra-
dicati in tutta l’area. Le rivolte in Bolivia contro la privatizzazione del-
l’acqua e del gas, in Perù contro la dittatura neoliberista di Fujimori, in
Argentina contro il monetarismo di Cavallo, in Ecuador per la rivendica-
zione dei diritti indigeni, ad Haiti per la cacciata del presidente Aristide,
si sono affiancate ai successi elettorali di Chavez in Venezuela e di Lula in
Brasile, alla permanente attività del movimento zapatista in Chiapas e al-
la strenua e difficile resistenza di Cuba nella difesa della propria indipen-
denza nazionale. Per contrastare il progetto dell’ALCA si è costituita una
specifica campagna continentale che, nel corso degli ultimi due anni, è
riuscita a radicarsi in tutti i paesi del continente e ha organizzato forti mo-
menti di lotta a livello nazionale e sopranazionale in occasione dei vertici
negoziali. Nei due più grandi paesi dell’America del Sud, Brasile e Ar-
gentina, la campagna, con il coinvolgimento di gran parte della società ci-
vile e religiosa, ha organizzato vere e proprie consultazioni popolari refe-
rendarie sull’ALCA. Nel 2002 in Brasile sono stati coinvolti dieci milioni di
cittadini e nel 2003 in Argentina quasi due milioni e mezzo. L’esito delle
votazioni autogestite è stato in entrambi i casi schiacciante, con il 90 per
cento di no all’ALCA.
L’esito di Cancun comincia a produrre effetti importanti nella spinta
verso una collaborazione tra l’azione istituzionale dei nuovi governi pro-
gressisti latinoamericani e le lotte dei movimenti sociali. Brasile e Argen-
tina, a seguito dei cambiamenti politici avvenuti negli ultimi anni, hanno
inasprito la loro posizione contro l’impostazione neoliberista dell’ALCA,
voluta dagli USA. Si sono così formati due fronti contrapposti nel tavolo
negoziale: da una parte il gruppo dei cinque (USA, Canada, Messico, Co-
sta Rica e Cile) che sostengono il progetto originario, e dall’altra parte i
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42 DOPO IL LIBERISMO

paesi del MERCOSUR (Mercado do Cono Sur) – Brasile, Argentina, Uru-


guay e Paraguay – che invece vogliono circoscriverne la portata neolibe-
rista, attraverso l’esclusione di alcuni settori, in primo luogo quello agri-
colo e quello dei servizi.
Una posizione a sé è quella del Venezuela del presidente Chavez56. Il
governo del Venezuela ha da tempo dichiarato la propria assoluta con-
trarietà al progetto dell’ALCA, avanzando come alternativa la proposta di
un’integrazione regionale dei paesi dell’America Latina e del Caribe, de-
nominata ALBA (Alternativa Bolivariana per l’America Latina), fondata su
un forte ruolo delle politiche pubbliche per la riduzione della povertà e
degli squilibri sociali e territoriali. Tuttavia, il governo ha deciso di conti-
nuare a partecipare al tavolo negoziale con due obiettivi espliciti: espri-
mere in tutte le sedi ufficiali il proprio progetto alternativo per conqui-
stare alleanze e consensi e svolgere un ruolo di ponte comunicativo tra i
negoziatori ufficiali e i movimenti della società civile.
La contrarietà del Venezuela all’ALCA sta esercitando un influsso cre-
scente nell’orientare l’opinione pubblica e, in parte, lo stesso ceto politi-
co sudamericano. Il Venezuela è infatti un paese chiave dell’America La-
tina, per ragioni economiche, politiche e storiche. Sul piano economico,
pur nel contesto di arretratezza che domina il continente, il Venezuela,
per le sue immense risorse petrolifere e naturali e per un grado di indu-
strializzazione tra i più elevati dell’area, è una pedina determinante per
l’economia regionale. Sul piano politico, il Venezuela è lo Stato con la
più lunga tradizione democratica, che, a differenza di tutti gli altri paesi
della regione, non ha sperimentato nel dopoguerra periodi di dittatura
militare. Sul piano storico, la lotta per l’indipendenza nazionale dell’in-
tera America Latina dalla madrepatria spagnola partì proprio dal Vene-
zuela, patria di Simón Bolívar, e questa tradizione continua a vivere nel-
le coscienze dei popoli, rinvigorita dal continuo ed esplicito richiamo
bolivariano del movimento di Chavez. È difficile dall’esterno valutare
con esattezza la reale portata del processo politico e sociale in corso in
Venezuela. Resta il fatto che esso merita di essere seguito con attiva par-
tecipazione da tutte le forze antiliberiste del mondo. La sua prossima
evoluzione avrà infatti un enorme impatto sull’intero movimento anta-
gonista americano e, in qualche misura, ne potrà segnare, nel bene e nel
male, l’evoluzione.
Grazie agli sviluppi politici e sociali in corso nell’America Latina, il
progetto neoliberista sta dunque incontrando difficoltà crescenti anche a
livello ufficiale. Nell’ultimo vertice panamericano di Miami, svoltosi nel
novembre 2003, gli USA, per evitare un nuovo fallimento negoziale dopo
Cancun, hanno lanciato una nuova strategia basata su un’interpretazione
più flessibile dell’ALCA e su una ripresa in grande stile degli accordi bila-
terali e subregionali. Questa nuova strategia, denominata “ALCA light”,
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1. IL WTO E LA GLOBALIZZAZIONE NEOLIBERISTA 43

prevede una liberalizzazione differenziata per paesi e per settori econo-


mici, mirante a costituire una rete di accordi a cerchi concentrici, in gra-
do di inglobare progressivamente tutta l’economia del continente. Si trat-
ta quindi di una sostanziale conferma del progetto originale dell’ALCA, sia
pure nel quadro di una maggiore gradualità e di una pluralità di stru-
menti giuridici e di trattati. Tuttavia, anche questa nuova interpretazione
flessibile dell’ALCA non sembra in grado di superare le contraddizioni esi-
stenti. Infatti, oggi l’America Latina è un continente in piena ebollizione
politica e sociale e rappresenta forse il fronte più avanzato nella lotta con-
tro la globalizzazione neoliberista. Il fallimento del WTO a Cancun ha ri-
dato speranza a un continente devastato da due decenni di neoliberismo.
Tuttavia, i pericoli per i popoli dell’America Latina e del Sud del mondo
non provengono soltanto dagli USA ma, purtroppo, anche dall’Europa.

1.7. La politica commerciale dell’Unione Europea

A partire dagli anni Novanta, al di là di poche e limitate frizioni su sin-


goli aspetti della politica commerciale che sono emerse tra alcuni inte-
ressi settoriali europei e statunitensi, l’UE ha agito nell’arena economica
internazionale in piena sintonia con gli USA negli indirizzi strategici di
fondo, volti a imporre una completa applicazione del modello neoliberi-
sta su scala globale. La politica commerciale perseguita dall’UE è stata co-
sì caratterizzata da una continua azione tesa ad accentuare le condizioni
di scambio ineguale tra Nord e Sud del mondo e ad aggravare gli squili-
bri economici e sociali internazionali. Questa impostazione è stata segui-
ta sia nelle relazioni economiche globali e multilaterali, sia in quelle bila-
terali e regionali.
Infatti, la condotta dall’UE in seno ai negoziati WTO è stata improntata
a un liberismo integrale nei settori in cui l’UE gode di un vantaggio com-
petitivo e a un forte protezionismo nei settori più esposti alla competizio-
ne internazionale, in particolare in quello agricolo. Ad esempio, l’UE, nel
corso del round commerciale di Doha, è stata la più convinta sostenitrice
dell’integrale liberalizzazione e privatizzazione del settore dei servizi di
pubblica utilità e dei beni comuni (acqua, energia, trasporti e telecomuni-
cazioni) e della completa deregolamentazione degli investimenti diretti al-
l’estero57. Queste posizioni sono state assunte nell’interesse esclusivo delle
grandi imprese transnazionali europee, alla continua ricerca di nuove fon-
ti di profitto. L’UE si è così mostrata del tutto insensibile alle esigenze dei
popoli del Sud del mondo che vedrebbero ulteriormente aggravate le lo-
ro già difficili condizioni di vita dalla privazione di diritti fondamentali
quali l’accesso gratuito e universale a beni e servizi di prima necessità.
Inoltre, l’introduzione di una tutela giuridica internazionale sugli investi-
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44 DOPO IL LIBERISMO

menti diretti all’estero, con il divieto di emanare normative nazionali a


protezione dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente, priverebbe i singoli
Stati, e in particolare quelli del Sud del mondo, della possibilità di vietare
forme di sfruttamento selvaggio degli uomini e della natura e condurreb-
be a una totale subordinazione delle economie e dei territori dell’intero
globo alle esigenze del capitale transnazionale. Nello stesso tempo l’UE si
è mostrata pervicacemente ostile a ogni sostanziale riduzione dei sussidi a
protezione della propria agricoltura. I sussidi agricoli europei, che per la
loro struttura oggi favoriscono le grandi imprese agricole e le produzioni
nordiche a scapito dei piccoli produttori e delle produzioni mediterranee,
costituiscono una barriera insormontabile per l’ingresso dei prodotti agri-
coli del Sud del mondo nel mercato europeo e abbattono artificialmente il
prezzo dei prodotti agricoli europei sui mercati mondiali.
Dopo il fallimento della conferenza di Cancun, anche l’UE, come gli
USA, si è adoperata per accelerare la conclusione di accordi bilaterali o re-
gionali. È questa la strada scelta per rilanciare, dopo la crisi del WTO, le
politiche neoliberiste attraverso un insieme differenziato di accordi eco-
nomici con singoli paesi o con singole aree del Sud del mondo. Abbiamo
visto nel precedente paragrafo il caso dell’ALCA e del tentativo degli USA
di imporre all’intero continente americano un regime commerciale e fi-
nanziario totalmente deregolamentato, a tutto vantaggio delle grandi cor-
poration. Un analogo tentativo è in atto da parte dell’UE, attraverso i ne-
goziati in corso con il MERCOSUR per la conclusione di un trattato di libe-
ro scambio58. A differenza di quanto accade per altre regioni latinoameri-
cane, dove gli USA hanno un peso economico predominante, nell’area del
MERCOSUR (Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay) è l’UE a occupare il
ruolo di maggiore partner commerciale. In particolare la Spagna è il prin-
cipale investitore e la Germania il principale esportatore nella regione. La
conclusione di un accordo commerciale avrebbe quindi un impatto for-
tissimo sulle economie dei quattro paesi sudamericani. Tuttavia, mentre
l’ALCA ha suscitato un forte movimento di contestazione, le trattative UE-
MERCOSUR si svolgono in un clima di relativa tranquillità e non sono og-
getto di particolare attenzione da parte delle opinioni pubbliche dei due
continenti. Esse sono state avviate nel corso del 2000 e sono già appro-
date alla definizione di un accordo quadro generale sulle materie da in-
serire e sulle modalità del negoziato. Siamo ora passati nella fase delle
contrattazioni settoriali, impostata sul meccanismo delle richieste e delle
offerte, in analogia con le pratiche del WTO. L’agenda del negoziato è mol-
to vasta e comprende la liberalizzazione commerciale dei beni industriali
e agricoli e dei servizi, la protezione dei diritti di proprietà intellettuale,
le politiche della concorrenza e degli appalti pubblici, la protezione degli
investimenti esteri, i meccanismi di risoluzione delle controversie. Come
accade all’interno del WTO, anche in questo caso le trattative avvengono
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1. IL WTO E LA GLOBALIZZAZIONE NEOLIBERISTA 45

in un clima di segretezza e di opacità e sono pesantemente condizionate


dalle grandi imprese transnazionali. Fin dal 1998, dietro diretta sollecita-
zione della Commissione Europea, si è costituito il MERCOSUR-European
Business Forum (MEBF), una sede informale di confronto tra il mondo de-
gli affari delle due regioni, a cui partecipano le associazioni industriali e
le principali multinazionali europee (tra cui Confindustria e Fiat), che
funge da principale ispiratore dei negoziati attraverso una costante opera
di pressione sui rispettivi governi. Le richieste di liberalizzazione avanza-
te dall’UE nel maggio 2003 non sono state rese note, tuttavia è facile im-
maginare che esse siano improntate a un integrale neoliberismo, come di-
mostrano gli accordi commerciali già conclusi con il Messico e con il Ci-
le, che impongono l’apertura dei mercati e la conseguente privatizzazio-
ne dei servizi essenziali di pubblica utilità59.
D’altra parte questo indirizzo neoliberista nelle relazioni bilaterali e
regionali dell’UE era stato già anticipato in occasione della scadenza del-
la IV convenzione di Lomé e dei negoziati per il suo rinnovo60. Nel 1975
la Comunità Economica Europea siglò un trattato economico e commer-
ciale con più di settanta paesi poveri dell’Africa, del Pacifico e dei Carai-
bi (ACP), basato su agevolazioni preferenziali di ingresso dei prodotti tro-
picali nei mercati agricoli europei, sulla stabilizzazione dei prezzi delle
materie prime e su aiuti di cooperazione internazionale. Le clausole del-
l’accordo erano allora basate su criteri di non reciprocità, cioè non pre-
vedevano contropartite economiche da parte dei paesi ACP in cambio de-
gli aiuti europei. Infatti, il suo fine, almeno in linea di principio, non era
tanto di incrementare a ogni costo il commercio internazionale, quanto di
garantire ai paesi poveri le risorse finanziarie, derivanti da aiuti unilatera-
li, prestiti agevolati ed esportazioni, al fine di combattere la povertà e di
aiutare lo sviluppo autocentrato. Dopo essere stato rinnovato alla sua
scadenza per tre volte, questo sistema di relazioni economiche preferen-
ziali è entrato in conflitto con il nuovo regime di regolamentazione com-
merciale internazionale derivante dalla nascita del WTO, che nel 1997, a
seguito di un ricorso presentato dagli USA per garantire gli interessi delle
multinazionali della frutta (Chiquita e Dole), ha giudicato discriminato-
rio, e come tale condannato, il sistema europeo di importazione delle ba-
nane, che garantiva ai paesi ACP condizioni privilegiate di accesso al mer-
cato61. Nella seconda metà degli anni Novanta si è allora aperta una lun-
ga fase di negoziazioni tra l’UE e i paesi ACP per il superamento della con-
venzione di Lomé, conclusasi nel giugno del 2000 con l’accordo di Co-
tonou. Nel 2008, alla fine di un periodo transitorio di otto anni, tutti i
trattamenti preferenziali verranno aboliti, tranne che per un ristrettissi-
mo gruppo di paesi classificati come poverissimi, e le relazioni commer-
ciali saranno pienamente uniformate alle regole del WTO, basate su una
piena reciprocità e su un regime di integrale liberalizzazione degli scam-
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46 DOPO IL LIBERISMO

bi, con gravi conseguenze negative per i paesi ACP. L’obiettivo, espressa-
mente dichiarato nel testo finale del trattato di Cotonou, è quello di so-
stituire la vecchia convenzione di Lomé con una pluralità di accordi per
la costituzione di aree di libero scambio tra l’UE e sottogruppi regionali
dei paesi ACP62.
Di fronte a questi sviluppi, non sono più sufficienti le singole, pur im-
portanti, campagne di informazione e di sensibilizzazione, come ad esem-
pio quella nata alla vigilia del vertice di Cancun o quella in atto per la tu-
tela dei piccoli produttori africani di cotone. È ormai necessario e urgen-
te che le forze della sinistra europea e i movimenti si adoperino per inter-
rompere i negoziati in corso, tesi a costituire aree di libero scambio regio-
nale con i paesi del Sud del mondo, per rivendicare invece un radicale
cambiamento di ispirazione e di orientamento nella politica commerciale
dell’UE al fine di costruire un nuovo ordine economico internazionale.
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2. Il dominio del dollaro e il fallimento del FMI


e della Banca Mondiale

2.1. Il sistema monetario internazionale prima di Bretton Woods:


il ritorno all’oro
È indicativo il fatto che nell’opinione pubblica e nelle forze politiche
europee, e in particolare in quelle di sinistra, il tema della riforma del si-
stema monetario e finanziario internazionale sia assente o trascurato, tan-
to che a volte viene bollato come una questione puramente tecnica o, peg-
gio, come una fuga dalla realtà il ragionare intorno ad esso. Invece tale
questione è, ormai da vari anni, al centro dell’agenda delle stesse istitu-
zioni economiche internazionali e ha fortissime implicazioni politiche1.
Per comprendere meglio il contesto storico in cui si sviluppa la riflessio-
ne sulla nuova architettura finanziaria globale può essere utile ripercorre-
re brevemente le principali tappe dell’evoluzione del sistema monetario
internazionale nell’ultimo secolo, il secolo del dollaro2.
Quando, il primo luglio 1944, i delegati di più di quaranta Stati – tut-
ti i paesi che si battevano contro il nazifascismo tranne l’URSS – si riuni-
rono a Bretton Woods, una piccola località del New Hampshire, in Eu-
ropa e in Asia la guerra era ancora in pieno svolgimento, anche se ormai
il suo corso era segnato. Obiettivo della conferenza era quello di costrui-
re l’architettura del nuovo sistema monetario internazionale che avrebbe
dovuto regolare le relazioni economiche alla fine della guerra. La deci-
sione delle due maggiori potenze occidentali, gli USA e l’Inghilterra, di de-
finire un quadro organico e sistematico di regole e di istituzioni entro cui
imbastire la ricostruzione del sistema economico e finanziario internazio-
nale derivava dalla disastrosa esperienza storica del periodo successivo al-
la prima guerra mondiale.
Allora, dopo la sconfitta degli Imperi centrali, la rivalità tra le potenze
vincitrici aveva impedito la costruzione di un sistema monetario interna-
zionale fondato su nuove regole condivise. Superata la fase della stabiliz-
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48 DOPO IL LIBERISMO

zazione monetaria per domare l’inflazione interna derivante dai debiti di


guerra, durata fino ai primi anni Venti, si era ritornati alla sostanziale re-
staurazione del regime monetario precedente, il gold standard. Il valore
delle diverse monete nazionali venne così determinato in un rapporto fis-
so rispetto all’oro e l’obiettivo esclusivo delle politiche monetarie tornò ad
essere, dopo la parentesi bellica, quello di garantire la stabilità del valore
aureo delle monete. In un gold standard puro, dove vige la piena conver-
tibilità interna ed esterna della moneta bancaria con l’oro, la quantità no-
minale di moneta in circolazione è limitata dalla quantità di oro possedu-
ta dalla Banca centrale. I pagamenti internazionali vengono effettuati in
oro e le valute non sono altro che simboli cartacei della quantità di oro de-
positata nei forzieri dei rispettivi sistemi bancari nazionali. In questo con-
testo, la politica monetaria non ha nessun grado di autonomia, non po-
tendo variare permanentemente l’offerta di moneta, determinata dalla
quantità di oro posseduta dalla Banca centrale, e pertanto non può esse-
re considerata come uno strumento di politica economica capace di agire
sulle variabili macroeconomiche reali. Condizione indispensabile per un
corretto funzionamento di questo regime è la completa liberalizzazione
dei mercati internazionali dei capitali, perché sono proprio i movimenti di
capitale ad agire in senso riequilibratore. Una riduzione della quantità di
oro, in conseguenza di un deficit commerciale con l’estero, produce una
riduzione dell’offerta di moneta e quindi un aumento dei tassi di interes-
se. L’afflusso di capitale finanziario in cerca di maggiori rendimenti ga-
rantirà così il ripristino della quantità di offerta di moneta originaria. Se
tuttavia il valore nominale della moneta rispetto all’oro è strutturalmente
sbagliato, i movimenti di capitale non possono riportare il sistema in una
condizione di stabile equilibrio. In questo caso, occorre una completa
flessibilità del sistema interno dei prezzi. Se il valore della moneta non
può variare, perché è fisso rispetto all’oro, allora dovranno essere i prezzi
dei prodotti a variare e ad adeguarsi al valore aureo della moneta.
Il sistema del primo dopoguerra aveva introdotto alcuni gradi di fles-
sibilità rispetto al gold standard puro, con l’eliminazione della convertibi-
lità per gli scambi interni e con la possibilità di determinare il valore del-
la moneta nazionale non solo rispetto all’oro, ma anche rispetto ad altre
monete, in primis la sterlina e il dollaro, che garantivano la piena conver-
tibilità aurea. Per queste ragioni, il sistema venne denominato gold ex-
change standard o gold bullion standard. Tuttavia, anche per il modo con
cui operarono le autorità monetarie, i caratteri di fondo del sistema non
mutarono rispetto a quello in vigore prima della guerra.
Il ritorno al gold standard durò soltanto pochi anni per poi crollare de-
finitivamente, aprendo una lunga fase di anarchia nelle relazioni econo-
miche e monetarie internazionali. Le cause del fallimento del ritorno al-
l’oro furono diverse e derivarono sia da errori di politica economica, sia
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2. IL DOMINIO DEL DOLLARO 49

dalle trasformazioni strutturali che il sistema capitalistico aveva subito.


La fissazione di un prezzo in oro delle principali monete, non corrispon-
dente al loro effettivo potere d’acquisto interno, amplificò gli squilibri
commerciali tra i diversi paesi e rese inoperante il meccanismo di riequi-
librio automatico delle bilance dei pagamenti, che il gold standard avreb-
be dovuto assicurare. Gli errori nella fissazione del valore delle monete
non furono soltanto il frutto di una cieca fiducia nei postulati dell’orto-
dossia monetarista, ma scaturirono anche da precise motivazioni politi-
che. In particolare, la decisione dell’Inghilterra di tornare alla parità au-
rea della sterlina, precedente alla prima guerra mondiale, valore grande-
mente sopravvalutato, derivava dalla volontà di salvaguardare il ruolo
dominante che la City aveva avuto nei cinquant’anni precedenti il con-
flitto e che era stato fonte di enormi guadagni e di grande potere per la
comunità finanziaria londinese. Così come la decisione di Mussolini di
tornare alla “quota novanta” prebellica nel rapporto lira/sterlina discen-
deva da considerazioni di prestigio internazionale e dalla volontà del nuo-
vo regime di accreditarsi presso le grandi famiglie del capitalismo italia-
no, ancora diffidenti verso un movimento come il fascismo, dove alber-
gavano pulsioni populistiche residue delle origini del movimento.
Tuttavia, questi errori politici nella fissazione del valore relativo delle
diverse monete potevano essere corretti, sia pure attraverso un gravoso
processo di riaggiustamento, dal funzionamento automatico del sistema,
se le economie capitalistiche non avessero subito profonde modificazioni
strutturali rispetto all’ultimo quarto del secolo precedente. Anche in pre-
senza di valori errati dei tassi di cambio, un regime di gold standard può
riportare in equilibrio gli scambi internazionali se esiste un alto grado di
flessibilità dei prezzi all’interno dei singoli paesi. In tali circostanze, non
è il valore nominale della moneta ad adeguarsi alle ragioni di scambio di
equilibrio, ma sono i prezzi dei beni e dei servizi all’interno dei singoli
paesi a cambiare. Nel caso degli esempi inglese e italiano prima citati, la
sopravvalutazione della sterlina e della lira, rispetto al dollaro e al franco
francese, avrebbe dovuto essere accompagnata da una consistente defla-
zione interna per il raggiungimento dell’equilibrio.
Ma ormai il sistema capitalistico aveva superato la fase concorrenziale
ed era entrato nella fase monopolistica e oligopolistica, con processi di
concentrazione industriale e finanziaria sempre più forti e con la forma-
zione di grandi gruppi capitalistici nazionali. In tal modo, i prezzi dei pro-
dotti industriali erano diventati sempre più vischiosi verso il basso e non
rispondevano più al solo gioco della domanda e dell’offerta. Inoltre, la
forza del movimento sindacale dei lavoratori inglesi, cresciuta in termini
qualitativi e quantitativi dopo la tragica esperienza bellica, come dimo-
strarono i grandi scioperi del 1926, impediva la riduzione dei salari no-
minali, necessaria ad adeguare il livello dei prezzi interni all’arbitraria fis-
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50 DOPO IL LIBERISMO

sazione della parità aurea della sterlina. Altri fattori di squilibrio struttu-
rale erano innescati dal settore finanziario. La crescita dei mercati finan-
ziari, derivante anche dall’esplosione del debito pubblico in conseguenza
delle spese di guerra, aveva creato un’enorme massa di capitale finanzia-
rio liquido, che si muoveva per ragioni speculative in cerca della miglio-
re remunerazione di breve periodo e che quindi spesso ostacolava i pro-
cessi di riequilibrio reale. La vicenda delle riparazioni di guerra, che la
Germania avrebbe dovuto pagare alle potenze vincitrici, rendeva ancora
più instabile la situazione. Inoltre, con la fine della prima guerra mon-
diale, gli Stati Uniti avevano ormai definitivamente soppiantato l’Inghil-
terra come potenza dominante sul piano industriale e finanziario e costi-
tuivano un polo di attrazione del capitale speculativo. Per tornare in equi-
librio il sistema avrebbe dovuto prevedere un processo di inflazione ne-
gli USA e di deflazione in Europa e un movimento di capitali in uscita dai
mercati finanziari statunitensi e in entrata in quelli europei. Il gold stan-
dard impediva che questi movimenti potessero essere significativamente
influenzati dalle politiche monetarie dei diversi paesi. Essi dovevano av-
venire spontaneamente, sulla base delle sole forze di mercato. In realtà
avvenne esattamente il contrario. Nel corso degli anni Venti gli USA co-
nobbero un boom economico fortissimo senza significative tensioni in-
flazionistiche a causa dei grandi aumenti di produttività derivanti dall’in-
troduzione del sistema fordista. In più, vi fu una vera e propria esplosio-
ne speculativa dei mercati finanziari, in particolare di quello borsistico,
che attirarono capitali da tutto il mondo.
Quando la bolla speculativa scoppiò, nell’ottobre del 1929 con il crol-
lo di Wall Street, fu l’intero sistema economico internazionale a saltare. Il
crollo borsistico di Wall Street innescò negli Stati Uniti una brusca con-
trazione della domanda interna, fino ad allora cresciuta esponenzialmen-
te su una piramide di debiti, che, sommata alla bancarotta di numerose
imprese industriali e finanziarie, condusse in breve tempo a una seria de-
pressione economica e a una pesante deflazione dei prezzi e dei salari.
A questo punto, le contraddizioni del restaurato gold standard diven-
nero esplosive. Le condizioni economiche e monetarie dei diversi paesi si
modificavano rapidamente lungo una direzione esattamente inversa a
quella necessaria a ristabilire l’equilibrio internazionale. Il 21 settembre
1931 l’Inghilterra sospese la convertibilità della sterlina in oro, innescan-
do una reazione a catena nei principali paesi europei. Un anno e mezzo
dopo, con l’abbandono del tallone aureo da parte degli Stati Uniti, scom-
parve ogni traccia di gold standard. Fino allo scoppio del secondo con-
flitto mondiale, il sistema economico internazionale attraversò una fase di
assoluta anarchia, dominata da svalutazioni competitive e da sempre più
pesanti restrizioni protezionistiche, sia nel commercio di beni e servizi sia
nei movimenti di capitale.
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2. IL DOMINIO DEL DOLLARO 51

2.2. Il sistema di Bretton Woods

Memori della disastrosa esperienza del primo dopoguerra, i delegati


riuniti a Bretton Woods non accarezzarono mai l’idea di una piena restau-
razione monetaria dell’oro. A Bretton Woods si confrontarono due ipote-
si di riforma. La prima era quella inglese ed era stata elaborata da John
Maynard Keynes, il prestigioso economista di Cambridge che guidava la
delegazione del Regno Unito3.
La proposta inglese prevedeva l’istituzione di una nuova moneta di
conto internazionale, denominata bancor, il cui valore doveva avere un
rapporto variabile con l’oro. Il bancor sarebbe divenuto la nuova mone-
ta di riserva internazionale e avrebbe dovuto essere gestito da un nuovo
organismo internazionale, l’International Clearing Union, le cui quote sa-
rebbero state assegnate a ciascun paese partecipante sulla base del ri-
spettivo peso nel commercio mondiale. Sostanzialmente, la proposta di
Keynes prevedeva la creazione di una banca centrale mondiale con pote-
ri di erogazione di prestiti, e quindi di creazione di credito internaziona-
le, finalizzati al sostegno dello sviluppo e alla stabilizzazione del ciclo eco-
nomico. Nel Piano Keynes i movimenti internazionali di capitale doveva-
no essere sottoposti a vincoli e restrizioni per impedire che operassero
speculativamente in direzione contraria all’equilibrio, come era successo
negli anni Venti.
A questa ipotesi di riforma si contrappose la proposta americana, no-
ta come Piano White, dal nome del capo della delegazione degli USA. An-
che la proposta americana si basava sulla creazione di un nuovo organi-
smo internazionale, ma con funzioni ben più limitate di quelle previste
nell’ipotesi inglese. Esso non doveva avere funzioni di creazione di credi-
to ma doveva limitarsi a gestire un fondo prefissato e non espandibile, co-
stituito dalle quote sottoscritte dai paesi partecipanti, per aiutare i paesi
con difficoltà temporanee di bilancia dei pagamenti. Nella proposta ame-
ricana, inoltre, non si prevedeva la creazione di alcuna nuova moneta in-
ternazionale ma si proponeva di istituire come unità di conto e moneta
contabile l’unitas, il cui valore era fissato in dieci dollaro oro. In tal mo-
do, nei fatti, poiché il valore del dollaro rispetto all’oro era fissato unila-
teralmente dalle autorità monetarie americane, si proponeva di istituire il
dollaro come moneta di riserva internazionale. Alla fine, con la sottoscri-
zione il 22 luglio del 1944 degli accordi di Bretton Woods, fu sostanzial-
mente accolta l’impostazione americana. Vennero creati due nuovi istitu-
ti internazionali, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca
Mondiale. Il primo istituto aveva il compito di gestire un fondo, costitui-
to dalle sottoscrizioni in oro e divise dei paesi partecipanti, finalizzato al-
la concessione di prestiti a paesi in difficoltà temporanee di bilancia dei
pagamenti. Il secondo istituto, la Banca Mondiale, aveva invece il compi-
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52 DOPO IL LIBERISMO

to di finanziare progetti di sviluppo economico di medio-lungo periodo,


utilizzando anch’essa un ammontare di risorse finanziarie prestabilito.
Entrambi i nuovi organismi internazionali erano quindi privi di una, sia
pur parziale, funzione creditizia. Si adottò, inoltre, un regime di tassi di
cambio fissi, basato sulla convertibilità internazionale del dollaro in oro
al prezzo di trentacinque dollari per oncia, con possibilità di modifica-
zione delle parità delle valute in caso di squilibrio strutturale della bilan-
cia dei pagamenti, previo assenso del FMI in caso di modifiche superiori
al 10 per cento delle parità prefissate.
Sulla base di questi accordi, dunque, la posizione dominante degli USA
veniva ratificata con l’istituzione del dollaro come unica moneta di riser-
va internazionale. Il solo vincolo alla discrezionalità della politica econo-
mica degli USA era costituito dall’impossibilità di svalutare la moneta
americana, in conseguenza dell’obbligo assunto dalle autorità monetarie
statunitensi di garantire la conversione in oro, al prezzo prestabilito, dei
dollari posseduti dalle banche centrali degli altri paesi. Per il carattere
esclusivo della moneta americana il sistema venne denominato dollar ex-
change standard.
Gli accordi siglati a Bretton Woods hanno costituito la cornice del si-
stema economico internazionale per i successivi venticinque anni, duran-
te i quali esso non ha subito significative modificazioni. Nel corso di que-
sto periodo l’economia capitalistica ha conosciuto una lunga fase di cre-
scita economica priva di precedenti storici, con un tasso di crescita medio
del PIL pro capite nei paesi industriali del 3,9 per cento annuo. Le fluttua-
zioni cicliche sono state molto contenute. Il commercio mondiale ha co-
nosciuto un incremento rapido, maggiore, in termini di valore e ancor più
in termini di volume, dell’aumento della produzione. Quali erano i mec-
canismi economici di funzionamento del sistema di Bretton Woods?
Il sistema di Bretton Woods ha funzionato fintanto che gli USA hanno
mantenuto un’incontrastata posizione di leadership, non solo politica e
militare, ma anche finanziaria e industriale. Alla fine della seconda guer-
ra mondiale l’Europa e l’Asia erano devastate dal conflitto. La capacità
produttiva e industriale dei principali paesi europei e del Giappone si era
drasticamente ridotta, a causa delle distruzioni belliche, rispetto alla si-
tuazione d’anteguerra. Negli USA era accaduto esattamente il contrario. Il
paese non era stato toccato direttamente dalla guerra e la crescente do-
manda pubblica di armamenti e di vettovagliamenti per l’esercito aveva
consentito una forte espansione industriale. Solo con la guerra l’econo-
mia americana uscì definitivamente dalla depressione economica iniziata
nel 1929. Inoltre, la necessità di sostenere lo sforzo bellico dei paesi al-
leati contro il nazifascismo, attraverso prestiti reali e finanziari, aveva ac-
cumulato negli USA una enorme quantità di crediti verso l’estero.
Fu questa posizione di assoluta preminenza industriale e finanziaria a
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2. IL DOMINIO DEL DOLLARO 53

rendere accettabile e obbligato per gli altri paesi il ruolo esclusivo del dol-
laro nel sistema monetario internazionale. Infatti, il vantaggio principale
di un paese la cui moneta svolge il ruolo di moneta di riserva internazio-
nale è il potere di signoraggio, cioè la possibilità di finanziare un eccesso
di importazioni sulle esportazioni attraverso la semplice emissione della
moneta nazionale. Chi detiene il potere di signoraggio non incontra il vin-
colo esterno, costituito dal saldo della bilancia commerciale, alla propria
crescita economica perché può pagare le merci importate semplicemente
stampando moneta, senza alcuna contropartita reale. La posizione strut-
turalmente eccedentaria della bilancia commerciale statunitense nell’im-
mediato secondo dopoguerra garantiva gli altri paesi rispetto a un possi-
bile abuso del potere di signoraggio degli USA. Ma anche per gli USA, la
posizione dominante acquisita nel corso della guerra fu fonte di tranquil-
lità per accettare la responsabilità di fare del dollaro la moneta di riserva
mondiale, privandosi così della possibilità di svalutare la propria divisa
per recuperare competitività internazionale. Lungo tutti gli anni Cin-
quanta il sistema funzionò senza intoppi. Gli USA finanziarono il proces-
so di ricostruzione delle economie europee e giapponese attraverso aiuti
unilaterali, surplus commerciali e movimenti di capitale a breve e lungo
termine. La preoccupazione maggiore in questo periodo fu una possibile
carenza di dollari in relazione alle necessità di espansione del commercio
internazionale. Infatti, dato che la produzione aurea cresceva molto più
lentamente della crescita in valore del commercio internazionale, la ri-
chiesta di dollari come mezzi di pagamento internazionale era in continua
crescita. Questa preoccupazione fu prontamente sedata da flussi di capi-
tali pubblici, come quelli previsti dal Piano Marshall, e privati in uscita
dagli USA verso il resto del mondo, di gran lunga superiori ai surplus com-
merciali che gli USA continuarono, sia pure con velocità decrescente, ad
accumulare nel corso del decennio.
Fu proprio analizzando lo scarto tra la dinamica della produzione au-
rea e quella dell’espansione del commercio internazionale che nel 1960
l’economista Robert Triffin, in un fondamentale lavoro, mise in luce l’e-
sistenza di un problema strutturale di lungo periodo del dollar exchange
standard, il problema dell’affidabilità. Per garantire ritmi sostenuti di cre-
scita dell’economia mondiale, data l’inelasticità dell’offerta di oro, il rap-
porto tra la quantità di dollari detenuti dalle banche centrali come valu-
ta di riserva e dagli operatori come mezzo di pagamento internazionale e
la quantità di oro detenuta dalle autorità monetarie americane era desti-
nata a crescere e a superare la soglia critica dell’unità. Qualora ciò fosse
accaduto, la convertibilità internazionale dei dollari in oro avrebbe potu-
to essere garantita solo parzialmente, generando un problema di fiducia
nella moneta americana potenzialmente in grado di far saltare l’intero si-
stema. Ciò era già avvenuto nel 1931 con il gold standard, allorché la mas-
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54 DOPO IL LIBERISMO

siccia richiesta di conversione di sterline in oro portò al crollo definitivo


del sistema monetario internazionale. Il problema dell’affidabilità tutta-
via non si poneva in termini concreti fintanto che la competitività indu-
striale degli USA fosse rimasta tale da determinare una situazione di soli-
do surplus commerciale.
Un primo segnale di allarme per la stabilità del sistema di Bretton
Woods si ebbe nel 1959 quando, per la prima volta, si verificò un disa-
vanzo nelle partite correnti degli USA. All’inizio degli anni Sessanta l’eco-
nomia europea e quella giapponese avevano recuperato pienamente la
competitività industriale e marciavano a ritmi di crescita superiori a quel-
li statunitensi. L’aumento della spesa pubblica, derivante dal sempre più
massiccio intervento militare in Vietnam e finanziata con un aumento del-
l’offerta di moneta, contribuì a innescare, alla metà degli anni Sessanta,
un processo inflazionistico negli USA che, data l’impossibilità di svaluta-
zione del dollaro, produsse una ulteriore perdita di competitività inter-
nazionale dei prodotti americani con immediate ripercussioni sulle parti-
te correnti. L’esistenza di un mercato dell’eurodollaro, costituito da de-
positi e da prestiti in dollari al di fuori del sistema bancario statunitense,
rendeva d’altra parte impraticabile il controllo della dinamica inflazioni-
stica interna agli USA attraverso una maggiore rigidità monetaria da parte
della Federal Reserve. La fiducia nei confronti del dollaro cominciò a
scricchiolare. Massicce operazioni speculative di acquisto di oro sul mer-
cato di Londra condussero alla creazione nel 1968 di un doppio mercato
dell’oro, uno privato e uno ufficiale. Ormai il prezzo ufficiale dell’oro in
dollari, perno del sistema di Bretton Woods, era stato ridotto a una pura
finzione contabile per regolare le transazioni tra le banche centrali.
La spinta inflazionistica interna degli USA, il deterioramento continuo
delle partite correnti e l’azione della speculazione, crearono alla lunga
una situazione insostenibile. Ciò portò il 15 agosto 1971 alla decisione
unilaterale degli USA di decretare la fine della convertibilità del dollaro in
oro e di procedere a una consistente svalutazione della moneta america-
na. L’obiettivo immediato di questa decisione era quello di recuperare la
competitività del sistema industriale americano rispetto, in particolare, al-
la Germania e al Giappone, che si erano sempre rifiutate di rivalutare le
proprie monete. In questo modo, il sistema di Bretton Woods non esiste-
va più, cancellato con un atto imperiale del presidente Nixon.
Per un anno e mezzo, i paesi industriali tentarono comunque di salva-
re il sistema di cambi fissi, con un dollaro svalutato rispetto alla parità di
Bretton Woods, anche in assenza di un ancoraggio all’oro. Ma il 19 mar-
zo 1973 si dovettero arrendere all’azione di una speculazione che, di fron-
te a squilibri strutturali insostenibili, scommetteva sul sicuro. Da allora si
entrò nell’era, che dura ancora oggi, dei tassi di cambio flessibili.
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2. IL DOMINIO DEL DOLLARO 55

2.3. Il dominio del dollaro nell’era della globalizzazione neoliberista

La decisione assunta dal presidente Nixon nel ferragosto del 1971 fu


una prova di forza attraverso la quale gli USA riconfermarono la loro po-
sizione di assoluta egemonia sull’intero mondo capitalistico. Sganciando
il dollaro dall’oro, gli USA eliminarono ogni vincolo che il trattato di Bret-
ton Woods aveva imposto all’autonomia della loro politica economica,
senza per contro rinunciare ai privilegi che la posizione centrale del dol-
laro garantiva all’interno di quel sistema monetario internazionale. Que-
sta spregiudicata operazione fu resa possibile anche dalla mancanza di
reali alternative al dollaro come mezzo di pagamento internazionale e
moneta di riserva. Le possibili alternative teoriche al dollaro erano l’oro,
i diritti speciali di prelievo (DSP) e le altre valute. Per ragioni diverse que-
ste alternative non erano concretamente praticabili.
Il processo di demonetizzazione dell’oro era già cominciato a Bretton
Woods allorché la convertibilità del dollaro in oro fu garantita solo agli
operatori non residenti ufficiali, cioè alle banche centrali. Successivamen-
te, la creazione di due diversi mercati dell’oro, uno privato, con prezzi
molto fluttuanti, e uno ufficiale, con prezzi fissi, ne aveva ulteriormente li-
mitato la funzione monetaria. Soltanto un accordo internazionale finaliz-
zato alla stabilizzazione del prezzo dell’oro sul mercato privato avrebbe
potuto rilanciare l’oro come moneta internazionale. Ma, data la consi-
stenza dello stock aureo della Federal Reserve, un eventuale accordo ne-
cessitava dell’assenso delle autorità americane; cosa che, ovviamente, non
ci fu mai.
I DSP sono una moneta fiduciaria internazionale emessa dal FMI. La de-
cisione di creare questo nuovo strumento monetario internazionale fu as-
sunta nel 1967 dall’assemblea del Fondo. Essi avrebbero dovuto rag-
giungere il 7,5 per cento del totale delle riserve internazionali ed essere
assegnati in proporzione alle quote dei diversi paesi all’interno del FMI.
La decisa opposizione degli USA ha continuamente ostacolato l’emissione
dei DSP, che potenzialmente rappresentavano la realizzazione della pro-
posta di Keynes di istituzione di una nuova moneta di riserva sovrana-
zionale, tanto che nel 2002 essi rappresentavano soltanto l’1,1 per cento
del totale delle riserve mondiali.
Nel 1971 la possibilità per le altre valute di sostituire in tempi brevi il
dollaro sui mercati internazionali era nulla. Nessun paese era paragona-
bile agli USA come peso sull’economia mondiale. Nessun altro mercato fi-
nanziario nazionale poteva sfidare la supremazia di Wall Street. Nessun
altro Stato del mondo capitalistico poteva competere nell’arena politica e
militare internazionale con gli USA. In più, i soli due paesi che avrebbero
potuto aspirare a un ruolo maggiore per le loro monete, la Germania fe-
derale e il Giappone, oltre ad essere i meno indipendenti sul piano poli-
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56 DOPO IL LIBERISMO

tico avendo perso la guerra, erano estremamente riluttanti ad espandere


la funzione internazionale del marco e dello yen. La Germania temeva
possibili effetti inflazionistici derivanti dalla perdita del controllo dell’of-
ferta di moneta qualora il marco fosse stato massicciamente utilizzato ne-
gli scambi internazionali, mentre il Giappone, che basava la propria cre-
scita economica sulle esportazioni, voleva continuare a godere della sot-
tovalutazione dello yen come strumento di rafforzamento della propria
competitività internazionale. La diversificazione delle riserve internazio-
nali nelle diverse valute fu quindi, negli anni successivi al 1971, molto ri-
dotta. Le crisi petrolifere del 1973 e del 1979, molto più pesanti per le
economie europee e giapponesi che per quella americana, consolidarono
ulteriormente il ruolo del dollaro. Il sistema monetario internazionale era
così passato, per scelta unilaterale degli USA, da un dollar exchange stan-
dard a un dollar standard.
Negli anni immediatamente successivi alla storica decisione di Nixon,
il dollaro subì un forte processo di deprezzamento, articolato in tre fasi,
nel 1971, nel 1973 e nel 1977-78. Tuttavia, mentre nel 1971 il deprezza-
mento del dollaro era finalizzato a recuperare la competitività perduta nel
trentennio precedente, i successivi deprezzamenti degli anni Settanta co-
stituirono la specifica risposta allo shock petrolifero del 1973 e alla con-
flittualità sociale di quegli anni e configurarono un atteggiamento adatta-
tivo delle autorità monetarie statunitensi alla crisi economica.
L’effetto di questo orientamento della politica monetaria statunitense
fu duplice. In primo luogo, alimentando la spirale inflazionistica, si im-
pediva il consolidamento della nuova distribuzione del reddito sia all’in-
terno delle economie capitalistiche, dove il ciclo di lotte sociali della fi-
ne degli anni Sessanta aveva prodotto un sensibile aumento dei salari
reali, sia a livello internazionale, dove l’aumento dei prezzi delle materie
prime, a cominciare dal petrolio, aveva spostato ricchezze verso i paesi
del Sud del mondo. In secondo luogo, il deprezzamento del dollaro de-
terminò un sostanziale miglioramento della competitività internazionale
degli USA e, in tal modo, arrestò (e, per certi versi, invertì) il deteriora-
mento delle partite correnti statunitensi. Questo orientamento espansi-
vo della politica monetaria degli USA fu una delle cause principali del-
l’innescarsi della spirale inflazionistica che nel corso degli anni Settanta
caratterizzò tutto il mondo capitalistico sviluppato. Infatti, le altre eco-
nomie industriali, per evitare di sopportare l’intero peso della crisi eco-
nomica, seguirono l’indirizzo monetario espansivo degli USA, dando co-
sì un carattere burrascoso e incerto all’andamento dei mercati finanziari
internazionali. In realtà, le economie europee tentarono nel 1973, con il
cosiddetto serpente monetario, di stabilizzare i rapporti tra le loro valu-
te in un sistema di fluttuazione congiunta rispetto al dollaro per evitare
la disintegrazione dei legami economici reciproci. Tale tentativo, a cui
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2. IL DOMINIO DEL DOLLARO 57

l’Italia non partecipò, non resse però alla profondità della crisi della
metà degli anni Settanta.
Alla fine del decennio l’economia internazionale si trovava in una si-
tuazione di forte instabilità, caratterizzata da comportamenti aggressiva-
mente competitivi delle principali economie, dalla introduzione di misu-
re protezionistiche sui mercati reali e finanziari internazionali, con una
forte inflazione non domata e con tassi di cambio soggetti a rapide e im-
provvise fluttuazioni. Nel corso del 1978 sui mercati finanziari interna-
zionali cominciarono a manifestarsi chiari segni di una crisi di fiducia nei
confronti del dollaro che, se fosse avvenuta, avrebbe condotto al disfaci-
mento del sistema di relazioni economiche internazionali dominante.
Fu in questa situazione che nel corso del 1979 si verificò il secondo
shock petrolifero, il quale, pur essendo meno violento del primo, produs-
se un aumento del 250 per cento dei prezzi del petrolio. Questa volta però
la reazione delle autorità monetarie statunitensi fu molto diversa da quel-
la dei primi anni Settanta. Invece di adottare un comportamento adattati-
vo nei confronti della spinta inflazionistica, la Federal Reserve rispose con
una forte stretta monetaria, che fece schizzare in alto i tassi di interesse e
provocò un fortissimo apprezzamento del dollaro. Questo orientamento
venne rafforzato, dopo le elezioni presidenziali del 1980, dalla vittoria di
Ronald Reagan, che affiancò alla politica monetaria restrittiva una politica
fiscale espansiva, fondata sull’aumento delle spese militari, e un program-
ma di privatizzazioni e di smantellamento del Welfare State.
La svolta nella politica americana del 1979-80 ha avuto effetti profon-
di e duraturi non solo per l’evoluzione del sistema economico internazio-
nale, ma anche per l’assetto politico e sociale del mondo intero, tanto che
si può fondatamente sostenere che i caratteri essenziali della fase storica
attuale trovano la loro origine nelle decisioni assunte in quei mesi crucia-
li dall’establishment della principale potenza capitalistica. Non è questa
la sede per svolgere un esame approfondito degli effetti generali che que-
sta svolta ha avuto nel modellare il mondo in cui ancora oggi viviamo.
Pertanto, ci limiteremo a elencare schematicamente le principali riper-
cussioni sul terreno dell’evoluzione del sistema monetario internazionale.
Innanzitutto, la fortissima rivalutazione del dollaro nella prima metà
degli anni Ottanta ha definitivamente restaurato la moneta americana nel
ruolo di unica moneta di riserva internazionale. Con qualche fluttuazio-
ne superficiale, nel corso dell’ultimo ventennio il dollaro ha continuato a
costituire la quota maggioritaria delle riserve di valuta mondiali. All’in-
domani del crollo del sistema di Bretton Woods erano ben pochi coloro
che avrebbero scommesso su una simile previsione. Nel corso degli anni
Novanta, lo yen, che insieme al marco ha rappresentato per lungo tempo
una delle possibili alternative, ha subito un progressivo e inarrestabile in-
debolimento in conseguenza della profonda stagnazione economica del-
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58 DOPO IL LIBERISMO

l’economia giapponese. D’altra parte, il neonato euro, che potenzialmen-


te rappresenta una sfida temibile per il dollaro grazie alle dimensioni con-
siderevoli dell’economia europea, è ancora schiacciato in un ruolo regio-
nale dalle continue manifestazioni di nanismo politico dell’Europa. In
questo contesto, gli USA hanno sfruttato fino in fondo il ruolo internazio-
nale della propria moneta, massimizzando i vantaggi derivanti dal potere
di signoraggio di cui essa, come moneta di riserva, gode.
A partire dalla prima metà degli anni Ottanta l’economia statunitense
si è trasformata in un’economia strutturalmente e permanentemente de-
ficitaria nei conti con l’estero, tanto che oggi gli USA sono di gran lunga il
paese più indebitato del mondo. In termini di bilancia commerciale l’ul-
timo saldo positivo per gli USA risale al 1975, mentre se si considerano le
partite correnti, comprensive anche dei servizi, l’ultimo saldo positivo av-
venne nel 1981. Il deficit del saldo commerciale USA viaggia ormai stabil-
mente a ritmi superiori ai quaranta miliardi di dollari al mese, e nel 2003
ha raggiunto i 542 miliardi, pari a circa il 5 per cento del PIL. Il debito
estero statunitense ammontava alla fine del 2002 a circa 2.900 miliardi di
dollari, pari al 27 per cento del PIL e al 300 per cento del valore delle
esportazioni annue. Basti pensare che il debito estero totale, comprensi-
vo di tutti i paesi in via di sviluppo e dei paesi dell’Europa orientale e del-
l’ex URSS, nello stesso anno ammontava a 2.488 miliardi di dollari e il rap-
porto debito estero/esportazioni era del 136 per cento per i PVS e del 103
per cento per i paesi dell’Europa dell’Est, valori circa tre volte inferiori a
quelli stratosferici degli USA. Solo un uso spregiudicato del signoraggio
può consentire a un paese di vivere strutturalmente al di sopra dei propri
mezzi per un periodo così lungo e con dimensioni tanto rilevanti. Qua-
lunque altro paese, ben prima di raggiungere i livelli portentosi di inde-
bitamento estero degli USA, sarebbe sprofondato in una disastrosa banca-
rotta, come d’altra parte è accaduto a diversi paesi dell’America Latina,
dell’Asia e dell’Africa.
La piena liberalizzazione dei movimenti di capitale internazionali, che
è stata uno dei cardini del progetto politico neoliberista lanciato da Ro-
nald Reagan, ha consentito la massimizzazione del potere di signoraggio
americano, garantendo un continuo afflusso di capitali da tutto il mondo,
alla ricerca della più alta remunerazione e del minor rischio, e contri-
buendo così al boom borsistico di Wall Street. La crescita record dell’e-
conomia americana negli anni Novanta annovera tra le sue cause fonda-
mentali questa facile disponibilità di liquidità. In questo contesto, le im-
prese hanno potuto reperire facilmente le risorse per la rivoluzione tec-
nologica in atto e i consumatori hanno trovato il credito necessario per
mantenere a livelli eccezionali la domanda interna. La dimostrazione più
clamorosa del potere di signoraggio degli USA è data dal fatto che ormai
da un decennio il tasso di risparmio dell’economia americana si è asse-
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2. IL DOMINIO DEL DOLLARO 59

stato strutturalmente su valori prossimi allo zero e addirittura, in alcuni


anni, negativi, fenomeno unico nella storia economica moderna, nono-
stante il fatto che fino al 2001 il risparmio pubblico fosse positivo a cau-
sa del surplus del bilancio statale federale. La svolta di politica fiscale del-
l’amministrazione Bush, dopo gli eventi terroristici dell’11 settembre, ha
aggiunto un deficit del bilancio pubblico del 3,4 per cento annuo al già
ridottissimo tasso di risparmio privato. Senza la grande disponibilità di
ottenere credito dal resto del mondo, cosa che consente un ritmo elevato
di crescita della produttività e della domanda interna, il modello sociale
americano, fondato sulla precarizzazione del lavoro, non reggerebbe alle
contraddizioni sociali che comporta.
Grazie alla supremazia finanziaria e monetaria, gli USA hanno ormai
pienamente recuperato la leadership nei settori produttivi tecnologica-
mente più avanzati e innovativi, che negli anni Settanta e Ottanta, di fron-
te alla sfida tedesca e soprattutto giapponese, pareva destinata a un irre-
versibile tramonto, e all’inizio del nuovo secolo appaiono all’apice della lo-
ro potenza. È soprattutto per questa ragione che, nel corso degli anni Ot-
tanta, gli USA sono passati da un atteggiamento sostanzialmente protezio-
nistico sul terreno degli scambi commerciali internazionali, che contrasta-
va con la loro volontà di perseguire la piena liberalizzazione finanziaria, a
un orientamento fortemente liberistico che ha condotto al superamento
del GATT, basato sul meccanismo contrattuale degli accordi multilaterali, e
alla nascita del WTO come organismo permanente di regolazione del com-
mercio internazionale dotato di autonomi poteri sovranazionali.
Ma questo gigantesco rafforzamento della potenza economica ameri-
cana ha come contraltare l’impoverimento relativo e assoluto degli altri
paesi e in particolare di quelli del Sud del mondo. La svolta restrittiva del-
la politica monetaria statunitense nei primi anni Ottanta, con gli alti tas-
si di interesse e l’accentramento dei capitali nei mercati finanziari ameri-
cani, ha avuto come effetto immediato la crisi del debito dei paesi del Ter-
zo Mondo e il prosciugamento delle fonti di credito allo sviluppo, facen-
do sprofondare una parte rilevante dell’umanità nelle tenebre della mise-
ria più nera. Il ruolo degli organismi internazionali, FMI e Banca Mondia-
le, in questo contesto è stato del tutto funzionale al progetto di restaura-
zione degli USA, imponendo ai paesi indebitati politiche di restrizione mo-
netaria e fiscale all’interno e di apertura finanziaria e commerciale inter-
nazionale all’esterno. Sono stati questi i cardini fondamentali del cosid-
detto Washington Consensus.
D’altra parte, l’Europa occidentale, che, anche per la subalternità po-
litica delle sue classi dirigenti verso gli USA, ha seguito senza sostanziali va-
rianti la svolta della politica economica americana, si è trovata a dover
competere sul terreno del modello sociale neoliberista senza godere dei
vantaggi che la supremazia monetaria e finanziaria comporta. Infatti, la
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60 DOPO IL LIBERISMO

lenta e faticosa costruzione dell’Unione Monetaria Europea, iniziata nel


1979 con l’avvio del Sistema Monetario Europeo, strumento flessibile di
fluttuazione congiunta delle monete continentali, e approdata al trattato
di Maastricht nel 1992, è stata contrassegnata da un indirizzo di politica
economica analogo al neoliberismo americano. In questo modo, nel cor-
so degli anni Novanta, l’Europa occidentale ha scontato una disoccupa-
zione strutturale di massa e un tasso di crescita della produttività e dell’e-
conomia più che dimezzato rispetto a quello degli USA. Inoltre, la debo-
lezza politica delle istituzioni europee, manifestatasi di nuovo clamorosa-
mente nella guerra all’Iraq, rappresenta un pesante fardello per la nuova
moneta europea, l’euro, ancora incapace di sfidare seriamente il ruolo in-
ternazionale del dollaro.
In conclusione, a partire dagli anni Ottanta, e particolarmente nell’ul-
timo decennio, l’economia USA ha assunto sempre più connotati vampi-
reschi, succhiando risorse dal resto del mondo per finanziare gratuita-
mente la propria crescita. Ma non si deve credere che l’espansione dro-
gata dell’economia statunitense abbia prodotto solo svantaggi agli altri
paesi. Infatti, la crescita degli USA ha rappresentato per un ristretta cer-
chia di paesi, come la Cina e i nuovi paesi emergenti, uno sbocco com-
merciale essenziale, una componente indispensabile della domanda. Chi
ha davvero avuto da perdere da questa situazione distorta sono stati i pae-
si del Sud del mondo, che hanno visto prosciugarsi i canali di credito per
finanziare lo sviluppo e sono sprofondati in una serie di crisi economiche
e finanziarie devastanti.
Nei primi anni Novanta la liberalizzazione dei mercati finanziari e dei
movimenti internazionali di capitale, ingrediente fondamentale delle po-
litiche neoliberiste, può considerarsi un obiettivo ormai raggiunto. Alla
fine del decennio il grado di finanziarizzazione delle economie dei prin-
cipali paesi industriali ha toccato livelli mai raggiunti in passato. Nel 1999
il valore della ricchezza finanziaria detenuta da famiglie e imprese dei
principali paesi industriali rappresentava il 360 per cento del prodotto
dell’area, contro un valore del 210 per cento dell’inizio del decennio. La
capitalizzazione borsistica ha raggiunto il 125 per cento del PIL a fronte
del 40 per cento di dieci anni prima e i titoli azionari pesano per il 35 per
cento sul portafoglio finanziario dei risparmiatori, contro il 20 per cento
precedente. Questo eccezionale boom finanziario è stato in larga misura
causato dall’enorme incremento dei prodotti finanziari derivati (options,
futures, swap), di natura fortemente speculativa, che in un decennio sono
saliti dal 40 al 340 per cento del prodotto dei principali paesi industriali.
La globalizzazione della finanza, ingrediente fondamentale del dollar
standard, ha rafforzato i legami di interdipendenza tra i mercati finanzia-
ri di tutti i paesi. In questo modo, le crisi e le turbolenze finanziarie che
colpiscono un paese si trasformano rapidamente in minacce per la stabi-
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2. IL DOMINIO DEL DOLLARO 61

lità globale dell’intero sistema finanziario internazionale. La trasmissione


delle crisi e delle turbolenze finanziarie colpisce anche paesi non integra-
ti sul piano delle economie reali e con gradi di sviluppo diversi. La piena
restaurazione del dollaro come moneta mondiale ha portato con sé una
maggiore fragilità del sistema finanziario internazionale.
La prima crisi finanziaria globale fu innescata dal Messico che, nel di-
cembre del 1994, fu costretto ad abbandonare il legame del peso con il
dollaro, innescando ripercussioni a catena in tutti i mercati valutari e fi-
nanziari dell’America Latina. La crisi messicana fu subito avvertita dalla
comunità finanziaria internazionale, e in particolare dagli USA, come un
evento suscettibile di produrre una catena di rovinose conseguenze nel-
l’intero sistema finanziario internazionale. Per questo gli USA si affretta-
rono a predisporre un consistente intervento di salvataggio, pari a cin-
quanta miliardi di dollari di nuovi prestiti al Messico. Tuttavia, questo
massiccio sforzo finanziario, pur avendo evitato il definitivo crollo dei
mercati finanziari latinoamericani, non è riuscito a riportare ai livelli pre-
cedenti la fiducia degli investitori. La crisi messicana ha così fermato la
crescita tumultuosa dei mercati finanziari dell’America Latina, produ-
cendo conseguenze durature e ancora presenti sullo sviluppo di quei pae-
si, come dimostra il caso argentino.
La seconda crisi finanziaria globale scoppiò nel 1997 in Asia, in segui-
to alla svalutazione della moneta tailandese. Rapidamente la crisi si estese
alle monete di tutti gli altri paesi della regione del Sudest asiatico, in par-
ticolare alla Corea del Sud e all’Indonesia, producendo il crollo dei mer-
cati azionari e obbligazionari dell’intera area. La crisi finanziaria del 1997
ha definitivamente spezzato la straordinaria crescita economica delle “ti-
gri asiatiche”, per anni portata ad esempio come modello da imitare per
tutti i paesi del Sud del mondo. Le ripercussioni economiche e sociali, in
termini di occupazione e di reddito, della crisi finanziaria all’interno dei
paesi colpiti sono state enormi, bruciando in pochissimo tempo i progres-
si accumulati in quindici anni di crescita sostenuta dell’economia reale. Il
rischio di contagio all’intero sistema finanziario internazionale, in partico-
lare ai mercati americano ed europeo, fu scongiurato al prezzo di un gi-
gantesco intervento di sostegno che, per i soli paesi direttamente colpiti, è
ammontato a centodieci miliardi di dollari. Tuttavia, ancora oggi, i paesi
del Sudest asiatico ristagnano in una situazione di fragilità economica e fi-
nanziaria destinata probabilmente a protrarsi ancora per lungo tempo.
La terza crisi finanziaria globale, la più pericolosa per i mercati dei pae-
si sviluppati, colpì la Russia. Nell’agosto del 1998, in seguito a un drastico
ribasso dei prezzi delle materie prime, la Russia dichiarò la propria insol-
venza nell’onorare il servizio del debito estero, innescando un massiccio
spostamento di capitali dai paesi in via di sviluppo verso i mercati dei pae-
si sviluppati. La crisi finanziaria russa si era trasmessa immediatamente in
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 62

62 DOPO IL LIBERISMO

tutto il mondo, generando situazioni di forte ribasso dei corsi obbligazio-


nari nei paesi dell’Europa centrorientale, dell’Asia e dell’America Latina,
in particolare in Brasile. La crisi fu arrestata soltanto dopo che gli USA de-
cisero un allentamento delle condizioni monetarie interne, con un ribasso
dei tassi di interesse, e grazie a un massiccio intervento di salvataggio da
parte di un consorzio di banche, coordinato dalla Federal Reserve.
Dopo questa veloce carrellata storica siamo ormai arrivati ai giorni no-
stri. Le profonde trasformazioni subite dall’economia mondiale nel corso
dell’ultimo ventennio, che oggi riassumiamo con il termine di globalizza-
zione neoliberista, hanno rivoluzionato il capitalismo, scompaginando le
precedenti strutture di classe, indebolendo le tradizionali forme politiche
degli Stati nazionali, portando alla formazione di una nuova e ristretta
borghesia mondiale, priva di vincoli nazionali e fortemente coesa e inte-
grata. Tutto questo però è avvenuto e continua ad avvenire sotto la guida
e l’impulso di uno Stato, gli USA, che attraverso la difesa dei propri inte-
ressi nazionali funge da levatrice e da tutore dell’ordine economico e so-
ciale mondiale. Questo nuovo ordine economico e sociale non è però af-
fatto esente da contraddizioni interne ed esterne. Da un lato, la centralità
assunta dai meccanismi monetari e finanziari nel processo di accumula-
zione rende la crescente instabilità intrinseca dei mercati finanziari un po-
tenziale rischio per l’intero sistema. È questa oggi una delle principali
preoccupazioni delle tecnocrazie del capitale internazionale, all’affanno-
sa ricerca di strumenti e procedure in grado di garantire un funziona-
mento stabile dei mercati e di evitare crisi finanziarie traumatiche nelle
principali piazze mondiali. Dall’altro lato, l’affacciarsi di un movimento
di massa mondiale contro la globalizzazione capitalistica, esploso a Seat-
tle e da allora diffusosi su tutto il pianeta, manifesta la possibilità di co-
struire un’alternativa politica e sociale all’ordine attuale.
La profonda crisi economica strutturale odierna è la dimostrazione
che l’ordine neoliberale degli anni Novanta era un gigante dai piedi di ar-
gilla. Si riaffacciano, dopo settanta anni, gli incubi della deflazione e del-
le svalutazioni competitive che gettarono il sistema capitalistico nell’a-
narchia economica degli anni Trenta. In conclusione, la storia continua.

2.4. FMI, Banca Mondiale e il fallimento del Washington Consensus

L’operato del FMI e della Banca Mondiale nell’ultimo ventennio ha agi-


to nel senso di condizionare l’erogazione dei finanziamenti all’applicazio-
ne selvaggia delle politiche neoliberiste all’interno dei paesi del Sud del
mondo, al solo scopo di garantire il pagamento degli oneri del debito
estero ai grandi creditori internazionali. Il fine originario di queste istitu-
zioni è stato così completamente tradito: invece di favorire, attraverso ap-
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2. IL DOMINIO DEL DOLLARO 63

positi canali di finanziamento internazionale, lo sviluppo economico e so-


ciale dei paesi in difficoltà, rimuovendone i vincoli esterni e promuoven-
do progetti di investimento, esse hanno al contrario agito nel senso di ac-
centuare la polarizzazione dello sviluppo e di incrementare la disugua-
glianza tra paesi e al loro interno, al solo scopo di tutelare gli interessi del
grande capitale finanziario transnazionale4. Questo orientamento neoli-
berista è stato reso possibile anche dalla organizzazione interna antide-
mocratica di queste istituzioni, basate su un meccanismo decisionale fon-
dato sulle quote finanziarie di partecipazione che assicurano ai paesi ric-
chi il completo controllo dell’organizzazione e delle sue politiche5.
FMI e Banca Mondiale sono diventate nel corso degli anni Novanta i
principali strumenti di imposizione a livello planetario del cosiddetto Wa-
shington Consensus, un corpo organico di ricette di politica economica,
elaborato nei palazzi del dipartimento del Tesoro degli USA, che ha costi-
tuito per molti anni la bibbia del neoliberismo applicato. Il punto di par-
tenza teorico del Washington Consensus è la convinzione che lo sviluppo
e la modernizzazione delle economie arretrate debbano essere perseguiti
attraverso la crescita delle esportazioni e della domanda estera. L’intero si-
stema economico deve quindi essere orientato verso un sempre maggiore
inserimento nel mercato internazionale, mentre le politiche di sostegno al-
la domanda interna, che presuppongono un decisivo ruolo pubblico nella
redistribuzione del reddito e nella programmazione degli investimenti, de-
vono essere ridotte e subordinate alle esigenze derivanti dall’espansione
del settore esportatore. In tal modo, il vincolo estero, la necessità cioè di
rispettare i criteri di competitività e di efficienza imposti dal mercato glo-
bale, diventa il perno attorno a cui ruota l’intera organizzazione economi-
ca. L’idea che sta dietro questa visione del funzionamento di un sistema
economico è quella dell’assoluta superiorità del libero mercato nel pro-
muovere un’allocazione efficiente delle risorse. La promozione delle
esportazioni implica così l’abolizione di ogni barriera, diretta e indiretta,
che protegga i mercati reali e finanziari nazionali dalla concorrenza estera.
In questo modo, l’elemento centrale degli schemi di politica economica
derivanti dall’applicazione del Washington Consensus è stata la privatizza-
zione di ogni sfera di attività pubblica teoricamente gestibile da imprese
private e l’apertura integrale dei mercati nazionali, non solo delle merci ma
anche dei servizi reali e finanziari6. Le privatizzazioni sono state conside-
rate dal FMI e dalla Banca Mondiale come la panacea di ogni male econo-
mico, da perseguire, nel più rapido calendario possibile, in ogni angolo del
mondo indipendentemente dalle specifiche situazioni di ogni singolo pae-
se. Così le stesse identiche ricette sono state propugnate e imposte in Rus-
sia e nelle economie in transizione dell’Europa dell’Est come nell’Africa
subsahariana devastata dalla fame, in Asia orientale come in America La-
tina, in Europa occidentale come negli USA.
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64 DOPO IL LIBERISMO

Tuttavia, il paradigma dello sviluppo trainato dalle esportazioni è de-


stinato a un sicuro insuccesso se applicato su scala globale. I paesi sotto-
sviluppati competono tra di loro per esportare prodotti con le medesime
caratteristiche verso i mercati dei paesi sviluppati. La struttura delle loro
economie e la ristrettezza dei loro mercati interni è tale infatti da consen-
tire soltanto una limitata diversificazione delle produzioni, generalmente
concentrate nei settori delle materie prime e dei manufatti ad alta intensità
di lavoro. La crescita totale della domanda estera per le economie del Sud
del mondo dipende quindi dalla crescita della domanda interna dei paesi
del Nord. Lo sviluppo accelerato di un’economia sottosviluppata trainato
dalle esportazioni può avvenire soltanto sottraendo quote di mercato ad
altre economie aventi un analogo livello di sviluppo. Il gioco finale è dun-
que a somma zero. La crescita dell’uno avviene a scapito della stagnazio-
ne dell’altro paese sottosviluppato. Questo paradigma produce così una
sfrenata competitività tra paesi poveri per conquistare spazi sul mercato
globale mediante la riduzione ossessiva dei costi, ottenuta attraverso bassi
salari, sfruttamento del lavoro e dell’ambiente, deregolamentazione degli
investimenti diretti all’estero, riduzioni e agevolazioni fiscali alle imprese
multinazionali esportatrici. Questa concorrenzialità esasperata, attraverso
l’eccesso di offerta che essa produce sui mercati globali delle materie pri-
me e dei manufatti di base, genera inoltre una permanente tendenza al
peggioramento delle ragioni di scambio per i prodotti del Sud del mondo
a tutto vantaggio delle economie sviluppate. Il paradigma della crescita
basata sulle esportazioni è dunque all’origine di un circolo vizioso e per-
verso che incrementa i divari di sviluppo nell’economia mondiale.
A partire dalla fine degli anni Ottanta, oltre settanta paesi del Sud del
mondo, strangolati dal debito estero, sono stati costretti a uniformarsi ai
Programmi di Aggiustamento Strutturale (SAP, Structural Adjustment
Programs) imposti dal FMI e dalla Banca Mondiale, che invariabilmente
prevedevano una drastica riduzione della spesa pubblica, la rimozione dei
controlli sugli investimenti esteri e la liberalizzazione delle importazioni,
la deregolamentazione dei mercati interni, le privatizzazioni delle impre-
se e dei servizi pubblici, la svalutazione delle monete e il taglio dei salari.
Il fallimento, in termini di benessere sociale e di sviluppo economico,
di questa dottrina è stato totale, in particolare nelle zone più povere del
mondo7. Il Rapporto SAPRI (Structural Adjustment Partecipatory Review
Initiative), frutto di un colossale lavoro di ricerca durato quattro anni,
originato da un accordo tra la Banca Mondiale, i governi nazionali e cen-
tinaia di organizzazioni della società civile per esaminare gli effetti eco-
nomici e sociali dei SAP, ha prodotto constatazioni inequivocabili a tale
proposito8. Esso è giunto alla conclusione che i SAP hanno prodotto un ul-
teriore impoverimento delle popolazioni locali, aumentando le disegua-
glianze nella distribuzione delle ricchezze, fondamentalmente attraverso
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2. IL DOMINIO DEL DOLLARO 65

quattro vie: smantellamento delle produzioni locali a seguito della libera-


lizzazione commerciale e finanziaria, declino dei redditi agricoli e perdi-
ta della sovranità alimentare come risultato delle riforme agrarie basate
sulla concentrazione delle proprietà dei fondi, riduzione dei salari e dei
diritti dei lavoratori e contemporaneo aumento della disoccupazione in
conseguenza della precarizzazione del mercato del lavoro, aumento della
povertà causato dalle privatizzazioni dei servizi pubblici e dalla riduzione
delle spese sociali.
Se il Washington Consensus ha fallito completamente dal lato dello svi-
luppo delle economie povere, esso ha invece rappresentato un successo
formidabile per le imprese multinazionali, che si sono impossessate di
una buona fetta delle risorse del pianeta, prima possedute dalle comunità
locali o dai loro Stati nazionali. Per fare un solo esempio tra i tanti possi-
bili, basti ricordare che la Enron, la multinazionale americana dell’ener-
gia, protagonista di uno dei più giganteschi scandali finanziari della sto-
ria, dal 1992 al 2001 ha ottenuto dalla Banca Mondiale ben 761 milioni
di dollari di finanziamenti per progetti legati alla privatizzazione del set-
tore energetico in tredici paesi del Sud del mondo9.
Inoltre, il Washington Consensus ha agito come un fattore di grave de-
generazione della qualità stessa dell’operato delle istituzioni economiche
internazionali, non solo perché ne ha tradito l’obiettivo originario, ma an-
che perché ne ha pervaso le modalità di lavoro e di analisi attraverso una
sistematica epurazione delle voci dissenzienti, rendendole così incapaci di
fornire qualsiasi aiuto reale per risolvere i problemi sociali ed economici
dei paesi membri10.
La trasformazione degli ormai famigerati SAP in Poverty Reduction
Strategy Papers (PRPS) e in Poverty Reduction and Growth Framework
(PRGF), avviata dal FMI e dalla Banca Mondiale nel 1999, all’indomani del-
la crisi asiatica, a cui è seguita tre anni dopo l’adozione del cosiddetto
Monterrey Consensus (un vago e non impegnativo testo di dichiarazioni
di intenti sulla necessità di uno sviluppo più equo, adottato nella confe-
renza per il Finanziamento dello Sviluppo, tenutasi in Messico nel marzo
del 2002) si è fino a oggi rivelata un’operazione di facciata, tesa a ridare
credibilità a strumenti e a istituzioni totalmente screditate, senza che es-
sa abbia comportato un reale abbandono della dottrina neoliberista in-
carnata dal Washington Consensus11.
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3. Per un nuovo ordine economico internazionale

3.1. Dopo Cancun: le posizioni strategiche degli Stati


sul futuro del WTO
Come abbiamo visto nel capitolo 1, a Cancun è accaduto qualcosa di
veramente grosso. Tuttavia la partita per una nuova regolamentazione del
commercio internazionale è ancora tutta aperta. Nell’arena ufficiale degli
Stati e dei poteri costituiti esistono consolidate impostazioni strategiche
diverse sul ruolo futuro del WTO1. In particolare, fin dall’inizio si sono
confrontate tre differenti ipotesi che, per semplicità, possiamo individua-
re nella posizione degli USA, in quella dell’UE e in quella di alcuni grandi
PVS, prima fra tutti l’India.
La prima posizione, che possiamo definire di “neoliberismo integra-
le”, sostiene che il compito del WTO debba essere strettamente circoscrit-
to alla promozione internazionale del sistema di libero scambio. Secondo
questa prospettiva, l’attività e i poteri del WTO devono essere finalizzati
alla rimozione integrale dei vincoli e delle barriere, dirette e indirette, in-
terne o esterne, alla libera circolazione delle merci e dei capitali. Nulla di
più e nulla di meno di questo. Nessuna considerazione ulteriore relativa
agli effetti sociali, politici, economici o ambientali deve essere tenuta in
conto dal WTO. È evidente che questa posizione riflette l’idea imperiale
degli USA, secondo cui non c’è alcun bisogno di una sede politica di go-
verno mondiale della globalizzazione capitalistica, ma solo di sedi parti-
colari di tipo tecnico ed economico. L’unico centro politico di direzione
e di governo strategico è, e deve rimanere, la Casa Bianca. Il governo
mondiale ha una dimensione unilaterale e non multilaterale.
La seconda posizione, che possiamo definire di “neoliberismo tempe-
rato”, individua invece nel WTO l’istituzione internazionale più adeguata
per fungere come sede della global governance, del governo della globa-
lizzazione. Quindi, il WTO è visto come il possibile centro strategico di di-
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3. PER UN NUOVO ORDINE ECONOMICO INTERNAZIONALE 67

rezione della globalizzazione capitalistica, il luogo di comando in cui le


esigenze della liberalizzazione dei mercati sono rese compatibili con gli
effetti sociali e ambientali da essa prodotti. Compito del WTO è dunque
di promuovere il neoliberismo globale rendendolo sostenibile politica-
mente e socialmente, con una particolare attenzione all’esigenza del con-
senso e della legittimazione dell’opinione pubblica mondiale. In questa
visione, il WTO appare come il futuro sostituto dell’ONU nell’era della glo-
balizzazione capitalistica, in quanto istituzione strutturalmente finalizza-
ta all’estensione planetaria dell’unico modello economico e sociale esi-
stente. L’ONU nasce infatti come un’istituzione pluralistica sul piano dei
sistemi economici e la sua struttura e le sue strategie sono potenzialmen-
te aperte al perseguimento di differenti scopi politici e sociali. Non è co-
sì per il WTO, figlio legittimo della globalizzazione e del modello unico
dell’economia capitalistica di mercato.
La terza posizione, che possiamo definire di “riformismo moderato”,
vede invece nel WTO una sede per il riequilibrio economico mondiale tra
Nord e Sud del mondo all’interno del modello della globalizzazione neo-
liberista. In questa prospettiva, non vengono rimesse in discussione le
fondamenta del neoliberismo, cioè l’apertura e la liberalizzazione dei
mercati al fine di realizzare un modello di competizione globale, ma si
chiede che l’applicazione delle politiche neoliberiste sia flessibile e diffe-
renziata a seconda dei livelli di sviluppo dei paesi. L’esigenza posta da
questa posizione è quella del riequilibrio delle opportunità competitive
sul mercato globale. Non è quindi, questa, una posizione che si colloca
sul fronte delle alternative al neoliberismo, ma che, al contrario, ricono-
sce la validità generale del modello neoliberista, pur all’interno di un’ar-
ticolazione tattica di percorsi attuativi. In sostanza, questa posizione ha in
comune con le altre la convinzione che il libero mercato sia il modello
economico e sociale universalmente preferibile, ma, date le diverse posi-
zioni di partenza, occorre differenziare gli strumenti attraverso cui esso si
attua in paesi con diversi livelli di sviluppo, per consentire effettivamen-
te una competizione alla pari sul mercato globale. Questa visione strate-
gica del ruolo del WTO, quindi, non va oltre quella di un prudente, timi-
do e moderato riformismo che accetta come indiscutibile il modello del-
la globalizzazione capitalistica, pur chiedendone elementi di riequilibrio
competitivo. Siamo ben lontani dal riformismo radicale di matrice key-
nesiana, influenzato dagli approcci del terzomondismo e della teoria del-
la dipendenza degli anni Sessanta e Settanta, sintetizzati in un documen-
to che fece epoca come il Rapporto Brandt del 19802.
L’esame del confronto strategico in atto nella sfera della politica uffi-
ciale mostra quindi che non è da lì che può nascere un progetto alterna-
tivo al modello della globalizzazione neoliberista. Infatti, nei mesi suc-
cessivi al fallimento della V conferenza del WTO, le diplomazie commer-
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68 DOPO IL LIBERISMO

ciali, in particolare dei paesi occidentali, si sono rimesse subito al lavoro


per riprendere la via dei negoziati di Doha. Forti dell’esperienza di Can-
cun, i paesi ricchi hanno escluso dagli incontri formali e informali suc-
cessivi sia i paesi poveri sia le ONG, concentrando i loro sforzi verso i pae-
si del G21. Nel corso dell’estate 2004 è stato annunciato un possibile
sblocco dello stallo negoziale, attraverso la sospensione dei negoziati sul-
le Singapore issues e la predisposizione di uno schema di possibile accor-
do agricolo che preveda un parziale ridimensionamento, più di facciata
che di sostanza, dei sussidi nei paesi sviluppati in cambio della ripresa dei
negoziati sulla liberalizzazione dei servizi e dei manufatti industriali3. Un
nuovo appuntamento negoziale del WTO è stato fissato a Hong Kong nel
dicembre del 2005, quando si svolgerà la VI conferenza interministeriale.
D’altra parte, i contrasti tattici e strategici nella sfera interstatuale pos-
sono tutt’al più determinare una crisi nell’architettura politica e istituzio-
nale della globalizzazione, inasprendo i conflitti economici tra i diversi at-
tori in gioco, rendendo più anarchico e più brutale il modello dominan-
te ed esaltando i rapporti di forza immediati rispetto a una visione di lun-
go periodo. Ma negli ultimi anni è apparso un nuovo protagonista, ac-
canto agli Stati, sulla scena politica mondiale e la sua comparsa ha cam-
biato le carte in tavola e modificato le stesse posizioni degli Stati, in par-
ticolare di quelli più deboli, spingendo alcuni di essi verso atteggiamenti
e obiettivi ben più radicali di quelli di un timido riformismo. Questo nuo-
vo protagonista è il movimento altromondialista.

3.2. Le alternative al WTO: il dibattito all’interno del movimento

È al di fuori della politica ufficiale, tra le forze e i movimenti critici ver-


so il modello della globalizzazione neoliberista, che sono maturate ipote-
si radicalmente alternative4. Fino all’appuntamento di Cancun nel campo
del vasto arcipelago del movimento si confrontavano due differenti pro-
spettive strategiche, che non hanno però impedito di operare unitaria-
mente. Infatti, sul piano tattico, entrambe le posizioni riconoscevano la
necessità di mettere in crisi l’istituzione WTO e di evidenziare gli stretti le-
gami che intercorrono tra guerra permanente e neoliberismo. Per queste
ragioni, comune ad entrambe è stata la volontà di costruire una mobilita-
zione mondiale di massa per il fallimento del vertice di Cancun e per im-
pedire l’ulteriore allargamento dell’attività del WTO.
Prima del vertice all’interno del movimento era prevalente una posi-
zione, sostenuta da numerose e influenti organizzazioni non governative
del mondo anglosassone, che, muovendo da un giudizio radicalmente cri-
tico verso l’attuale struttura del WTO, ne sostiene la necessità di una rifor-
ma in senso democratico. L’accento è posto soprattutto sul carattere oli-
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3. PER UN NUOVO ORDINE ECONOMICO INTERNAZIONALE 69

garchico e chiuso degli effettivi meccanismi decisionali operanti all’inter-


no dell’organizzazione, che rendono questa istituzione funzionale agli in-
teressi dei paesi industrializzati e delle multinazionali. La proposta è dun-
que quella di aprire il WTO alla partecipazione della società civile mondia-
le, di riconoscere come soggetti attivi non solo le entità statuali, ma anche
i movimenti e le associazioni che operano nel campo dello sviluppo e del-
la solidarietà internazionale. Inoltre, si chiede anche il definitivo abban-
dono delle pratiche informali di relazioni tra una cerchia selezionata di
paesi, in cui si predeterminano le decisioni che poi vengono ratificate nel-
le sedi ufficiali, come è finora sempre accaduto nella breve storia del WTO.
Oltre all’apertura alla società civile, la richiesta è anche quella di fornire,
attraverso strutture permanenti di assistenza tecnica, indipendenti e auto-
nome, gli strumenti necessari ai paesi più poveri per partecipare attiva-
mente all’insieme dei processi istruttori e negoziali del WTO. In questa pro-
spettiva, si riconosce la necessità di un’istituzione mondiale di regolazione
delle relazioni economiche e commerciali come il WTO, ma si vuole muta-
re nei metodi e negli scopi il carattere di questa istituzione. La democra-
tizzazione del WTO è vista infatti non solo come una questione di metodo,
ma anche come la via per far entrare considerazioni di giustizia sociale, di
redistribuzione delle ricchezze, di promozione dei diritti umani e di tute-
la ambientale nelle relazioni economiche internazionali. Trasformare il
WTO in modo da farne un’arena, un forum internazionale in cui i governi
dei paesi industrializzati, quelli dei PVS e la società civile mondiale possa-
no confrontarsi e collaborare alla costruzione di un mondo più giusto e di
uno sviluppo sostenibile sul piano ambientale e sociale. Il rischio insito in
questa prospettiva strategica è evidentemente quello di una integrazione
delle istanze critiche che muovono dalla società civile all’interno del siste-
ma dominante e della sostituzione delle pratiche di lotta e di movimento
con attività di tipo lobbistico e paraistituzionale. In questo senso, d’altra
parte, operano le forze politiche e statuali più illuminate e consapevoli del
campo neoliberista, soprattutto dopo l’esplosione della critica di massa al-
la globalizzazione. È da riconoscere però che di questo rischio è consape-
vole la parte di movimento che condivide questa prospettiva.
Dopo Cancun, tuttavia, anche le forze che sostenevano la prospettiva
di una profonda riforma democratica del WTO hanno avviato un ripensa-
mento delle proprie tattiche e dei propri obiettivi strategici. Infatti, a
Cancun si è visto come le principali potenze economiche globali siano
ostili a qualsiasi cambiamento della natura e dei meccanismi di funziona-
mento di questa istituzione. Anzi, lo scacco riportato ne ha addirittura ac-
centuato i caratteri antidemocratici, tanto che i pochi canali di trasparen-
za e di partecipazione attivati dopo il fallimento della conferenza di Seat-
tle sono stati chiusi, e il dialogo con la società civile internazionale è sta-
to completamente abbandonato. Alla luce di questa evoluzione, nel cam-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 70

70 DOPO IL LIBERISMO

po delle forze antiliberiste comincia a prendere forza l’altra posizione più


radicale che si pone invece l’obiettivo strategico dell’eliminazione e della
definitiva chiusura del WTO.
Questa posizione, originariamente sostenuta soltanto dalle forze più
radicali e anticapitaliste del movimento, ritiene che per come è nata, per
gli scopi a cui è istituzionalmente destinata e per le concrete modalità in
cui è organizzata, questa istituzione sia strutturalmente interna al model-
lo della globalizzazione neoliberista. Nessuna riforma in senso democra-
tico, dunque, può cambiare la natura del WTO; esso non è riformabile per-
ché la ragione stessa della sua nascita e della sua successiva esistenza è le-
gata in modo indissolubile con la necessità di legittimare lo scambio ine-
guale e le politiche neoliberiste5. D’altra parte, è da ricordare che per
mezzo secolo la regolazione del commercio internazionale è avvenuta in
assenza di un’apposita istituzione ad esso espressamente dedicata, attra-
verso un regime di accordi multilaterali che lasciava maggiori spazi di au-
tonomia e di sovranità nazionale e che consentiva il perseguimento di
obiettivi di sviluppo e non solo di liberalizzazione dei mercati. L’elimina-
zione del WTO non è dunque un obiettivo utopistico, perché per cin-
quanta anni nel dopoguerra il sistema capitalistico mondiale, e con esso
il commercio internazionale, è prosperato e si è esteso senza nessuna or-
ganizzazione mondiale del commercio.
Inoltre, la costruzione di un modello economico-sociale alternativo
passa necessariamente attraverso la disarticolazione e il superamento del-
le istituzioni internazionali esistenti e pone il problema di una nuova e ra-
dicalmente diversa architettura politica internazionale. Riformare il WTO
senza intaccare le altre istituzioni internazionali (G8, ONU, FMI, Banca
Mondiale) e senza preliminarmente mettere in discussione i reali rappor-
ti di forza politici e sociali mondiali, oltre ad essere un’ipotesi irrealistica,
è anche un’ipotesi che lascia immutato il problema di un diverso ordine
mondiale. La costruzione di un altro mondo possibile passa dal muta-
mento dei rapporti di forza sociali, politici e ideologici dentro i singoli
Stati e nella comunità internazionale, prima ancora che attraverso opera-
zioni di riforma istituzionale. Il neoliberismo deve essere prima sconfitto
sul terreno politico e sociale affiché il modello istituzionale che esso ha
creato nella fase della sua incontrastata egemonia possa essere sostituito.
In sintesi, la costruzione di sedi di governo mondiale alternative a quelle
attualmente esistenti seguono, e non precedono, la sconfitta del neolibe-
rismo sul piano politico e sociale. Non è attraverso la riforma interna del-
le attuali istituzioni internazionali che si può muovere verso la costruzio-
ne dell’alternativa, ma viceversa la costruzione dell’alternativa passa at-
traverso l’abbattimento delle attuali istituzioni della globalizzazione neo-
liberista e la costruzione di un nuovo ordine economico internazionale.
L’apparizione e la crescita del movimento globale altromondialista ha
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3. PER UN NUOVO ORDINE ECONOMICO INTERNAZIONALE 71

così riportato all’attenzione della comunità internazionale un tema che


sembrava essere scomparso dall’agenda politica e diplomatica, ma che in
passato aveva occupato la scena mondiale. Il tema di un nuovo ordine
economico internazionale è infatti una questione antica6. Negli anni Ses-
santa e Settanta essa divenne l’obiettivo formale ed esplicito dell’Orga-
nizzazione delle Nazioni Unite. Nel maggio 1974, la VI sessione speciale
dell’Assemblea delle Nazioni Unite approvò una risoluzione, presentata
dal gruppo dei 77 paesi non allineati, concernente la Dichiarazione e il
Programma di azione per la costruzione di un Nuovo Ordine Economi-
co Internazionale (NIEO, New International Economic Order). La risolu-
zione sfociò, nel dicembre dello stesso anno, nell’adozione della Carta dei
diritti e dei doveri economici degli Stati aderenti alle Nazioni Unite, a fa-
vore del quale votarono 111 paesi, mentre dieci si astennero e sei espres-
sero voto contrario (USA, Gran Bretagna, Germania Ovest, Danimarca,
Belgio e Lussemburgo).
Tali solenni impegni erano allora giustificati dall’evidente insuccesso
delle istituzioni di Bretton Woods nel perseguire l’obiettivo di promuo-
vere la diffusione dello sviluppo economico in tutto il pianeta. Il princi-
pio fondamentale della Dichiarazione, del Programma di azione e della
Carta consisteva nel raggiungimento di una completa e permanente so-
vranità di ogni paese sulle proprie risorse naturali e sulle proprie attività
economiche. Questo principio generale si articolava concretamente in tre
categorie di questioni sollevate dai paesi del Terzo Mondo: a) il riequili-
brio delle ragioni di scambio, anche attraverso un meccanismo di indi-
cizzazione dei prezzi delle materie prime rispetto all’andamento dei ma-
nufatti a elevato contenuto tecnologico, al fine di correggere le tendenze
spontanee dei mercati che operavano nel senso di un’accentuazione del-
lo scambio ineguale; b) l’adozione di un principio generale di non reci-
procità nelle relazioni commerciali, operante attraverso unilaterali aper-
ture dei mercati dei paesi ricchi; c) la disciplina delle attività delle impre-
se multinazionali da conseguire attraverso l’istituzione di un regime in-
ternazionale di regolamentazione della loro condotta gestito da una nuo-
va organizzazione internazionale ad esso dedicata. Di fronte alle crescen-
ti rivendicazioni del Terzo Mondo, i paesi del Nord adottarono la tattica
di frammentare la questione del NIEO posta all’ordine del giorno della co-
munità internazionale in una serie di negoziati parziali concernenti sin-
goli temi, in modo da salvaguardare la legittimità dell’ordine esistente e
da introdurre modificazioni secondarie al regime di relazioni economiche
dominanti. L’ascesa al potere degli ultraconservatori prima in Inghilterra
e poi negli USA, il riaccendersi della guerra fredda e l’esplosione della cri-
si del debito estero, derivante dall’innalzamento dei tassi di interesse e
dalla rivalutazione del dollaro, posero fine alla questione. Formalmente
fu il nuovo presidente degli USA, Ronald Reagan, a dichiarare unilateral-
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72 DOPO IL LIBERISMO

mente nel corso del 1981, in occasione della XI sessione speciale dell’As-
semblea generale delle Nazioni Unite, la fine del progetto NIEO. Iniziò al-
lora la lunga marcia neoliberista, sfociata nel 1995 nell’istituzione del
WTO. Oggi, grazie al movimento altromondialista, questa marcia si è ar-
restata e di nuovo la questione di un diverso ordine economico globale è
tornata al centro delle discussioni politiche mondiali.

3.3. Per un nuovo ordine commerciale globale,


multilaterale e democratico
Il fallimento della conferenza ministeriale di Cancun ha messo in
profonda crisi il modello della globalizzazione neoliberista segnando il col-
lasso del WTO, che si è così dimostrato un organismo non riformabile in
senso democratico. L’UE dovrebbe prendere atto di questa realtà, che si va
facendo sempre più strada nelle opinioni pubbliche e persino nei governi
del Sud del mondo, e agire di conseguenza per sciogliere definitivamente
il WTO e rimettere all’ordine del giorno della comunità internazionale la
questione della costruzione di un nuovo ordine economico internazionale.
Di fronte a questa proposta c’è chi teme, anche a sinistra, che il possi-
bile collasso del WTO possa aprire una stagione di anarchia economica in-
ternazionale analoga a quella degli anni Trenta. Viene agitato, come uno
spettro, il tema del bilateralismo nelle relazioni commerciali. Si dimentica
però che il WTO non è stato affatto un sistema democratico di relazioni
multilaterali tra pari, ma uno strumento di dominio del grande capitale
globale sui popoli del mondo. Come dimostra la vicenda dell’ALCA, nel
corso di questi dieci anni gli accordi bilaterali e interregionali si sono mol-
tiplicati come funghi, in dimensioni mai sperimentate in passato, e sono
stati usati per imporre a tutti ciò che si era già imposto ai più deboli.
Lo scioglimento del WTO non implica affatto il ritorno a un sistema di
regolazione del commercio internazionale basato sul bilateralismo, cioè su
relazioni tra singoli Stati al di fuori di un insieme di regole globali univer-
salmente accettate. Nelle relazioni commerciali internazionali sono diret-
tamente implicati concreti interessi materiali che coinvolgono grandi fette
della popolazione. Esse, quindi, non possono ispirarsi soltanto a valori
astratti di giustizia e fratellanza tra i popoli. Per queste ragioni, anche nel
caso migliore di un’Europa guidata da un profondo senso di solidarietà in-
ternazionale, il prevalere di un’ottica bilaterale nelle relazioni commercia-
li conduce inevitabilmente a esaltare i rapporti di forza economici e poli-
tici. Per la sua struttura un sistema bilaterale, anche al di là delle ineffi-
cienze che comporta, favorisce sempre le posizioni più forti a danno di
quelle più deboli. Per questo gli accordi bilaterali o regionali possono rap-
presentare un vantaggio equilibrato per tutti i contraenti solo quando
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3. PER UN NUOVO ORDINE ECONOMICO INTERNAZIONALE 73

coinvolgono economie allo stesso livello di sviluppo. Importanti e da in-


coraggiare sono da questo punto di vista gli accordi commerciali Sud-Sud,
come ad esempio il MERCOSUR in America Latina, il SADC (Southern Afri-
ca Development Community) in Africa o l’ASEAN (Association of South-
east Asian Nations) in Asia7. Quando invece i contraenti si trovano in po-
sizione asimmetrica, sul piano dello sviluppo e del potere, il bilateralismo
e il regionalismo portano inevitabilmente con loro la gerarchia e la subor-
dinazione, come dimostra in modo paradigmatico il trattato NAFTA di li-
bero scambio tra USA, Canada e Messico, in vigore ormai da più di dieci
anni8. D’altra parte l’esperienza dell’ALCA, come abbiamo visto, dimostra
che la strada degli accordi regionali tra aree del Nord e aree del Sud del
mondo non è vista, a ragione, con favore dai movimenti sociali e dai go-
verni progressisti delle zone meno ricche del pianeta.
È quindi a un nuovo sistema commerciale pluralista, democratico e
paritario, che l’Europa deve tendere per regolare i suoi rapporti con i
paesi del Sud del mondo. L’UE deve farsi portatrice di una proposta com-
plessiva di costruzione di un nuovo ordine economico internazionale, ba-
sato su un nuovo multilateralismo democratico e sul definitivo abbando-
no delle politiche neoliberiste. Certo, nel caso in cui altre aree del mon-
do, come ad esempio gli USA, scelgano la strada dell’unilateralismo, com-
pito dell’UE sarà di procedere verso autonome relazioni multilaterali con
i paesi disponibili a creare un nuovo ordine commerciale globale.
Non è dunque affatto vero, come spesso si argomenta anche dal ver-
sante progressista, che in caso di una crisi definitiva del WTO si sprofon-
derebbe necessariamente verso l’anarchia commerciale o il protezionismo
competitivo. Il principio del multilateralismo nelle relazioni economiche
non si identifica con il regime creato dalla globalizzazione neoliberista. Il
sistema attuale si basa sulla concezione di un multilateralismo gerarchico,
in cui gli attori internazionali sono classificati sulla base di una piramide
di poteri, di ruoli e di competenze fortemente assimetrici, con a capo
un’organizzazione potentissima e ademocratica come il WTO. Il multilate-
ralismo gerarchico presuppone una omologazione e un’uguaglianza for-
male di regole e di approcci alle relazioni economiche e tende esplicita-
mente a negare ogni articolazione di regimi commerciali e di politiche
economiche. In un mondo fortemente differenziato come quello attuale,
caratterizzato da enormi disaparità nei livelli di sviluppo economico e so-
ciale, questo principio riduzionista e semplificatore si traduce in realtà
nell’imposizione al mondo intero del modello di sviluppo degli Stati e del-
le economie più forti, cioè del neoliberismo. È una pura finzione giuridi-
ca considerare equivalenti, e quindi soggetti alle medesime regole e ai me-
desimi comportamenti, potenze economiche globali come gli USA o l’UE e
gli Stati africani o caraibici, devastati dalla miseria e dal sottosviluppo.
L’alternativa al multilateralismo gerarchico non è l’autarchia né il pro-
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74 DOPO IL LIBERISMO

tezionismo indiscriminato, bensì la costruzione di un multilateralismo de-


mocratico, strutturato attraverso un insieme complesso e articolato di re-
gole e di soggetti differenti, che insieme concorrano, sulla base di intese
paritarie, alla definizione del regime economico e commerciale globale.
In questo nuovo scenario, la priorità dovrebbe essere assegnata alla co-
struzione e al rafforzamento degli accordi di integrazione e di coopera-
zione regionale tra paesi aventi lo stesso livello di sviluppo e le medesime
problematiche economiche e sociali. Ciascuna area regionale dovrebbe
essere libera di scegliere autonomamente il regime di regolamentazione
dei rapporti economici interni ed esterni sulla base delle proprie esigen-
ze di sviluppo, senza interferenze o imposizioni da parte delle organizza-
zioni economiche internazionali. A livello globale, un nuovo sistema mul-
tilaterale democratico implica quindi il riconoscimento di una pluralità di
accordi e di istituzioni internazionali coinvolte nella regolamentazione
del commercio che, ciascuna nel proprio ambito, agiscano congiunta-
mente nel perseguire finalità non limitate alla pura massimizzazione del
risultato economico delle imprese. L’obiettivo prioritario deve essere il
raggiungimento di un equo e sostenibile benessere sociale per tutti i po-
poli del mondo. In questo senso, ad esempio, istituzioni come l’ILO (In-
ternational Labour Organization), che si occupa del rispetto dei diritti
dei lavoratori all’interno dell’ONU, o accordi come i trattati multilaterali
sull’ambiente devono essere partecipi a pieno titolo, insieme ai blocchi
commerciali regionali e alla società civile internazionale, della definizione
delle politiche commerciali globali.
Inoltre, esiste un’altra, più antica e sperimentata, sede di confronto e
di relazioni multilaterali nel campo del commercio e dello sviluppo inter-
nazionale, l’UNCTAD, che, opportunamente rilanciata, potrebbe adempie-
re con un’ottica meno ristretta ad alcune delle attuali funzioni del WTO.
Parte del sistema delle Nazioni Unite, questa organizzazione nacque nel
1964 sull’onda dei processi di decolonizzazione e sotto l’influsso delle
teorie di Raul Prebisch, che ne fu il primo segretario generale. Esse so-
stenevano la necessità di un riequilibrio delle ragioni di scambio tra ma-
nufatti industriali e materie prime come premessa a un’accumulazione di
risorse finanziarie e di capitale per l’industrializzazione del Sud del mon-
do. L’atteggiamento dei paesi occidentali nei confronti dell’UNCTAD fu,
sin dall’inizio, di estrema tiepidezza, fino a sfociare, nel corso dei primi
anni Novanta, in un esplicito boicottaggio politico e finanziario. Nel cor-
so della VIII conferenza dell’UNCTAD, svoltasi a Cartagena nel 1992, il
Nord riuscì a imporre l’esclusione di questa organizzazione da ogni for-
ma di partecipazione ai negoziati commerciali dell’Uruguay Round, che
si conclusero con l’istituzione del WTO. Da allora l’UNCTAD svolge un ruo-
lo molto limitato, prevalentemente ristretto ad attività di studio e di ri-
cerca, spogliato di ogni capacità reale di indirizzo rispetto alle politiche
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3. PER UN NUOVO ORDINE ECONOMICO INTERNAZIONALE 75

commerciali, tanto che ripetutamente ne è stato proposto lo scioglimen-


to, in particolare da parte statunitense. Negli ultimi anni, tuttavia, un’in-
fluente corrente di opinione nei paesi del Sud del mondo propone la ri-
valutazione del ruolo dell’UNCTAD come potenziale alternativa al WTO in
qualità di sede più equa per le negoziazioni commerciali9.
Naturalmente, questa nuova configurazione istituzionale, che prevede
il passaggio da un multilateralismo gerarchico, quale quello attuale del
WTO, a un nuovo sistema multilaterale fondato su relazioni democratiche,
pluraliste e paritarie, implica un profondo mutamento di paradigma e uno
spostamento verso una concezione dello sviluppo economico radicalmen-
te alternativa a quella neoliberista, poiché le regole e le strutture istituzio-
nali non sono neutre e indipendenti rispetto ai fini che perseguono.
All’interno di un nuovo multilateralismo democratico l’UE ha molto
da dare e molto da ricevere. Il principio della garanzia della sovranità ali-
mentare dei popoli europei passa oggi attraverso un nuovo sistema di
sussidi agricoli, profondamente trasformato rispetto a quello attuale, per
favorire le produzioni tipiche, biologiche e di qualità e la piccola pro-
prietà contadina. Senza di esso, infatti, l’intera agricoltura europea ri-
schierebbe di scomparire e le sue risorse alimentari verrebbero a dipen-
dere interamente dalle imprese multinazionali agroalimentari, prevalen-
temente nordamericane, con gravi rischi per la stessa sicurezza alimenta-
re, come dimostra la vicenda degli organismi geneticamente modificati.
L’UE non può quindi accedere alle richieste, provenienti anche da una
parte di paesi del Sud del mondo, di una totale liberalizzazione dei mer-
cati agricoli10. Tuttavia, in cambio del riconoscimento di questa necessità
l’UE può dare molto. Innanzitutto, così come l’Europa ha bisogno di pro-
teggere la propria agricoltura, occorre riconoscere che anche i paesi del
Sud del mondo hanno il diritto di fare altrettanto. Allora, bisogna consi-
derare l’agricoltura come un settore particolare della vita economica e
sociale di un territorio e regolamentare lo scambio internazionale dei be-
ni agricoli in base a principi diversi da quelli puramente mercantili, rico-
noscendo il diritto per ogni popolo di salvaguardare il principio della so-
vranità alimentare11. Le risorse naturali e ambientali sono concentrate in
massima parte nei paesi del Sud del mondo e oggi sono fonte di profitto
e di sfruttamento per le grandi imprese transnazionali, attraverso la bre-
vettazione e il monopolio dei semi e delle risorse genetiche. Ciò si tradu-
ce in una sistematica opera di rapina dei saperi e delle pratiche tradizio-
nali di coltivazione e di protezione del territorio e dell’ambiente per i po-
poli del Sud12. Il riconoscimento del principio della sovranità alimentare
come criterio del commercio e della produzione agricola avvantaggereb-
be così l’UE, i PVS e i paesi poveri.
Inoltre, l’UE dovrebbe riconoscere ai paesi del Sud del mondo anche
la possibilità di introdurre forme di protezione commerciale per salva-
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76 DOPO IL LIBERISMO

guardare i settori industriali strategici dalla concorrenza internazionale.


Quando si parla di protezionismo commerciale, occorre abbandonare
ottiche manichee che lo dipingono come il male assoluto o come l’unica
risposta alla crisi economica. La storia dimostra che in particolari circo-
stanze il protezionismo può essere uno strumento utile. Se è certamente
negativo per il benessere economico e sociale introdurre barriere per di-
fendere industrie mature e arretrate rispetto al livello tecnologico gene-
rale del paese (e per questo sono da rifiutare le proposte di dazi doga-
nali per contrastare la concorrenza asiatica avanzate in Italia dall’ex mi-
nistro dell’Economia Giulio Tremonti), non si può dire altrettanto per
quanto riguarda le industrie nascenti, in particolare nei paesi poveri e
meno sviluppati. Anche perché esistono varie tipologie di protezioni-
smo, che si differenziano sulla base degli obiettivi perseguiti e degli in-
teressi tutelati, quelli dei profitti delle imprese o quelli dell’autonomia
dei popoli13.
Dove invece deve essere adottato un riconoscimento integrale di pro-
tezione è nel campo dei beni comuni (acqua, energia, risorse ambientali
e naturali) e dei servizi pubblici essenziali (sanità, scuola, previdenza, tra-
sporti, informazione e telecomunicazione). Questi settori hanno a che fa-
re con gli inalienabili diritti di ogni essere umano e ciascun popolo deve
mantenere la facoltà di scegliere democraticamente il modo migliore per
garantirli universalmente, senza ricatti e imposizioni esterne. Infine, l’UE
dovrebbe dichiarare unilateralmente e senza condizioni la cancellazione
totale del debito estero dei paesi del Sud del mondo – che ha rappresen-
tato la principale arma di ricatto per imporre le politiche neoliberiste –
nei confronti di istituzioni pubbliche e private europee e agire per otte-
nere un analogo comportamento dagli USA, dal Giappone e dagli altri
paesi ricchi.
Come si vede, è possibile, nell’ambito di un modello di sviluppo alter-
nativo a quello neoliberista, trovare una conciliazione reciprocamente
vantaggiosa tra l’UE e i paesi del Sud del mondo in tema di commercio in-
ternazionale. Le contrapposizioni oggi esistenti, quelle che hanno porta-
to al fallimento del WTO, derivano non da un conflitto di interessi incon-
ciliabile e oggettivo tra le esigenze dei diversi popoli, ma unicamente dal-
l’egemonia incontrastata degli interessi del grande capitale industriale e
finanziario globale. Il principio del multilateralismo democratico non è
affatto basato su un’impostazione puramente etica e ideale, che alla fine
risulterebbe impotente, ma trova le sue radici negli interessi materiali del-
la comunità mondiale.
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3. PER UN NUOVO ORDINE ECONOMICO INTERNAZIONALE 77

3.4. Le proposte ufficiali di riforma dell’architettura


finanziaria internazionale
Come abbiamo visto nel capitolo 2, la dottrina del Washington Con-
sensus ha avuto una performance così negativa che ha portato persino i
suoi principali sostenitori ad aprire una fase di apparente ripensamen-
to sull’architettura finanziaria internazionale oggi vigente. Dopo le cri-
si finanziarie che nel 1997-98 misero in ginocchio le economie del Su-
dest asiatico e della Russia, generando un profondo allarme per la sta-
bilità dei mercati finanziari globali, il Congresso degli USA istituì una
speciale commissione, diretta dal professor Meltzer, per avanzare una
proposta di riforma delle istituzioni di Bretton Woods. Infatti, il com-
portamento del FMI e della Banca Mondiale in quelle occasioni fu giu-
dicato da tutti gli osservatori come un fattore di aggravamento della cri-
si. Nel marzo 2000 la commissione concluse i suoi lavori approvando
una relazione conclusiva, nota come Rapporto Meltzer14. In esso emer-
ge un giudizio pesantemente negativo sulla performance delle due prin-
cipali istituzioni economiche internazionali negli anni del Washington
Consensus e la necessità di una loro profonda trasformazione. In parti-
colare viene proposto un drastico ridimensionamento delle funzioni del
FMI, che dovrebbero limitarsi strettamente all’erogazione di prestiti di
breve termine ai paesi in crisi di liquidità, alla raccolta e al monitorag-
gio dei dati finanziari e a un’attività di consiglio non vincolante rispet-
to alle misure di politica economica da adottare negli Stati membri. Per
quanto riguarda la Banca Mondiale e le altre banche di sviluppo inter-
nazionale, il Rapporto Meltzer chiede che esse ritornino al loro scopo
istituzionale, che è quello di finanziare specifici progetti di sviluppo
economico tesi, in particolare, ad alleviare le condizioni di povertà. In-
fine la commissione del Congresso degli USA raccomanda un regime di
tassi di cambio basato su parità irrevocabilmente fisse, anche attraverso
l’adozione del dollaro come moneta interna ai paesi del Sud del mon-
do, o altrimenti su cambi perfettamente flessibili, per evitare devastan-
ti attacchi speculativi.
La responsabilità del crollo dei mercati finanziari dell’America Lati-
na, del Sudest asiatico e della Russia negli anni Novanta non viene così
addebitata all’indiscriminata libertà di movimento dei capitali, bensì agli
elementi distorsivi di tipo istituzionale che ad essa si frappongono e che
andrebbero eliminati o attraverso la integrale dollarizzazione delle eco-
nomie del Sud del mondo o attraverso l’abbandono di ogni intervento
ufficiale sul mercato dei cambi. Infatti, la tesi di fondo che sottende il
Rapporto Meltzer è che i flussi di finanziamento dello sviluppo econo-
mico globale debbano essere diretti dalle forze di mercato e il ruolo del-
le istituzioni economiche internazionali sia soltanto quello di fornire as-
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78 DOPO IL LIBERISMO

sistenza finanziaria in particolari situazioni di emergenza o per specifici


e circostanziati progetti di sviluppo15.
Sulla base di questi orientamenti, nel vertice del G7 tenutosi a Colonia
nel giugno 1999, i “grandi della terra” hanno fissato le direttrici della
riforma dell’architettura finanziaria internazionale che si snoda lungo tre
assi: 1) il ruolo delle istituzioni finanziarie internazionali (IFI), in primo
luogo il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale; 2) il coin-
volgimento della finanza privata nella prevenzione e nella gestione delle
crisi; 3) il rafforzamento delle azioni di vigilanza e di sorveglianza dei
mercati e degli operatori.

1) Il ruolo delle IFI. Nel corso delle ripetute crisi finanziarie degli anni
Novanta, il rigido rispetto dei canoni monetaristi e neoliberisti perse-
guito dal FMI ha contribuito ad accentuare, piuttosto che ad attenua-
re, l’intensità e l’estensione delle crisi. L’imposizione di programmi di
aggiustamento strutturale di impronta neoliberista ai paesi in difficoltà
come condizione vincolante per l’erogazione di crediti internazionali,
con il corollario di una restrizione della liquidità interna, ha reso più
diretto e veloce il propagarsi della crisi dal settore finanziario a quello
reale, tanto da rendere permanente la situazione di difficoltà econo-
mica, anche dopo aver superato la fase più acuta e aver proceduto a
una relativa stabilizzazione dei corsi finanziari e valutari. L’esperienza
della Malesia nella crisi asiatica del 1997 ha reso evidente il ruolo ne-
gativo del FMI nella gestione delle crisi. A differenza degli altri paesi
colpiti, la Malesia decise di non seguire le indicazioni del FMI e di ri-
spondere alla crisi attraverso un maggior controllo pubblico sui mer-
cati reali e finanziari e attraverso l’adozione di misure protezionistiche,
riuscendo così a ottenere risultati migliori rispetto a quelli dei suoi vi-
cini. Questi manifesti insuccessi e il timore di un’imitazione dell’espe-
rienza malese, che avrebbe messo a repentaglio la stessa struttura del-
la globalizzazione, hanno portato i ministri finanziari e i governatori
delle banche centrali dei Sette, riunitisi a Washington nell’aprile del
2000, a un ridimensionamento del ruolo del FMI nella gestione delle
crisi, limitandone pressoché esclusivamente l’attività agli interventi fi-
nanziari di breve termine. A partire dagli anni Ottanta, infatti, il FMI
aveva assunto il ruolo di principale attore dell’imposizione delle poli-
tiche economiche neoliberiste su scala mondiale, attraverso la gestio-
ne di una quota sempre più larga dei finanziamenti a lungo termine
pubblici e privati, condizionati al perseguimento di politiche econo-
miche strutturali fondate sulle privatizzazioni, sulla liberalizzazione
dei mercati reali e sull’abolizione delle protezioni commerciali. In que-
sto modo, il ruolo del FMI si era spinto ben oltre quanto previsto ori-
ginariamente dagli accordi istitutivi di Bretton Woods, relegando la
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3. PER UN NUOVO ORDINE ECONOMICO INTERNAZIONALE 79

Banca Mondiale a una funzione residuale di investimenti settoriali di


carattere locale. Con gli accordi di Washington, la sfera d’azione del
FMI viene sensibilmente ridimensionata. Il FMI può ora intervenire
esclusivamente con finanziamenti a breve termine a fronte di crisi di
liquidità di singoli paesi. Le condizioni che il FMI può imporre ai be-
neficiari dei finanziamenti riguardano ora soltanto la sfera finanziaria,
in particolare la garanzia di trasparenza e di concorrenzialità dei mer-
cati finanziari e di disponibilità di un regolare flusso di informazioni
sulle scadenze del debito pubblico. Per far fronte ai rischi crescenti di
instabilità finanziaria causata da improvvise crisi di liquidità interna-
zionale, ci si è limitati a rendere permanenti due linee di credito pre-
fissate, gestite dal FMI e istituite in occasione della crisi finanziaria rus-
sa del 1998, senza affrontare il nodo della creazione di liquidità inter-
nazionale e del prestatore di ultima istanza. Come si vede, siamo ben
lontani dall’onnipotenza degli anni Ottanta e Novanta quando il Fon-
do decideva anche del grado di protezione sociale e del destino delle
industrie nazionali dei paesi che chiedevano il suo aiuto. Corrispon-
dentemente si è rafforzato il ruolo della Banca Mondiale, che si è vista
attribuire in via esclusiva la competenza nell’erogazione dei finanzia-
menti a lungo termine finalizzati allo sviluppo economico e ai pro-
grammi di riduzione della povertà. Tuttavia, la limitazione della sfera
d’azione del FMI non implica affatto un mutamento di orientamento di
politica economica. Al contrario, essa trova fondamento proprio in un
rafforzamento del paradigma neoliberista, perché la sua principale
motivazione deriva dalla necessità di scoraggiare comportamenti spe-
culativi da parte degli investitori finanziari attraverso il miglioramento
dell’efficienza dei mercati. È per questo che, mentre si riducono note-
volmente le prescrizioni del FMI in materia di politica macroeconomi-
ca, allo stesso tempo le misure di liberalizzazione dei mercati finanzia-
ri vengono poste addirittura come condizioni esclusive per la conces-
sione dei finanziamenti. In questo modo, si elimina ogni ostacolo alla
penetrazione del capitale internazionale nei paesi del Sud del mondo.
2) Il coinvolgimento della finanza privata nella gestione delle crisi. La ri-
nuncia a perseguire l’obiettivo di istituire un’autorità monetaria sovra-
nazionale, responsabile della creazione di liquidità internazionale e
avente il ruolo di prestatore di ultima istanza, non elimina il problema
di come far fronte alle crisi di liquidità che sono all’origine delle crisi
finanziarie. L’approccio seguito nelle azioni ufficiali di riforma dell’ar-
chitettura del sistema finanziario internazionale si basa sull’idea che le
funzioni tradizionalmente svolte dalle banche centrali a livello nazio-
nale possano essere indifferentemente svolte da attori privati su scala
internazionale. Per questo motivo, le azioni di riforma prospettate si
basano sulla necessità di un maggiore grado di coinvolgimento e re-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 80

80 DOPO IL LIBERISMO

sponsabilizzazione della finanza privata, in particolare degli investito-


ri istituzionali e del sistema bancario, nella gestione delle crisi. Il ten-
tativo è quello di modificare l’ottica con cui i grandi operatori privati
gestiscono i propri investimenti finanziari, trasformando quello che
oggi è un comportamento basato sulla massimizzazione del rendimen-
to di breve periodo in un comportamento virtuoso di lungo periodo.
In breve, l’obiettivo è restringere il campo delle azioni puramente spe-
culative senza rimettere in questione la deregolamentazione dei mer-
cati e la completa libertà di movimento dei capitali. A questo scopo so-
no state potenziate le funzioni del FMI di produzione e di diffusione
delle informazioni sui mercati finanziari, di promozione della traspa-
renza e di definizione e controllo dell’osservanza di standard e codici
di buona condotta degli operatori pubblici e privati. Inoltre, il FMI do-
vrebbe acquisire anche funzioni di coordinamento dei detentori di ti-
toli finanziari in caso di crisi, per favorire decisioni di investimento
univoche e stabilizzanti. L’idea alla base di questo approccio è che le
crisi finanziarie derivano da imperfezioni informative dei mercati, che
producono inefficienza nell’allocazione delle risorse. Garantendo a
tutti gli operatori le giuste informazioni, il pieno funzionamento dei
meccanismi di mercato eliminerebbe ogni problema, compreso quello
della creazione di liquidità internazionale.
3) Le azioni di vigilanza e di sorveglianza. Accanto alla riduzione delle di-
sparità informative, per garantire la completa fluidità dei meccanismi
di mercato si ritiene necessaria un’azione di vigilanza tesa a controlla-
re e reprimere comportamenti predatori. In questo senso, per la prima
volta l’attenzione ufficiale è stata rivolta agli operatori e ai mercati ti-
picamente speculativi. Il Forum per la Stabilità Finanziaria, costituito
nel 1999 dai venti paesi più industrializzati, ha approvato una serie di
raccomandazioni riguardanti le istituzioni con elevata leva finanziaria
e i centri off-shore, i cosiddetti “paradisi fiscali”. Per quanto riguarda
il primo aspetto, si raccomanda una maggiore attenzione del sistema
bancario alla gestione del rischio, sollecitando le autorità monetarie
nazionali a una più intensa attività di vigilanza. Per i centri off-shore si
propone una maggiore azione di supervisione e di trasparenza, con-
cordata con le autorità locali dei paesi che li ospitano, la classificazio-
ne dei diversi centri sulla base della loro disponibilità a collaborare e,
in ultima istanza, la possibilità di chiudere le filiali di istituzioni finan-
ziarie che operano off-shore e non offrono sufficienti garanzie di col-
laborazione nell’azione di supervisione. Siamo in ogni caso ben lonta-
ni dall’imposizione di una regolamentazione bancaria e finanziaria
uniforme sull’intero mercato finanziario globale.

In sostanza, l’approccio adottato nell’arena ufficiale per far fronte alla


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3. PER UN NUOVO ORDINE ECONOMICO INTERNAZIONALE 81

crisi del Washington Consensus e alla vulnerabilità del sistema finanziario


internazionale consiste in una propensione per le soluzioni di mercato,
accompagnata da una marcata ostilità verso ogni forma di soluzione mul-
tilaterale della crisi finanziaria globale, dietro cui si nasconde la volontà
di salvaguardare l’egemonia monetaria del dollaro. Negli anni dell’ammi-
nistrazione Bush è stato questo l’approccio seguito in materia di regola-
zione finanziaria internazionale dagli USA, come dimostra la vicenda del-
la svalutazione unilaterale e non concordata del dollaro nel corso degli ul-
timi due anni.

3.5. Una nuova Bretton Woods per costruire un nuovo ordine


monetario e finanziario globale
Come si è visto, le ipotesi ufficiali di riforma dell’architettura finanzia-
ria internazionale sono riducibili a pochi aggiustamenti marginali, che
non intaccano sostanzialmente l’impalcatura neoliberista che è stata co-
struita negli ultimi vent’anni. Esse non riescono quindi a dare risposta al-
le questioni aperte dalle crisi finanziarie degli anni Novanta e lasciano il
sistema in una perenne situazione di incertezza e di instabilità.
Di fronte alla conferma e al tentativo di rilancio del progetto neolibe-
rista a livello planetario è urgente per la sinistra e per i movimenti socia-
li globali elaborare una proposta di riforma del sistema finanziario e mo-
netario internazionale, su cui costruire la più ampia mobilitazione popo-
lare, come si è fatto per il WTO. I tentativi compiuti dalle forze della sini-
stra moderata europea di temperare e governare i processi della globaliz-
zazione neoliberista nel corso degli anni Novanta si sono infranti prima
contro la crisi economica globale e poi contro la risposta unilaterale ad
essa data dagli USA. Negli ultimi anni, tuttavia, sono cresciute, in forme
sempre più precise, ipotesi alternative di riforma che puntano a costruire
un nuovo sistema finanziario internazionale in grado di rispondere non
solo alle esigenze di stabilità, ma in primo luogo a quelle di giustizia e di
sviluppo sociale, in particolare del Sud del mondo. Infatti, nel resto del
mondo, e soprattutto nel continente americano, le forze e i movimenti
progressisti e antiliberisti hanno da tempo avviato campagne di informa-
zione e di mobilitazione su questi temi e si sono impegnati nell’elabora-
zione di alternative concrete agli attuali assetti finanziari e monetari in-
ternazionali. È dunque ormai giunto il tempo anche per le forze della si-
nistra europea di abbandonare il terreno, rivelatosi impraticabile, della
riforma interna agli assetti attuali della globalizzazione neoliberista e di
pensare e agire per un nuovo e diverso ordine finanziario e monetario in-
ternazionale, coerente con la prospettiva di un multilateralismo demo-
cratico nelle relazioni commerciali globali.
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82 DOPO IL LIBERISMO

Ci limiteremo a indicare i principali punti di dibattito e a delineare


sommariamente le proposte alternative che stanno maturando al di fuori
delle sedi ufficiali. In particolare, nell’ambito della prospettiva di un nuo-
vo multilateralismo democratico, conquista sempre maggiori consensi l’i-
potesi di un nuovo ordine economico internazionale che passi attraverso
lo scioglimento di tutte le attuali organizzazioni economiche internazio-
nali (WTO, FMI e Banca Mondiale) e la loro sostituzione con nuove istitu-
zioni globali operanti all’interno di un sistema delle Nazioni Unite rifor-
mato in senso democratico. Queste nuove istituzioni andrebbero fondate
su meccanismi decisionali partecipati, che assicurino un’equa distribuzio-
ne del potere tra gli Stati membri e prevedano forme attive di intervento
dei popoli e della società civile internazionale16. In particolare, all’interno
del movimento altromondialista e delle forze critiche verso la globalizza-
zione neoliberista sono state avanzate proposte per l’istituzione di:

– una Corte Internazionale per l’Insolvenza, con il compito di attivare


meccanismi di conciliazione e di arbitrato tra debitori e creditori in-
ternazionali e con poteri di risoluzione legale delle controversie in ca-
so di mancato accordo tra le parti17. La Corte dovrebbe stabilire quan-
to un paese debitore che si dichiari insolvente è in grado di pagare per
far fronte all’onere del debito senza compromettere la capacità di as-
solvere alle funzioni pubbliche essenziali, comprese quelle relative al
mantenimento dei servizi sociali18. Compito della Corte sarebbe poi
quello di predisporre un piano di ristrutturazione del debito che tenga
conto anche delle forme di compensazione indiretta ottenute dal pae-
se creditore senza adeguata contropartita, come ad esempio lo sfrutta-
mento delle risorse naturali e ambientali. L’assenza di un organismo in-
ternazionale neutro e imparziale per il giudizio sui casi di insolvenza e
di bancarotta determina oggi una sorta di “stato di natura” hobbesia-
no sui mercati finanziari internazionali, in cui finiscono sempre per
prevalere gli interessi dei contraenti più forti sul piano politico ed eco-
nomico, cioè dei creditori, costituiti dai grandi istituti finanziari globa-
li, rispetto ai debitori, cioè i paesi più poveri del Sud del mondo;
– una nuova Organizzazione Finanziaria Internazionale (IFO, Internatio-
nal Finance Organization), che sostituisca l’attuale FMI. Compito del-
la IFO dovrebbe essere garantire l’equilibrio e la stabilità nelle relazio-
ni finanziarie internazionali promuovendo uno sviluppo economico
autocentrato e sostenibile, fondato sull’espansione della domanda in-
terna e sul mantenimento della proprietà nazionale delle risorse attra-
verso la regolazione, la vigilanza e la supervisione dei mercati finan-
ziari, del sistema dei pagamenti e dei prestiti internazionali per lo svi-
luppo e attraverso un’attività qualificata di informazione e di consu-
lenza nei confronti dei governi dei paesi membri;
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3. PER UN NUOVO ORDINE ECONOMICO INTERNAZIONALE 83

– i Fondi Monetari Regionali, organizzati su scala continentale o subcon-


tinentale, con il compito di assicurare prestiti di breve termine ai paesi
membri per fronteggiare temporanee situazioni di emergenza nella bi-
lancia dei pagamenti. Essi fungerebbero così da prestatori internazio-
nali di ultima istanza in caso di crisi finanziarie. La dimensione regio-
nale, e non globale, dei Fondi, oltre a rafforzare i meccanismi di inte-
grazione e di cooperazione tra aree con analoghi livelli di sviluppo, as-
sicurerebbe una migliore conoscenza e una maggiore autonomia nella
definizione delle misure necessarie a superare la condizione di crisi19;
– una Corte Internazionale per la Risoluzione delle Controversie Com-
merciali. Come si è detto in precedenza, il sistema del commercio in-
ternazionale dovrebbe evolvere verso un regime multilaterale, purali-
stico e democratico, composto da una molteplicità di soggetti istitu-
zionali globali, regionali e nazionali. In questo scenario, la Corte avreb-
be il compito di aiutare i negoziati tra le parti in caso di conflitto com-
merciale e, in assenza di accordo, di emettere un giudizio legalmente
valido sulla base delle Carte e dei trattati dell’ONU, compresi quelli
concernenti i diritti umani, il lavoro, la salute e l’ambiente;
– una nuova Organizzazione per la Responsabilità Sociale delle Imprese
(OCA, Organization for Corporate Accountability), avente la funzione
di emanare codici di regolamentazione rispetto all’attività delle impre-
se multinazionali e di vigilare sulla loro condotta in merito al rispetto
dei diritti umani, sociali e ambientali sanciti nelle Carte delle Nazioni
Unite, con compiti di raccolta e di divulgazione delle informazioni.
Anche se il potere di intervento e di sanzione sulle pratiche commer-
ciali e produttive delle imprese sui mercati interni rimarrebbe a livello
nazionale, l’OCA potrebbe autorevolmente fornire tutti gli strumenti di
indagine e di conoscenza necessari a porre le basi per supportare azio-
ni legali da parte dei governi nazionali e locali e da parte dei consuma-
tori e dei lavoratori.

Queste nuove organizzazioni economiche internazionali dovrebbero


essere responsabili nei confronti dell’Assemblea generale delle Nazioni
Unite ed essere poste sotto la supervisione e il monitoraggio del Consi-
glio Economico e Sociale (ECOSOC) dell’ONU. Esse dovrebbero avere co-
me finalità esclusive la promozione di politiche di piena occupazione, di
equità distributiva, di lotta contro il sottosviluppo e la povertà, di svilup-
po economico delle aree arretrate, di garanzia universale dei diritti uma-
ni e sociali fondamentali, di eque relazioni commerciali e finanziarie in-
ternazionali, di tutela del carattere pubblico e collettivo dei beni comuni,
di salvaguardia delle risorse ambientali e della biodiversità. Le risorse ne-
cessarie potrebbero essere reperite attraverso l’istituzione di un sistema
di tassazione globale su alcune attività economiche oggi praticamente
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84 DOPO IL LIBERISMO

esonerate da ogni forma di imposizione. In particolare, oltre a una tassa


sui movimenti di capitale a breve termine (la cosiddetta Tobin tax 20), per
colpire la speculazione finanziaria, sono state anche avanzate proposte
per un’imposta globale sulle vendite via Internet, che oggi sfuggono in
gran parte alle imposte indirette nazionali, e sugli investimenti diretti al-
l’estero, spesso praticati dalle imprese multinazionali proprio per sfuggi-
re ai tributi nazionali21. Per la parte rimanente, le nuove istituzioni finan-
ziarie globali dovrebbero essere finanziate dai paesi membri in propor-
zione al loro livello di reddito e di ricchezza.
L’operato di queste nuove organizzazioni economiche internazionali
andrebbe inserito in un nuovo sistema monetario internazionale che su-
peri l’attuale anarchia valutaria basata sul ruolo dominante del dollaro
come moneta di riserva internazionale e sulla piena libertà di movimen-
to dei capitali. La strada per ridurre il potere di signoraggio degli USA,
cioè la loro possibilità di finanziare indefinitamente il deficit commer-
ciale con l’estero attraverso l’emissione di moneta nazionale22, non è
quella della competizione dell’euro come moneta di riserva internazio-
nale. Ciò è dimostrato dal fatto che nell’ultimo decennio, anche dopo l’i-
stituzione dell’euro, la funzione internazionale del dollaro si è decisa-
mente rafforzata. La quota di riserve ufficiali mondiali detenute nella va-
luta americana è passata dal 56,5 per cento del 1993 al 64,5 per cento del
2002, mentre la quota in euro non è significativamente aumentata ri-
spetto a quella detenuta in marchi tedeschi e, in minor misura, in altre
valute europee prima della nascita della moneta unica23. Ciò dipende dal
fatto che, in un regime di competizione tra monete nazionali, la scelta
della valuta di riserva da usare negli scambi internazionali è fortemente
condizionata dal peso globale delle piazze finanziarie del paese emitten-
te e da elementi extraeconomici come la rete di relazioni politiche e di-
plomatiche di un paese24.
Per ridurre l’arbitrio monetario degli USA bisogna allora puntare deci-
samente verso la creazione di una nuova moneta di riserva internaziona-
le, gestita da una nuova organizzazione finanziaria globale al fine di per-
seguire politiche di sviluppo economico e di riequilibrio sociale e territo-
riale. In questo senso, appare oggi come una proposta ancora pienamen-
te attuale, perlomeno nello spirito e negli intenti se non nella definizione
tecnica e organizzativa, quella avanzata ben sessanta anni fa da John May-
nard Keynes in occasione della conferenza di Bretton Woods. Come ab-
biamo visto nel capitolo 2, essa prevedeva una nuova moneta per la re-
golazione degli scambi internazionali, gestita da una vera e propria ban-
ca centrale mondiale, sottoposta al controllo e all’indirizzo della comu-
nità politica internazionale organizzata e operante in un regime di rego-
lamentazione e di limitazione dei movimenti di capitale25. In questa pro-
spettiva, la costituzione di una nuova IFO, responsabile di fronte al siste-
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3. PER UN NUOVO ORDINE ECONOMICO INTERNAZIONALE 85

ma delle Nazioni Unite in alternativa al FMI e alla Banca Mondiale, po-


trebbe rappresentare lo strumento istituzionale adeguato per svolgere
questo compito. I proventi del signoraggio, derivanti dall’emissione della
divisa mondiale, potrebbero essere destinati a finanziare le altre attività
dell’IFO e dei Fondi Regionali e utilizzati per garantire stabilità ed equili-
brio sui mercati globali. Naturalmente questo nuovo assetto del sistema
monetario internazionale implicherebbe la necessità di ripristinare i con-
trolli sui movimenti di capitale a breve termine, garantendo agli Stati na-
zionali e ai blocchi regionali il potere di determinare il grado di apertura
finanziaria compatibile con le proprie esigenze di sviluppo equilibrato e
autonomo. Il sistema dei tassi di cambio, ancorato al valore della moneta
di riserva, dovrebbe essere sottratto all’esclusiva influenza delle forze di
mercato, che spesso operano in senso destabilizzante, e tornare ad essere
gestito politicamente dalle autorità nazionali nell’ambito del rispetto dei
criteri generali e delle procedure definite in sede globale dalla nuova IFO.
La creazione di una nuova moneta di riserva internazionale non equi-
vale alla richiesta di procedere verso l’unificazione monetaria a livello
globale, come pure alcuni autorevoli economisti sostengono per elimi-
nare alla radice i problemi dell’instabilità del mercato dei cambi, della
speculazione finanziaria e del trasferimento di ricchezza derivante dal
potere di emissione26. Questo, della moneta globale, potrà essere un
obiettivo del futuro, quando nuove forme di governo mondiale, demo-
cratico e pluralistico, si saranno affermate e consolidate. Nella fase at-
tuale è più realistico ipotizzare che la nuova moneta internazionale pos-
sa fungere esclusivamente come mezzo contabile di regolazione dei sal-
di commerciali tra i paesi. Un esperimento in questa direzione è stato già
tentato in passato con i DSP emessi dal FMI, di cui abbiamo parlato nel
precedente capitolo.
La riforma del sistema monetario internazionale passa necessariamen-
te per la soluzione del problema della moneta di riserva, come ben sape-
vano gli architetti di Bretton Woods. Finché la liquidità mondiale sarà ba-
sata su una moneta nazionale (ieri la sterlina, oggi il dollaro), oltre agli ar-
bitrari trasferimenti di ricchezza sarà sempre presente il rischio di un
crollo improvviso del sistema monetario globale a causa di eventi o di
scelte politiche arbitrarie, unilaterali e difficilmente prevedibili. Chi può
immaginare che cosa potrebbe accadere se, ad esempio, il principale de-
tentore di riserve valutarie mondiali, la Cina, decidesse improvvisamente,
al di fuori di una logica di convenienza economica, di sbarazzarsi della
montagna di dollari oggi detenuti? Nel sistema di Bretton Woods, il ruo-
lo del dollaro era almeno formalmente giustificato dalla garanzia di una
sua convertibilità in oro e ciò poneva vincoli all’arbitrio monetario degli
USA. Oggi non è più così e, di fatto, è la Federal Reserve ad agire come
una banca centrale mondiale, sulla base però degli interessi esclusivi del
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86 DOPO IL LIBERISMO

suo paese e spesso a danno del resto del mondo. Il sistema monetario at-
tuale è intrinsecamente instabile, oltre che ingiusto27. Per questo deve es-
sere superato, non per tornare al predominio dell’oro, questo “relitto bar-
barico”, come lo definì Keynes, ma per giungere a un nuovo e più svi-
luppato stadio di civiltà, in cui il denaro, nella sua forma più pura e astrat-
ta, quella della moneta mondiale, sia regolato democraticamente e consa-
pevolmente dalla comunità internazionale in funzione dei bisogni econo-
mici e sociali dei popoli.
Per realizzare questi ambiziosi obiettivi politici, l’UE, a sessant’anni di
distanza dalla conferenza di Bretton Woods, potrebbe farsi promotrice in-
sieme ai paesi del Sud del mondo di una nuova conferenza internaziona-
le convocata dall’ONU per definire le regole e l’organizzazione di un nuo-
vo ordine economico globale28. La storia economica dimostra che una ra-
dicale riforma del sistema monetario internazionale è un caso raro, che si
verifica soltanto in presenza di eventi traumatici come guerre o grandi de-
pressioni29. Ebbene, oggi siamo esattamente in una situazione di questo ti-
po, con la guerra e una crisi economica lunga e strisciante, e occorre agi-
re prima della catastrofe. La crisi economica e sociale prodotta dal mo-
dello della globalizzazione neoliberista ha infatti dimensioni e intensità
paragonabili a quelle della grande depressione degli anni Trenta. Allora si
scelse la strada dell’anarchia nelle relazioni economiche internazionali,
che accentuò e aggravò la crisi, e soltanto la catastrofe della seconda guer-
ra mondiale indusse le grandi potenze a intraprendere la strada della coo-
perazione internazionale. Il rischio è che oggi la storia si possa ripetere, sia
pure in forme nuove ma pur sempre tragiche, come dimostra l’innesco in-
fernale della spirale della guerra e del terrorismo. Bisogna intervenire pri-
ma che sia troppo tardi con un nuovo progetto multilaterale e democrati-
co di ricostruzione dell’ordine economico mondiale devastato da due de-
cenni di neoliberismo. Sarebbe questo il più grande e importante contri-
buto alla causa della pace e della solidarietà tra i popoli.
In questo senso, il principio del multilateralismo democratico non va
confuso con la dottrina del multipolarismo, che sostiene la necessità di
creare contrappesi di potere statuale nei confronti dell’egemonia statuni-
tense. Il multipolarismo è figlio di una concezione basata sulla competi-
zione e sulla potenza militare, oltre che economica, e conduce inevitabil-
mente o a un’improbabile nuova guerra fredda, cioè a una riedizione di
una rivalità irriducibile tra blocchi di potere contrapposti, o, più realisti-
camente, a una concreta subordinazione delle forze alternative agli inte-
ressi dominanti all’interno di ogni singola area. Dunque, l’UE non deve
porsi l’obiettivo di sostituire l’egemonia aggressiva delle amministrazioni
statunitensi con l’instaurazione di un proprio dominio politico, economi-
co e militare. Questa strada, se mai fosse oggi percorribile e non, come è
più probabile, totalmente velleitaria, condurrebbe a un aggravamento
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3. PER UN NUOVO ORDINE ECONOMICO INTERNAZIONALE 87

delle ingiustizie globali e bloccherebbe sul nascere la possibilità di avvia-


re un processo di trasformazione e di protagonismo sociale.
Spesso il movimento altromondialista viene dipinto come ostile alla
globalizzazione, intesa nel suo significato più generale di un processo di
crescente interdipendenza e di interscambio economico e culturale tra
popoli e nazioni, e come nostalgico di un passato di autarchia e di chiu-
sura nazionale30. Nulla di più sbagliato. Le critiche e le proteste che pro-
vengono dalla società civile internazionale hanno come obiettivo un tipo,
storicamente determinato, di globalizzazione, quella neoliberista, decli-
nata soltanto sulla base di principi mercantili e monetari. La globalizza-
zione neoliberista è una falsa globalizzazione perché ha creato istituzioni,
regole e norme tese a proteggere e difendere interessi e privilegi partico-
lari a scapito dei diritti e delle aspirazioni della comunità dei popoli del
mondo. Essa globalizza e rende universale il dominio dell’astrazione del-
la merce, del capitale e del denaro sulla concreta vita dei popoli, delle co-
munità e delle persone.
Nell’ordine economico vigente gli interessi dei singoli popoli coinci-
dono con quelli della comunità mondiale, mentre sono solo gli interessi
particolari del capitale transnazionale che confliggono con gli interessi
generali dell’umanità. Infatti, se parlare di interessi generali di una singo-
la nazione può nascondere, a volte in modo inconsapevole, una posizio-
ne di subalternità nei confronti degli interessi dominanti, non è così a li-
vello globale. Nell’attuale epoca storica, caratterizzata da una completa
interdipendenza politica, economica, sociale e ambientale a livello plane-
tario e da una potenzialità tecnologica in grado di distruggere la vita sul
pianeta, l’umanità non è più un concetto astratto ma è diventato un sog-
getto storicamente reale. Questa nuova soggettività si esprime oggi con-
sapevolmente nei nuovi movimenti sociali globali che rivendicano la co-
struzione dal basso di un’altra globalizzazione, quella dei diritti umani e
ambientali. Commercio, investimenti e finanza non devono essere consi-
derati fini in sé ma devono essere posti al servizio di uno sviluppo equo e
sostenibile, che promuova la sovranità delle comunità locali, il benssere
sociale, la riduzione delle diseguaglianze a ogni livello, la salvaguardia
dell’ambiente e della natura. Per realizzare e imporre il perseguimento di
questi obiettivi sono necessarie nuove istituzioni, nuove regole e nuove
norme a livello planetario.
L’obiettivo di un governo mondiale, pluralistico e democratico, che ha
ispirato le più alte manifestazioni della cultura occidentale, dall’ideale
kantiano della pace perpetua a quello leopardiano dell’«umana compa-
gnia» che «tutti fra sé confederati estima gli uomini, e tutti abbraccia con
vero amor»31, fino ad arrivare all’internazionalismo proletario anarchico e
comunista, può oggi diventare, per la prima volta nella storia, un concre-
to progetto politico, che trova nei nuovi movimenti sociali dell’epoca del-
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88 DOPO IL LIBERISMO

la globalizzazione anche un reale soggetto storico in costruzione32. Su


questo terreno è in tumultuosa gestazione un nuovo movimento operaio,
erede di quel pezzo di futuro che viveva dentro l’esaltante e, al contem-
po, tragico tentativo di “assalto al cielo” compiuto dal movimento ope-
raio novecentesco.
Occorre allora riprendere la mobilitazione internazionale per fare in
modo che lo scacco di Cancun non rappresenti soltanto una parentesi
provvisoria lungo il cammino della globalizzazione neoliberista. È ormai
tempo per le forze della sinistra italiana ed europea e per i nuovi movi-
menti sociali di porsi l’obiettivo, ambizioso ma storicamente possibile e
necessario, di un nuovo ordine economico internazionale dopo il falli-
mento della globalizzazione neoliberista e la profonda crisi della sua prin-
cipale istituzione. Un obiettivo di questa natura è certamente al di fuori
di un’azione soltanto nazionale. Ciò è tanto più vero per un paese come
l’Italia, in considerazione del fatto che ormai la politica commerciale eu-
ropea non è più nelle mani dei singoli Stati nazionali ma viene gestita in-
teramente a livello di Unione Europea, che partecipa come un’unica en-
tità alle trattative in seno al WTO. Tuttavia l’Europa, per dimensioni eco-
nomiche e per tradizioni storiche e culturali, è un soggetto in grado di
portare avanti con successo questo disegno. La sinistra italiana deve rico-
minciare a ragionare in grande, abbandonando ogni soggezione verso l’i-
deologia neoliberista, e farsi promotrice all’interno dell’Unione Europea
di un nuovo progetto di ordine economico globale.
L’insegnamento di Cancun è stato di enorme importanza per il movi-
mento e per le forze della sinistra antiliberista. A Cancun la globalizza-
zione neoliberista è stata fermata. È la dimostrazione che si può vincere,
non solo protestare. Il vento del neoliberismo, che da dieci anni, come
uno dei tanti uragani che spazzano queste terre tropicali, travolgeva ogni
cosa, si è fermato a Cancun. È tempo che esso si plachi anche in Europa.
È tempo di agire per superare il trattato di Maastricht e il Patto di Stabi-
lità. Infatti, è solo attraverso una sua radicale trasformazione interna che
l’UE potrà assolvere a quel compito di pace, di giustizia sociale e di svi-
luppo economico reso necessario dalla crisi del neoliberismo globale.
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PARTE SECONDA
Per un’altra Europa
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4. Il declino dell’Europa

4.1. Il declino dell’Europa

Un sentimento di pessimismo avvolge l’opinione pubblica proprio


mentre l’Unione Europea raggiunge dimensioni continentali con l’allar-
gamento delle sue frontiere verso oriente. Una delle manifestazioni più
evidenti di questo diffuso stato d’animo è il tasso record di astensionismo
registrato, salvo alcune eccezioni riconducibili a ragioni di politica inter-
na, alle ultime elezioni europee del giugno 2004. È emblematico che sia-
no stati proprio gli elettori dei nuovi Stati membri ad aver disertato più
massicciamente le urne, nonostante la novità per loro costituita dall’ele-
zione a suffragio universale del Parlamento Europeo. In Gran Bretagna
questo pessimismo si è tramutato in aperta ostilità, con il clamoroso suc-
cesso elettorale di una nuova formazione politica (la EDD, Regno Unito
Indipendente), che ha fatto dell’antieuropeismo la sua bandiera. Ma in-
dicativo di questa situazione è anche il proclamato scetticismo europeo
del governo italiano. «L’Europa lo vuole!» è stato infatti il motto usato in
passato dalle classi dirigenti del nostro paese per imporre politiche spes-
so dolorose e antipopolari. Oggi invece la situazione si capovolge e l’Eu-
ropa diventa il capro espiatorio di ogni difficoltà. È difficile negare che
questo riflesso di sfiducia o di aperto contrasto verso l’Europa non sia in
qualche modo legato alla difficile situazione economica.
L’economia europea è ormai entrata nel quarto anno consecutivo di
stagnazione, la più lunga del dopoguerra. La ripresa, più volte annuncia-
ta e sempre rinviata, è ancora di là da venire. Come valutare la perduran-
te crisi economica europea? È solo il riflesso di un rallentamento econo-
mico globale oppure è il sintomo allarmante di una debolezza strutturale
del sistema produttivo? È una normale fase ciclica, magari un po’ più lun-
ga del solito, o è l’inizio di un inesorabile declino economico destinato ad
aggravarsi? Per rispondere a questi interrogativi può essere utile analiz-
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92 DOPO IL LIBERISMO

zare l’andamento di alcune fondamentali variabili macroeconomiche, in


un arco temporale di lungo periodo, con riferimento alle tre principali
aree economiche mondiali (USA, UEM, Giappone).

1960 1970 1980 1990 2000 2003

PIL pro capite (USA = 100)

UEM 61,8 72 76,3 75,2 69,8 69,2

USA 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

Giappone 43,7 58,3 73,2 81,7 74,9 74,1

Consumi pro capite (USA = 100)

UEM 56,4 64,2 69,2 63,3 58,1 56,1

USA 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

Giappone 31,4 50,9 63,0 65,2 60,6 59,4

Tabella 1. PIL e consumi pro capite negli USA e nell’UEM (1960-2003). I dati del PIL e
dei consumi pro capite sono misurati in termini di parità dei poteri d’acquisto. (Fonte: no-
stre elaborazioni su dati European Commission, 2004).

Osservando la tabella 1, che indica il rapporto tra i livelli di reddito e


di consumo pro capite dell’UEM e del Giappone rispetto agli USA, misu-
rati in termini di parità di potere d’acquisto per annullare gli effetti del-
le variazioni delle ragioni di scambio, ci accorgiamo che nei primi tre de-
cenni del dopoguerra l’Europa, dopo la catastrofe bellica, aveva pro-
gressivamente ridotto le distanze che la separavano dagli USA in termini
di indicatori di benessere economico. A un osservatore degli anni Set-
tanta, essa sembrava avviata ad annullare la residua differenza e a rag-
giungere gli Stati Uniti entro la fine del secolo. Invece, a partire dagli an-
ni Ottanta, in una non casuale coincidenza con l’avvento dell’era neoli-
berista, le cose hanno preso ad andare diversamente. Il recupero euro-
peo si è dapprima arrestato e ha poi invertito la tendenza, con una im-
petuosa accelerazione negli anni Novanta, e la forbice è tornata ad allar-
garsi. All’inizio del nuovo secolo, la distanza dell’Europa dagli USA in ter-
mini di prodotto pro capite è tornata ai livelli degli anni Sessanta e in ter-
mini di consumo pro capite addirittura agli anni Cinquanta, con un an-
damento peggiore di quello del Giappone, colpito da una grave depres-
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4. IL DECLINO DELL’EUROPA 93

sione durata più di un decennio. È questo il triste lascito degli anni di


Maastricht e del Patto di Stabilità.

PIL reale 1961-73 1974-85 1986-90 1991-95 1996-2000 2001-03

UEM 5,1 2,1 3,3 1,5 2,6 0,9

USA 4,4 2,8 3,2 2,5 4,1 1,9

Giappone 9,4 3,3 4,8 1,5 1,4 0,9

Tabella 2. Crescita del PIL reale. Tassi medi annui di variazione (UEM, USA, Giappone:
1961-2003). (Fonte: European Commission, 2004).

Tutto ciò è avvenuto in un contesto caratterizzato da una decisa fre-


nata dei tassi di crescita economica nei paesi industrializzati. Come si può
osservare nella tabella 2, gli anni Ottanta e Novanta sono stati anni di ma-
gra per le roccaforti del capitalismo mondiale rispetto al periodo prece-
dente. Nell’ultimo ventennio, infatti, il tasso di crescita economica è
ovunque diminuito, fino a sfociare nella lunga stagnazione di questo ini-
zio secolo. È indubbio che la spiegazione della crescita economica di lun-
go periodo non è riducibile a un unico fattore determinante. Tuttavia, è
innegabile che il regime di politica economica, inteso come l’insieme di
regole e di obiettivi che animano le politiche pubbliche, non può essere
trascurato. In fin dei conti, uno dei criteri oggettivi di valutazione delle
politiche è quello del loro impatto sul livello di benessere economico e so-
ciale dei cittadini e sulla dinamica di sviluppo che esse contribuiscono a
innescare.
In questo senso, possiamo affermare che nei principali paesi indu-
striali il paradigma neoliberista (fondato sul primato delle forze di mer-
cato), che sul finire degli anni Settanta ha sostituito il precedente para-
digma neokeynesiano (fondato su un ruolo attivo dello Stato nell’econo-
mia), si è rivelato meno efficace nel garantire il progresso economico. Ap-
pare anche evidente che il soffocamento della conflittualità sociale regi-
strato negli ultimi vent’anni non ha sortito alcun effetto benefico sui mec-
canismi di crescita. Eppure, proprio la riduzione del peso dello Stato nel-
l’economia e la pace sociale sono stati additati dal neoliberismo come le
ricette della prosperità universale. Queste ricette hanno fallito. Infatti, se
è vero che, in un diverso modello di sviluppo, gli indicatori quantitativi
non rappresentano un sicuro segno di benessere sociale, non è così per il
modello neoliberista. Il consenso che esso ha saputo raccogliere si è ba-
sato proprio sulla promessa che il libero mercato fosse il meccanismo di
organizzazione economica più efficiente, in grado di massimizzare la pro-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 94

94 DOPO IL LIBERISMO

duzione di ricchezza. L’accentuazione delle disuguaglianze sociali, a livel-


lo nazionale e globale, è stata a lungo giustificata come un prezzo accet-
tabile per garantire il progresso economico. In questo modo la società sa-
rebbe stata sì più diseguale, ma anche più prospera, e così gli Stati e i sin-
goli individui avrebbero tutti, chi più chi meno, tratto vantaggio dalla
maggiore ricchezza prodotta. Le cose sono andate altrimenti.
Tuttavia, pur essendo globale, l’intensità del rallentamento economico
è differenziata nelle diverse aree. Negli ultimi trent’anni la crescita ame-
ricana si è stabilmente attestata su valori di tutto rispetto, intorno al 3 per
cento annuo nella media del periodo, mentre Europa e Giappone hanno
subito una progressiva erosione della dinamica economica. È per questo
che la distanza in termini di livelli pro capite di reddito e consumi è tor-
nata a crescere. Il deficit di crescita economica rispetto agli USA è così di-
ventato la preoccupazione dominante per le istituzioni dell’Unione Eu-
ropea. Sono ormai passati i tempi in cui ci si preoccupava soltanto della
stabilità monetaria e della sostenibilità delle finanze pubbliche. Oggi è lo
spettro della stagnazione economica che si aggira nei palazzi del potere
comunitario, come dimostra un autorevole rapporto elaborato da un
gruppo di economisti europei per conto della Presidenza della Commis-
sione di Bruxelles1.

4.2. Una tesi incredibile: l’oziosità dei lavoratori


come causa del declino europeo
Ma come spiegare questa divergenza nei tassi di crescita economica tra
Europa e Stati Uniti? Negli ultimi tempi si è diffusa, a livello nazionale e
a livello comunitario, una tesi che addebita la ridotta performance euro-
pea alla minore quantità di lavoro impiegata rispetto agli USA e, in parti-
colare, alla riduzione dell’orario medio annuo di lavoro per occupato. Si
sostiene infatti che il lavoratore europeo, a differenza di quello america-
no, abbia ottenuto nell’ultimo quindicennio una consistente riduzione
delle ore lavorate in media durante l’anno e che questo fattore abbia de-
terminato l’abbassamento del tasso di crescita del PIL. Poiché inoltre si
ipotizza che la riduzione delle ore di lavoro sia il frutto di una scelta vo-
lontaria, derivante dalla preferenza dei lavoratori europei per l’ozio, piut-
tosto che per il reddito, si arriva ad affermare che per aumentare il tasso
di crescita economica occorrerebbe aumentare l’orario di lavoro. Non
contenti di ciò si conclude, infine, che tutto questo dovrebbe avvenire a
parità di salario, altrimenti l’indebolimento della capacità competitiva eu-
ropea sui mercati internazionali ne risulterebbe aggravato. In sostanza,
questa tesi sostiene la necessità per i lavoratori europei di lavorare gratis
per un numero maggiore di ore all’anno, attraverso la riduzione dei pe-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 95

4. IL DECLINO DELL’EUROPA 95

riodi feriali o attraverso l’aumento dell’orario settimanale. È così che in


Francia il governo di centrodestra ha rimesso in discussione la legge sul-
la riduzione dell’orario di lavoro a trentacinque ore settimanali a parità di
salario, approvata dal precedente governo di gauche plurielle diretto da
Lionel Jospin2, oppure che in Italia il presidente del Consiglio, Silvio Ber-
lusconi, ha proposto l’eliminazione di una serie di festività e di ponti fe-
riali. Anche in Germania sta accadendo la stessa cosa, sotto la spinta del-
le imprese che minacciano di delocalizzare gli impianti. Sembra incredi-
bile, ma questa tesi è sostenuta non solo a livello politico, ma anche at-
traverso analisi e proposte avanzate da diversi economisti, che hanno cer-
cato di motivare “scientificamente” questa posizione3. La cosa è incredi-
bile perché questa tesi è palesemente falsa.
Una delle motivazioni portate a sostegno della necessità di aumentare
l’orario di lavoro a parità di salario è la registrazione della differenza tra
le ore-lavoro per addetto negli USA e in Europa. Nel periodo 1970-2002,
negli Stati Uniti le ore-lavoro per occupato sono scese di una modesta en-
tità, passando da 1.821 a 1.724 all’anno. Il calo, inoltre, è pressoché inte-
ramente concentrato negli anni Settanta, poiché nel successivo ventennio
le ore-lavoro per occupato sono rimaste sostanzialmente stabili. Solo ne-
gli ultimi anni negli USA vi è stata una lieve ripresa del trend storico di ri-
duzione dell’orario annuo di lavoro. Nei paesi dell’UEM le cose, invece,
sono andate diversamente. Dal 1970 a oggi le ore-lavoro per occupato so-
no, in media, passate dalle iniziali 1.945 alle attuali 1.5734. Da questo da-
to alcuni economisti concludono che le differenze nel reddito pro capite
tra USA e UE derivano principalmente dal ridotto orario di lavoro europeo
e, conseguentemente, che per ridurre il gap nei livelli di reddito tra USA
ed Europa bisognerebbe lavorare di più con lo stesso salario5.
È questa una conclusione del tutto arbitraria e infondata. Per prima
cosa, l’effetto della riduzione delle ore-lavoro per addetto sul reddito è
nettamente sovrastimato, poiché non si tiene conto dell’effetto positivo
che essa ha sulla produttività oraria del lavoro6. Questa relazione è facil-
mente derivabile in forma analitica scomponendo la variazione della pro-
duttività del lavoro per addetto nelle sue componenti7. D’altra parte, es-
sa è anche logica e intuitiva perché, lavorando più a lungo, è cosa normale
verificare un calo del rendimento medio del lavoro, a causa degli effetti
dell’affaticamento e della stanchezza. Infatti, la correlazione negativa esi-
stente tra produttività oraria del lavoro e ore lavorate per occupato è con-
fermata dalle analisi statistiche8.
In secondo luogo, prima di trarre conclusioni di politica economica,
tese a sostenere la necessità di un allungamento del tempo di lavoro per
occupato, è necessario indagare sulle cause della maggiore riduzione del-
le ore-lavoro per addetto in Europa rispetto agli USA. Infatti, non è detto
a priori che essa sia il frutto di una scelta volontaria dei lavoratori e non,
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 96

96 DOPO IL LIBERISMO

al contrario, di uno stato di necessità a loro imposto dalle imprese. Infi-


ne, bisogna verificare gli effetti della riduzione delle ore-lavoro per ad-
detto sull’occupazione poiché, se essi fossero positivi, vi sarebbe per que-
sta via un contributo all’incremento del reddito, grazie all’aumento degli
occupati. Derivare dal semplice dato grezzo delle ore-lavoro per addetto
conclusioni circa la necessità di aumentare l’orario di lavoro a parità di
salario è dunque un’operazione politica e propagandistica, che nulla ha a
che fare con un’analisi seria e oggettiva del sistema economico.

1991-95 1996-00 2001-03 1991-03


Fattori di offerta
UEM USA UEM USA UEM USA UEM USA

Progresso tecnico 0,9 0,9 0,9 1,5 - 0,1 0,8 0,8 1,1

+ Accumulazione del capitale 0,8 0,8 0,7 1,4 0,6 1,1 0,7 1,1

+ Ore medie annue di lavoro per addetto - 0,2 0 - 0,4 0 - 0,1 - 0,1 - 0,3 0

+ Occupati 0 0,8 1,4 1,2 0,5 0,1 0,6 0,8

= PIL REALE 1,5 2,5 2,6 4,1 0,9 1,9 1,8 3

- Popolazione 0,3 1,3 0,3 1,2 0,4 1,1 0,3 1,2

= PIL REALE PRO CAPITE 1,2 1,2 2,3 2,9 0,5 0,8 1,5 1,8

Tabella 3. Crescita economica nell’UEM e negli USA (1991-2003). Contributo medio an-
nuo dei fattori di offerta. (Fonte: nostre elaborazioni su dati European Commission, 2004,
e OECD, Employment Outlook, Statistical Annex, vari anni).

Cominciamo allora ad analizzare i vari aspetti del problema. Per pri-


ma cosa osserviamo la tabella 3, dove la crescita del PIL reale e pro capi-
te nell’UEM e negli USA nel periodo 1991-2003 è stata scomposta nei di-
versi fattori strutturali di offerta, tenendo presente anche il fattore della
riduzione delle ore lavorate in media da ciascun addetto in un anno9.
Le informazioni raccolte nella tabella sono rilevanti e meritano di es-
sere attentamente osservate se si vogliono comprendere le cause del de-
clino europeo e della distanza che separa oggi l’economia dell’UEM dagli
USA. Le cifre riportate nelle ultime quattro colonne indicano il contribu-
to dei vari fattori di offerta (progresso tecnico, accumulazione del capita-
le, ore-lavoro e numero degli occupati) al tasso di crescita media annua
del PIL reale nel periodo 1991-2003. Sottraendo alla crescita del PIL reale
la crescita della popolazione si ottiene la crescita del PIL pro capite, sud-
divisa nelle sue varie componenti di offerta. Come si può osservare, a par-
tire dagli anni Novanta gli USA hanno fatto registrare una crescita econo-
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4. IL DECLINO DELL’EUROPA 97

mica decisamente maggiore di quella dell’UEM. In misura più ridotta, ma


ugualmente significativa, la medesima tendenza si è verificata per quanto
riguarda il PIL pro capite. In particolare, è nella seconda metà degli anni
Novanta che le differenze di crescita tra USA e UEM si accentuano e assu-
mono dimensioni considerevoli. Nel successivo periodo di crisi economi-
ca, iniziata nel 2001, il gap relativo tende addirittura ad aumentare, pur
nell’ambito di una generale decelerazione della crescita. Se andiamo a
esaminare il contributo dei singoli fattori di offerta ci accorgiamo che la
parte predominante è giocata dal progresso tecnico e dall’accumulazione
del capitale, che insieme spiegano quasi il 60 per cento del gap nell’inte-
ro periodo, l’80 per cento nella seconda metà degli anni Novanta e addi-
rittura il 140 per cento nei primi anni del nuovo secolo. Ridotto è invece
il contributo dato dalle differenze nella crescita della quantità di lavoro
impiegato. L’aumento del numero degli occupati gioca addirittura a fa-
vore dell’UEM a partire dalla metà degli anni Novanta, dopo un primo pe-
riodo in cui aveva sospinto il maggiore progresso dell’economia statuni-
tense. La riduzione relativa delle ore-lavoro per addetto in Europa spie-
ga appena un quarto del differenziale di crescita e si annulla negli ultimi
anni. Questo effetto così limitato deriva dall’aumento della produttività
oraria che esso stesso ha determinato. Infatti, negli anni Novanta la pro-
duttività per ora-lavoro in Europa è aumentata in media del 2 per cento
all’anno, contro l’1,3 per cento degli USA10. In altre parole, i lavoratori eu-
ropei hanno sì lavorato per meno tempo dei lavoratori americani, ma
hanno lavorato molto più intensamente.
Risulta così sfatata la tesi che motiva la maggiore crescita americana
con fattori demografici o con un aumento degli occupati. Altrettanto
marginale appare il fattore della riduzione delle ore-lavoro in Europa. In
realtà, la crescita maggiore dell’economia americana deriva da un tasso di
accumulazione del capitale ben più rapido di quello europeo e da un mi-
glioramento tecnico e organizzativo dell’apparato produttivo nettamente
più intenso. Il deficit di crescita europeo si spiega quindi, dal lato del-
l’offerta, con una scarsa propensione all’investimento produttivo delle
imprese e con una dinamica dell’efficienza tecnica e organizzativa decisa-
mente inferiore a quella degli USA. Vedremo successivamente l’evoluzio-
ne delle componenti della domanda e le fonti di finanziamento della cre-
scita, che ci aiuteranno a comprendere meglio quello che è successo nel-
l’ultimo quindicennio. Torniamo invece ora alla questione delle ore-lavo-
ro e cerchiamo di capire se questa minima riduzione è il frutto di una
maggiore propensione al tempo libero e all’ozio dei lavoratori europei ri-
spetto a quelli americani.
Innanzitutto, dobbiamo rilevare che l’esempio francese della riduzio-
ne per legge dell’orario di lavoro settimanale è rimasto isolato e non è sta-
to seguito da nessun altro paese europeo11. Soltanto in Germania si è re-
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98 DOPO IL LIBERISMO

gistrata una tendenza alla riduzione di orario, accompagnata da una pro-


porzionale riduzione del salario, in alcune situazioni di crisi occupazio-
nale di grandi imprese nell’ambito di accordi sindacali. In tutti gli altri
paesi europei non ci sono state significative conquiste su questo terreno,
né per via legislativa né per via contrattuale, da parte dei lavoratori nel
corso degli anni Novanta. Se osserviamo l’andamento del mercato del la-
voro europeo ci accorgiamo che l’aspetto più rilevante dell’ultimo quin-
dicennio, in coerenza con le strategie definite in sede di Unione Europea,
è stato il massiccio incremento della flessibilità del lavoro e in particolare
dell’occupazione part-time. Come si vede dal grafico 2, la quota di lavo-
ratori part-time sul totale dei dipendenti nell’UEM è aumentata di oltre 4,5
punti percentuali dal 1990 al 2003, mentre contemporaneamente negli
USA è scesa di quasi un punto.

Grafico 2. Quota percentuale del lavoro part-time sull’occupazione totale (1990-2003).


(Fonte: OECD).

L’espansione degli occupati in Europa negli anni Novanta è spiegabile


in buona parte con l’aumento del lavoro part-time, mentre negli USA l’au-
mento dell’occupazione ha riguardato in prevalenza impieghi a tempo
pieno. È allora evidente che la riduzione dell’orario medio annuo di lavo-
ro in Europa si spiega non tanto con una riduzione dell’orario contrat-
tuale per i lavoratori a tempo pieno, ma con una massiccia diffusione del
lavoro part-time, dovuta alla deregolamentazione del mercato del lavoro
europeo e all’introduzione massiccia di forme di flessibilità. Tanto è vero
che nel 2000 la settimana lavorativa media all’interno dell’UEM per i lavo-
ratori a tempo pieno era esattamente di quaranta ore settimanali (41,1 per
gli uomini e 38,9 per le donne)12. Una ricerca dell’OECD ha calcolato che
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 99

4. IL DECLINO DELL’EUROPA 99

nel corso degli anni Novanta il contributo dell’espansione del lavoro part-
time alla riduzione delle ore lavorate annue è stata pari al 62 per cento del
totale13. I dati provenienti dalla stessa fonte mostrano, infine, che nell’in-
tero periodo 1990-2002 le ore medie di lavoro per addetto degli occupa-
ti a tempo pieno dentro l’UEM si sono ridotte in misura insignificante per
gli uomini (-0,7 per cento in tredici anni) e appena superiore per le don-
ne (-1,3 per cento). Negli USA le ore-lavoro sono diminuite di meno per-
ché la quota di occupati part-time sul totale, invece di salire, è scesa con
un’espansione significativa dei contratti di lavoro a tempo pieno.
È allora alquanto discutibile attribuire la diminuzione delle ore-lavoro
in Europa a una scelta volontaria o alle eccessive conquiste sociali dei la-
voratori. Essa è invece essenzialmente un riflesso statistico della massic-
cia precarizzazione del mercato del lavoro europeo. A dimostrazione di
ciò sta il fatto che il salario orario di un lavoratore part-time è nell’UEM il
77 per cento del salario orario di un lavoratore a tempo pieno e che una
quota molto minore di lavoratori part-time è coinvolta in attività di for-
mazione interna alle imprese. La diffusione della precarietà e della flessi-
bilità nel mercato del lavoro europeo è confermata dal notevole incre-
mento, nell’ultimo decennio, dei lavoratori impiegati in orari di lavoro
anomali e socialmente penalizzanti. Nel 2002, in media, nei paesi del-
l’UEM il 15,1 per cento dei lavoratori aveva un orario variabile (contro
l’8,8 per cento del 1992), il 6,5 per cento lavorava di notte (il 4,5 per cen-
to nel 1992), il 13,2 per cento di sera (il 12,2 per cento nel 1992) e il 25,3
per cento nel weekend (40 per cento nel 1992)14. In totale, il 49 per cen-
to degli uomini e il 42 per cento delle donne occupate nell’UE lavora con
orari anomali rispetto al normale orario giornaliero e feriale15. Oltre al la-
voro part-time, anche l’altra componente del lavoro precario, quella con
contratti a tempo determinato, è cresciuta, passando dal 10,2 per cento
del totale degli occupati nel 1990 al 13,6 per cento del 2000. Sono le don-
ne, in particolare, ad aver subito di più gli effetti della precarizzazione:
nel 2000 il 33,2 per cento delle occupate era a part-time e il 14,7 per cen-
to aveva un contratto a tempo determinato16. Ora, anche dal punto di vi-
sta teorico, è indiscutibile che la maggiore flessibilità e variabilità dell’o-
rario di lavoro incida negativamente sull’utilità del lavoratore17. In altri
termini, un’ora di lavoro all’interno di una scansione temporale della pre-
stazione regolare, stabile e certa, rispettosa delle esigenze biologiche e so-
ciali del lavoratore, è preferibile, in termini di utilità, a una medesima ora
di lavoro in condizioni di flessibilità. Pertanto, se si volessero misurare
correttamente le preferenze dei lavoratori, occorrerebbe costruire un in-
dice standard di ora-lavoro sulla base delle diverse articolazioni tempo-
rali dell’organizzazione del lavoro. Si scoprirebbe così che l’aumento del-
la flessibilità ha più che compensato, in termini di disutilità del lavoro, la
piccola riduzione dell’orario medio annuo. In altre parole il lavoratore
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100 DOPO IL LIBERISMO

europeo, nel corso degli anni Novanta, ha visto peggiorare nettamente il


proprio stato, anche in termini di orario di lavoro, perché l’inasprimento
delle condizioni di vita derivanti dalla flessibilità nei tempi di lavoro im-
posti dalle imprese è stato di gran lunga superiore agli effetti derivanti
dalla limitata riduzione complessiva del totale annuo delle ore-lavoro.
Infine, possiamo affermare che la riduzione delle ore-lavoro, essendo
collegata all’aumento degli occupati a tempo parziale – che sono risultati
la componente di gran lunga più dinamica dell’espansione dell’occupa-
zione nell’ultimo quindicennio – ha fornito per questa via un contributo
positivo alla crescita del PIL e del reddito pro capite. Alla luce di questi
dati, sistematicamente ignorati dai fautori dell’aumento dell’orario di la-
voro a parità di salario, si può concludere che: a) la riduzione delle ore-
lavoro da ciascun occupato non è stata un fenomeno volontario ma la
conseguenza della maggiore flessibilità e precarietà del lavoro; b) esiste
un legame chiaro tra riduzione delle ore-lavoro per addetto e aumento
dell’occupazione; c) il contributo della riduzione dell’orario annuo di la-
voro alla crescita dell’economia europea, considerandone gli effetti diret-
ti e indiretti, è stato probabilmente positivo.
Altro che preferenza per l’ozio da parte dei lavoratori europei! Al con-
trario, si può affermare che l’inasprimento delle condizioni di lavoro, at-
traverso una maggiore intensità delle prestazioni e una crescente flessibi-
lità, è stato un elemento frenante della tendenza al declino dell’economia
europea, costato grandi sacrifici ai lavoratori. A coloro che accusano i la-
voratori europei di avere una particolare preferenza per l’ozio occorre ri-
cordare che ogni anno sono milioni i lavoratori che subiscono incidenti a
causa dei ritmi accelerati o delle scarse misure di protezione e sicurezza,
razionate dalle imprese piccole e grandi in nome della competitività e del-
la riduzione del costo del lavoro. Nel 2000, ad esempio, gli incidenti sul
lavoro nei paesi dell’UE sono stati 7.700.000, vale a dire che il 6,3 per cen-
to dei lavoratori europei ha subito un infortunio durante l’anno. Tra que-
sti ben 5.052 sono risultati mortali. I lavoratori precari, sempre più nu-
merosi, hanno un rischio di subire un incidente sul lavoro maggiore dal
20 per cento al 50 per cento di quello medio, a seconda dei settori di at-
tività18. Quattordici lavoratori europei perdono la vita sul lavoro ogni
giorno dei 365 che compongono l’anno e c’è chi addebita al loro “ozio”
le difficoltà economiche dell’Europa. Oppure preferite la contabilità fu-
nebre per ore-lavoro? Aumentate di una sola ora l’orario medio annuo di
lavoro e avrete cinquemila incidenti e tre morti in più all’anno. Volete
raggiungere l’orario medio di un lavoratore americano? Allora in questo
caso occorreranno 755.000 incidenti e 484 lavoratori morti in più all’an-
no, e per giunta gratis.
La tesi che propugna la necessità di far lavorare gratis per un tempo
supplementare i lavoratori europei, oltre ad essere completamente infon-
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4. IL DECLINO DELL’EUROPA 101

data sul piano dell’analisi, è anche moralmente esecrabile, perché mossa


soltanto da evidenti interessi di classe a favore del padronato e come tale
deve essere respinta senza esitazioni. In Europa, nel corso dell’ultimo
ventennio, i lavoratori hanno già dato, fin troppo. È arrivato il momento
che altri comincino a restituire quanto hanno ricevuto.

4.3. Il triste lascito di Maastricht

Come si è visto, i tassi di progresso tecnico e di accumulazione del ca-


pitale sono i fattori più significativi che spiegano la maggiore crescita del-
l’economia USA rispetto a quella europea. Ma perché è avvenuto questo?
Dopo aver analizzato i fattori di offerta della crescita economica, diamo
ora un’occhiata all’andamento delle componenti della domanda.

1991-95 1996-00 2001-03 1991-03


Componenti della domanda
UEM USA UEM USA UEM USA UEM USA

Consumi pubblici 1,8 0 1,6 1,8 2,5 3,7 1,9 1,5

Consumi privati 1,3 2,6 2,5 4,4 1,1 3 1,7 3,4

Investimenti 0 4,3 4,0 8,2 - 1,2 - 0,4 1,3 4,7

DOMANDA INTERNA 1,1 2,5 2,6 4,7 0,6 2,3 1,6 3,3

Esportazioni 5,6 7,1 7,9 7,1 1,5 - 1,8 5,6 5

Importazioni 4,1 6,9 8,2 11,7 1,1 1,6 5 7,5

PIL 1,5 2,4 2,6 4,1 0,9 1,9 1,8 3

Tabella 4. La crescita della domanda nell’UEM e negli USA (1991-2003). Tassi medi an-
nui di variazione in termini reali a prezzi 1995. (Fonte: nostre elaborazioni su dati Euro-
pean Commission, 2004).

Dalla tabella 4 si può vedere come il fattore trainante della crescita


americana sia stata la domanda interna, in modo particolare a partire dal-
la seconda metà degli anni Novanta, allorché essa è riuscita ampiamente
a compensare l’effetto negativo del crescente deficit commerciale ameri-
cano. Tra le componenti della domanda interna, quella più dinamica è
stata la spesa per gli investimenti fissi lordi, che è cresciuta più di tutte le
altre. In particolare, nella seconda metà degli anni Novanta, negli USA gli
investimenti sono letteralmente esplosi, con formidabili tassi di crescita
medi annui, superiori all’8 per cento, un livello riscontrabile soltanto nel-
le fasi iniziali dello sviluppo ed estremamente raro in economie industriali
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102 DOPO IL LIBERISMO

mature. Questo massiccio incremento del tasso di accumulazione del ca-


pitale, più ancora dell’espansione dei consumi, è il dato più caratteristico
e anomalo della lunga espansione americana dello scorso decennio. Nel-
l’UEM, al contrario, gli investimenti sono stati la componente meno dina-
mica della domanda e, nella media dell’intero periodo, sono cresciuti a un
tasso annuo inferiore di ben tre volte e mezzo rispetto a quello degli USA.
Addirittura, per tutta la prima metà degli anni Novanta essi non sono cre-
sciuti affatto.
Il boom degli investimenti, soprattutto di quelli tecnologici, ha avuto
un carattere ambivalente per l’economia USA: se da un lato ha posto le
premesse della crisi, producendo un eccesso di capacità produttiva e ali-
mentando la bolla finanziaria di Wall Street, dall’altro lato ha però indot-
to una crescita strutturale della produttività totale, determinando le con-
dizioni di offerta necessarie a reggere meglio il colpo della successiva cri-
si. Grazie all’accelerato tasso di accumulazione del capitale degli anni
Novanta, gli USA non soltanto producono più tecnologia nei settori pro-
duttivi innovativi, ma hanno un’intensità di diffusione delle nuove tecno-
logie dell’informazione e della comunicazione (ICT, Information and
Communication Technologies) nei settori produttivi più tradizionali, e in
particolare in quello dei servizi, significativamente più alta di quella eu-
ropea. Questa diversa caratteristica strutturale è in grado di spiegare
buona parte del differenziale di crescita tra le due economie, poiché il tas-
so di crescita della produttività del lavoro per addetto nei settori che pro-
ducono o utilizzano ICT è di gran lunga superiore a quello dell’intera eco-
nomia19. A conferma di ciò, un recente studio della Commissione Euro-
pea ha mostrato come la flessione della produttività oraria europea negli
ultimi anni sia da addebitare, in parti uguali, a due fattori, il rallenta-
mento dell’intensità di capitale per addetto e del progresso tecnico20.
In questo senso, la crisi che attraversa l’economia europea non può es-
sere considerata come un anomalo fenomeno congiunturale, ma mostra
tutti i segni di una inadeguatezza strutturale dell’offerta produttiva. L’e-
conomia europea soffre di un ritardo tecnologico non recuperabile con
misure palliative di corto respiro o con una intensificazione dei ritmi e de-
gli orari di lavoro. Su questa considerazione implicita si è basata la cosid-
detta “strategia di Lisbona”, lanciata dal Consiglio Europeo svoltosi nel
2000 presso la capitale portoghese21. In quell’occasione i capi di Stato e
di governo europei hanno lanciato un programma decennale di interven-
ti e di strategie volte a fare dell’Europa la principale economia innovati-
va del mondo nell’arco di un decennio. Gli assi attorno ai quali si è mos-
sa la strategia di Lisbona sono stati la deregolamentazione dei mercati, in
particolare di quello del lavoro, per incrementare il grado di concorren-
za e di efficienza interna, e la qualificazione professionale della forza la-
voro. A cinque anni di distanza dal vertice portoghese possiamo dire che
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 103

4. IL DECLINO DELL’EUROPA 103

il ritardo tecnologico dell’economia europea si è notevolmente aggrava-


to. È difficile negare il fallimento di quella strategia e il fatto che le ricet-
te di Lisbona non abbiano sortito alcun effetto positivo, perché erano
sbagliate le analisi su cui si fondavano.

Indici di redditività 1991-95 1996-00 2001-03 1991-03


degli investimenti produttivi
UEM USA UEM USA UEM USA UEM USA

(1) (2)
Profittabilità delle imprese private 1,1 2,3 3 2,4 0,3 1,4 1,6 2,2

CLUP reale(1) - 0,6 - 0,3 0,9 0,5 0 - 1,4 0,1 - 0,3

Salari reali pro capite(1) 0,9 0,8 0,3 2,4 0,6 0,5 0,5 1,4

Tassi di interesse reali a breve termine 5,4 2,1 2,7 4 1 0,5 3,3 2,5

Tassi di interesse reali a breve - Crescita PIL 3,9 - 0,4 0,1 - 0,1 0,1 - 1,5 1,5 - 0,5

(1) Variazione percentuale media annua.


(2) Variazione dell’indice di misura della remunerazione netta dello stock di capitale netto dell’intera economia.

Tabella 5. Redditività degli investimenti produttivi nell’UEM e negli USA (1991-2003).


(Fonte: nostre elaborazioni su dati European Commission, 2004).

Si tratta allora di capire la vera ragione della maggiore accumulazione


di capitale e del più rapido progresso tecnico negli USA rispetto all’Euro-
pa. La tabella 5 consente di escludere che la maggiore dinamica degli in-
vestimenti negli USA sia stata dovuta a una maggiore profittabilità delle
imprese americane rispetto a quelle europee.
Nel corso degli anni Novanta in entrambe le aree i profitti delle im-
prese sono aumentati a ritmi elevati, a scapito della remunerazione del la-
voro. Infatti, i salari reali per lavoratore sono aumentati molto meno del
reddito pro capite e ciò si è tradotto, sia negli USA che in Europa, in una
redistribuzione consistente del reddito verso i profitti e le rendite. Il co-
sto del lavoro per unità di prodotto (CLUP) è rimasto pressoché invariato
in Europa ed è leggermente diminuito negli USA. In sostanza, la redditi-
vità degli investimenti è cresciuta in maniera significativa sia per le im-
prese europee che per quelle americane. Nella seconda metà del decen-
nio, quando più accelerata è stata l’accumulazione di capitale negli USA,
le imprese europee vedevano crescere i loro utili addirittura più rapida-
mente delle imprese americane. Il ritorno economico sugli investimenti
non giustifica quindi un andamento così differenziato tra il tasso di accu-
mulazione europeo e quello americano.
Le determinanti del diverso tasso di accumulazione sono da ricercare
altrove. Un primo elemento di differenza si può ricavare dalla politica mo-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 104

104 DOPO IL LIBERISMO

netaria. Come si può vedere, i tassi di interesse reali sono stati più elevati
in Europa rispetto agli USA nella media dell’intero periodo. Tuttavia, un in-
dicatore ancora più significativo per valutare se la politica monetaria ab-
bia un orientamento di tipo restrittivo oppure espansivo è dato dalla dif-
ferenza tra il tasso di interesse a breve termine, controllato dalle banche
centrali, e il tasso di crescita del reddito. Quando la differenza è positiva
vuol dire che la remunerazione del capitale finanziario cresce più della re-
munerazione del capitale reale e del lavoro; in altri termini, che è più con-
veniente investire in titoli finanziari piuttosto che nell’attività produttiva.
In questo caso il peso delle rendite finanziarie sul reddito totale cresce, ori-
ginando un processo di redistribuzione del reddito a danno dei lavoratori
e delle attività produttive. Ora, la differenza nella politica monetaria del-
l’ultimo quindicennio nelle due aree è, come si vede, clamorosa: nell’UEM
i tassi di interesse sono stati costantemente superiori alla crescita del red-
dito, fino a toccare punte esasperate nella prima metà degli anni Novanta,
mentre negli USA sono stati sempre inferiori, in maniera molto accentuata
dopo lo scoppio della crisi negli ultimi anni. Nell’area dell’euro la politica
monetaria ha, quindi, determinato un enorme aumento della redditività
degli investimenti finanziari rispetto a quelli reali e all’attività lavorativa.
Questa politica monetaria così restrittiva è andata a esclusivo vantaggio
della finanza e ha costituito un fattore frenante per l’espansione della pro-
duzione. Il contrario è accaduto negli USA, dove invece il tasso di crescita
del reddito è stato superiore a quello della rendita finanziaria, incentivan-
do così l’investimento produttivo. La politica monetaria restrittiva nel-
l’UEM è stata così una delle cause della minor crescita europea.
L’altra causa del più alto tasso di accumulazione del capitale è l’anda-
mento della domanda interna22. Le imprese, infatti, fanno nuovi investi-
menti produttivi soltanto se prevedono che potranno vendere la maggio-
re quantità di prodotti che da essi deriverebbe. Osservando la tabella 4 si
scopre allora che, accanto agli investimenti, negli USA anche l’espansione
dei consumi è stata notevole. A questo proposito va rimarcato che l’au-
mento dei consumi americani non è derivato soltanto dagli elevati livelli
di spesa delle famiglie, ma anche dalla spesa pubblica. A partire dal 1996
negli USA il tasso di crescita dei consumi pubblici è stato superiore a quel-
lo dell’Europa. Clamorosa è la differenza negli ultimi anni di crisi. I dati
della tabella 6, dove il valore del tasso di crescita del PIL è scomposto sul-
la base dei contributi delle singole componenti della domanda, mostrano
che la maggiore tenuta dell’economia americana è dovuta pressoché
esclusivamente all’enorme incremento di spesa pubblica, prevalentemen-
te costituito dalle spese di guerra, avvenuto a partire dal 2001. La diver-
sa risposta di politica fiscale data al rallentamento della dinamica econo-
mica dagli USA rispetto all’UEM è la sola causa che spiega la differenza nei
tassi di crescita delle rispettive economie negli ultimi tre anni.
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 105

4. IL DECLINO DELL’EUROPA 105

1991-95 1996-00 2001-03 1991-03


Componenti della domanda
UEM USA UEM USA UEM USA UEM USA

Consumi pubblici 0,6 0,1 0,7 1 0,8 2,1 0,7 0,9

+ Consumi privati 0,4 1,8 1,1 2,3 0,3 0,4 0,6 1,7

+ Investimenti 0 0,6 0,8 1,5 - 0,2 - 0,1 0,3 0,8

+ Variazione delle scorte 0,1 0 - 0,1 0 - 0,1 - 0,1 - 0,1 0

= DOMANDA INTERNA 1,1 2,5 2,5 4,8 0,8 2,3 1,5 3,4

+ Esportazioni nette 0,4 - 0,1 0,1 - 0,7 0,1 - 0,4 0,3 - 0,4

= PIL 1,5 2,4 2,6 4,1 0,9 1,9 1,8 3

Tabella 6. Crescita economica nell’UEM e negli USA (1991-2003). Contributo medio an-
nuo delle componenti della domanda. (Fonte: nostre elaborazioni su dati European Com-
mission, 2004).

Possiamo allora concludere che il declino strutturale dell’economia eu-


ropea negli ultimi quindici anni è stato la conseguenza diretta delle politi-
che monetarie e fiscali restrittive derivanti dal trattato di Maastricht e dal
Patto di Stabilità, che hanno ridotto gli incentivi all’investimento produt-
tivo. Le imprese europee hanno dirottato i maggiori profitti verso la fi-
nanza, piuttosto che verso la produzione e l’innovazione, perché il merca-
to interno europeo era reso asfittico dalle politiche economiche restrittive.
E così una quota consistente dei capitali europei ha trovato uno sbocco
redditizio nel finanziamento della crescita accelerata dell’economia ameri-
cana, come dimostra il forte afflusso di capitali nel mercato finanziario de-
gli USA destinato a sostenere il loro crescente deficit commerciale. Infatti,
nel periodo 1990-2003 l’afflusso di capitali negli USA è stato enorme, pari
in media annua al 2,2 per cento del PIL. Viceversa, i paesi dell’UEM hanno
esportato capitali, in particolare nel mercato azionario americano, per un
ammontare medio dell’1,1 per cento del loro reddito annuo23. Si può dire
che la politica economica europea ha contribuito in maniera decisiva a
creare le condizioni per finanziare il boom dell’economia degli Stati Uni-
ti. La locomotiva americana negli anni Novanta ha trainato la crescita
mondiale, grazie a un forte aumento delle importazioni, passate in termi-
ni di quota sulle importazioni mondiali dal 17,8 per cento del 1983 al 22
per cento del 2002. Ma a beneficiarne sono stati i nuovi paesi industriali
dell’Asia, con Cina e India in testa, la cui quota sulle importazioni statu-
nitensi nello stesso periodo è passata dal 15,7 per cento al 24,6 per cento,
lasciando al palo la vecchia Europa. La quota dei paesi dell’euro sull’im-
port degli USA è infatti aumentata solo dell’1 per cento, passando dal 17
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 106

106 DOPO IL LIBERISMO

per cento al 18 per cento24. La recente rivalutazione dell’euro nel 2003, vo-
luta dalla Banca Centrale Europea, ha fatto il resto, annullando anche il
piccolo progresso registrato nei vent’anni precedenti.
Diametralmente opposta è stata la risposta allo scoppio della crisi eco-
nomica, all’inizio dell’attuale decennio, data dagli USA e dall’Europa. L’am-
ministrazione Bush non ha esitato un attimo a buttare alle ortiche l’orto-
dossia di bilancio e si è lanciata in una nuova, enorme corsa agli arma-
menti, giustificata dalla necessità della guerra preventiva al terrorismo, e in
una massiccia riduzione delle tasse alle imprese e ai ceti abbienti, che han-
no fatto esplodere il deficit pubblico. Contemporaneamente, la banca cen-
trale americana, la Federal Reserve, ha ridotto in pochi mesi i tassi di inte-
resse all’1 per cento, il livello più basso degli ultimi quarant’anni, per dare
fiato alla Borsa e al mercato immobiliare. Tutto ciò ha garantito una mag-
giore tenuta della domanda interna e reso meno forte il contraccolpo del-
la crisi, pur accentuando le contraddizioni strutturali del sistema economi-
co americano derivanti dai crescenti “deficit gemelli”, quello pubblico e
quello dei conti con l’estero, e dall’elevato livello di indebitamento del set-
tore privato. L’Europa è invece rimasta ferma, immobile nella reiterazione
ottusa e impotente delle vecchie litanie di Maastricht25.
Non bisogna confondere la profonda avversità che suscita la politica di
guerra dell’amministrazione Bush con la risposta tecnica di politica eco-
nomica da essa data alla crisi. Dal punto di vista tecnico, la risposta ame-
ricana è indubbiamente più corretta, perché essa tiene conto della lezione
della storia, quella della grande depressione degli anni Trenta. È il conte-
nuto politico delle scelte economiche dell’amministrazione Bush ad esse-
re profondamente sbagliato, perché incentrato sull’aumento delle già in-
tollerabili disuguaglianze sociali e sul militarismo guerrafondaio. L’Euro-
pa doveva imitare gli USA nell’avvio di una strategia generale di politica
economica marcatamente orientata in senso espansivo, per allontanarsene
sul piano dei contenuti concreti, puntando su un intervento pubblico di re-
distribuzione del reddito in senso egualitario e di potenziamento dell’of-
ferta produttiva26. In questo modo, l’Europa avrebbe anche massimizzato
l’efficacia macroeconomica della politica espansiva, evitando le contraddi-
zioni strutturali che il carattere di classe della politica economica america-
na comporta e che si manifestano in una esplosione del debito finanziario
del paese, sia nel settore pubblico, sia in quello privato delle famiglie e del-
le imprese27. L’Europa, invece, ha fatto esattamente il contrario, inseguen-
do il modello sociale americano intriso di neoliberismo darwiniano28 e pro-
seguendo nella dottrina dei sacrifici e del rigore nella politica economica.
Un comportamento autolesionista ai limiti del masochismo.
Infatti, le politiche di austerità attuate in Europa negli ultimi quindici
anni, contrassegnate da una redistribuzione del reddito verso i ceti ab-
bienti e da una drastica riduzione dell’intervento pubblico, hanno rallen-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 107

4. IL DECLINO DELL’EUROPA 107

tato l’ammodernamento produttivo proprio in un periodo di forte inno-


vazione, legato all’introduzione delle nuove tecnologie dell’informazione
e della comunicazione e ai processi di globalizzazione che hanno ridise-
gnato la divisione internazionale del lavoro. Esse hanno così partorito un
risultato paradossale: mentre hanno indebolito in modo permanente la
struttura economica europea, hanno favorito la crescita sostenuta delle
altre economie, in modo diretto di quella americana e in modo indiretto
di quelle asiatiche. A volte per ottusità, più spesso per corposi interessi
particolari, le classi dirigenti europee hanno così costruito con le proprie
mani le condizioni del declino economico.
La stretta fiscale e monetaria, che dura ormai da più di un decennio, ha
dunque imposto ai popoli europei sacrifici non solo temporanei ma dura-
turi, riducendo le potenzialità di crescita futura. Questa rapida analisi dei
dati economici di lungo periodo ci porta a dire che, nell’ambito di una cri-
si generale del modello della globalizzazione neoliberista, la crisi econo-
mica europea presenta caratteri di particolare gravità perché non si mani-
festa solo in termini assoluti ma anche in termini relativi, nel rapporto con
le altre principali aree economiche mondiali. L’economia europea perde
inesorabilmente terreno sia nei confronti delle altre potenze capitalistiche,
sia nei confronti delle nuove potenze in formazione, Cina e India in testa.
E la causa principale di tutto ciò risiede, come abbiamo visto, nell’indiriz-
zo di politica economica prevalso in Europa nell’ultimo quindicennio.
Questa situazione impone allora di ripensare criticamente al processo
di integrazione europea. Esemplare in tal senso è l’architettura dell’Unio-
ne Monetaria Europea, definita a Maastricht in un gelido giorno di inver-
no del 1992.
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 108

5. Il manifesto ideologico di Maastricht

5.1. Il marchio di Maastricht sull’Europa

La lunga strada che ha portato alla moneta unica europea ha avuto co-
me sua tappa fondamentale il trattato di Maastricht, stipulato nell’omo-
nima cittadina belga il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore, dopo la rati-
fica dei parlamenti nazionali, il primo novembre 1993. In esso venne de-
finita l’architettura istituzionale della futura Unione Economica e Mone-
taria (UEM), oltre che i tempi, le modalità e le condizioni della sua costi-
tuzione. I contenuti dell’accordo di Maastricht hanno determinato, in lar-
ga misura, i caratteri assunti dal processo di transizione dalle monete na-
zionali all’euro e, ancora adesso, rappresentano il cardine dell’intera co-
struzione europea.
La straordinaria importanza del trattato di Maastricht non risiede sol-
tanto nei meccanismi giuridici e istituzionali da esso stabiliti, ma soprat-
tutto nella definizione del modello sociale e dei principi ispiratori della
futura Europa. Da questo punto di vista, Maastricht è addirittura supe-
riore, per importanza e concreta influenza, a una carta costituzionale. Il
progetto di Costituzione europea, all’esame dei capi di Stato e di gover-
no dell’Unione, dimostra che è ancora Maastricht a rappresentare il qua-
dro strategico entro cui si muove il processo di integrazione.
Ciò è particolarmente vero per la politica economica. Strumenti e con-
tenuti della politica monetaria e della politica di bilancio in Europa sono
ancora, nelle loro linee di fondo, quelli definiti, più di dodici anni fa, nel-
la piccola cittadina belga. I successivi accordi sulla conduzione della po-
litica economica europea, compreso il Patto di Stabilità e Crescita, rap-
presentano la prosecuzione e la specifica articolazione delle strategie al-
lora definite per costituire l’UEM. Per questo è lecito affermare che anco-
ra oggi il marchio, il logo, il simbolo dell’Unione Europea rimane quello
del trattato di Maastricht.
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 109

5. IL MANIFESTO IDEOLOGICO DI MAASTRICHT 109

Questa caratteristica costitutiva dell’Europa contiene un aspetto para-


dossale, che getta una luce inquietante sulla sua condizione attuale. Quan-
do il trattato di Maastricht fu firmato si sapeva già che esso possedeva, più
che un contenuto giuridico e istituzionale, un carattere di programma po-
litico a forte impronta ideologica. Fin dal momento in cui veniva ufficial-
mente siglato, infatti, appariva già superato dallo sviluppo degli avveni-
menti. La sua gestazione era stata lunga e difficile, essendo iniziata, a se-
guito di continue insistenze francesi, intorno alla metà degli anni Ottanta,
senza tuttavia produrre concreti avanzamenti a causa, soprattutto, della
resistenza della Repubblica Federale Tedesca (RFT), timorosa di perdere
con il marco anche quel quadro di stabilità monetaria e di bilancio che
aveva costituito uno dei principali fattori della sua solidità economica nel
secondo dopoguerra. La RFT non aveva alcun interesse a rinunciare ai van-
taggi che l’accordo di cambio europeo allora vigente, il Sistema Moneta-
rio Europeo (SME), le apportava. Di fatto, pur conservando formalmente
la sovranità monetaria, gli altri paesi aderenti all’accordo di cambio erano
subordinati alle politiche deflattive e antinflazionistiche della Bunde-
sbank, la potente banca centrale tedesca1.
Lo sblocco delle trattative fu originato da cause politiche, ben più che
da reciproche convenienze economiche. Fu infatti solo a seguito del dis-
solvimento del blocco sovietico nel 1989 che, in cambio dell’assenso oc-
cidentale all’immediata unificazione nazionale tedesca, la Germania ac-
cettò di procedere verso l’integrazione monetaria europea2. Le condizio-
ni poste furono però molto rigide. La Germania avrebbe rinunciato al
marco solo se la futura valuta comune, l’euro, avesse mantenuto le carat-
teristiche di stabilità della moneta tedesca, attraverso una conduzione
della politica monetaria libera da ogni interferenza politica e finalizzata
esclusivamente al controllo dell’inflazione. A tal fine, le politiche fiscali
nazionali dovevano fin da subito essere subordinate a questi obiettivi, con
un severo controllo dei saldi di bilancio e con immediati programmi di ri-
duzione del debito pubblico precedentemente accumulato. Queste con-
dizioni vennero accolte dagli altri paesi della Comunità Europea e così la
strada verso Maastricht fu spianata già a partire dalla sessione speciale del
Consiglio Europeo tenutasi a Roma nell’ottobre del 1990.
Tuttavia, nel frattempo, le condizioni economiche dell’Europa erano
profondamente mutate. La decisione del cancelliere Köhl di procedere
all’unificazione tedesca con un rapporto di cambio alla pari tra il marco
dell’Ovest e quello dell’Est e la necessità di forti trasferimenti pubblici
per la ristrutturazione economica e sociale della Germania orientale, ave-
vano fatto saltare i cardini su cui la politica economica tedesca si era ba-
sata fin dagli anni Cinquanta. Ora era la Germania, tradizionale paese
esportatore di capitali, destinati a finanziare in prevalenza la relativa de-
bolezza competitiva dei suoi vicini, ad aver bisogno di un afflusso di ca-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 110

110 DOPO IL LIBERISMO

pitali dal resto d’Europa. In queste condizioni il rigido schema previsto


dal trattato di Maastricht non poteva reggere a lungo, anzi era destinato
a produrre in breve tempo un terremoto economico. Così infatti accadde
appena sette mesi dopo la sua firma. Un’ondata speculativa travolse i
mercati finanziari europei, colpendo in particolare la lira e la sterlina, e
l’accordo di cambio dello SME di fatto si volatilizzò, con l’uscita dell’Ita-
lia e della Gran Bretagna e con l’ampliamento dei margini di fluttuazio-
ne delle monete3. A quel punto la strada tracciata a Maastricht diventava
molto più onerosa in termini di aggiustamento macroeconomico.
Poiché queste conseguenze non potevano non essere previste all’epo-
ca della firma del trattato e, ancor più, dopo la crisi valutaria dell’autun-
no 1992, è lecito domandarsi perché tanta ostinazione nel voler mante-
nere impegni assunti in epoche ormai così diverse. D’altra parte, era già
accaduto che un progetto di unificazione monetaria europea formalmen-
te concordato, il Piano Werner del 1970, saltasse a seguito delle mutate
condizioni economiche derivanti dal crollo del regime di cambi fissi e dal-
la crisi petrolifera4. Per l’Europa gli effetti politici ed economici dell’uni-
ficazione tedesca e del crollo dello SME avevano una portata quantomeno
analoga a quella di allora.
La decisione di proseguire, con ancor maggior foga, lungo la strada
tracciata a Maastricht fu pertanto il frutto di una precisa scelta politica
delle classi dirigenti europee, ammantata di motivazioni di ordine tecni-
co per mascherarne la portata sociale. La scelta fu quella di fare dell’Eu-
ropa un avamposto del neoliberismo e di quella scelta paghiamo ancora
le conseguenze. Il trattato di Maastricht deve allora essere considerato,
più che un quadro giuridico e istituzionale, un vero e proprio manifesto
ideologico. L’aura di sacralità da cui è stato circondato in tutti questi an-
ni ne è una palese dimostrazione. Un insieme di norme giuridiche, fosse-
ro anche di valenza costituzionale, si cambiano per adattarle alle trasfor-
mazioni della realtà. Non così per un progetto politico fortemente vena-
to da connotazioni ideologiche. In questo caso è la realtà a doversi forzo-
samente adattare ad esso. Vediamo allora cosa prevedeva il trattato di
Maastricht.

5.2. I parametri di Maastricht e il quadro istituzionale


della politica economica europea
Il metodo adottato a Maastricht per arrivare all’unificazione moneta-
ria europea fu basato su due principi fondamentali, quello della gradua-
lità e quello della convergenza tra le diverse economie nazionali.
Il principio della gradualità consisteva nell’articolazione in tre fasi del
processo di istituzione dell’UEM5: la prima fase, destinata a concludersi
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 111

5. IL MANIFESTO IDEOLOGICO DI MAASTRICHT 111

entro il 1993, prevedeva la completa e integrale libertà di circolazione dei


capitali tra i paesi membri e il divieto di finanziare i deficit dei bilanci
pubblici attraverso l’emissione monetaria; la seconda fase, il cui inizio era
previsto il primo gennaio 1994, definiva il processo di istituzione del Si-
stema Europeo di Banche Centrali (SEBC) e dell’Istituto Monetario Euro-
peo (IME), che doveva essere accompagnato dall’acquisizione di uno sta-
tuto di piena indipendenza e di totale autonomia delle banche centrali
nazionali nella determinazione della politica monetaria; la terza e ultima
fase, da avviarsi entro il primo gennaio 1999, era quella della costituzio-
ne vera e propria dell’UEM, con la fissazione di parità irrevocabili dei tas-
si di cambio e con l’entrata in attività della Banca Centrale Europea (BCE),
in qualità di unica autorità di politica monetaria. Al compimento di que-
sta terza fase, la sovranità monetaria sarebbe già passata dai livelli nazio-
nali al livello comune europeo. Pertanto, la quarta tappa, quella dell’en-
trata in circolazione dell’euro come moneta corrente in sostituzione del-
le monete nazionali, avvenuta nei primi mesi del 2002, avrebbe rappre-
sentato un passo dall’alto valore simbolico, ma secondario dal punto di
vista della politica monetaria.
Nulla di cogente veniva stabilito, invece, in merito al coordinamento e
alla gestione unitaria delle politiche fiscali. L’unico strumento di politica
macroeconomica a livello di Unione era così rappresentato dalla politica
monetaria. Tuttavia, la definizione, nell’articolo 105 del trattato, della sta-
bilità dei prezzi come obiettivo principale della BCE, escludeva ogni ruolo
attivo della politica monetaria sull’economia reale. In questo quadro le po-
litiche fiscali nazionali dovevano limitarsi ad ammortizzare e ad assecon-
dare i diversi impatti territoriali della politica monetaria comune e degli
eventuali shock economici asimmetrici, cioè delle variazioni delle attività
economiche specifiche di ogni paese. Ciò doveva avvenire attraverso l’a-
dozione di regole rigide di politica fiscale, basate sul funzionamento degli
stabilizzatori automatici, cioè di quelle voci di entrata e di spesa del bilan-
cio pubblico, sensibili all’andamento della congiuntura, che agiscono in
senso anticiclico per smussare le fluttuazioni economiche. Veniva invece
escluso ogni ruolo attivo e discrezionale della politica fiscale.
Il trattato prevedeva, inoltre, specifiche procedure di controllo sulla po-
litica fiscale dei paesi membri dell’Unione, affidate alla Commissione Eu-
ropea. In caso di deficit considerato eccessivo la commissione poteva rac-
comandare al Consiglio Europeo, formato dai capi di Stato e di governo,
di assumere, a maggioranza qualificata, l’adozione delle misure necessarie
per imporre al paese inadempiente la disciplina fiscale. Le procedure di
controllo fiscale, previste dal trattato di Maastricht, erano tuttavia ancora
abbastanza generiche e soggette ad ampia discrezionalità politica. È solo
con il Patto di Stabilità e Crescita che, come vedremo, tali procedure ven-
gono codificate dettagliatamente, fino ad assumere carattere automatico.
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112 DOPO IL LIBERISMO

Liberalizzazione dei movimenti di capitale, autonomia e indipendenza


delle banche centrali dal potere politico, lotta all’inflazione, copertura in-
tegrale dei deficit pubblici attraverso il ricorso ai mercati finanziari, cen-
tralizzazione della politica monetaria e conduzione nazionale decentrata
della politica fiscale: erano dunque questi i pilastri del processo di istitu-
zione dell’UEM. Le fasi, solo apparentemente tecniche, attraverso cui si
doveva giungere all’unificazione monetaria erano, in realtà, il frutto di
una precisa strategia politica: l’UEM doveva fondarsi su un solido quadro
istituzionale forgiato sulla base della fede, cieca e assoluta, nelle virtù tra-
scendenti del libero mercato. Attraverso la definizione di regole istituzio-
nali di comportamento per le autorità di politica monetaria e di politica
fiscale, la politica macroeconomica risultava inerte e passiva rispetto al-
l’andamento dei mercati e veniva così svuotata di ogni capacità di orien-
tare e indirizzare lo sviluppo economico verso obiettivi collettivi. La po-
litica monetaria e la politica fiscale venivano ricoperte di un alone tecni-
co, che nascondeva gli obiettivi propriamente politici perseguiti.
Era il trionfo della logica delle compatibilità: le decisioni in materia di
politica economica erano a priori determinate da norme giuridiche di ca-
rattere costituzionale al rispetto di vincoli esterni, arbitrariamente formu-
lati in modo da assecondare l’andamento spontaneo delle forze di mer-
cato. In tal modo, le diverse opzioni e i differenti orientamenti politici dei
governi e dei parlamenti ben poco potevano incidere sulla struttura eco-
nomica e sociale. La logica della compatibilità economica portava con sé
quindi anche la logica dell’alternanza politica. La competizione tra diffe-
renti schieramenti politici per il governo dei paesi doveva avvenire all’in-
terno di un quadro economico-sociale immodificabile, definito per via
tecnica e istituzionale secondo i principi neoliberisti. La struttura istitu-
zionale dell’UEM può dirsi, per questa ragione, figlia legittima del pensie-
ro unico della globalizzazione neoliberista.
Questa impostazione istituzionale trovava immediata e concreta con-
ferma dall’applicazione del secondo principio di base adottato per giun-
gere all’UEM, quello della convergenza delle singole economie nazionali.
Sul piano delle condizioni economiche e finanziarie, che ciascun paese
doveva rispettare per essere ammesso all’UEM, il trattato di Maastricht
prevedeva cinque criteri di convergenza, tre di carattere monetario e due
di carattere fiscale:

1) il tasso di inflazione non doveva superare per più dell’1,5 per cento il
tasso medio di inflazione registrato dai tre paesi con inflazione più
bassa;
2) i tassi di interesse a lungo termine non dovevano superare per più del
2 per cento quelli medi dei tre paesi con maggiore stabilità dei prezzi;
3) il tasso di cambio delle monete nazionali doveva restare, nei due anni
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5. IL MANIFESTO IDEOLOGICO DI MAASTRICHT 113

precedenti l’avvio dell’UEM, all’interno dei margini normali di fluttua-


zione del Sistema Monetario Europeo (SME). Quando il trattato fu fir-
mato i margini normali di fluttuazione nello SME erano dell’1,25 per
cento sopra e sotto la parità centrale. In seguito alla crisi valutaria del
1992 i margini furono ampliati al 15 per cento, di fatto eliminando co-
sì gran parte della cogenza del parametro del tasso di cambio;
4) il deficit del bilancio pubblico non doveva superare il 3 per cento del
PIL, salvo casi eccezionali, transitori e comunque non eccedenti signi-
ficativamente il valore di riferimento;
5) il debito pubblico non doveva superare il 60 per cento del PIL. Questo
parametro venne successivamente interpretato in senso tendenziale,
ovvero i paesi con un elevato debito pubblico, come l’Italia e il Belgio,
dovevano procedere sistematicamente a una progressiva e rapida ri-
duzione dello stock di debito.

La convergenza macroeconomica stabilita con i parametri di Maastri-


cht doveva così realizzarsi verso quelle economie più “virtuose” sul pia-
no della stabilità monetaria e della gestione del bilancio pubblico. In
realtà, quindi, più che di convergenza è più appropriato parlare di aggiu-
stamento di tutti i paesi verso il modello tedesco pre-unificazione, indi-
pendentemente dalle condizioni strutturali delle singole economie. Infat-
ti, le soglie relative al tasso di inflazione e al tasso di interesse risultavano
determinate da paesi appartenenti all’area del marco tedesco (Germania,
Olanda, Lussemburgo, Austria). La soglia relativa al rapporto deficit/PIL
derivava dall’idea che le sole spese pubbliche finanziabili attraverso il ri-
corso all’indebitamento fossero quelle d’investimento, che storicamente,
nei principali paesi europei, si erano collocate intorno al 3 per cento. Era
questo, inoltre, il livello attorno a cui oscillava il deficit federale tedesco.
La soglia del debito, infine, rispondeva alla media degli stock di debito
pubblico dei paesi membri (vedi tabella 7).
Come si può osservare, la determinazione quantitativa dei parametri di
Maastricht era fortemente empirica, discrezionale e, per certi aspetti, ar-
bitraria, priva com’era di qualunque teoria esplicativa di carattere econo-
mico. In realtà, se l’obiettivo dei parametri era esclusivamente quello di
evitare l’esplodere di una crisi finanziaria europea a seguito di politiche fi-
scali insostenibili da parte degli Stati membri, le possibili combinazioni
numeriche dell’entità del deficit e del debito pubblico rispetto al PIL era-
no teoricamente infinite, dipendendo da una enorme quantità di fattori6.
Erano, allora, i rapporti di forza e le finalità politiche, più che le anali-
si economiche, ad essere alla base dei “sacri” vincoli di Maastricht. Natu-
ralmente, invece, i parametri di Maastricht vennero giustificati sulla base
di ragioni puramente tecniche ed economiche. Queste motivazioni tecni-
co-economiche divennero una sorta di luogo comune nell’opinione pub-
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114 DOPO IL LIBERISMO

Inflazione Tassi di interesse Deficit/PIL(2) Debito/PIL

Stati membri 1991 1997 1991 1997 1991 1998(3) 1991 1998(3)

Belgio 3,2 1,4 9,3 5,7 6,5 1,7 129,4 118,1

Germania 3,0 1,4 8,5 5,6 3,3 2,5 41,5 61,2

Grecia 19,5 5,2 24,1(1) 9,8 11,5 2,2 92,3 107,7

Spagna 5,9 1,8 12,4 6,3 4,9 2,2 45,8 67,4

Francia 3,2 1,2 9,0 5,5 2,2 2,9 35,8 58,1

Irlanda 3,2 1,2 9,2 6,2 2,3 + 1,1 95,0 59,5

Italia 6,4 1,8 13,3 6,7 10,2 2,5 101,4 118,1

Lussemburgo 3,1 1,4 6,5(1) 5,6 + 1,9 + 1,0 4,2 7,1

Olanda 3,1 1,8 8,7 5,5 2,9 1,6 78,8 70,0

Austria 3,3 1,1 8,6 5,6 2,6 2,3 58,7 64,7

Portogallo 11,4 1,8 14,5 6,2 6,7 2,2 71,1 60,0

Finlandia 4,3 1,3 11,7 5,9 1,5 + 0,3 23,0 53,6

Parametro 4,4 2,7 10,7 7,8 3,0 3,0 60,0 60,0

(1) Per la Grecia il dato si riferisce al 1992, per il Lussemburgo al 1993.


(2) Il segno più indica un avanzo.
(3) Per queste due variabili, la decisione sull’entrata nell’UEM è stata presa sulla base della stima dell’IME for-
mulata in occasione della presentazione del Rapporto sulla Convergenza del 25 marzo 1998, da cui sono tratti i
dati riportati in tabella.

Tabella 7. I parametri di Maastricht all’inizio e alla fine del periodo di transizione verso
l’UEM (1991 e 1997). (Fonte: IME, 1998).

blica e servirono ai singoli governi nazionali per nascondere i reali scopi


politico-sociali che venivano perseguiti attraverso la costituzione dell’UEM.
La decisione in merito all’entrata dei singoli paesi nell’UEM fu adotta-
ta nel corso della riunione del Consiglio Europeo del 3 maggio 1998, sul-
la base del Rapporto sulla Convergenza stilato dall’IME il 25 marzo dello
stesso anno. Svezia, Regno Unito e Danimarca rifiutarono di aderire al-
l’UEM e mantennero le proprie monete nazionali, mentre la Grecia, no-
nostante i poderosi sforzi di aggiustamento, in un primo tempo non ven-
ne ammessa, perché ancora lontana dal raggiungimento dei parametri re-
lativi a inflazione e tassi di interesse. In definitiva, dei cinque parametri,
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5. IL MANIFESTO IDEOLOGICO DI MAASTRICHT 115

soltanto tre (inflazione, tassi di interesse e deficit pubblico) furono appli-


cati rigidamente, mentre gli altri due (tasso di cambio e debito pubblico)
furono interpretati in modo flessibile e tendenziale. Al di là, quindi, del
dettato formale del trattato, la scelta sui paesi che potevano fin da subito
accedere all’UEM assunse connotati fortemente politici, a ulteriore dimo-
strazione del carattere strumentale dei parametri di Maastricht, in quan-
to funzionali all’adesione a un modello sociale neoliberista.

5.3. La strada percorsa a Maastricht e la possibile alternativa mancata

La definizione di criteri di convergenza come condizione preliminare


all’unificazione monetaria europea era pressoché universalmente ricono-
sciuta come indispensabile alla luce dell’assetto istituzionale prescelto.
Un’unione monetaria, infatti, può essere realizzata attraverso diverse ti-
pologie istituzionali relative alla conduzione della politica monetaria e fi-
scale7. Il disegno previsto nel trattato di Maastricht optava per una im-
mediata transizione, sin dall’avvio dell’unione monetaria, verso un siste-
ma bancario unificato con totale liberalizzazione interna dei movimenti
di capitale, in cui le banche centrali nazionali diventavano semplici suc-
cursali della BCE. In tal modo veniva esclusa ogni possibilità di gestire la
transizione mantenendo gradi di autonomia monetaria nazionale, pur
nell’ambito di un’integrazione monetaria, attraverso la segmentazione del
sistema bancario, come ad esempio era avvenuto nel primo periodo di co-
stituzione della Federal Reserve negli Stati Uniti8.
Questa condizione, in assenza di una politica fiscale nazionale attiva e
di un’adeguata redistribuzione delle risorse a livello unitario e in presen-
za di mercati finanziari perfettamente integrati, comportava inevitabil-
mente che il meccanismo di aggiustamento strutturale dei singoli paesi
nei confronti degli squilibri macroeconomici nazionali fosse basato sul
pieno funzionamento delle forze di mercato. Tuttavia, l’ipotesi, esplicita-
mente sostenuta dai fautori del trattato di Maastricht, che le politiche fi-
scali decentrate, rigidamente vincolate dalle regole comunitarie, potesse-
ro essere in grado da sole di stabilizzare le specifiche variazioni nazionali
dell’attività economica era fin dall’inizio debole e irrealistica, sia dal pun-
to di vista teorico che da quello dell’evidenza empirica ricavata dal pe-
riodo precedente all’unificazione monetaria9.
Infatti, era prevedibile che in presenza di rigidità nei livelli nominali dei
prezzi e dei salari, caratteristiche di ogni economia moderna, l’aggiusta-
mento interno nei confronti di specifici squilibri nazionali si sarebbe inte-
ramente scaricato sul livello di produzione e di reddito reale. Inoltre, il pe-
so dell’aggiustamento sarebbe gravato sui paesi a crescita più lenta, perché
i paesi a più elevato tasso di sviluppo non avrebbero incontrato alcun vin-
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116 DOPO IL LIBERISMO

colo alla loro espansione fino a che non avessero raggiunto una condizione
di piena occupazione. In altri termini, sarebbe stata la recessione economi-
ca a ripristinare l’equilibrio macroeconomico in caso di andamento diver-
gente di un’economia nazionale rispetto alle condizioni medie dell’area. Ta-
le meccanismo poteva risultare talmente gravoso da mettere a rischio la
permanenza stessa dei paesi a più lenta crescita all’interno dell’area unifi-
cata. Per ridurre al minimo questi rischi occorreva allora che, all’interno
dell’unione monetaria, esistesse un grado soddisfacente di omogeneità eco-
nomica strutturale. La scelta istituzionale compiuta a Maastricht obbligava
quindi a perseguire la convergenza economica tra i paesi appartenenti al-
l’area monetaria europea per tre ordini di ragioni.
In primo luogo, il controllo della quantità di moneta e dei tassi di in-
teresse è uno strumento fondamentale di politica economica, che ciascun
paese dotato di sovranità monetaria può utilizzare per far fronte a parti-
colari e specifiche situazioni congiunturali interne. Emblematico a questo
proposito è il comportamento della Federal Reserve statunitense che, sot-
to la direzione di Alan Greenspan, ha mostrato uno straordinario dina-
mismo nell’adeguare le condizioni monetarie alla congiuntura, attraverso
continue e ripetute variazioni dei tassi di interesse10. La politica moneta-
ria, attraverso i tassi di interesse, influenza il livello nominale e reale del-
la domanda interna. Con l’unificazione monetaria europea, i paesi, ri-
nunciando alla sovranità monetaria nazionale, si spogliano della possibi-
lità di utilizzare autonomamente la politica monetaria come strumento di
politica economica. Essa diventa unica e uguale per tutti i paesi apparte-
nenti all’UEM e non può essere più adattata alle specifiche esigenze na-
zionali. Se le economie dei paesi membri dell’Unione presentano marca-
te divergenze strutturali, l’unificazione monetaria può produrre un’ac-
centuazione degli squilibri territoriali, aggravare i problemi macroecono-
mici nazionali e mettere così a repentaglio la coesione politica dell’Unio-
ne. La convergenza è dunque un prerequisito per una corretta gestione
della politica monetaria comune.
In secondo luogo, l’unificazione monetaria elimina un altro strumento
di politica economica a disposizione delle autorità nazionali, la manovra
sul tasso di cambio. Con la moneta unica esiste un unico tasso di cambio
della moneta dell’Unione nei confronti delle monete del resto del mondo
e scompaiono i tassi di cambio tra le monete dei paesi membri. Il livello
del tasso di cambio influenza le esportazioni e le importazioni di ogni
paese e il grado di competitività internazionale della produzione nazio-
nale. Attraverso la modifica del tasso di cambio, cioè con la svalutazione
o la rivalutazione della propria moneta, ciascun paese dotato di sovranità
monetaria può influenzare il livello della domanda interna ed estera e
l’andamento della propria bilancia dei pagamenti internazionali. Se i pae-
si dell’Unione si trovano in situazioni economiche divergenti, un unico
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 117

5. IL MANIFESTO IDEOLOGICO DI MAASTRICHT 117

tasso di cambio può impedire l’aggiustamento verso l’equilibrio macroe-


conomico e avere pesanti effetti negativi sulle strutture industriali nazio-
nali. Se il grado di competitività internazionale dei paesi membri è forte-
mente divergente, la fissazione di un unico tasso di cambio genera un
equilibrio economicamente insoddisfacente per tutti o per alcuni di essi.
L’esperienza storica dell’unificazione monetaria italiana, negli anni im-
mediatamente successivi all’unità, è un caso emblematico di innesco di un
processo circolare e cumulativo di ulteriore differenziazione tra le aree in-
dustrialmente sviluppate del Nord e quelle prevalentemente agricole del
Sud, anche a seguito della determinazione di un unico tasso di cambio.
La convergenza è dunque un prerequisito per una corretta fissazione del
tasso di cambio col resto del mondo.
In terzo luogo, la politica fiscale, cioè la manovra sulle entrate e sulle
spese pubbliche, e la politica monetaria si influenzano reciprocamente.
Ad esempio, una politica monetaria restrittiva, cioè con alti tassi di inte-
resse, rende più oneroso il servizio del debito pubblico e aumenta così la
spesa pubblica per interessi. Oppure, viceversa, un alto deficit pubblico
fa alzare i tassi di interesse perché aumenta l’offerta di titoli sui mercati
finanziari. Attraverso questa via la politica fiscale di un paese può, ad
esempio, determinare un aumento dei tassi di interesse nell’intera Unio-
ne, generando conseguenze negative per tutti gli altri paesi. Tra politica
monetaria e politica fiscale è necessario che sussista un coordinamento,
altrimenti gli obiettivi perseguiti dall’una possono essere inficiati dalla
conduzione dell’altra. Se all’interno di un’unione monetaria ci sono tan-
te politiche fiscali nazionali, tra loro non coordinate e divergenti, e un’u-
nica politica monetaria, il rischio di incongruenze e di incoerenze nella
politica economica all’interno dell’Unione è molto alto e può produrre
pesanti effetti negativi sull’equilibrio macroeconomico e sulla crescita. La
convergenza è dunque un prerequisito per un efficace coordinamento tra
la politica monetaria comune e le politiche fiscali nazionali.
Se esisteva un largo consenso in merito alla convergenza come requisi-
to indispensabile per procedere all’unificazione monetaria, ben diversa
era la situazione sulla definizione di ciò che la convergenza economica do-
veva significare. Su questo piano non esiste una dottrina che tecnicamen-
te possa stabilire, in modo univoco, i contenuti della convergenza11. La
scelta era tutta e solo politica e derivava dal modello sociale che si voleva
realizzare attraverso l’integrazione monetaria. Per schematizzare possia-
mo individuare due strade alternative.
La prima soluzione consiste nel definire la convergenza necessaria al-
l’integrazione monetaria in termini nominali. In questo caso, gli indicatori
di convergenza presi a riferimento riguardano le variabili monetarie (prez-
zi, tassi di interesse, tassi di cambio) e contabili (bilancio pubblico). La lo-
gica che sta dietro questa definizione di convergenza è quella del primato
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 118

118 DOPO IL LIBERISMO

del mercato come meccanismo di allocazione delle risorse: l’unificazione


monetaria deve essere preceduta da una omogeneizzazione delle condizio-
ni esterne ai mercati (moneta e bilancio pubblico) in modo da porre gli
operatori privati dei diversi paesi nella stessa situazione teorica di compe-
titività. Occorre creare un quadro di eque opportunità per i soggetti eco-
nomici privati; sarà poi la libera e spontanea competizione di mercato a de-
finire i risultati di benessere economico e sociale per i diversi paesi. In que-
sto approccio, le differenze economiche reali saranno dovute all’operare
dei mercati e, quindi, risponderanno alla logica di efficienza economica.
Naturalmente, accanto alla convergenza nominale è necessario procedere
alla convergenza normativa rispetto alla struttura concorrenziale dei mer-
cati. Convergenza nominale e integrale liberalizzazione dei mercati sono i
requisiti dell’integrazione monetaria definiti dall’approccio neoliberista. È
inutile ricordare che fu proprio questa la strada scelta a Maastricht.
La strada alternativa definisce invece la convergenza in termini reali e
non nominali. Per procedere all’unificazione monetaria occorre prima
muovere verso una tendenziale omogeneizzazione delle variabili econo-
miche reali e strutturali dei diversi paesi: occupazione, livelli salariali, li-
velli di protezione sociale, tassi di crescita economica. In assenza di con-
vergenza reale, la convergenza nominale porterà a una distribuzione ini-
qua dei vantaggi e dei sacrifici dell’unificazione monetaria, sbilanciata
verso le aree e le classi sociali economicamente più forti, e tenderà quin-
di ad aumentare le disuguaglianze. Il libero e spontaneo gioco delle for-
ze di mercato produce meccanismi circolari e cumulativi, che portano a
rendere i forti ancora più forti e i deboli ancora più deboli12. Per questa
ragione, all’unificazione monetaria andrebbero affiancate, quantomeno,
forme di coordinamento sovranazionale della politica fiscale, assegnando
un grado di flessibilità alle azioni decentrate per contrastare le spontanee
tendenze alla divergenza economica interna all’area unificata. In tal mo-
do sarebbe possibile creare quei meccanismi politici di redistribuzione
delle risorse, a livello nazionale e di Unione, per sostenere l’adeguamen-
to delle economie e dei soggetti sociali strutturalmente più deboli verso i
livelli e le condizioni dei più forti13. Questo approccio prevede quindi una
significativa azione pubblica di intervento attivo, di programmazione e di
indirizzo strategico nell’economia, in cui l’obiettivo dell’unificazione mo-
netaria è subordinato anche a scopi di natura politica e sociale, estranei
alla pura logica di mercato.
Il criterio della convergenza reale era quello dominante nel dibattito
sull’unificazione monetaria suscitato, nei primi anni Settanta, dal Piano
Werner. In quell’epoca la preoccupazione principale verteva intorno alla
necessità di assicurare la piena occupazione e di ridurre gli squilibri re-
gionali all’interno della futura area monetaria europea. Intorno a questi
temi si sviluppò allora un vasto e approfondito dibattito, che coinvolse il
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5. IL MANIFESTO IDEOLOGICO DI MAASTRICHT 119

mondo politico ed economico, e che contribuì a rilanciare il sentimento


favorevole all’integrazione nell’opinione pubblica europea14. I cambia-
menti politici e culturali degli anni Ottanta, che segnarono il declino del-
le politiche redistributive di stampo keynesiano e l’avvento del paradig-
ma neoliberista, spostarono l’accento sul criterio della convergenza no-
minale, nella convinzione che la costruzione di un mercato unico europeo
fosse sufficiente a garantire le condizioni di sostenibilità economica e so-
ciale dell’unione monetaria. Nel giro di pochissimo tempo, tutte le anali-
si e le proposte avanzate solo qualche anno prima, anche in sedi ufficiali
o accademiche, sul percorso da seguire verso l’integrazione monetaria
vennero completamente ignorate e spesso considerate alla stregua di un
progetto politico di natura estremista. Fu così che la strada alternativa
della convergenza reale non solo non fu percorsa nella costituzione del-
l’UEM, ma non fu nemmeno presa in considerazione dai governi e dalle
principali forze politiche europee di centrodestra e di centrosinistra. Le
conseguenze economiche e sociali di questa omologazione al neoliberi-
smo sono state pesanti e dolorose, in modo particolare per i lavoratori e
per le regioni meno sviluppate d’Europa.

5.4. Gli effetti economici e sociali dei parametri di Maastricht

I criteri adottati a Maastricht sono stati tali da costringere tutti i paesi


ad adottare politiche macroeconomiche fortemente restrittive, che hanno
ridotto la domanda interna e rallentato la crescita economica. In partico-
lare, la politica monetaria è stata caratterizzata dal permanere di un livel-
lo straordinariamente alto, in una prospettiva storica, dei tassi di interes-
se reali, superiori al 4 per cento anche nell’anno finale della transizione
(vedi, nella tabella 7, la differenza tra il tasso di interesse e il tasso di in-
flazione). Ancora più marcato in senso restrittivo è stato l’orientamento
della politica fiscale15. La tabella 8 mostra l’entità enorme dell’aggiusta-
mento fiscale all’interno dell’UEM. La seconda colonna mostra la riduzio-
ne effettiva del deficit di bilancio pubblico, mentre la terza indica la ri-
duzione del deficit primario strutturale. Questo ultimo dato è il più indi-
cativo per valutare appieno l’entità della manovra fiscale attuata. Infatti,
esso indica la riduzione del deficit, al netto della spesa per interessi, del-
le misure fiscali una tantum e dell’andamento del ciclo economico. In so-
stanza, il saldo primario strutturale indica la differenza tra le tasse paga-
te dai cittadini e la quantità media di beni e servizi ad essi erogati dallo
Stato. Quando il saldo primario migliora vuol dire che lo Stato incamera
più entrate fiscali rispetto ai beni e servizi erogati precedentemente.
Una diminuzione del deficit primario strutturale, come quella verifica-
tasi nel periodo 1991-97, si può ottenere attraverso un aumento perma-
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120 DOPO IL LIBERISMO

deficit primario
Stati membri dell’UEM deficit effettivo(1)
strutturale(1)
Belgio - 4,2 - 4,0

Germania - 0,4 - 4,0

Grecia - 10,4 - 13,7

Spagna - 1,6 - 5,8

Francia - 2,8 - 2,9

Irlanda + 0,4 - 2,2

Italia - 8,4 - 10,2

Lussemburgo n.d. n.d.

Olanda - 2,4 - 1,7

Austria - 2,5 - 3,0

Portogallo - 2,9 - 2,5

Finlandia - 5,0 - 3,3

Media UEM (2) - 3,7 - 4,9

(1) Il segno meno indica una riduzione del deficit.


(2) Media non ponderata.

Tabella 8. Aggiustamento fiscale nel periodo di Maastricht. Dati in percentuale del PIL.
Variazioni complessive (1991-97). (Fonte: Buti - Sapir, 1999).

nente delle entrate fiscali o attraverso una riduzione permanente della spe-
sa pubblica per consumi collettivi o per investimenti. Un esame più anali-
tico dei dati di composizione di bilancio mostra che la parte di gran lunga
prevalente dello sforzo di risanamento in quasi tutti i paesi (ad eccezione
di Belgio, Irlanda e Portogallo) è stata giocata dalla riduzione della spesa
primaria corrente. Ciò vuol dire che sono stati i tagli alla spesa per il per-
sonale pubblico e per il welfare a sopportare la quasi totalità dell’aggiu-
stamento. La maggiore entità della riduzione del deficit primario struttu-
rale rispetto al deficit effettivo indica che mentre la spesa pubblica per i
consumi collettivi si riduceva drasticamente, la spesa per interessi conti-
nuava a crescere. Poiché, a partire dagli anni di Maastricht, il saldo pri-
mario strutturale è passato da una situazione di deficit a una situazione di
surplus in tutti i paesi dell’UEM, gli Stati incassano ormai in valore assolu-
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5. IL MANIFESTO IDEOLOGICO DI MAASTRICHT 121

to, sotto forma di tasse, più di quanto spendono per fornire beni e servizi
pubblici. La persistenza di deficit effettivi di bilancio nei paesi europei di-
pende esclusivamente dal pagamento delle rendite finanziarie sul debito
pubblico. I riflessi in termini di distribuzione del reddito delle politiche di
Maastricht sono stati quelli di un enorme trasferimento di ricchezza dai
redditi da lavoro ai redditi da capitale in tutta Europa16.
Se osserviamo i singoli paesi, scopriamo che per alcuni di essi l’aggiu-
stamento fiscale è stato più massiccio che per altri. In complesso, il defi-
cit pubblico dell’UEM nel periodo di Maastricht si riduce del 45 per cen-
to. Tale riduzione è però concentrata prevalentemente in alcuni paesi,
quelli che partivano da una situazione iniziale peggiore. Per uno scherzo
della storia, anche la Germania, dopo la repentina unificazione, ha dovu-
to faticare per rispettare quei parametri, costruiti a propria immagine e
somiglianza, dovendo compiere una manovra strutturale dell’ordine del
4 per cento del PIL. Ma è per la Grecia e l’Italia che il rispetto dei vinco-
li di Maastricht ha assunto proporzioni inaudite, con una riduzione strut-
turale del bilancio pubblico primario rispettivamente del 13,7 per cento
e del 10,2 per cento del PIL. Per l’Italia ciò ha significato una riduzione
delle spese primarie correnti di ben l’8 per cento del PIL, dal 27,9 per cen-
to nel 1991 al 19,9 per cento del 199817.
Insieme alla feroce stretta sulla spesa pubblica primaria, l’aggiustamen-
to fiscale derivante da Maastricht ha interessato, sia pur in misura più ri-
dotta, anche il lato delle entrate. All’inizio del periodo, nel 1990, il livello
di imposizione fiscale corrente nei paesi dell’UEM era pari al 43,7 per cen-
to del PIL. Nel 1998 aveva raggiunto il 47,1 per cento. Ma al di là del pur
non disprezzabile aspetto quantitativo, è significativa la struttura della tas-
sazione europea per fonte di imposizione rispetto a quella prevalente ne-
gli altri principali paesi industriali. La struttura della tassazione europea
nel 1998 si differenziava da quella della media dei paesi OECD per un pe-
so maggiore assunto dalla contribuzione sociale (32 per cento contro 28
per cento) e dalle imposte indirette (30 per cento contro 24 per cento) e
per una minore quota di imposte sul reddito personale (24 per cento con-
tro 30 per cento), sui profitti di impresa (7 per cento contro 9 per cento)
e sulla proprietà (8 per cento contro 9 per cento). È da rilevare che le im-
poste indirette costituiscono una forma di imposizione fiscale di tipo re-
gressivo sul piano sociale perché, tassando i consumi e non i redditi o le
ricchezze, non rispondono al requisito della capacità contributiva. Inoltre,
poiché la quota di reddito spesa in consumi cresce al diminuire del reddi-
to, essa grava in misura maggiore sulle fasce di popolazione con redditi
medi e bassi e, quindi, in definitiva sui redditi da lavoro.
Questa distorsione del sistema fiscale ai danni del lavoro è conferma-
ta dalla maggiore aliquota effettiva, o in termini tecnici implicita, che
grava sui redditi da lavoro (36,3 per cento nel 2002) rispetto ai redditi
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 122

122 DOPO IL LIBERISMO

da capitale (19,6 per cento). Negli ultimi anni infatti sono state le im-
prese le maggiori beneficiarie delle riforme fiscali in Europa, dato che
l’aliquota massima effettiva sugli utili di impresa nell’UE è passata dal 38
per cento del 1995 al 31,4 per cento del 200218. Vedremo in seguito che
in Italia questa distorsione fiscale assume dimensioni ancora più clamo-
rose e intollerabili. Inoltre, mentre la spesa sociale si riduceva, passando
dal 27 per cento del PIL dell’UEM nel 1993 al 26 per cento del 2000, con-
temporaneamente scendeva anche la quota di spesa finanziata con i con-
tributi delle imprese, dal 31,6 per cento al 30,6 per cento. Questa parti-
colare struttura dell’imposizione europea è dunque tale da limitare il
grado complessivo di progressività del sistema fiscale. Ne consegue che
l’aumento delle entrate correnti avutosi negli anni di Maastricht è pesa-
to in maniera di gran lunga prevalente sui redditi da lavoro19. In altre pa-
role, i lavoratori hanno ricevuto meno protezione sociale pagandola di
più. Questo elemento, accoppiato, come vedremo più in dettaglio nel ca-
pitolo 8, alla riduzione della quota dei salari sul valore aggiunto totale,
ha determinato una compressione della parte di reddito disponibile net-
to attribuita al lavoro.
Il duplice effetto della riduzione della spesa pubblica primaria e del-
l’aumento delle tasse sul lavoro e sul consumo non poteva che alimen-
tare gli effetti depressivi sulla domanda interna e quindi causare un ral-
lentamento della crescita. Invece, durante gli anni di Maastricht si arrivò
addirittura a negare questi prevedibili effetti pur di giustificare quanto
si andava facendo. Ci furono infatti grandi sforzi per giustificare sul pia-
no della teoria economica la bontà di un orientamento restrittivo della
politica fiscale anche dal punto di vista della crescita del reddito. In par-
ticolare, diversi economisti sostennero, attraverso la costruzione di sofi-
sticati modelli economici, che un taglio della spesa pubblica corrente
avrebbe prodotto effetti “non keynesiani”, cioè avrebbe aumentato la
produzione, attraverso positivi effetti sia di offerta che di domanda. Dal
punto di vista dell’offerta si sostenne che una spesa pubblica elevata nel
lungo periodo avrebbe prodotto un incremento della tassazione sul la-
voro e un conseguente aumento delle rivendicazioni salariali, tale da ge-
nerare una perdita di competitività internazionale con effetti negativi
sull’economia. Dal punto di vista della domanda, l’ipotesi prevalente ri-
guardava la capacità dei consumatori di scontare i futuri aumenti di im-
posta derivanti da un deficit pubblico e di diminuire così immediata-
mente i consumi. Le ricerche empiriche effettuate sulle politiche fiscali
nel periodo di Maastricht non hanno confermato l’esistenza di tali effetti
positivi della restrizione fiscale e anzi hanno provato che in genere gli ef-
fetti delle manovre di politica fiscale negli anni Novanta nell’UE sono coe-
renti con la classica macroeconomia keynesiana, cioè la riduzione della
spesa pubblica ha ridotto il reddito, i consumi e gli investimenti, mentre
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 123

5. IL MANIFESTO IDEOLOGICO DI MAASTRICHT 123

Tassi di crescita PIL(1) Tassi di disoccupazione


Stati membri
1986-91 1992-97 1986-92 1992-97

Belgio 2,9 1,8 8,1 9,0

Germania 3,7 1,2 5,8 8,1

Grecia 1,6 1,5 6,7 9,0

Spagna 4,2 1,9 15,0 17,9

Francia 2,9 1,2 9,4 11,4

Irlanda 4,2 6,8 15,3 13,2

Italia 2,6 1,3 9,2 10,7

Lussemburgo 7,7 3,8 2,0 2,7

Olanda 3,2 2,5 6,7 6,0

Austria 3,2 1,7 3,2 4,0

Portogallo 5,5 1,8 6,0 6,4

Finlandia 1,6 2,1 4,5 14,6

UEM 3,2 1,5 8,6 10,4

(1) A prezzi costanti con base 1995.

Tabella 9. Gli effetti economici del trattato di Maastricht. Medie annue dei periodi 1986-
91 e 1992-97. (Fonte: European Commission, 2004).

un suo incremento avrebbe aumentato il tasso di crescita di queste varia-


bili20. Sarebbe stato meglio per i cittadini europei se non si fosse voluto
sperimentare nella pratica una verità che, anche in teoria, avrebbe dovu-
to risultare ovvia.
In termini economici, i parametri di Maastricht hanno bloccato la cre-
scita e lo sviluppo, aumentato la disoccupazione strutturale, ridotto il li-
vello dei salari reali e accentuato i divari di sviluppo tra le regioni euro-
pee. Gli anni di Maastricht sono stati per l’Europa anni di gelo economi-
co, come mostra la tabella 9.
Come si vede dalla tabella, il quinquennio 1992-97 ha fatto registrare
un brusco rallentamento dei tassi di crescita economica in Europa, che si
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124 DOPO IL LIBERISMO

sono in media più che dimezzati rispetto al quinquennio precedente, con


la sola eccezione dell’Irlanda e, in maniera alquanto anomala, della Fin-
landia, scombussolata dal crollo delle economie sovietiche a cui era stret-
tamente legata. Particolarmente colpiti sono stati i paesi più grandi (Ger-
mania, Francia, Italia e Spagna). Nello stesso periodo, invece, la crescita
del PIL negli USA accelerava, passando dal precedente 2,7 per cento al 3,5
per cento. La frenata delle economie europee non fu dovuta, dunque, a
un rallentamento della congiuntura internazionale, ma a un fattore ben
preciso: i parametri di Maastricht. Lo stesso fattore ha determinato un
aumento strutturale dei tassi di disoccupazione, già elevati negli anni Ot-
tanta, verso livelli a due cifre.
La strada scelta per giungere all’unificazione monetaria ha dunque
imposto in tutta Europa un indirizzo macroeconomico restrittivo di po-
litica fiscale e una permanente pressione verso la riduzione del costo del
lavoro come elemento principale di competitività del sistema produttivo
nazionale. Le conseguenze dirette, oltre a quelle relative al blocco della
crescita economica europea, sono state quelle di un insopportabile au-
mento delle disuguaglianze sociali e territoriali.

5.5. Disparità territoriali, disuguaglianze sociali e povertà


nell’Europa di Maastricht
Come si è visto, la convergenza economica non è stata perseguita al
fine di garantire una graduale omogeneizzazione delle condizioni eco-
nomiche reali e strutturali dei diversi paesi, che partivano da situazioni
molto differenziate. Al contrario, essa è stata realizzata in modo tale da
adeguare, in tempi brevissimi, le sole condizioni monetarie e contabili di
tutti i paesi membri a quelle dei paesi economicamente più forti e solidi,
e in particolare a quelle della Germania pre-unificazione. Le conseguen-
ze di questo approccio neoliberista sono state gravi e profonde sulla so-
cietà, oltre che sull’economia europea. La drastica riduzione dell’inter-
vento pubblico nell’economia e nelle funzioni redistributive del reddito,
particolarmente forte in alcuni paesi e accompagnata dalla compressio-
ne dei salari, ha prodotto un aumento significativo delle diseguaglianze
territoriali e sociali.
Infatti, le disparità di reddito sono cresciute all’interno dell’Unione
Europea. Negli anni Novanta, a un processo di parziale convergenza tra
le diverse economie nazionali si è affiancata una marcata accentuazione
della divergenza tra le economie regionali. Le aree territoriali più ricche
all’interno di ciascun paese membro hanno conosciuto tassi di crescita
del reddito più elevati delle aree territoriali più povere21. L’evidenza em-
pirica non mostra alcuna convergenza significativa, nemmeno sul piano
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5. IL MANIFESTO IDEOLOGICO DI MAASTRICHT 125

dei tassi di disoccupazione e dei livelli di produttività del lavoro, i cui an-
damenti rimangono strettamente correlati al tipo di specializzazione
produttiva originaria delle diverse regioni (agricola, industriale, terzia-
ria)22. Da queste analisi si può concludere che nella fase di transizione al-
la moneta unica e poi nella fase di vera e propria unificazione monetaria
i divari territoriali di sviluppo dentro l’UE si sono allargati.
Il processo di unificazione monetaria sta portando alla nascita di nuo-
ve aggregazioni regionali transnazionali, differenziate sulla base dei ritmi
di crescita economica: da un lato le aree più favorite dall’integrazione, in
cui agiscono forti meccanismi agglomerativi delle attività economiche a
più alto valore aggiunto, e dall’altro le aree più svantaggiate, che subisco-
no un progressivo processo di emarginazione dai circuiti centrali dell’e-
conomia comunitaria23. Il processo di integrazione monetaria europea
sembra così tendere verso una accentuazione della polarizzazione dello
sviluppo all’interno di ciascun paese tra le regioni più dinamiche e le re-
gioni più statiche. In un certo senso, si può affermare che il modello ita-
liano di sviluppo territoriale dualistico, anziché essere superato dai pro-
cessi di integrazione europea, tende al contrario a imporsi anche in quei
paesi dove lo sviluppo economico aveva in passato presentato caratteri-
stiche più equilibrate.
Questi meccanismi spontanei di polarizzazione hanno impedito non
solo la convergenza economica ma anche quella sociale. Alla fine del de-
cennio di Maastricht, quando ormai l’unione monetaria è diventata una
solida realtà e merci e capitali circolano indisturbati all’interno delle fron-
tiere europee, si assiste ancora a una marcata differenza nei diritti sociali
goduti dai cittadini dei diversi paesi membri dell’UEM. Ad esempio, se
consideriamo la media dei tre paesi dell’UEM con la quota di spesa socia-
le più alta rispetto al PIL (Francia, Germania e Austria) e li confrontiamo
con quella dei tre paesi membri con la quota minore (Spagna, Portogallo
e Irlanda), osserviamo che nel 2001 il primo gruppo ha investito in pro-
tezione sociale il 29,4 per cento del reddito nazionale contro appena il
19,5 per cento del secondo. Ancora più marcata è la differenza in termi-
ni di euro spesi pro capite per le prestazioni sociali: i cittadini del primo
gruppo di paesi potevano contare su una spesa sociale pari a 7.400 euro
a testa, mentre quelli del secondo gruppo (in questo caso Spagna, Grecia
e Portogallo) soltanto su 3.159 euro24. Questi sono i risultati dell’approc-
cio monetario di stampo neoliberista alla convergenza.
Anche le disuguaglianze nella distribuzione interpersonale del reddito
all’interno dell’UE sono cresciute negli anni Novanta25. Il reddito del 5 per
cento più ricco della popolazione, che nel 1980 era 6,9 volte quello del 20
per cento più povero, nel 1990 era arrivato a 7,3 volte e nel 1998 a 7,5
volte. Considerando l’indice sintetico di concentrazione di Gini si osser-
va un costante e ininterrotto aumento della disuguaglianza nella distribu-
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126 DOPO IL LIBERISMO

zione del reddito in Europa negli ultimi vent’anni. Dal punto di vista del-
la condizione sociale, le tre classi che, nel 1997, avevano un reddito indi-
viduale inferiore a quello medio sono i contadini (79 per cento), i non oc-
cupati (84 per cento) e gli operai (89 per cento)26. La disuguaglianza nel-
la distribuzione del reddito è dunque un fenomeno di classe.
La concentrazione del reddito ha contribuito all’estensione del feno-
meno della povertà, che ha riacquistato dimensioni per nulla trascura-
bili nella ricca Europa. Tra il 1990 e il 1998 il numero delle persone che
vivono in una condizione di povertà assoluta, con meno di dieci dollari
al giorno, è aumentato del 10 per cento e rappresenta l’1,1 per cento
della popolazione (circa quattro milioni di cittadini); le persone in con-
dizioni di povertà relativa, con un reddito inferiore alla metà del valore
mediano – cioè del reddito di quelli che si collocano esattamente a metà
della distribuzione – continuano a rappresentare il 12,1 per cento del
totale, come nel 1980, e hanno superato i quarantacinque milioni. Le
persone considerate a “rischio di povertà”, sulla base degli indicatori di
inclusione sociale concordati nel Consiglio Europeo di Laeken27, con un
reddito inferiore al 60 per cento di quello mediano (circa seicento euro
al mese), raggiungevano nel 1998 il 18 per cento della popolazione del-
l’Unione Europea. La classe di età con maggiore rischio di povertà è
quella dei bambini e dei ragazzi inferiori ai sedici anni. Ben il 24 per
cento di loro sono in queste condizioni nell’Europa di Maastricht. Si-
gnificativo il fatto che rischiano la povertà il 7 per cento dei lavoratori
dipendenti, il 16 per cento di quelli indipendenti, il 38 per cento dei di-
soccupati, il 18 per cento di pensionati e il 27 per cento di coloro che
sono inattivi. Se, invece del reddito, prendiamo in considerazione le
condizioni materiali di vita, le cose peggiorano ulteriormente. Nel 1997
ben il 26,7 per cento della popolazione europea viveva in condizioni di
privazione ambientale (spazio e luce insufficienti, inquinamento acusti-
co e atmosferico), il 22 per cento non riusciva a soddisfare le quotidia-
ne necessità primarie (cibo, vestiario, mobili) e il 12,9 per cento viveva
in abitazioni deteriorate28. Secondo l’indice sintetico di povertà mate-
riale, elaborato dalla Commissione Europea, il 15 per cento della po-
polazione complessiva dell’UE si trovava in una situazione di privazio-
ne. Anche in questo caso la quota di contadini, inoccupati e operai è più
alta della media. L’efficienza del sistema dei trasferimenti sociali a ope-
ra della pubblica amministrazione nel perseguire l’obiettivo di un rie-
quilibrio delle condizioni di vita è molto scarsa: nel 1997 il 20 per cen-
to di popolazione europea con reddito più basso riceveva il 16 per cen-
to delle risorse complessive destinate a questo scopo, mentre il 20 per
cento con reddito più alto ne riceveva il 24 per cento29. Sembra assurdo
ma è proprio così, i più ricchi ricevono dallo Stato più protezione so-
ciale di quella erogata ai più poveri.
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5. IL MANIFESTO IDEOLOGICO DI MAASTRICHT 127

Infine, il dato più stupefacente di tutti, quello che meglio di ogni altro
è in grado di illustrare sinteticamente ciò che è l’Europa di Maastricht: se-
condo le statistiche di Eurostat la percentuale di famiglie europee che nel
1998 si trovavano in condizioni di difficoltà finanziaria ammontava all’82
per cento del totale (l’86 per cento in Italia)30.
In conclusione, si può dire che i parametri di Maastricht hanno impo-
sto ai popoli europei una riduzione della crescita economica, un allarga-
mento delle disparità territoriali di sviluppo e un aumento dell’ingiustizia
sociale nella distribuzione del reddito. Il passo di lumaca imposto da
Maastricht peserà a lungo sul grado di competitività e di qualificazione
produttiva dell’Europa e sull’equità del suo modello sociale.

5.6. Dopo Maastricht, sempre più Maastricht

Il 3 maggio 1998, con la riunione del Consiglio Europeo che diede


formale avvio alla costituzione dell’UEM, il processo di convergenza aper-
tosi a Maastricht sei anni prima si concludeva. Le prime due fasi del pro-
cesso di integrazione monetaria erano terminate con successo. L’obietti-
vo era stato raggiunto: l’euro avrebbe sostituito le monete nazionali in
undici paesi (divenuti poi dodici con la successiva entrata della Grecia).
Si apriva ora la terza fase, prevista dal trattato di Maastricht: una fase
completamente nuova e inedita per la politica economica europea. È in
questo frangente che in tutti i paesi europei, governati per la gran parte
da coalizioni di centrosinistra, si aprì uno scontro politico. Da una par-
te le forze della sinistra alternativa e della sinistra socialdemocratica, che
chiedevano l’abbandono del rigore monetario e fiscale degli anni di
Maastricht in nome di una nuova politica economica orientata allo svi-
luppo, alla riconversione ambientale e alla redistribuzione del reddito.
Dall’altra parte, le forze della sinistra liberale e del centro moderato che,
in compagnia delle forze conservatrici, sostenevano la necessità di pro-
seguire e addirittura accentuare la strategia di Maastricht per modifica-
re radicalmente il modello sociale europeo e sostituirlo definitivamente
con il modello neoliberista della globalizzazione. Lo scontro assunse di-
mensioni particolarmente accese in Germania e in Italia. In Germania,
dopo un duro confronto all’interno del governo Schroeder, eletto da po-
chi mesi, il leader della sinistra socialdemocratica e ministro dell’Econo-
mia, Oskar Lafontaine, si dimetteva dall’incarico e annunciava l’abban-
dono dell’attività politica in segno di dissenso con la strategia economi-
ca del cancelliere. In Italia, Rifondazione Comunista, in occasione della
legge finanziaria per il 1999, ancora basata su una politica di sacrifici per
le classi popolari, ritirava l’appoggio esterno al governo Prodi, determi-
nandone la caduta31. Lo scontro sul dopo Maastricht si conclude con
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128 DOPO IL LIBERISMO

l’affermarsi su scala europea della linea neoliberista, alla cui testa si pon-
gono le forze della sinistra moderata, anche al prezzo di una drammati-
ca rottura con le forze della sinistra alternativa.
Dopo Maastricht, dunque, di nuovo, sempre di più, Maastricht. Que-
sta recrudescenza del neoliberismo e del monetarismo su scala europea
avrà, da allora, un nuovo nome e un nuovo simbolo: il Patto di Stabilità
e Crescita, che ancora oggi continua a gravare come un macigno, dal pe-
so sempre più insopportabile, sulle economie e le società europee.
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6. Il Patto di Stabilità e Crescita europeo

6.1. Il fantasma del Patto di Stabilità

Fin dalla sua entrata in vigore il Patto di Stabilità e Crescita (d’ora in


poi PSC) ha sollevato dubbi e perplessità di carattere tecnico e politico, le-
gati alle rigidità delle regole di politica fiscale che esso impone. Inizial-
mente le posizioni critiche nei confronti del PSC erano circoscritte all’area
della sinistra alternativa e ad alcuni economisti di matrice neokeynesiana.
I principali schieramenti politici europei, di centrodestra e centrosinistra,
così come la grande maggioranza degli economisti, ne erano invece fau-
tori, più o meno entusiasti. Negli ultimi anni, però, qualcosa è cambiato.
Da quando l’economia europea è entrata in una fase di prolungata sta-
gnazione/recessione, i dubbi e le perplessità nei confronti del PSC si sono
rafforzati ed estesi. Considerazioni critiche sono state avanzate persino
dai vertici delle istituzioni comunitarie, primo fra tutti dal presidente del-
la Commissione Europea, Romano Prodi, che è arrivato a definire il PSC
come “stupido”. Analoghe obiezioni si sono ripetutamente levate dai go-
verni dei principali Stati europei, in particolare dalla Francia e dalla Ger-
mania. In Italia, da tempo ormai la Confindustria, attraverso il suo orga-
no di informazione «Il Sole 24 ore», sostiene la necessità di un supera-
mento dell’attuale versione del patto. Ultimamente, è stato addirittura il
Fondo Monetario Internazionale, custode dell’ortodossia monetaria, a
prendere posizione contro il PSC. A difenderlo integralmente sembra es-
sere rimasta soltanto la comunità finanziaria, che, attraverso le prese di
posizione della Banca Centrale Europea e delle banche centrali nazionali,
scaglia i propri strali contro chiunque attenti alla sua solidità e integrità.
Eppure, nonostante questo coro di critiche, il PSC sembra, almeno for-
malmente, resistere a ogni attacco. La stessa sospensione, decisa dal Con-
siglio Europeo nel novembre 2003, non equivale all’avvio di una politica
economica alternativa a quella disegnata nel trattato di Maastricht. La de-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 130

130 DOPO IL LIBERISMO

cisione, infatti, non va oltre una temporanea sospensione della erogazio-


ne delle sanzioni previste per i paesi inadempienti. Rimangono invece in-
teramente in piedi i vincoli che esso prevede per la formazione dei bilan-
ci pubblici dei paesi aderenti all’UEM. L’attuale situazione può essere de-
scritta in questi termini: il PSC è morto ma, in assenza di un’alternativa, ri-
schia, come un fantasma, di continuare a ispirare scelte e comportamen-
ti dei governi europei1.
Per capire le ragioni di questa formidabile tenuta di uno strumento co-
sì discusso e criticato occorre ripercorrere la storia della sua nascita e le
motivazioni politiche ed economiche che ne sono state alla base. Si sco-
prirà così che il PSC è ben più di uno strumento tecnico di politica fiscale,
in quanto rappresenta, in piena continuità con il trattato di Maastricht,
l’architrave dell’intera costruzione dell’Unione Monetaria Europea nella
sua attuale configurazione2. Rimettere in discussione il PSC vuol dire mo-
dificare profondamente l’assetto e la gerarchia dei poteri all’interno del-
l’UEM e anche il modello economico e sociale che sta alla base della sua isti-
tuzione. Per questa ragione le proposte di modifica delle regole del PSC so-
no tra loro molto differenziate e rispondono a opzioni politiche e sociali
contrapposte. In altre parole, per definire un modello economico e socia-
le europeo alternativo a quello neoliberista finora imperante, non è suffi-
ciente proporsi il superamento o la modifica del PSC. Le critiche al PSC pro-
vengono, infatti, anche da settori sempre più vasti dello schieramento neo-
liberista, che vedono in esso ormai un ostacolo, di fronte alla crisi della
globalizzazione, alla piena realizzazione del modello propugnato. Per co-
struire una politica economica e sociale europea alternativa occorre allora
qualificare la contrarietà al PSC e indicare con che cosa, con quali stru-
menti e per quali fini alternativi esso dovrebbe essere sostituito.

6.2. Che cosa è il Patto di Stabilità e Crescita europeo

Le regole fiscali definite dai parametri di Maastricht si riferivano alle


prime due fasi del processo di integrazione monetaria e avevano lo scopo
di raggiungere le condizioni di convergenza macroeconomica definite per
l’istituzione dell’UEM. Alla vigilia del compimento di queste due fasi pre-
liminari e del varo della moneta unica, i paesi membri dell’Unione af-
frontarono la questione delle regole fiscali da rispettare quando l’UEM fos-
se diventata pienamente operante. Il Consiglio Europeo di Dublino, nel
dicembre 1996, e successivamente quello di Amsterdam (giugno 1997),
definirono i connotati fondamentali del Patto di Stabilità e Crescita, che
assunse validità giuridica con l’emanazione di due regolamenti del Con-
siglio Europeo3. Come si è visto in precedenza, il trattato di Maastricht
contemplava la possibilità di superare la soglia del 3 per cento nel rap-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 131

6. IL PATTO DI STABILITÀ E CRESCITA EUROPEO 131

porto deficit/PIL in casi eccezionali e transitori. Il PSC fornisce un’inter-


pretazione più specifica sul significato da attribuire all’eccezionalità e al-
la transitorietà e, inoltre, regolamenta in maniera dettagliata le procedu-
re sanzionatorie per i paesi inadempienti.
Lo scopo del PSC è quello di contenere i deficit fiscali entro la soglia
del 3 per cento del PIL anche in periodi di recessione. Per questo, il PSC
stabilisce che il bilancio pubblico deve essere tendenzialmente «prossimo
al pareggio o positivo» nel medio periodo. In questo modo, qualora si
manifestasse una congiuntura recessiva, esisterebbero margini sufficienti
per consentire agli stabilizzatori automatici di bilancio di operare senza
inficiare il limite del 3 per cento del deficit.
Poiché il saldo di bilancio considerato dalla Commissione Europea si
riferisce al complesso della pubblica amministrazione, il PSC si applica an-
che alle regioni e alle autonomie locali, oltre che agli enti di previdenza e
a tutti gli enti pubblici che forniscono servizi non di mercato. Per questa
ragione in Italia, con la legge finanziaria del 1999, si è introdotto il Patto
di Stabilità interno per coinvolgere le regioni e le amministrazioni locali
nel rispetto dei vincoli comunitari, attraverso la preventiva fissazione di un
obiettivo di bilancio per le autonomie locali. L’obiettivo di bilancio del
Patto di Stabilità interno è calcolato, a partire dal 2000, come la differen-
za tra le entrate proprie delle amministrazioni locali e le spese correnti,
escludendo da queste gli interessi, le spese straordinarie e la spesa sanita-
ria. Attraverso questo strumento, in Italia le regioni e gli enti locali hanno
dovuto subire un pesante razionamento delle risorse a disposizione.
Sulla base del PSC la clausola di eccezionalità può essere invocata dal
paese inadempiente soltanto qualora lo sfondamento della soglia del 3
per cento nel rapporto deficit/PIL derivi da eventi straordinari, non con-
trollabili dallo Stato membro, che hanno un effetto diretto sul bilancio
pubblico (un caso di scuola è quello relativo a una calamità naturale).
Oppure qualora il deficit abbia origine da una grave recessione, derivan-
te da una riduzione del PIL almeno pari al 2 per cento annuo. In caso di
recessioni meno violente, ma comunque superiori alla riduzione del PIL
dello 0,75 per cento annuo, si dovrà valutare la persistenza della reces-
sione in rapporto all’andamento storico della crescita del paese.
Il requisito della transitorietà del deficit eccessivo è corrisposto sol-
tanto quando le stime di bilancio, formulate dalla Commissione Europea,
mostrano che il deficit scenderà sotto la soglia nell’anno successivo a
quello in cui si è verificata la situazione eccezionale. Se le stime indicano
che il deficit eccessivo permarrà anche quando la situazione eccezionale
sarà superata, il paese inadempiente sarà immediatamente sottoposto al-
le procedure sanzionatorie, nonostante la condizione di grave difficoltà in
cui può trovarsi.
Il PSC prevede che, a partire dal 1° marzo 1999, ciascuno Stato mem-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 132

132 DOPO IL LIBERISMO

bro dell’UEM presenti al Consiglio e alla Commissione Europea un pro-


gramma di stabilità, aggiornato ogni anno, contenente informazioni su:
l’obiettivo a medio termine del pareggio o dell’avanzo di bilancio e le tap-
pe temporali di avvicinamento a tale obiettivo; le previsioni rispetto al-
l’andamento delle principali variabili macroeconomiche; la descrizione
delle misure di politica fiscale da realizzare per raggiungere l’obiettivo e
i loro effetti quantitativi sulle finanze pubbliche; l’impatto sul bilancio
pubblico di eventuali scostamenti delle variabili macroeconomiche ri-
spetto alle previsioni formulate. Nel luglio 2001, il Consiglio dei ministri
europei dell’Economia ha emanato un codice di condotta che regola-
menta in maniera dettagliata le informazioni che i programmi di stabilità
devono contenere. Entro due mesi dalla loro presentazione, il Consiglio
Europeo dei capi di Stato e di governo, su proposta della commissione,
esprime una valutazione sulla coerenza con il PSC dei programmi di sta-
bilità nazionali e dei loro aggiornamenti annuali. Qualora il Consiglio Eu-
ropeo ravvisi una non piena corrispondenza con le regole, invita lo Stato
membro ad adeguare il suo programma. Una volta adottato il program-
ma di stabilità, il compito di monitoraggio e di controllo sulla sua con-
creta attuazione passa alla Commissione Europea. La commissione, se
ravvisa una situazione di deficit eccessivo superiore al 3 per cento del PIL,
stila una relazione e formula delle raccomandazioni che sottopone al
Consiglio Europeo per l’approvazione. Le raccomandazioni stabiliscono
un termine temporale, non superiore a un anno, per la correzione del de-
ficit eccessivo. In caso di inottemperanza totale o parziale delle racco-
mandazioni, il Consiglio Europeo decide l’applicazione di sanzioni con-
tro il paese inadempiente.
Le sanzioni sono costituite: a) dall’obbligo di fornire pubblicamente
informazioni supplementari, secondo le indicazioni del Consiglio Euro-
peo, a ogni nuova emissione di titoli pubblici; b) dalla riconsiderazione
dei prestiti erogati dalla Banca Europea per gli Investimenti (BRI) allo Sta-
to membro; c) dalla costituzione di un deposito infruttifero presso la
Commissione Europea, che sarà trasformato in ammenda, incamerato dal
bilancio dell’Unione e ripartito tra gli altri Stati membri in proporzione
del PIL, se entro due anni il paese condannato non avrà ridotto il deficit.
La sanzione più pesante è quest’ultima, poiché essa equivale all’imposi-
zione di una multa nei confronti del paese inadempiente. L’entità della
multa è particolarmente gravosa essendo determinata da un elemento fis-
so, pari allo 0,2 per cento del PIL, e da un elemento variabile pari a un de-
cimo dello scostamento del deficit dal parametro del 3 per cento del PIL.
Negli anni successivi, in caso di persistenza del deficit, il paese inadem-
piente deve continuare a pagare la quota variabile. In ogni caso, la sanzio-
ne complessiva non può superare lo 0,5 per cento del PIL. Per dare un’idea
dell’ammontare della sanzione facciamo un esempio sull’Italia. Se il nostro
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6. IL PATTO DI STABILITÀ E CRESCITA EUROPEO 133

paese accusasse un deficit pubblico pari al 4 per cento del PIL, dovrebbe
pagare nel primo anno una multa alla Commissione Europea dell’ordine
dello 0,3 per cento del PIL, cioè di circa 4 miliardi di euro, pari a una tassa
di settanta euro per ogni cittadino italiano, e negli anni successivi una som-
ma dello 0,1 per cento del PIL (1,3 miliardi di euro) fino a un ammontare
complessivo di 6,5 miliardi di euro (circa 120 euro pro capite).
Come si è potuto notare, con il PSC cambia strutturalmente lo scopo
della disciplina fiscale all’interno dell’UEM. Mentre il parametro di Maa-
stricht, relativo al rapporto deficit/PIL, era finalizzato a limitare l’indebi-
tamento pubblico al solo scopo di finanziare le spese di investimento, in-
dipendentemente dalla congiuntura macroeconomica, il PSC impone la
tendenziale copertura di tutte le spese pubbliche, comprese quelle di in-
vestimento, con le entrate fiscali correnti. Situazioni di deficit possono es-
sere tollerate, entro il limite massimo del 3 per cento del PIL, solo in si-
tuazioni macroeconomiche particolarmente depresse. La disciplina fisca-
le diventa così ben più rigida e stringente di quella prevista nei parametri
di Maastricht perché il saldo effettivo del bilancio pubblico deve essere a
pareggio o in positivo nel medio periodo. Eventuali deficit di bilancio nei
periodi di bassa congiuntura devono essere più che compensati da sur-
plus di bilancio in periodi di alta congiuntura. La motivazione fornita per
questo irrigidimento è la necessità di ridurre e stabilizzare lo stock di de-
bito pubblico.
I parametri fiscali di Maastricht erano stati formulati sulla base dell’i-
potesi di una crescita nominale del PIL del 5 per cento annuo, che, consi-
derato l’obiettivo di inflazione, equivaleva alla previsione di una crescita
economica reale del 3 per cento. In queste condizioni, deficit dell’ordine
del 3 per cento non comportavano aumenti del rapporto debito pubbli-
co/PIL. In realtà, la crescita economica nell’UEM nel corso degli anni No-
vanta era stata ampiamente inferiore (circa la metà) a quella ipotizzata,
tanto che, nonostante il rigore fiscale, il debito pubblico era aumentato in
quasi tutti i paesi. Per questa ragione, si decise di rendere ancora più re-
strittiva la disciplina fiscale. Infatti, con un bilancio in pareggio nel me-
dio periodo, è sufficiente una crescita nulla per garantire la stabilità del
rapporto debito/PIL. Il PSC, prendendo spunto dal fatto che nel trattato
di Maastricht non sono previste eccezioni al requisito di una continua ri-
duzione del rapporto debito/PIL verso la soglia del 60 per cento, stabili-
sce che il debito pubblico non può crescere nemmeno in situazioni di
grave recessione. I paesi con elevato debito pubblico, al di sopra del li-
mite del 60 per cento o anche solo vicino ad esso, sono condannati a una
permanente restrizione fiscale, indipendentemente dalla fase del ciclo
economico in cui si trovano.
In questo modo, però, in nome di una cieca fedeltà all’ortodossia neo-
liberista, si è caduti in un circolo vizioso, estremamente pericoloso, di ca-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 134

134 DOPO IL LIBERISMO

rattere recessivo. Infatti, la bassa crescita del PIL all’interno dell’UEM nel
periodo del trattato di Maastricht ha avuto come principali cause proprio
la disciplina e il rigore fiscale e la politica monetaria restrittiva e antinfla-
zionistica derivanti dai parametri di convergenza. Le politiche di aggiu-
stamento monetario e fiscale, in conseguenza dei parametri di Maastricht,
hanno depresso la domanda interna e hanno incrementato il debito pub-
blico a causa degli alti tassi di interesse, provocando in tal modo una di-
storsione verso il basso del ciclo economico europeo. In realtà, erano
completamente errate le previsioni iniziali circa la possibilità di una cre-
scita reale media del 3 per cento annuo sotto le forche caudine del trat-
tato di Maastricht. È difficile dire se questo ottimismo infondato fosse al-
lora dovuto a una totale incomprensione dei meccanismi economici, de-
rivante dalla cieca adesione alla teoria economica neoliberista, o fosse in-
vece voluto per scopi politici, al fine di giustificare ulteriori riduzioni del
ruolo economico dello Stato. Probabilmente, sono vere entrambe le co-
se. Fatto sta che con il PSC l’errore si ripete e si accentua: poiché la poli-
tica economica restrittiva di Maastricht ha fallito, allora occorre rendere
ancora più restrittiva la politica economica: «Errare è umano, persevera-
re è diabolico», questo è il motto che dovrebbe essere scritto davanti a
ogni ingresso dei palazzi del potere comunitario.
Oltre al vincolo del pareggio del saldo di bilancio nel medio periodo,
anche la definizione data dal PSC di recessioni gravi è indizio di un asso-
luto e insensato rigore fiscale. Come si è visto, il deficit pubblico può es-
sere superiore al 3 per cento del PIL in caso di recessioni eccezionalmen-
te gravi, pari almeno alla caduta del 2 per cento del reddito. Ora, negli ul-
timi quarant’anni, nei paesi dell’UEM ci sono stati solo sei casi in cui il PIL
è calato in questa misura: due volte in Finlandia, una volta ciascuno in
Grecia, in Italia, in Lussemburgo e in Portogallo, mai negli altri Stati
membri dell’UEM. Più frequenti le recessioni gravi, secondo la definizio-
ne del PSC, comprese tra -0,75 per cento e -2 per cento del PIL: negli ulti-
mi quarant’anni ciò è accaduto diciannove volte per i paesi membri del-
l’UEM (tre volte per Belgio, Germania, Portogallo e Finlandia, due volte
per Grecia e Italia, una volta per Spagna, Francia, Lussemburgo e Olan-
da, mai per Austria e Irlanda). Queste gravi recessioni sono tutte acca-
dute in tre periodi: 1974-75, 1980-82 e 1991-93. Nei primi due periodi
esse furono l’effetto degli shock petroliferi, nel terzo invece dell’impatto
economico della riunificazione tedesca e del crollo dell’URSS, particolar-
mente sentito nelle economie del Nord Europa4.
In tutti i casi, quindi, le gravi recessioni hanno avuto origine da even-
ti economici o politici di eccezionale rilevanza e di carattere assoluta-
mente straordinario, non derivanti dall’andamento normale del ciclo eco-
nomico. In tutti i casi, esse hanno assunto la forma prevalente di shock
dal lato dell’offerta, piuttosto che di cadute dei livelli della domanda. È
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6. IL PATTO DI STABILITÀ E CRESCITA EUROPEO 135

evidente, allora, che la definizione di recessioni gravi adottata dal PSC, per
consentire uno scostamento dalla ferrea disciplina fiscale, non consente
di far fronte a situazioni di “normale” difficoltà economica. Ad esempio,
una situazione di prolungata stagnazione, con crescita nulla o di poco ne-
gativa, quale quella che l’UEM sta attraversando da quattro anni a questa
parte, non consente alcun allontanamento dalle regole fiscali.
Inoltre, la definizione di recessione basata esclusivamente sulle varia-
zioni del PIL è parziale e incompleta, poiché non viene presa in conside-
razione un’altra variabile chiave per il benessere economico: quella del
tasso di disoccupazione. La disoccupazione può infatti aumentare consi-
derevolmente anche in situazioni di lieve recessione, di stagnazione o ad-
dirittura di moderata crescita economica, perché la produttività del lavo-
ro continua ad aumentare, a seguito dei miglioramenti tecnologici o del-
le riorganizzazioni produttive. Ignorando totalmente la variabile disoccu-
pazione, il PSC dimostra che ciò che interessa all’UEM è soltanto il valore
aggiunto prodotto dalle imprese e per nulla la piena occupazione. La di-
soccupazione può pure aumentare, l’importante è che le imprese non ve-
dano ridursi i propri affari: questa è la filosofia implicita nel PSC, che ha
così sostituito al posto del diritto al lavoro, sancito nelle costituzioni de-
gli Stati europei, il diritto all’utile d’impresa. Non è un caso, d’altra par-
te, che nelle formulazioni dei documenti ufficiali dell’UE il concetto di oc-
cupazione, che corrisponde all’obiettivo di operare per assicurare il dirit-
to al lavoro da parte delle autorità di politica economica, sia stato pro-
gressivamente sostituito dal termine di “occupabilità”, che invece espri-
me una pura potenzialità, la cui eventuale realizzazione concreta ricade
interamente sulle spalle dell’individuo, che deve adattarsi alle mutevoli
esigenze del mercato5.
Altro elemento da considerare riguarda le modalità attraverso cui si
può affrontare una situazione di grave recessione. Anche in periodi ecce-
zionalmente negativi, il saldo di bilancio pubblico deve restare in pareg-
gio o in surplus nel medio periodo. Ciò vuol dire che eventuali deficit fi-
scali eccessivi sono accettabili, in presenza di una profonda crisi econo-
mica, solo se, successivamente, saranno compensati da analoghi o supe-
riori surplus di bilancio. La politica fiscale, quindi, deve essere essenzial-
mente basata sugli stabilizzatori automatici di bilancio e deve escludere
ogni intervento strutturale o discrezionale. In sostanza, la formazione del
bilancio pubblico deve perdere gran parte del suo significato politico, at-
tinente alla distribuzione delle risorse e alla organizzazione della società,
per ridursi a un meccanismo tecnico che si aggiusta da solo, automatica-
mente, al variare delle condizioni dei mercati.
In questo modo, la politica fiscale diventa impotente ai fini della stabi-
lizzazione macroeconomica proprio quando essa sarebbe più necessaria,
cioè nei momenti di crisi economica strutturale, nelle fasi di transizione
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136 DOPO IL LIBERISMO

verso un nuovo modello economico-produttivo. Finché le difficoltà eco-


nomiche sono dovute a normali e periodiche fluttuazioni cicliche, gli sta-
bilizzatori automatici possono funzionare per ammortizzare le oscillazioni
della congiuntura, ma quando sono cambiate le condizioni macroecono-
miche strutturali essi diventano del tutto inefficaci, e in certi casi addirit-
tura negativi. Ci troviamo, qui, di fronte a un autentico paradosso del PSC,
a una contraddizione in termini delle regole da esso imposte, che può es-
sere così formulata: se le cose vanno eccezionalmente male, il PSC consen-
te una limitata dose di flessibilità fiscale, ma, affinché la limitata flessibilità
fiscale possa essere efficace, le cose non devono andare eccessivamente
male. Infatti, da un lato, come abbiamo visto, le regole fiscali possono at-
tenuarsi in situazioni di grave e straordinaria recessione, quando qualcosa
di profondo è cambiato nella struttura dell’economia. Dall’altro lato, però,
le eccezioni alle regole fiscali devono essere attuate attraverso meccanismi
automatici, predisposti e pensati quando tutto funzionava regolarmente.
Come se tutto ciò non bastasse, il PSC prevede infine che, per i paesi
con debito pubblico superiore o vicino al limite del 60 per cento del PIL
(cioè praticamente tutti), mai e poi mai si possano attuare politiche di bi-
lancio tali da aumentare lo stock di debito pubblico rispetto al reddito.
Questa assurda imposizione produce una distorsione prociclica nella
conduzione delle politiche fiscali, vale a dire che la politica fiscale diven-
ta espansiva quando l’economia va bene e restrittiva quando va male, ac-
centuando così l’instabilità macroeconomica6.
Uno strumento di questo genere non può funzionare. Il PSC non è so-
lo “stupido”, ma è anche portatore di un impulso suicida, perché contie-
ne in sé i germi della propria autodistruzione. Era solo questione di tem-
po. E il tempo è ormai arrivato.

6.3. Il fallimento del Patto di Stabilità e Crescita

Nel periodo di vigenza del PSC (1998-2003), l’UEM ha fatto registrare il


tasso medio di crescita più basso, dopo quello dell’America Latina, tra le
principali aree economiche mondiali (vedi tabella 10). È da ricordare che
in questo periodo l’America Latina è stata sconvolta da catastrofiche cri-
si economico-finanziarie, fra le quali primeggia quella argentina.
Particolarmente accentuata è stata la frenata dell’economia europea
nella fase discendente del ciclo economico, dopo lo scoppio della bolla
speculativa borsistica nella seconda metà del 2000. Dei tre Stati membri
dell’UE che non appartengono all’area dell’euro, e che non sono pertanto
vincolati dal PSC, solo la Danimarca, la cui economia è fortemente dipen-
dente da quella tedesca, ha fatto registrare una performance analoga,
mentre Svezia e Gran Bretagna hanno conosciuto tassi di crescita reali del
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6. IL PATTO DI STABILITÀ E CRESCITA EUROPEO 137

PIL e del reddito pro capite, anche misurato in termini di parità del pote-
re d’acquisto, nettamente superiori a quelli dell’UEM7. Si comprende me-
glio così da che cosa derivi la prevalente contrarietà delle popolazioni di
questi Stati all’adozione dell’euro come moneta nazionale.

Aree PIL 98-03 PIL 98-00 PIL 01-03

USA 3,0 4,1 1,9

Canada 3,6 4,7 2,3

Africa 3,4 2,9 3,8

America Latina 1,4 2,2 0,7

Asia 6,1 5,6 6,6

Medioriente 4,3 4 4,6

Paesi in via di sviluppo 4,6 4,3 4,9

UEM 2,0 3,1 1,0

Tabella 10. La crescita economica negli anni del Patto di Stabilità e Crescita. Tassi medi
annui di variazione del PIL (1998-2003). (Fonte: Banca d’Italia, Relazione del governa-
tore per il 2004, appendice).

Nello stesso periodo (1998-2003) il deficit del bilancio pubblico nel-


l’UEM è più che raddoppiato, passando dall’1,3 per cento del PIL nel 1998
al 2,7 per cento nel 2003, valore che, sulla base delle stime ufficiali della
Commissione Europea dovrebbe ripetersi nel 2004. Perfino per il 2005 la
commissione prevede un deficit pubblico nell’area dell’euro pari al 2,6
per cento, nonostante una ottimistica stima della crescita economica che
dovrebbe tornare su valori ampiamente superiori al 2 per cento. Anche il
saldo strutturale, depurato dagli effetti del ciclo economico, è peggiorato
di oltre un punto percentuale. L’economia europea è entrata in una pro-
lungata fase di stagnazione, più accentuata rispetto a quella delle altre
aree industrialmente sviluppate, e contemporaneamente i deficit pubbli-
ci strutturali sono aumentati rispetto al periodo precedente all’entrata in
vigore del PSC.
Se procediamo a un’analisi disaggregata, scopriamo che ben quattro
paesi hanno già violato il PSC e sono soggetti all’apertura delle procedure
sanzionatorie. Per primo ha iniziato il Portogallo con un deficit del 3,1 per
cento nel 2000, del 4,2 per cento nel 2001 e con una stima del 3,4 per cen-
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138 DOPO IL LIBERISMO

to per il 2004 e del 3,8 per cento per il 2005. Subito dopo hanno seguito a
ruota la Francia (-3,1 per cento nel 2002, -4,1 per cento nel 2003, -3,7 per
cento stimato nel 2004 e -3,5 per cento nel 2005) e la Germania (-3,6 per
cento nel 2002 e -3,9 per cento nel 2003 e -3,6 per cento stimato nel 2004).
Infine, l’ultima arrivata tra i paesi inadempienti è stata la Grecia (-3,2 per
cento nel 2003 e stesso valore stimato nel 2004). Le stime della Commis-
sione Europea prevedono che nel 2004 i paesi inadempienti diventeranno
sei, con l’aggiunta dell’Italia (-3,2 per cento stimato nel 2004 e -4,0 per cen-
to stimato nel 2005) e dell’Olanda (-3,5 per cento nel 2004 e -3,5 per cen-
to nel 2005). Il peso economico dei paesi inadempienti è pari a circa i quat-
tro quinti del totale dell’economia dell’area dell’euro.
In particolare, il PSC si è mostrato particolarmente vulnerabile per quei
paesi, come la Francia e la Germania, che hanno un tasso di inflazione in-
feriore alla media. Per questi paesi, la politica monetaria comune impone
elevati tassi di interesse reali, che in una fase recessiva debbono essere
controbilanciati da politiche fiscali espansive per evitare il completo crol-
lo della domanda interna. Tali politiche fiscali sono però ostacolate dalla
vigenza del PSC. Rigore fiscale e politica monetaria antinflazionistica sono
il mix di politica macroeconomica che sta strangolando il cuore pulsante
dell’economia europea.
In questa situazione, sostenere ancora la validità dello strumento del
PSC equivale a professare un vero e proprio atto irrazionale di fede. Per
comprendere fino in fondo il fallimento del PSC, basta confrontare gli
obiettivi definiti nei programmi di stabilità presentati dai singoli paesi
con i risultati ottenuti8.
Nei programmi di stabilità presentati nel 1998 si definiva un obiettivo
di deficit per il 2002 nel complesso dell’UEM pari allo 0,8 per cento del
PIL: il risultato reale è stato del -2,2 per cento. Per il 2003, gli obiettivi de-
finiti nel 1999 fissavano al -0,2 per cento – una situazione di sostanziale
pareggio – il deficit dell’area euro. Si è arrivati invece al -2,7 per cento.
La distanza dei risultati dagli obiettivi non migliora di molto se si consi-
dera il breve periodo, invece del medio. Nel 2001 i programmi di stabi-
lità indicavano nello 0,9 per cento il deficit per l’anno successivo, contro
il 2,2 per cento poi realizzatosi, e così via per gli anni successivi.
Questi dati dimostrano in maniera inequivocabile che il fallimento del
PSC non poteva essere più clamoroso. Il patto non ha funzionato né per i
risultati, né per il metodo. Ormai è diventato soltanto un elemento di
confusione e di incertezza nelle politiche economiche, avendo perso ogni
credibilità nell’influenzare le aspettative degli operatori. Esso continua
però a provocare danni sempre maggiori, perché impedisce di adottare
politiche fiscali attive ed espansive per fronteggiare una crisi economica
strutturale di dimensioni rilevanti quale quella che attanaglia l’economia
europea. Infatti, la decisione assunta dal Consiglio Europeo nel novem-
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6. IL PATTO DI STABILITÀ E CRESCITA EUROPEO 139

bre 2003 di sospensione temporanea delle procedure sanzionatorie del


PSC non prelude affatto a un suo definitivo superamento. Ciò è vero non
solo per il curioso contenzioso legale che oppone la Commissione Euro-
pea al Consiglio Europeo sulla validità giuridica della sospensione delle
regole del PSC, ma soprattutto perché i governi nazionali, che a maggio-
ranza hanno assunto la decisione di mettere in naftalina il PSC, in realtà
hanno esplicitamente e solennemente dichiarato che, al primo segnale di
miglioramento congiunturale dell’economia europea, il PSC riprenderà
per intero la sua cogenza e a tal fine tutti i governi europei si sono impe-
gnati a condurre politiche di controllo della spesa pubblica anche in as-
senza di procedure sanzionatorie. A distinguersi particolarmente in que-
sta corsa verso il baratro è stato il governo Berlusconi che ha annunciato
per il 2005 una manovra finanziaria che contiene un salasso di ben 24 mi-
liardi di euro di tagli al bilancio pubblico. Di fronte a questi comporta-
menti masochisti ciò che si può ipotizzare sarà al più una modifica delle
regole del PSC, ma non un suo definitivo superamento. Vediamo allora di
analizzare le modifiche di cui si sta discutendo9.

6.4. La proposta di modifica della Commissione Europea

Il completo fallimento del PSC è ormai una realtà impossibile da na-


scondere. Per queste ragioni, si sono moltiplicate le proposte ufficiali di
modifica delle regole fiscali dell’UEM. Governi come quello francese e te-
desco, organismi comunitari come la Commissione Europea, associazio-
ni imprenditoriali, mondo accademico: gli ultimi due anni sono stati un
fiorire di proposte, suggerimenti e consigli per modificare le regole del
patto, salvaguardandone però la sostanza. Il Patto di Stabilità, infatti, più
che uno strumento tecnico, è un manifesto politico. Esso indica il mo-
dello sociale neoliberista che si vuole imporre all’Europa.
Innanzitutto esaminiamo la nuova interpretazione del PSC che ha dato
la Commissione Europea, in una comunicazione inviata al Consiglio e al
Parlamento Europeo il 27 novembre del 200210. Essa si basa su cinque
punti principali:

1) il pareggio o attivo di bilancio deve essere calcolato in termini di sal-


do strutturale, cioè depurato dagli effetti ciclici e congiunturali, e non
più in termini di saldo effettivo nel medio periodo;
2) per i paesi lontani dall’equilibrio di bilancio, il miglioramento del saldo
strutturale rispetto al PIL dovrebbe essere almeno dello 0,5 per cento
annuo. Per i paesi con elevato debito pubblico o in situazioni di alta
congiuntura il miglioramento annuale dovrebbe essere significativa-
mente maggiore;
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140 DOPO IL LIBERISMO

3) un allontanamento, anche minimo, del saldo strutturale dall’equilibrio


in condizioni di crescita economica favorevole dovrebbe essere consi-
derato come una violazione del PSC e sottoposto ai meccanismi san-
zionatori;
4) temporanei peggioramenti del saldo strutturale, sempre all’interno del
limite massimo del 3 per cento del deficit/PIL, possono essere consen-
titi solo per la promozione di riforme strutturali coerenti con la strate-
gia di Lisbona (ad esempio, pensioni, fisco, mercato del lavoro) o per
programmi di lungo periodo di investimenti produttivi. Questa ecce-
zione si applica però solo ai paesi che rispettano il parametro del 60
per cento debito/PIL e che hanno precedentemente raggiunto l’obiet-
tivo del pareggio strutturale di bilancio;
5) maggiore considerazione va data alla riduzione del debito pubblico. I
paesi che non rispettano il parametro del 60 per cento rispetto al PIL
devono proporre programmi di riduzione del debito e, in caso di un
loro non adeguato rispetto, essere sottoposti a sanzioni.

Solo una lettura superficiale può considerare, come pure è stato fatto,
la proposta della commissione come un allentamento dei vincoli del PSC.
In realtà siamo di fronte a una ulteriore stretta sulle politiche fiscali. Il ri-
ferimento al saldo strutturale, invece che al saldo effettivo di medio pe-
riodo, implica che le misure di riduzione del deficit verso il pareggio o
surplus devono concentrarsi esclusivamente sugli elementi permanenti
del bilancio pubblico. Per rispettare questo criterio occorre quindi inter-
venire, in particolare, su quelle componenti di spesa pubblica poco sen-
sibili all’andamento della congiuntura (ad esempio, spese per il persona-
le, sanità, pensioni, scuola). Il ritmo di marcia verso un saldo strutturale
in equilibrio, pari almeno allo 0,5 per cento del PIL all’anno, è particolar-
mente accelerato, soprattutto considerando l’attuale fase di stagnazione
dell’economia. Il meccanismo delle sanzioni diventa più cogente e di-
screzionale, perché esso può scattare ogniqualvolta la commissione riten-
ga che vi sia un rilassamento della disciplina fiscale, anche qualora non si
fosse mai oltrepassata la soglia del 3 per cento deficit/PIL. Eccezioni alle
rigide regole della nuova interpretazione del PSC possono essere consen-
tite solo ai paesi che rispettano il requisito del debito e solo per l’attua-
zione di riforme strutturali coerenti con la strategia di Lisbona. In con-
creto, questo significa riduzione delle pensioni e del welfare, riduzione
della pressione fiscale, precarizzazione del mercato del lavoro, grandi in-
vestimenti infrastrutturali, incentivi e sussidi alle imprese. Il PSC potreb-
be dunque allentarsi solo se la politica fiscale fosse orientata alla distru-
zione del modello sociale europeo e alla piena aderenza alla logica della
competizione globale.
La maggiore considerazione del requisito del debito pubblico imporrà
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6. IL PATTO DI STABILITÀ E CRESCITA EUROPEO 141

ai paesi lontani dal parametro del 60 per cento (Italia, Belgio, Grecia e,
in minor misura, Austria) una cura da cavallo. Inoltre, poiché nel corso
degli ultimi anni anche Francia e Germania, oltre al Portogallo, hanno or-
mai raggiunto o di poco superato il limite del 60 per cento nel rapporto
debito/PIL, in realtà l’interpretazione flessibile del PSC riguarderebbe sol-
tanto pochi paesi dell’UEM, quelli economicamente di minori dimensioni.
In conclusione, nella nuova interpretazione del PSC proposta dalla
Commissione Europea non c’è nessuno spazio per utilizzare la politica fi-
scale e l’intervento pubblico per il rilancio della domanda e per la tra-
sformazione strutturale del sistema produttivo. Anzi, le falle e le smaglia-
ture del PSC vengono chiuse attraverso una più rigida attivazione delle
procedure sanzionatorie e un più forte controllo politico della tecnocra-
zia dell’UEM nei confronti delle politiche economiche nazionali. La nuo-
va interpretazione della Commissione Europea rende il PSC un vincolo
ancora più restrittivo e soffocante per le economie dell’UEM.

6.5. La golden rule

Tra le altre proposte di modifica, le più gettonate riguardano l’esclu-


sione dal saldo di bilancio preso a riferimento dal PSC di determinate ca-
tegorie di spesa pubblica. È quella che, in gergo tecnico, viene chiamata
l’applicazione della golden rule.
La categoria di spesa più gettonata per essere esclusa dai vincoli del
PSC è quella relativa agli investimenti pubblici. Si tratterebbe così di un
sostanziale ritorno al regime fiscale di Maastricht. Dal punto di vista teo-
rico questa ipotesi viene giustificata con il fatto che gli investimenti pub-
blici hanno un rendimento economico e sociale differito nel tempo, cioè
producono effetti positivi per un arco temporale ben più lungo di quello
necessario alla loro realizzazione. Di conseguenza, appare economica-
mente illogico pretendere di finanziare le spese in conto capitale con le
entrate correnti. Se l’indebitamento è finalizzato a finanziare nuovi inve-
stimenti, esso è uno strumento economicamente sano e corretto, come lo
è per una famiglia acquistare una casa ricorrendo al mutuo. Il PSC, se ap-
plicato a livello familiare, pretenderebbe invece che ogni casa venisse pa-
gata in moneta sonante. Che assurdità!
Dal punto di vista empirico, la giustificazione della golden rule per le
spese pubbliche in conto capitale deriva da un dato preoccupante. Negli
ultimi dieci anni il livello degli investimenti pubblici nell’UEM è netta-
mente calato, passando da un livello annuo pari al 3 per cento del PIL nel
periodo 1983-91 al 2,5 per cento del 1998-2003. Particolarmente brutale
è stato il crollo in alcuni paesi, come l’Italia (dal 3,5 per cento al 2,3 per
cento del PIL), l’Austria (dal 3,5 per cento all’1,5 per cento) e la Germa-
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142 DOPO IL LIBERISMO

nia (dal 2,4 per cento all’1,8 per cento). Nello stesso periodo negli USA e
in Giappone, invece, gli investimenti pubblici hanno mostrato una ten-
denza alla crescita. La riduzione degli investimenti pubblici, in un perio-
do di forte innovazione tecnologica e produttiva, ha pesato negativamen-
te sulla competitività di sistema dell’Europa e ha sicuramente contribui-
to alla bassa crescita degli anni Novanta. La causa della riduzione delle
spese pubbliche in conto capitale è certamente derivata dal carattere re-
strittivo delle politiche fiscali in Europa, imposto da Maastricht prima e
dal PSC dopo.
Oltre alla categoria delle spese per investimenti pubblici, sono state
proposte da varie parti altre applicazioni della golden rule per allentare la
disciplina fiscale: le spese per la difesa, per incentivare il potenziamento e
l’ammodernamento militare europeo, le spese in ricerca e sviluppo, per in-
crementare il tasso di innovazione tecnologica nell’UEM, le spese per la for-
mazione professionale, per aumentare la qualificazione della manodopera
e per accompagnare i processi di precarizzazione del mercato del lavoro.
Tutte le proposte di golden rule sono però soggette a forti obiezioni
teoriche e politiche11. In primo luogo, la catalogazione delle spese pub-
bliche non è né facile né netta. La collocazione di un intervento nell’una
o nell’altra categoria è soggetta ad ampi margini di discrezionalità conta-
bile. La golden rule sarebbe così intrinsecamente priva di un fondamento
oggettivo e quindi soggetta ad arbitrarie applicazioni sulla base delle in-
tenzioni politiche dei governi e, soprattutto, della Commissione Europea.
In secondo luogo, l’introduzione della golden rule produrrebbe una di-
storsione nelle scelte allocative delle risorse pubbliche, non giustificata
sul piano dell’efficienza economica e sociale. I governi sarebbero incenti-
vati ad aumentare le spese ricomprese nella golden rule e a ridurre le al-
tre. Ad esempio, la costruzione di un’autostrada non è detto che sia eco-
nomicamente e socialmente preferibile all’adozione di misure per incen-
tivare il trasporto pubblico, la produzione di un caccia bombardiere è si-
curamente meno preferibile da ogni punto di vista all’aumento dell’assi-
stenza agli anziani o delle spese per l’istruzione e così via. In terzo luogo,
poiché le spese per investimenti richiedono tempi piuttosto lunghi dalla
decisione di stanziamento alla realizzazione effettiva dell’opera, l’intro-
duzione della golden rule sarebbe del tutto inefficace per sostenere l’eco-
nomia nelle fasi di stagnazione. Anzi, potrebbe agire in senso prociclico,
accentuando le fluttuazioni della congiuntura.
Sul piano politico, infine, le proposte di golden rule pubblicamente
avanzate si muovono tutte nell’alveo del neoliberismo. Infatti, qualora es-
se venissero realizzate, i vincoli del PSC, resi ancora più stringenti dalla
nuova interpretazione della commissione, ricadrebbero pressoché esclu-
sivamente sulle spese sociali. Alla fine a sopportare il peso prevalente o
esclusivo della disciplina fiscale europea rimarrebbero le spese per il wel-
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6. IL PATTO DI STABILITÀ E CRESCITA EUROPEO 143

fare (pensioni, sanità, servizi sociali, scuola, ammortizzatori sociali, tra-


sferimenti di reddito). Saremmo di fronte a una nuova, ancor più dram-
matica, stagione di devastazione sociale giustificata in nome dell’Europa.

6.6. Una nuova Maastricht per le pensioni

Recentemente è stata avanzata in Italia una nuova proposta di revisio-


ne del PSC12. Si tratta della possibilità di inserire all’interno delle regole del
PSC un parametro relativo alla spesa pensionistica. In particolare, l’UEM
dovrebbe vincolare i singoli Stati membri a procedere in tempi certi e de-
finiti alla riforma del sistema previdenziale, secondo la strategia definita
nel Consiglio Europeo di Stoccolma (marzo 2001) e poi in quello di Gö-
teborg (giugno 2001). Tale strategia prevede la riduzione della copertura
pensionistica pubblica, l’incremento delle forme privatistiche comple-
mentari e l’innalzamento dell’età pensionabile. Secondo i proponenti, il
PSC dovrebbe incorporare un ulteriore parametro generale relativo al
massimo deficit consentito nel sistema previdenziale pubblico. In sostan-
za, il PSC dovrebbe definire un limite massimo alla differenza tra le pen-
sioni erogate e i contributi versati. Il superamento della soglia definita di
deficit previdenziale farebbe scattare le procedure sanzionatorie, indi-
pendentemente dal deficit pubblico complessivo.
Questa proposta non va considerata come una boutade. Innanzitutto
per il ruolo ricoperto dai proponenti. Renato Brunetta, oltre ad essere
parlamentare europeo, è anche il responsabile economico del partito del
presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Giuliano Cazzola, esperto
delle questioni previdenziali, è uno dei principali collaboratori del mini-
stro del welfare italiano, Maroni, e tra gli ispiratori della legge delega sul-
la riforma pensionistica presentata dal governo. Inoltre, la privatizzazio-
ne dei sistemi previdenziali è un obiettivo comune a tutti gli attuali go-
verni europei. L’imposizione di un obbligo esterno faciliterebbe il com-
pito di vincere le forti opposizioni sociali e sindacali che tali riforme sca-
tenano ovunque in Europa, fornendo una giustificazione superiore e “og-
gettiva” al taglio delle pensioni pubbliche. Come è accaduto nell’era di
Maastricht, una volontà superiore a quella nazionale costringerebbe a
una politica di pesanti sacrifici e di riduzione dei diritti sociali.
È superfluo rilevare che tale proposta è priva di qualsiasi motivazione
tecnica o economica. In nessun modo essa servirebbe a correggere le di-
sfunzioni del PSC, anzi semmai le aggraverebbe. Tuttavia, non è questo il
suo scopo. Essa è, infatti, solo il frutto di una precisa volontà politica, è la
strada giudicata meno insidiosa per smantellare in Italia e in Europa il si-
stema previdenziale pubblico. Il fatto che, in autorevoli sedi ufficiali di go-
verno, si pensi di utilizzare ancora in maniera così sfacciata i vincoli istitu-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 144

144 DOPO IL LIBERISMO

zionali europei per scopi politici particolari, dimostra che, finché non sa-
ranno eliminate le regole automatiche di politica economica in virtù di
scelte democratiche e consapevoli attuate a livello europeo sulla distribu-
zione delle risorse e sul modello sociale, i rischi dell’attuale configurazio-
ne istituzionale dell’UEM per i popoli europei sono ancora fortissimi.

6.7. Regole solo sulla spesa pubblica

Un’altra ipotesi di modifica del PSC propone di cambiare l’indicatore


della disciplina fiscale, sostituendo il livello totale della spesa pubblica al
saldo di bilancio13. Secondo questa proposta il PSC dovrebbe fissare, per
un periodo pluriennale, il livello totale di spesa pubblica da non oltrepas-
sare, pena l’avvio delle procedure sanzionatorie. Il livello totale della spe-
sa pubblica dovrebbe essere determinato sulla base di due obiettivi: la ri-
duzione del debito pubblico e la riduzione della pressione fiscale. Il para-
metro di spesa pubblica potrebbe essere definito in termini nominali (co-
me erogazioni monetarie massime delle pubbliche amministrazioni) o in
termini reali (come quota rispetto al PIL). Il primo caso è considerato pre-
feribile nel breve periodo, quando occorra arrivare rapidamente a una si-
tuazione di equilibrio delle finanze pubbliche, perché permette un mag-
gior controllo sull’effettiva riduzione della spesa pubblica. Il secondo ca-
so è, invece, propugnato dai suoi sostenitori in un orizzonte temporale di
medio periodo, allorché l’economia si fosse assestata alla nuova situazio-
ne strutturale derivante dal risanamento del bilancio pubblico, perché più
facilmente sostenibile sul piano economico e sociale. L’imposizione di re-
gole sulla spesa pubblica, anziché sul saldo di bilancio, sarebbe motivata
dai seguenti vantaggi: maggiore garanzia di rispetto perché i governi con-
trollano direttamente la spesa pubblica; funzionamento pieno e completo
degli stabilizzatori automatici di bilancio dal lato delle entrate fiscali.
L’impostazione neoliberista alla base di questa proposta è di per sé evi-
dente. Innanzitutto, nei criteri di scelta del livello dell’indicatore. Se gli
obiettivi da raggiungere sono la contemporanea riduzione del debito
pubblico e delle tasse, è solo la spesa pubblica a dover sopportare per in-
tero il peso dell’aggiustamento all’equilibrio. Mentre, però, il controllo
della dinamica del debito pubblico ha, in qualche modo, un carattere
“oggettivo”, per evitare la bancarotta dello Stato, la riduzione delle tasse
è invece una preferenza di carattere politico, dietro cui si nasconde l’idea
dello “Stato minimo”. In questo approccio, lo Stato dovrebbe limitarsi a
offrire solo ed esclusivamente le prestazioni essenziali, non altrimenti ero-
gabili dagli operatori privati. Tutti gli altri servizi pubblici dovrebbero es-
sere privatizzati e affidati al mercato.
Inoltre, l’uso della politica fiscale ai fini di stabilizzazione del ciclo eco-
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6. IL PATTO DI STABILITÀ E CRESCITA EUROPEO 145

nomico sarebbe esclusivamente affidata alla variazione delle tasse, attra-


verso i meccanismi automatici di bilancio. Quando l’economia si trova in
una fase di surriscaldamento, con tensioni inflazionistiche, le tasse au-
menterebbero e agirebbero da freno ai consumi e agli investimenti priva-
ti. Viceversa, in una fase di ristagno economico le tasse diminuirebbero,
sostenendo la domanda privata. Nessun ruolo per i consumi e gli investi-
menti pubblici e quindi nessuna possibilità per lo Stato di intervenire sul-
la struttura dell’economia a fini di programmazione dello sviluppo e di ri-
distribuzione del reddito. Il modello economico e sociale che sta dietro
questa ipotesi è quello dell’economia consumistica di mercato.
Non è infine da dimenticare che la riduzione delle tasse è uno stru-
mento di sostegno alla domanda inferiore sul piano dell’efficacia econo-
mica e dell’equità sociale rispetto all’aumento della spesa pubblica. Parte
delle riduzioni fiscali finisce in risparmi finanziari e speculativi e quindi
non serve a rilanciare l’economia reale. Inoltre, i vantaggi delle riduzioni
fiscali si distribuiscono maggiormente sulle fasce più ricche della popola-
zione, quelle che consumano una parte proporzionalmente minore del
proprio reddito, e molto meno sulle fasce più povere, che consumano in-
teramente quanto guadagnano perché non possono permettersi di ri-
sparmiare. Mentre in termini relativi questo effetto si verifica quando i si-
stemi fiscali sono orientati alla progressività, in termini assoluti è sempre
vero, indipendentemente dalla struttura del sistema fiscale. L’esperienza
dell’attuale fase di stagnazione economica sta confermando in pieno l’i-
nefficacia e l’iniquità di un’espansione fiscale dominata dalla riduzione
delle tasse. Per motivi ideologici e politici, sia negli USA, in forma massic-
cia, sia in Francia e in Italia, in forma molto più prudente, negli ultimi
due anni i rispettivi governi hanno proceduto a ridurre le tasse, in parti-
colare per i contribuenti più facoltosi. Gli effetti sulla domanda interna
sono stati molto scarsi negli USA, dove è solo la spesa militare a contri-
buire a sostenere la domanda, e addirittura nulli in Francia e in Italia.
Da ultimo, è evidente che l’adozione di una regola fiscale sulla spesa
pubblica annullerebbe completamente i già stretti margini di autonomia
dei governi e dei parlamenti. Fissato l’obiettivo di spesa pubblica in sede
comunitaria, governi e parlamenti avrebbero ben poco da fare. L’omolo-
gazione del sistema politico alle compatibilità di mercato sarebbe così to-
tale e completa.

6.8. Abbandonare gli automatismi nella politica economica

È vero che, di fronte alle proposte di modifica delle regole fiscali del
PSC finora avanzate, si potrebbe controbattere avanzando nuove propo-
ste: ad esempio, escludere dal saldo del bilancio pubblico considerato dal
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 146

146 DOPO IL LIBERISMO

PSC le spese sociali e sanitarie oppure le spese per interessi, che ridistri-
buiscono il reddito a favore della rendita finanziaria e sono condizionate
dalla politica monetaria della BCE. In questo ultimo caso, se invece delle
spese per la difesa o per i grandi investimenti si eliminassero dal calcolo
del rapporto deficit/PIL le spese per interessi sul debito pubblico, even-
tualmente fissando una soglia massima di detraibilità per evitare l’innesco
di spirali esplosive, gli Stati europei, oltre ad avere un allentamento dei
vincoli contabili, acquisirebbero un più ampio margine di autonomia nel-
le scelte di politica fiscale, poiché taglierebbero uno dei canali (il tasso di
interesse) attraverso cui la BCE determina l’indirizzo delle politiche fiscali
nazionali. Infatti, sostituendo l’indebitamento netto primario (al netto
della spesa per interessi) all’indebitamento netto come parametro da rap-
portare al PIL per calcolare il pareggio di bilancio, nel periodo di vigenza
del PSC l’UEM si sarebbe trovata, ai fini del rispetto dei vincoli comunitari,
con un surplus medio annuo del 2,6 per cento e avrebbe avuto la possi-
bilità di attuare massicce manovre fiscali di carattere espansivo. O anco-
ra, si potrebbe fissare un livello minimo di spesa sociale incomprimibile.
È, in altre parole, possibile elaborare una serie di proposte di regole fi-
scali di carattere istituzionale alternative a quelle di stampo neoliberista
finora prospettate. Tuttavia, accettare questo terreno di confronto è estre-
mamente pericoloso, e non solo per lo stato attuale dei rapporti di forza
politici e sociali in un’Europa dominata da governi conservatori. Le re-
gole fiscali, comunque formulate, sono pur sempre dei meccanismi auto-
matici e rigidi di politica economica. Esse si inscrivono teoricamente in
quel filone di pensiero economico, di stampo monetarista e neoliberista,
che sostiene la necessità di limitare al massimo il ruolo dell’intervento
pubblico nell’economia attraverso la costruzione di vincoli e di regole
istituzionali, invalicabili e immodificabili, alla politica economica14. La
politica economica dovrebbe, in questo approccio, essere prevedibile e
fornire il quadro istituzionale al cui interno possano liberamente agire le
forze di mercato. Dietro l’idea di regole istituzionali di politica economi-
ca c’è la concezione dello Stato neutrale rispetto all’allocazione delle ri-
sorse e alla distribuzione del reddito, affidate al libero gioco del mercato.
Lo Stato non sarebbe un soggetto attivo nel conflitto distributivo o nel
processo economico, ma un osservatore esterno che si limita a garantire
il rispetto delle regole del gioco. Inoltre, applicare una regola universale
per paesi in situazioni economiche e sociali molto diverse, con gradi di
sviluppo economico estremamente differenziati, come quelli attuali del-
l’UEM, o ancor più come accadrà in futuro a seguito dell’allargamento a
Est dell’UE, vuol dire, da parte dei poteri pubblici, rinunciare a program-
mare e indirizzare strategicamente lo sviluppo.
Se si accettano regole fiscali, perché allora si dovrebbe criticare la fis-
sazione di rigide regole quantitative per la politica monetaria? Se si ac-
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6. IL PATTO DI STABILITÀ E CRESCITA EUROPEO 147

cetta la determinazione per via istituzionale dei contenuti della politica


economica, perché si dovrebbe poi contestare il carattere tecnocratico e
ademocratico dell’UEM? Fissate le regole, non è forse poi una questione
puramente tecnica quella della loro concreta attuazione? Tanto è vero che
alcuni economisti hanno avanzato proprio l’idea di uniformare la gestio-
ne della politica fiscale a quella della politica monetaria europea. In que-
ste ipotesi la definizione della politica fiscale verrebbe sottratta ai gover-
ni e ai parlamenti nazionali per essere affidata a un consiglio di esperti in-
dipendenti (analogo al Consiglio direttivo della BCE)15. Si tornerebbe co-
sì a una sorta di ancien régime pre-rivoluzione francese, dove, però, al po-
sto del Re Sole e della sua splendida corte ci sarebbe una manciata di ri-
spettabili e noiosi cattedratici o tecnocrati, chiusi in asettiche stanze blin-
date, a decidere di tasse e spese pubbliche.
Come si vede, al di là della specifica formulazione, l’idea stessa di re-
gole istituzionali di politica fiscale implica l’adesione a un approccio fon-
damentalmente neoliberista e antidemocratico, dove è sempre e comun-
que il mercato a farla da padrone. In definitiva, l’adesione al metodo del-
le regole istituzionali di politica economica nasconde una convinzione an-
cora più profonda e radicata, a volte anche solo nel subconscio, quella re-
lativa al carattere “naturale” dell’economia capitalistica di mercato. Il ca-
pitalismo di mercato sarebbe un meccanismo perfetto ed eterno, immu-
ne da crisi o da cambiamenti strutturali. Basta fissare delle regole, sem-
plici e invariabili, al ruolo dello Stato per non incrinare la “perfezione ce-
leste”. In realtà, la storia ci ha dimostrato che qualunque regola è, prima
o poi, destinata a saltare. E se non ci fosse stato l’intervento dello Stato
nelle periodiche fasi di crisi generale del capitalismo, questo meccanismo
“perfetto e immutabile” sarebbe già scomparso da un pezzo.
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7. Proposte per un’altra Europa

7.1. La crisi dell’approccio mercantile all’integrazione europea

Alla fine dell’esame del PSC e delle proposte di modifica avanzate, è


venuto il momento di ricapitolare le principali conclusioni a cui siamo
giunti:

– il PSC è un fattore di blocco della crescita economica europea, partico-


larmente grave in un periodo di stagnazione;
– il PSC, come prima i parametri di Maastricht, è stato usato per impor-
re e giustificare in Europa politiche impopolari di riduzione dei servi-
zi pubblici e di privatizzazione;
– il PSC ha fallito tutti i suoi obiettivi, compresi quelli di riduzione dei
deficit pubblici;
– il PSC non riesce più ad essere rispettato dai principali paesi dell’UEM;
– il PSC è gravato da insolubili contraddizioni interne ed è privo di coe-
renza con l’attuale assetto dell’UEM;
– le proposte di modifica del PSC, avanzate in sedi ufficiali e semiufficia-
li, aggravano i problemi invece di risolverli;
– la determinazione di regole istituzionali di politica economica, rigide e
vincolanti, sono il frutto di un fallimentare approccio ideologico neo-
liberista all’integrazione europea.

Non è quindi una crisi passeggera, quella che sta attraversando l’Euro-
pa. Rischia al contrario di diventare una condizione permanente. In realtà,
è giunto al suo capolinea l’approccio all’integrazione di tipo mercantile e
tecnocratico, l’idea cioè che l’Europa potesse avere senso e vita solo come
libero spazio economico. È l’idea dell’integrazione negativa, fondata sullo
smantellamento di ogni vincolo esterno alla pura logica dei processi spon-
tanei di mercato, che ha sin qui guidato la costruzione europea. Prima le
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7. PROPOSTE PER UN’ALTRA EUROPA 149

merci, poi i servizi e i capitali, infine le monete sono state unificate in uno
spazio sottratto a ogni forma di controllo pubblico e sociale. Così l’Euro-
pa è stata pensata e vissuta come puro strumento di costruzione di mer-
cati e la sua funzione è stata limitata alla semplice regolamentazione, alla
definizione tecnica e normativa delle condizioni dei traffici privati.
Esemplare in tal senso, come abbiamo visto, è l’architettura dell’UEM.
Unico fine dell’unificazione monetaria è quello di garantire la stabilità dei
prezzi e di eliminare i costi di cambio per le imprese in modo da incre-
mentare il volume dei commerci interni ed esterni. E a questo unico fine
si subordina non solo la politica monetaria comune, ma, attraverso il Pat-
to di Stabilità, le politiche fiscali nazionali e quindi l’intera politica eco-
nomica dell’area. Per svolgere queste funzioni non servono né la politica,
né la democrazia, anzi esse sono dannose. È sufficiente la tecnica. È così
che l’Europa diventa preda di una tecnocrazia senza volto, custode su-
prema delle regole ferree e impersonali che la presiedono, del tutto estra-
nea al concreto fluire della vita materiale e sociale dei popoli europei e in-
tenta solo a vigilare sull’astratto e spettrale fluire delle merci e del denaro.
Questa Europa di mercanti è figlia di una grande utopia negativa,
quella del neoliberismo. Utopia, perché il mondo che esso descrive è im-
maginario: il mercato, infatti, non è mai libero, ma è sempre imprigiona-
to in una fitta rete di relazioni asimmetriche e gerarchiche che riprodu-
cono le condizioni del dominio. Negativa, perché il neoliberismo si fon-
da su una profonda sfiducia nelle capacità umane di determinare consa-
pevolmente le condizioni dell’esistenza sociale e affida a un meccanismo
impersonale, il mercato appunto, il compito di costruire la società. Essa
ha trovato giustificazione nell’idea che il mercato lasciato a se stesso, li-
berato da ogni condizionamento politico e sociale, potesse garantire pro-
sperità e benessere per tutti. La crisi economica ha ora spazzato via defi-
nitivamente questo mito. In realtà, l’utopia negativa del neoliberismo è
stata la maschera ideologica di precisi interessi materiali, di classe, quelli
del capitale. Con il trattato di Maastricht e il PSC è stato infatti costruito
un potente meccanismo di controllo delle rivendicazioni sociali delle clas-
si subalterne.
Alla luce di queste conclusioni, è arrivato il momento per la sinistra di
abbandonare gli schemi del passato e di proporsi il compito di fornire
nuove e inedite risposte alla crisi del processo di integrazione europea.
Oggi l’alternativa all’Europa neoliberista di Maastricht e del PSC passa at-
traverso un di più di integrazione e non un di meno. Ormai, il vecchio so-
gno europeista della costruzione di un’entità statuale continentale, fon-
data sui valori della democrazia e della partecipazione, può essere incar-
nato solo dalle forze della sinistra, di una sinistra però che sappia liberarsi
definitivamente dalla subalternità all’ideologia neoliberista e che ritrovi il
coraggio di osare. Come mostra il topolino della Costituzione europea,
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150 DOPO IL LIBERISMO

ormai le forze dominanti non possono procedere oltre sulla strada del-
l’integrazione, perché dovrebbero rinunciare al loro modello politico e
sociale, oggi alla base dell’UEM. Il compimento dell’unità europea coinci-
de così con la costruzione dell’alternativa al neoliberismo1.

7.2. La soluzione non è il ritorno all’autarchia nazionale

Una ricorrente tentazione nel campo delle forze antiliberiste è quella


dell’autarchia, dell’uscita unilaterale dei singoli paesi dall’UEM per recu-
perare i margini perduti di autonomia politica ed economica nazionale, al
cui interno sperimentare percorsi di trasformazione sociale. Tuttavia, sul
piano della sua concreta fattibilità questa strada è solo apparentemente
percorribile. Il processo di integrazione economica e monetaria europea
è ormai un dato irreversibile della realtà. Forse in quei paesi, come l’In-
ghilterra, la Svezia o la Danimarca, che non hanno sin qui aderito all’UEM,
è ancora possibile opporsi con successo all’unificazione monetaria. In tut-
ti gli altri paesi, dove ormai le precedenti monete nazionali sono solo un
lontano, e a volte nostalgico, ricordo, è arduo ipotizzare un ritorno all’in-
dietro, senza scontare conseguenze economiche catastrofiche. L’uscita
unilaterale comporterebbe non solo il ripristino dell’antica moneta na-
zionale, ma anche la fuoriuscita dallo spazio economico comune europeo.
Inoltre, l’irreversibilità storica del processo di integrazione deriva dall’in-
treccio inestricabile esistente tra le strutture economiche nazionali, sem-
pre più fuse in un’unica struttura europea, tanto che ormai appare diffi-
cile distinguere e delimitare le singole economie nazionali.
In secondo luogo, oltre ai forti dubbi sulla fattibilità di un progetto
autarchico nazionale, è opinabile anche la sua desiderabilità. L’integra-
zione europea, accanto a tutte le negative conseguenze sociali prodotte
dall’approccio neoliberista, ha generato anche effetti positivi in termini
culturali e di collaborazione pacifica e costruttiva tra paesi un tempo ir-
riducibilmente nemici. Questa conquista di civiltà, eredità storica dello
spirito pacifista e internazionalista del migliore movimento operaio eu-
ropeo, deve essere salvaguardata. Inoltre, nell’odierna economia del ca-
pitalismo globalizzato, un progetto di trasformazione economica e so-
ciale può essere pensato e realizzato soltanto su vasta scala, su dimen-
sioni almeno continentali. Di certo, nel mondo di oggi, l’idea del “so-
cialismo in un paese solo” appare del tutto anacronistica, soprattutto se
si tratta di un paese europeo, dalle dimensioni territoriali e demografi-
che relativamente ridotte. Infine, nella fase della globalizzazione capita-
lista, l’Europa può diventare il fulcro mondiale della resistenza e del-
l’alternativa nei confronti delle politiche neoliberiste, attraverso la defi-
nizione di un modello economico e sociale alternativo a quello degli
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7. PROPOSTE PER UN’ALTRA EUROPA 151

USA, in grado di contribuire a una politica di pace e di riequilibrio tra


Nord e Sud del mondo.
Allora, l’alternativa al PSC e alla declinazione europea dell’ideologia
della globalizzazione neoliberista, oggi incarnata dall’attuale struttura
dell’UEM, va cercata e perseguita a livello sovranazionale. L’alternativa
non è l’autarchia nazionale, bensì la costruzione di una nuova Europa,
democratica, indipendente e sovrana, ispirata dai valori della pace, della
giustizia, dell’uguaglianza e della libertà. Oggi, l’Europa di Maastricht e
del PSC non è questo, anzi per molti aspetti ne rappresenta l’antitesi. L’at-
tuale UEM è l’Europa del capitale finanziario, della tecnocrazia comunita-
ria e bancaria, della subalternità ai mercati e ai mercanti.

7.3. L’unificazione delle politiche fiscali

All’interno di un’Unione Economica e Monetaria, formata da entità


statuali distinte, è certamente necessario che esista un forte grado di coor-
dinamento nelle politiche economiche. Se così non fosse, l’Unione si di-
sgregherebbe, in seguito ai comportamenti egoistici dei singoli Stati. Esi-
stono però diverse forme attraverso cui realizzare la necessaria integra-
zione e collaborazione. La strada finora scelta è consistita nell’affidare a
un organismo tecnico, come la BCE, responsabile solo nei confronti dei
mercati finanziari, la conduzione della politica monetaria e del cambio e
di mantenere invece una gestione decentrata a livello nazionale delle po-
litiche fiscali. Per garantire la coerenza sistemica delle singole politiche fi-
scali nazionali sono stati creati vincoli di natura istituzionale, quali quelli
del PSC, rigidi e sottratti alla potestà democratica. La struttura del potere
e i meccanismi decisionali dentro l’UEM sono così privati di qualsiasi le-
gittimazione democratica, in balia di tecnocrazie irresponsabili o di mec-
canismi impersonali e “oggettivi”.
Oggi nell’UEM le politiche macroeconomiche nazionali, non solo
quella monetaria ma anche quella fiscale, sono sempre più vincolate dal-
le strategie di natura puramente contabile definite in sede comunitaria,
sia a livello di Banca Centrale Europea, sia a livello di Commissione e di
Consiglio Europeo. Questo livello comunitario è completamente sot-
tratto a ogni controllo da parte delle assemblee elettive nazionali e di
quella europea. Inoltre, il quadro di politiche macroeconomiche euro-
pee è formulato in termini di vincoli e di regole rigide e automatiche,
piuttosto che di indirizzi e di interventi attivi. Questo macrolivello co-
munitario costituisce quindi un vincolo esterno che condiziona pesante-
mente le scelte dei parlamenti nazionali. Le conseguenze di questa si-
tuazione sono l’assenza di una politica macroeconomica attiva, in grado
di indirizzare e dirigere lo sviluppo economico e sociale, e l’espropria-
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152 DOPO IL LIBERISMO

zione dei ruoli delle sedi democratiche a vantaggio delle istanze tecno-
cratiche, subordinate agli interessi economici e finanziari dominanti. È
evidente come questo meccanismo di formazione delle politiche ma-
croeconomiche sia direttamente ispirato dall’impostazione neoliberista,
perché di fatto svuota le autorità pubbliche dalla possibilità di adottare
una coerente politica economica. Ai poteri pubblici rimane soltanto il
compito di definire gli interventi specifici e settoriali, di carattere mi-
croeconomico e unicamente orientati alla promozione della concorren-
za, coerenti con il quadro rigido delle regole comunitarie.
Questo assetto europeo deve essere radicalmente trasformato. Il con-
solidamento dell’identità europea non può avvenire in una situazione in
cui i cittadini dei singoli paesi membri godono di diritti sociali e di op-
portunità di vita così differenti come quelli oggi esistenti. Né il ripristino
di un solido meccanismo di sviluppo economico può essere possibile in as-
senza di programmi di investimento pubblico per la costruzione di reti in-
frastrutturali, tecnologiche e di ricerca a dimensione continentale. La po-
litica industriale nei settori strategici, quelli a più alto contenuto tecnolo-
gico e quelli che forniscono servizi essenziali all’intero apparato produtti-
vo, come l’energia, se vuole essere efficace ed evitare una competizione
esasperata all’interno dello spazio economico europeo, deve assumere un
carattere sopranazionale. Anche la riconversione ecologica del sistema
produttivo, per invertire la tendenza in atto al degrado dell’ambiente e
della qualità della vita, necessita di politiche pubbliche fortemente inte-
grate a livello europeo. Insomma, non si può pensare che la costruzione
europea possa continuare a vivere se essa è limitata a un grande mercato
unico delle merci e dei capitali. Se rimane così, essa è destinata a deperire
e, presto, di fronte al declino, a invertire la tendenza verso una sempre
maggiore integrazione per innescare meccanismi, già peraltro ben visibili,
di disgregazione. Invece è proprio verso questa disgregazione che le attuali
classi dirigenti europee stanno marciando. Il progetto di Costituzione eu-
ropea sancisce il predominio assoluto del mercato come principale ele-
mento costitutivo dell’Unione Europea e non identifica alcun serio ed ef-
ficace meccanismo di coordinamento e integrazione delle politiche pub-
bliche ad eccezione di quelle neoliberiste, cioè del vincolo alle privatizza-
zioni e alla liberalizzazione e deregolamentazione dei mercati2.
Per quanto riguarda la politica fiscale, occorre, al contrario di quan-
to avviene ora, procedere verso una maggiore integrazione, introducen-
do, accanto a strumenti di coordinamento gestionale, anche forme di de-
finizione a livello comunitario degli indirizzi strategici e dell’orienta-
mento macroeconomico complessivo dell’area. Gli obiettivi della politi-
ca fiscale dell’Unione dovrebbero essere posti in termini di sviluppo eco-
nomico, di crescita occupazionale e di garanzia universale dei diritti so-
ciali fondamentali.
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7. PROPOSTE PER UN’ALTRA EUROPA 153

Per dotare il livello comunitario e nazionale di un efficace apparato di


intervento pubblico nell’economia occorrerebbe allora, in primo luogo, far
precedere gli strumenti di programmazione finanziaria nazionali da un do-
cumento europeo di programmazione economica, sulla cui base predi-
sporre gli atti programmatori nazionali. Questo DPEF (Documento di Pro-
grammazione Economica e Finanziaria) europeo dovrebbe essere proposto
congiuntamente dalla Commissione e dal Consiglio, previa acquisizione
dei pareri vincolanti dei parlamenti nazionali, e approvato in via definitiva
dal Parlamento Europeo. La direzione di marcia nella definizione dei mec-
canismi di formazione dei bilanci pubblici deve quindi essere quella della
costruzione di un nuovo ed efficace apparato di intervento pubblico di ca-
rattere macroeconomico e questo non può che avvenire a livello europeo
ed essere sottoposto all’esame delle assemblee elettive democratiche.
In secondo luogo, è urgente un rafforzamento quantitativo e qualitati-
vo del bilancio dell’UE, oggi pari a poco più dell’1 per cento del PIL del-
l’area e limitato a pochi settori di intervento3. Basti considerare, a questo
proposito, che la politica agricola comune e i fondi strutturali assorbono
insieme circa l’80 per cento di tutte le risorse comunitarie. È evidente co-
me l’esiguità attuale delle risorse gestite a livello comunitario rende im-
possibile attuare, a livello di Unione, serie ed efficaci politiche di riequi-
librio regionale e di ridistribuzione territoriale delle risorse. A seguito
delle ristrettezze di bilancio, i fondi strutturali e regionali sono addirittu-
ra diminuiti rispetto agli anni Novanta, proprio nel momento in cui, con
l’ingresso nell’Unione di numerosi paesi con un livello di sviluppo eco-
nomico inferiore a quello medio, le esigenze di riequilibrio territoriale si
sono moltiplicate. In assenza di un sostanzioso incremento del bilancio
comunitario, è inevitabile che nei prossimi anni le spinte per concentrare
le scarse risorse finanziarie regionali esclusivamente verso i nuovi paesi
membri diventeranno fortissime. A rimetterci saranno quelle regioni, co-
me il Mezzogiorno d’Italia, che hanno finora beneficiato delle politiche
di riequilibrio comunitario4. Ancora più arduo risulta oggi l’obiettivo di
utilizzare la politica fiscale comunitaria per orientare la domanda com-
plessiva dell’UEM e per svolgere compiti di programmazione e di pianifi-
cazione generale dello sviluppo. Come possibile fonte di entrate fiscali a
livello comunitario per rafforzare il bilancio pubblico dell’UE è stata re-
centemente avanzata una proposta che merita attenzione, quella di isti-
tuire una imposta sull’acquisto e la vendita di titoli finanziari sui mercati
secondari, che sovente nascondono intenti speculativi5. Naturalmente,
per rendere accettabile un aumento della contribuzione diretta e indiret-
ta dei cittadini europei al bilancio comune occorre che le scelte in meri-
to alla sua formazione, in termini di entrate e spese, siano definite per
mezzo di processi democratici, attraverso il potenziamento dei poteri di
proposta e di approvazione definitiva del Parlamento Europeo.
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154 DOPO IL LIBERISMO

Ma, in terzo luogo, una maggiore integrazione fiscale vuol dire anche
procedere, dal lato delle entrate pubbliche, verso una convergenza dei si-
stemi tributari nazionali e, dal lato delle spese pubbliche, verso una mag-
giore omogeneità dei sistemi di protezione sociale. In questo modo si co-
struirebbe, accanto allo spazio economico, anche uno spazio sociale eu-
ropeo, nel quale i cittadini possano godere tendenzialmente dei medesimi
diritti. Come per l’integrazione monetaria si sono stabiliti dei criteri di
convergenza economica, così per realizzare l’integrazione fiscale occorre
fissare dei criteri di convergenza sociale a cui i paesi membri devono ob-
bligatoriamente tendere, come ad esempio la riduzione del tasso di disoc-
cupazione e della precarietà del lavoro, dei livelli di povertà e di disagio
sociale e del grado di disuguaglianza nella distribuzione del reddito, l’au-
mento dei livelli di istruzione, la garanzia di livelli essenziali di assistenza
sanitaria gratuita e universale, ecc. Inoltre, è solo attraverso una più forte
integrazione fiscale che l’intervento pubblico nell’economia può acquista-
re gli strumenti e le risorse necessarie per politiche strutturali sull’appara-
to industriale e produttivo, non limitate alla sola liberalizzazione dei mer-
cati. L’integrazione della politica fiscale dovrebbe quindi essere accompa-
gnata, per essere veramente efficace, da una contemporanea e profonda
revisione dell’attuale normativa europea sulla concorrenza che, ponendo
l’accento sulla liberalizzazione dei mercati, di fatto penalizza l’intervento
e la gestione pubblica nell’industria e nei servizi di pubblica utilità. La
nuova normativa sul mercato interno dovrebbe, in particolare, riconosce-
re il ruolo essenziale dei servizi pubblici per il benessere economico e so-
ciale collettivo, introducendo il criterio dell’intangibilità dei beni comuni
(acqua, energia, trasporti, istruzione, salute, previdenza e assistenza) ri-
spetto al loro possibile sfruttamento privato finalizzato alla ricerca del
profitto. È significativo di un avviato, anche se incompiuto, processo di ri-
pensamento, rispetto alle posizioni assunte nel recente passato dalla sini-
stra moderata, il fatto che, alla vigilia delle ultime elezioni europee, alcu-
ni dei principali esponenti del Partito Socialista Europeo, come, tra gli al-
tri, Michel Rocard, Jacques Delors, Enrique Baron Crespo e Piero Fassi-
no, insieme a esponenti dei nuovi movimenti sociali, come José Bové e Su-
san George, abbiano pubblicato, sul quotidiano francese «Le Monde» del
9 giugno 2004, il testo di un appello dove si chiede l’introduzione di rigi-
di criteri di convergenza sociale e il riconoscimento del ruolo dei servizi
pubblici nella nuova Costituzione europea6. Risulta, tuttavia, ancora aper-
ta la palese contraddizione, esistente all’interno delle forze socialiste eu-
ropee, tra queste nuove posizioni di politica sociale e la strenua difesa del
Patto di Stabilità e dell’impianto complessivo di politica economica del
trattato di Maastricht, che sono tra loro manifestamente incompatibili.
In quarto luogo, nell’ambito di una stretta integrazione delle politiche
fiscali è possibile reintrodurre forme di finanziamento monetario del de-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 155

7. PROPOSTE PER UN’ALTRA EUROPA 155

ficit pubblico7. Uno dei requisiti iniziali e preliminari del percorso inizia-
to a Maastricht è consistito nel divieto assoluto di finanziamento da par-
te delle banche centrali nazionali e della BCE dei deficit pubblici dei sin-
goli Stati. La principale motivazione fu che, in caso contrario, si sarebbe
promosso il lassismo fiscale da parte dei governi nazionali, che avrebbe-
ro potuto scaricare sull’insieme dei paesi le eventuali conseguenze infla-
zionistiche del loro mancato rigore. Tuttavia, nel quadro di una politica
fiscale integrata questa motivazione non ha più ragion d’essere. Se l’im-
postazione strategica della politica fiscale è definita a livello di Unione,
non saranno ammissibili, né concretamente possibili, comportamenti di
tipo opportunistico dei governi nazionali. Si potrebbe prevedere una pro-
cedura flessibile e concordata di finanziamento monetario del deficit del
bilancio comunitario e dei deficit nazionali sulla base di specifici pro-
grammi di investimento pubblico di rilevanza europea e di interventi di
omogeneizzazione della rete di protezione sociale nei diversi paesi mem-
bri. Così come appare opportuno ipotizzare l’istituzione di un debito
pubblico europeo, distinto da quello degli Stati membri, che possa fun-
gere da canale di raccolta del risparmio internazionale per finanziare pro-
getti di investimento di dimensione continentale.
Naturalmente, procedere verso l’integrazione fiscale porta con sé una
parziale riduzione della sovranità degli Stati nazionali. Ma, in realtà, già
oggi, con il PSC, essa è largamente espropriata a vantaggio delle tecnocra-
zie e degli interessi economici dominanti. L’integrazione fiscale dovrebbe
essere accompagnata dalla democratizzazione dei meccanismi decisiona-
li dell’Unione, con un ruolo primario del Parlamento Europeo, unica isti-
tuzione espressione di una sovranità popolare europea. Infine, integra-
zione fiscale non vuol dire centralizzazione. L’esperienza storica di nu-
merosi Stati federali mostra una varietà di possibili soluzioni in grado di
garantire sia l’efficacia generale della politica fiscale, sia il decentramento
decisionale e operativo. Recentemente è stata, a questo riguardo, avanza-
ta in sede teorica una proposta che merita di essere attentamente consi-
derata a livello politico e istituzionale8. Essa prevede la costituzione a li-
vello di UE di un fondo comune di risorse a disposizione dei paesi colpiti
da specifici shock economici negativi per adottare politiche fiscali di sta-
bilizzazione e di riequilibrio, discrezionali e non condizionate nel loro uti-
lizzo. L’accesso al fondo potrebbe scattare quando il tasso di disoccupa-
zione di un paese, o di una regione, ecceda di una quantità stabilita quel-
lo medio comunitario. In tal modo, attraverso un meccanismo di mutua-
lità pubblica, si darebbe la possibilità di condurre politiche economiche
finalizzate alla convergenza territoriale e nazionale, orientate alla riduzio-
ne della disoccupazione, rafforzando il grado di coesione interna e la stes-
sa legittimazione dell’Unione. In tal caso, infatti, l’unione monetaria non
sarebbe più vista, in negativo, come la “grande fustigatrice”, ma acqui-
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156 DOPO IL LIBERISMO

sterebbe un profilo benefico e di sostegno nei confronti delle popolazio-


ni europee più sofferenti sul piano del benessere economico.

7.4. La riforma democratica della Banca Centrale Europea

Se è vero che l’altra Europa da costruire passa innanzitutto attraverso


l’integrale democratizzazione delle istituzioni europee, allora tra queste un
posto di primaria rilevanza spetta alla BCE. Sulla base dell’articolo 105 del
trattato di Maastricht, codificato poi nello statuto istitutivo dell’autorità
monetaria europea, la BCE ha come unico ed esclusivo obiettivo di politi-
ca monetaria e del cambio la stabilità dei prezzi, cioè la lotta all’inflazione,
che deve perseguire «in conformità al principio di un’economia di merca-
to aperta e in libera concorrenza, favorendo una efficace allocazione delle
risorse». Obiettivi economici reali, quali la riduzione della disoccupazione
o lo sviluppo economico, sono istituzionalmente esclusi dalla sua sfera di
attività. Inoltre, essa gode di un’assoluta libertà nella definizione degli
obiettivi intermedi e degli strumenti da utilizzare nella sua azione e non
deve dar conto a nessuno, né tanto meno giustificare o motivare i propri
comportamenti. Siamo nell’ambito della piena discrezionalità di azione, fi-
no alla possibilità di arbitrio assoluto. In nessuna parte del mondo è mai
esistita una istituzione monetaria così potente e autonoma. Nella nostra
epoca, ad esempio, la Federal Reserve americana ha come obiettivo istitu-
zionale, oltre al controllo della dinamica dei prezzi, anche la promozione
della crescita economica e dell’occupazione e, inoltre, deve concordare
con il governo la definizione della politica del tasso di cambio.
Spesso si sente giustificare questo particolare status della BCE con la
motivazione della garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza dell’auto-
rità monetaria nei confronti del potere politico, che potrebbe altrimenti
utilizzare il governo della moneta verso interessi e fini particolaristici, mi-
nando la solidità e la stabilità dell’intero sistema economico a danno dei
risparmi dei cittadini. In realtà questa argomentazione, quando è fatta in
buonafede, è il frutto di una non piena chiarezza sul significato dei ter-
mini di autonomia e indipendenza. In una democrazia nessuna istituzio-
ne pubblica può essere considerata assolutamente sovrana, cioè svincola-
ta da ogni forma di controllo e di legittimazione democratica. I principi
della sovranità popolare, come fonte ultima delle decisioni, e del bilan-
ciamento dei poteri, sono gli elementi di fondo di un sistema democrati-
co, in assenza dei quali esso non può definirsi tale. Ogni istituzione deve
essere responsabile dei propri atti nei confronti degli altri poteri e, in ul-
tima istanza, del detentore della sovranità, cioè del popolo. In una de-
mocrazia, quindi, l’autonomia e l’indipendenza delle istituzioni hanno
sempre un carattere relativo e strumentale, mai assoluto. In questo senso,
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7. PROPOSTE PER UN’ALTRA EUROPA 157

le banche centrali non devono essere, nello svolgimento del loro compi-
to tecnico e istituzionale, agli ordini di nessun altro potere, sia esso quel-
lo esecutivo, sia quello rappresentativo. Nessuno può imporre a una ban-
ca centrale di effettuare un tipo di operazione monetaria piuttosto che un
altro, né può chiederle di non adempiere al proprio compito di sorve-
glianza e di vigilanza del mercato monetario e bancario per favorire qual-
che interesse particolare. In questa dimensione relativa, l’autonomia e
l’indipendenza della banca centrale sono conquiste recenti e devono es-
sere integralmente salvaguardate9. Anzi, esse dovrebbero essere rafforza-
te ed estese anche rispetto alla protezione da influenze estranee a quelle
dei pubblici poteri, che invece oggi non di rado inquinano i processi de-
cisionali delle banche centrali. Ma questo non vuol dire affatto che una
banca centrale possa fare quello che vuole e fissare, senza ascoltare nes-
suno, gli obiettivi della propria azione e poi essere totalmente libera da
ogni forma di controllo, di verifica e, addirittura, di motivazione del pro-
prio operato. Può sembrare incredibile, ma è proprio questo che oggi ac-
cade con la BCE10.
Ad esempio, il suo compito istituzionale è attualmente solo quello del-
la stabilità dei prezzi. Ma chi definisce che cosa concretamente vuol dire
stabilità dei prezzi, cioè quale tasso di inflazione deve essere considerato
come obiettivo della politica monetaria? Oggi è la BCE, che ha stabilito il
tasso di inflazione ottimale al 2 per cento. Al di sopra di questo valore,
dunque, l’orientamento della politica monetaria rimarrà restrittivo. Ora,
non è possibile determinare in via assoluta, da un punto di vista teorico,
l’inflazione ottimale. Essa dipende dalle specifiche e variabili circostanze e
dalle preferenze soggettive dell’autorità di politica monetaria. L’unica con-
siderazione che si può fare è di tipo comparativo: un tasso di inflazione
medio del 2 per cento è un valore estremamente basso rispetto all’anda-
mento storico dell’inflazione nei dodici paesi membri dell’UEM. Ad esem-
pio, il tasso di inflazione negli anni Sessanta, prima quindi degli shock pe-
troliferi e delle conquiste salariali dell’“autunno caldo” e in un regime di
cambi fissi, è stato pari al 4,3 per cento nella media dei paesi membri, più
del doppio dell’obiettivo inflazionistico perseguito oggi dalla BCE, in una
situazione di cambi flessibili e di volatilità del prezzo del petrolio11.
In secondo luogo, poiché a cinque anni di distanza dall’unificazione
delle politiche monetarie i tassi di inflazione nazionali permangono signi-
ficativamente diversi all’interno dei paesi membri, aver fissato un obietti-
vo inflazionistico così basso penalizza fortemente le economie più virtuo-
se nella stabilità dei prezzi. La motivazione addotta dalla BCE per la defi-
nizione di un obiettivo medio di inflazione per tutta l’area è che, all’inter-
no di un’unione monetaria, gli aggiustamenti strutturali degli squilibri
esterni delle singole zone dovrebbero avvenire attraverso la variazione dei
prezzi e dei salari. Nulla di sorprendente, quindi, se i tassi di inflazione ri-
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158 DOPO IL LIBERISMO

mangono divergenti. Sarebbe questo il segno del funzionamento del mec-


canismo automatico di aggiustamento degli squilibri interni all’area12. In
realtà, la concreta esperienza dei primi cinque anni di unificazione mone-
taria non conferma questa ipotesi. Infatti, ad esempio, la Germania ha in
questo periodo sperimentato un tasso di inflazione pari a meno di un ter-
zo di quello italiano (0,8 per cento contro 2,5 per cento), pur avendo un
surplus della bilancia commerciale intra-europea contrapposto al deficit
dell’Italia. Queste differenze così marcate tra i tassi di inflazione naziona-
li indicano che, a livelli storicamente così bassi, l’inflazione non dipende
affatto dai meccanismi di aggiustamento monetari, ma dagli andamenti
reali e dalle configurazioni dei mercati nelle diverse economie nazionali.
Fissare allora un obiettivo così basso di inflazione può essere dannoso
perché rischia di innescare dinamiche deflazionistiche e recessive nei pae-
si virtuosi senza intaccare minimamente il nocciolo duro dell’inflazione
negli altri paesi. La politica monetaria, anche ai fini della ulteriore com-
pressione della dinamica media dei prezzi, dovrebbe guardare più a obiet-
tivi di carattere reale che puramente nominali. Ma la BCE ha stabilito di-
versamente e nessuno può obiettare a questa sua arbitraria decisione.
In terzo luogo, la BCE ha anche la potestà sulla politica del tasso di
cambio dell’euro nei confronti delle altre monete. Ma il tasso di cambio
non è altro che il prezzo nominale di una moneta rispetto a un’altra e, in
quanto tale, il suo valore assoluto non ha alcun significato autonomo in
termini economici. Si può affermare che una moneta è sopravvalutata o
sottovalutata soltanto rispetto all’andamento di altre variabili economi-
che reali, come l’equilibrio dei conti con l’estero o la competitività inter-
nazionale dei prodotti. Ma, poiché la BCE ha l’esclusivo obiettivo della
stabilità dei prezzi, interpretato nel modo così rigido che abbiamo appe-
na visto, la politica del tasso di cambio dell’euro è distorta nel senso di un
tendenziale apprezzamento. Questo non vuol dire che l’euro è destinato
a una continua rivalutazione ma che, a parità di altre condizioni, esso ten-
de naturalmente a crescere di valore a causa dell’orientamento restrittivo
di politica monetaria. Le conseguenze di questa tensione verso l’alto del
valore nominale dell’euro possono diventare molto onerose quando, co-
me è successo nel corso del 2003, le altre monete, a cominciare dal dolla-
ro, assumono un orientamento verso il deprezzamento13. La perdita di
competitività internazionale che si è verificata nel corso degli ultimi due
anni a causa dell’aumento del valore dell’euro ha pesato fortemente sulle
economie europee, già in stato di stagnazione, ma nessuno ha potuto
smuovere la BCE dalla sua rigidità.
Infine, gli obiettivi finali di politica monetaria devono essere monito-
rati dalle autorità responsabili sulla base di indicatori, o obiettivi inter-
medi, che possono indicare in anticipo l’evoluzione dell’obiettivo finale.
La fissazione pubblica di obiettivi intermedi favorisce anche la formazio-
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7. PROPOSTE PER UN’ALTRA EUROPA 159

ne di corrette aspettative da parte degli operatori economici sul carattere


della politica monetaria futura. La BCE ha assunto come obiettivo inter-
medio per il perseguimento della stabilità dei prezzi l’espansione della
massa monetaria, in coerenza con una impostazione rigidamente mone-
tarista secondo cui la quantità di offerta di moneta determina l’inflazio-
ne. Questo obiettivo intermedio, solennemente annunciato, non è mai
stato conseguito. In realtà, la dinamica dell’indicatore prescelto della
quantità di moneta è stata sistematicamente più sostenuta di quella fissa-
ta. La BCE afferma che questo fatto è la dimostrazione dell’esistenza di
spinte inflazionistiche di origine monetaria non ancora sopite e ciò giu-
stifica il carattere restrittivo della sua politica. In realtà, l’ordine di causa-
lità è inverso. Poiché l’inflazione non ha oggi carattere monetario ma rea-
le, gli obiettivi intermedi relativi all’offerta di moneta sono del tutto sgan-
ciati dalla dinamica dei prezzi e determinati da altre variabili, in partico-
lare dalle operazioni speculative sui mercati finanziari, e non sono sotto il
controllo della banca centrale. Mantenere un obiettivo intermedio co-
stantemente inferiore a quello che si realizzerà vuol dire introdurre una
distorsione antinflazionistica nelle aspettative degli operatori, i quali si at-
tenderanno anche per il futuro un politica monetaria restrittiva, e in tal
modo l’effetto finale è quello della prevalenza di tassi di interesse elevati
sui mercati finanziari nel medio e lungo periodo. Non solo, ma poiché
l’obiettivo intermedio è palesemente inadeguato, ciò vuol dire che in
realtà la BCE adotta un altro indicatore per assumere le decisioni di poli-
tica monetaria. E se si leggono attentamente i documenti ufficiali e si os-
servano le concordanze temporali ci si accorge che il vero obiettivo in-
termedio assunto dalla BCE in funzione antinflazionistica è rappresentato
dalla dinamica salariale, in particolare nelle principali economie dell’UE,
prima fra tutte quella tedesca. Ogniqualvolta emergono rivendicazioni sa-
lariali, la BCE è pronta ad annunciare correzioni in senso restrittivo della
politica monetaria in nome della lotta all’inflazione. Così, dietro il moti-
vo della stabilità dei prezzi, in una situazione in cui i prezzi sono già sta-
bili se considerati in una prospettiva storica, si scopre che l’autentico
obiettivo della politica monetaria è una particolare distribuzione del red-
dito, favorevole al rendimento del capitale industriale e finanziario e alla
compressione dei redditi da lavoro14.
Le scelte in merito al tasso medio di inflazione ottimale, al tasso di cam-
bio e agli obiettivi intermedi hanno condotto la BCE ad adottare una poli-
tica del tasso ufficiale di sconto estremamente prudente in questi anni di
recessione. A differenza della Federal Riserve, la BCE è stata molto restia a
ridurre i tassi di interesse e, quando lo ha fatto, ciò è avvenuto sempre co-
me adattamento, e non come anticipazione, degli andamenti economici. È
così che i tassi di interesse reali, in una situazione di grave crisi economi-
ca quale quella del triennio 2001-03, si sono mantenuti più elevati della
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160 DOPO IL LIBERISMO

crescita del reddito. In questo periodo, i tassi di interesse reali di breve ter-
mine sono stati in media dell’1 per cento e quelli di lungo termine del 2,5
per cento, a fronte di una crescita reale del PIL dell’UEM pari allo 0,9 per
cento. Questo vuol dire che, persino in una fase di recessione, quando oc-
correrebbe incentivare la spesa e l’investimento produttivo, la distribuzio-
ne del reddito si è spostata a favore della rendita finanziaria. Alla luce del-
l’esame della condotta della BCE si può affermare che la politica monetaria
in Europa ha rappresentato un fattore di aggravamento della crisi econo-
mica e di accentuazione delle disuguaglianze sociali.
Ora, il fatto che tutto ciò avvenga al di fuori di qualsiasi controllo de-
mocratico è intollerabile. In questo contesto, non c’entrano per nulla i
principi dell’autonomia e dell’indipendenza di una istituzione pubblica
nello svolgimento delle sue funzioni. Siamo di fronte a una situazione in
cui non solo le modalità di svolgimento, ma anche la determinazione del-
le funzioni da svolgere è decisa in modo arbitrario e discrezionale dalla
BCE. Si può affermare, senza esagerazioni, che la BCE rappresenta oggi l’u-
nico potere assolutamente sovrano all’interno dell’Europa.
Per le ragioni esposte, è necessario proporsi una radicale trasforma-
zione della BCE, sia sul piano dei privilegi istituzionali di cui essa gode, sia
su quello dei contenuti della politica monetaria.
In primo luogo, la definizione degli obiettivi della politica monetaria e
del tasso di cambio deve comprendere, oltre alla stabilità dei prezzi, an-
che la crescita economica e occupazionale, come già avviene per la banca
centrale americana, e l’equità distributiva. La BCE deve cioè preoccupar-
si anche del benessere economico e sociale dei cittadini europei e non so-
lo delle esigenze dei mercati finanziari.
In secondo luogo, la conduzione della politica monetaria deve essere
sottoposta a poteri di indirizzo politico e di verifica dell’operato, formu-
lati da organismi istituzionali sottoposti a controllo democratico e diret-
tamente responsabili nei confronti dei cittadini.
Il documento europeo di programmazione economica dovrebbe con-
tenere anche indirizzi e direttive vincolanti alla Banca Centrale Europea
in merito alla politica monetaria e del tasso di cambio, in modo da ren-
dere coerenti e coordinati tutti gli strumenti di politica macroeconomica
a disposizione. Infatti, l’assoluta indipendenza della BCE, oltre a rappre-
sentare un deficit democratico, costituisce anche un fattore di possibile
incoerenza nella definizione della strategia di politica macroeconomica.
Nulla impedisce oggi che la politica monetaria, definita in assoluta auto-
nomia dalla BCE, agisca in direzione contraria rispetto alla politica fiscale,
generando incertezza e minando l’efficacia dell’intervento pubblico.
In terzo luogo, occorre introdurre a livello europeo una nuova tassa sui
movimenti speculativi di capitale, la cosiddetta Tobin tax, dal nome del-
l’economista americano, premio Nobel in economia, che per primo la
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7. PROPOSTE PER UN’ALTRA EUROPA 161

ideò. Le forme possibili di introduzione di questa imposta sono diverse e


tutte praticabili sul piano tecnico, come è stato ampiamente dimostrato
dagli studi esistenti15 e dalla proposte di legge già presentate in vari parla-
menti nazionali. La BCE dovrebbe collaborare, insieme alle autorità fisca-
li nazionali, alla gestione e alla riscossione di questa tassa. L’obiettivo del-
la Tobin tax è scoraggiare la speculazione finanziaria, che può provocare
gravissime conseguenze economiche reali, e rafforzare la potestà delle au-
torità pubbliche nella definizione degli obiettivi della politica monetaria,
oggi pesantemente condizionati dai mercati finanziari globali a causa del-
la loro totale liberalizzazione e deregolamentazione. Inoltre, l’introito de-
rivante dalla tassazione dei capitali speculativi potrebbe essere utilizzato
per iniziative di carattere sociale e di cooperazione allo sviluppo.

7.5. Per una politica di piena occupazione in Europa

Nel 2003 nell’UEM c’erano ancora oltre dodici milioni di disoccupati,


pari all’8,7 per cento delle forze di lavoro. Dopo un breve periodo di ca-
lo, nella seconda metà degli anni Novanta, la disoccupazione è tornata a
crescere. Nel decennio di Maastricht (1992-2003) il tasso di disoccupa-
zione europeo è stato, in media, del 9,6 per cento, il valore più alto di tut-
ti i decenni successivi a quello della seconda guerra mondiale. Nonostan-
te la massiccia deregolamentazione del mercato del lavoro e la moltipli-
cazione delle possibili forme contrattuali, ancora il 44 per cento dei di-
soccupati europei non riesce a trovare occupazione per più di un anno e
il 7 per cento dei giovani sono disoccupati di lungo periodo16. Le diffe-
renze tra paesi e tra regioni continuano ad essere rilevanti. Tutto ciò è ac-
caduto proprio quando il lavoro è diventato più flessibile e precario.
Questa situazione non può essere tollerata. Tante cose utili e tanti servizi
essenziali potrebbero essere prodotti e forniti e contemporaneamente
tanto tempo disponibile per attività affettive, relazionali, ludiche e for-
mative potrebbe essere liberato, se tutti coloro che vogliono lavorare po-
tessero farlo. Una società che si reputa civile non può rassegnarsi a guar-
dare impotente a uno spreco così massiccio di potenziali risorse produt-
tive e a un grado di sofferenza sociale così elevato. L’obiettivo della pie-
na occupazione deve diventare la barra dell’intera politica economica eu-
ropea. Il mercato non è riuscito a raggiungerlo. Tocca ora allo Stato ga-
rantire il diritto elementare alla sopravvivenza sociale dei propri cittadi-
ni, quello del lavoro.
Negli ultimi tempi in tutta Europa si assiste a una recrudescenza pa-
dronale nei confronti dei diritti e delle condizioni di lavoro. In particola-
re le grandi imprese europee puntano il dito sulla necessità di aumentare
l’orario di lavoro a parità di salario. La minaccia è quella della delocaliz-
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162 DOPO IL LIBERISMO

zazione, cioè dello spostamento degli impianti nei paesi dove il costo del-
la manodopera è più basso. La delocalizzazione delle attività produttive
non è un fenomeno recente. La liberalizzazione commerciale e finanzia-
ria degli anni Novanta ha già contribuito al trasferimento di intere fasi dei
cicli di produzione nel Sud del mondo. In particolare sono state interes-
sate da un lato le attività industriali a minor contenuto tecnologico, che
richiedono un basso livello di formazione della manodopera, e dall’altro
le fasi ordinarie delle attività ad alto contenuto professionale, come le
prestazioni ingegneristiche e informatiche. Infatti, le differenze salariali
più rilevanti nel mondo si concentrano nelle fasce estreme del mercato
del lavoro. Tanto è vero che a soffrire di più della delocalizzazione sono
stati, ad esempio, i distretti industriali in Italia e la Silicon Valley negli
USA. Sembra ora che siamo entrati in una nuova fase, quella della minac-
cia di delocalizzare il cuore dei processi industriali, le fasi di produzione
centrali, quelle che richiedono il maggiore investimento in capitale fisso
e che occupano la maggior parte della forza lavoro europea. Un esempio
emblematico è stato quello di una solida industria tedesca, come la Mer-
cedes, che ha evocato lo spettro dello spostamento della produzione in
Sud Africa per ottenere in cambio un aumento dell’orario di lavoro sen-
za contropartita salariale. Le conseguenze dell’avvio di questi processi sa-
rebbero devastanti per l’occupazione e per il benessere sociale. Ma si trat-
ta di un ricatto o di una prospettiva reale?
In Europa la crisi economica è più acuta che altrove. La stagnazione
della produzione dura ormai da quattro anni e, a differenza del passato,
non sembra superabile attraverso il rilancio della domanda estera deri-
vante dalla pur timida e incostante ripresa economica mondiale. I nodi
strutturali del modello economico e sociale europeo, imposti dalle politi-
che di Maastricht, sono ormai arrivati al pettine. L’Europa è a un bivio de-
cisivo. O si rimettono in discussione i fondamenti della politica economi-
ca, attraverso un rilancio della domanda interna innescato da interventi di
redistribuzione del reddito e la ripresa di un massiccio intervento pubbli-
co per la riqualificazione dell’apparato industriale, oppure l’unica strada
è quella della “sudizzazione” dell’Europa, cioè dell’ulteriore e indefinita
compressione dei diritti e dei salari dei lavoratori. Questo secondo scena-
rio è quello scelto dal grande capitale europeo. È una scelta miope perché
condurrebbe all’inesorabile declino economico e politico dell’Europa.
Tuttavia, la minaccia della delocalizzazione è un’arma spuntata in ma-
no alle imprese, e non solo per gli enormi costi derivanti dal trasferimen-
to degli impianti e per la tendenza all’aumento dei salari per la classe ope-
raia centrale dei paesi emergenti. Infatti, qualora l’Europa fosse ridotta a
un deserto economico e sociale, a chi pensano di vendere i propri pro-
dotti le imprese che delocalizzano? Se tutti i lavoratori del mondo fosse-
ro ridotti nelle condizioni degli operai asiatici o sudafricani, chi mai com-
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7. PROPOSTE PER UN’ALTRA EUROPA 163

prerebbe, non dico le Mercedes, ma anche soltanto le Fiat? Le imprese


rispondono che non vogliono ridurre i salari ma aumentare l’orario di la-
voro, cioè vogliono che i lavoratori devolvano gratis al proprio padrone
qualche ora in più di lavoro al giorno. E hanno la spudoratezza di pre-
sentare questa richiesta come un atto di dialogo sociale per lo sviluppo,
in nome del rilancio della concertazione in chiave neocentrista. Ma, dal
punto di vista macroeconomico, la riduzione del salario reale e l’aumen-
to dell’orario di lavoro sono la stessa cosa, poiché entrambe allargano
l’eccesso dell’offerta rispetto alla domanda effettiva, cioè producono un
drammatico avvitamento della crisi attuale. Ecco allora che l’aggressività
del capitale europeo è in realtà una risposta difensiva e impotente alle
contraddizioni insolubili del modello neoliberista. Nel malaugurato caso
in cui i sindacati dovessero accettare il ricatto padronale, l’inevitabile
conseguenza di medio periodo sarebbe una disoccupazione di massa, co-
me accadde già negli anni della grande depressione. Tuttavia, stavolta
molto più che in passato la resistenza operaia non è isolata perché parla
della condizione di vita, presente e futura, di tutto il mondo del lavoro.
Per questo oggi può vincere. A condizione però che la politica, e in par-
ticolare la sinistra, svolga fino in fondo il proprio compito, che è quello
di far vivere dentro alle lotte sociali un progetto generale di alternativa al
neoliberismo come unica prospettiva possibile per l’Europa.
Un pezzo di questo progetto passa per il rilancio della battaglia per la
riduzione dell’orario di lavoro e per l’aumento dei salari reali in tutto il
continente17. Occorre procedere, attraverso un coordinamento e una co-
mune piattaforma sindacale europea, verso l’obiettivo della settimana la-
vorativa di trentacinque ore in tutta Europa, accompagnata dalla defini-
zione di una base salariale contrattuale minima valida in tutta l’UE. Infat-
ti oggi abbiamo una moneta comune europea ma siamo ancora ben lon-
tani dall’avere una giornata lavorativa e un salario europei. Le ore-lavoro
settimanali degli occupati dipendenti a tempo pieno variano dalle 40,9
della Grecia alle 38,5 del Belgio e alle 35 della Francia. Ancora più forti
sono i divari salariali. In termini di remunerazione netta nel 2002 un la-
voratore tedesco percepiva più di cinque volte la paga di un lavoratore
portoghese e più del 50 per cento di un lavoratore italiano. Con l’allarga-
mento le differenze sono diventate ancora più esplosive. Un lavoratore
della Lettonia guadagna circa un decimo di un lavoratore tedesco e un
settimo di un lavoratore italiano18. Questi divari non corrispondono mi-
nimamente alle differenze nella produttività del lavoro, che sono molto
meno significative.
In assenza di una convergenza contrattata sindacalmente nelle condi-
zioni e nella remunerazione del lavoro all’interno dell’UE, data la com-
pleta libertà di movimento dei capitali e l’omogeneizzazione delle nor-
mative di mercato dentro l’Unione, assisteremo nei prossimi anni a un li-
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164 DOPO IL LIBERISMO

vellamento verso il basso dei salari e dei diritti dei lavoratori. Non saran-
no i paesi socialmente meno progrediti a convergere verso quelli con li-
velli di maggiore tutela del lavoro ma avverrà il contrario, sotto la spinta
del ricatto della delocalizzazione. Già queste tendenze sono in atto, come
dimostra il ruolo giocato dagli investimenti diretti per piegare la ristrut-
turazione industriale dei paesi dell’Est in conformità alle esigenze euro-
peo-occidentali di trasferimento dei processi produttivi fordisti ad alta in-
tensità di lavoro19. E tutto ciò aggraverà la crisi strutturale dell’economia
europea. D’altra parte, se con il mercato unico e la moneta comune la re-
munerazione del capitale, reale e finanziario, tende a convergere verso un
unico tasso di profitto e una medesima rendita, perché mai la stessa cosa
non deve succedere per il lavoro? Si tratta solo di stabilire se il livella-
mento salariale avverrà verso i livelli medi della Germania o verso quelli
della Lettonia. Le imprese non hanno dubbi su quale sia per loro la scel-
ta migliore. Ma per i lavoratori? Il livellamento delle condizioni minime
contrattuali deve quindi essere posto come obiettivo non solo sindacale,
ma anche politico, attraverso la costituzione di appositi fondi di sostegno
messi a disposizione dall’Unione per facilitare l’adeguamento strutturale
dei paesi più lontani dal salario medio comunitario e per accompagnare
la riduzione dell’orario di lavoro.
L’ostilità suscitata dalle proposte di riduzione dell’orario di lavoro e di
incrementi salariali si basa sui presunti effetti negativi sulla competitività
della produzione europea derivanti da una riduzione della produttività
per addetto e da un aumento del costo del lavoro. Queste obiezioni sono
però infondate. Secondo un recente studio della Commissione Europea,
negli ultimi dieci anni, quelli del declino economico europeo, nell’UE il li-
vello dei salari reali, rapportato al livello della produttività del lavoro, è
tornato ai valori degli anni Sessanta20, annullando così per intero le con-
quiste salariali del grande ciclo di lotte operaie della generazione prece-
dente all’attuale. Nel periodo di Maastricht, dunque, nonostante una
continua e massiccia compressione della dinamica dei salari reali, la com-
petitività europea è calata a picco. Insomma, quale altra evidenza empiri-
ca si vuole osservare per ammettere che il problema economico dell’Eu-
ropa non è affatto quello del lavoro?
Inoltre, la riduzione dell’orario di lavoro e l’aumento salariale è soltan-
to una parte di un progetto complessivo di rilancio dell’economia euro-
pea e deve andare di pari passo a un mutamento generale degli indirizzi
di politica economica, quale quelli delineati in precedenza. Abbiamo in-
fatti visto come la causa principale della crisi europea risieda nella caren-
za di domanda interna generata dalla politiche restrittive derivanti dal
trattato di Maastricht. Un mercato interno asfittico riduce le potenzialità
di ammodernamento tecnologico del sistema produttivo. Una riduzione
della spesa pubblica ostacola la riqualificazione delle infrastrutture terri-
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7. PROPOSTE PER UN’ALTRA EUROPA 165

toriali, impedisce lo sviluppo delle capacità professionali dei lavoratori at-


traverso il razionamento della formazione e rallenta la creazione e la dif-
fusione delle innovazioni limitando le risorse destinate ad attività di ricer-
ca e sviluppo. Una politica monetaria restrittiva privilegia la rendita a sca-
pito dell’attività produttiva. Tutti questi fattori agiscono insieme per pro-
durre l’abbassamento della produttività generale del sistema economico
europeo e, contemporaneamente, incrementano il processo di divarica-
zione delle disuguaglianze sociali e territoriali. Una svolta espansiva nella
politica economica invertirebbe questi processi. Vi sarebbero più risorse
da destinare all’innovazione tecnologica, alla formazione, alle infrastrut-
ture sociali e territoriali e, insieme, all’espansione dei diritti sociali dei cit-
tadini, alla riduzione delle disparità di reddito e di ricchezza tra territori
e tra classi sociali. Tutto ciò metterebbe in moto un circolo virtuoso in cui
l’espansione del mercato interno, sostenuta da un nuovo e forte ruolo del
pubblico nell’economia e da una distribuzione più egualitaria del reddito,
favorirebbe l’accelerazione della crescita economica e della produttività.
In questo nuovo scenario la riduzione dell’orario di lavoro agirebbe da
moltiplicatore delle tendenze positive dello sviluppo21. D’altra parte que-
sto è quanto è accaduto nelle fasi di maggiore progresso economico e so-
ciale dell’Europa. La graduale liberazione del tempo di vita umana dalle
necessità materiali della produzione economica è stato, da sempre, uno
dei punti fondanti del progetto della modernità. Sulla valenza positiva di
questo obiettivo nessuna differenza è esistita in passato tra le correnti
marxiste e le correnti liberali della cultura occidentale. Lo sviluppo delle
forze produttive era perseguito e incoraggiato, da entrambe, non tanto
per moltiplicare il valore economico, ma soprattutto per ridurre la fatica
della riproduzione delle condizioni materiali di sopravvivenza dell’uma-
nità. Le divisioni tra i marxisti e i liberali vertevano sulla possibilità o me-
no di perseguire questo obiettivo senza fuoriuscire dal modo di produ-
zione capitalistico. Per i primi due secoli della sua storia il sistema capi-
talistico, pur tra contraddizioni e passi indietro, ha garantito, nei paesi in-
dustriali, una progressiva riduzione dell’orario di lavoro sotto la spinta
delle rivendicazioni e delle lotte operaie. Questo è stato uno dei princi-
pali elementi del suo dinamismo, la capacità di agire come stimolo pro-
pulsore a un incessante rivoluzionamento dei metodi produttivi tesi ad
aumentare l’efficienza del lavoro umano. Nei primi anni della nuova era
della globalizzazione capitalistica, sotto l’influsso delle novità nell’orga-
nizzazione del lavoro introdotte con le nuove tecnologie informatiche,
era diventato di moda parlare di “fine del lavoro” e il problema princi-
pale sembrava essere quello del come garantire la partecipazione di tutti
alla distribuzione del prodotto sociale, senza intaccare i rapporti di pro-
duzione capitalistici e senza bloccare gli incentivi al continuo migliora-
mento delle tecniche produttive22. Oggi la situazione si è rovesciata e i
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 166

166 DOPO IL LIBERISMO

fautori della globalizzazione neoliberista propugnano la necessità di la-


vorare di più. È il segno più evidente del completo fallimento del pro-
getto neoliberista. La sua reiterazione è ormai portatrice di una regres-
sione storica, di un rovesciamento delle prospettive di sviluppo, anche so-
lo materiale, dell’umanità. Sono gli ultimi colpi di coda di una utopia ne-
gativa che negli ultimi venti anni ha plasmato il mondo intero. Ma sap-
piamo che è proprio nel momento dell’agonia che la fiera diventa più pe-
ricolosa e può trascinarci tutti nel gorgo della sua fine. Per questo dob-
biamo accelerarne la scomparsa e imporre una svolta radicale nel model-
lo economico e sociale.
Certo i benefici di questa svolta non si distribuirebbero tra tutti in mo-
do eguale. Chi negli ultimi vent’anni, grazie alle politiche neoliberiste, ha
aumentato il proprio reddito, la propria ricchezza e il proprio potere do-
vrebbe rinunciare a gran parte dei privilegi e dei vantaggi goduti. Tutta-
via, in confronto a coloro che vedrebbero migliorare le proprie condizio-
ni di vita, questi possibili perdenti sarebbero molto pochi. Il manteni-
mento delle posizioni di dominio acquisite negli ultimi vent’anni è oggi il
principale ostacolo al rilancio economico dell’Europa e alla sua rinascita
politica e sociale. Ormai tutti, anche coloro che fingono di credere anco-
ra nel neoliberismo, sanno bene quali interventi di politica economica so-
no necessari per farci uscire dalla crisi attuale. Se incamminarci o meno
lungo questa strada non è un problema tecnico, ma politico.

7.6. L’unità politica dell’Europa in nome del lavoro

Abbiamo visto come nel corso dell’ultimo quindicennio i caratteri as-


sunti dal processo di integrazione europea abbiano indebolito struttural-
mente la capacità competitiva dell’UE in termini industriali e tecnologici
sia nei confronti degli USA, sia nei confronti dei nuovi paesi emergenti co-
me Cina, India e Brasile. Il disegno monetarista di Maastricht ha ridotto
le potenzialità di crescita dell’Europa e le ha impedito di cogliere appie-
no le opportunità offerte dalla nuova ondata di innovazioni tecnologiche
e dalla riconfigurazione del mercato mondiale. Le classi dirigenti europee
sono sembrate attente, più che alla sfida esterna, alla lotta di classe inter-
na per realizzare una gigantesca redistribuzione del reddito e della ric-
chezza a vantaggio del capitale, anche a costo di compromettere la capa-
cità competitiva futura. La globalizzazione dei mercati ha consentito al
capitale europeo di condividere finanziariamente i successi della crescita
economica delle altre aree. Il declino economico e politico dell’Europa è
stato il prezzo pagato per aumentare la valorizzazione del capitale euro-
peo. Lungo tutto il corso degli anni Novanta, più che competizione, c’è
stata collaborazione economica e politica tra le classi dominanti dei di-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 167

7. PROPOSTE PER UN’ALTRA EUROPA 167

versi poli capitalistici per accrescere la remunerazione del capitale globa-


le a scapito del lavoro, applicando a ogni situazione nazionale le stesse
identiche ricette del pensiero unico neoliberista. L’allargamento e l’unifi-
cazione monetaria (e non politica) dell’UE si comprendono allora meglio
all’interno del paradigma della globalizzazione neoliberista, piuttosto che
dentro lo schema della geopolitica dell’imperialismo. Oggi, con la crisi
del modello neoliberista, la situazione politica ed economica mondiale è
mutata. Ma sono gli USA di Bush e dei neoconservatori americani ad es-
sere i protagonisti attivi e terribili del tentativo di un nuovo ordine mon-
diale. L’Europa di Maastricht, pensata e costruita quando il pensiero uni-
co trionfava, è invece sulla difensiva, divisa al proprio interno e assedia-
ta, da un lato dalla volontà imperiale degli USA e dall’altro dalla concor-
renza economica della Cina e dei nuovi paesi emergenti. È per queste ra-
gioni, perché le classi dirigenti europee hanno sacrificato l’autonomia po-
litica e sociale dell’Europa ai loro interessi particolari e immediati, che
l’alternativa al neoliberismo si configura oggi come l’unica via non solo
per rendere più giusta ed eguale la società europea, ma anche per fare
dell’Europa una protagonista di pace negli scenari mondiali.
La stabilità monetaria europea è stata perseguita innanzitutto attra-
verso il rigido controllo della dinamica salariale. Il compromesso tra ca-
pitale e lavoro, cardine del modello sociale europeo per un trentennio, si
fondava su una determinazione contrattata in merito alla distribuzione
del reddito. La variabile dipendente non era allora né il profitto, né il sa-
lario, ma una combinazione di entrambi. Gli aggiustamenti si scaricava-
no su ambedue gli assi della distribuzione del reddito. Nell’ultimo ven-
tennio, invece, il salario è diventato l’unica variabile dipendente dell’eco-
nomia, quella che, sola, ha dovuto adattarsi alle mutevoli situazioni eco-
nomiche. Specularmente, quindi, la remunerazione del capitale, nella for-
ma della rendita e del profitto, è stata la sola variabile indipendente a cui
tutto si è dovuto adattare.
Quando il capitale resiste a un mutamento distributivo ad esso sfavo-
revole, si genera inflazione, come negli anni Settanta. Quando invece è il
capitale a voler coercitivamente mutare a proprio favore la distribuzione
del reddito, si genera recessione, come è accaduto a partire dagli anni No-
vanta. Ma affinché queste forzature distributive del capitale, siano esse fi-
nalizzate alla resistenza o all’offensiva, possano avere successo, è sempre
necessaria una politica economica accomodante23. È accaduto ieri con
l’inflazione, resa possibile da politiche monetarie e del cambio adattative,
che hanno impedito il consolidamento della spinta salariale e del muta-
mento delle ragioni di scambio con i paesi produttori di materie prime
negli anni Settanta. Accade oggi con la recessione, che ha strutturalmen-
te indebolito i rapporti di forza sociali a danno dei lavoratori attraverso
una permanente disoccupazione di massa. Infatti il recupero, secco e di-
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168 DOPO IL LIBERISMO

retto, dei margini di profitto, dopo la flessione degli anni Settanta, ha co-
stituito il baricentro attorno a cui è ruotata la politica economica europea
e la prolungata stagnazione dell’Europa ne è la conseguenza. Sta qui dun-
que l’origine dell’orientamento deflattivo che ha contrassegnato l’econo-
mia europea e l’architettura istituzionale fissata nel trattato di Maasticht
ne è stata il suo presupposto.
Ma questa forzosa redistribuzione del reddito a vantaggio del capitale
ha avuto come prezzo l’arresto completo dei meccanismi di crescita del-
l’economia europea. Ciò è avvenuto sia sul fronte della domanda, attra-
verso la contrazione dovuta ai bassi salari e ai tagli alla spesa sociale pub-
blica, sia sul fronte dell’offerta, attraverso le privatizzazioni, gli alti tassi
di interesse, la conseguente finanziarizzazione delle imprese e il loro de-
clino tecnologico. La crisi strutturale in cui versa l’economia europea de-
riva quindi in primo luogo da una distribuzione del reddito incompatibi-
le con la crescita e il rafforzamento qualitativo del sistema produttivo. I
bassi salari sono all’origine non solo del decadimento delle condizioni di
vita dei lavoratori e dei pensionati, ma della stagnazione permanente del-
l’economia europea.
Per queste ragioni l’asse di politica economica da perseguire è quello
del salario e di nuovi diritti del lavoro come variabili indipendenti, della
crescita salariale e dell’introduzione di nuove forme di rigidità positiva
nel mercato del lavoro come obiettivi autonomi e prioritari della politica
economica europea. Non si tratta di provocazione o di nostalgia da re-
duci. È oggi al contrario la bussola indispensabile per rilanciare un nuo-
vo processo di sviluppo economico e sociale in Europa. L’uscita dalla re-
cessione attuale richiede non generici e indiscriminati interventi di espan-
sione della spesa pubblica, ma una coerente azione di politica economica
finalizzata sia all’immediata crescita salariale, attraverso misure dirette di
carattere redistributivo, sia alla sua sostenibilità nel tempo, attraverso in-
terventi pubblici diretti all’ammodernamento e alla riqualificazione del-
l’offerta. In questo quadro è necessario che la politica monetaria comune
integri alla stabilità dei prezzi gli obiettivi della piena occupazione e del-
l’equità distributiva.
Non è questo quindi il tempo della concertazione, della ricerca di un
nuovo compromesso sociale. Esso è stato spezzato dal capitale. Sta qui,
in fondo, in questa illusione volontaristica, l’impotenza e la subalternità
del riformismo europeo, il suo pericoloso velleitarismo. Senza la ricon-
quista delle condizioni di autonomia del mondo del lavoro è privo di sen-
so parlare di un nuovo compromesso sociale.
Per la riconquista di questa autonomia la ripresa di una conflittualità
operaia e sindacale dentro i luoghi di produzione, se rimane una condi-
zione necessaria, non è però assolutamente sufficiente. Nel corso di que-
sti vent’anni il mondo del lavoro dipendente è stato completamente de-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 169

7. PROPOSTE PER UN’ALTRA EUROPA 169

strutturato, fin nelle soggettività, dai processi di riorganizzazione della


produzione e del mercato del lavoro. La liberalizzazione dei mercati ha
mutato strutturalmente i rapporti di forza dentro i luoghi della produ-
zione. Il conflitto distributivo è stato spostato sul terreno generale degli
assetti politici e istituzionali dell’UE e degli Stati nazionali. Solo la tra-
sformazione in senso democratico di questi assetti, la loro permeabilità ai
processi sociali e partecipativi, può consentire una nuova distribuzione
del reddito e, con essa, una nuova stagione di sviluppo economico, so-
ciale e civile dell’Europa.
È da questo nesso stringente tra condizioni sociali e condizioni politi-
co-istituzionali che può derivare un nuovo progetto di costruzione euro-
pea. La necessaria compatibilità tra politica monetaria e politica fiscale al-
l’interno di un’unione monetaria deve essere conseguita non attraverso
draconiane regole automatiche, ma con la definizione di una comune po-
litica fiscale europea che fissi un quadro generale di programmazione al-
le politiche nazionali e promuova un nuovo intervento pubblico nell’eco-
nomia orientato verso obiettivi di sviluppo sociale. L’integrazione delle
politiche fiscali richiede di procedere verso forme più cogenti di unione
politica, e questo implica una radicale trasformazione in senso democra-
tico delle istituzioni europee, a cominciare dalla BCE. Come l’unificazio-
ne dei mercati è stato l’approccio del capitale all’integrazione europea,
l’unificazione politica deve essere l’approccio del lavoro.
In questa nuova prospettiva europeista deve cambiare anche il ruolo
dell’Europa nelle relazioni economiche globali. All’integrazione e alla li-
beralizzazione dei mercati interni, l’approccio neoliberista dell’Europa di
Maastricht ha fatto corrispondere un analogo indirizzo nell’ambito delle
relazioni economiche internazionali. Così in questi anni l’UE si è affianca-
ta agli USA nella spinta verso il modello della globalizzazione neoliberista
che ha enormemente aumentato le disparità tra Nord e Sud del mondo,
innescando su scala mondiale un aggravamento drammatico delle disu-
guaglianze economiche e sociali, corrispondente a quello in atto all’inter-
no dei singoli paesi.
La costruzione di un nuovo, più giusto e democratico, assetto del-
l’Europa dentro i propri confini è anche la condizione per un diverso
ruolo dell’Europa sulla scena mondiale. Abbiamo già detto che l’Euro-
pa, per dimensione economica e per prestigio politico e culturale, deve
farsi promotrice di un nuovo assetto delle relazioni economiche globali
attraverso la convocazione di una conferenza mondiale, promossa dal-
l’ONU, per dare risposte alla crisi strutturale della globalizzazione neoli-
berista, attraverso la definizione delle regole e dell’organizzazione di un
nuovo ordine economico e monetario internazionale, improntato a rela-
zioni eque e paritarie tra Nord e Sud del mondo. FMI, Banca Mondiale e
WTO sono state trasformate in strumenti di governo del progetto neoli-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 170

170 DOPO IL LIBERISMO

berista globale. Per questo sono irriformabili e devono essere sostituite


con nuove istituzioni economiche internazionali, rette da procedure de-
mocratiche e partecipative al loro interno e funzionali a una strategia di
riequilibrio sociale e territoriale. Così come un ordine globale alternati-
vo a quello neoliberista richiede un nuovo sistema monetario interna-
zionale che sostituisca al dominio imperiale del dollaro non quello ipo-
tetico dell’euro, come pensa una parte delle classi dirigenti europee, ma
nuovi strumenti di regolazione monetaria, governati cooperativamente
in funzione dello sviluppo e del riequilibrio sociale globale.
Alla crisi del progetto neoliberista di integrazione europea, la sinistra
deve dunque rispondere non con un atteggiamento difensivo, di rivendi-
cazione autarchica delle prerogative nazionali, perché esso sarebbe ina-
deguato rispetto alle irreversibili trasformazioni strutturali prodotte dalla
globalizzazione. Al contrario, devono essere le forze alternative a farsi
promotrici di un nuovo progetto che porti a compimento l’integrazione
europea e che faccia di questa un veicolo per una trasformazione dell’or-
dine economico globale.
Il progetto è ambizioso, ma a questo livello si collocano oggettiva-
mente le necessità dell’oggi.
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PARTE TERZA
Per un’altra Italia
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8. Il declino dell’Italia

8.1. Il baratro dell’economia italiana

Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, gli anni di Maastricht so-
no stati anni di gelo economico per l’intera Europa. Tuttavia, essi hanno
pesato di più per alcuni paesi. Infatti, la dinamica di crescita economica
e produttiva dentro l’Unione Europea, nei tredici anni che compongono
il periodo considerato, presenta differenziazioni, a volte anche marcate,
come mostra la tabella 11.
L’Irlanda costituisce l’eccezione più clamorosa, con tassi di sviluppo
straordinariamente alti in una prospettiva storica. Questa piccola nazione
dell’arcipelago britannico, fino a non molto tempo fa terra di carestie e di
esodi, sta vivendo una stagione di miracolo economico, recuperando in
tempi da record il ritardo secolare che il brutale giogo imperiale inglese le
aveva imposto fino all’inizio del secolo scorso1. Tuttavia, Irlanda a parte, ne-
gli altri paesi dell’UE la variabilità dei tassi di crescita è ugualmente consi-
derevole. Le nazioni mediterranee della penisola iberica e di quella elleni-
ca hanno fatto registrare ritmi di sviluppo superiori dal 50 per cento al 70
per cento della media europea. Nell’Europa continentale e nordica, Lus-
semburgo, Olanda, Austria, Danimarca, Svezia, Finlandia e Belgio hanno
conosciuto una crescita economica superiore alla media, sia in termini as-
soluti che pro capite. La stessa cosa è accaduta per la Gran Bretagna. Os-
servando i dati, ci accorgiamo allora che sono solo tre, sui quindici che
compongono l’UE, i paesi che si trovano sotto la media e sono proprio i tre
maggiori paesi dell’area dell’euro. La Germania ha sicuramente dovuto
scontare il peso della repentina riunificazione nazionale, avvenuta all’inizio
del periodo di Maastricht, che le ha imposto un poderoso sforzo di ristrut-
turazione generale del sistema economico e sociale. La Francia è appena di
poco sotto la media per quanto attiene la crescita del PIL, mentre invece la
produzione industriale è perfettamente in linea con l’andamento medio.
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 174

174 DOPO IL LIBERISMO

PIL Produzione
PIL
pro capite industriale(1)

Italia 1,4 1,2 0,8

Belgio 1,9 1,6 1,2

Germania 1,5 1,3 0,9

Grecia 2,7 2,1 1,1

Spagna 2,6 2,2 1,6

Francia 1,7 1,3 1,3

Irlanda 6,6 5,6 11,5

Lussemburgo 4,6 3,3 2,2


Olanda 2,3 1,7 1,2
Austria 2,1 1,8 3,3
Portogallo 2,4 2,0 1,4
Finlandia 1,9 1,6 4,2
UEM 1,8 1,5 1,3
Danimarca 2,0 1,7 2,5
Svezia 1,9 1,6 2,3
Gran Bretagna 2,3 2,0 0,5
Unione Europea 1,9 1,6 1,2

(1) Escluse le costruzioni.

Tabella 11. La crescita in Europa negli anni di Maastricht. Tassi medi annui di variazio-
ne per singoli paesi (1991-2003). (Fonte: European Commission, 2004).

Chi invece brilla in termini di performance economica negativa è l’Italia. Il


nostro paese presenta tassi di crescita del PIL, assoluto e pro capite, inferiori
del 25 per cento rispetto alla media europea e addirittura è sotto del 40 per
cento per la produzione industriale. L’economia italiana ha dunque avuto
l’andamento peggiore tra tutte le economie europee. Questo dato grezzo,
così negativo in un confronto internazionale, è il primo indizio che ha fat-
to scattare l’allarme per un declino economico e industriale del paese2.
Il pessimo andamento dell’economia italiana trova un’ulteriore confer-
ma nella forte perdita di peso e di ruolo del nostro paese nell’economia in-
ternazionale. La tabella 12 mostra la quota delle esportazioni dei paesi del-
l’UE sulle esportazioni mondiali dall’inizio del periodo di Maastricht a oggi.
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 175

8. IL DECLINO DELL’ITALIA 175

Tasso di cambio
Paesi Quota 1991(1) Quota 2002(1) Variazione %
reale(2)
Italia 5,0 3,8 - 24,0 - 9,9

Belgio-Lussemburgo 3,3 3,3 0 0(3)

Germania 10,5 8,9 - 15,2 - 3,3

Grecia 0,4 0,4 0 0

Spagna 2,0 2,3 + 15,0 + 15,0

Francia 6,6 5,2 - 21,2 - 16,1

Irlanda 0,6 1,4 + 133,3 + 100

Olanda 3,8 3,7 -2,6 + 15,6


Austria 1,5 1,4 -6,7 0

Portogallo 0,5 0,5 0 0

Finlandia 0,6 0,6 0 0

UEM 34,8 31,6 - 9,2 - 3,7

Danimarca 1,2 1,0 - 16,7 - 9,1


Svezia 1,6 1,3 - 18,8 0

Gran Bretagna 5,5 5,0 - 9,1 - 2,0


Unione Europea 43,1 39,1 - 9,3 - 3,9

(1) Quota misurata a prezzi correnti.


(2) Variazione percentuale media dell’intero periodo 1991-2002 (base 1995 = 100). Il segno meno indica un mi-
glioramento della competitività di prezzo delle esportazioni; il segno più un peggioramento.
(3) Il dato si riferisce alla valuta belga.

Tabella 12. Quote di esportazioni di beni e servizi sul mercato mondiale e competitività
di prezzo dei paesi dell’UE (1991 e 2002). (Fonte: nostre elaborazioni su dati WTO, 2002
e 2003 e European Commission, 2004).

Nell’ambito di una netta flessione del peso dell’UE nel suo complesso
sul commercio globale (-9,3 per cento), la situazione dei singoli paesi è
molto variegata. Solo l’Irlanda, che ha più che raddoppiato il proprio pe-
so commerciale, e la Spagna hanno aumentato la quota detenuta dai loro
prodotti sul mercato mondiale. Belgio, Grecia, Portogallo, Finlandia e, a
fatica, Danimarca, Gran Bretagna, Svezia, Olanda e Austria hanno so-
stanzialmente tenuto le posizioni, mentre sono di nuovo i tre maggiori
paesi europei ad arretrare significativamente. Anche in questo caso, tutta-
via, nessuno è andato così male come l’Italia, che nel giro di poco più di
un decennio ha perso un quarto del proprio peso economico globale, pas-
sando dal 5 per cento al 3,8 per cento nella quota delle esportazioni mon-
diali, tornando ai livelli di mezzo secolo fa. Come si può osservare dall’ul-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 176

176 DOPO IL LIBERISMO

tima colonna della tabella, questa rilevante perdita di competitività non è


da addebitare per l’Italia a una dinamica sfavorevole dei prezzi interna-
zionali dei nostri prodotti. Se consideriamo, infatti, l’evoluzione del tasso
di cambio reale effettivo, cioè del tasso di cambio nominale depurato dal
differenziale di inflazione tra l’Italia e gli altri paesi, ci accorgiamo che, nel
corso del periodo considerato, la moneta italiana, prima la lira e poi l’eu-
ro, si è in media svalutata dello 0,9 per cento all’anno. In altri termini, nel
2003 i prodotti italiani sui mercati esteri sono costati in termini reali circa
il 10 per cento in meno di quanto costavano nel 1991 e, nonostante ciò,
sono risultati molto meno attraenti per i consumatori del resto del mondo.
Considerando che il deprezzamento medio all’interno dell’UE è stato infe-
riore a quello italiano, dobbiamo concludere che la maggiore perdita di

PIL PIL
Periodo
reale pro capite

La costruzione dello Stato unitario 1862-73 3,8 1,2


La grande depressione 1874-87 0,6 - 0,1
La grande depressione 1888-96 - 0,1 - 0,5
La “belle époque” 1897-1913 3,1 2,2
La prima guerra mondiale e la ricostruzione 1914-26 2,2 0,9
La grande crisi e l’autarchia 1927-39 2,1 1,5
La seconda guerra mondiale 1940-48 - 0,8 - 1,5
La ricostruzione 1949-56 6,6 5,0
Il boom economico 1957-68 6,9 6,2
La “crisi” 1969-76 4,1 3,5
La ristrutturazione industriale 1977-90 2,7 2,6
Gli anni di Maastricht 1991-2003 1,4 1,2
Media 1862-2003 2,5 1,8
Media 1862-1913 2,0 0,9
Media 1914-48 1,4 0,5
Media 1949-90 4,0 3,4

Tabella 13. La crescita economica in Italia dall’Unità a oggi (1862-2003). Tassi medi an-
nui di variazione in percentuale. (Fonte: per il periodo 1862-1968 De Mattia, 1994; per il
periodo 1969-2003, European Commission, 2004).
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 177

8. IL DECLINO DELL’ITALIA 177

competitività dell’Italia rispetto alla media europea non può essere adde-
bitata a fattori di prezzo, ma trova la sua spiegazione in fenomeni più
profondi, di carattere strutturale, che hanno investito la nostra economia.
Vedremo successivamente il carattere di questi fenomeni.
Spostiamoci invece ora a esaminare l’andamento dell’economia italia-
na negli anni di Maastricht in una prospettiva storica di lungo periodo.
Nella tabella 13 abbiamo suddiviso l’intero periodo storico di esistenza
dello Stato unitario italiano in dodici sottoperiodi, corrispondenti a par-
ticolari fasi di sviluppo dell’economia e della società italiane.
Come si può osservare, negli oltre 140 anni di storia dello Stato italia-
no, soltanto in tre periodi la crescita del PIL reale è stata inferiore a quel-
la degli anni di Maastricht. Si tratta dell’ultimo quarto del XIX secolo
(1874-96), quando l’intera economia europea attraversò una lunga fase di
depressione, caratterizzata da una universale stagnazione della crescita
economica, e, ovviamente, degli anni a cavallo della seconda guerra mon-
diale (1940-48). Negli anni della prima guerra mondiale e della ricostru-
zione (1914-26) il tasso di crescita del PIL reale è stato superiore in ter-
mini assoluti ma leggermente inferiore in termini pro capite, a causa di
una forte dinamica di incremento demografico negli anni immediata-
mente successivi alla grande guerra. In tutti gli altri periodi, compreso
quello della grande crisi degli anni Trenta (1927-39), la crescita economi-
ca è stata nettamente maggiore rispetto al periodo attuale. Allungando la
prospettiva, verifichiamo che nel corso dell’intera storia dello Stato uni-
tario (1862-2003) la crescita media annua del PIL è stata di oltre un pun-
to percentuale superiore a quella degli anni di Maastricht; nei primi qua-
rant’anni del secondo dopoguerra (1949-90) è stata addirittura il triplo.
In termini di crescita economica gli anni di Maastricht sono paragonabi-
li al periodo più fosco e terribile attraversato dall’Italia nell’intero arco
della sua storia, quello che comprende le due guerre mondiali, la grande
crisi degli anni Trenta e la dittatura fascista (1914-48).
Il quadro attuale diventa ancora più buio se guardiamo all’andamento
della produzione industriale nel lungo periodo. Come si vede dalla tabel-
la 14, se si eccettuano le due guerre mondiali, quando le distruzioni ma-
teriali ridussero drasticamente la capacità produttiva, mai nella storia uni-
taria l’industria italiana era cresciuta così poco come oggi, nemmeno nel-
l’Italia contadina della seconda metà dell’Ottocento. Il tasso medio an-
nuo di crescita della produzione industriale lungo l’intero periodo di sto-
ria unitaria è stato più del triplo (2,6 per cento) di quello degli ultimi tre-
dici anni (0,8 per cento). Nei terribili decenni della prima metà del seco-
lo scorso (1914-49) il ritmo di sviluppo dell’industria italiana è stato co-
munque il doppio di quello degli anni di Maastricht.
In conclusione, nel panorama dei paesi industriali l’Italia è quello che va
peggio di tutti e continua a perdere rapidamente posizioni. In una pro-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 178

178 DOPO IL LIBERISMO

Produzione
Periodo
industriale(1)
1862-97 1,1
1898-1913 3,9
1914-21 0
1922-38 3,6
1939-49 0
1950-67 6,7
1968-73 5
1974-90 2,5
1991-03 0,8
Media 1862-2003 2,6
Media 1862-1913 2,0
Media 1914-49 1,7
Media 1950-90 4,7
(1) Escluse le costruzioni

Tabella 14. Produzione industriale in Italia dall’Unità a oggi (1862-2003). Tassi medi an-
nui di variazione in percentuale. (Fonte: per il periodo 1862-1967, Fuà, 1983; per il pe-
riodo 1968-2003, European Commission, 2004).

spettiva storica, il periodo di Maastricht risulta il peggiore, in termini di cre-


scita economica e industriale, rispetto a tutti gli altri periodi di pace attra-
versati dall’Italia, da quando la nostra nazione è diventata uno Stato unita-
rio. Ci troviamo, insomma, di fronte a una crisi di portata epocale, ancora
sottovalutata, nonostante gli allarmi e le preoccupazioni crescenti, nelle sue
reali dimensioni. Più che di declino, è più appropriato parlare, senza esa-
gerazioni, di vera e propria precipitazione dell’economia italiana. Vediamo
che cosa è successo e perché all’economia italiana negli anni di Maastricht.

8.2. Perché così male?

Per tentare di comprendere le vere ragioni della grave crisi strutturale


dell’economia italiana nell’era di Maastricht adottiamo lo stesso procedi-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 179

8. IL DECLINO DELL’ITALIA 179

mento analitico già usato per ricercare le cause del declino europeo. Ini-
ziamo osservando la scomposizione della crescita economica italiana nei
fattori di offerta e il raffronto con l’andamento medio delle stesse varia-
bili nell’UEM (vedi tabella 15).

1991-95 1996-00 2001-03 1991-03


Fattori di offerta
Italia UEM Italia UEM Italia UEM Italia UEM

Progresso tecnico 1,1 0,9 0,7 0,9 - 0,6 - 0,1 0,6 0,8

+ Accumulazione del capitale 0,6 0,8 0,6 0,7 0,6 0,6 0,6 0,7

+ Ore medie annue di lavoro per addetto - 0,2 - 0,2 - 0,2 - 0,4 - 0,3 - 0,1 - 0,2 - 0,3

+ Occupati - 0,2 0 0,7 1,4 1,1 0,5 0,4 0,6

= PIL REALE 1,3 1,5 1,8 2,6 0,8 0,9 1,4 1,8

- Popolazione 0,2 0,3 0,2 0,3 0,2 0,4 0,2 0,3

= PIL REALE PRO CAPITE 1,1 1,2 1,6 2,3 0,6 0,5 1,2 1,5

Tabella 15. Crescita economica nell’Italia e nell’UEM. Contributo medio annuo dei fat-
tori di offerta (1991-2003). (Fonte: nostre elaborazioni su dati European Commission,
2004, OECD, Employment Outlook, Statistical Annex vari anni e ministero dell’Econo-
mia e delle Finanze, 2003).

Lungo l’intero periodo considerato (1991-2003) la minore crescita del-


l’Italia rispetto alla media dell’area dell’euro è da ascriversi per i tre quar-
ti a fattori attinenti la dinamica del progresso tecnico e dell’accumulazio-
ne del capitale e solo per il restante quarto a un ridotto contributo del la-
voro. In particolare, nel corso del periodo si assiste a una drammatica per-
dita di efficienza tecnica e organizzativa dell’apparato produttivo italiano.
Mentre nella prima metà degli anni Novanta l’Italia presentava un tasso di
miglioramento tecnico superiore a quello medio europeo, a partire dalla
seconda metà del decennio si assiste a una repentina inversione della ten-
denza, che nei primi tre anni del nuovo secolo sfocia addirittura in un con-
sistente regresso dell’efficienza complessiva del sistema economico. Se è
vero che parte di questo cambiamento deriva dalla fase congiunturale ne-
gativa, rimane tuttavia da spiegare perché nel nostro paese l’inversione
del ciclo economico abbia prodotto un peggioramento dell’efficienza
produttiva sei volte maggiore di quello avvenuto negli altri paesi del-
l’UEM. D’altra parte la medesima tendenza si era manifestata, sia pure in
misura più ridotta, anche nei cinque anni precedenti, cioè in una fase di
alta congiuntura. Essa non è quindi spiegabile con fenomeni ciclici ma è
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 180

180 DOPO IL LIBERISMO

il segno di una difficoltà strutturale del sistema produttivo italiano, che


sta accumulando un ritardo tecnologico e organizzativo rispetto agli altri
paesi europei e, con una intensità travolgente, rispetto all’economia sta-
tunitense.

8.3. La precarizzazione del lavoro

Se passiamo a osservare il contributo del fattore lavoro alla crescita


economica, possiamo verificare nella tabella 15 come nel corso del perio-
do di Maastricht l’effetto negativo della riduzione dell’orario medio an-
nuo di lavoro sia stato marginale e più che compensato dalla crescita de-
gli occupati. Rispetto all’andamento delle ore-lavoro per addetto verifi-
catosi nell’UEM, in Italia la riduzione è stata inferiore, tanto che questo
fattore ha contribuito a ridurre il gap di crescita del PIL italiano nei con-
fronti di quello europeo. La crescita degli occupati ha avuto un balzo a
partire dalla seconda metà degli anni Novanta, in coincidenza con l’in-
troduzione di massicce misure di deregolamentazione e di precarizzazio-
ne del mercato del lavoro. Tra il 1990 e il 2003 la quota del lavoro part-
time sull’occupazione totale è passata dall’8,8 al 12 per cento3 e questo in-
cremento è in grado di dar conto integralmente della riduzione delle ore-
lavoro per addetto. Infatti, i dati dell’OECD mostrano che in questo pe-
riodo le ore-lavoro medie annue degli occupati maschi a tempo pieno in
Italia sono cresciute dello 0,2 per cento, mentre le donne occupate a tem-
po pieno hanno avuto una riduzione del 2,8 per cento, compensata in
parte dall’aumento dello 0,4 per cento delle ore-lavoro delle lavoratrici
part-time. Secondo le rilevazioni della Banca d’Italia sulle imprese indu-
striali e dei servizi le ore-lavoro annue complessive per occupato nel set-
tore dell’industria manifatturiera sono addirittura aumentate, passando
dalle 1.581 del 1990 alle 1.620 del 2003. Ciò deriva in gran parte dall’au-
mento del lavoro straordinario, che nel periodo considerato incide per
circa il 5 per cento delle ore-lavoro complessive nelle imprese industriali
con più di quarantanove addetti. Per l’Italia ancor più che per l’Europa,
dunque, la riduzione dell’orario medio annuo di lavoro non può essere,
in alcun modo, assunta come possibile spiegazione delle difficoltà di cre-
scita economica, perché essa, oltre ad essere quantitativamente irrilevan-
te, non deriva in ogni caso da comportamenti volontari dei lavoratori, ma
dalle trasformazioni subite dal rapporto di lavoro.
Infatti, oltre al lavoro part-time, anche l’occupazione atipica in Italia è
cresciuta a ritmi superiori a quelli dell’espansione dell’occupazione tota-
le4. Nel periodo 1996-2002 il lavoro flessibile è cresciuto a un tasso medio
annuo del 6,8 per cento, sette volte più rapido di quello dell’occupazione
totale. Nel 2003 soltanto il 33,9 per cento delle nuove assunzioni avveni-
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8. IL DECLINO DELL’ITALIA 181

va con un contratto a tempo indeterminato, mentre ben il 44,1 per cento


assumeva la forma del tempo determinato, l’11,8 per cento del lavoro sta-
gionale e il 10,2 per cento del contratto di formazione e lavoro o di ap-
prendistato. Il carattere residuale dell’occupazione a tempo indetermina-
to non si manifesta soltanto in alcuni settori dei servizi come il commer-
cio e il turismo, da sempre contrassegnati da una più marcata precarizza-
zione del lavoro, ma anche nel settore dell’industria manifatturiera, un
tempo culla dell’agognato posto fisso insieme alla pubblica amministra-
zione, dove nel corso del 2003 oltre il 70 per cento delle nuove assunzio-
ni sono avvenute con tipologie contrattuali atipiche. L’occupazione di-
pendente totale nell’industria e nei servizi è ormai composta per poco me-
no di un quarto da lavoratori atipici, che si avviano a raggiungere la rag-
guardevole cifra di due milioni e mezzo di addetti assunti con un contrat-
to diverso da quello a tempo pieno e indeterminato. Il lavoro precario ri-
sulta molto più diffuso tra gli operai (73,2 per cento di nuove assunzioni
in forma atipica) che non tra i dirigenti e gli impiegati (59,7 per cento), a
dimostrazione che erano tutte fandonie le motivazioni addotte a sostegno
della deregolamentazione del mercato del lavoro, con l’argomento che es-
sa era funzionale all’utilizzo flessibile della manodopera più qualificata,
addetta a mansioni non manuali.
Le forme contrattuali atipiche più diffuse sono quelle del lavoro inte-
rinale e della collaborazione coordinata e continuativa, la cui diffusione
ha ormai superato il milione di lavoratori, dei quali oltre 110.000 attivi
nella pubblica amministrazione, arrivando a rappresentare il 5 per cento
della forza lavoro totale. Sono, queste, forme contrattuali contrassegnate
da una notevole dose di flessibilità e di precarietà. La collaborazione coor-
dinata e continuativa è di fatto un rapporto di lavoro dipendente a tutti
gli effetti, ma privo dei diritti previdenziali, assistenziali, sindacali, di ferie
e di malattia tipici del lavoro dipendente. Il lavoro interinale è, invece,
una moderna forma del vecchio caporalato bracciantile, un tempo mol-
to diffuso e mai sradicato del tutto nelle campagne meridionali, poiché si
configura come un affitto di manodopera: il lavoratore iscritto a un’a-
genzia di lavoro interinale attende la “chiamata” per lavorare e guada-
gnare, anche solo per pochi giorni, a seconda della necessità dell’impre-
sa affittuaria. Ad esempio, nell’anno 2001 i lavoratori atipici hanno in
media avuto pagate soltanto diciassette giornate lavorative ogni mese5. E
per gli altri tredici giorni che compongono il mese di che cosa dovreb-
bero campare? D’aria?
La diffusione del lavoro atipico a partire dalla seconda metà degli anni
Novanta è dovuta alle modifiche del nostro ordinamento del lavoro intro-
dotte nel 1997 con il cosiddetto “pacchetto Treu”, un insieme di misure
proposte dall’allora ministro del Lavoro del governo Prodi e tendenti a de-
regolamentare il mercato del lavoro. È facile prevedere che nei prossimi
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 182

182 DOPO IL LIBERISMO

anni l’occupazione atipica, flessibile e precaria continuerà ad aumentare a


ritmi crescenti. Infatti con il decreto legislativo n. 276 del 10 settembre
2003, varato dal governo Berlusconi in applicazione della Legge 30 del 14
febbraio 2003, la deregolamentazione delle forme contrattuali del rappor-
to di lavoro ha raggiunto un livello di vera e propria esasperazione. Dopo
questi provvedimenti il mercato del lavoro italiano è caratterizzato dalla
presenza di ben 21 forme di lavoro atipico, con 48 modalità diverse di ap-
plicazione, di cui 20 prive di tutele previdenziali6. È inutile in questa sede
addentrarsi nei meandri della fantasia giuridica della riforma berlusconia-
na del mercato del lavoro7, basta soltanto affermare il concetto che so-
stanzialmente nel nostro paese il diritto del lavoro è stato cancellato e so-
stituito con il diritto dell’impresa a utilizzare il lavoro salariato nelle forme
e nei modi che ritiene di volta in volta più convenienti.
Eppure, nonostante l’estrema precarietà che ormai coinvolge l’intero
universo del lavoro dipendente, la disoccupazione nel nostro paese conti-
nua ad avere dimensioni di massa. Nel periodo 1990-2003 il tasso di di-
soccupazione medio annuo è stato, secondo le misure standardizzate del-
l’OECD, del 9,6 per cento, più di un punto al di sopra della media dell’UE8.
Il tasso di partecipazione alla forza lavoro nella fascia di età tra i quindici
e i sessantaquattro anni continua ad essere, nonostante un lieve incremen-
to negli ultimi anni, il più basso tra quello di tutti i paesi industriali (il 61,6
per cento nel 2003 contro il 70,3 per cento medio dell’UE), a dimostrazio-
ne che il fenomeno della disoccupazione è ancora più vasto di quello in-
dicato dalle statistiche, a causa di un elevato effetto di scoraggiamento nel-
la ricerca di un lavoro che non c’è. A soffrire di più della mancanza di oc-
cupazione sono le donne, con un tasso di disoccupazione che nel 2003 era
ancora pari all’11,7 per cento e un tasso di partecipazione al lavoro pari ad
appena il 48,3 per cento, e i giovani, il cui tasso di disoccupazione nella fa-
scia di età tra i quindici e i ventiquattro anni è stato nel 2003 dell’ordine
del 26,3 per cento, ben dodici punti sopra la media dell’UE. Altra grave ca-
ratteristica negativa dell’Italia è il grado di persistenza della condizione di
disoccupazione: nel 2003 i tre quarti dei disoccupati erano alla ricerca di
un lavoro da oltre sei mesi e ben il 58,2 per cento da oltre un anno, con-
tro una media europea, rispettivamente, del 61,3 per cento e del 41,4 per
cento. Infine, altra non invidiabile peculiarità della disoccupazione italia-
na è il grado di concentrazione territoriale del fenomeno. I due terzi del
totale dei disoccupati sono concentrati nelle regioni del Mezzogiorno, do-
ve il tasso di disoccupazione ancora oggi supera il 18 per cento della for-
za lavoro e dove soltanto tre persone su dieci abitanti svolgono un’attività
lavorativa, perlomeno un’attività lavorativa regolarmente censita.
Questi dati dimostrano in maniera inequivocabile che il fenomeno del-
la disoccupazione ha in Italia caratteristiche strutturali, direttamente col-
legate agli squilibri territoriali e settoriali del nostro sistema economico.
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 183

8. IL DECLINO DELL’ITALIA 183

Esso, quindi, non può essere sconfitto né con misure puramente con-
giunturali né tanto meno con l’estensione della precarietà del lavoro. Lo
smantellamento delle garanzie e dei diritti dei lavoratori, avvenuto nel
corso degli ultimi anni, ha spesso avuto come effetto soltanto quello di
sostituire un lavoratore stabile con due mezzi disoccupati, aggravando,
anziché risolvendo come pretendevano i fautori della deregolamentazio-
ne, la piaga della scarsità cronica di un lavoro adeguato, in grado di assi-
curare condizioni di vita dignitose, che colpisce da tempi immemorabili
la popolazione italiana e in particolare quella delle regioni meridionali9.

8.4. L’obsoleta specializzazione produttiva dell’economia italiana

Passando all’esame della dinamica delle componenti della domanda


(vedi tabella 16), si può osservare come gli investimenti abbiano avuto un
andamento analogo a quello medio dell’UEM, che, come abbiamo visto
nel capitolo 3, è stato nettamente inferiore a quello statunitense. La spe-
sa per consumi delle famiglie italiane è cresciuta leggermente meno di
quella europea. La minore crescita economica dell’Italia rispetto all’UEM
è invece interamente dovuta alle altre due componenti della domanda, la
spesa pubblica e le esportazioni.

1991-95 1996-00 2001-03 1991-03


Componenti della domanda
Italia UEM Italia UEM Italia UEM Italia UEM

Consumi pubblici - 0,2 1,8 0,9 1,6 2,7 2,5 0,9 1,9

Consumi privati 0,9 1,3 2,6 2,5 0,9 1,1 1,5 1,7

Investimenti -1 0 4,3 4,0 0,3 - 1,2 1,3 1,3

DOMANDA INTERNA 0,3 1,1 2,4 2,6 1,3 0,6 1,4 1,6

Esportazioni 7,4 5,6 4 7,9 - 1,9 1,5 4 5,6

Importazioni 3 4,1 6,3 8,2 - 0,1 1,1 3,5 5

PIL 1,3 1,5 1,8 2,6 0,8 0,9 1,4 1,8

Tabella 16. La crescita della domanda nell’Italia e nell’UEM (1991-2003). Tassi medi an-
nui di variazione in termini reali a prezzi 1995. (Fonte: nostre elaborazioni su dati Euro-
pean Commission, 2004).

È interessante analizzare l’andamento delle diverse variabili nei tre


sottoperiodi considerati. Nei primi anni Novanta l’effetto diretto della
stretta fiscale sulla domanda interna è stato violento, tanto che i consu-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 184

184 DOPO IL LIBERISMO

mi pubblici sono diminuiti in valore assoluto lungo l’arco del quin-


quennio, contribuendo alla stagnazione della domanda interna. La po-
litica fiscale restrittiva ha così agito in senso prociclico, accentuando i
contraccolpi negativi della bassa congiuntura dei primi anni Novanta.
In questo periodo l’apporto delle esportazioni alla domanda finale è
stato quello preponderante e ha evitato che l’economia italiana dalla
stagnazione sprofondasse in una vera e propria recessione. È stato que-
sto l’effetto del brusco deprezzamento del tasso di cambio della lira, do-
po la crisi valutaria del settembre 1992 e l’uscita dal Sistema Monetario
Europeo, che ha ridato fiato alla declinante competitività italiana10. A
partire dalla seconda metà degli anni Novanta, venuta meno la possibi-
lità di svalutazione della lira, la crescita delle esportazioni si indebolisce
fino a esaurirsi del tutto. L’inversione di tendenza è stata brusca e rapi-
dissima e mostra un’accelerazione drammatica negli ultimi anni, quando
le esportazioni si sono addirittura ridotte in termini reali assoluti (-1,9
per cento).

1991-95 1996-00 2001-03 1991-03


Componenti della domanda
Italia UEM Italia UEM Italia UEM Italia UEM

Consumi pubblici - 0,1 0,6 0,4 0,7 0,7 0,8 0,3 0,7

+ Consumi privati 0,6 0,4 1,3 1,1 0,3 0,3 0,8 0,6

+ Investimenti - 0,2 0 0,8 0,8 0 - 0,2 0,2 0,3

+ Variazione delle scorte 0 0,1 - 0,2 - 0,1 0,3 - 0,1 0 - 0,1

= DOMANDA INTERNA 0,3 1,1 2,3 2,5 1,3 0,8 1,3 1,5

+ Esportazioni nette 1 0,4 - 0,5 0,1 - 0,5 0,1 0,1 0,3

= PIL 1,3 1,5 1,8 2,6 0,8 0,9 1,4 1,8

Tabella 17. La crescita economica nell’Italia e nell’UEM. Contributo medio annuo delle
componenti della domanda (1991-2003). (Fonte: nostre elaborazioni su dati European Com-
mission, 2004).

Le stesse dinamiche le possiamo osservare dalla tabella 17, dove la cre-


scita del PIL è stata scomposta sulla base del contributo ad essa dato dal-
le varie componenti della domanda.
Di nuovo, rispetto alla media dell’UEM, si vede come siano stati i con-
sumi pubblici e le esportazioni nette i fattori principali del declino relativo
dell’economia italiana dal lato della domanda. Da notare il fatto che l’ap-
porto delle esportazioni nette alla crescita economica cambia di segno e l’I-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 185

8. IL DECLINO DELL’ITALIA 185

talia torna ad essere un paese cronicamente deficitario sul piano delle par-
tite correnti.
Se la riduzione della spesa pubblica è addebitabile al rigore e alla disci-
plina fiscale, realizzata attraverso massicci tagli al bilancio pubblico, da che
cosa è invece derivato il calo delle esportazioni, così accentuato nell’ultima
fase, quando, con l’entrata nell’euro, non è stato più possibile recuperare
temporaneamente, attraverso svalutazioni competitive della lira, il deficit
di competitività delle nostre merci? È questo l’effetto macroeconomico
della specializzazione internazionale del nostro paese11. L’Italia si caratte-
rizza, rispetto alle altre economie con analogo livello di sviluppo, per una
accentuata distorsione della struttura settoriale della produzione e delle
esportazioni verso prodotti a medio-basso contenuto tecnologico e a scar-
sa dinamica innovativa. I punti di forza delle nostre esportazioni sono in-
fatti i beni di consumo tradizionali legati alla persona e alla casa (tessile-ab-
bigliamento, pelli e calzature, mobili, elettrodomestici, ecc.) e le macchine
e le attrezzature per la produzione dei beni di consumo tradizionale. For-
te è invece la debolezza della struttura produttiva italiana nei settori ad al-
ta intensità di ricerca e sviluppo (computer, informatica, elettronica, tele-
comunicazioni, biotecnologie, ecc.) e a forti economie di scala industriali e
commerciali (chimica, metallurgia, mezzi di trasporto, software, ecc.).
La struttura del commercio internazionale dell’Italia è la più polariz-
zata all’interno dell’area dell’euro e, contemporaneamente, anche la più
statica. La Spagna, infatti, che per molti versi presenta analogie con l’Ita-
lia sul piano della composizione merceologica dei prodotti esportati, ma-
nifesta un grado di convergenza verso i modelli produttivi dell’Europa
continentale, in specie di quello tedesco e francese a più alta intensità di
capitale umano impiegato, ben più rapido di quello italiano12. Ciò rende
il nostro paese più vulnerabile a mutamenti improvvisi delle condizioni di
offerta o di domanda che colpiscono singoli settori produttivi e alle va-
riazioni della politica monetaria e del tasso di cambio comune, perché ac-
centua l’impatto generale di specifiche e circoscritte fluttuazioni erratiche
delle grandezze economiche.
Questa particolare specializzazione, che avvicina l’Italia più ai paesi
emergenti dell’Asia che ai paesi industriali dell’Occidente, comporta, inol-
tre, altre due conseguenze negative. La prima consiste nel fatto che le no-
stre esportazioni sono più soggette alla concorrenza dei paesi in via di svi-
luppo, che possono offrire i medesimi prodotti a prezzi notevolmente in-
feriori. La maggiore qualità stilistica delle produzioni italiane, derivante
dalla creatività del sistema moda e dal più curato design, non può soppe-
rire, se non per limitate nicchie di consumo di fascia alta, all’influsso ne-
gativo del fattore prezzo. La seconda conseguenza negativa è di carattere
dinamico. Man mano che il reddito cresce, la domanda dei consumatori
tende a rivolgersi in maniera prevalente verso i nuovi beni di consumo ri-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 186

186 DOPO IL LIBERISMO

spetto a quelli tradizionali. Si riduce cioè il peso del consumo di beni le-
gati alle necessità materiali di sopravvivenza (cibo, vestiti, arredamento di
base) e cresce la quota di reddito spesa in consumi tecnologici o ad ele-
vato contenuto di conoscenza. Questa tendenza determina come effetto
che la domanda di beni di consumo tradizionali si espande molto più len-
tamente della domanda totale. In altri termini, la dimensione del mercato
per le esportazioni italiane tende, relativamente al mercato totale, a ridur-
si nel tempo. La competizione, all’interno di un mercato che va restrin-
gendosi, diventa sempre più feroce e il fattore prezzo tende ad assumere
un’importanza decisiva. Inoltre, poiché anche le preferenze dei consuma-
tori italiani si orientano sempre più verso prodotti tecnologici, il vincolo
estero diventa sempre più stringente. Osservando i dati ISTAT sulla com-
posizione della bilancia commerciale italiana nel 2003 possiamo verifica-
re che il deficit nei conti con l’estero è concentrato, oltre che nel settore
energetico (-25 miliardi di euro), nei settori manifatturieri a più elevato li-
vello tecnologico: chimica (-9,5 miliardi di euro), macchine elettriche ed
elettroniche (-9,7 miliardi di euro), mezzi di trasporto (-9,8 miliardi di eu-
ro), agroalimentare (-8 miliardi di euro), metallurgia e siderurgia (-2,5 mi-
liardi di euro). È sempre più difficoltoso riuscire a compensare questi sal-
di negativi esportando articoli di abbigliamento, calzature, mobili, gioiel-
li, ceramica e piastrelle, articoli in plastica e piccoli macchinari.
La particolare specializzazione produttiva rende l’Italia molto più vul-
nerabile degli altri paesi europei alla impetuosa ascesa della Cina come
potenza economica mondiale. Quest’ultima ha già abbondantemente su-
perato il nostro paese nella graduatoria dei principali esportatori. Per
avere la dimensione della pressione concorrenziale cinese sulle esporta-
zioni italiane è utile esaminare la variazione della quota di mercato mon-
diale detenuta dai due paesi nei settori di specializzazione dell’economia
italiana (vedi tabella 18).
La tabella si riferisce ai macrosettori produttivi dove la quota di espor-
tazioni italiane sul mercato mondiale è maggiore della quota media dete-
nuta dal nostro paese sul totale delle merci. Come si può osservare, la cre-
scita delle esportazioni cinesi è travolgente proprio nei settori di forza del
nostro apparato produttivo e a questa ascesa corrisponde una marcata di-
scesa dei prodotti italiani venduti all’estero, con la sola eccezione del set-
tore del tessile-abbigliamento, che finora ha retto meglio degli altri. Di
fronte a tale preoccupante andamento, negli ultimi tempi si sono moltipli-
cate in Italia le richieste di misure protezionistiche contro la concorrenza
cinese, che hanno trovato la loro voce più autorevole nell’ex ministro del-
l’Economia Giulio Tremonti. Queste tentazioni difensive non avrebbero
nessun effetto positivo nel medio periodo, non solo perché inneschereb-
bero reazioni contro le esportazioni italiane, ma soprattutto perché non
potrebbero in alcun modo portare al necessario mutamento della nostra
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 187

8. IL DECLINO DELL’ITALIA 187

1990 2002
Settori produttivi
Italia Cina Italia Cina

Sistema moda: beni di consumo 12,9 5,4 9,6 17,2

Sistema moda: beni di consumo: prodotti tessili 11,3 4,4 11,8 11,2

Sistema casa: arredamento ed elettodomestici 15,7 2,9 12,1 17,8

Prodotti in metallo 7,6 1,5 6,9 6,5

Meccanica 8,3 0,4 7,7 2,6

Tabella 18. Quota dell’Italia e della Cina sulle esportazioni mondiali nei settori di spe-
cializzazione produttiva italiana (1990 e 2002). (Fonte: ICE, 2003).

specializzazione produttiva. Al contrario, esse avrebbero un effetto per-


verso, contribuendo a incentivare l’immobilismo delle nostre imprese. Se
qualche forma di protezionismo deve essere adottata nel nostro paese, es-
sa deve semmai rivolgersi ai settori produttivi a più alto contenuto tecno-
logico e innovativo, in modo da renderne possibile lo sviluppo. In ogni ca-
so, misure protezionistiche possono avere senso e utilità solo se adottate
all’interno di una politica industriale pubblica finalizzata all’ammoderna-
mento produttivo del paese. Infatti, in assenza di un diverso orientamen-
to della struttura industriale italiana verso produzioni a più elevato conte-
nuto tecnologico, la tendenza alla riduzione del peso delle nostre esporta-
zioni sul mercato globale è un fenomeno irreversibile.
In un recente esercizio di simulazione è stato calcolato che la diffe-
renza nella specializzazione produttiva esistente tra l’Italia e gli altri prin-
cipali paesi europei (Germania, Francia, Gran Bretagna e Spagna) è tale,
da sola, da ridurre il tasso medio di crescita delle esportazioni italiane
dell’1 per cento annuo rispetto a quello medio delle esportazioni delle al-
tre economie europee13. Come si vede il problema dell’economia italiana
non è affatto quello di una scarsa flessibilità del lavoro o di un eccesso di
protezione sociale e salariale, ma riguarda la struttura della nostra pro-
duzione. Ciò che più sorprende e indigna è che questa evoluzione nega-
tiva della competitività strutturale del nostro sistema produttivo sui mer-
cati globali era stata perfettamente anticipata, già sin dalla metà degli an-
ni Ottanta, dagli studiosi di economia internazionale, sulla base delle
nuove caratteristiche assunte dal nostro modello di specializzazione do-
po la ristrutturazione della grande impresa14. Ebbene, in vent’anni nulla
è stato fatto, dai governi e dalle associazioni imprenditoriali, per evitare
che quella fosca previsione si realizzasse.
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 188

188 DOPO IL LIBERISMO

8.5. Il “nanismo” delle imprese italiane

L’arretratezza della struttura merceologica dell’industria italiana trova


il suo riflesso in una struttura dimensionale delle imprese altrettanto ano-
mala rispetto a quella prevalente in paesi con analoghi livelli di sviluppo15.
Che l’Italia fosse il paese delle piccole imprese lo si sapeva già da un pez-
zo. Tuttavia, oggi l’Italia rischia di essere solo il paese delle piccole im-
prese, perché la grande industria sta rapidamente scomparendo16. La di-
mensione media delle imprese italiane nell’industria e nei servizi nel 2001
era di 3,7 addetti, un valore pari alla metà di quello medio dell’UE. In Ita-
lia le microimprese con meno di dieci dipendenti assorbono il 47,3 per
cento dell’occupazione totale e producono un terzo del valore aggiunto
complessivo, contro una media europea rispettivamente del 28 per cento
di occupati e di un quinto di valore aggiunto. Specularmente, molto ri-
dotto è il peso delle grandi imprese italiane, con più di 250 dipendenti.
Esse impiegano il 18,7 per cento degli occupati (contro il 34,2 per cento
dell’UE) e producono il 29,3 per cento del valore aggiunto (il 42 per cen-
to nella media europea)17.
Fino alla prima metà degli anni Settanta non era così. Nel 1971 le im-
prese manifatturiere con più di cinquanta addetti occupavano circa il 60
per cento della manodopera industriale18. Il modello produttivo era allora
ancora quello fordista, con una forte concentrazione della produzione in-
dustriale in grandi stabilimenti e in grandi imprese. Le piccole imprese
rappresentavano un residuo di precedenti modi di produzione, avevano
un livello di competitività assai basso, si concentravano nei settori non
esposti alla concorrenza estera ed erano prevalentemente localizzate nelle
regioni meno sviluppate del paese. Il cuore del sistema industriale italiano
negli anni del boom economico era localizzato in massima parte nel Trian-
golo industriale, dove operavano i grandi stabilimenti per la produzione di
massa. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta il sistema indu-
striale italiano è stato investito da un possente processo di decentramento
produttivo, sia in termini geografici che in termini dimensionali, provoca-
to dalla ribellione operaia alle forme di comando fordista nella grande im-
presa19. Si affermò il sistema dell’appalto e della subfornitura, reso possi-
bile anche dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazio-
ne. La piccola impresa, potendo contare su una maggiore flessibilità orga-
nizzativa, cessò di essere una forma residuale, destinata alla scomparsa, e
assunse un ruolo decisivo nella nuova configurazione produttiva.
Il decollo industriale dell’area NEC (Nord-Est-Centro) si basò su que-
sti processi e si impose come nuovo motore della crescita. In particolare,
i distretti industriali hanno rappresentato la modalità specifica di indu-
strializzazione di parti rilevanti del nostro territorio nazionale20. Nelle re-
gioni adriatiche (Veneto, Emilia Romagna, Marche) i distretti industriali
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8. IL DECLINO DELL’ITALIA 189

nascono a seguito del decentramento produttivo della grande impresa


settentrionale, come risposta alle rigidità imposte dall’esplosione delle
lotte operaie alla fine degli anni Sessanta. Rispetto alla concentrazione
produttiva della fabbrica fordista, i distretti industriali presentano la ca-
ratteristica di una diffusione territoriale della produzione, attraverso un
tessuto di piccole e piccolissime imprese specializzate in singole fasi del
processo produttivo. In questo modo, anche grazie a un ambiente socia-
le, culturale e istituzionale segnato da più forti vincoli comunitari, retag-
gio di un’eredità contadina ancora viva, i distretti industriali riescono a
fronteggiare con successo la crisi economica degli anni Settanta e a con-
solidare la propria struttura, diventando così una componente essenziale
del sistema industriale italiano21. Ciò che prima era considerato come un
sintomo di statica arcaicità divenne invece uno dei fattori più dinamici
della ristrutturazione dell’apparato produttivo nazionale. I punti di forza
più significativi dei distretti industriali sono stati il basso costo del lavo-
ro, la scarsa conflittualità sociale e la grande flessibilità nell’utilizzo della
manodopera. Fattore determinante di queste trasformazioni furono in-
fatti i minori diritti goduti dai lavoratori delle piccole imprese. L’assenza
di alcuni diritti elementari per i lavoratori consentì al sistema delle pic-
cole imprese di sfruttare a pieno le nuove opportunità di mercato, attra-
verso una gestione discrezionale della manodopera, una riduzione dei co-
sti complessivi del lavoro e un maggiore controllo delle lotte operaie22.
Dopo queste trasformazioni radicali il sistema della piccola impresa
non può più essere considerato come un residuo del passato, sostanzial-
mente estraneo e marginale rispetto al meccanismo dell’accumulazione.
Al contrario, la piccola impresa è diventata un elemento centrale delle
nuove forme produttive, perfettamente integrata e funzionale, sia pure at-
traverso relazioni di subordinazione e di assoggettamento, alla grande
impresa nazionale e transnazionale. Tuttavia, quello che negli anni Set-
tanta e Ottanta era un punto di forza dell’economia italiana è successiva-
mente diventato un fattore di debolezza strategica.
Infatti, anche il sistema dei distretti industriali è da tempo entrato in
una fase di profonda difficoltà e i limiti cui esso è soggetto sono divenu-
ti evidenti negli anni più recenti, quando la bassa crescita economica ha
reso più competitivi i mercati di sbocco della produzione e quando i pro-
cessi di globalizzazione hanno fatto emergere nuovi concorrenti sul pia-
no del costo del lavoro23. I nodi di difficoltà strutturale del sistema dei di-
stretti sono quattro: 1) il razionamento del credito a danno delle piccole
imprese; 2) la dipendenza da soggetti esterni al sistema distrettuale nelle
funzioni di ricerca e sviluppo, di marketing e di commercializzazione; 3)
la scarsa innovazione di prodotto; 4) la scarsa formazione imprenditoria-
le e manageriale. In sostanza, appare oggi evidente come il sistema di-
strettuale non sia stato in grado di affrancarsi dalle dinamiche dell’accu-
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190 DOPO IL LIBERISMO

mulazione delle zone centrali e quindi non sia riuscito, salvo rare ecce-
zioni, ad acquisire quelle funzioni strategiche in grado di garantire auto-
nomia e indipendenza nelle traiettorie di sviluppo. Questi limiti struttu-
rali dei distretti di prima generazione derivano essenzialmente dal fatto
che il loro sviluppo è stato spontaneo e non governato. Il ruolo dei pote-
ri pubblici locali è infatti stato ancillare e accomodante rispetto alle esi-
genze che, di volta in volta, emergevano spontaneamente dalle imprese.
Non c’è stata programmazione diretta dello sviluppo distrettuale da par-
te delle amministrazioni locali, né costruzione di un organico sistema di
relazioni istituzionali e sociali in grado di indirizzare i distretti verso l’ac-
quisizione di autonomia strategica24.
Questi vincoli strutturali hanno provocato una evoluzione della orga-
nizzazione interna delle economie distrettuali. Oggi la tipica configura-
zione di un distretto industriale vede al suo centro un’impresa leader, di
dimensioni medio-grandi, talvolta anche esterna al territorio, che ha in-
trecciato una fittissima rete di rapporti di subfornitura con la miriade di
piccole imprese distrettuali. I distretti si sono quindi riorganizzati gerar-
chicamente e verticalmente. Il fitto tessuto delle piccole imprese distret-
tuali consente all’impresa leader di ammortizzare l’incertezza del merca-
to, scaricando al proprio esterno, sulle microimprese flessibili e subap-
paltatrici italiane ed estere, i costi delle fluttuazioni e dei necessari aggiu-
stamenti. La crescita delle imprese di medie dimensioni, che tante spe-
ranze suscita tra gli inguaribili ottimisti come possibile via d’uscita alla
crisi industriale, è quindi avvenuta attraverso una duplice operazione di
prosciugamento a monte, rispetto alle grandi imprese in precedenza com-
mittenti, e a valle, rispetto alle piccole imprese ora commissionarie25. Il
saldo complessivo di questa ristrutturazione è comunque negativo per il
complesso produttivo e occupazionale del paese.
La crisi dei distretti industriali ha così tolto il poco ossigeno che anco-
ra rimaneva alla asfittica industria italiana, tanto che oggi tutti gli osser-
vatori concordano sul fatto che la specializzazione produttiva dell’Italia
nella fascia medio-bassa della divisione internazionale del lavoro deriva in
larga misura dalla struttura industriale basata sulla piccola e media im-
presa. È infatti universalmente riconosciuto che la principale difficoltà
del sistema industriale italiano è oggi costituita da una struttura dimen-
sionale delle imprese troppo piccola e frammentata. Questa caratteristica
produce una carenza strutturale di innovazione, di investimenti e di ri-
cerca e sviluppo, che mina la competitività dei prodotti italiani sui mer-
cati globali. Basti osservare che il valore aggiunto per addetto nelle im-
prese manifatturiere con meno di dieci occupati è meno della metà di
quello delle imprese con più di cento addetti e che gli investimenti per
addetto delle microimprese ammontano ad appena 4.800 euro all’anno
rispetto ai 13.000 delle imprese medio-grandi26. La percentuale di mi-
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8. IL DECLINO DELL’ITALIA 191

croimprese industriali che nel biennio 2000-02 hanno effettuato almeno


una innovazione di processo o di prodotto è stata del 13,7 per cento con-
tro il 71,2 per cento di imprese innovatrici con più di 250 addetti27.
L’obiettivo di un aumento della dimensione media delle imprese è
esplicitamente posto come essenziale sia dalla Confindustria, sia dal go-
verno Berlusconi, che sostengono entrambi la tesi dell’eliminazione degli
incentivi strutturali alla frammentazione aziendale, primo fra tutti quello
relativo alla maggiore discrezionalità nell’uso della forza lavoro come con-
dizione necessaria per consentire alle piccole imprese di crescere. Si trat-
ta di una tesi singolare, perché in sostanza afferma che le piccole imprese
vorrebbero crescere ma sono impedite da una legislazione del lavoro trop-
po rigida. In particolare, oggetto dell’offensiva è stato lo Statuto dei lavo-
ratori, che si applica alle imprese che occupano più di quindici dipenden-
ti. Questo processo di livellamento delle condizioni di competitività tra
piccola e grande impresa ha già trovato completa realizzazione, a tutto
danno dei lavoratori, sia sul piano della dinamica salariale, con il progres-
sivo deperimento dello strumento della contrattazione collettiva, sia sul
piano della libertà imprenditoriale nella gestione della forza lavoro in en-
trata, con la liberalizzazione dei meccanismi di assunzione, sia, come ab-
biamo visto, sul piano dell’utilizzo della manodopera all’interno del pro-
cesso produttivo, con la flessibilità delle prestazioni lavorative. L’ultimo
passo, l’anello ancora mancante, sarebbe quello della libertà di licenzia-
mento, della piena discrezionalità sui flussi di forza lavoro in uscita. Con
questo tipo di ragionamento, negli ultimi anni lo Statuto dei lavoratori è
stato oggetto di continui attacchi, miranti a estendere i privilegi della pic-
cola impresa in materia di gestione della forza lavoro a tutte le imprese. È
questa una ricetta ispirata a un neoliberismo integrale, secondo cui il mas-
simo di efficienza economica sarebbe raggiunto quando il lavoro risultas-
se completamente mercificato, reso assolutamente identico e indifferen-
ziato rispetto a qualunque altro input del processo produttivo (macchina-
ri, materie prime, beni intermedi). Sarebbe la presenza nella produzione
di un fattore dotato di soggettività, e quindi portatore di diritti, a inficia-
re la piena razionalità del processo economico.
Le ricerche empiriche effettuate, tuttavia, smentiscono completamen-
te questa tesi. In particolare, attraverso l’applicazione di un sofisticato
modello econometrico è stato recentemente mostrato come la rimozione
delle protezioni legislative del lavoro nelle imprese sopra i quindici di-
pendenti avrebbe un impatto pressoché nullo sulla dimensione azienda-
le, che riscontrerebbe un aumento di appena l’1 per cento, e addirittura
incerto sull’occupazione, potendo questa anche ridursi qualora venissero
eliminate le attuali tutele per i lavoratori28. È invece più solido, sia sul pia-
no teorico che empirico, il legame diretto esistente tra livelli salariali e mi-
sure protettive rispetto a licenziamenti individuali arbitrari e indiscrimi-
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192 DOPO IL LIBERISMO

nati29. Sembra essere allora questa, relativa al rafforzamento del potere


contrattuale delle imprese nei confronti dei lavoratori, l’unica vera ragio-
ne dell’insistenza posta sulla necessità di una soppressione della normati-
va sulle procedure di gestione della manodopera in uscita.
Di nuovo, come nel caso dell’aumento dell’orario di lavoro a parità di
salario, è soltanto l’interesse di classe, quello del capitale, a motivare la ri-
chiesta di spremere sempre di più il lavoro. Il referendum del giugno
2003 sull’estensione alle piccole imprese dell’articolo 18 dello Statuto dei
lavoratori, che prevede la giusta causa o il giustificato motivo per il licen-
ziamento individuale, ha per il momento bloccato questa offensiva per-
ché, pur non avendo conseguito il quorum necessario della maggioranza
dei votanti, ha manifestato, con gli oltre dieci milioni di voti favorevoli,
una forte opposizione popolare allo smantellamento completo dei diritti
del lavoro. Tuttavia, possiamo scommettere che questo tema sarà ancora
agitato in futuro, anche se, ci auguriamo, con sempre minore successo.

8.6. La svendita dell’industria pubblica


e il disastro delle privatizzazioni
Lo sviluppo industriale del nostro paese è stato profondamente se-
gnato, in modo determinante a partire dagli anni Trenta e fino alla fine
degli anni Ottanta, dall’impresa pubblica. Nata come strumento di salva-
taggio del capitale privato durante gli anni della grande crisi (1933-37),
l’impresa pubblica italiana si è trovata nel secondo dopoguerra a eserci-
tare un ruolo propulsore nei settori industriali più moderni e innovativi,
svolgendo una funzione di supplenza nei confronti di un capitalismo pri-
vato da sempre segnato da propensioni parassitarie e speculative. Il con-
tributo dell’industria pubblica alla modernizzazione produttiva del paese
negli anni della ricostruzione e, soprattutto, del miracolo economico è
stato decisivo. Esaminando l’elenco dei settori industriali, controllati o
partecipati dalle holding pubbliche (IRI, ENI, ENEL, EFIM) nel secondo do-
poguerra, ci accorgiamo che la spina dorsale dell’Italia industriale si è svi-
luppata sotto la direzione pubblica. Siderurgia, meccanica, telecomuni-
cazioni, trasporti aerei e marittimi, autostrade, chimica e petrolchimica,
servizi ingegneristici, industria aerospaziale, cantieristica, carta e carto-
tecnica, industria estrattiva, energia elettrica, sistema bancario: sono sol-
tanto alcuni dei settori strategici dell’apparato produttivo di un moderno
paese industriale in cui l’impresa pubblica italiana ha avuto un ruolo gui-
da rispetto all’apporto dell’industria privata. In altri settori, come quello
dei mezzi di trasporto o dell’elettronica, l’intervento pubblico si è affian-
cato a quello della grande impresa privata. In nessun altro paese occi-
dentale, con forse la sola eccezione francese, la presenza pubblica è stata
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8. IL DECLINO DELL’ITALIA 193

così massiccia e pervasiva come in Italia. Alla vigilia dell’avvio della sta-
gione delle privatizzazioni, nel 1993, la quota di occupati del settore pub-
blico raggiungeva il 13,5 per cento del totale, un livello simile a quello
della Francia (13,4 per cento), ma molto più elevato di quello tedesco (8,3
per cento) e inglese (4,3 per cento). Questo maggiore peso dell’occupa-
zione pubblica sul mercato del lavoro italiano è stato in gran parte dovu-
to alla presenza di una forte industria statale. Negli anni Settanta e Ot-
tanta le due principali holding pubbliche (IRI ed ENI) hanno, da sole, da-
to occupazione a circa seicentomila lavoratori, pari al 3 per cento del to-
tale della forza lavoro del nostro paese. Inoltre, in Italia è stato anche spe-
rimentato un modello gestionale, quello delle partecipazioni statali, che
affonda le sue radici nell’approccio nittiano di inizio del XX secolo, origi-
nale e oggetto di studio e di imitazione all’estero30.
L’industria pubblica, finché è esistita, ha contribuito a correggere, al-
meno parzialmente, le deficienze strutturali del nostro modello produtti-
vo. Infatti, la dimensione d’impresa, i settori con rilevanti economie di
scala e quelli innovativi o a maggiore intensità di capitale fisso sono stati
sostenuti e diretti, per oltre mezzo secolo, dallo Stato. Negli anni Sessan-
ta e Settanta il 30 per cento della spesa per ricerca e sviluppo e un terzo
degli investimenti fissi lordi delle imprese italiane erano svolti dall’indu-
stria pubblica. Il ruolo dello Stato, esercitato in particolare attraverso le
imprese pubbliche, nel processo di creazione e, soprattutto, di diffusione
delle conoscenze scientifiche e tecnologiche ha supplito alla cronica man-
canza delle imprese private in queste attività e ha contributo in maniera
determinante alla modernizzazione economica dell’Italia nel secondo do-
poguerra31. Importante, anche se controverso, è stato il ruolo svolto dal-
l’industria pubblica nella diffusione dell’industrializzazione anche in al-
cune aree del Mezzogiorno, attraverso una politica di investimenti che
privilegiava la localizzazione degli impianti nelle aree meno sviluppate del
paese. Accanto all’industria statale, anche le aziende pubbliche di servizi
a gestione locale, come le municipalizzate, hanno contribuito alla moder-
nizzazione del paese nel secondo dopoguerra, fornendo i servizi di pub-
blica utilità (gas, illuminazione, trasporti pubblici, acqua, ecc.) a prezzi
accessibili per tutta la popolazione italiana.
Negare il ruolo storico svolto dalle aziende pubbliche per lo sviluppo
economico del paese, come spesso si tende a fare, è stupido, prima anco-
ra che falso. Questo non vuol dire affermare che l’industria pubblica ab-
bia sempre esercitato una funzione positiva per il progresso economico e
civile dell’Italia. È, infatti, altrettanto innegabile che la gestione delle im-
prese a partecipazione statale è stata spesso piegata al perseguimento di
interessi politici da parte degli allora partiti di governo (Democrazia Cri-
stiana e, più tardi, Partito Socialista Italiano) e che queste interferenze
hanno contribuito alla diffusione capillare di un sistema di generalizzato
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194 DOPO IL LIBERISMO

clientelismo, che negli anni Ottanta è sfociato nella corruzione su larga


scala della pubblica amministrazione. Così come è altrettanto innegabile
che l’impresa pubblica è stata sovente utilizzata come stampella di salva-
taggio del capitale privato in difficoltà, attraverso l’acquisizione, soprat-
tutto a partire dagli anni Settanta, della proprietà di imprese private sul-
l’orlo del fallimento. Ciò ha contribuito ad appesantire i bilanci pubblici
con una impropria funzione di aiuto al sistema delle imprese private e al-
l’occupazione. È quindi vero che l’impresa pubblica ha svolto anche un
ruolo di sostegno alle forze dominanti, politiche ed economiche, italiane,
spesso tradendo la sua missione e i suoi obiettivi. Tuttavia, queste defi-
cienze politiche e gestionali dell’impresa pubblica non dovevano necessa-
riamente portare al suo completo smantellamento, come è avvenuto, ma
potevano essere colte come occasione di riqualificazione e di trasforma-
zione dell’intervento dello Stato nell’economia. Se così non è avvenuto è
soltanto perché l’affermazione dell’ideologia neoliberista nel corso degli
ultimi vent’anni ha negato l’utilità di ogni forma di intervento pubblico,
anche di quello gestito nel modo migliore, in nome dell’assoluto primato
delle forze di mercato e della gestione privatistica dell’attività economica.
Amareggia il fatto che spesso siano state le forze del centrosinistra, in Ita-
lia e in Europa, a innalzare la bandiera del “privato è, sempre e comun-
que, bello”.
È così che negli anni Novanta abbiamo assistito, in Italia più che al-
trove, a una vera e propria orgia di privatizzazioni. Nel periodo 1990-
2000 l’Italia detiene di gran lunga il primato mondiale di incassi derivan-
ti dalla privatizzazione di aziende pubbliche, con 108.586 milioni di dol-
lari di introiti complessivi, pari a circa un terzo del totale delle privatiz-
zazioni dei paesi dell’UEM e un sesto di tutte le privatizzazioni dell’intero
pianeta, conteggiando anche quelle dei paesi dell’ex blocco sovietico. Ba-
sti pensare che il secondo paese che segue nella graduatoria mondiale, la
Francia, dove la presenza pubblica nell’industria era paragonabile a quel-
la italiana, ha privatizzato i due terzi dell’Italia (75.488 milioni di dollari)
e la Germania appena un quinto (22.451 milioni di dollari)32. Nel corso di
questo periodo, per quanto attiene alle holding industriali pubbliche,
EFIM e IRI sono state soppresse, mentre la maggioranza del capitale del-
l’ENI e oltre un terzo di quello dell’ENEL sono stati collocati, in vari mo-
menti, sul mercato azionario. Inoltre, dall’ENEL è stata scorporata la rete
di trasmissione elettrica nazionale. Per quanto riguarda le singole indu-
strie, le maggiori privatizzazioni hanno coinvolto, tra gli altri, i settori del-
l’alimentare (tra cui GS, Autogrill, Cirio-Bertolli-De Rica), della siderur-
gia (tra cui ILVA e Acciaierie Terni), della chimica (tra cui Montefibre, Eni-
chem Augusta, ENI fertilizzanti), della meccanica e dell’elettromeccanica
(tra cui Nuovo Pignone, EBPA, Italimpianti), delle telecomunicazioni (Te-
lecom), dell’editoria (SEAT), delle infrastrutture (Autostrade, Aeroporti di
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8. IL DECLINO DELL’ITALIA 195

Roma), dell’elettronica (STMicroelectronics), dei mezzi di trasporto (Alfa


Romeo negli anni Ottanta, Ansaldo Trasporti)33.
A seguito di queste operazioni di privatizzazione, i pezzi più pregiati del-
l’industria pubblica sono finiti nelle mani di multinazionali straniere. Que-
sto è accaduto, per esempio, a un gioiello della nostra industria nazionale,
invidiatoci da tutto il mondo, la Nuovo Pignone, acquistata dalla statuni-
tense General Electrics, e a tante altre imprese di punta del nostro appara-
to industriale. In diversi casi, anche quando i primi acquirenti sono stati im-
prenditori italiani, l’azienda è finita in breve tempo in possesso di investi-
tori esteri, non appena le quotazioni di mercato sono divenute sufficiente-
mente profittevoli per realizzare un cospicuo guadagno speculativo, come
accaduto con le Acciaierie di Terni, pezzo fondante della storia industria-
le italiana fin dall’Ottocento, acquistata dal colosso siderurgico tedesco
Krupp. In sostanza, i gruppi privati italiani hanno mantenuto la gestione
delle imprese privatizzate soltanto laddove esse godevano di posizioni
monopolistiche, come nel caso della Telecom, della Società Autostrade o
degli Aeroporti di Roma. In conseguenza di questi processi, la penetrazio-
ne delle imprese estere nella produzione industriale italiana è molto eleva-
ta34. Nel 2001 ben il 18,9 per cento del fatturato e il 18 per cento del valore
aggiunto dell’industria manifatturiera italiana è stato prodotto da imprese
sotto controllo straniero. L’incidenza delle imprese estere è molto più forte
nei settori tecnologici più avanzati e in quelli a maggiori economie di scala
(chimica, macchine e apparecchiature elettriche, meccanica) e si caratteriz-
za per una struttura dimensionale nettamente più grande di quella media.
In altre parole, le residue produzioni di manufatti industriali ad elevato con-
tenuto tecnologico e le poche grandi imprese che ancora sono rimaste nel-
l’industria manifatturiera italiana sono prevalentemente l’effetto della pre-
senza di multinazionali straniere. I dati sulla produttività delle imprese este-
re, rispetto a quelle italiane della stessa dimensione e dello stesso settore,
portano a concludere che il trasferimento e la diffusione di conoscenze e di
tecnologie a favore del sistema industriale italiano è praticamente nullo e
anzi in alcuni settori, come quello della meccanica, avviene in senso inver-
so, cioè sono le imprese estere che acquisiscono conoscenze e tecnologie da
quelle italiane. Insomma, la privatizzazione dell’industria pubblica si è tra-
sformata in una colossale svendita fallimentare del più qualificato patrimo-
nio industriale del paese alle imprese multinazionali straniere.
A oltre dieci anni di distanza dall’avvio della politica di privatizzazio-
ni, è possibile trarre un bilancio degli effetti economici e sociali delle ope-
razioni compiute. È indubbio che esista un nesso tra il declino industria-
le del paese e la liquidazione dell’industria pubblica. La sostanziale scom-
parsa delle aziende pubbliche ha aumentato le distorsioni derivanti dal
nostro modello di specializzazione produttiva e dal nanismo delle impre-
se. Nel corso degli anni Novanta si è infatti allargata in modo significati-
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196 DOPO IL LIBERISMO

vo la dissomiglianza della struttura industriale manifatturiera dell’Italia


rispetto a quella degli altri paesi maggiori dell’UE (Germania, Francia,
Gran Bretagna e Spagna), a causa del maggiore peso relativo assunto dai
settori tradizionali nella nostra produzione industriale35. L’apporto in in-
novazione, investimenti e ricerca e sviluppo assicurato per mezzo secolo
dall’industria pubblica non è stato sostituito da un incremento in queste
attività da parte dell’industria privata, che investe in attività di ricerca un
terzo di quello che investono in media le imprese private nell’UE36. I gran-
di gruppi privati italiani hanno utilizzato la svendita del patrimonio pub-
blico essenzialmente per operazioni speculative e non imprenditoriali,
preferendo lucrare sulla differenza di prezzo azionario tra la collocazione
originaria e la successiva rivendita sul mercato in periodi di boom azio-
nario, come quelli della seconda metà degli anni Novanta. Quando sono
rimasti a gestire direttamente le aziende privatizzate lo hanno fatto solo
per sfruttare posizioni di rendita monopolistica. Le multinazionali stra-
niere, che hanno acquisito i pezzi migliori dell’industria nazionale, hanno
perlopiù trasferito le funzioni produttive strategiche nelle sedi centrali,
lasciando agli stabilimenti italiani una funzione periferica e marginale nel-
la strategia aziendale. Spesso, come nel caso dell’industria alimentare, si
sono mostrati interessati esclusivamente al possesso del marchio com-
merciale, abbandonando rapidamente le attività di produzione.
L’effetto di questi processi sull’occupazione è stato pesantemente nega-
tivo, sia in termini di riduzione degli occupati (dal 1991 al 2002 il numero
di occupati nelle imprese manifatturiere con più di quarantanove addetti è
diminuito di oltre il 2 per cento all’anno, secondo i dati ISTAT), sia in ter-
mini di precarizzazione dei rapporti contrattuali, attraverso l’uso intensivo
della pratica delle esternalizzazioni in subappalto di intere fasi dei proces-
si produttivi delle imprese privatizzate (nel 2003 i due terzi delle nuove as-
sunzioni nelle grandi imprese sono avvenuti con forme di lavoro atipico).
Infine, le liberalizzazioni e le privatizzazioni nel settore dei servizi di
pubblica utilità non hanno comportato nessun miglioramento per gli
utenti, né in termini di qualità del servizio, la cui razionalizzazione ha
spesso eliminato molte sedi decentrate, né in termini di riduzione dei co-
sti, se è vero che ad esempio nel 2003 i prezzi dei servizi liberalizzati so-
no aumentati più del doppio (3,6 per cento) delle tariffe dei servizi anco-
ra sottoposti a regolamentazione pubblica locale o nazionale (1,6 per cen-
to)37. Persino a livello di Commissione Europea, che negli anni di Maa-
stricht è stata la paladina delle privatizzazioni, si comincia a scorgere
qualche segnale di ripensamento con la pubblicazione nel maggio 2003
del Green Paper on Services of General Interest, in cui si riconosce, sia pur
in una formulazione ancora ambigua e incerta, il ruolo decisivo del setto-
re pubblico nella garanzia dei servizi essenziali alla comunità38. D’altra
parte l’esperienza di altri paesi, dove i servizi di pubblica utilità sono ge-
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8. IL DECLINO DELL’ITALIA 197

stiti da imprese private, dovrebbe ormai aver spazzato via le illusioni pro-
pagandistiche che hanno accompagnato la sbornia delle privatizzazioni
nell’ultimo decennio. Infatti, proprio laddove il processo di privatizza-
zione si è spinto più avanti, si sono cominciati a manifestare i primi, im-
portanti segnali di ritorno indietro, verso una ripublicizzazione dei servi-
zi e dei beni comuni. Valgano a questo proposito due casi esemplari av-
venuti nei due paesi, la Gran Bretagna e gli USA, che per primi e con mag-
giore convinzione avevano imboccato la strada della gestione privata.
L’Inghilterra, all’epoca della rivoluzione industriale, è stato il primo
paese al mondo a dotarsi di un sistema ferroviario che, per secoli, è stato
un esempio di efficienza e di qualità del servizio. Tutto è cambiato a par-
tire dagli anni Ottanta quando Margaret Thatcher avviò la privatizzazio-
ne del settore, completata dal suo successore John Major nel 1994. La
British Railways, l’azienda ferroviaria pubblica, venne smembrata in de-
cine di società private, che hanno assunto la gestione di singoli pezzi e
funzioni del trasporto su rotaia. Da allora, il caos più totale è regnato nel-
le ferrovie inglesi, con un drastico aumento degli incidenti, molti dei qua-
li mortali, il taglio della gran parte delle linee secondarie, il licenziamen-
to di migliaia di lavoratori e la lievitazione esponenziale dei costi per la
manutenzione e l’ammodernamento delle linee, con una inevitabile de-
qualificazione del servizio. Accanto a eventi tragici, come i continui disa-
stri ferroviari, non sono mancati episodi comici e grotteschi, come è ac-
caduto quando un treno passeggeri è rimasto fermo per ore in mezzo al-
la verde campagna inglese perché si era… perso! Questa pessima qualità
del servizio ha ovviamente prodotto un allontanamento dei cittadini e
delle imprese dall’utilizzo del treno come mezzo di trasporto. Come logi-
ca conseguenza, le società private di gestione ferroviaria, dopo essere sta-
te a lungo sovvenzionate dallo Stato, sono fallite una dopo l’altra e il go-
verno laburista, per la verità a malincuore, si è trovato costretto a proce-
dere a una rinazionalizzazione delle ferrovie inglesi, accollandosi per in-
tero i costi di un sistema ridotto al collasso39.
In California, invece, la gestione privata della produzione elettrica è
stata la principale causa dell’esplosione dell’emergenza energetica in una
delle regioni più moderne e sviluppate del pianeta, la culla della new eco-
nomy e di Silicon Valley, abitata da oltre trentacinque milioni di perso-
ne40. La liberalizzazione e la privatizzazione del settore, avvenuta nel
1996, aveva portato alla costituzione di un libero mercato energetico do-
ve le aziende private produttrici vendevano alla società pubblica di di-
stribuzione la quantità di energia elettrica richiesta sulla base di un prez-
zo dipendente dalla domanda e dall’offerta che quotidianamente si espri-
meva sul mercato. Così, si era detto, si sarebbero evitati gli sprechi e tut-
ti ne avrebbero beneficiato, cittadini, imprese e casse dello Stato. Questo
modello era diventato un esempio ammirato dai neoliberisti di tutto il
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198 DOPO IL LIBERISMO

mondo e aveva ispirato anche i progetti di privatizzazione delle reti di ser-


vizi nel nostro paese. Che cosa è successo invece? Le imprese private, che
avevano rilevato le centrali elettriche pubbliche, per tagliare i costi han-
no per prima cosa chiuso e disattivato quelle che producevano in ecce-
denza rispetto alla richiesta media. In questo modo, l’offerta di energia
elettrica si è ridotta e non è stata più in grado di far fronte ai picchi di do-
manda che periodicamente avvengono, in occasione di particolari situa-
zioni ambientali o economiche. Inoltre, le imprese private hanno avuto
l’idea di collaborare, anziché competere tra di loro, per manipolare i
prezzi di mercato e si sono riunite in un cartello occulto. Addirittura esi-
stono forti e fondati sospetti su ripetute pratiche di volontario boicottag-
gio e di manomissione degli impianti di produzione adottati dalle società
private per far schizzare in alto i prezzi proprio quando la domanda era
più sostenuta. Un rapporto ufficiale dell’ente pubblico di gestione della
rete di distribuzione ha stimato in sei miliardi di dollari nei soli primi die-
ci mesi del 2000 il sovraccarico di costi derivante dalle pratiche disinvol-
te delle imprese energetiche californiane. D’altra parte, per avere un’idea
di che pasta siano fatte le imprese energetiche private americane, basti ri-
cordare che per tanti anni il loro fiore all’occhiello sia stata una società il
cui nome è diventato tristemente famoso nel mondo, la Enron. Questi
comportamenti speculativi delle società private hanno generato un enor-
me disavanzo, superiore agli undici miliardi di dollari, nei bilanci della so-
cietà pubblica di distribuzione. Per un certo tempo, il buco è stato co-
perto dalle finanze pubbliche ma poi, di fronte alla prospettiva di una
bancarotta, si sono dovute aumentare le bollette energetiche per i citta-
dini. A seguito di ciò, nell’estate del 2000 i prezzi al pubblico dell’ener-
gia sono improvvisamente triplicati, causando un’ondata di indignazione
in tutta la popolazione. Tuttavia, la goccia che ha fatto traboccare il vaso
è stata una serie ripetuta di giganteschi black-out che nel gennaio del
2001 hanno paralizzato l’intero Stato, riportando per diverse settimane la
sognata california all’età della pietra e causando incalcolabili danni fisici,
psicologici ed economici a milioni di persone. A San Francisco si è arri-
vati a razionare l’energia elettrica, consentendone l’uso soltanto per alcu-
ne ore al giorno. «La deregulation elettrica californiana è un fallimento,
oggi viviamo nell’incubo della penuria. La nostra deregulation non ha ab-
bassato i prezzi e non ha aumentato la disponibilità di energia. Al con-
trario: abbiamo prezzi alle stelle, speculazione, incertezza nell’approvvi-
gionamento di elettricità»41. A pronunciare queste parole è stato niente-
meno che Gray Davis, all’epoca governatore democratico della California
e, fino a un attimo prima del disastro, uno dei principali sostenitori delle
privatizzazioni, eletto grazie alle sottoscrizioni elettorali delle principali
imprese elettriche private californiane. È stato così che, a seguito di que-
sto totale fallimento, in California, lo Stato da cui era partita la crociata
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8. IL DECLINO DELL’ITALIA 199

per le privatizzazioni e la deregulation dei servizi pubblici, patria di Ro-


nald Reagan, che ne è stato per tanti anni governatore, la produzione di
energia elettrica è stata rinazionalizzata e riportata sotto il controllo pub-
blico. E il governatore Davis, per le sue responsabilità in merito alla pri-
vatizzazione elettrica, ha perso il suo posto in seguito a un referendum
popolare indetto per la sua rimozione e sostituito da un altro attore di
Hollywood, il repubblicano Arnold Schwartzenegger. In quegli Stati de-
gli USA dove la lezione californiana non è bastata e la produzione elettri-
ca continua ad essere gestita da privati, si continua a vivere sotto l’incu-
bo di infernali black-out, come quello che colpì nel 2003 tutti gli Stati
nord-occidentali e lasciò senza corrente elettrica oltre cinquanta milioni
di persone. D’altra parte, anche in Italia, a seguito della deregulation elet-
trica, questi rischi sono ben presenti come ha dimostrato il black-out che,
nell’estate del 2003, colpì per parecchie ore la città di Roma.
Come altro definire questo bilancio delle politiche di privatizzazione,
in Italia e nel mondo, se non come disastroso da ogni punto di vista?

8.7. La strana privatizzazione del sistema bancario

Un discorso a parte meritano le banche. Per oltre mezzo secolo il si-


stema bancario italiano è stato organizzato intorno a una preponderante
presenza pubblica, con una forte segmentazione delle funzioni svolte da
ciascuna tipologia di intermediario: le banche commerciali e le casse di ri-
sparmio raccoglievano i depositi dei cittadini per concedere crediti di bre-
ve periodo o per finanziare gli istituti di credito speciale, specializzati nel-
l’erogazione di prestiti di lungo periodo per gli investimenti produttivi e
nelle operazioni di credito agevolato per obiettivi di politica industriale.
Gli istituti bancari dovevano occuparsi, quindi, essenzialmente della rac-
colta del risparmio e della concessione del credito, senza essere implicati
in funzioni di gestione e investimento sui mercati finanziari e assicurativi.
Inoltre, esisteva una rigida separazione proprietaria tra banche e industria
e il sistema bancario era sottoposto a un penetrante potere di controllo e
di indirizzo da parte dello Stato. Questa rigida regolamentazione era sta-
ta costruita con la legge bancaria del 1936, introdotta in seguito alla gran-
de crisi degli anni Trenta, durante la quale «la mostruosa fratellanza sia-
mese», come la definì Raffaele Mattioli, tra banca e grande industria ave-
va portato al collasso l’intero sistema finanziario e industriale del paese.
Allora si affermò la convinzione, durata per oltre mezzo secolo, che le
banche non fossero imprese come le altre, finalizzate alla valorizzazione
economica del proprio capitale, ma fossero invece enti economici parti-
colari, di rilevante interesse pubblico perché custodivano il risparmio dei
cittadini, svolgevano funzioni monetarie e finanziavano le attività pro-
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200 DOPO IL LIBERISMO

duttive. Poiché tali compiti avevano un forte impatto sul benessere eco-
nomico collettivo si è a lungo ritenuto che essi dovessero essere sottratti
a una pura logica privatistica di mercato. Infatti, a differenza delle im-
prese private che perseguono solo l’efficienza gestionale, cioè sono atten-
te solo a che i ricavi siano superiori ai costi, le banche devono in più as-
sicurare anche l’efficienza allocativa, cioè devono fare in modo che il ri-
sparmio loro affidato dai cittadini contribuisca allo sviluppo economico
e sociale del territorio in cui operano. Di qui la preponderante proprietà
pubblica degli istituti di credito che, fino al 1992, raggiungeva oltre il 70
per cento del mercato bancario italiano.
Nel corso degli anni Novanta questo quadro è stato radicalmente tra-
sformato, sia negli assetti proprietari, sia nelle funzioni, attraverso vaste mi-
sure di privatizzazione e di liberalizzazione tese ad assimilare le banche a
normali imprese private42. Con il testo unico in materia bancaria e crediti-
zia, emanato nel 1993, si è sancita la natura imprenditoriale dell’attività
bancaria e sono state eliminate le segmentazioni funzionali, permettendo
così alle banche di operare su tutto lo spettro delle attività finanziarie, com-
prese quelle azionarie, secondo il modello della banca universale tedesca.
Con la Legge 218/1990, la cosiddetta legge Amato, le casse di rispar-
mio, le banche del monte, gli istituti di credito di diritto pubblico e gli
istituti di credito speciale sono stati trasformati in società per azioni. A
causa della scarsità di capitale privato disponibile e in attesa di una loro
graduale privatizzazione, il controllo azionario delle ex banche pubbliche
è stato in gran parte conferito alle fondazioni bancarie, che originaria-
mente erano enti di natura pubblicistica con funzioni di assistenza, bene-
ficenza e utilità sociale senza scopo di lucro. Tuttavia, per obbligo di leg-
ge, le fondazioni bancarie non potrebbero intervenire in alcun modo sul-
la gestione strategica e operativa delle banche possedute. Alla fine degli
anni Novanta, con la Legge delega 461/98 e il successivo decreto legisla-
tivo 153/99, le fondazioni bancarie sono state trasformate in enti di dirit-
to privato operanti nel settore del non profit e si è loro imposto l’obbligo
di procedere entro quattro anni alla dismissione delle partecipazioni azio-
narie di controllo delle banche. Questa nuova normativa perseguiva con-
temporaneamente due scopi. Il primo era quello di portare a compimen-
to il processo di privatizzazione del settore bancario. Il secondo era quel-
lo di rafforzare il settore del privato sociale e del non profit, con la costi-
tuzione di forti soggetti giuridici di natura privata, dotati di una rilevan-
te disponibilità di risorse finanziarie, operanti nel campo dei servizi so-
ciali in funzione di integrazione e di parziale sostituzione delle funzioni
pubbliche43. Il disegno che ha ispirato la nuova normativa è quindi di lar-
go respiro e si inserisce all’interno di una strategia complessiva mirante a
ridurre il ruolo pubblico non solo nel campo del credito ma anche in
quello del welfare. L’obiettivo implicito è quello di pilotare il sistema ban-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 201

8. IL DECLINO DELL’ITALIA 201

cario verso un modello di controllo proprietario privato affidato agli in-


vestitori finanziari istituzionali (fondi pensione e fondi comuni di investi-
mento), che avrebbero dovuto ricavare le ingenti risorse necessarie a tale
operazione attraverso la progressiva privatizzazione del sistema previ-
denziale e assistenziale.
In realtà, a causa della genericità della definizione della partecipazione
di controllo, è accaduto che la gran parte delle fondazioni bancarie ha
mantenuto, di fatto, la proprietà di una quota rilevante del sistema crediti-
zio attraverso la costituzione di apposite società finanziarie, formalmente
in possesso delle azioni bancarie, o tramite partecipazioni incrociate delle
diverse fondazioni, che singolarmente non appaiono come partecipazioni
di controllo ma che congiuntamente lo sono44. Con la legge finanziaria
2002 è stata introdotta una nuova modifica alla normativa sulle fondazio-
ni, proposta dall’allora ministro Tremonti, con la quale si proroga la sca-
denza delle dismissioni di controllo delle banche al 2006 attraverso la pos-
sibilità concessa alle fondazioni di far confluire le azioni bancarie in loro
possesso in apposite società di gestione del risparmio (SGR), sottoposte al
controllo e alla verifica dell’autorità di vigilanza, cioè della Banca d’Italia.
Con tale nuova normativa, inoltre, la nomina degli organismi di ammini-
strazione delle fondazioni è in prevalenza affidata alle comunità locali.
Allo stato attuale, quindi, l’assetto proprietario delle banche italiane si
trova in una sorta di limbo, essendo ancora in prevalenza in possesso di
enti di interesse pubblico, come le fondazioni, ma svincolato da ogni ruo-
lo di indirizzo pubblico. In sostanza, le banche operano come soggetti
privati, esclusivamente orientati alla redditività aziendale, anche se la lo-
ro proprietà continua ad essere detenuta in prevalenza dalla collettività
nazionale. Una situazione veramente strana e anomala, di gestione priva-
tistica di una proprietà collettiva. In realtà è accaduto che i manager ban-
cari si sono trovati completamente svincolati da qualsiasi controllo pro-
prietario. Basti pensare che, a causa degli intrecci reciproci degli assetti
proprietari, sette degli otto maggiori gruppi bancari del paese fanno ca-
po oggi a un’unica e indistinta nebulosa, che comprende anche due co-
lossi del capitalismo finanziario italiano come Mediobanca e Assicurazio-
ni Generali, in cui è difficile capire chi eserciti effettivamente il ruolo di
controllo45. Nei fatti, allora, l’unico controllo sulla gestione delle banche
è rimasto quello dell’autorità di vigilanza, la Banca d’Italia. La priorità
perseguita dalla Banca d’Italia in questi anni è stata quella del rafforza-
mento dell’efficienza gestionale, per rendere competitive le banche italia-
ne sul nuovo mercato europeo creato con l’istituzione dell’euro, e della
difesa della proprietà degli istituti bancari nazionali dallo straniero.
A tal fine gli anni Novanta sono stati caratterizzati da un forte proces-
so di concentrazione bancaria in grandi gruppi polifunzionali46. Attraver-
so un imponente processo di fusioni e incorporazioni, senza pari in Eu-
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202 DOPO IL LIBERISMO

ropa, che ha interessato circa la metà di tutto il mercato creditizio nazio-


nale e che ha impiegato risorse per oltre settanta miliardi di euro, sono
praticamente scomparse le piccole banche locali, spesso organizzate in
forma di cooperativa o di banca popolare, che per più di un secolo ave-
vano accompagnato lo sviluppo economico e produttivo dei nostri terri-
tori, costruendo nel tempo un solido legame di fiducia e di reciproca co-
noscenza con le famiglie e le piccole e piccolissime aziende commerciali e
artigianali locali. La concentrazione bancaria ha assunto caratteri partico-
larmente accentuati nel Mezzogiorno, dove il numero di banche si è di-
mezzato e la gran parte degli istituti di credito meridionali è stata incor-
porata o acquisita da soggetti bancari del Centro-Nord, tanto che nel
2001 oltre la metà delle banche meridionali, diverse da quelle di credito
cooperativo, appartenevano a gruppi centro-settentrionali, mentre non si
registra nessun caso di possesso di banche settentrionali da parte di ope-
ratori del Mezzogiorno. Questi processi di riorganizzazione non hanno
apportato modifiche di rilievo allo storico divario esistente tra Sud e Nord
del paese in merito al costo e alla disponibilità del credito. Nel biennio
2000-02, mentre nel Mezzogiorno soltanto l’84 per cento del risparmio
raccolto veniva reinvestito per finanziare l’economia meridionale, nel
Centro-Nord gli impieghi bancari superavano del 18 per cento la raccol-
ta di depositi. A seguito di queste tendenze, nel 2001 soltanto il 13,8 per
cento del totale dei prestiti bancari erogati in Italia andava a operatori del-
le regioni meridionali e insulari. I tassi di interesse applicati sui prestiti a
breve termine erogati nel Meridione sono stati nel corso degli anni No-
vanta circa due punti percentuali al di sopra di quelli per il Centro-Nord47.
Queste differenze territoriali nel costo e nella disponibilità del credito si
spiegano, almeno in parte, con la maggiore debolezza, e quindi una più al-
ta rischiosità, dell’economia meridionale. Quello che, tuttavia, emerge
dall’analisi sopra riportata è che la profonda ristrutturazione bancaria de-
gli anni Novanta non ha affatto ridotto il dualismo territoriale che esiste
anche nel mercato del credito tra Nord e Sud del paese.
Altra caratteristica della trasformazione del sistema bancario avvenuta
nell’ultimo decennio riguarda il netto recupero di redditività realizzato
prevalentemente attraverso la riduzione dei costi del lavoro e del nume-
ro dei dipendenti e lo spostamento dell’attività bancaria dagli impieghi
produttivi alla gestione del risparmio e alla finanza d’impresa. Nel 2001,
prima della crisi borsistica e dell’esplodere degli scandali finanziari, i ri-
cavi derivanti da attività diverse da quella tipica dei prestiti, cioè dagli in-
troiti per commissioni e servizi alla clientela, sono arrivati a sfiorare la
metà dei ricavi complessivi, con un sostanziale raddoppio del loro peso
nei bilanci delle aziende di credito rispetto agli anni Ottanta48. In questo
modo è andata progressivamente mutando la funzione stessa della banca:
da soggetto di intermediazione tra il risparmio e l’investimento produtti-
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8. IL DECLINO DELL’ITALIA 203

vo guidata da una logica pubblica, essa si è trasformata in operatore pu-


ramente finanziario finalizzato alla ricerca del profitto aziendale. Il finan-
ziamento degli investimenti produttivi è sempre più spesso affidato di-
rettamente ai mercati finanziari, come dimostra l’esplosione dei bond
emessi nel corso degli ultimi anni dalle imprese italiane.
Le modifiche strutturali conosciute dal sistema finanziario e creditizio
negli anni Novanta hanno comportato serie conseguenze per l’economia
reale49. In primo luogo, le piccole imprese e le nuove imprese innovative
hanno visto aumentare le difficoltà di accesso al credito, perché l’aumen-
to delle dimensioni delle banche, attraverso le fusioni e le acquisizioni, ha
in genere comportato una immediata riduzione dei prestiti erogati alle
piccole imprese locali50. La prossima revisione dei requisiti patrimoniali
per la concessione dei crediti bancari, prevista dalle norme del trattato in-
ternazionale di Basilea, rischia di aggravare in maniera drammatica il pro-
blema. In secondo luogo, l’alta remunerazione del credito e della finanza
ha spinto le stesse imprese produttive a privilegiare un’ottica di breve pe-
riodo nella scelta di investimenti, spesso di carattere speculativo e a im-
mediata redditività, a scapito di investimenti innovativi a redditività dif-
ferita. È da questo punto di vista illuminante il fatto che nell’ultimo de-
cennio gli impieghi bancari sono raddoppiati rispetto a una crescita del
valore degli investimenti effettuati pari ad appena il 20 per cento51. Ciò
vuol dire che le banche hanno in massima parte finanziato operazioni di
natura finanziaria e che le imprese hanno utilizzato i soldi presi in presti-
to, direttamente dai cittadini o tramite gli istituti di credito, per fare altre
cose, diverse da quelle inerenti l’attività produttiva. Infine, la crisi di fi-
ducia che ha colpito i mercati finanziari a seguito dei recenti scandali,
rende nel prossimo futuro ancora più arduo per le imprese l’acquisizione
della liquidità necessaria ai nuovi investimenti. D’altra parte, le perdite
subite dalle banche porteranno a un’ulteriore restrizione del credito ban-
cario disponibile.
La strana privatizzazione del sistema bancario, accompagnata dalla
forte deregolamentazione dell’attività finanziaria, ha quindi agito nel sen-
so di rendere ancora più fragile l’assetto industriale italiano, orientando
l’attività delle imprese verso operazioni di natura puramente finanziaria
piuttosto che produttiva. Rimane ancora aperto il nodo del completa-
mento del processo di privatizzazione, con la vendita del capitale ancora
detenuto dalle fondazioni. Il rischio reale, che già si manifesta attraverso
una penetrazione del capitale estero in alcune delle principali banche na-
zionali, è che, in assenza di risorse disponibili e soprattutto di una voca-
zione reale del capitale privato italiano alla gestione del credito, il nucleo
del nostro sistema bancario possa essere assorbito dai grandi gruppi fi-
nanziari europei. Qualora ciò avvenisse il nostro paese verrebbe ridotto a
un ruolo marginale e periferico nell’economia europea e perderebbe la
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204 DOPO IL LIBERISMO

capacità di indirizzare il risparmio nazionale verso lo sviluppo economi-


co e sociale dei nostri territori.
D’altra parte, l’alternativa originariamente perseguita di un’acquisizio-
ne delle partecipazioni di controllo delle banche da parte dei fondi isti-
tuzionali di investimento si è mostrata impraticabile e, in ogni caso, inop-
portuna per una serie di ragioni. In primo luogo, il decollo degli investi-
tori istituzionali è stato più lento di quanto auspicato e l’attuale crisi dei
mercati finanziari non fa presumere una loro crescita nel prossimo futu-
ro. In secondo luogo, la gran parte di essi è oggi in mano, dal punto di vi-
sta operativo, alle banche, che in Italia hanno pressoché monopolizzato
la gestione del risparmio finanziario, con il rischio che, se dovesse anda-
re in porto il disegno originario, le banche si troverebbero ad essere di
fatto proprietarie di se stesse, facendo insorgere un mostruoso conflitto
di interessi.
Spesso i fautori di una integrale privatizzazione del sistema bancario,
anche al costo di una sua vendita a gruppi esteri, motivano la loro posi-
zione con il fatto che le grandi banche italiane continuano a occupare po-
sizioni di retroguardia nelle classifiche dimensionali delle principali ban-
che mondiali ed europee, con contraccolpi negativi sulla capacità com-
petitiva del paese. Tuttavia, la modesta dimensione delle banche italiane
sul mercato globale non deriva affatto da una frammentazione del siste-
ma creditizio, ma dalla ristrettezza del mercato interno52. Appare pertan-
to molto discutibile la tesi di favorire un ulteriore processo di aggrega-
zione degli istituti di credito. Anche per le banche, il problema della com-
petitività internazionale si pone ormai come un problema di sviluppo ge-
nerale dell’economia italiana e non come una questione di costi o di ri-
strutturazioni organizzative di tipo settoriale. Come per le imprese, anche
per le banche il problema oggi non è quello di aumentare l’efficienza ge-
stionale, cioè la capacità di generare profitti, perché essa si è spinta fin
troppo avanti. Il nodo è quello dell’efficienza nella distribuzione delle ri-
sorse a vantaggio del progresso economico e sociale del paese. E per af-
frontare questo problema il mercato da solo non basta. Ci vuole un nuo-
vo intervento pubblico.
Finché si è in tempo, non sarebbe allora meglio ripensare a ciò che si
sta facendo e tornare a considerare il credito, e la sua efficienza allocativa,
come una strategica funzione di rilevante interesse pubblico e collettivo?
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9. La perversa redistribuzione del reddito


e il capitalismo predone nell’Italia di Maastricht

9.1. La perversa redistribuzione del reddito

La modifica del regime della politica monetaria e del cambio, deri-


vante dall’ingresso nella moneta comune europea, aveva definitivamente
chiuso le porte all’uso dello strumento della svalutazione competitiva del-
la lira per recuperare terreno sui mercati mondiali, come si era fatto nei
vent’anni precedenti. Dopo la decisione di entrare nell’euro, presa all’i-
nizio degli anni Novanta, l’economia italiana doveva decisamente punta-
re a un cambiamento profondo della sua struttura produttiva. L’ultima
svalutazione, quella del 1992, era stata di una entità tale da consentire di
avere a disposizione diversi anni per compiere questa trasformazione
strutturale e per posizionare la produzione italiana verso beni a più alto
contenuto tecnologico, avvicinando la fisionomia del nostro sistema eco-
nomico a quella prevalente negli altri principali paesi industriali. Le con-
dizioni economiche per compiere questa operazione c’erano tutte, consi-
derando il periodo di pace sociale e di moderazione salariale che fin dal-
l’inizio ha caratterizzato l’intero decennio. Anche dal punto di vista poli-
tico, con la fine della cosiddetta “Prima Repubblica”, i fattori di costo de-
rivanti da un sistema di governo corrotto e inefficiente che, in ultima
istanza, pesava sui prezzi dei prodotti finali, avrebbero dovuto scompari-
re. Naturalmente un’operazione di così vasta portata non era semplice, ri-
chiedendo una strategia complessiva e unitaria da parte delle autorità di
politica economica e del mondo imprenditoriale e finanziario e, ancor
più, comportamenti coerenti con essa. Tuttavia, non esistevano alternati-
ve a questa strada e tutti lo sapevano. O, meglio, non potevano non sa-
perlo se soltanto si fossero fermati un attimo a riflettere sulla nuova si-
tuazione e avessero guardato non solo agli immediati interessi particola-
ri, ma a quelli di più lungo termine, per sé e per il paese.
Se le classi dirigenti italiane, sia politiche che economiche, avessero im-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 206

206 DOPO IL LIBERISMO

boccato questa strada, ambiziosa ma assolutamente necessaria, avremmo


dovuto assistere a un poderoso sforzo di investimento da parte delle im-
prese e dello Stato per ammodernare la struttura produttiva del paese.
Che cosa è accaduto invece? È accaduto che i governi hanno continuato a
tagliare la spesa pubblica, colpendo in primo luogo il sistema di protezio-
ne sociale ma non risparmiando affatto le risorse destinate agli investimenti
pubblici, alla ricerca e all’istruzione. Non contenti di ciò, hanno smantel-
lato l’industria pubblica, che da decenni suppliva alle carenze del capitale
privato nei settori tecnologicamente più avanzati. E, d’altra parte, il capi-
tale privato non ha investito per qualificare la produzione delle proprie im-
prese. Infatti, come abbiamo visto nel capitolo precedente, in Italia come
in Europa la crescita degli investimenti lordi è stata scarsa e stagnante, ri-
spetto ai livelli da record toccati dall’economia americana e da quelle dei
nuovi paesi emergenti. Le imprese hanno, quindi, investito molto poco
nell’ammodernamento tecnologico e la gamma di manufatti prodotti ed
esportati dall’industria italiana si è ulteriormente ridotta, con la sostanzia-
le scomparsa dell’elettronica e della chimica. È così che la particolare e ar-
retrata specializzazione produttiva italiana si è addirittura accentuata negli
anni Novanta, portandoci alla grave situazione attuale dove, come abbia-
mo visto nel precedente capitolo, assistiamo a un crollo verticale dell’effi-
cienza complessiva dell’intero sistema economico italiano.
Ma come si può spiegare questa dinamica di comportamento delle
imprese? Forse la redditività degli investimenti italiani è crollata nel pe-
riodo di Maastricht? Le imprese non facevano più profitti e quindi non
era per loro conveniente investire nella produzione? La remunerazione
del capitale reale era proprio a livelli così bassi? Nemmeno per sogno.
Osserviamo la tabella 19, dove sono presentati per l’Italia gli stessi indi-
catori di redditività degli investimenti reali già visti per gli USA e l’UEM
nella tabella 5 del capitolo 4.
La profittabilità delle imprese private italiane, nonostante il gelo eco-
nomico, è cresciuta a ritmi ineguagliati rispetto a tutti gli altri paesi indu-
striali, USA compresi. Persino negli ultimi anni di recessione il rendimento
del capitale netto investito continua ad aumentare in modo sostenuto, a
differenza di quello che accade nel resto d’Europa. Mai, nemmeno negli
anni d’oro del boom economico, le imprese italiane hanno conosciuto ren-
dimenti così favorevoli e hanno mietuto così ampi profitti come durante il
periodo di Maastricht. D’altra parte la cosa è facilmente spiegabile osser-
vando il resto della tabella. La crescita tumultuosa dei profitti è stata pos-
sibile grazie alla speculare compressione dei livelli dei salari, che in termi-
ni reali si sono addirittura ridotti negli ultimi tredici anni. Il costo reale del
lavoro per unità di prodotto è sceso ancor di più dei salari reali, perché nel
frattempo l’intensificazione dei ritmi di lavoro ha aumentato la produtti-
vità e inoltre si sono ridotti i contributi sociali a carico delle imprese.
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 207

9. LA PERVERSA REDISTRIBUZIONE DEL REDDITO 207

Indici di redditività 1991-95 1996-00 2001-03 1991-03


degli investimenti produttivi
Italia UEM Italia UEM Italia UEM Italia UEM

Profittabilità delle imprese private(1) (2) 2,3 1,1 6,3 3 1,5 0,3 3,7 1,6

CLUP reale(1) - 1,7 - 0,6 - 1,1 0,9 0,6 0 - 0,9 0,1

Salari reali pro capite(1) - 0,5 0,9 0,1 0,3 0,3 0,6 - 0,1 0,5

Tassi di interesse reali a breve termine 6,1 5,4 2,8 2,7 0,5 1 3,6 3,3

Tassi di interesse reali a breve - Crescita PIL 4,8 3,9 1 0,1 - 0,3 0,1 2,2 1,5

(1) Variazione percentuale media annua.


(2) Variazione dell’indice di misura della remunerazione netta dello stock di capitale netto dell’intera economia.

Tabella 19. Redditività degli investimenti produttivi in Italia e nell’UEM (1991-2003).


(Fonte: nostre elaborazioni su dati European Commission, 2004).

Tutto ciò ha portato a una marcata riduzione della quota dei redditi da
lavoro sul reddito totale. Alcune semplici elaborazioni sui conti naziona-
li ISTAT ci danno la percezione delle dimensioni straordinarie del feno-
meno. Se sottraiamo al PIL gli ammortamenti, che servono a rimpiazzare
il capitale consumato nella produzione, le imposte indirette e i contribu-
ti sociali otteniamo il reddito distribuito ai fattori produttivi al lordo del-
le sole imposte dirette, che possiamo denominare reddito primario priva-
to lordo. L’evoluzione della distribuzione di questa misura del reddito ai
fattori produttivi è rappresentata nel grafico 3.
Negli anni Ottanta la quota delle retribuzioni sul reddito primario pri-
vato lordo ammontava al 46 per cento. Nel periodo di Maastricht (1991-
2003) è scesa al 43 per cento. Analogo andamento per i redditi attribui-
bili a lavoro autonomo: dal 24,1 per cento si è passati al 18,7 per cento.
Tutto a vantaggio dei redditi da capitale, che hanno accresciuto il loro pe-
so sulla torta del reddito per più di otto punti percentuali, passando dal
29,9 per cento al 38,3 per cento. Poiché nel frattempo l’occupazione to-
tale è aumentata di circa il 10 per cento, con due milioni di unità di lavo-
ro in più, l’effetto redistributivo è ancora più accentuato. Il tasso medio
reale di crescita dei redditi per unità di capitale è stato del 7 per cento al-
l’anno contro l’1,8 per cento dei redditi per unità di lavoro. Negli ultimi
tredici anni i profitti e le rendite sono dunque aumentati circa quattro
volte più rapidamente dei salari.
Per paragonare quanto è avvenuto alla distribuzione del reddito in Ita-
lia, in una prospettiva di lungo periodo, rispetto all’andamento degli altri
paesi industriali, utilizziamo le statistiche della banca dati dell’OECD e
consideriamo la quota dei salari e degli stipendi lordi sul valore aggiunto
totale prodotto nel settore privato. Pur trattandosi di un indicatore meno
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208 DOPO IL LIBERISMO

Grafico 3. La distribuzione del reddito in Italia. Quote percentuali sul reddito primario
privato lordo (1980-2003). (Fonte: ISTAT, conti nazionali).

raffinato di quello utilizzato in precedenza, perché più distante dal red-


dito effettivamente disponibile (dato che comprende anche l’imposizio-
ne indiretta e la contribuzione sociale), tuttavia esso rappresenta una
stima significativa dell’evoluzione della distribuzione del reddito così co-
me essa si forma nel momento della produzione, prima dell’intervento fi-
scale e redistributivo dello Stato1. La tabella 20 è costruita in termini di
valori assoluti della quota distributiva dei salari, mentre la tabella 21 mo-
stra le variazioni della quota dei salari di quinquennio in quinquennio. I
valori sono espressi in percentuale del reddito totale. Il complemento a
100 dei valori della prima tabella rappresenta la quota distributiva del
capitale, per cui se si riduce la quota dei salari aumenta corrispondente-
mente la parte di reddito che va a remunerare profitto e rendita, e vice-
versa. I paesi presi in considerazione, oltre all’Italia, sono i paesi del G7
più la Spagna. In ciascuna delle due tabelle sono poi presentati anche i
valori medi dei paesi industriali appartenenti all’OECD, dei quattro paesi
più grandi dell’UE, Italia esclusa, e infine dell’intera UE. Osserviamo dun-
que le tabelle.
All’inizio degli anni Sessanta l’Italia presentava la quota salariale più al-
ta tra tutti i principali paesi industriali e ha mantenuto questa posizione fi-
no alla prima metà degli anni Settanta, quando è cominciato il decollo in-
dustriale del Giappone. Dopo una flessione nella seconda metà degli anni
Sessanta, conseguenza della stretta creditizia del 1963, per tutti gli anni Set-
tanta assistiamo in Italia a una ulteriore crescita salariale. È questo l’effetto
del lungo ciclo di lotte operaie e sociali iniziato con l’“autunno caldo”.
A partire dall’inizio degli anni Ottanta fino a oggi, la tendenza si in-
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9. LA PERVERSA REDISTRIBUZIONE DEL REDDITO 209

60-64 65-69 70-74 75-79 80-84 85-89 90-94 95-99 00-03


Italia 75,7 73,7 75,4 76,6 72,7 68,7 68,3 63,3 62,2
Francia 73,1 71,2 67,0 71,8 74,7 68,4 63,8 61,7 61,3
Germania 68,3 67,4 69,2 69,4 69,6 66,0 66,6 64,7 65,0
Spagna 65,4 63,9 65,2 65,8 68,2 63,2 65,6 63,6 62,9
Gran Bretagna 69,2 70,0 70,8 70,6 70,4 69,7 72,1 69,7 72,6
(2)
Canada ... 67,5 64,6 66,3 65,2 65,4 69,7 67,6 65,7
USA 71,1 68,4 69,2 67,1 67,3 66,0 65,8 64,2 64,6
(2)
Giappone ... 73,0 74,3 81,8 79,6 74,8 70,8 70,4 69,4
Media OECD 71,0 69,9 70,2 72,5 71,2 67,0 66,4 64,4 64,1
Media UE 4 (1) 69,0 68,1 68,1 69,4 70,7 66,8 67,0 64,9 65,5
(3) (4) (5) (5) (5) (6) (6) (6)
Media Unione Europea 69,7 69,8 69,6 71,8 71,0 68,0 67,4 64,4 64,0 (6)

(1) Media aritmetica di Francia, Germania, Spagna, Gran Bretagna; (2) Dato non disponibile; (3) Media arit-
metica di Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Spagna, Svezia, Gran Bretagna; (4) Media aritmetica dei
paesi di cui al (3) più Austria e Olanda; (5) Media aritmetica dei paesi di cui al (4) più Belgio, Danimarca e Ir-
landa; (6) media aritmetica dei paesi di cui al (5) più Portogallo.

Tabella 20. Quota dei salari sul valore aggiunto totale del settore privato (in percentuale).
Valori medi del periodo 1960-2003. (Fonte: nostre elaborazioni su dati OECD, Economic
Outlook Database).

verte drammaticamente, con una costante erosione della quota distribu-


tiva assorbita dal lavoro. Nell’ambito di una generale tendenza alla ridu-
zione delle quote distributive del lavoro in coincidenza con la nuova fase
della globalizzazione neoliberista, negli ultimi vent’anni la perdita relati-
va dei salari è in Italia di gran lunga la più rapida tra tutti i paesi indu-
striali, tanto che a partire dalla seconda metà degli anni Novanta l’Italia
giunge a collocarsi al penultimo posto, poco sopra della Francia, in gra-
duatoria. Nei primi anni del nuovo secolo, la quota salariale italiana è mi-
nore di quasi due punti rispetto a quella media dell’OECD e di oltre tre
punti rispetto a quella dell’UE. Un completo rovesciamento di posizioni
in appena un quindicennio. La perdita è davvero impressionante: in
vent’anni la quota dei salari sul reddito si è ridotta in Italia di ben 14,4
punti percentuali, con una velocità doppia rispetto a quella degli USA e
della media OECD e addirittura quadrupla rispetto alla media dei maggio-
ri paesi dell’UE. Da notare la performance dell’ultimo periodo, dalla se-
conda metà degli anni Novanta a oggi, allorché, in un intervallo di soli ot-
to anni, si concentra quasi la metà dell’intera caduta salariale negli oltre
quattro decenni presi in considerazione.
Questa enorme contrazione della quota dei salari sul reddito del set-
tore privato non è ovviamente derivata da una riduzione della quota dei
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210 DOPO IL LIBERISMO

65-69 70-74 75-79 80-84 85-89 90-94 95-99 00-03


Italia - 2,0 + 1,7 + 1,2 - 3,9 - 4,0 - 0,4 - 5,0 - 1,1
Francia - 1,9 - 4,2 + 4,8 - 2,9 - 6,3 - 4,6 - 2,1 - 0,4
Germania - 0,9 + 1,8 + 0,2 + 0,2 - 3,6 + 0,6 - 1,9 + 0,3
Spagna - 1,5 + 1,3 + 0,6 + 2,4 - 5,0 + 2,4 - 2,0 - 0,7
Gran Bretagna - 0,8 + 0,8 - 0,6 - 0,2 - 0,7 + 2,4 - 2,4 + 2,9
Canada ... - 2,9 + 1,7 - 1,1 + 0,2 + 4,3 - 2,1 - 1,9
USA - 2,7 + 0,8 - 2,1 + 0,2 - 1,3 - 0,2 - 1,6 + 0,4
Giappone ... + 1,3 + 7,5 - 2,2 - 4,8 - 4,0 - 0,4 - 1,0
Media OECD - 1,1 + 0,3 + 2,3 - 1,3 - 4,2 - 0,6 - 2,0 - 0,3
Media UE 4 (1)
- 0,9 0 + 1,3 + 1,3 - 3,9 + 0,2 - 3,1 + 0,6
Media Unione Europea (1) + 0,1 - 0,2 + 2,2 - 0,8 - 3,0 - 0,6 - 3,0 - 0,4

(1) Per la composizione delle medie vedi le note alla tabella precedente.

Tabella 21. Variazioni della quota dei salari sul valore aggiunto totale del settore privato
(1960-2003). (Fonte: nostre elaborazioni su dati OECD, Economic Outlook Database).

lavoratori sulla popolazione, perché al contrario essa nell’ultimo venten-


nio è aumentata in maniera significativa, in conseguenza da un lato del-
l’aumento del tasso di occupazione2 e dall’altro della diminuzione degli
occupati nella pubblica amministrazione. Pertanto ciò che è successo ne-
gli ultimi due decenni è molto semplicemente un processo di marcato im-
poverimento relativo dei lavoratori, che hanno visto ridursi la parte di
reddito totale a loro destinata pur dovendosela spartire con un numero
maggiore di occupati.
Osserviamo infatti la tabella 22, che mostra le differenze tra il tasso di
crescita dei salari reali per ora-lavoro e il tasso di crescita del PIL reale. Se
la differenza è positiva vuol dire che la remunerazione del lavoro è cre-
sciuta più della remunerazione media di tutti i fattori produttivi, e vice-
versa se la differenza è negativa. L’uso di questo indice consente di elimi-
nare gli effetti delle variazioni dell’occupazione sulla quota distributiva.
Per l’Italia ne esce confermato il quadro sopra delineato attraverso l’a-
nalisi delle quote salariali3. A partire dagli anni Ottanta la remunerazione
del lavoro perde terreno rispetto a quella degli altri fattori produttivi, pro-
fitti e rendite. Particolarmente forte è la perdita negli ultimi anni, in cui il
nostro paese può vantare un record assoluto di aumento dei redditi da ca-
pitale rispetto ai principali paesi industriali. Un andamento simile, ma
molto meno accentuato, è riscontrabile in Germania e in Francia. In Spa-
gna e in Gran Bretagna il quadro è più variato, con diverse inversioni di
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9. LA PERVERSA REDISTRIBUZIONE DEL REDDITO 211

1970-74 1975-79 1980-84 1985-89 1990-94 1995-99 2000-02

Italia + 2,0 + 0,4 - 0,6 - 1,7 - 0,4 - 2,2 - 1,6


Francia + 0,4 + 1,8 + 0,5 - 1,5 - 1,0 - 1,5 + 0,3
Germania + 2,4 + 1,1 - 0,8 - 0,6 - 0,8 - 1,3 - 0,5
Spagna + 3,3 + 3,3 + 0,5 - 0,9 + 2,3 - 2,2 - 0,9
Gran Bretagna + 1,3 - 0,3 + 0,9 - 2,1 0 - 0,6 + 0,1
USA - 1,0 - 2,6 - 1,8 - 3,4 - 1,4 - 1,8 - 0,8
Giappone + 2,2 - 2,7 - 1,7 - 2,6 - 0,1 - 0,4 + 0,3

Tabella 22. Differenza tra il tasso di crescita dei salari orari e il tasso di crescita del reddi-
to nazionale. Valori medi annui (1970-2002). (Fonte: nostre elaborazioni su dati OECD,
Employment Outlook Database ed European Commission, 2002).

tendenza lungo il periodo considerato. In Giappone negli ultimi anni c’è


stata una ripresa dei salari, dopo un quarto di secolo di riduzione relati-
va. Negli USA, invece, il quadro è omogeneo lungo gli ultimi tre decenni,
con i salari che sono cresciuti molto meno del reddito complessivo, anche
se nel corso degli ultimi anni si nota un’attenuazione della tendenza.
Considerando che ciò che hanno perso i salari hanno guadagnato i
profitti e le rendite, si può ben dire che l’Italia, nell’ultimo decennio, è
stato il paese del “bengodi” per il rendimento del capitale, senza uguali
nel mondo industrializzato, avendo ampiamente superato persino gli USA.
Addirittura, nel quinquennio 1995-99 il salario reale di un’ora di lavoro è
in Italia diminuito in valore assoluto (-0,3 per cento all’anno), cosa mai
verificatasi in nessun altro dei principali paesi industriali lungo l’intero
arco di tempo considerato.

9.2. Bassi salari, povertà e disuguaglianza nell’Italia di Maastricht

Al calo della quota distributiva delle retribuzioni sul reddito naziona-


le è corrisposto un drastico peggioramento della condizione reddituale
individuale dei lavoratori italiani. Osserviamo la tabella 23, costruita uti-
lizzando i risultati di uno studio condotto sulla base dell’archivio storico
della Banca d’Italia sul reddito e la ricchezza delle famiglie italiane, che
mostra l’incidenza dei lavoratori a basso salario sul totale dei lavoratori
dipendenti4. La tabella è corredata da altre variabili relative ai valori as-
soluti dei livelli salariali, al numero di lavoratori in condizioni di disagio
economico e a indici di disuguaglianza retributiva. I valori sono espressi
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212 DOPO IL LIBERISMO

Totale occupati Occupati a tempo pieno

1989 1998 1989 1998

Lavoratori a basso salario(1) 8,1 18,3 6,4 12,2


Numero lavoratori a basso salario 1.279.000 2.738.000 - -
Salario medio 2.299.000 2.094.000 2.326.000 2.202.000
(2) 1.476.000 1.333.000 1.476.000 1.389.000
Soglia bassi salari inferiore a lire
Caratteristiche personali
Sesso
Maschi 4,9 13 4,5 9,8
Femmine 13,8 25,9 10 16,1
Età
Sotto i 30 15 34 13,1 26,2
Tra 31 e 50 5 12,5 3,4 7
Oltre 50 4,6 13,6 3,2 9,6
Area geografica
Nord 8,1 14,4 6,2 8,6
Sud 8,2 27,6 7 20,9
Settore economico
Industria 9 16,6 7,5 13,4
Agricoltura 17,3 45,1 17,7 39,7
Commercio 12,8 24,9 10,1 14,6
Trasporti e credito 2,6 12 1,6 8,8
Altri servizi 6,5 16,1 4,5 8,5
Condizione professionale
Operaio 12,2 24,9 10,4 18,1
Impiegato 4,5 10,2 2,9 6,4
Indici di disuguaglianza e di povertà
Salario netto del 10% meno pagato 1.483.000 1.000.000 1.483.000 1.250.000
Salario netto del 10% meglio pagato 3.188.000 3.080.000 3.188.000 3.250.000
(3)
Rapporto tra primo e ultimo ventile 298 495 274 375
(4)
Indice di concentrazione di Gini 0,193 0,241 0,187 0,216

Lavoratori poveri sul totale dei dipendenti (5) 4,1 7,7 - -


Lavoratori a basso salario e poveri sul totale 0,6 3,7 - -
Numero lavoratori poveri 653.000 1.141.000 - -
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9. LA PERVERSA REDISTRIBUZIONE DEL REDDITO 213

(1) Lavoratori con salario netto mensile inferiore ai due terzi del salario mediano.
(2) Valore a prezzi del 1998.
(3) Rapporto percentuale tra il salario netto del 5 per cento dei lavoratori meglio pagati rispetto al 5 per cento
dei lavoratori con salario più basso.
(4) L’indice di Gini varia da 0 (perfetta uguaglianza) a 1 (completa concentrazione).
(5) Sono considerati poveri i lavoratori appartenenti a famiglie con reddito disponibile inferiore al 50 per cento
di quello mediano.
Il trattino indica che il dato non è disponibile.

Tabella 23. Bassi salari e povertà tra i lavoratori dipendenti. Italia, 1989 e 1998. Quote
percentuali sul totale. Valori monetari espressi in lire (1998). (Fonte: nostre elaborazioni
su dati Brandolini - Cipollone - Sestito, Banca d’Italia, 2001).

in termini reali netti mensili, cioè depurati dall’inflazione, dai contributi


sociali e dalle imposte dirette versate. Un salario è considerato basso
quando è inferiore ai due terzi del salario mediano, cioè del salario per-
cepito dal lavoratore che si colloca esattamente a metà nella classifica del-
le retribuzioni.
Negli anni Novanta i lavoratori a basso salario si sono moltiplicati,
passando dall’8,1 per cento del totale nel 1989 al 18,3 per cento del 1998.
Questo fenomeno si è manifestato nonostante una consistente caduta del
livello dei salari reali netti. Infatti, nel corso del periodo considerato, il
salario medio di un lavoratore dipendente è calato in termini reali del 9
per cento e la soglia di ingresso nella fascia dei bassi salari è diminuita di
ben 143.000 lire mensili. Tutto ciò avrebbe dovuto rendere meno proba-
bile la caduta sotto il livello salariale considerato basso, poiché, ad esem-
pio, una retribuzione mensile di 1.400.000 lire, che nel 1989 rientrava
nella categoria dei bassi salari, nel 1998 è invece risultata nettamente su-
periore alla soglia.
La precarizzazione dei rapporti di lavoro, con la correlata estensione
dell’occupazione part-time, è in grado di dar conto soltanto di una parte
della questione, poiché anche per i lavoratori regolari a tempo pieno si è
verificata una riduzione sia del salario medio (-5,3 per cento), sia del va-
lore di soglia (-87.000 lire), accompagnate da un contemporaneo incre-
mento di coloro che si sono classificati nella categoria dei bassi salari (dal
6,4 per cento al 12,2 per cento). Il numero dei lavoratori a basso salario
è cresciuto di oltre un milione e mezzo di unità, raggiungendo nel 1998
la ragguardevole cifra di 2.738.000 persone.
Passando ad esaminare le caratteristiche personali dei lavoratori a bas-
so salario si può osservare come il fenomeno sia maggiore per le donne
(25,9 per cento) e per i giovani (34 per cento), anche se nel corso degli
anni Novanta si è relativamente estesa la fascia dei lavoratori anziani po-
co remunerati. Drammatico è stato l’aggravamento delle disparità terri-
toriali. Infatti, mentre nel 1989 la quota di lavoratori meridionali a basso
salario era pressoché identica a quella dei lavoratori settentrionali, nel
1998 essa è diventata il doppio, tanto che più di un quarto di tutti i lavo-
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214 DOPO IL LIBERISMO

ratori dipendenti del Sud (27,6 per cento) percepiscono a fine periodo
una bassa remunerazione. Questi dati, davvero impressionanti, sulla cre-
scita dei bassi salari nel Meridione, testimoniano che già alla fine degli
anni Novanta il processo di differenziazione territoriale dei salari era in
fase avanzata, in coerenza con le tendenze federaliste che a livello istitu-
zionale cominciavano ad affermarsi.
In termini di settore economico i bassi salari colpiscono prevalente-
mente l’agricoltura e il commercio, ma anche il settore dell’industria pre-
senta una forte incidenza del fenomeno (16,6 per cento). In termini di
condizione professionale sono gli operai ad essere più penalizzati: nel de-
cennio considerato la quota di operai a basso salario è più che raddop-
piata (dal 12,2 per cento al 24,9 per cento) e ciò è avvenuto anche per co-
loro che hanno un lavoro a tempo pieno (dal 10,1 per cento al 18,1 per
cento). È comunque manifestazione di una tendenza generale il fatto che
anche la categoria dei lavoratori non manuali presenti una forte accelera-
zione della quota di basse retribuzioni.
L’estensione del fenomeno dei bassi salari è indizio, oltre che di un
chiaro impoverimento della classe lavoratrice, anche di un aumento delle
disuguaglianze all’interno del mondo del lavoro dipendente. Come si può
osservare dalla tabella, il salario reale dei dipendenti a tempo pieno me-
glio pagati è aumentato, sia pur di poco, nel decennio considerato (+2 per
cento) a fronte di un vero e proprio crollo dei salari dei lavoratori dipen-
denti a tempo pieno che si collocano in fondo alla scala retributiva (-16
per cento). Mentre nel 1989 il 5 per cento di lavoratori meglio pagati per-
cepiva un salario mensile netto pari a 2,98 volte quello percepito dal 5 per
cento dei lavoratori meno pagati, nel 1998 la differenza è cresciuta fino a
4,95 volte. L’indice di disuguaglianza di Gini all’interno del lavoro dipen-
dente è aumentato nel periodo di Maastricht del 25 per cento, arrivando
a quota 0,241.
Tuttavia, nonostante questo incremento, la disuguaglianza all’interno
del lavoro dipendente rimane significativamente inferiore a quella rela-
tiva al complesso delle famiglie. L’indice di Gini sul totale della popola-
zione italiana nel 2000 è infatti risultato pari a 0,3605, con un deciso in-
cremento rispetto al valore di un decennio prima6. Studi ulteriori hanno
mostrato come la tendenza alla concentrazione dei redditi negli anni No-
vanta non sia un fenomeno limitato soltanto al lavoro dipendente ma
rappresenti una tendenza generale che ha coinvolto l’intera popolazio-
ne7. In particolare, la concentrazione dei redditi risulta molto maggiore
nel Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord, a conferma della persistenza
di un dualismo non soltanto economico ma anche sociale all’interno del
nostro paese8.
Tornando alla tabella 23 possiamo osservare che all’incremento dei la-
voratori a basso salario è corrisposto un raddoppio dei lavoratori che vi-
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9. LA PERVERSA REDISTRIBUZIONE DEL REDDITO 215

vono in condizioni di povertà, appartenenti cioè a famiglie con reddito


pro capite inferiore al 50 per cento di quello mediano, i quali nel 1998
hanno ampiamente superato il milione (1.141.000 persone), raggiungen-
do una quota pari al 7,7 per cento del totale dell’occupazione dipenden-
te. Circa la metà dei lavoratori poveri nel 1998 ha un basso salario, men-
tre nel 1989 soltanto un lavoratore povero su sette si trovava in questa
condizione. Questo dato sta a significare che, mentre alla fine degli anni
Ottanta la condizione di povertà di un lavoratore dipendeva prevalente-
mente da condizioni personali e familiari extralavorative (numero di figli,
storie individuali, anziani a carico, ecc.), alla fine degli anni Novanta è in-
vece la bassa remunerazione ad essere la causa principale della povertà.
Uno studio condotto da Prometeia, uno dei più autorevoli istituti di ri-
cerca economica italiani, fornisce un dato impressionante: negli anni
1998-2000 ben il 19,3 per cento delle persone che vivevano all’interno di
famiglie operaie erano in condizioni di povertà, contro l’11,3 per cento di
venti anni prima (1977-80)9.
I dati a nostra disposizione sull’incidenza dei bassi salari tra i lavora-
tori dipendenti si fermano alla fine degli anni Novanta. Tuttavia, consi-
derando che le tendenze distributive hanno proseguito nella stessa dire-
zione anche nei primi anni del nuovo secolo, come abbiamo visto nel pa-
ragrafo precedente, possiamo considerare i dati della tabella come una de-
scrizione fedele dell’attuale condizione lavorativa. Anzi, per certi aspetti,
come ad esempio per quelli relativi alla maggiore precarietà del rapporto
di lavoro, le tendenze manifestatesi nel decennio precedente potrebbero
aver conosciuto una ulteriore accelerazione nel corso di questi ultimi an-
ni. A conferma di ciò, le più recenti statistiche ISTAT sulla povertà in Ita-
lia affermano che nel biennio 2001-02 i lavoratori dipendenti in condi-
zione di povertà relativa sono cresciuti fino ad arrivare al 9 per cento del
totale, rispetto al 7,7 per cento del 199810. È così massicciamente torna-
to, alle soglie del nuovo millennio, il fenomeno dei working poors, dei la-
voratori poveri, che sembrava scomparso dagli albori della rivoluzione
industriale.
Purtroppo però la condizione di povertà rappresenta nell’Italia di og-
gi una condizione ben più diffusa e coinvolge, insieme ai lavoratori di-
pendenti a basso salario, milioni di anziani, di genitori con prole nume-
rosa e di disoccupati. Infatti, le persone che hanno vissuto in situazione
di povertà relativa11, nel corso dell’ultimo quinquennio disponibile (1997-
2002), sono state in media annua quasi otto milioni (circa il 13 per cento
del totale della popolazione italiana), appartenenti a oltre due milioni e
mezzo di famiglie italiane (circa il 12 per cento del totale delle famiglie re-
sidenti). Se a queste aggiungiamo le famiglie quasi povere12, cioè quelle
che hanno una spesa appena superiore a quella del livello di povertà re-
lativa, verifichiamo che ben il 20 per cento delle famiglie italiane (una fa-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 216

216 DOPO IL LIBERISMO

miglia su cinque) vive in condizioni economiche estremamente disagiate.


La povertà relativa risulta fortemente concentrata nel Mezzogiorno, dove
vivono oltre i due terzi delle famiglie povere e dove una persona su quat-
tro si trova in tale condizione. Le famiglie povere o quasi povere sul to-
tale delle famiglie meridionali sono il 35,3 per cento del totale.
Il quadro diventa ancora più fosco se si considerano i dati relativi alla
condizione di povertà assoluta, che riguarda quelle famiglie che non di-
spongono dei beni e dei servizi essenziali alla sopravvivenza, indipenden-
temente dallo standard medio delle condizioni di vita del resto della po-
polazione. Basti pensare che nel 2002 la soglia di povertà assoluta è stata
fissata dall’ISTAT al valore di una spesa complessiva per un famiglia di due
persone pari a 573,63 euro mensili. È veramente difficile credere che due
persone riescano a vivere con questa misera cifra nell’Italia di oggi. Ebbe-
ne, nel biennio 2001-02, le famiglie assolutamente povere sono state qua-
si un milione (il 4,2 per cento del totale), comprendenti circa tre milioni di
persone (il 5,2 per cento della popolazione italiana). Non si può che defi-
nire drammatico il fatto che oggi nel Mezzogiorno d’Italia più di una per-
sona su dieci si trovi in condizioni di assoluta indigenza. Si comprende al-
lora come mai nell’Italia del 2002 ci siano state 820.000 famiglie che non
sono riuscite a comprare il cibo necessario a sfamarsi13, due milioni di fa-
miglie che non hanno potuto comprare i vestiti di cui avevano bisogno e a
pagare le bollette, quasi un milione e mezzo di famiglie che non hanno po-
tuto curarsi perché non avevano i soldi necessari a pagare le spese medi-
che e ben tre milioni e duecentomila famiglie che non sono riuscite a pa-
gare l’affitto. Per chi non credesse ai propri occhi di fronte a queste cifre,
l’invito è quello di andare a leggere le statistiche ufficiali dell’ISTAT ripor-
tate nella Relazione annuale sulla situazione sociale del paese nel 2003.
Se dai redditi volgiamo lo sguardo alla distribuzione della ricchezza, il
livello di disuguaglianza nel possesso dei patrimoni si impenna vorticosa-
mente. Nel 1998 l’indice di disuguaglianza di Gini nella distribuzione
della ricchezza familiare è risultato quasi doppio rispetto a quello dei red-
diti, raggiungendo un valore molto elevato in termini assoluti, pari a
0,630 per la ricchezza netta e addirittura a 0,742 per la ricchezza finan-
ziaria. Osserviamo infatti la tabella 24, in cui le famiglie italiane sono sta-
te suddivise in cinque categorie, ordinate secondo il valore del patrimo-
nio posseduto. Le prime tre categorie (povere, medie, benestanti) rap-
presentano ciascuna un quarto del totale delle famiglie italiane. L’ultimo
quarto più ricco della popolazione è stato, a sua volta, suddiviso in due
tipologie, quello delle famiglie ricche (15 per cento del totale) e quello
delle famiglie ricchissime (10 per cento superiore del totale). È da sotto-
lineare che le categorie in cui è suddivisa la popolazione sono molto gran-
di e quindi non rappresentano i casi di estrema miseria o di lusso sfrena-
to, ma sono rappresentative delle normali condizioni di vita delle famiglie
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9. LA PERVERSA REDISTRIBUZIONE DEL REDDITO 217

Condizione patrimoniale famiglie Povere Medie Benestanti Ricche Ricchissime Totale

Quota sul totale delle famiglie italiane 25% 25% 25% 15% 10% 100
RICCHEZZA REALE 0,8 9,2 21,2 23 45,8 100
di cui Abitazione principale 0,6 7,4 17,7 16,6 19,1 61,4

Altre attività reali (1) 0,2 1,8 3,5 6,4 26,7 38,6
RICCHEZZA FINANZIARIA 3,6 8,2 14,2 19 55 100
di cui Depositi bancari 2,5 5,2 6,5 6,7 13,3 34,2
Titoli di Stato 0,6 1,6 2,7 3,8 6,1 14,8
(2) 0,5 1,4 5 8,5 35,6 51
Altri titoli finanziari
Debiti 12,5 21,2 26,3 20,3 19,7 100

RICCHEZZA NETTA TOTALE (3) 1,5 8,7 18,9 21,8 49,1 100

(1) Altri immobili, aziende e oggetti di valore.


(2) Azioni, obbligazioni, fondi comuni, assicurazioni vita.
(3) Ricchezza netta totale = Ricchezza reale + Ricchezza finanziaria - Debiti.

Tabella 24. Concentrazione e composizione della ricchezza delle famiglie italiane. Anno
1998. (Fonte: nostre elaborazioni su dati Faiella - Neri, Banca d’Italia, 2004).

italiane. I valori in grassetto nelle colonne di destra rappresentano le quo-


te percentuali di ricchezza detenute da ciascuna categoria di famiglia. Le
differenti forme di ricchezza sono state, a loro volta, scomposte nelle di-
verse tipologie di patrimoni detenuti, cioè, rispettivamente, nella pro-
prietà dell’abitazione principale e in quella di altri patrimoni reali per la
ricchezza reale e nel possesso di depositi bancari, titoli di Stato e altri ti-
toli finanziari per quanto riguarda la ricchezza finanziaria.
La sperequazione nella distribuzione dei patrimoni familiari è veramen-
te enorme. Circa la metà della ricchezza familiare netta del paese è detenu-
ta dal 10 per cento più ricco della popolazione, mentre le famiglie in con-
dizioni economiche medio-basse, che rappresentano la metà delle famiglie
italiane, possiedono in tutto soltanto il 10 per cento circa della ricchezza
netta totale. Questo, in concreto, vuol dire che il 10 per cento delle famiglie
più ricche possiede complessivamente un patrimonio netto pari a quello di
tutto il restante 90 per cento delle famiglie italiane. In media, una famiglia
che si colloca nella fascia delle ricchissime ha una ricchezza netta ottanta
volte maggiore di quella posseduta mediamente dal 25 per cento delle fa-
miglie più povere. In termini di valore monetario, le famiglie ricchissime
hanno in media un patrimonio netto superiore al milione di euro (1.030.000
euro), mentre per le famiglie povere esso è di appena 12.856 euro.
Guardando alla composizione della ricchezza detenuta ci accorgiamo
che per la gran parte delle famiglie italiane le forme prevalenti di patri-
monio sono quelle della proprietà dell’abitazione principale e dei deposi-
ti bancari, che non danno praticamente nessuna rendita annua e che sod-
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218 DOPO IL LIBERISMO

disfano bisogni primari. In particolare, per le famiglie povere ben i tre


quarti della ricchezza reale posseduta è composta dalla casa in cui abitano
e il 70 per cento di quella finanziaria è rappresentata dal conto corrente
bancario. Completamente diverso è il discorso per le famiglie ricchissime,
che detengono invece il 63 per cento del patrimonio reale sotto forma di
proprietà immobiliare diversa dall’abitazione principale, di aziende e di
oggetti di valore (gioielli, quadri, ecc.) e ben i tre quarti del patrimonio fi-
nanziario sotto forma di titoli, in particolare azioni e obbligazioni (64,7 per
cento del totale). Le rendite reali e finanziarie, derivanti dal possesso del-
la ricchezza in forma di investimento remunerativo sono quindi, per la
grandissima parte, appannaggio delle famiglie più ricche. Questi dati, ol-
tre a mostrare come il livello di disuguaglianza raggiunga soglie intollera-
bili per un paese civile, saranno utili in seguito quando affronteremo la
questione del fisco e della struttura delle imposte in Italia.
Un ultimo dato interessante da osservare nella tabella è quello relativo
ai debiti delle famiglie italiane. Il dato in questione, è bene ricordare, si ri-
ferisce esclusivamente ai debiti personali (mutui, prestiti personali, paga-
menti rateali per acquisto di beni durevoli, ecc.) e non ai crediti ottenuti
per l’esercizio di un’attività economica. Teoricamente ci si dovrebbe atten-
dere che i debiti personali siano graduati secondo un andamento decre-
scente rispetto alla ricchezza detenuta, perché sono le famiglie meno ricche
ad aver bisogno di un ammontare relativamente maggiore di crediti per
soddisfare i propri bisogni di vita. Infatti, perché mai una famiglia ricchis-
sima, che possiede un patrimonio netto superiore al milione di euro, do-
vrebbe, se non in casi rari e anomali, chiedere e ricevere un prestito per ac-
quistare un bene di consumo o un bene di valore? Dovrebbero essere sem-
mai le famiglie che hanno una scarsa disponibilità di risorse a ricorrere più
frequentemente al prestito per vivere meglio. Almeno questo è ciò che do-
vrebbe accadere se il sistema finanziario rispondesse a elementari criteri di
razionalità sociale. Invece così non è, anzi è vero l’esatto contrario. Infatti,
la quota dei debiti è graduata in senso crescente rispetto alla ricchezza net-
ta detenuta, cioè più si è ricchi e più è facile ottenere soldi a credito. Una
famiglia ricchissima (ricordiamo che parliamo di ricchezza netta) riceve un
ammontare di crediti dal sistema bancario e finanziario per soddisfare le
proprie esigenze personali quattro volte maggiore di quello ricevuto da una
famiglia povera e due volte maggiore di quello concesso a una famiglia me-
dia. Data la diversa composizione dei consumi tra le famiglie ricche e quel-
le meno abbienti, se ne deduce che è molto più facile comprare a rate un
bene di lusso, come un anello di diamanti, un’opera d’arte da esporre nel-
la propria collezione privata o un panfilo, piuttosto che beni durevoli di
prima necessità, come un frigorifero, una cucina o una bicicletta.
Chiunque si è trovato nella condizione di dover accendere un mutuo
bancario o di dover acquistare a rate un oggetto di consumo sa bene per-
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9. LA PERVERSA REDISTRIBUZIONE DEL REDDITO 219

ché. Le banche e le società finanziarie prima di concedere un prestito vo-


gliono ricevere in cambio garanzie di reddito o di patrimonio, cosicché
chi non ha un reddito (come i disoccupati) o ha un reddito basso o va-
riabile (come i giovani precari, i pensionati o anche molti lavoratori di-
pendenti) oppure chi dispone di uno scarso o nullo patrimonio, non rie-
sce a ottenere nemmeno un euro a credito e deve rassegnarsi a sognare
l’acquisto di beni che sarebbero alla sua portata se il sistema creditizio
fosse soltanto un poco più efficiente e giusto dal punto di vista sociale.
Il sistema bancario e finanziario svolge quindi un ruolo regressivo sul
piano del benessere sociale e ciò, oltre a rendere ancora più intollerabi-
li le già enormi ingiustizie, ha anche un effetto negativo sull’economia
nel suo complesso, perché deprime i consumi e la domanda.
In questo paragrafo abbiamo quindi mostrato, con tabelle e dati e non
con discorsi moralistici, che i fenomeni dei bassi salari, della povertà, del-
l’indigenza assoluta e dell’enorme concentrazione delle ricchezze e dei pa-
trimoni forniscono una fotografia molto fedele delle condizioni di vita nel-
l’Italia di oggi, della grave e profonda ingiustizia sociale che caratterizza il
nostro paese. Chi oggi denuncia con toni allarmistici il fatto che si fanno
meno figli o che si vive insieme ai genitori fino a un’età matura dovrebbe
interrogarsi se queste distorsioni distributive, aggravate dal funzionamen-
to del sistema del credito, non siano la principale causa dei fenomeni de-
mografici così appassionatamente stigmatizzati14. Lo sapete o no quanto
costa metter su casa o far crescere un figlio?
Questi sono i risultati dell’applicazione delle politiche neoliberiste di
Maastricht in Italia. I continui tagli al bilancio pubblico hanno infatti ri-
dotto al minimo la capacità dello Stato di svolgere efficacemente il ruolo,
essenziale in ogni comunità civile, di redistribuzione dei redditi e delle ric-
chezze, in modo tale da garantire almeno il soddisfacimento dei bisogni es-
senziali di sopravvivenza a tutti i cittadini. Eppure, in questo periodo, co-
me abbiamo visto, se i salari, le pensioni e i sussidi pubblici sono stati pe-
santemente tagliati, non altrettanto è avvenuto per i redditi da capitale, pro-
fitti e rendite, i quali hanno al contrario vissuto un’era di floridezza, gon-
fiandosi sempre di più, senza che ciò abbia portato nessun tipo di giova-
mento al progresso economico del paese. Ma dove sono finiti tutti questi
soldi sottratti ai lavoratori dipendenti, ai giovani, agli anziani, ai bisognosi?

9.3. Dov’è finito il tesoro di Maastricht?

Dopo tutto quello che abbiamo visto, rimane dunque un mistero da


spiegare. Il mistero riguarda il perché le imprese italiane, pur in presenza
di una remunerazione del capitale netto così alta, su livelli da record in
una prospettiva storica, hanno fatto così poco per migliorare la qualità
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220 DOPO IL LIBERISMO

della nostra produzione e per invertire la tendenza al declino economico


del nostro paese, nonostante fosse questa l’unica strada possibile per l’e-
conomia italiana dopo l’entrata nell’euro. Un primo elemento lo abbiamo
già visto ed è la scarsa dinamica della domanda interna, causata dalle po-
litiche fiscali restrittive e dalla redistribuzione regressiva del reddito nel
periodo di Maastricht. Le imprese hanno investito poco perché gli im-
pianti e le attrezzature che avevano a disposizione erano più che suffi-
cienti per far fronte a una domanda stagnante, tanto è vero che il tasso di
utilizzo della capacità produttiva dell’industria manifatturiera italiana ne-
gli anni di Maastricht è stato pari a circa tre quarti del potenziale, ben al
di sotto di quello dell’industria francese e tedesca, superiore di circa otto
punti percentuali15.
L’altro elemento della scarsa dinamica degli investimenti produttivi lo
ricaviamo dalla tabella 19 di p. 207. La stretta monetaria ha assunto in
Italia caratteri eccezionalmente feroci e prolungati nel tempo. Nei primi
anni Novanta il tasso di interesse reale a breve termine è stato addirittu-
ra circa cinque volte superiore alla crescita del reddito e ha continuato,
anche nella seconda metà del decennio, ad essere nettamente superiore.
Soltanto negli ultimi anni si è assestato su valori all’incirca analoghi a
quelli del tasso di crescita del PIL. Questo elemento è un altro importan-
te tassello che spiega la galoppata dei redditi da capitale, a scapito di
quelli da lavoro, che si è verificata negli ultimi tredici anni.
Dove sono finite allora queste immense ricchezze, che hanno remu-
nerato il capitale come mai prima d’ora? Perché non hanno prodotto
nuovi investimenti e nuove occasioni di lavoro? La risposta ormai non è
difficile da trovare. Si chiama finanziarizzazione dell’economia italiana,
ancora più forte di quella avvenuta nel resto d’Europa. Nel periodo di
Maastricht le imprese non hanno investito nell’ammodernamento tecno-
logico e produttivo perché era molto più conveniente dirottare i lauti
profitti, ottenuti a scapito del lavoro, verso attività puramente finanzia-
rie, in Italia o all’estero. Inoltre, il costo di finanziamento degli investi-
menti era talmente elevato che la gran parte dei guadagni da essi deri-
vanti sarebbe finita nei bilanci delle banche e degli investitori finanziari.
Infatti, se è vero che nel corso dell’ultimo decennio il livello di indebita-
mento delle imprese italiane è calato, ciò non significa che siano aumen-
tati gli incentivi all’investimento produttivo, soprattutto a quello orien-
tato all’innovazione, per sua natura più incerto e a redditività differita.
La riduzione del livello di indebitamento delle imprese non finanziarie
italiane sembra derivare da un atteggiamento di maggiore cautela nel
perseguire un’espansione produttiva, piuttosto che da una maggiore
convenienza dell’investimento reale rispetto a quello finanziario. Le im-
prese hanno infatti spesso preferito utilizzare i benefici della riduzione
degli oneri di finanziamento, avvenuta in particolare nella seconda metà
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9. LA PERVERSA REDISTRIBUZIONE DEL REDDITO 221

degli anni Novanta, per rafforzare il controllo proprietario o per opera-


zioni di acquisizione finanziaria16.
Ma il rinvio o la rinuncia all’investimento produttivo ha effetti perma-
nenti sul sistema economico, lascia segni indelebili sulla configurazione
dell’apparato industriale e produce ritardi difficilmente colmabili in tempi
rapidi, tanto più quando ci si astiene dall’investire produttivamente pro-
prio in una fase caratterizzata da una massiccia ondata di innovazioni tec-
nologiche nel campo dell’informatica e della comunicazione.
La ragione fondamentale della precipitazione dell’economia italiana sta
dunque tutta nel comportamento speculativo delle imprese nostrane, in
particolare di quelle medio-grandi, incoraggiato e sostenuto, con la com-
plicità dei governi e del sistema bancario, da politiche fiscali e monetarie
ferocemente restrittive. La dilapidazione del patrimonio industriale pub-
blico, realizzata attraverso le privatizzazioni selvagge degli anni Novanta,
ha fatto il resto, come abbiamo visto. I sacrifici compiuti dai lavoratori e
pagati in termini di riduzione dei salari e di precarietà sono andati in fumo.
Questa è la triste storia del nostro capitalismo, quello di Tanzi e di Cra-
gnotti, vere star emergenti dell’imprenditoria italiana degli anni Novanta.
Il grande capitale italiano, reso florido da questo fiume di denaro, si è
lanciato nella grande avventura della finanza internazionale. Come in una
fantastica giostra, gli anni Novanta hanno visto un susseguirsi di fusioni,
acquisizioni, scalate di Borsa, ardite speculazioni su tutti i più sofisticati
e rischiosi strumenti finanziari, da parte dei principali gruppi industriali
italiani. L’utile d’impresa è sempre meno derivato dalla produzione reale
e sempre più dalla remunerazione delle poste puramente finanziarie.
Rendita e profitto si sono fusi, riconfigurando così la catena del valore. Il
profitto puramente industriale si è via via ristretto al sistema delle picco-
le imprese. La gran parte del surplus economico si è incanalato lungo le
vie della vecchia rendita finanziaria e della nuova rendita monopolistica,
fatta di predominio commerciale e comunicativo. Tutte le principali crisi
industriali di questi anni hanno avuto origine da speculazioni finanziarie
finite male. I casi della Parmalat e della Cirio sono solo gli esempi più cla-
morosi e devastanti di una generale propensione speculativa che ha con-
tagiato l’intero capitalismo privato italiano, in perfetta sintonia con il ca-
pitalismo emergente degli anni d’oro della globalizzazione neoliberista17.
Quando non bastavano le risorse proprie per questi giochi speculati-
vi, sono arrivate pronte in aiuto le banche. Le responsabilità del sistema
bancario sono enormi. Le banche hanno favorito questi processi, apren-
do i cordoni della borsa per finanziare o gestire operazioni improduttive,
prive di garanzie e di prospettive reali. E quando le cose volgevano al
peggio, non hanno mancato di scaricare sulle spalle dei piccoli rispar-
miatori i costi delle avventure finanziarie dei vari Tanzi e Cragnotti. Di
più, con la liberalizzazione e la privatizzazione del sistema bancario è an-
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222 DOPO IL LIBERISMO

che venuto meno il divieto della commistione tra banca commerciale e in-
dustria. Abbiamo così assistito a un connubio sempre più stretto di parte-
cipazioni azionarie incrociate tra grandi istituti bancari e finanziari e gran-
di imprese industriali. La banca è diventata proprietaria dell’industria e vi-
ceversa. In questo modo, i potenziali conflitti di interesse si sono moltipli-
cati a dismisura, fino a diventare la norma. La storia economica ha dimo-
strato come in queste condizioni il credito perda la sua funzione di filtro,
per assumere una funzione conservativa e parassitaria. La Banca d’Italia
ha assecondato questo andazzo, chiudendo tutti e due gli occhi di fronte
a tale spettacolo. La politica fiscale e la gestione del debito pubblico, più
attente alle esigenze dei mercati finanziari che alla minimizzazione degli
oneri, hanno dato il loro contributo, promuovendo la cultura della ren-
dita e del facile guadagno. In questo modo si sono bruciate non solo le ri-
sorse ricavate dal maggiore sfruttamento del lavoro, ma anche quelle di
tanta parte del piccolo risparmio. Perché, quando la grande giostra si è
fermata, con lo scoppio della bolla speculativa e con la recessione, il ca-
stello di carte è crollato. Ci si è accorti allora che agli abnormi livelli di in-
debitamento di alcune grandi imprese corrispondevano ben poche ric-
chezze reali. Si è scoperto che i lauti margini di utile non derivavano dal-
la produzione, ma dai debiti di altri.
Le vicende della Parmalat e della Cirio non sono, allora, riducibili al-
le propensioni criminali di un imprenditore. Né alle carenze dei control-
li societari e finanziari. E nemmeno all’arretratezza del nostro capitalismo
nazionale. Beninteso, questi elementi esistono e serviranno soprattutto al-
la magistratura per ricostruire le modalità particolari dei crack. Ma essi
da soli non danno conto del perché di quanto è avvenuto. Ridurre la vi-
cenda a questi elementi, come capita spesso di leggere, vuol dire tentare
di circoscriverne portata e significato. Infatti, l’intento speculativo è par-
te costitutiva dell’identità di ogni imprenditore, il cui ruolo economico è,
per dirla con Keynes, quello di assumere su di sé l’incertezza del futuro
per trarne guadagno. D’altra parte, il sistema di controlli oggi in vigore
esiste da tempo e mai, finora, si era dimostrato così colpevolmente ineffi-
ciente. Infine, i crack di Cirio e di Parmalat, così simili a quelli che han-
no sconvolto Wall Street18, segnalano semmai una modernizzazione del
nostro capitalismo, diventato sempre più simile al modello americano.
Certo, la particolare caratteristica del capitalismo italiano, quella di es-
sere ancora dominato negli assetti proprietari dalle grandi, o più spesso
piccole, dinastie familiari, ha fatto sì che la vis speculativa sprigionata dal-
l’esplosione della finanza internazionale degli anni Novanta attecchisse in
misura maggiore nel nostro paese19. Il capitalismo familista nostrano, in-
fatti, ha diffuso una concezione patrimonialistica dell’impresa, che ricorda
più l’idea feudale che non quella borghese della proprietà. La grande fa-
miglia, che spesso, grazie all’inestricabile gioco delle scatole cinesi di so-
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9. LA PERVERSA REDISTRIBUZIONE DEL REDDITO 223

cietà fittizie da noi così diffuso, riesce a controllare una importante impre-
sa multinazionale possedendo soltanto una piccola parte minoritaria del
capitale azionario, tende a considerare come cosa propria, come propria
“roba”, l’intera azienda e tutte le parti che la compongono. Essa si arroga
così il diritto di disporre pienamente non soltanto delle azioni in suo pos-
sesso, ma anche di quelle dei piccoli azionisti, così come dei beni, delle ri-
sorse gestionali e perfino degli stessi lavoratori dell’azienda. Così non è più
la famiglia che si pone al servizio dell’impresa, allo scopo di perseguire
obiettivi di efficienza produttiva oppure anche solo di massimizzazione del
profitto, ma, viceversa, è l’impresa tutta che diventa strumento di potere,
di splendore e molto più sovente di miseria dinastica. L’atavico carattere
predatorio del capitalismo italiano si è trovato perfettamente a proprio
agio negli anni d’oro delle avventure finanziarie, perché aveva anticipato,
forse per la prima volta nella sua storia, un modello che è diventato uni-
versale, quello della globalizzazione finanziaria di stampo neoliberista.
In questa nuova e selvaggia versione dell’economia capitalistica è, in-
fatti, mutata alla radice la stessa funzione dell’impresa20. Suo compito
esclusivo è diventato quello della creazione immediata di valore finanzia-
rio. Non più quindi la produzione di ricchezza reale, bensì l’appropria-
zione di ricchezza finanziaria è la sua nuova missione. La quotazione di
Borsa, non più l’uso efficiente e razionale dei fattori produttivi, è diven-
tato l’indice supremo di successo imprenditoriale. È caduta così ogni di-
stinzione tra rendita e profitto. L’impresa non produce più beni e servizi
da cui ricavare l’utile, ma titoli finanziari da cui mungere rendite. Nel-
l’attuale modello di capitalismo l’ottica con cui l’impresa viene gestita è
quella della massimizzazione della remunerazione finanziaria di breve pe-
riodo della proprietà azionaria. In tal modo, l’impresa viene ridotta sem-
plicisticamente a una macchina di distribuzione di profitti e dividendi a
favore dei suoi proprietari. La dimensione puramente finanziaria ha così
il sopravvento su quella produttiva. Gli altri interessi coinvolti, quelli dei
lavoratori, dei risparmiatori, dei consumatori, vengono trascurati o addi-
rittura eliminati dalla logica gestionale. L’impresa non è più allora il luo-
go di produzione della ricchezza e del benessere, dove interessi e sogget-
ti reciprocamente autonomi concorrono, anche in maniera conflittuale, a
un risultato socialmente utile ed economicamente efficiente, ma diventa
strumento di appropriazione privata di ricchezza sociale, elemento di di-
struzione e non di produzione di valore economico.
E poiché l’impresa è il cuore dell’economia capitalistica, il suo centro
motore, tutto intorno a lei è stato ricostruito per agevolare lo svolgimen-
to della sua nuova missione. I mercati finanziari sono volubili ed emotivi?
Il valore finanziario è soggetto a rapidi e improvvisi mutamenti? Allora
l’impresa deve essere snella e agile per navigare veloce tra questi marosi
imbizzarriti. Tutti gli ormeggi e le zavorre devono essere eliminati. In pri-
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224 DOPO IL LIBERISMO

mo luogo, quelli, pesanti perché fatti di carne e sangue, del lavoro: flessi-
bilità e precarietà generalizzate ne sono la conseguenza. Poi, quelli delle
garanzie sociali: tutto, dalla scuola alla sanità ai beni comuni, deve diven-
tare terreno di caccia per la moltiplicazione delle cedole. Ancora, i vinco-
li spaziali e temporali devono saltare: il mondo intero è un unico, perpe-
tuo mercato virtuale, popolato di tanti paradisi fiscali, coccolati dalle au-
torità monetarie. In questa orgia di privatizzazioni e liberalizzazioni la di-
mensione pubblica e sociale dell’impresa sparisce. Lo Stato, la collettività,
la società, diventano entità diaboliche da evitare o sottomettere. I confini
della legalità e della moralità si dissolvono. I mercati non premiano chi ri-
spetta le regole. I mercati premiano chi paga. E finché paga. Tutti gli scan-
dali finanziari di questi anni, in Italia e nel mondo, sono venuti a galla so-
lo quando l’impresa non era più in grado di onorare il soldo, mai prima.
Eppure tutte queste imprese da anni agivano in modo fraudolento, ap-
plaudite e vezzeggiate innanzitutto da chi doveva vigilare su di loro.
C’è chi penserà che in verità, da sempre, fin dai tempi delle Compa-
gnie delle Indie orientali, l’impresa capitalistica altro non è stata che una
vorace divoratrice di uomini, cose e natura per trasmutare il tutto in va-
lore monetario, in profitto, in dividendi. Questo è storicamente vero. Ma
è altrettanto vero che un tempo questi comportamenti, pur nella loro
brutalità, spingevano avanti la ruota della storia e promuovevano, seppur
a un caro prezzo, grondante di sangue, lo sviluppo delle forze produttive
dell’umanità. Per questo, nel capitalismo adolescente e proiettato al futu-
ro, l’impresa teorizzata divergeva da quella praticata. L’impresa veniva
descritta e presentata, dai suoi apologeti, come il motore del progresso
umano, come il soggetto che, perseguendo i suoi fini egoistici, migliora-
va la condizione di tutti. E c’era allora, contemporaneamente, una dupli-
ce verità interna, sia nelle tesi dei difensori che in quelle dei critici del-
l’impresa capitalistica e del suo sistema. Oggi invece non è più così. Og-
gi è la teoria dell’impresa che si è adeguata alla sua sempiterna pratica.
Oggi nei consigli di amministrazione delle multinazionali globali, come
nelle aule delle più prestigiose università americane, non si parla più del-
la missione sociale e storica dell’impresa, ma solo della sua mission azien-
dale, valutata in termini della quotazione del listino della Borsa che, in
qualche remota parte del mondo, sta aprendo i battenti, in una staffetta
perpetua con un’altra che li sta serrando. L’impresa capitalistica non è più
in grado né di essere, né di apparire come l’avanguardia del progresso
umano. E questo cambia le cose. È il segno della decadenza, dell’avvizzi-
mento di ogni prospettiva futura, che consuma il modello della globaliz-
zazione neoliberista. Questo degrado, fisico e morale, dell’impresa capi-
talista rischia di trascinare con sé l’intera società.
Oggi in Italia tutti, anche coloro che hanno prosperato su questo si-
stema, dicono a parole di volere nuove regole. Questo è giusto, perché le
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9. LA PERVERSA REDISTRIBUZIONE DEL REDDITO 225

vecchie regole non hanno funzionato. Molti vogliono nuovi controllori. E


anche questo è giusto, perché chi doveva controllare non ha controllato.
Nessuno, dall’ultimo contabile della Parmalat al governatore della Banca
d’Italia, può dirsi sereno dei propri comportamenti. Tuttavia, prima di
accapigliarsi sulle nuove regole, occorre chiarirsi sugli scopi ultimi di que-
ste operazioni. Lo scopo è quello di temperare, governare, regolare il mo-
dello della globalizzazione neoliberista? Pia e colpevole illusione, desti-
nata a reggere fino al prossimo scandalo. Solo dentro un quadro alterna-
tivo di politica economica, dove l’intervento pubblico indirizza le scelte
economiche verso fini di utilità sociale, le nuove regole potranno essere
efficaci. Solo subordinando, nelle norme e nella cultura, l’agire dell’im-
presa privata agli interessi sociali e collettivi, il virus della speculazione
potrà essere estirpato e la decadenza arrestata, e con essa la barbarie del-
la guerra e del terrore. Che cosa, come, per chi e quanto produrre: que-
ste scelte decisive per l’intera società non possono più essere lasciate ai
Cragnotti o ai Tanzi di turno.
Eccoci allora nella situazione di oggi: una crisi economica profonda e
strutturale, una crisi sociale sempre più acuta. A ben poco servono i pro-
clami e gli appelli solenni. Occorre che il paese prenda coscienza di quan-
to è accaduto, per ripartire lungo nuovi percorsi, radicalmente alternati-
vi a quelli finora battuti. Nei primi decenni postunitari, il Parlamento ita-
liano ha dato un contributo decisivo a elevare e diffondere la conoscenza
sulle grandi emergenze del paese. I risultati delle grandi inchieste parla-
mentari sulla povertà o sull’agricoltura costituiscono ancora oggi docu-
menti di alto valore scientifico e morale. La stessa cosa servirebbe oggi.
Una commissione d’inchiesta parlamentare che indaghi sullo stato del
nostro capitalismo, sulle responsabilità delle sue classi dirigenti, sui pro-
getti e sugli strumenti da attivare per rilanciare su basi nuove lo sviluppo
economico e sociale. Una commissione d’inchiesta che non lavori nel
chiuso dei palazzi, ma che si immerga nella realtà viva del paese, fatta an-
che di tante e nuove energie vitali, oggi mortificate. Come quelle espres-
se dai movimenti. Sarebbe questo il miglior segnale di speranza e di fi-
ducia, di fronte al degrado civile e morale dei padroni del vapore, che le
istituzioni potrebbero dare al popolo italiano.
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10. Prima di tutto il lavoro e il salario!

10.1. Trasformazioni e nuova centralità del lavoro salariato

Nel corso degli ultimi due decenni il mondo del lavoro ha subito una ra-
dicale trasformazione sia in termini della sua condizione materiale, sia in
termini della sua identità sociale. L’origine di questo fenomeno è inscritta
nel mutamento di paradigma produttivo che ha investito il modo di pro-
duzione capitalistico dopo la crisi sociale della prima metà degli anni Set-
tanta. Molte discussioni si sono sviluppate intorno alla definizione termi-
nologica con cui indicare questo mutamento. In particolare, esse vertono
sull’uso e sul significato dei termini “fordismo” e “postfordismo”. È bene
allora chiarire che questi termini verranno utilizzati nel testo che segue co-
me semplici definizioni sintetiche, senza alcun rinvio a preordinate matrici
ideologiche, delle trasformazioni subite dai modelli di organizzazione della
produzione e del lavoro. Vista la loro provvisorietà e ambiguità semantica,
saranno usati tra virgolette. L’unico presupposto è quello del carattere rea-
le e concreto delle trasformazioni, perché non voler accorgersi che il mon-
do del lavoro e l’organizzazione della produzione sono oggi per molti
aspetti diversi da quelli di mezzo secolo fa è indice di pigrizia e di inerzia
intellettuale1.
Il tramonto dell’era “fordista” e il passaggio verso un’epoca “postfor-
dista”, ormai entrata nella sua maturità, ha decomposto la precedente
struttura di classe, frantumando figure sociali, distruggendo soggettività
ma anche modificando in profondità ruolo e posizione della forza lavoro
all’interno del processo produttivo e più in generale della società. La de-
finizione più sintetica di ciò che è avvenuto è quella di un massiccio pro-
cesso di svalorizzazione del lavoro. Questa categoria si declina concreta-
mente sotto quattro aspetti. In primo luogo, dal punto di vista economi-
co, la partecipazione dei redditi da lavoro alla distribuzione della ric-
chezza prodotta ogni anno è costantemente scesa, per un periodo non
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10. PRIMA DI TUTTO IL LAVORO E IL SALARIO! 227

breve anche in termini assoluti, a causa della progressiva perdita di pote-


re d’acquisto delle remunerazioni salariali. In secondo luogo, dal punto
di vista normativo, si è assistito a un violento smantellamento dei diritti e
delle garanzie conquistate dal movimento operaio nella fase precedente,
prime fra tutte quelle relative alla sicurezza e alla stabilità del rapporto di
lavoro e del trattamento pensionistico. In terzo luogo, dal punto di vista
materiale, le condizioni ambientali del lavoro si sono oltremodo deterio-
rate attraverso l’intensificazione dei ritmi lavorativi e l’indifferenza verso
le condizioni di rischio fisico e mentale della prestazione lavorativa, come
dimostrano i dati relativi agli infortuni sul lavoro in continua crescita. In
quarto luogo, dal punto di vista democratico, all’interno del luogo di la-
voro è diventato sempre più difficile esercitare liberamente i diritti asso-
ciativi e sindacali perché il ricatto e la repressione padronali sono tornati
ad essere le modalità principali di regolazione e di prevenzione dei con-
flitti. Se a questi fatti si aggiunge la situazione di disoccupazione struttu-
rale di massa si ha il senso della dimensione enorme del processo di sva-
lorizzazione del lavoro in atto. Specularmente assistiamo alla ipervaloriz-
zazione del capitale nelle sue forme più astratte e smaterializzate, da quel-
le della finanza a quelle dell’industria dell’informazione, della comunica-
zione, del sapere.
Di fronte a un quadro di questo tipo, porre la centralità del lavoro su-
bordinato come tema fondamentale per un progetto di alternativa di so-
cietà e per la ricostruzione dei soggetti della trasformazione può sembra-
re impresa vana e nostalgica se non si dà risposta a due nodi di questio-
ni. Il primo: il lavoro è ancora il motore fondamentale nella produzione
della ricchezza oppure la sua svalorizzazione non è altro che il riflesso di
una progressiva e inarrestabile marginalità nelle nuove modalità di valo-
rizzazione e di accumulazione del capitale nell’era “postfordista”? Se-
condo: la centralità del lavoro a quale composizione di classe si riferisce,
a quella tradizionale del modello “fordista” o a una nuova? A quali figu-
re sociali essa rimanda come protagoniste del progetto? Quali soggetti-
vità sociali compongono oggi il mondo del lavoro? La centralità del lavo-
ro subordinato deve dunque essere declinata nel suo duplice significato
oggettivo e soggettivo per assurgere a tema fondamentale di un progetto
di alternativa di società.
Il primo nodo tematico rimanda all’attualità dell’analisi marxiana co-
me strumento di conoscenza della realtà sociale. Non sono stati pochi
nella sinistra coloro che hanno interpretato il passaggio di fase del modo
di produzione capitalistico dal “fordismo” al “postfordismo” come una
fuoriuscita dal sistema capitalistico verso una società “postindustriale” o
“postmoderna”, in cui la contraddizione di classe perdeva significato teo-
rico e pratico. Anzi, a livello culturale, l’incapacità di leggere le trasfor-
mazioni produttive con l’ottica marxiana è stata la principale fonte di le-
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228 DOPO IL LIBERISMO

gittimazione dell’egemonia della sinistra moderata nel movimento ope-


raio. Questa incapacità di lettura antagonista delle trasformazioni in atto,
accoppiata alla rinnovata potenza manipolativa degli apparati della co-
municazione e dell’informazione, ha prodotto un vero e proprio smotta-
mento del senso comune di massa verso il moderatismo e la rassegnazio-
ne. Soltanto oggi assistiamo al ricomporsi di punti di vista marxiani nella
lettura dei processi produttivi del “postfordismo” e questo, pur ancora
nella sua incompiutezza, è un segnale di speranza.
Certo, le trasformazioni reali sono state rapide e profonde e in pochi
anni hanno reso obsoleto un patrimonio teorico e pratico costruito in de-
cenni di lotte. La riorganizzazione dei processi produttivi all’interno del-
l’impresa capitalistica ha rapidamente portato alla trasformazione del tes-
suto complessivo del sistema, fino a investire il campo delle soggettività
con la messa in crisi delle relazioni politiche, sociali e culturali e delle stes-
se identità individuali e collettive, stratificatesi nel corso di un lungo pe-
riodo di tempo precedente. Protagonisti indiscussi di questi mutamenti
sono state le innovazioni tecnologiche e organizzative derivanti dall’ap-
plicazione dell’informatica e della telematica nel sistema produttivo.
I mutamenti hanno coinvolto lo stesso ruolo e la stessa posizione del
lavoro all’interno del processo produttivo del capitale. Nella fase “fordi-
sta”, simboleggiata dalla catena di montaggio, l’intervento del lavoro
umano all’interno del processo produttivo avveniva direttamente sul pro-
dotto attraverso la mediazione della macchina automatizzata. Il lavoro
umano aveva un carattere prevalentemente esecutivo e consisteva nello
svolgere un’azione di manipolazione del prodotto secondo ritmi, tempi e
modalità definite dalla macchina. La razionalità della produzione, intesa
come facoltà di determinare gli scopi e le modalità quantitative e qualita-
tive del processo produttivo, era presupposta e data dall’esterno, dalla
struttura della pianificazione e della direzione aziendale. All’interno del
processo produttivo, la razionalità era veicolata e incorporata dalla tecno-
logia e dall’organizzazione. La macchina agiva, spinta dalla razionalità
immessa dall’esterno, e il lavoratore era una semplice appendice fisica del-
la macchina. La macchina “fordista” succhiava il corpo del lavoratore, la-
sciando libera la mente. Il lavoratore era fisicamente incatenato alla mac-
china ma libero di pensare e di astrarsi dalla propria situazione concreta.
L’alienazione del lavoratore si presentava come dissociazione tra il pro-
prio corpo e la propria mente o, in termini equivalenti, tra la razionalità
esterna della macchina e del proprio corpo e la razionalità interna della
propria mente. Questa dissociazione alienante non permetteva di per sé la
possibilità di pensare liberamente, ma si traduceva nel vuoto di pensiero
del lavoratore. Anzi, scopo dell’organizzazione “fordista” era proprio
quello di non far pensare il lavoratore, di annullare la sua coscienza in mo-
do da assimilarlo completamente alla macchina. All’interno della sussun-
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10. PRIMA DI TUTTO IL LAVORO E IL SALARIO! 229

zione reale del lavoro nel capitale, esisteva un rapporto di dominazione


formale del lavoro morto sul lavoro vivo. Il lavoro morto dominava il la-
voro vivo soltanto negandolo, rendendolo uguale a sé, privandolo della
sua determinazione particolare e distintiva, la coscienza. L’organizzazione
del lavoro che ne scaturiva era rigida, meccanica, ripetitiva, prevedibile.
Al controllo e al disciplinamento fisico della forza lavoro esecutiva era fi-
nalizzato un complesso apparato di coercizione e di riproduzione delle
condizioni sociali fordiste, che comprendeva figure diversissime tra loro,
che andavano dagli ingegneri che progettavano i macchinari ai controllo-
ri dei tempi, passando per decine di intermediari interni ed esterni alla
fabbrica. Il pluslavoro estratto dall’operaio “fordista” doveva valorizzare
il capitale e mantenere l’immenso apparato coercitivo e riproduttivo, in
ultima istanza improduttivo. Quando l’esplosione delle lotte sociali e ope-
raie ha ridotto la quantità di pluslavoro estraibile, la valorizzazione del ca-
pitale è entrata in crisi. La risposta capitalistica è stata la ristrutturazione
produttiva attraverso l’innovazione tecnologica e organizzativa.
Nel processo produttivo “postfordista” l’intervento del lavoro umano
non avviene più sul prodotto ma sulla macchina e sulle procedure orga-
nizzative. La produzione si è in larga misura automatizzata e il lavoro
operaio è principalmente finalizzato alla riproduzione allargata delle con-
dizioni di operatività delle macchine. La razionalità della produzione non
è più presupposta e data dall’esterno, ma è interna al processo produtti-
vo stesso. La tecnologia e l’organizzazione “postfordista” costituiscono
un sistema autopoietico, cioè devono essere capaci di autoprodurre in-
ternamente i meccanismi di adattamento alle mutate condizioni interne
ed esterne in cui esse operano. Non c’è più un’intelligenza esterna che fis-
sa meccanicamente e aprioristicamente tempi, ritmi e modalità della pro-
duzione sulla base di una pianificazione antecedente il processo produt-
tivo stesso. Visto dal lato del processo di realizzazione del capitale nel
“postfordismo” si ha l’inversione del rapporto tra offerta e domanda, tra
produzione e consumo, tra pianificazione aziendale e mercato. Visto dal
lato del processo di valorizzazione del capitale si ha l’inversione del rap-
porto tra direzione ed esecuzione, tra pianificazione e produzione, tra ra-
zionalità e fisicità. Non più dirigere l’esecuzione ma eseguire la direzione,
non più pianificare la produzione ma produrre la pianificazione, non più
razionalizzare gli oggetti ma oggettivizzare la ragione. Con questa dupli-
ce inversione il capitale perde il suo carattere determinato, parziale, limi-
tato e tende a farsi totalità, a incorporare tutto in sé‚ come un tutto indi-
stinto. Nel processo produttivo “postfordista” la macchina, intesa come
tecnologia e organizzazione, cioè come impresa, non solo agisce ma pen-
sa la propria azione attraverso il lavoratore. Il lavoratore deve introietta-
re la logica, la procedura, la razionalità della macchina perché deve gui-
darla, adattarla, dirigerla come essa vuole, secondo ciò che essa interna-
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230 DOPO IL LIBERISMO

mente chiede. In realtà la macchina non pensa, non vuole, non chiede ma
è il lavoratore che si è fatto pensiero, volontà, linguaggio della macchina,
che è diventato un’appendice non solo fisica ma mentale della macchina.
La macchina “postfordista” succhia non solo il corpo ma anche la mente
del lavoratore. Nell’organizzazione del lavoro “postfordista” il lavoratore
deve pensare nel senso che deve conferire alla macchina la facoltà del
pensiero, la coscienza. Anche nel “postfordismo” il pensiero del lavora-
tore è vuoto, non perché non lo eserciti ma perché il suo pensiero è il pen-
siero della macchina. L’alienazione non si presenta più come dissociazio-
ne tra corpo e mente, ma come privazione e annullamento di sé, del pro-
prio Io, della propria soggettività. Ma, al di fuori della razionalità codifi-
cata della macchina, esiste un residuo dell’Io, fatto di impulsi, intuizioni,
sogni che la macchina non riesce ancora a codificare e che consentono al
lavoratore di pensare ancora alla propria liberazione. Nel “postfordismo”
il lavoro morto e il lavoro vivo sono in un rapporto di dominazione rea-
le, perché il lavoro morto appare come lavoro vivo, dotato di coscienza,
e il lavoro vivo come lavoro morto, inanimato. Il risultato dell’automa-
zione “postfordista” dei sistemi di produzione è un incremento esponen-
ziale della produttività del lavoro, che però appare come proprietà delle
macchine e delle procedure organizzative dell’impresa, cioè del capitale.
È il capitale quindi che incorpora dentro il processo produttivo il lavoro
speso per riprodurre in maniera allargata le condizioni di operatività del-
la tecnologia e dell’organizzazione dell’impresa. Questo tipo di lavoro,
differente da quello principalmente esecutivo del modello “fordista”, è
stato chiamato lavoro “cognitivo”. Il lavoro “cognitivo” è un lavoro com-
plesso, di natura intellettuale, frutto dei processi di apprendimento e di
formazione continua del lavoratore all’interno e all’esterno del momento
produttivo. Il lavoratore deve imparare a pensare per la macchina, ne de-
ve imparare le procedure, i codici, il linguaggio, deve imparare a capire
cosa la macchina vuole. Questo processo di apprendimento intellettuale,
di carattere continuo e processuale, richiede tempo, energie, dispendio di
risorse maggiori dei processi di apprendimento manuali, di carattere di-
screto, richiesti al lavoratore “fordista”. Il tempo di lavoro “cognitivo” è
dunque un multiplo del tempo di lavoro esecutivo perché incorpora il
tempo individuale e sociale speso per formare e apprendere continua-
mente le capacità di applicare il lavoro “cognitivo” all’interno del pro-
cesso produttivo. Esso tuttavia è remunerato dal capitale alla stregua del
lavoro esecutivo, come dimostra il divario crescente tra l’andamento del-
la produttività del lavoro e l’andamento dei salari. Il capitale si appropria
quindi gratuitamente del tempo individuale e sociale impiegato per pro-
durre lavoro “cognitivo”. In tal modo il capitale riesce a estrarre una
maggiore quantità di pluslavoro, cioè ad aumentare il grado di sfrutta-
mento e a incrementare la propria valorizzazione. Inoltre, il capitale rie-
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10. PRIMA DI TUTTO IL LAVORO E IL SALARIO! 231

sce a rendere produttivo di pluslavoro il tempo genericamente sociale im-


piegato al di fuori del processo direttamente produttivo per riprodurre e
incrementare il lavoro “cognitivo”. In tal modo, il meccanismo di appro-
priazione del pluslavoro “cognitivo” da parte del capitale è più simile al
meccanismo della rendita che a quello del profitto. Infatti, esso si confi-
gura come l’appropriazione privata di un valore sociale prodotto al di
fuori dell’impresa capitalistica dalla società nel suo complesso.
Naturalmente la descrizione schematica delle differenze nella valoriz-
zazione del capitale nella fase “fordista” e in quella “postfordista” è stata
effettuata in termini astratti e puri. La realtà è più complessa e articolata
perché‚ anche nella fase “fordista”, il lavoro operaio non era esclusiva-
mente esecutivo ma conteneva aspetti cognitivi, così come nella fase “po-
stfordista” il lavoro prettamente esecutivo è ancora molto diffuso, in par-
ticolare nelle periferie, non solo geografiche ma economico-produttive,
del sistema capitalistico. Tuttavia, poiché l’organizzazione del sistema ca-
pitalistico è necessariamente gerarchica, i processi produttivi tipicamen-
te “fordisti”, anche se quantitativamente preponderanti, stanno in un
rapporto di subordinazione e di servitù rispetto alle nuove forme di ac-
cumulazione flessibile.
La schematica analisi condotta ci consente di rispondere positivamen-
te al primo nodo di questioni che emergono dal porre la centralità del la-
voro subordinato come asse di un progetto di alternativa di società: an-
che, e per certi aspetti ancor più, nella fase “postfordista” il lavoro è il
motore fondamentale della produzione della ricchezza e la sua svaloriz-
zazione deriva esclusivamente dall’intensificazione del suo sfruttamento
da parte del capitale, resa possibile dalla ristrutturazione tecnologica e or-
ganizzativa dei sistemi produttivi.
L’altro nodo di questioni è relativo alla composizione di classe del la-
voro nell’era “postfordista”. Oggi bisogna parlare di centralità del lavoro
salariato e non semplicemente di lavoro operaio o dipendente. Questa de-
finizione non è casuale ma accenna a un mutamento della composizione
di classe intervenuta nel passaggio alla fase “postfordista”. Nella fase “for-
dista” il lavoro salariato assumeva prevalentemente la veste giuridica del
lavoro dipendente tradizionale a tempo indeterminato. La rigidità del pro-
cesso produttivo permetteva l’uniformità della condizione giuridica e con-
trattuale della forza lavoro. Oggi assistiamo invece a una frantumazione
delle figure giuridiche e contrattuali. Accanto al nucleo, ancora numero-
so, del lavoro dipendente tradizionale si vanno diffondendo figure giuri-
diche atipiche, tutte caratterizzate da un maggior grado di flessibilità e di
precarietà del rapporto di lavoro, fino ad arrivare a figure extragiuridiche
come le varie forme del lavoro nero. Queste nuove figure salariate, in con-
tinua fluttuazione tra mondo del lavoro e mondo del non lavoro, non so-
no un residuo del passato ma al contrario sono una prefigurazione del fu-
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232 DOPO IL LIBERISMO

turo. In questo senso il caso italiano, caratterizzato da una storica e tradi-


zionale frammentazione del mondo del lavoro a causa del peso delle pic-
cole e medie imprese e del lavoro autonomo, invece di essere sintomo di
arretratezza può essere considerato come un laboratorio di sperimenta-
zione avanzato delle trasformazioni sociali della fase “postfordista”.
Questa precarizzazione del rapporto di lavoro deriva certamente dal-
la debolezza contrattuale del movimento operaio ma questo non spiega
tutto, poiché essa si dimostra anche più funzionale alle nuove forme di
valorizzazione e di accumulazione del capitale nella fase “postfordista”.
Schematicamente si può affermare che alla flessibilità delle procedure
tecnologiche e organizzative dell’impresa e all’incertezza e variabilità del-
la valorizzazione nell’era “postfordista” corrisponde la precarizzazione
della forza lavoro. Nella fase “fordista” il vantaggio dal punto di vista del-
l’impresa di un rapporto di lavoro stabile consisteva nel fatto che l’ap-
prendimento delle mansioni lavorative possedeva un maggior grado di
specificità, poiché esse consistevano essenzialmente nelle abilità esecuti-
ve applicabili a una specifica tecnica di produzione. Nella fase “postfor-
dista” l’apprendimento del lavoro “cognitivo” richiede una formazione
mentale e intellettuale che deriva essenzialmente dalla formazione com-
plessiva che il lavoratore riceve dall’ambiente sociale in cui vive, plasma-
to dai valori dell’impresa “postfordista”. Rispetto all’abilità esecutiva pre-
vale l’adattabilità ai mutamenti e la capacità di risposta ad essi da parte
del lavoratore. Un ambiente sociale fortemente competitivo e incerto co-
stringe il lavoratore ad apprendere queste caratteristiche. Esse sono por-
tate al massimo livello con l’apparizione di una nuova figura sociale del
lavoro salariato, quella del lavoratore autonomo di seconda generazione,
cioè del prestatore d’opera giuridicamente indipendente, ma privo dei
mezzi di produzione, che presta servizio all’interno del processo produt-
tivo dell’impresa “postfordista”.
La nuova composizione di classe che scaturisce dalle trasformazioni
“postfordiste” è quindi più frantumata di quella “fordista” e include una
pluralità di figure sociali, ciascuna diversa dall’altra per condizione giuri-
dica, diritti, garanzie e bisogni sociali. In questa nuova composizione di
classe è difficile individuare una figura sociale centrale, in grado di ag-
gregare sulla base dei propri specifici bisogni l’intero mondo del lavoro.
Per queste ragioni il momento del progetto complessivo di trasformazio-
ne acquista oggi un valore maggiore che in passato come momento di uni-
ficazione delle rivendicazioni, delle lotte e dei bisogni delle diverse e fran-
tumate figure sociali del lavoro salariato. Oggi l’identità e la coscienza di
classe si formano più sulla base della propria collocazione complessiva
nella società che sulla base della specifica e temporanea collocazione al-
l’interno di un determinato e particolare momento produttivo. Questo
implica che oggi l’identità e la coscienza di classe si possono formare an-
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10. PRIMA DI TUTTO IL LAVORO E IL SALARIO! 233

che al di fuori e oltre le esperienze e le tematiche storiche e tradizionali


del movimento operaio, attraverso percorsi culturali, sociali e politici
nuovi. Tuttavia, la determinazione delle identità individuali e collettive
continua a scaturire dalla propria posizione rispetto alla produzione e al
lavoro. Anzi, proprio il carattere assolutamente astratto e onnicompren-
sivo della produzione e del lavoro nell’era “postfordista” determina l’im-
possibilità di concepire una propria identità sociale al di fuori della pro-
pria posizione rispetto al lavoro e alla produzione. Quando questa iden-
tità non si riesce a produrre, non si ha alcuna identità, si perdono le pro-
prie caratteristiche di soggetto e ci si riduce a semplice oggetto, manipo-
lato dalla logica astratta del capitale. La mancata produzione di identità
e di coscienza di classe è così alla base dei processi di svuotamento de-
mocratico che inducono a parlare di una democrazia malata che tenden-
zialmente si avvia ad assumere i caratteri della democrazia autoritaria.
L’elemento generale unificante di una lotta per la valorizzazione del lavo-
ro salariato, che ne assume il carattere centrale, è la conquista di spazi di
autonomia individuale e collettiva, materiale e culturale, dentro il pro-
cesso direttamente produttivo e fuori da esso, nella società nel suo com-
plesso. In questa direzione si collocano le proposte di salario minimo e di
salario di cittadinanza.
La centralità del lavoro salariato e la sua valorizzazione, dunque, lun-
gi dall’essere una formula provocatoria o, peggio, un’illusione nostalgica
definisce oggi, sia dal punto di vista oggettivo che da quello soggettivo,
un progetto e un percorso di alternativa di società. Il compito che hanno
di fronte le forze dell’alternativa è, sul piano teorico e analitico, quello di
approfondire il significato di questa nuova centralità in modo da farla di-
ventare strumento di autonoma ricostruzione culturale e di ricomposi-
zione dei soggetti e, sul piano pratico, di orientare l’azione concreta, le
proposte, le forme organizzative in modo coerente con il tema della cen-
tralità del lavoro salariato e della sua valorizzazione.

10.2. La priorità della redistribuzione del reddito

Per l’Italia, ancor più che per l’Europa, la priorità economica fonda-
mentale è oggi quella di una distribuzione più egualitaria del reddito.
L’attuale configurazione distributiva, squilibrata a vantaggio dei redditi
da capitale come mai era avvenuto nella storia del dopoguerra, è causa
non soltanto di un intollerabile aumento delle ingiustizie sociali e di un
massiccio impoverimento di larghe fasce della popolazione, ma anche
della crisi e del declino dell’economia italiana. La carenza di domanda in-
terna, che da oltre un decennio affligge il nostro sistema economico, tro-
va in ultima istanza la sua causa fondamentale nella compressione dei
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234 DOPO IL LIBERISMO

consumi collettivi e dei consumi privati dei lavoratori. L’erosione conti-


nua dei livelli salariali e la permanente ricerca della riduzione del costo
del lavoro hanno agito come decisivi fattori frenanti rispetto al necessario
processo di riqualificazione tecnologica e settoriale del nostro apparato
produttivo2. Le imprese si sono adagiate nella convinzione che i margini
di profitto potessero continuare a espandersi grazie alla debolezza della
dinamica salariale e hanno preferito dirottare le risorse strappate al lavo-
ro verso la finanza piuttosto che verso la produzione.
Senza una profonda correzione nella distribuzione del reddito il decli-
no economico e industriale del nostro paese è destinato a subire una ac-
celerazione drammatica nei prossimi anni. Porre il salario come variabile
indipendente è oggi una risposta razionale alla crisi economica italiana, è
il presupposto della ripresa. L’aumento del tasso di crescita della produt-
tività e del progresso tecnico non potrà mai avvenire senza un forte sti-
molo per correggere il comportamento conservativo e speculativo del ca-
pitalismo privato italiano. Affermare che, nelle condizioni attuali, la di-
namica salariale deve essere agganciata all’andamento declinante della
produttività vuol dire condannare l’economia italiana a un permanente
circolo vizioso, fatto di bassi salari e di dequalificazione produttiva. È cu-
rioso ascoltare questi discorsi proprio da chi, fino a ieri, ha sostenuto la
necessità del rafforzamento competitivo dell’economia italiana attraverso
una totale appropriazione dei guadagni di produttività da parte delle im-
prese, finalizzata all’aumento dei margini di profitto. Questo esperimen-
to è stato tentato, è durato per ben vent’anni ed è miseramente fallito,
conducendoci a una situazione attuale di profonda crisi strutturale.
Ritorna di moda oggi parlare di “politica dei redditi” e di concerta-
zione. È strano come questa moda ritorni sempre, come un vecchio ri-
tornello, quando le cose vanno male, mentre quando l’economia sembra
marciare il ritornello viene dimenticato. In realtà in Italia chi parla di po-
litica dei redditi ha in testa il controllo di un solo reddito, quello del la-
voro, e per ottenerlo non è disposto a dare nulla in cambio3. Una seria po-
litica dei redditi implica, infatti, non solo l’aggancio dei salari alla pro-
duttività, ma anche la programmazione strategica dello sviluppo da par-
te dello Stato, con il contributo delle parti sociali. Politica dei redditi vuol
dire, oltre alla definizione concordata della distribuzione dei vantaggi
della crescita economica, anche che le decisioni su come utilizzare le ri-
sorse, che derivano dalla moderazione salariale e che si manifestano sot-
to forma di profitti, non vengono lasciate esclusivamente alla potestà del-
le imprese ma divengono elemento di socializzazione degli investimenti in
modo da perseguire obiettivi di benessere collettivo, come la piena occu-
pazione, e non solo privatistico. Pretendere di perseguire una politica dei
redditi all’interno di un modello economico e di un quadro istituzionale
di stampo neoliberista, incentrato sul primato del mercato e sullo sman-
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10. PRIMA DI TUTTO IL LAVORO E IL SALARIO! 235

tellamento dell’intervento pubblico, vuol dire soltanto derubare i lavora-


tori, nelle loro condizioni di vita e di lavoro e nella loro capacità di lotta
politica e sociale. Allora, di politica dei redditi si potrà riparlare quando
il neoliberismo sarà soltanto un vecchio ricordo e un nuovo modello al-
ternativo di politica economica si sarà affermato e consolidato. Oggi è il
momento per i lavoratori di rivendicare per intero i propri diritti e la pro-
pria dignità, sapendo che questa non è la manifestazione di un interesse
particolare ed egoistico, ma al contrario la premessa indispensabile per
un rilancio e un ammodernamento del complesso dell’economia italiana.
La responsabilità nazionale del movimento operaio, che in passato è sta-
ta interpretata nel senso della moderazione rivendicativa, si traduce oggi,
al contrario, nella necessità di un livello più alto di conflittualità sociale4.

10.3. Per una nuova scala mobile

Una strategia di redistribuzione del reddito implica un insieme artico-


lato di misure e di provvedimenti che attengono sia al quadro di relazio-
ni industriali sia alla politica economica. Il punto da cui necessariamente
bisogna partire è quello della rimessa in discussione degli accordi del lu-
glio 1992-93, con i quali è stato ridisegnato il sistema di contrattazione sa-
lariale nel nostro paese. Per quasi mezzo secolo, dall’immediato dopo-
guerra all’inizio degli anni Novanta, la contrattazione salariale era artico-
lata su tre livelli5: a) a livello nazionale intercategoriale si definiva il recu-
pero del potere d’acquisto dei salari dall’inflazione, attraverso un mecca-
nismo automatico di adeguamento dei salari ai prezzi, chiamato “scala
mobile”, valido per tutte le categorie del lavoro dipendente; b) a livello
nazionale di categoria, con i contratti collettivi nazionali, si definiva il sa-
lario-base dei lavoratori dei singoli settori produttivi; c) a livello di singo-
la impresa, con il contratto aziendale, si definivano le componenti sala-
riali legate all’andamento della singola azienda e alle prestazioni e profes-
sionalità specifiche dei lavoratori.
Questi tre livelli di contrattazione hanno subito, nel corso del periodo
in cui sono stati vigenti, diversi mutamenti, legati principalmente all’evo-
luzione dei rapporti di forza tra movimento sindacale e padronato. In
particolare, nel pieno dell’ondata inflazionistica, nel 1975, il primo livel-
lo, quello della scala mobile, venne rafforzato attraverso la rivalutazione
del punto di contingenza e la sua unificazione per tutte le categorie di la-
voratori, che in precedenza avevano un grado di copertura dall’inflazio-
ne differenziato in relazione ai divari retributivi. Il terzo livello, quello dei
contratti integrativi aziendali, è stato invece da sempre oggetto di tentati-
vi di eliminazione da parte delle imprese e, di fatto, la sua reale impor-
tanza è stata limitata alle imprese di medio-grandi dimensioni.
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236 DOPO IL LIBERISMO

L’articolazione in tre livelli della contrattazione rispondeva a una pre-


cisa logica economica e sindacale. Con la scala mobile si garantiva, sia pu-
re attraverso gradi di copertura variabili nel tempo e comunque mai in
modo integrale, che i salari reali non fossero decurtati da decisioni auto-
nome delle imprese o dell’autorità di politica monetaria in merito al li-
vello dei prezzi. Infatti, i prezzi dei prodotti vengono stabiliti dalle im-
prese e condizionati dalla massa monetaria in circolazione e i lavoratori
non hanno alcun potere di incidere direttamente su di essi. La contratta-
zione nazionale di categoria consentiva di legare i salari all’andamento
della produttività nei singoli settori produttivi e quella aziendale all’an-
damento della produttività nelle singole imprese. Il meccanismo contrat-
tuale era quindi flessibile e permetteva di calibrare la dinamica salariale
tenendo conto dell’andamento delle variabili macroeconomiche, legate ai
prezzi e alla crescita del reddito, e di quelle microeconomiche, relative al-
l’andamento dei singoli settori e delle singole imprese. Il potere contrat-
tuale dei lavoratori era quindi riconosciuto e garantito perché l’articola-
zione del sistema obbligava le parti alla ricerca di una definizione patteg-
giata della distribuzione del reddito, senza dare spazio a forzature unila-
terali. Naturalmente erano poi i rapporti di forza politica e sociale a de-
terminare concretamente, di volta in volta, il punto in cui si attestava il
confronto tra le parti sociali in merito alla quota dei salari e dei profitti
sul reddito prodotto.
A partire dall’inizio degli anni Ottanta, questo quadro iniziò ad essere
contestato da parte delle imprese e dei governi di allora. In particolare,
ad essere messa sotto accusa fu la scala mobile. Iniziò per primo il gover-
no Craxi che, con il famoso “decreto di San Valentino” del 1984, tagliò
quattro punti di contingenza. La sconfitta di misura del referendum abro-
gativo di questo provvedimento aprì la strada a una manomissione sem-
pre più forte della scala mobile, che ormai alla fine del decennio garanti-
va una copertura media dei salari dall’inflazione pari a circa il 50 per cen-
to, non era più basata sul punto unico di contingenza valido per tutti i la-
voratori e aveva una cadenza non più trimestrale ma semestrale. All’ini-
zio degli anni Novanta si arrivò infine alla completa abrogazione di ogni
meccanismo di indicizzazione dei salari all’inflazione, con il consenso del-
le organizzazioni sindacali confederali. Prima, con gli accordi del luglio
1992, si smantellò la scala mobile e poi, con gli accordi del 23 luglio del-
l’anno successivo, venne ridisegnato il sistema contrattuale.
Da allora la contrattazione salariale si articola su due soli livelli, un li-
vello nazionale di settore e un livello aziendale. È invece scomparso il li-
vello nazionale intercategoriale relativo al mantenimento del potere d’ac-
quisto generale dei salari. Tuttavia, in questo modo, anche i due livelli
contrattuali rimasti hanno profondamente cambiato natura. Infatti, ora è
il contratto nazionale di categoria ad essere demandato ad assolvere ai
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10. PRIMA DI TUTTO IL LAVORO E IL SALARIO! 237

compiti di recupero dell’inflazione, prima garantiti dalla scala mobile,


mentre la contrattazione sulla distribuzione degli incrementi di produtti-
vità dovrebbe essere assolta dal livello aziendale, assieme al riconosci-
mento della professionalità e delle prestazioni (premi di produzione). I ri-
sultati in termini di distribuzione del reddito derivanti da questo nuovo
sistema li abbiamo visti nel capitolo precedente. Negli ultimi dodici anni
i salari reali sono diminuiti, sia in termini relativi, sia perfino in termini
assoluti, a tutto vantaggio dei redditi da capitale. Individuare le cause di
questo bilancio, fallimentare per i lavoratori ed eccezionale per le impre-
se, non è difficile.
In primo luogo, gli accordi di luglio hanno stabilito che il recupero del
potere d’acquisto dei salari, compito ogni due anni del contratto naziona-
le di categoria, debba avvenire sulla base del tasso di inflazione program-
mata, stabilito dal governo in sede di DPEF, e non al tasso di inflazione ef-
fettivamente realizzatosi nel corso dell’anno. Guarda caso, l’inflazione
programmata è stata sempre inferiore a quella reale. E non si tratta di una
differenza di poco conto, imputabile a marginali errori di stima: nel pe-
riodo 1993-2003 lo scarto tra inflazione reale e inflazione programmata è
stato del 6 per cento. Ciò vuol dire che in questi dieci anni, solo per ef-
fetto di questo ingegnoso marchingegno, un lavoratore dipendente ha
perso, in termini reali, sei euro ogni cento guadagnati. Clamoroso è quan-
to accaduto nei tre anni del governo Berlusconi, ai quali è da addebitare
ben la metà dello scarto dell’intero periodo; infatti, nel triennio 2002-04
il tasso di inflazione programmata è stato fissato all’1,7 per cento, mentre
il tasso di inflazione reale è stato mediamente superiore di un punto per
ogni anno. Il tasso di inflazione programmata ha mutato così la propria
originaria natura: da strumento di rivalutazione salariale a posteriori è di-
ventato, al contrario, strumento di decurtazione salariale a priori.
Se poi consideriamo che è opinione diffusa che il paniere utilizzato dal-
l’ISTAT non sia più rappresentativo dell’andamento reale della spesa per il
consumo di una famiglia di lavoratori, tanto che esso è stato recentemen-
te riaggiornato, la perdita di potere d’acquisto dei salari derivante dall’in-
flazione è stata negli ultimi anni molto più rilevante di quella accertata uf-
ficialmente. Un’inchiesta effettuata raccogliendo 853.000 profili retributi-
vi lungo l’arco del triennio 2000-03 ha misurato una riduzione dei salari
reali del 9,3 per cento per gli operai e dell’11,1 per cento degli impiegati6.
L’inchiesta spiega la differenza esistente con le statistiche ufficiali sull’an-
damento dei salari e dei prezzi al consumo con il fatto che l’ISTAT consi-
dera soltanto le retribuzioni contrattuali orarie e non le voci supplemen-
tari, che costituiscono una parte rilevante delle buste paga e che sono ri-
maste inalterate nel triennio.
Non potendo più nascondere, di fronte all’evidenza dei dati e alla per-
cezione comune dei cittadini, l’esistenza di una grave emergenza salaria-
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238 DOPO IL LIBERISMO

le, il governo Berlusconi ha attribuito all’introduzione dell’euro la re-


sponsabilità. Ora, non c’è dubbio che il cambiamento della moneta abbia
costituito l’occasione per aumenti indiscriminati dei prezzi, anche per il
totale lassismo delle autorità pubbliche che, a differenza di quanto acca-
duto nel resto d’Europa, hanno chiuso tutti e due gli occhi di fronte al
comportamento speculativo di molte imprese industriali e commerciali.
Ad esempio, il governo conservatore francese, di fronte a spinte inflazio-
nistiche ben minori di quelle italiane, all’inizio del 2004 ha convocato le
associazioni di categoria del commercio e le imprese operanti nella gran-
de distribuzione e ha loro posto l’obiettivo di una riduzione media del 3
per cento dei prezzi dei beni di consumo da raggiungere entro la fine del-
l’anno, in assenza della quale avrebbe provveduto a introdurre per legge
una generalizzata riduzione automatica e forzosa dei prezzi al consumo,
attraverso il ripristino di forme di calmiere legale. I primi risultati, e co-
me dubitarne, sono favorevoli, tanto che già a luglio in Francia si è regi-
strata una flessione dei prezzi dei generi di consumo di circa l’1,5 per cen-
to. In Italia se qualcuno si azzardasse a proporre non dico la riduzione,
ma anche soltanto il blocco dell’aumento dei prezzi dei beni di consumo
primari per un limitato periodo di tempo, verrebbe pubblicamente lin-
ciato in quanto nemico della libertà economica! Tuttavia, non dobbiamo
confondere l’occasione, che come dice il proverbio «fa l’uomo ladro»,
con le cause reali. Se fosse stato in vigore un meccanismo di scala mobi-
le, quell’occasione non si sarebbe data. La causa della mancata difesa del
potere d’acquisto di salari, stipendi e pensioni è dunque da addebitare, in
primo luogo, al fatto che l’attuale sistema contrattuale è del tutto inade-
guato a tutelare il reddito reale dei lavoratori.
Un passo essenziale per bloccare la caduta dei salari e procedere ver-
so una più equa distribuzione del reddito è la reintroduzione di un nuo-
vo meccanismo di indicizzazione dei salari all’inflazione. La vecchia sca-
la mobile è stata accusata, quasi sempre a sproposito, delle peggiori ne-
fandezze. Ebbene, se il meccanismo precedente era tecnicamente imper-
fetto, se ne trovi allora un altro. La nuova scala mobile non deve perse-
guire altro obiettivo al di fuori di quello di impedire che il salario di un
lavoratore possa essere tagliato in modo permanente da un aumento dei
prezzi. Saranno altri strumenti, di tipo contrattuale, a garantire l’equità
distributiva all’interno del lavoro dipendente e la distribuzione dei van-
taggi della crescita di produttività. La nuova scala mobile deve essere, in
altre parole, un paracadute, un mezzo di pura difesa del salariato dalle
possibili, e ahimé frequenti, soperchierie del padronato e del governo. A
questo proposito potrebbe essere sufficiente anche un meccanismo sem-
plicissimo, quale quello che prevede all’inizio di ogni anno la rivalutazio-
ne dei salari sulla base dello scarto tra il tasso di inflazione reale e pro-
grammata dell’anno precedente. In questo modo non verrebbe assicura-
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10. PRIMA DI TUTTO IL LAVORO E IL SALARIO! 239

ta una piena protezione salariale dall’inflazione, perché nell’anno in cor-


so i prezzi potrebbero comunque galoppare più dei salari, ma quanto-
meno la sottrazione sarebbe temporanea e durerebbe al massimo un an-
no e non per sempre come ora.
L’obiezione più forte contro l’indicizzazione dei salari è relativa alla
spirale inflazionistica che essa innescherebbe qualora l’aumento dei prez-
zi dovesse derivare da shock dal lato dell’offerta, come ad esempio un
brusco aumento dei prezzi del petrolio. Nessuno è mai riuscito a spiega-
re in modo convincente perché questa obiezione debba valere soltanto
per i salari e non, ad esempio, per le rendite finanziarie. Lo strumento
dell’indicizzazione del rendimento dei titoli finanziari, attraverso la riva-
lutazione del capitale o della cedola, si è infatti sempre più diffuso e anzi
è spesso stato giustificato in nome dell’efficienza dei mercati. Perché ciò
che è buono per i percettori di rendite finanziarie non deve essere buono
per i lavoratori? In realtà, la tesi contraria alla scala mobile in nome del-
la lotta all’inflazione sottintende che, ad assorbire eventuali impennate
del livello dei prezzi, deve essere soltanto la classe lavoratrice, mentre gli
altri gruppi sociali devono essere esentati da qualunque contraccolpo. Ma
questo semplicemente non è giusto, e se tale sistema produce, come è av-
venuto, una costante erosione del potere d’acquisto dei salari, che sono la
spina dorsale del livello dei consumi di un paese, allora la conseguenza è
quella di una crisi generale dell’intera economia, sia dal lato della do-
manda, sia da quello dell’offerta produttiva. Per far fronte a un muta-
mento negativo delle condizioni economiche del paese può a volte (me-
no frequentemente però di quanto si dica) essere necessario sopportare
dei temporanei sacrifici. Ma questi sacrifici devono essere equamente di-
stribuiti e non gravare sempre, in modo automatico, sugli stessi soggetti,
i lavoratori. È come se all’interno di una famiglia che non riesca ad avere
il necessario per sfamare in modo adeguato tutti i suoi membri, si decida
di far morire di fame uno dei figli e si scelga proprio l’unico che lavora.
Vi sembra un comportamento eticamente giusto ed economicamente ra-
zionale? Allora si reintroduca, per legge, una nuova scala mobile e poi, di
volta in volta, quando accadono eventi esterni sfavorevoli, si contratti tra
le diverse parti sociali e il governo l’equa ripartizione dei sacrifici neces-
sari, se mai occorressero.
E per far recuperare, anche solo in minima parte, quanto perduto dai
lavoratori, nel corso di più di dieci anni, si preveda un aumento una tan-
tum, generale e indifferenziato, di tutti i salari contrattuali. Non è una
proposta aberrante, perché è già avvenuto proprio con l’accordo del lu-
glio 1992, quando i lavoratori ottennero un aumento generalizzato delle
retribuzioni, sia pur di appena lo 0,7 per cento della paga media, in cam-
bio della rinuncia alla scala mobile e della moratoria della contrattazione
aziendale. Oggi l’aumento generale e indifferenziato dei salari si configu-
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240 DOPO IL LIBERISMO

rerebbe non più come il prezzo, da svendita fallimentare, per la rinuncia


a un diritto acquisito, ma come un piccolo e parziale risarcimento del fur-
to subito in più di un decennio.
Una nuova scala mobile porta inevitabilmente con sé anche il ridisegno
del sistema contrattuale perché essa andrebbe a svolgere i compiti che at-
tualmente sono svolti, in modo del tutto inadeguato come abbiamo visto,
dalla contrattazione nazionale di categoria. D’altra parte, con l’attuale si-
stema, oltre a non essere riusciti a difendere i salari dall’inflazione, non si
è potuto nemmeno garantire una distribuzione dei benefici dell’aumento
della produttività, perché la contrattazione aziendale, boicottata dalle im-
prese, in assenza di un quadro nazionale di settore che fornisca un punto
di riferimento medio, frammenta il fronte dei lavoratori, indebolendone la
forza contrattuale. È accaduto così che una quota sempre più larga del sa-
lario è stata lasciata alle concessioni unilaterali delle imprese in merito a
premi di produzione collettivi e bonus individuali. A farne le spese, come
abbiamo visto nel precedente capitolo, sono stati soprattutto i lavoratori a
più bassa qualifica, molti dei quali sono sprofondati in una condizione di
basso salario. Il sistema contrattuale in vigore non funziona, dunque, in
nessuno dei due livelli. Persistere nella difesa a ogni costo di questo qua-
dro, come ancora fa una parte del sindacato confederale, appare dunque
irragionevole7. Ma, allora, in che modo dovrebbe essere cambiato?
Il padronato questo problema se lo è posto da un pezzo, naturalmen-
te dal suo punto di vista. Infatti, Confindustria spinge da tempo per l’a-
bolizione del livello nazionale di categoria, in favore di un livello territo-
riale o regionale. Qualora si affermasse questa ipotesi, le differenze sala-
riali tra le diverse aree del paese, e in particolare tra Nord e Sud, già esi-
stenti, verrebbero esaltate, e assisteremmo alla reintroduzione legale del-
le vecchie e tristemente note gabbie salariali, in base alle quali due lavo-
ratori che svolgono la stessa identica mansione percepiscono una paga di-
versa a seconda della regione in cui si trovano a vivere e a lavorare. In
questo modo, la coesione sociale del paese, già fortemente segnata dal
persistente dualismo economico, subirebbe un colpo forse mortale, poi-
ché si andrebbe ad affiancare al processo di differenziazione dei diritti so-
ciali in atto con le riforme federaliste dello Stato. Il movimento dei lavo-
ratori, inteso come organizzazione nazionale, cesserebbe di fatto di esi-
stere. Se il progetto di Confindustria deve essere rifiutato alla radice, tut-
tavia ciò non può essere fatto con il semplice arroccamento sull’esistente.
Un nuovo sistema contrattuale, che miri a costruire un quadro di rela-
zioni sociali equo e condiviso, non può che essere pensato a partire dalle
trasformazioni subite dal mondo del lavoro. Anche qualora si riuscisse a
regolamentare nuovamente il rapporto di lavoro e quindi a ridurne la pre-
carizzazione, le trasformazioni subite dai processi di organizzazione della
produzione verso forme più mobili e flessibili hanno segmentato le con-
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10. PRIMA DI TUTTO IL LAVORO E IL SALARIO! 241

dizioni oggettive della forza lavoro. I grandi stabilimenti di produzione di


massa di tipo fordista nei paesi avanzati sono, per lo più, un ricordo del
passato, visto che la stessa grande impresa si articola oggi in una pluralità
di centri produttivi organizzati a rete. Il settore dei servizi alla produzio-
ne e tecnologici è destinato ad assumere un ruolo sempre maggiore, af-
fiancando la produzione industriale come motore della crescita economi-
ca. Queste modificazioni hanno ridisegnato la prestazione lavorativa, la
cui modalità di svolgimento assume caratteri sempre più individualizzati
e personali. È stato questo il fondamento oggettivo dei mutamenti dei
rapporti di forza nelle relazioni industriali dell’ultimo ventennio.
L’esistenza di un sistema contrattuale collettivo ha dunque senso sol-
tanto se il singolo lavoratore si sente parte di una medesima comunità di
interessi e di valori. Altrimenti è inevitabile che prevalga la spinta del pa-
dronato a sostituire la contrattazione collettiva con una contrattazione
sempre più ristretta e al limite individuale. La contrattazione collettiva
può essere difesa e rilanciata se si ricostruisce l’unità del mondo del lavo-
ro. Il senso soggettivo di appartenenza a una comunità, se ha necessità di
uno sforzo di costruzione politica e culturale teso alla riconquista di un
punto di vista autonomo sul mondo e sulla propria esistenza, deve tutta-
via basarsi sempre su condizioni oggettive, reali e materiali, altrimenti è
destinato a scomparire al primo soffio di vento. Quali sono, allora, oggi
le condizioni oggettive che accomunano un tecnico informatico a una
commessa precaria di un supermercato? L’essere salariati, lavoratori su-
bordinati, nuovo proletariato.
È da questa condizione oggettiva di base, che non è stata per nulla
scalfita dai mutamenti produttivi e tecnologici, che bisogna allora riparti-
re per ricostruire l’unità del mondo del lavoro. La condizione di salariati
è la sola cosa che accomuna tutte le figure che compongono il mondo del
lavoro. Questa condizione riguarda non soltanto chi dispone di un lavo-
ro dipendente, magari a tempo indeterminato, ma anche tutto l’universo
in espansione delle nuove figure del precariato sociale, compresi i disoc-
cupati, gli inoccupati, i lavoratori autonomi fittizi e subordinati8 e gli stu-
denti, i salariati del futuro. E riguarda anche coloro che hanno lavorato
per tutta la vita e oggi si trovano a godere di una pensione sempre più ma-
gra e incerta. In fin dei conti, tutta questa miriade di soggetti, così diver-
si sul piano culturale e generazionale, è unita da una condizione materia-
le di vita che determina l’intero arco della loro esistenza, il fatto cioè di
dover vendere la propria forza lavoro ad altri, in maniera formale attra-
verso un rapporto contrattuale o in maniera informale attraverso il con-
tributo alla crescita della conoscenza e della comunicazione sociale, per
avere possibilità di sopravvivere in questo tipo di società. Da questo in-
sieme di soggetti, che rappresenta la stragrande maggioranza della popo-
lazione, può nascere un nuovo movimento operaio.
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242 DOPO IL LIBERISMO

Per ricostruire l’unità del mondo del lavoro occorre prima di ogni al-
tra cosa essere in grado di trovare le forme di rappresentanza e poi di
espressione concreta degli interessi, dei bisogni e delle aspirazioni di que-
sto insieme composito di nuove soggettività. Per questo occorre capacità
di innovazione teorica e organizzativa, anche a costo di rimettere in di-
scussione vecchie e consolidate certezze. Sul piano sindacale è evidente
come sia necessario allargare gli spazi di democrazia diretta, consentendo
a tutte le figure lavorative, anche a quelle più flessibili e precarie, di par-
tecipare realmente alla costruzione delle piattaforme rivendicative e alla
ratifica degli accordi. Per fare ciò non c’è che una strada, quella dell’uso
del referendum tra tutti i lavoratori, indipendentemente dalla loro mili-
tanza in questa o quella organizzazione, e del rispetto assoluto e vinco-
lante degli esiti delle consultazioni. Così come, allo stesso modo, dovreb-
bero essere composti, senza eccezioni o privilegi, gli organismi di rappre-
sentanza diretta dei lavoratori9.
Sul piano del sistema contrattuale è ormai chiaro che un meccanismo
basato sulla sola contrattazione collettiva di categoria non è più adegua-
to a rappresentare gli interessi comuni dei lavoratori mobili e flessibili di
oggi. Occorre trovare una modalità, uno strumento che sia in grado di
esprimere la condizione comune di salariati, prima ancora che quella di
metalmeccanici, di tessili, di dipendenti pubblici o di precari, disoccupa-
ti e inoccupati. Allora è forse il caso di ripensare a un radicato e storico
orientamento del movimento operaio italiano, che si è sempre mostrato
diffidente e ostile a interventi generali, di tipo legislativo, in materia di de-
finizione del salario e della prestazione lavorativa, per il fondato timore
di un indebolimento della forza organizzata dei lavoratori. Ma i tempi e
le condizioni sono mutate. Per riunificare il mondo del lavoro è oggi ne-
cessario utilizzare anche lo strumento della legge per fissare un insieme
minimo di diritti e di salvaguardie valido universalmente per tutti i sala-
riati, indipendentemente dalla loro temporanea e particolare collocazio-
ne sul mercato del lavoro. D’altra parte è proprio su questo terreno, quel-
lo della rivendicazione di diritti sanciti per legge, che è nato il movimen-
to operaio nel XIX secolo. Basti pensare alle grandi lotte per l’ottenimen-
to delle leggi per la riduzione della giornata lavorativa, per vietare il la-
voro minorile o il lavoro notturno delle lavoratrici. Ma, anche venendo a
tempi più recenti, siamo sicuri che lo Statuto dei lavoratori avrebbe retto
all’offensiva di classe del padronato se non fosse stato sancito, attraverso
una legge, nell’ordinamento giuridico italiano?
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10. PRIMA DI TUTTO IL LAVORO E IL SALARIO! 243

10.4. Per il salario minimo, il salario di cittadinanza


e nuove rigidità del lavoro
Nel capitolo precedente abbiamo visto che la quota di lavoratori che
percepiscono un basso salario è fortemente cresciuta nel corso dell’ulti-
mo decennio. Questo fenomeno è addebitabile a due fattori: da un lato la
caduta dei livelli salariali per le categorie di lavoratori meno forti sinda-
calmente e, dall’altro, l’estensione del lavoro precario. È evidente che, per
queste categorie di lavoratori, la contrattazione collettiva non è, da sola,
uno strumento adeguato di tutela dei diritti. Le tendenze in atto nel mer-
cato del lavoro e nell’organizzazione della produzione possono portare,
nel prossimo futuro, a una ulteriore accentuazione dei differenziali sala-
riali perché aumentano il potere contrattuale dei lavoratori più attrezzati
di fronte alle momentanee esigenze delle imprese e, contemporaneamen-
te, riducono quello dei lavoratori meno qualificati. I veloci mutamenti
tecnologici possono determinare una rapida obsolescenza della dotazio-
ne di esperienza professionale e formativa per qualunque categoria di la-
voratori, cosicché il rischio è quello che ognuno possa trovarsi, in un mo-
mento o in un altro della propria vita lavorativa, nelle condizioni peggio-
ri dal punto di vista contrattuale. La deregolamentazione del mercato del
lavoro aggrava questa condizione, perché a rischio non è soltanto il livel-
lo salariale, ma la stessa possibilità di rimanere occupati e di percepire un
reddito, sia pur basso. In altre parole, nessuno è più garantito, la preca-
rietà e l’insicurezza sono diventate ormai condizioni generali, non limita-
te soltanto a coloro che sono impiegati attraverso un rapporto contrat-
tuale atipico, ma estese all’intero universo del lavoro dipendente, perfino
a quelle categorie di occupati che fino a non molto tempo fa erano rite-
nute più stabili e sicure come i lavoratori pubblici o quelli del credito.
L’incertezza del proprio futuro professionale comporta gravi costi in-
dividuali e sociali, perché riduce l’orizzonte temporale di riferimento per
il lavoratore. Ciascuno è portato a vivere alla giornata, ad adattarsi alle
esigenze del momento, rinunciando a una programmazione del proprio
profilo professionale di lungo periodo. Dal punto di vista individuale, ciò
comporta un perenne stato di incertezza, che genera sofferenza psicolo-
gica e stress, perché non consente di affrontare con serenità i passaggi
fondamentali dell’esistenza10. Dal punto di vista del sistema economico
questo fenomeno, se da un lato può aumentare i vantaggi di breve perio-
do per le imprese, derivanti da una maggiore flessibilità nell’utilizzo del-
la manodopera, dall’altro può però essere svantaggioso nel lungo perio-
do. Infatti, oltre alla riduzione del rendimento della prestazione lavorati-
va generato dalla fatica supplementare derivante dalla condizione di pe-
renne incertezza individuale, la ristrettezza dell’orizzonte temporale in-
duce i lavoratori a comportamenti di tipo adattativo, che mortificano le
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244 DOPO IL LIBERISMO

capacità creative e innovative, la volontà di sperimentare percorsi nuovi


e inediti che, pur non essendo immediatamente remunerativi, potrebbe-
ro però essere premiati in futuro. Inoltre, la mutevolezza dei mercati e
delle tecnologie dell’epoca contemporanea, spesso derivanti da fattori su-
perficiali legati alle mode passeggere, può far sì che, nel giro di breve tem-
po, professionalità molto apprezzate decadano e si trasformino in handi-
cap. Aumentano così anche i costi sociali di un processo di continua for-
mazione iperspecialistica della forza lavoro. La moltiplicazione e la fram-
mentazione esasperata dei corsi di laurea, derivante dalla riforma univer-
sitaria degli anni recenti, ne è una delle testimonianze più lampanti. Nel-
le condizioni attuali di produzione le caratteristiche premianti del lavoro
sono, invece, quelle di una solida formazione culturale e professionale di
carattere generale, in grado di far fronte con consapevolezza e autonomia
alle rapide mutazioni. Ma proprio queste capacità risultano scoraggiate
dal clima di incertezza e precarietà. Infine, la condizione di precarietà ge-
nerale induce a comportamenti sempre più competitivi sia tra le imprese,
per accaparrarsi la manodopera più qualificata secondo le esigenze del
momento, sia tra i lavoratori, alla ricerca continua di posizioni di mag-
giore forza individuale a scapito della solidarietà collettiva.
Queste tendenze negative, che producono un abbassamento delle po-
tenzialità di crescita economica di lungo periodo, devono essere contra-
state introducendo nuove rigidità del lavoro. È finito il tempo dell’esalta-
zione della flessibilità perché essa accentua le tendenze declinanti dell’e-
conomia, oltre a generare vasta e profonda sofferenza sociale. Le nuove
rigidità da introdurre sono di due tipi, salariali e relative alla dotazione di
diritti del lavoratore.
Dal punto di vista salariale, è opportuno introdurre, per legge, un sa-
lario minimo, al di sotto del quale non sia possibile scendere, per nessu-
na categoria di lavoratori e per nessuna tipologia contrattuale. Si deve
stabilire quanto vale, come minimo, un’ora, un giorno, un mese di lavo-
ro, di qualunque lavoro si tratti, indipendentemente dal suo grado di
qualificazione e di prestazione. Tutti i lavoratori, in particolare quelli di
giovane età, devono avere la certezza di un salario minimo, per il pre-
sente e per il futuro. Questa necessità, se fino a poco tempo fa poteva
apparire superflua e ad alcuni dannosa per gli stessi lavoratori, è invece
oggi vitale, e non solo per le ragioni prima esposte sulle conseguenze ne-
gative dell’incertezza.
Infatti, nel nostro come negli altri paesi ricchi, il fenomeno dell’immi-
grazione tenderà inevitabilmente ad assumere un peso sempre maggiore.
Una massa di lavoratori, provenienti dalle zone più povere e diseredate
del Sud del mondo, si sta riversando con intensità crescente in Italia e ne-
gli altri paesi europei. È una tendenza inarrestabile di fronte alle spaven-
tose differenze di reddito e di ricchezza che caratterizzano il mondo del-
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10. PRIMA DI TUTTO IL LAVORO E IL SALARIO! 245

la globalizzazione neoliberista. Nessuna flotta armata messa a pattugliare


le coste, nessun muro eretto alle frontiere potrà arrestare questo flusso
continuo di persone che fuggono da condizioni di vita penose e inumane.
Questi uomini e queste donne, che non di rado rappresentano la parte
migliore, più qualificata e intraprendente dei loro paesi di origine, saran-
no spesso disposti, pur di essere accolti, a ricevere salari e a godere di di-
ritti che, se pur inferiori a quelli dei lavoratori italiani, sono tuttavia in-
comparabilmente superiori a quelli che riceverebbero se fossero rispediti
a casa. E nessuno ha il diritto di biasimarli, perché sono proprio questi in-
dividui, costretti a fuggire dalla miseria più abominevole, ad essere in cre-
dito nei confronti del resto dell’umanità più fortunata. D’altra parte, il fe-
nomeno delle migrazioni ha caratterizzato la storia umana fin dalle sue
origini. Da sempre gli esseri umani si sono spostati alla ricerca di miglio-
ri condizioni ambientali e di vita. Ed è grazie alle migrazioni di massa che
l’umanità è progredita e si è civilizzata, attraverso il continuo e incessan-
te meticciato di culture, di pratiche e di esperienze. Il mito di Ulisse, eter-
no migrante, è l’emblema del progresso umano. Le frontiere, i muri eret-
ti a difesa di un territorio o più spesso di un privilegio, hanno sempre rap-
presentato barriere provvisorie, labili e destinate ad essere spazzate via
dal desiderio di vivere e di conoscere degli uomini. Gli italiani, che fino a
una generazione fa sono stati un popolo di migranti, dovrebbero sapere
meglio di altri popoli queste cose. L’avidità del profitto, la ricerca osses-
siva di sempre maggiori opportunità di guadagno che caratterizza le no-
stre società attuali, potrebbero indurre le imprese, piccole e grandi, ad
approfittare della disperazione di queste persone, alla ricerca di una pos-
sibilità di vita loro negata, come occasione di sfruttamento selvaggio. E,
mettendo i lavoratori in concorrenza tra loro, come elemento di abbassa-
mento universale dei salari e dei diritti11. È anche per ridurre al minimo
questo rischio, oltre che per ragioni di pura umanità, che bisognerebbe
abrogare la forcaiola legge Bossi-Fini sull’immigrazione, che mette i lavo-
ratori immigrati in una condizione di permanente ricatto da parte del da-
tore del lavoro, perché un licenziamento potrebbe portare in tempi brevi
prima alla reclusione forzata nei famigerati centri di permanenza tempo-
ranea e poi all’espulsione dall’Italia. Insieme agli immigrati, sono i lavo-
ratori italiani i soggetti che dovrebbero essere più interessati all’abroga-
zione dell’attuale normativa sull’immigrazione, perché vengono colpiti
nella loro forza contrattuale. Alla strategia della repressione in materia di
immigrazione andrebbe sostituita una strategia dell’accoglienza, mirante
a integrare pienamente, pur nel riconoscimento delle differenze culturali,
le comunità migranti nel sistema di diritti e di protezione sociale dei la-
voratori italiani. Di fronte a questa complessa situazione anche la fissa-
zione per legge di un salario minimo per tutti i lavoratori, autoctoni e mi-
granti, stabili e precari, si configura come un elemento di garanzia per
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246 DOPO IL LIBERISMO

l’intero mondo del lavoro e anche per le prospettive future del nostro si-
stema economico. Essa darebbe, infatti, una garanzia minima di tipo sa-
lariale anche a tutti quei soggetti che non sono in condizioni di far valere
pienamente i propri diritti contrattuali e sindacali.
In questo quadro, con una nuova scala mobile e un salario minimo in-
tercategoriale fissati per via legislativa, la contrattazione collettiva nazio-
nale di categoria si libererebbe del fardello di una rincorsa affannosa alla
continua riaffermazione di diritti e salari minimi e riacquisterebbe il suo
ruolo originario ed essenziale di strumento per la distribuzione dei bene-
fici derivanti dalla crescita della produttività media, di definizione del re-
gime generale della prestazione lavorativa e di luogo di confronto sulle
prospettive di sviluppo del settore, mentre alla contrattazione aziendale
spetterebbe il compito di occuparsi delle questioni specifiche e particola-
ri di ogni luogo di lavoro. Il ruolo della contrattazione collettiva, e quin-
di dell’organizzazione sindacale democratica, ne uscirebbe potenziato e
valorizzato perché la tutela dei diritti più elementari sarebbe garantita a
monte, dalla legislazione.
Ma, accanto a questi elementi di tutela di base di una nuova scala mo-
bile e del salario minimo, è necessario introdurre per via legislativa un ter-
zo strumento, quello del salario di cittadinanza. In sua assenza, infatti, ri-
marrebbe discriminata una parte affatto marginale dei salariati, quella dei
disoccupati e del precariato sociale. Anche a questa parte di lavoratori so-
ciali, che è esclusa dalla possibilità di entrata nel mondo del lavoro, deve
essere garantito il diritto alla sopravvivenza autonoma e indipendente. Se
così non fosse, la leva della disoccupazione di massa continuerebbe a pe-
sare in maniera preponderante nella definizione dei rapporti di forza con-
trattuali tra lavoratori e imprese. Esisterebbe sempre un potenziale ser-
batoio da cui attingere per indebolire i diritti di tutti i lavoratori. È anco-
ra oggetto di controversia, tra i sostenitori di questa proposta, se la cor-
responsione di un salario di cittadinanza (è preferibile chiamarlo salario
piuttosto che reddito di cittadinanza per evidenziare l’appartenenza al
mondo del lavoro) debba esse collegata o meno a un obbligo lavorativo,
ad esempio nel settore dei lavori di pubblica utilità12. La cosa più ragio-
nevole sarebbe condizionare il salario di cittadinanza a un obbligo di
comportamenti utili dal punto di vista sociale. Questi non si esplicano
soltanto attraverso la classica prestazione lavorativa, ma anche in altre ti-
pologie, come la formazione culturale e professionale, la partecipazione
ad attività di volontariato, lo svolgimento di attività assistenziali all’inter-
no del proprio nucleo familiare o fuori di esso, la comunicazione e la dif-
fusione di pratiche e di conoscenze sociali, la cura e la promozione del
territorio, dell’ambiente e del patrimonio artistico. Il livello minimo del
salario di cittadinanza dovrebbe essere almeno superiore alla soglia di po-
vertà relativa definita dalle misure ufficiali e dovrebbe essere integrato
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10. PRIMA DI TUTTO IL LAVORO E IL SALARIO! 247

dalla fruizione gratuita di un pacchetto di servizi pubblici (trasporti,


istruzione, sanità, servizi di rete, attività culturali).
Infine, l’ultimo tassello mancante per un progetto di ricostruzione del-
l’unità del mondo del lavoro e per una maggiore coesione sociale è la
reintroduzione di una regolamentazione del rapporto di lavoro, che fissi
alcuni diritti elementari in merito alla stabilità e alla sicurezza dell’occu-
pazione. Un passo preliminare è costituito dall’immediata abrogazione
della Legge 30, varata dal governo Berlusconi, che ha polverizzato il rap-
porto di lavoro in una miriade inestricabile di tipologie contrattuali, di
fatto consegnando alle imprese una piena e assoluta discrezionalità nelle
forme di utilizzo della manodopera. Ma, dopo questa misura fondamen-
tale, occorre procedere oltre e disegnare un nuovo statuto dei diritti del
lavoro, che non sostituisca ma affianchi lo Statuto dei lavoratori vigente,
per garantire alle nuove figure lavorative, che magari per propria libera
scelta preferiscono un rapporto lavorativo più flessibile e articolato di
quello tradizionale a tempo pieno e indeterminato, di poter godere delle
tutele previdenziali, assicurative, sindacali, di ferie e di malattia.
In conclusione, la priorità della politica economica del paese, quella di
una redistribuzione più egualitaria del reddito, si esplica innanzitutto at-
traverso l’introduzione nell’assetto economico e sociale di nuove rigidità
del lavoro, nella forma di garanzie salariali e di più estesi diritti esigibili.
Si tratta di imporre accanto al vincolo esterno della competitività globale
un nuovo vincolo interno, quello della garanzia di uno sviluppo equo e
socialmente sostenibile, finalizzato al soddisfacimento dei bisogni sociali,
in grado di assicurare un’esistenza libera e civile a tutta la popolazione
che vive nel nostro paese e che quindi, nelle più svariate forme, contri-
buisce al suo benessere e alla sua prosperità13. Per anni abbiamo sentito
che il vincolo competitivo era un pungolo per l’efficienza economica, per
aumentare il grado di razionalità nell’utilizzo delle risorse disponibili. Eb-
bene, la stessa cosa vale per il vincolo sociale interno, con l’aggiunta che
esso, oltre a stimolare l’efficienza economica, riduce anche il grado di sof-
ferenza sociale e migliora la qualità della vita. D’altra parte, quale deve es-
sere il fine della produzione economica, se non quello di aumentare non
i valori monetari, ma il benessere individuale e collettivo? A questo fine
deve essere allora riorientata la politica economica e sociale del paese.

10.5. Per un nuovo welfare

La necessaria redistribuzione del reddito, oltre che per un incremento


del salario diretto, quello monetario ricevuto in cambio della prestazione
lavorativa, passa anche per un aumento del salario indiretto, quello rice-
vuto sotto forma di prestazioni e servizi sociali finalizzati al soddisfaci-
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248 DOPO IL LIBERISMO

mento dei diritti di cittadinanza e dei bisogni essenziali. Un esteso siste-


ma di protezione sociale, organizzato e gestito prevalentemente dal setto-
re pubblico, è stato uno dei cardini del modello sociale europeo del do-
poguerra. Lo Stato sociale, il Welfare State, ha svolto un ruolo essenziale
in Europa per garantire la coesione sociale, il benessere individuale e col-
lettivo e anche un più ordinato sviluppo del sistema economico, consen-
tendo di riequilibrare, almeno parzialmente, le distorsioni sociali e terri-
toriali che i meccanismi spontanei del mercato inevitabilmente produco-
no. Beninteso, su questo terreno non c’è stata nessuna concessione dal-
l’alto. Lo Stato sociale in Europa è stato essenzialmente il frutto delle lot-
te e delle rivendicazioni del movimento operaio e popolare, nelle sue va-
rie componenti politiche e ideali. Tutte le costituzioni europee, stilate nel-
l’immediato dopoguerra, riconoscono la garanzia pubblica dei diritti so-
ciali come uno dei fondamentali principi del patto che lega i cittadini al-
lo Stato. È solo attraverso questo riconoscimento, e la correlata espansio-
ne del ruolo pubblico nel campo della protezione sociale, che i popoli eu-
ropei hanno potuto superare il trauma di due distruttivi conflitti mondiali
nell’arco di una generazione, che aveva spezzato il rapporto di fiducia e
di legittimazione con le istituzioni e con lo Stato. Ma la concreta attua-
zione di questi nuovi diritti ha richiesto una continua e forte mobilitazio-
ne popolare, tesa a rendere concrete quelle conquiste sociali che pure era-
no formalmente riconosciute nell’ordinamento giuridico.
Questo è particolarmente vero per l’Italia, dove soltanto a seguito del
grande ciclo di lotte degli anni Sessanta e Settanta si sono realizzate quel-
le riforme (nella sanità, nella scuola, nella casa, nella previdenza) che in
altri paesi europei erano già da tempo realtà acquisite14. Questo ritardo
storico nello sviluppo di un moderno e qualificato Stato sociale ha fatto
sì che in Italia l’ondata neoliberista, di cui la privatizzazione dei servizi so-
ciali è stata uno dei principali cavalli di battaglia, si è infranta con tutta la
sua devastante potenza contro un sistema del welfare fragile e imperfet-
to, per molti aspetti ancora concretamente da costruire sulla base dei
nuovi modelli universalistici sanciti in una legislazione a fatica conquista-
ta attraverso le lotte operaie e popolari.
La crociata neoliberista contro il welfare ha avuto motivazioni e scopi
vari e complessi. Ha certamente pesato la necessità di ridurre la spesa
pubblica e di ridimensionare il ruolo redistributivo esercitato dallo Stato
per liberare risorse a vantaggio delle imprese e dei redditi da capitale. Ma,
accanto a questo interesse immediato, hanno agito anche tendenze di fon-
do che caratterizzano l’evoluzione del sistema capitalistico contempora-
neo. Di fronte al marcato rallentamento delle dinamiche di crescita eco-
nomica e al conseguente restringimento dei mercati, si è vista nel campo
dei servizi essenziali, in genere forniti dal settore pubblico, una fonte sta-
bile e sicura di domanda per la produzione privata, con cui sostituire i de-
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10. PRIMA DI TUTTO IL LAVORO E IL SALARIO! 249

clinanti profitti derivanti dalla produzione industriale. Infatti, i bisogni


soddisfatti attraverso il sistema del welfare, e più in generale dei servizi di
pubblica utilità, hanno natura di bisogni essenziali e incomprimibili (sa-
lute, istruzione, assistenza e previdenza ma anche acqua, gas, trasporti,
elettricità) e quindi sono soggetti a limitate fluttuazioni di domanda. A
contruibuire a un largo e diffuso consenso a favore delle privatizzazioni
sono state senz’altro le deficienze, gli sprechi e le storture di una gestio-
ne burocratica e amministrativa dei servizi pubblici incapace di dare ri-
sposta ai nuovi bisogni sociali, divenuti più specifici e individuali in se-
guito ai processi di modernizzazione economica e sociale. Il clientelismo
e il favoritismo dilaganti in Italia, dove la pubblica amministrazione non
è mai riuscita a mettere concretamente in pratica quei criteri di imparzia-
lità, di efficienza e di efficacia che pure dovrebbero informarla, hanno fat-
to il resto. Oggi che la sbornia neoliberista subisce una battuta d’arresto,
almeno agli occhi del sentire comune se non ancora nelle politiche di go-
verno, ci accorgiamo che l’arretratezza del sistema del welfare italiano si
è ancor più accentuata, nonostante il pesante ridimensionamento che es-
so ha subito in tutti i paesi europei negli anni di Maastricht15.
Infatti, la spesa sociale totale (esclusa l’istruzione), misurata in rap-
porto al PIL, è in Italia di quasi due punti percentuali (25,6 per cento) sot-
to la media dell’UE (27,4 per cento) e addirittura di più di quattro punti
percentuali al di sotto di quella della Francia (30 per cento) e della Ger-
mania (29,8)16. Tra i quindici paesi che componevano l’UE prima dell’al-
largamento, stanno sotto di noi soltanto la Spagna, il Portogallo, l’Irlan-
da e il piccolo ma ricco Lussemburgo, mentre la Grecia ci distanzia no-
tevolmente (27,2 per cento). Se traduciamo queste cifre in termini di spe-
sa sociale pro capite, cioè di salario indiretto ricevuto da un lavoratore, le
differenze risultano più chiare ed evidenti. Un cittadino medio dell’UE ri-
ceve ogni anno 1.020 euro in più di prestazioni sociali rispetto a un citta-
dino italiano, un francese ne riceve 1.873 in più e un tedesco ben 2.128.
Persino in Gran Bretagna, patria del neoliberismo di stampo thatcheria-
no, un cittadino gode oggi di una spesa sociale annua di 1.856 euro su-
periore a quella di un italiano. Se guardiamo alla composizione della spe-
sa sociale per funzione, l’anomalia italiana in Europa viene esaltata. In
quattro (disoccupazione, infanzia e famiglie, sanità e assistenza ai disabi-
li, casa ed esclusione sociale) delle cinque macrofunzioni in cui può esse-
re scomposta la spesa sociale, l’Italia si colloca all’ultimo o al penultimo
posto in termini di quota sulla spesa sociale totale. La posizione dell’Ita-
lia rimane inalterata perfino se allarghiamo il panorama europeo ad altri
sei paesi (Islanda, Norvegia, Svizzera, Ungheria, Slovenia e Slovacchia)
per i quali sono disponibili statistiche comparabili. Alcuni dati sono ve-
ramente clamorosi. La quota sulla spesa sociale destinata alla casa e all’e-
sclusione sociale è pari a un decimo di quella media dell’UE, quella per il
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250 DOPO IL LIBERISMO

sostegno ai disoccupati è meno di un terzo e quella per i servizi all’infan-


zia e alle famiglie è la metà.
Sulla salute il nostro paese è al penultimo posto, davanti alla sola Gre-
cia, sui ventuno paesi europei considerati, e investe il 31,9 per cento del-
la spesa totale, contro una media UE del 35,8 per cento. In termini di spe-
sa sanitaria e per la disabilità l’Italia spende complessivamente l’1,5 per
cento in meno di PIL rispetto alla media dell’UE e addirittura il 2,7 per
cento in meno della Germania, il 2,2 per cento in meno della Francia e il
2,1 per cento in meno della Gran Bretagna. In termini assoluti stiamo
parlando di cifre enormi. La Germania spende all’anno per la salute 218
miliardi di euro, la Francia 148 miliardi, la Gran Bretagna 158 miliardi,
mentre l’Italia appena 95 miliardi di euro. In termini pro capite, le risor-
se pubbliche destinate ogni anno alla cura della salute per ogni cittadino
italiano sono inferiori di 435 euro a quelle medie di un cittadino comu-
nitario, di 993 euro a quelle di un tedesco, di 777 euro a quelle di un fran-
cese e di 1.020 a quelle di un inglese. Questa situazione è il frutto dei ta-
gli massicci del Fondo Sanitario Nazionale operati da tutti i governi che
si sono succeduti a partire dall’inizio degli anni Novanta e che hanno
messo in seria difficoltà i bilanci di tutte le regioni italiane. Se l’Italia con-
tinua ad essere ai primi posti nelle classifiche dell’Organizzazione Mon-
diale della Sanità per qualità delle prestazioni sanitarie, lo si deve esclusi-
vamente al fatto che, grazie alla riforma sanitaria del 1978 (forse la mag-
giore conquista di civiltà del nostro paese nel dopoguerra), il nostro si-
stema sanitario è rimasto organizzato su scala nazionale, con una gestio-
ne prevalentemente pubblica e ispirata a principi universalistici. Tuttavia,
questi livelli qualitativi sono oggi in serio pericolo. Da un lato, se il razio-
namento delle risorse finanziarie durerà ancora per poco, il sistema sani-
tario italiano è destinato a subire un improvviso collasso. Dall’altro lato,
la riforma federalista dello Stato, messa in cantiere dal governo Berlusco-
ni, rischia di frammentare la sanità italiana in venti diversi sistemi sanita-
ri regionali, introducendo drammatiche differenziazioni territoriali nella
tutela della salute dei cittadini. Se a questo aggiungiamo i ricorrenti ten-
tativi di privatizzare pezzi fondamentali della sanità pubblica portati
avanti dal centrodestra, la situazione della sanità italiana appare vera-
mente critica.
Un altro pezzo importante del welfare, oltre alla protezione sociale, è
il sistema dell’istruzione scolastica e universitaria. L’Italia è uno dei paesi
con il livello di scolarizzazione più basso d’Europa. Se si considerano i
ventinove paesi europei (UE, Europa dell’Est, Svizzera, Norvegia e Islan-
da) per i quali Eurostat fornisce statistiche comparabili, troviamo che l’I-
talia si colloca al ventisettesimo posto per grado di istruzione della popo-
lazione compresa tra venticinque e sessantaquattro anni, davanti solo al-
la Spagna e al Portogallo17. Il 56 per cento della popolazione adulta ita-
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10. PRIMA DI TUTTO IL LAVORO E IL SALARIO! 251

liana ha un basso grado di istruzione (inferiore al diploma secondario)


contro una media UE del 38 per cento. La percentuale di laureati è in Ita-
lia del 10 per cento contro una media del 21 per cento nella popolazione
comunitaria. Questa condizione non è il residuo di un lontano passato se
si considera che, tra i giovani di età compresa tra i venticinque e i trenta-
quattro anni, ben il 40 per cento non ha completato le scuole secondarie
(il 28 per cento nell’UE) e soltanto il 12 per cento ha conseguito un di-
ploma di laurea (26 per cento nell’UE). Considerando i giovanissimi, com-
presi tra diciotto e ventiquattro anni, in Italia ben uno su quattro ha ab-
bandonato gli studi senza conseguire il diploma di scuola secondaria su-
periore, mentre nella fascia tra i quindici e i ventiquattro anni soltanto il
48 per cento degli italiani continua a studiare (il 58 per cento nell’UE). Se
poi ci fermiamo a osservare il grado di istruzione specialistica, di tipo po-
st-universitario, il quadro diventa a dir poco sconfortante. A questo livel-
lo l’Italia è di gran lunga il fanalino di coda nell’UE, con una percentuale
di istruzione post-universitaria tra i giovani di età compresa tra i venti-
cinque e i trentaquattro anni pari a meno di un terzo della media comu-
nitaria (quattro su diecimila in Italia, tredici su diecimila nell’UE).
È di per sé evidente che esiste una stretta correlazione tra la specializ-
zazione produttiva italiana nei comparti a minor contenuto di conoscen-
za e di tecnologia e la pessima posizione occupata dal nostro paese nei
confronti internazionali rispetto al grado di istruzione, sia del totale del-
la popolazione, sia della sua fascia giovanile. Ora dobbiamo avere tutti
coscienza che nel campo dell’istruzione e della formazione il mercato è
fallimentare perché accentua le distorsioni e crea circoli viziosi. Se la do-
manda di lavoro delle imprese, a causa dell’arretrata specializzazione pro-
duttiva, è prevalentemente rivolta a manodopera scarsamente qualificata
rispetto agli standard internazionali, l’incentivo individuale a proseguire
gli studi fino ai più alti livelli sarà inevitabilmente più scarso, a meno di
sostituire la carenza di incentivi privati con incentivi pubblici (ad esem-
pio, servizi reali e monetari per il diritto allo studio). Allora, se l’Italia vo-
lesse porre le premesse minime per colmare il gap tecnologico e cogniti-
vo esistente con gli altri maggiori paesi europei, dovrebbe spendere in
istruzione pubblica di più della media europea. Accade invece il contra-
rio. Infatti, la spesa pubblica per istruzione rispetto al PIL è in Italia del
4,6 per cento rispetto a una media europea del 5 per cento. Lo Stato ita-
liano spende per ogni studente 410 euro in meno di quanto spende la
Germania e ben 877 euro in meno di quanto spende la Francia. Inoltre,
mentre la spesa pubblica per istruzione in rapporto al PIL è rimasta pres-
soché costante in Europa dal 1990 a oggi, in Italia essa si è ridotta signi-
ficativamente di circa un punto percentuale. Non deve allora sorprende-
re il fatto che durante gli anni di Maastricht la differenza tra il livello me-
dio di istruzione della popolazione italiana (25-59 anni) e quello della po-
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252 DOPO IL LIBERISMO

polazione europea sia fortemente aumentata (dal 90 per cento della me-
dia europea nel 1992 all’84 per cento nel 2001), con una tendenza per il
futuro all’allargamento della divergenza, fenomeno unico tra tutti i paesi
UE . In queste condizioni è veramente difficile pensare di allontanare lo
18

spettro del declino produttivo con retorici appelli alla fiducia, tanto più
di fronte alla controriforma della scuola operata dal governo Berlusconi,
che colpisce la scuola pubblica a vantaggio di quella privata e accelera la
fuoriuscita dei giovani dal percorso scolastico per inserirli, già nella fase
dell’istruzione obbligatoria, nel mondo delle imprese.
Non possono essere oggetto di questo libro, dedicato alla politica eco-
nomica, le necessarie modifiche qualitative da apportare alla tipologia de-
gli interventi per la protezione sociale e l’istruzione e alle modalità della
loro erogazione, se non per sottolineare la necessità di una assoluta pre-
minenza della gestione pubblica dei servizi e della scuola. Invece, qual-
cosa di importante è possibile dire dal punto di vista quantitativo. Di
fronte alla situazione sopra illustrata, l’aumento delle risorse complessive
destinate alla spesa sociale deve diventare una priorità della politica eco-
nomica dei prossimi anni. Il potenziamento del sistema del welfare avreb-
be effetti benefici non soltanto sul piano del miglioramento delle condi-
zioni sociali del paese, riducendo il grado di disuguaglianza, di povertà e
di sofferenza sociale, ma anche sulla domanda. Infatti, in aggiunta all’in-
cremento diretto della spesa per consumi collettivi, essa libererebbe ri-
sorse anche per la spesa privata delle famiglie italiane. Ad esempio, nel
decennio 1991-2001 la spesa privata sostenuta ogni anno dalle famiglie
italiane per le cure sanitarie è più che raddoppiata, passando da dieci a
ventidue miliardi di euro, per far fronte alla riduzione della copertura
delle prestazioni pubbliche. Per la grande maggioranza delle famiglie la
spesa sanitaria privata va a scapito di consumi, spesso essenziali, e indu-
ce anche a un comportamento previdente, di risparmio e di rinuncia, di
fronte a possibili malattie future. La stessa cosa vale, sia pur in misura più
ridotta, per le altre tipologie di prestazioni sociali. L’obiettivo minimo e
assolutamente realistico che il nostro paese si deve porre è quello di rag-
giungere, in un arco temporale non superiore al quinquennio, la stessa
percentuale di spesa per il welfare che in media spendono gli altri quat-
tordici paesi dell’UE, il che equivale a prevedere un aumento complessivo
della spesa sociale del 2 per cento del PIL. Saremmo ancora ben lontani
dalle quote dei maggiori paesi europei, tuttavia potremmo avere a dispo-
sizione alla fine del periodo qualcosa come trenta miliardi di euro in più
da destinare a sanità, salario di cittadinanza, casa, servizi alle famiglie, al-
l’infanzia e agli anziani.
Allo stesso modo è indispensabile, dopo aver al più presto abrogato la
riforma Moratti, aumentare la spesa per la scuola pubblica e per l’univer-
sità. Ciò è importante sia per garantire una migliore opportunità di com-
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10. PRIMA DI TUTTO IL LAVORO E IL SALARIO! 253

pletare il percorso di studi ai giovani appartenenti a famiglie non bene-


stanti, che sono quelli più colpiti dalle scarse risorse pubbliche destinate
all’istruzione, sia per costruire le basi minime per una riqualificazione del
sistema produttivo italiano. In questo settore l’obiettivo deve essere più
ambizioso del raggiungimento della media comunitaria e deve puntare a
una crescita complessiva della spesa per l’istruzione pubblica pari ad al-
meno l’1 per cento del PIL nel giro del prossimo quinquennio (complessi-
vamente circa quindici miliardi di euro in più alla fine del periodo).

10.6. L’inganno dell’emergenza pensioni

Dove invece l’Italia balza al primo posto in Europa è nella spesa pen-
sionistica pubblica, che assorbe il 51,7 per cento del totale della spesa so-
ciale, contro una media dell’UE pari al 41,3 per cento19. In rapporto al PIL,
la spesa complessiva per le pensioni è in Italia del 12,7 per cento rispetto
al 10,9 per cento della media comunitaria. Questi dati sono stati spesso
portati a sostegno della tesi della necessità di una riforma del sistema pre-
videnziale italiano per ridurre la spesa pensionistica in modo da liberare
risorse per altre funzioni, oggi penalizzate, del welfare. Vale allora la pe-
na di soffermarci ad analizzare meglio i dati. In primo luogo, Eurostat
chiarisce che, all’interno del dato italiano, è compresa una voce, il tratta-
mento di fine rapporto (TFR), cioè la liquidazione, che andrebbe, a rigor
di logica, scorporata dalla spesa pensionistica e inserita, in analogia con
la classificazione di istituti aventi scopi similari negli altri paesi europei,
all’interno delle prestazioni sociali per il sostegno ai disoccupati20. La spe-
sa per il TFR non è di scarsa rilevanza, incidendo per il 6 per cento sulla
spesa sociale totale. Applicando le indicazioni dell’istituto ufficiale euro-
peo di statistica, la spesa propriamente pensionistica italiana calerebbe al
45,7 per cento del totale della spesa sociale e all’11,2 per cento del PIL. In
questo modo, allora, l’anomalia dell’elevata spesa pensionistica italiana
praticamente scompare, essendo superiore a quella media europea per
appena lo 0,3 per cento del PIL. Conteggiando propriamente il TFR, l’Ita-
lia scende bruscamente al quarto posto, a pari merito con la Gran Breta-
gna, per spesa pensionistica all’interno dell’UE, superata dalla Grecia
(12,7 per cento del PIL), dalla Germania (11,7 per cento) e dalla Svezia
(11,3 per cento). Ma non basta. In Italia i redditi da pensione sono tassa-
ti allo stesso modo dei redditi da lavoro e le statistiche relative alla spesa
pensionistica riportano la spesa al lordo delle imposte dirette. In molti al-
tri paesi europei, invece, le pensioni godono di particolari agevolazioni fi-
scali rispetto agli altri redditi, che ne abbassano il livello di imposizione21.
Per fare un esempio, mentre in Italia le tasse prelevate sulle pensioni am-
montano al 2,9 per cento del PIL, in Gran Bretagna sono pari soltanto al-
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254 DOPO IL LIBERISMO

lo 0,4 per cento e in Germania all’1,3 per cento. Poiché le imposte paga-
te sulle pensioni finiscono nelle casse dello Stato, un conteggio appro-
priato della spesa pensionistica pubblica dovrebbe essere fatto in termini
netti e non lordi, per evitare l’effetto contabile della partita di giro delle
tasse. In questo caso, anche la piccola differenza rimanente della quota di
spesa pensionistica pubblica sul PIL tra l’Italia e il resto dell’UE verrebbe
più che annullata. Dunque, non esiste nessuna anomalia italiana in Euro-
pa in questo campo22. Gli argomenti che sostengono la necessità di ta-
gliare la spesa pensionistica per allineare l’Italia all’Europa sono sempli-
cemente falsi e privi di ogni fondamento oggettivo.
L’altra giustificazione che viene portata a sostegno della necessità di una
riduzione delle prestazioni previdenziali è relativa all’andamento demo-
grafico. Si afferma che, a causa dell’invecchiamento progressivo della po-
polazione, derivante dall’innalzamento delle aspettative di vita e dalla ri-
duzione dei tassi di fertilità, l’attuale sistema previdenziale non sarebbe in
grado di reggere dal punto di vista finanziario nei prossimi decenni. Infat-
ti, le tendenze demografiche in atto comporteranno un notevole aumento
del numero di anziani in rapporto alla popolazione in età da lavoro e ciò
renderebbe troppo gravoso il finanziamento della spesa pensionistica. La
conclusione che se ne trae è che allora bisogna ridurre, in una forma o nel-
l’altra, l’importo complessivo delle pensioni pubbliche future. Questo può
avvenire aumentando l’età media di pensionamento, in modo da ridurre gli
anni di pagamento della pensione, o riducendo l’importo mensile della
pensione, oppure ancora attraverso una combinazione delle due misure.
La riforma delle pensioni varata dal governo Berlusconi rientra in que-
st’ultimo caso: costringe i lavoratori ad andare in pensione più tardi, anche
attraverso l’abolizione della pensione di anzianità maturata dopo trenta-
cinque anni di lavoro, e contemporaneamente riduce l’importo medio del-
le pensioni future, attraverso la decontribuzione per i neoassunti23.
Questa conclusione è priva di ogni base logica. Infatti, un conto è il
problema del finanziamento della spesa pensionistica pubblica, cioè il
modo in cui reperire le risorse per pagare le pensioni, un altro è il pro-
blema dell’importo complessivo delle pensioni future.
Soffermiamoci innanzitutto sul primo aspetto del problema. Sicura-
mente gli andamenti demografici solleveranno serie difficoltà in futuro
per quei sistemi previdenziali basati su un meccanismo cosiddetto “a ri-
partizione”, in base al quale le pensioni dell’anno in corso sono finanzia-
te attraverso i contributi sociali versati da coloro che stanno attualmente
lavorando. Infatti, se aumentano gli anziani relativamente a coloro che so-
no in età da lavoro, per garantire il pagamento delle pensioni occorrerà
che i contributi sociali versati dagli occupati crescano continuamente. Il
sistema a ripartizione ha svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo eco-
nomico e sociale del nostro paese e trova le sue origini negli istituti mu-
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10. PRIMA DI TUTTO IL LAVORO E IL SALARIO! 255

tualistici e cooperativi del primo movimento operaio. Questo sistema ha


garantito il mantenimento di un profondo legame di solidarietà tra le ge-
nerazioni dei lavoratori e inoltre, quando gli andamenti demografici era-
no favorevoli, ha contribuito fortemente alla creazione del risparmio ne-
cessario all’industrializzazione del paese. Esso, tuttavia, rischia di diven-
tare, in un futuro non lontano, un elemento residuale, destinato a scom-
parire, nel nostro sistema previdenziale.
Il sistema a ripartizione ha infatti una sua piena solidità e coerenza
quando è affiancato da un sistema di calcolo delle pensioni basato sul me-
todo retributivo, cioè computando l’importo della pensione sulla base del
salario percepito negli ultimi anni di lavoro, come avveniva per tutti i la-
voratori fino al 1995. Questo sistema, conquistato con le lotte dell’“au-
tunno caldo”, traeva la sua motivazione dalla necessità sociale di evitare
un brusco peggioramento delle condizioni di vita del lavoratore nel mo-
mento del passaggio alla pensione. L’alternativa al metodo di calcolo re-
tributivo è quello contributivo, con cui l’importo della pensione viene
calcolato sulla base del rendimento dei contributi versati da ogni singolo
lavoratore durante tutta la sua vita lavorativa. In questo modo, l’importo
della pensione viene a dipendere dai contributi individuali accumulati e
si indebolisce, quindi, la motivazione soggettiva per aderire con convin-
zione a un sistema a ripartizione. Infatti, in un sistema come l’attuale, a
ripartizione di tipo contributivo, il rendimento dei versamenti accumula-
ti è fissato per legge in relazione all’andamento del PIL. In questa situa-
zione, soprattutto quando, come accade da più di un decennio, i tassi di
interesse reali sono superiori ai tassi di crescita del PIL, può prendere pie-
de tra i lavoratori una legittima domanda. Se la mia pensione futura non
sarà altro che la restituzione rivalutata di quanto sto accumulando negli
anni di lavoro, perché mai i miei contributi dovrebbero essere utilizzati
per pagare i pensionati di oggi e non invece investiti per massimizzarne il
rendimento futuro? Potrebbe apparire allora più razionale, dal punto di
vista individuale, passare a un sistema di finanziamento a capitalizzazio-
ne, in cui le pensioni sono finanziate attraverso il rendimento derivante
dall’investimento sui mercati finanziari dei contributi individuali versati
dai lavoratori. In questo caso, oltre a venir meno ogni legame di solida-
rietà intergenerazionale, perderebbe gran parte del suo senso anche la ge-
stione pubblica della previdenza.
La riforma Dini del 1995, accanto a misure tese a innalzare l’età pen-
sionabile e a limitare il ricorso alle pensioni di anzianità, ha modificato il
sistema di calcolo delle pensioni24. Il sistema di calcolo retributivo è stato
sostituito, per i lavoratori con meno di diciotto anni di versamenti, da un
sistema contributivo. Gli effetti di lungo periodo di questa riforma per i
pensionati del futuro saranno molto pesanti. Infatti, con il sistema prece-
dente un lavoratore andava in pensione, dopo trentacinque anni di con-
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256 DOPO IL LIBERISMO

tributi, con il 67 per cento dell’ultima retribuzione, se dipendente priva-


to, e con il 77 per cento, se dipendente pubblico. Quando la riforma Di-
ni avrà esercitato tutti i suoi effetti un lavoratore con trentacinque anni di
contributi andrà in pensione con appena il 48,5 per cento dell’ultima re-
tribuzione e al massimo, avendo però quaranta anni di contributi, con il
64 per cento. Considerando le attuali dinamiche del mercato del lavoro,
il quadro si fa ancora più preoccupante. Infatti, sarà ben difficile che i
giovani che entrano oggi sul mercato del lavoro, attraverso le mille forme
di precarietà, riusciranno a maturare quaranta, o anche solo trentacinque
anni di contribuzione piena. Per molti pensionati del futuro la pensione
pubblica si ridurrà a ben poca cosa, una miseria mensile che non basterà
a vivere nemmeno per un settimana. Per queste ragioni, quando entrerà
pienamente a regime, la riforma Dini avrà risolto alla radice qualsiasi pro-
blema di finanziamento del sistema previdenziale pubblico, anche nel
peggiore degli scenari demografici. Ciò avverrà semplicemente riducen-
do alla fame i pensionati del futuro, che dovranno contare su altre entra-
te finanziarie personali per riuscire a campare, oppure dovranno rasse-
gnarsi a lavorare fino all’esalazione dell’ultimo respiro. D’altra parte, il
comma 1 dell’articolo 1 della Legge di riforma del 1995 si pone come so-
lenne obiettivo quello della «stabilizzazione della spesa pensionistica nel
rapporto con il prodotto interno lordo». Siccome la quota di anziani sul-
la popolazione crescerà nei prossimi anni, questo principio generale im-
plica semplicemente, senza tanti giri di parole, che in futuro gli anziani
dovranno godere di una pensione inferiore a quella attuale, relativamen-
te agli altri redditi. Nel periodo transitorio verso il nuovo sistema di cal-
colo, per qualche anno intorno al 2020, la spesa pubblica potrà forse au-
mentare al massimo di un punto percentuale rispetto al PIL, per poi scen-
dere rapidamente. Dove mai sarebbe allora l’emergenza pensionistica?
Di fronte a questa situazione assumono connotati semplicemente ver-
gognosi e moralmente esecrabili i continui, martellanti inviti che proven-
gono dalle organizzazioni economiche internazionali, dalle banche cen-
trali, dalle istituzioni europee, dal mondo accademico e, ovviamente, dal-
le imprese e dalla finanza, a una nuova, ulteriore manomissione del siste-
ma previdenziale tesa a ridurre ancor di più la spesa pensionistica pub-
blica, cosa che il governo Berlusconi ha prontamente fatto con la legge
delega del ministro Maroni.
Già i pensionati di oggi, che sono andati in pensione con un regime
molto più favorevole di quello dei pensionati di domani, prendono una
pensione da fame. L’importo medio lordo delle oltre sedici milioni di
pensioni erogate in Italia è di 965 euro per dodici mensilità, vale a dire in
termini netti circa 750 euro al mese. Il 50 per cento dei pensionati perce-
pisce una pensione mensile lorda inferiore ai 700 euro e, tra questi, circa
quattro milioni non arrivano oggi al vecchio milione di lire al mese
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10. PRIMA DI TUTTO IL LAVORO E IL SALARIO! 257

(516,46 euro), a dimostrazione del fatto che la promessa elettoralistica di


Berlusconi si è tradotta in una beffa atroce per i pensionati italiani25. Di
fronte alle cifre delle pensioni di oggi e, ancor di più, a quelle miserande
delle pensioni di domani, con quale coraggio, dunque, si continua a so-
stenere che il problema principale dell’economia italiana è quello del si-
stema previdenziale pubblico?
In realtà, dietro all’attacco alle pensioni si nascondono altri intenti, che
nulla hanno a che vedere con la sostenibilità delle finanze pubbliche, che
su questo versante non corre assolutamente alcun rischio. Quello che si
vuole è, in prima battuta, portare al collasso il sistema della previdenza
pubblica e poi ridurre gli importi pensionistici a livelli inferiori a quelli
della sussistenza per costringere i lavoratori a farsi una polizza pensioni-
stica privata e magari, in un futuro non troppo lontano, smantellare com-
pletamente la previdenza pubblica, preparando il passaggio, non facile
ma possibile, a un sistema di finanziamento a capitalizzazione gestito da
privati. In questo modo, decine di miliardi di euro diverrebbero d’un col-
po disponibili per le banche, le società di investimento finanziario e le im-
prese private per le più spericolate manovre borsistiche e finanziarie. E
sono soltanto ingenue illusioni quelle di chi, a sinistra, pensa che i fondi
pensione possano diventare uno strumento di “socializzazione” della
proprietà azionaria, di creazione di un “capitalismo popolare” alternati-
vo al “capitalismo delle grandi famiglie”26.
La prima fase dell’operazione, quella della creazione ad arte di una dif-
ficoltà di bilancio degli enti previdenziali, è avvenuta accollando al siste-
ma previdenziale pubblico compiti e funzioni (e quindi oneri finanziari)
che non rientrano nei suoi scopi. Per esempio, al principale istituto di
previdenza, l’INPS, oltre all’erogazione delle pensioni di anzianità e di vec-
chiaia ai lavoratori privati, è stata affidata, nel 1989, anche la gestione di
interventi di tipo assistenziale, come le pensioni sociali, la Cassa Integra-
zione Guadagni, la fiscalizzazione degli oneri sociali e gli sgravi fiscali a
favore delle imprese, tutti interventi che esulano dal compito previden-
ziale e che dovrebbero gravare sul bilancio generale dello Stato e non es-
sere finanziati con i contributi dei lavoratori. Sistematicamente il rimbor-
so dello Stato all’INPS per le spese non attinenti la gestione previdenziale
è stato inferiore alle spese reali sostenute e così è avvenuto che circa l’80
per cento del disavanzo dell’ente è da addebitare a questi oneri impropri.
La recente riforma pensionistica del governo Berlusconi accentua questo
problema allorché prevede la riduzione della contribuzione per le impre-
se che assumono a tempo indeterminato, caricandone il costo sul bilan-
cio degli enti previdenziali.
Dopo aver costruito in questo modo l’emergenza delle pensioni pub-
bliche, si costringono i lavoratori ad aderire a qualche forma di previ-
denza privata. È quello che è già successo negli USA, dove la gran parte
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258 DOPO IL LIBERISMO

dei lavoratori ha affidato la propria vecchiaia ai fondi pensione, che inve-


stono i risparmi dei lavoratori sui mercati finanziari promettendo rendite
sicure al momento del ritiro dal lavoro. Purtroppo queste sono promesse
da marinaio, perché gli investimenti sui mercati finanziari sono tutto
fuorché sicuri. Quando le cose vanno bene e la Borsa tira, i guadagni pos-
sono essere anche elevati, soprattutto per gli speculatori, ma quando le
cose cominciano ad andare male sono guai seri, soprattutto per i piccoli
risparmiatori. Gli episodi che potrebbero essere citati sono innumerevo-
li. Ne bastino due. Il crack della multinazionale americana dell’energia, la
Enron, dovuto alle malversazioni dei suoi manager, è costato una cifra
compresa tra i quindici e i venti miliardi di dollari ai fondi pensione pub-
blici e privati statunitensi, che avevano comprato a man bassa le azioni e
le obbligazioni della società poi fallita. In conseguenza di ciò, sono mol-
te centinaia di migliaia i lavoratori americani che, da un giorno all’altro,
si sono visti bruciare tutti i risparmi accumulati in un’intera vita e inve-
stiti nei fondi pensione. Molti non riusciranno mai più ad accumulare di
nuovo quanto hanno perduto e dovranno affidarsi, quando non saranno
più in grado di lavorare, alla carità pubblica27. Il secondo episodio ha un
carattere più nostrano. Alcuni giornali italiani, nei giorni immediatamen-
te successivi allo scoppio del crack Parmalat, hanno pubblicato un breve
trafiletto in cui si dava notizia della vibrante protesta di migliaia di mina-
tori dell’Alaska, che minacciavano di venire in Italia a scopo di plateali
contestazioni, perché avevano perduto la loro pensione, dato che la so-
cietà che gestiva il loro fondo aveva investito gran parte dei loro risparmi
nelle obbligazioni della multinazionale di Collecchio.
Ma anche quando le cose non vanno così male, le sorprese per i lavo-
ratori possono essere davvero sgradevoli. I rendimenti che vengono pub-
blicizzati dalle società di gestione dei fondi in genere si riferiscono, oltre
che a previsioni ottimistiche e infondate sull’andamento dei mercati fi-
nanziari a lungo termine (dato che nessuno può saperlo, nemmeno in via
probabilistica), anche al rendimento lordo, cioè senza conteggiare le spe-
se di gestione. Ebbene, le svariate commissioni di gestione possono arri-
vare, in molti casi, anche a mangiarsi una quota variabile tra il 30 per cen-
to e il 50 per cento del totale del montante accumulato con il versamen-
to dei premi assicurativi28. È proprio vero, la previdenza privata è una
pacchia, ma per chi la gestisce!
L’operazione dei fondi pensione è ormai in pieno svolgimento anche in
Italia. Con l’ultima riforma pensionistica del governo Berlusconi si incen-
tivano i lavoratori a investire il TFR in una qualche forma di previdenza in-
tegrativa, anche con la forma del silenzio-assenso. Ai lavoratori si dice che
se vogliono avere una pensione pressappoco analoga a quella dei loro pa-
dri (cioè da fame) non possono più contare sulla pensione pubblica e de-
vono rinunciare alla liquidazione per avere anche una pensione privata. A
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10. PRIMA DI TUTTO IL LAVORO E IL SALARIO! 259

parte il fatto che nessuno può assicurare i lavoratori che da qui a trent’an-
ni non si verificheranno altri episodi come quello della Enron e della Par-
malat, anzi possiamo star certi che ce ne saranno parecchi, tanto che la
previdenza privata può essere assimilata a una forma di lotteria piuttosto
che di risparmio, c’è un altro piccolo dettaglio. La liquidazione non è un
regalo delle imprese ma è una quota di salario che obbligatoriamente de-
ve essere investita ogni mese dal lavoratore in un apposito fondo azienda-
le e che gli verrà restituita alla fine del rapporto di lavoro, con un coeffi-
ciente minimo di rivalutazione. Il TFR è dunque una voce per nulla margi-
nale del salario del lavoratore, pari a circa il 7 per cento della retribuzione
annua complessiva. La sua istituzione era legata alla garanzia di avere un
minimo di sostentamento in caso di interruzione anticipata e improvvisa
del rapporto di lavoro. Se in altri paesi esso non esiste, è solo perché il si-
stema del welfare ha una maggiore estensione e garantisce un reddito mi-
nimo ai disoccupati. Per i lavoratori a fine carriera la liquidazione è stata
spesso l’unica forma di risparmio che si è potuto accumulare in una vita e
consentiva di affrontare spese straordinarie, come l’acquisto di una casa
per sé o per i figli. Se il lavoratore è ora costretto a rinunciare al TFR in
cambio di una polizza assicurativa che, se sarà fortunato, gli garantirà una
pensione complessiva al massimo uguale a quella percepita dagli attuali
pensionati, la conclusione da trarre è semplice e diretta. Con questa ope-
razione, il salario reale di un lavoratore viene automaticamente decurtato
del 7 per cento a tutto vantaggio della rendita finanziaria. Ecco cosa na-
sconde tutta l’operazione della previdenza integrativa. L’obiettivo dell’a-
brogazione della riforma delle pensioni, varata dal governo Berlusconi, è
dunque uno dei presupposti indispensabili per mettere in campo una po-
litica di redistribuzione del reddito a vantaggio dei salari. L’altra misura in-
dispensabile, che costituisce un impegno morale prima ancora che econo-
mico, è quella di portare subito il livello minimo di tutte le pensioni alme-
no a 516 euro al mese, pur sapendo che questa cifra ormai ha un valore
ben minore del vecchio milione di lire. È veramente incredibile come lo
Stato possa ancora erogare circa quattro milioni di pensioni che sono in-
feriori al livello di povertà che esso stesso, nelle stime ufficiali, stabilisce!

10.7. Per un nuovo sistema pensionistico, pubblico e universale

Se, come abbiamo mostrato, non esiste oggi in Italia nessuna emer-
genza relativa alla possibile esplosione della spesa pensionistica pubblica,
anzi ne esiste una relativa alla necessità di aumentare le pensioni più bas-
se e di garantire una pensione adeguata ai lavoratori precari, tuttavia ri-
mane aperto il problema, descritto all’inizio del paragrafo, della insoste-
nibilità delle forme di finanziamento del sistema previdenziale a riparti-
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260 DOPO IL LIBERISMO

zione. L’obiettivo della riconquista di un diritto a una pensione pubblica


soddisfacente per i lavoratori non può dunque passare per il semplice ri-
torno al sistema precedente. Esso deve, invece, porsi il problema di come
garantire pensioni più elevate di quelle che ci saranno quando la riforma
Dini entrerà a pieno regime, senza scivolare in un sistema a capitalizza-
zione, ma contemporaneamente trovando una alternativa al sistema a ri-
partizione. Occorre allora ripensare dalle fondamenta l’organizzazione
del sistema previdenziale pubblico.
Il problema dell’invecchiamento della popolazione non esiste dal pun-
to di vista economico se il reddito e la produzione continuano a cresce-
re29. Ad esempio, se assumiamo che nel 2050 il PIL reale sarà solo il dop-
pio di quello odierno, perché vogliamo privilegiare di più uno sviluppo
qualitativo piuttosto che quantitativo, e che la popolazione rimarrà più o
meno costante, grazie all’apporto dell’immigrazione, tutti i cittadini ita-
liani del futuro, compresi quelli che non lavorano, potrebbero teorica-
mente godere di un livello di benessere economico doppio rispetto agli
standard attuali. Se volessimo lasciare il livello di vita degli anziani futuri
nella condizione attuale (un’ipotesi per la verità un po’ cinica), date le
proiezioni demografiche sull’invecchiamento della popolazione, sarebbe
addirittura sufficiente che destinassimo a questo scopo una quota di red-
dito totale pari a meno dei due terzi di quella destinata attualmente a que-
sta fascia di popolazione. Il problema è dunque solo quello della distri-
buzione dei benefici della crescita economica. Il problema economico
dell’invecchiamento della popolazione esiste soltanto per chi pensa che i
benefici della crescita debbano andare esclusivamente al capitale, cioè in
profitti e rendite. Sul piano della razionalità sociale esso è invece inesi-
stente. Dobbiamo allora individuare per il futuro un meccanismo di fi-
nanziamento del sistema previdenziale che consenta di distribuire le mag-
giori risorse disponibili, derivanti dal progresso tecnico e scientifico, agli
anziani, in modo da aumentare le loro condizioni di benessere in manie-
ra proporzionale a quella della restante parte della popolazione. Sappia-
mo che questo meccanismo non potrà più essere basato sui contributi so-
ciali a carico del lavoro. Qualora però il finanziamento del sistema previ-
denziale venisse assicurato dalla fiscalità generale, eliminando i contribu-
ti sociali e introducendo apposite forme di imposizione fiscale, il proble-
ma sarebbe risolto.
Alcuni paesi europei si stanno già incamminando lungo questa strada
perché essa consente di trasformare il problema del finanziamento delle
pensioni in una opportunità di sviluppo economico e di sicurezza socia-
le. Ad esempio, in Danimarca il sistema pensionistico pubblico, finanzia-
to attraverso l’imposizione fiscale generale, è obbligatorio e universale, di
tipo non contributivo perché prevede che tutti gli anziani con almeno
quaranta anni di residenza nel paese, indipendentemente dalla loro vita
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10. PRIMA DI TUTTO IL LAVORO E IL SALARIO! 261

lavorativa, al compimento del sessantacinquesimo anno di età percepi-


scano una pensione netta pari a circa la metà della retribuzione media di
un lavoratore dipendente. Per i lavoratori queste prestazioni sono affian-
cate da regimi professionali di carattere contributivo che si sommano al
reddito minimo garantito universalmente agli anziani. Secondo i calcoli
nazionali danesi, questo sistema garantirebbe un rischio di povertà e un
livello di sperequazione del reddito della popolazione anziana tra i più
bassi d’Europa e non porrebbe problemi di sostenibilità finanziaria. Un
regime analogo è in vigore in Olanda, dove il reddito minimo garantito
dallo Stato a tutte le persone con età superiore a sessantacinque anni è pa-
ri a 825 euro al mese, maggiore dell’importo medio netto di una pensio-
ne di vecchiaia italiana. Meccanismi misti (parte reddito minimo e parte
pensione contributiva) sono in vigore in Finlandia e in Svezia30.
In Italia, la contribuzione sociale oggi pesa per un terzo sul lavoratore
e per due terzi sull’impresa ed è pari al 32,7 per cento della retribuzione.
Grazie a questo meccanismo le imprese a più alta intensità di lavoro han-
no un’incidenza del costo previdenziale superiore a quelle a più alta in-
tensità di capitale. Il sistema previdenziale attuale costituisce quindi un
disincentivo all’occupazione e un incentivo alla sostituzione di lavoratori
con macchinari. Fino a qualche tempo fa ciò poteva rappresentare una
spinta indiretta al progresso tecnologico, anche se a scapito dei livelli oc-
cupazionali. Oggi anche questo è sempre meno vero, poiché il progresso
tecnologico tende sempre più a incorporarsi negli esseri umani, nel loro
specifico bagaglio di capacità cognitive e comunicative, e sempre meno
nel capitale fisso. Lo spostamento del carico previdenziale dal lavoro al
valore aggiunto alla produzione renderebbe neutri gli effetti sull’intensità
dei fattori produttivi utilizzati. In altre parole se un’impresa, al posto de-
gli attuali contributi sociali proporzionali alla quantità di lavoro impiega-
ta, versasse un’imposta sul fatturato o, ancor meglio, sul valore aggiunto
prodotto, cioè sull’incremento di reddito generato dalla sua produzione,
potrebbe decidere se puntare sulla qualificazione del lavoro o sulla mag-
giore intensità del capitale fisso in base a soli criteri di efficienza, senza
l’influsso di distorsioni derivanti dai meccanismi contributivi. Oltre a
questi effetti positivi sull’offerta, un sistema pensionistico di questo tipo
eserciterebbe anche uno stimolo supplementare sulla domanda, perché il
lavoratore non dovrebbe più preoccuparsi di risparmiare, in via pruden-
ziale o assicurativa, avendo comunque la certezza di un reddito soddisfa-
cente al termine della vita lavorativa, e potrebbe spendere per consumi
una parte maggiore del proprio salario. Tutto ciò aumenterebbe l’effi-
cienza complessiva del sistema economico e il suo tasso di crescita. D’al-
tra parte, il finanziamento del sistema previdenziale sulla base della fisca-
lità generale gravante sul valore aggiunto alla produzione risolverebbe
d’incanto ogni problema di finanziamento delle pensioni. Basterebbe fis-
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262 DOPO IL LIBERISMO

sare un’aliquota media pari alla quota di reddito nazionale che si vuole
destinare alla popolazione anziana per rendere sostenibile, senza limita-
zione alcuna, il sistema previdenziale pubblico.
Questo nuovo sistema pensionistico muterebbe certamente natura e
scopo rispetto a quello attualmente in vigore. Esso non avrebbe più né una
natura di tipo mutualistico, né una natura di tipo assicurativo. La pensio-
ne cesserebbe di essere la remunerazione di un risparmio accumulato, in
qualunque forma, dal lavoratore attraverso il versamento di contributi e
acquisterebbe lo status di diritto sociale garantito universalmente dallo
Stato. La garanzia del reddito durante gli anni della vecchiaia diventereb-
be un diritto inalienabile analogo a quello della tutela della salute o dell’i-
struzione obbligatoria. Così verrebbero anche pienamente salvaguardati i
legami di solidarietà intergenerazionale, che rafforzano il grado di coesio-
ne sociale di un paese, perché il compito di assicurare un livello decente
di vita agli anziani diventerebbe un impegno inderogabile dell’intera col-
lettività. In questo modo, inoltre, sarebbero risolti anche tutti i problemi
derivanti dalla precarizzazione e dalla flessibilità del lavoro, perché la pen-
sione non dipenderebbe più né dagli anni, né dalla quantità di contribu-
zione, ma sarebbe garantita a tutti coloro che, indipendentemente dal per-
corso lavorativo, raggiungessero l’età del pensionamento. Quest’ultima,
inoltre, potrebbe essere fissata a età diverse a seconda del tipo di lavoro
svolto, cosicché un lavoratore che abbia esercitato una professione fatico-
sa e usurante potrebbe maturare il diritto alla pensione prima di un lavo-
ratore che invece svolga un lavoro più appagante. L’unico problema che
sorgerebbe da questo nuovo sistema sarebbe quello dell’importo della
pensione da assegnare a ciascuna categoria di lavoratori. In questo caso, la
scelta dipenderebbe dalle preferenze della società rispetto a una distribu-
zione più o meno egualitaria del reddito. Se non si volesse incidere sulla
distribuzione del reddito che emerge dalla sfera della produzione, baste-
rebbe fissare la pensione di ogni singolo lavoratore sulla base di una per-
centuale del salario percepito identica per tutti. Viceversa, se si volesse
correggere la distribuzione per renderla più equa, occorrerebbe fissare un
coefficiente maggiore per le pensioni percepite dai lavoratori a basso sala-
rio. Sarebbe, in ogni caso, indispensabile fissare un importo minimo della
pensione, al di sotto del quale non si può andare, tale da garantire all’an-
ziano un livello di consumi adeguato rispetto allo standard di vita medio
della popolazione e sulla base di questo riferimento procedere alla defini-
zione della scala pensionistica per tutte le categorie di lavoratori.
Infine, un sistema pensionistico di questo tipo si integrerebbe in ma-
niera coerente con l’istituzione di un salario di cittadinanza, esposto in
precedenza, perché andrebbe a configurare un quadro unitario di prote-
zione sociale teso a garantire un diritto universale al reddito e alla sussi-
stenza economica per tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro capa-
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10. PRIMA DI TUTTO IL LAVORO E IL SALARIO! 263

cità/possibilità di svolgere una prestazione lavorativa. Sarebbe questa una


fondamentale conquista di civiltà perché sancirebbe che il diritto a una vi-
ta degna e confortevole, nelle ricche ma ancora fortemente diseguali so-
cietà contemporanee, è garantito a ogni cittadino per il solo fatto di esse-
re nato e non dipende da circostanze sempre più fortuite e occasionali, co-
me la possibilità di avere un lavoro stabile e ben remunerato per tutta la
vita. La liberazione dall’incertezza derivante dal rischio della disoccupa-
zione o della vecchiaia migliorerebbe la condizione individuale di vita di
tutti i cittadini e muterebbe lo stesso rapporto con il lavoro, che comin-
cerebbe a fuoriuscire dal ristretto campo della pura necessità economica
per iniziare a configurare un possibile regno della libertà. Oltre a lavora-
re meglio, con più serenità e avendo una maggiore chance di perseguire
le proprie aspirazioni e i propri interessi, si produrrebbe senz’altro di più.
In questo capitolo abbiamo visto come una strategia di politica eco-
nomica che abbia come priorità la distribuzione del reddito implichi un
insieme articolato e complesso di misure che attengono al regime con-
trattuale salariale, all’introduzione di nuovi diritti come il salario di citta-
dinanza, a un potenziamento del sistema del welfare e a un nuovo siste-
ma pensionistico. Negli anni dell’egemonia del pensiero unico neoliberi-
sta troppo spesso si è dimenticato che esiste un nesso inscindibile all’in-
terno di un sistema economico tra domanda e offerta, tra consumo e pro-
duzione. Si è sostenuto, anche all’interno della professione economica,
che le politiche miranti al controllo della domanda non avessero influen-
za duratura sulla configurazione produttiva, sulle sue potenzialità di svi-
luppo, sulla struttura della produzione e che al massimo potevano funge-
re da palliativi temporanei e di corto respiro, quando non erano dannose
e controproducenti. Il paradosso è che queste tesi si sono diffuse proprio
mentre veniva contemporaneamente teorizzato che, a differenza del pas-
sato, nella nuova fase del capitalismo erano i mercati a determinare le ca-
ratteristiche della produzione, la quale doveva rendersi sempre più snel-
la e flessibile per adattarsi alla volubilità e alle preferenze individuali dei
singoli consumatori. L’esperienza degli anni di Maastricht dovrebbe aver
chiarito una volta di più che, anche a livello macroeconomico, come a li-
vello di singola impresa, domanda e offerta si influenzano reciprocamen-
te e concorrono insieme a definire il modello produttivo e le traiettorie
del suo sviluppo. Per uscire dalla crisi attuale, dunque, occorre una poli-
tica economica coerente e unitaria, guidata da una strategia complessiva,
che riesca a utilizzare in modo organico la leva della domanda e quella
dell’offerta. Politiche di redistribuzione del reddito e di potenziamento
del sistema delle garanzie sociali devono andare di pari passo con una ri-
presa dell’intervento pubblico, diretto e indiretto, nella produzione e nel-
la fornitura dei beni comuni e con un rilancio degli investimenti pubbli-
ci. A questo insieme di questioni è dedicato il prossimo capitolo.
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:41 Pagina 264

11. Per un nuovo intervento


pubblico nell’economia

11.1. Per battere le politiche di destra e non solo il governo delle destre

Il processo di industrializzazione italiana è avvenuto con un ritardo


storico secolare rispetto a quello degli altri principali paesi europei, come
la Gran Bretagna, la Francia e la Germania. Soltanto a partire dagli anni
Sessanta del XX secolo si può considerare pienamente avvenuto in Italia
il passaggio da un’economia prevalentemente agricola a un’economia in-
dustriale. Nei primi trent’anni del secondo dopoguerra il recupero dell’I-
talia ha marciato rapidamente, a tappe forzate, tanto da provocare pe-
santi distorsioni strutturali, sociali e territoriali, prima fra tutte quella del-
l’aggravamento del dualismo di sviluppo tra Nord e Sud. Nel compiere
questa rincorsa era in qualche modo inevitabile che l’economia italiana
sfruttasse i suoi principali punti di forza, quali quelli di una ampia dispo-
nibilità di manodopera inutilizzata e di un patrimonio di capacità artigia-
nali e organizzative, residuo del retaggio storico di un passato di splen-
dore culturale ed economico senza pari in Occidente. La specializzazio-
ne produttiva nei settori dei beni di consumo tradizionali rispondeva al-
lora a un criterio di razionalità, anche se, senza l’integrazione di una po-
litica industriale pubblica finalizzata all’impianto dei settori industriali
strategici ad elevate economie di scala (siderurgia, chimica, energia, mec-
canica), la rincorsa italiana non sarebbe mai stata coronata da successo.
Tuttavia, rispetto a questa notevole performance economica, altre de-
cisive componenti delle dinamiche di sviluppo del paese avevano segna-
to il passo, a volte drammaticamente. In primo luogo, la struttura sociale
era ancora, in larga misura, premoderna, con un peso, spropositato per
un’economia industriale, dei ceti parassitari e speculativi, che vivevano
delle rendite e dei privilegi. In qualche modo, la stessa borghesia indu-
striale era intrisa, fin nelle sue radici profonde, di questi vecchi vizi, co-
me dimostra l’assoluta preponderanza del capitalismo familiare nella
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11. PER UN NUOVO INTERVENTO PUBBLICO NELL’ECONOMIA 265

grande e piccola industria. In secondo luogo, la pubblica amministrazio-


ne era ancora permeata da uno spirito feudale, che portava a considerare
lo Stato come un bene privato da utilizzare per garantire gli interessi par-
ticolaristici e corporativi di chi lo occupava o di chi deteneva il potere
economico. Il blocco sociale su cui si è retta per quasi cinquant’anni l’I-
talia democristiana era formato da un variegato miscuglio di gruppi, di
categorie, di ceti, tenuti insieme dal cemento di un’appropriazione priva-
ta e squilibrata dei vantaggi e dei benefici del processo di crescita econo-
mica e dall’occupazione corporativa e clientelare dello Stato. La stessa in-
dustria pubblica ha potuto pienamente svolgere i suoi essenziali compiti
di modernizzazione produttiva soltanto finché è stata diretta e gestita da
manager che si erano formati nella lotta antifascista e nella Resistenza, ac-
quisendo un’autonomia culturale e personale che li metteva, sia pure par-
zialmente, al riparo dalle pressioni e dai vincoli del blocco sociale con-
servativo dominante. Naturalmente questa autonomia era sempre relati-
va e doveva continuamente adattarsi, a volte cercando di utilizzarle, alle
esigenze politiche dei gruppi di potere. Esemplari, in tal senso, sono sta-
te le figure, tra loro molto diverse, di Raffaele Mattioli, intellettuale di
grande spessore, per decenni a capo della principale banca italiana, la
Banca Commerciale, di Enrico Mattei, uomo d’azione e partigiano catto-
lico, fondatore dell’ENI, e di Pasquale Saraceno, principale ispiratore del-
le politiche di sviluppo e di industrializzazione del Mezzogiorno.
Completato il processo di rincorsa economica negli anni Settanta, il
blocco sociale dominante doveva essere disgregato e sostituito da un altro,
che potesse dirigere il paese verso una seconda fase dello sviluppo finaliz-
zata al riequilibrio e al superamento delle distorsioni e delle contraddizio-
ni della prima, affannosa fase di crescita. Questo tentativo, che stava die-
tro il grande ciclo di lotte sociali iniziato alla fine degli anni Sessanta, fal-
lì, anche a seguito degli errori strategici della sinistra e del movimento ope-
raio di allora, e negli anni Ottanta iniziò una fase di restaurazione sociale
e culturale. Nel frattempo l’ondata neoliberista aveva preso piede a livello
mondiale e il sistema capitalistico cominciava a evolvere verso il modello
della globalizzazione, segnato dal predominio della finanza. Curiosamen-
te, quelli che nella fase precedente potevano apparire come segnali di ar-
retratezza del capitalismo italiano divennero improvvisamente fattori di
“modernità”. In qualche modo la precedente anomalia culturale e sociale
della borghesia italiana, segnata da una predisposizione alla rendita e al
privilegio, divenne un punto di forza nella nuova fase. Si può perfino arri-
vare ad affermare, per rendere l’idea di quanto è avvenuto, che la “via ita-
liana al capitalismo” svolse un ruolo pionieristico nell’evoluzione del capi-
talismo internazionale. Tuttavia, le diverse condizioni di partenza segna-
rono gli esiti della nuova competizione globale e l’Italia tutta, compresa la
sua borghesia, è oggi a rischio di emarginazione e di decadenza storica.
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266 DOPO IL LIBERISMO

Per contrastare questo esito, negli anni Sessanta e Settanta la parte più
illuminata dell’intellettualità borghese avanzò l’idea di un “patto dei pro-
duttori”, di un nuovo compromesso sociale che mettesse insieme la clas-
se lavoratrice con i settori più dinamici e innovativi dell’imprenditoria
pubblica e privata italiana in nome della lotta alla rendita e della moder-
nizzazione del paese. Questa proposta spesso trovò eco e riscontro anche
in parti non marginali del movimento operaio, tanto che essa ha influito
sugli orientamenti di fondo che hanno portato alla sua sconfitta nei de-
cenni successivi e anche alla sua perdita di autonomia culturale, che a vol-
te non è mancata di trasformarsi in vera e propria subalternità. Se questo
progetto non funzionò allora, quando potevano esservi elementi oggetti-
vi su cui basarlo, riproporlo oggi è assolutamente privo di ogni senso e di
ogni efficacia.
Infatti, l’attuale situazione italiana presenta aspetti paradossali perché
può essere descritta, in termini esattamente opposti a quelli di allora, co-
me una sintesi di “modernità” sociale e di arretratezza economica. Il
mondo del lavoro è da noi frammentato e precarizzato come e forse più
di quanto avviene negli altri paesi industriali e lo stesso può dirsi per il
grado elevato di concentrazione del potere economico; il profitto e la ren-
dita si sono fusi in un unico intreccio di interessi e di soggetti. La strut-
tura sociale italiana risponde, dunque, pienamente ai dettami del model-
lo della globalizzazione neoliberista. Le stesse nuove forme della protesta,
della contestazione e del conflitto dei soggetti penalizzati ed esclusi da
questo modello sono in Italia identiche a quelle del resto dell’Occidente
e, anzi, per certi aspetti nel nostro paese assumono dimensioni e caratte-
ristiche di avanguardia, come mostra l’estensione e l’effervescenza dei
nuovi movimenti sociali italiani, da quello pacifista a quello altromondia-
lista, alle lotte locali e ambientaliste. Dove invece arranchiamo è nella
struttura economica e nelle potenzialità di crescita e di sviluppo. Il “pat-
to dei produttori” è quindi una proposta del tutto fuori dalla realtà e
quando viene agitata, nelle forme della “concertazione”, è solo per inten-
ti di conservazione1.
Ma che cosa indica l’esistenza di una situazione caratterizzata da mo-
dernità sociale e arretratezza economica? Indica che la traiettoria di svi-
luppo del capitalismo contemporaneo, quella fondata sul neoliberismo,
ha prodotto in Italia guai molto più seri che altrove. Oltre all’aumento
drammatico del grado di sofferenza sociale e individuale per la gran par-
te della popolazione, essa ha seccato le fonti stesse dello sviluppo econo-
mico, facendo ripiombare il paese in una condizione di arretratezza pro-
duttiva rispetto al resto delle maggiori economie industriali e annullando
mezzo secolo di rincorsa. Allora, in Italia più che altrove, è necessario in-
vertire la rotta e abbandonare, senza reticenze, il modello neoliberista al-
la ricerca di un nuovo modello alternativo che sappia coniugare in modo
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11. PER UN NUOVO INTERVENTO PUBBLICO NELL’ECONOMIA 267

equilibrato l’affermazione di una superiore giustizia sociale con le esigen-


ze di modernizzazione economica. Per fare questo, oggi è necessaria non
una falsa concordia nazionale, ma una intensificazione delle lotte e dei
conflitti per ottenere un radicale mutamento nella politica del paese.
D’altra parte è questa la sola via per battere definitivamente il proget-
to politico che si è espresso nel governo Berlusconi. Quel progetto poli-
tico è oggi in profonda crisi, come hanno dimostrato i risultati delle ele-
zioni europee del giugno 2004 e le successive contorsioni della maggio-
ranza di governo, sfociate nelle dimissioni forzose del ministro Tremonti.
Il tratto caratterizzante del successo politico di Berlusconi è stato, infatti,
un eclettico miscuglio di populismo e di neoliberismo. Il modello, più
volte evocato, è quello della rivoluzione reaganiana degli anni Ottanta,
quando l’adesione ai sentimenti più rozzi e istintivi dell’individualismo
americano fu utilizzata come principale sostegno alla liquidazione degli
ultimi residui del New Deal rooseveltiano e all’affermazione mondiale
delle politiche neoliberiste. Lo snodo fondamentale di questo progetto
politico era, allora come oggi, quello della politica economica: dare spa-
zio agli “spiriti animali” del capitalismo, attraverso la sistematica distru-
zione di ogni attiva funzione pubblica nell’economia e nella società, sen-
za contemporaneamente subire le conseguenze recessive da essa derivan-
ti. Allora Reagan riuscì in questa operazione sfruttando, sino alle estreme
conseguenze, il ruolo dominante del dollaro come moneta di riserva in-
ternazionale. La gigantesca riduzione delle tasse per i più ricchi e la pri-
vatizzazione integrale dei servizi sociali non produssero conseguenze re-
cessive sull’economia americana perché contemporaneamente la spesa
pubblica venne sostenuta da un enorme aumento delle spese militari. Il
finanziamento venne garantito dall’afflusso di capitali esteri, provocato
dalla politica monetaria restrittiva inaugurata dalla Federal Reserve nel
1979. In sostanza, fu il resto del mondo a pagare, insieme al proletariato
americano, i costi del neoliberismo reaganiano e lo straordinario aumen-
to dei profitti e delle rendite.
Vent’anni dopo, il neoliberismo, con Bush e Berlusconi, tenta di ri-
spondere alla sua crisi ritornando alle origini. Ma l’Italia non è l’America
e i nostri vincoli economici sono oggi ancora più stringenti di ieri, dopo
l’istituzione della moneta unica europea e il Patto di Stabilità. All’inizio il
berlusconismo si è retto su una pura scommessa in merito alla indefinita
prosecuzione del ciclo espansivo mondiale apertosi nella seconda metà
degli anni Novanta. Se l’economia avesse continuato a tirare per conto
suo, potevano aprirsi margini di manovra tali da tenere insieme l’etero-
geneo blocco sociale populista e neoliberista che aveva determinato il suo
successo elettorale. Le cose, come si sa, sono andate diversamente e le
contraddizioni accumulate in vent’anni di neoliberismo sono esplose in
una dura crisi economica mondiale, ancora non superata. In realtà, gli in-
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268 DOPO IL LIBERISMO

dizi di una svolta recessiva mondiale erano presenti fin da prima della vit-
toria elettorale del 2001, ma vennero ignorati, cosicché, più che di scom-
messa, è meglio parlare di fede cieca in un miracolo. Cosa, questa, che
getta una luce inquietante non solo su Berlusconi e i suoi, ma anche sul-
la totale irresponsabilità di quella parte consistente delle classi dirigenti
italiane, a partire dal mondo imprenditoriale, che gli fornirono appoggio
e sostegno.
Fin dall’inizio, quindi, la politica economica del governo è stata se-
gnata da una doppia emergenza, per sua natura contraddittoria, quella
della crisi globale del neoliberismo e quella del mantenimento delle pro-
messe populiste. Tremonti, che concentrava su di sé tutti i poteri di poli-
tica economica, è stato il grande giocoliere che ha tentato, a volte con fan-
tasia, altre volte con dilettantismo, di conciliare l’inconciliabile. Questo
carattere contraddittorio diventava manifesto quando Tremonti insisteva
con ostinazione a propugnare le privatizzazioni e le riduzioni fiscali ai ric-
chi e, simultaneamente, auspicava misure protezionistiche contro la con-
correnza estera. Gli scogli su cui si è infranto l’equilibrismo di Tremonti
sono stati due: l’attacco alla Banca d’Italia e l’Europa. Infatti, per conti-
nuare il gioco di prestigio, occorreva avere una politica monetaria e cre-
ditizia più accondiscendente e una maggiore flessibilità delle regole di bi-
lancio europee. Vale a dire che bisognava modificare strutturalmente gli
assetti del potere reale neoliberista a livello nazionale ed europeo. La de-
bolezza del disegno strategico di Tremonti è infatti strutturale e origina-
ria. Essa risiede nell’idea di poter superare da destra la crisi economica,
riportando alla politica e allo Stato il ruolo di direzione reale del model-
lo neoliberista, oggi in mano ai mercati e alle tecnocrazie, per un suo più
compiuto funzionamento. L’illusione di Tremonti è stata, quindi, quella
di poter interpretare gli interessi neoliberisti meglio del neoliberismo
stesso. È lo stesso tentativo che fece Colbert, non a caso ammirato dall’ex
ministro, nella Francia dell’assolutismo per salvare la monarchia. Allora
l’esperimento riuscì e l’ancien régime durò ancora più di un secolo. Ma,
si sa, quando la storia si ripete, la tragedia si trasforma in farsa. Berlusco-
ni e la sua corte non sono Re Sole, abitano ad Arcore e non a Versailles.
Perse le elezioni, non ci hanno pensato un attimo a scaricarlo.
Dopo Tremonti, è da aspettarsi un tentativo di restaurazione neocen-
trista nella politica economica, con il ritorno alle pratiche dell’epoca del
neoliberismo trionfante, prima tra tutti quella della concertazione a tutto
campo per smorzare il risorgente conflitto sociale. Però non funzionerà,
perché per superare la grave crisi economica occorre cambiare il model-
lo che l’ha generata. Se è vero, come è vero, che gli assetti reali del pote-
re neoliberista oggi sono i principali ostacoli alla ripresa, essi devono es-
sere sconfitti non, come voleva Tremonti, con manovre interne di palaz-
zo o con giochi di prestigio, ma con una grande mobilitazione sociale che
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11. PER UN NUOVO INTERVENTO PUBBLICO NELL’ECONOMIA 269

costruisca contemporaneamente l’alternativa a questo governo e al neoli-


berismo, comunque mascherato. La crisi del berlusconismo deve dunque
portare alla fuoriuscita dal modello neoliberista e per questo non è affat-
to sufficiente, anzi è mortale, perseguire l’ipotesi di un semplice ribalto-
ne, dove cambiano i suonatori ma la musica resta sempre la stessa. E al-
lora l’abbandono del neoliberismo passa innanzitutto attraverso il rilan-
cio di un nuovo e massiccio intervento pubblico nell’economia.

11.2. Per una nuova politica industriale

Come abbiamo visto nel capitolo precedente, la redistribuzione del


reddito per ridurre le disuguaglianze e per rilanciare la domanda interna
è una delle priorità fondamentali della politica economica ma, da sola,
non sarebbe sufficiente per far uscire l’Italia dalle secche di una grave cri-
si economica come quella che l’attanaglia attualmente. Occorre mettere
in campo una griglia articolata di interventi per trasformare l’offerta pro-
duttiva in modo da modernizzare e qualificare il nostro sistema indu-
striale. L’obiettivo strategico deve essere quello di aumentare il grado di
intensità tecnologica e di conoscenza della nostra produzione, per tra-
ghettare l’Italia da una posizione arretrata e periferica rispetto agli stan-
dard degli altri maggiori paesi industriali a una posizione di avanguardia.
Per prima cosa, quindi, occorre una nuova politica industriale.
Con i recenti crack di due colossi dell’industria agroalimentare come
Cirio e Parmalat, l’Italia rischia di perdere un altro pezzo del suo già mal-
concio patrimonio industriale. Nell’ultimo decennio se ne sono già anda-
ti l’elettronica, la chimica, la farmaceutica, buona parte dell’aerospaziale.
L’industria automobilistica non se la passa tanto meglio. Né la crisi della
grande industria è compensata dalla vivacità delle piccole e medie impre-
se. Anzi, queste non attraversano di certo un buon periodo, schiacciate
dalla rivalutazione dell’euro e dalla concorrenza asiatica. D’altra parte,
non potrebbe essere altrimenti. I distretti industriali sono, per lo più, cre-
sciuti come propaggini esterne della grande impresa committente, come
sacche di flessibilità all’interno di processi produttivi fortemente integra-
ti. Senza un sistema industriale forte e organizzato, in grado di produrre
ricerca e innovazione, la piccola impresa non può vivere. Il declino indu-
striale non è più, quindi, una minaccia ipotetica, ma una dura realtà. Di
fronte a ogni crisi industriale che periodicamente colpisce questo o quel
pezzo del nostro sistema produttivo, capita di sentire, soprattutto a sini-
stra, dolorosi lamenti sull’assenza di una politica industriale, quasi che le
colpe stessero nell’indolenza dei governi di oggi e di ieri. In realtà questa
tesi è fuorviante. Nel corso dell’ultimo decennio l’Italia non solo ha avu-
to una politica industriale, ma questa è stata anche praticata con assoluta
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270 DOPO IL LIBERISMO

e intransigente coerenza. Infatti, come ogni altra azione di politica econo-


mica, la politica industriale non è uno strumento tecnico, socialmente
neutro, ma è sempre parte di una strategia complessiva mirante a dise-
gnare un modello sociale. I suoi scopi non sono fatti di cose, ma di per-
sone, o meglio di relazioni tra le classi. In questo senso, la politica indu-
striale italiana è stata complementare a una politica macroeconomica neo-
liberista che, dietro il paravento di Maastricht, ha travolto le ultime resi-
stenze operaie e realizzato una poderosa redistribuzione del reddito dai
salari ai profitti. Se andiamo a rileggere i documenti, ufficiali e non, degli
ultimi dieci anni, ci accorgiamo che hanno sempre, con noioso ripetersi,
posto come obiettivo di politica industriale il recupero dei margini di pro-
fittabilità delle imprese private. Infatti, con l’euro veniva meno la possibi-
lità della svalutazione, utilizzata per l’ultima volta nel 1992, per ripristina-
re i margini operativi delle imprese2. Ecco allora nascere un nuovo qua-
dro coerente di politica industriale: privatizzazione dei pezzi pregiati del
settore industriale pubblico, gestione privatistica dei servizi di rete, libe-
ralizzazione dei mercati finanziari, precarizzazione del mercato del lavo-
ro, compressione della dinamica salariale attraverso la concertazione. Il
tutto condito con un’impressionante mole di denaro pubblico per sussi-
diare le grandi imprese. E alla fine, come abbiamo visto, i risultati sono ar-
rivati. A partire dalla metà degli anni Novanta i margini di profitto hanno
raggiunto livelli record, mai osservati prima. Un successo straordinario,
pagato a caro prezzo dai lavoratori. Ma qui sono cominciati i problemi,
perché questi enormi profitti non sono serviti allo sviluppo produttivo,
bensì alla speculazione finanziaria. D’altra parte, il venir meno dello Sta-
to imprenditore ha privato l’industria italiana del suo principale soggetto
propulsivo. Tranne rare eccezioni, il capitalismo delle grandi famiglie non
ha mai generato intraprese innovative e si è sempre contraddistinto per la
sua indole parassitaria e speculativa, derivante non da una storica arretra-
tezza ma da una intuitiva preveggenza, perché esso ha colto al volo l’inti-
ma essenza del capitalismo moderno. Era allora l’industria pubblica a reg-
gere il moccolo della modernizzazione produttiva del paese, che spesso ri-
chiede bilanci in rosso nel medio periodo. Certo, nell’Italia forchettona
questa funzione aveva un prezzo, fatto di tangenti e clientelismo, ma era
un prezzo che il capitale privato pagava volentieri. Oggi che questa divi-
sione di compiti tra Stato imprenditore e capitale speculatore non c’è più,
è rimasta solo la speculazione ed è sparita l’imprenditorialità. Perché l’i-
dea che un grande paese industriale possa reggersi sulle spalle di un eser-
cito di mezzadri, messisi in proprio a produrre scarpe, camicie o mobili,
si è rivelata folle e sconsiderata. Il piccolo non è bello, è piccolo e basta.
E la sua aspirazione, quasi sempre frustrata, è quella di diventare grande.
Ora che i ruggenti anni del boom finanziario sono finiti, ci ritroviamo tut-
ti a piangere sul latte versato. È il fallimento di un’intera classe dirigente,
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11. PER UN NUOVO INTERVENTO PUBBLICO NELL’ECONOMIA 271

politica ed economica. Per risollevare il paese ed evitare il suo mesto de-


clino, c’è una sola speranza. Quella che siano le comunità in lotta per sal-
vare dallo smantellamento i pezzi pregiati del patrimonio industriale del
paese, come è accaduto con le acciaierie di Terni, a definire le priorità del-
la politica economica e industriale.
Un primo obiettivo di carattere quantitativo, sul quale tutti a parole af-
fermano di concordare, è quello dell’aumento delle spese in ricerca e svi-
luppo (R&S), che serve a produrre e diffondere conoscenza scientifica e
innovazione tecnologica. I dati sono tristemente noti. Nell’UE l’Italia oc-
cupa il quart’ultimo posto con una spesa per attività di R&S, pari all’1,1
per cento del PIL, circa la metà della media europea (2 per cento). Tutta-
via, nell’ultimo quadriennio (1997-2001) i paesi che seguono nella classi-
fica hanno fatto registrare rapidi tassi annui di incremento in questo tipo
di spesa (Grecia +15,3 per cento, Portogallo +4,4 per cento, Spagna +4
per cento), mentre in Italia essa è rimasta stagnante (+0,5 per cento). Se
tale tendenza non venisse rapidamente invertita, nel giro di pochissimi
anni arretreremmo all’ultimo posto. Anche dopo l’allargamento, l’Italia
rimane ampiamente sotto la media della nuova UE-25 (1,3 per cento) ed
è superata dalla Slovenia e dalla Repubblica Ceca. Se consideriamo i da-
ti relativi alla creazione di conoscenza (brevetti) e alla sua trasmissione e
applicazione i dati italiani risultano ancora peggiori. Di fronte a questo
sconfortante panorama non è difficile capire le ragioni della “fuga dei
cervelli”, un vero e proprio esodo di migliaia di promettenti ricercatori
che sta depauperando il patrimonio di conoscenze del nostro paese.
La responsabilità maggiore di questo record negativo spetta al sistema
delle imprese. Infatti, se la spesa pubblica in R&S è pari a circa l’80 per
cento della media europea, quella privata è sotto il 40 per cento e, inoltre,
più di un quarto di quest’ultima è comunque finanziata in varie forme dal
pubblico o dal settore non profit. La spesa in attività di R&S delle impre-
se private italiane è appena dello 0,56 per cento del PIL, contro l’1,6 per
cento nella media OECD, l’1,3 per cento dell’UE, l’1,8 per cento della Ger-
mania e addirittura il 2 per cento degli USA e il 2,3 per cento del Giappo-
ne3. Questo dato è una ulteriore dimostrazione che non basta il semplice
aumento, pur indispensabile, della spesa pubblica per le università e per
i centri di ricerca. Anche raddoppiando la spesa pubblica in R&S, portan-
dola dallo 0,54 per cento all’1 per cento del PIL, come dovrebbe essere fat-
to al massimo entro un biennio, ciò non sarebbe affatto sufficiente a col-
mare il ritardo. D’altra parte, misure indirette, sul tipo di incentivi e age-
volazioni fiscali, per stimolare l’attività innovativa delle imprese sarebbe-
ro ugualmente poco efficaci ed equivarrebbero a somministrare un’aspi-
rina a chi è affetto da broncopolmonite.
Quello che bisogna fare per modernizzare l’apparato produttivo del
paese è allora la rinascita di una nuova impresa pubblica come motore
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272 DOPO IL LIBERISMO

dello sviluppo. Naturalmente, la prima, urgente misura è quella di bloc-


care immediatamente tutti i processi di privatizzazione avviati o pro-
grammati e ancora non conclusi (ENEL ed ENI in primo luogo). Ma ac-
canto a questa elementare misura, occorre procedere a forme di ripubli-
cizzazione di settori industriali strategici ancora esistenti e all’investimen-
to pubblico in nuovi settori innovativi, scomparsi o mai presenti nella
struttura industriale italiana. Il metodo attraverso cui ricostruire un nuo-
vo settore industriale pubblico deve però essere radicalmente diverso da
quello del passato, quando lo Stato correva in soccorso del capitale pri-
vato in difficoltà per acquisire le imprese private in procinto di fallimen-
to, anche in settori privi di qualunque rilevanza strategica, e, dopo esser-
si accollato i costi del risanamento, le restituiva ai privati belle e pronte
per mietere profitti.

11.3. Un esempio concreto. Per la nazionalizzazione della Fiat

È meglio, in questa sede, evitare di addentrarsi in un elenco astratto di


possibili settori industriali da pubblicizzare perché un progetto di questa
natura non può essere costruito a tavolino, ma deve coinvolgere i sogget-
ti reali (lavoratori, imprese private, pubblici poteri locali, tecnici e specia-
listi, associazioni e movimenti) in un grande sforzo di ricognizione dei bi-
sogni produttivi e di definizione delle linee di sviluppo. Sia concessa una
sola eccezione, che per urgenza e rilevanza si impone immediatamente su
tutte le altre possibili scelte. La proposta che oggi appare sicuramente più
carica di potenzialità è quella della nazionalizzazione della Fiat.
Negli ultimi anni, la più grande impresa industriale privata italiana, la
Fiat, che rappresenta l’intero settore automobilistico del paese, è entrata
in una crisi profonda, di carattere non solo finanziario ma anche produt-
tivo, che l’ha condotta sull’orlo del fallimento e della dismissione. Non è
questa la sede per entrare in un esame approfondito delle cause che han-
no portato a questa situazione4, anche se tra esse va segnalato il carattere
autoritario e aggressivo che ha sempre contrassegnato la proprietà e la di-
rigenza nei confronti delle richieste di diritti e di partecipazione operaia.
Non è un caso, infatti, che la crisi della Fiat abbia cominciato a maturare
proprio quando il movimento operaio e sindacale interno, protagonista
da sempre di grandi lotte che ne hanno fatto per decenni il punto di rife-
rimento dell’intero movimento operaio italiano, è stato drammaticamen-
te sconfitto nel 1980 e successivamente colpito da una sistematica opera
di espulsione e di emarginazione dalla fabbrica dei suoi quadri più attivi.
Venuto meno il pungolo e lo stimolo del conflitto sociale interno, l’im-
presa si è adagiata nell’acquisita restaurazione della disciplina operaia e
dei bassi costi del lavoro, tralasciando i continui investimenti richiesti da
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11. PER UN NUOVO INTERVENTO PUBBLICO NELL’ECONOMIA 273

un settore in perpetua mutazione tecnologica e puntando a una diversifi-


cazione finanziaria delle attività.
La situazione attuale della Fiat è ormai a un punto critico e, nonostan-
te le affermazioni ottimistiche dei suoi manager, sembra essere prossima
al capolinea. I bilanci operativi continuano a macinare perdite che erodo-
no il capitale netto e il livello di indebitamento ha raggiunto indici peri-
colosi, prossimi a un irreversibile avvitamento se soltanto dovessero au-
mentare i tassi di interesse. Se la Fiat è ancora viva, lo deve alle banche,
che finora hanno ripianato i buchi di bilancio e che di fatto hanno assun-
to il controllo proprietario dell’azienda, e potranno essere proprio le ban-
che, a meno di clamorosi colpi di scena dell’ultimo minuto, che fra qual-
che mese diventeranno azioniste di controllo della multinazionale torine-
se, convertendo i crediti non rimborsabili in proprietà azionaria. La dina-
stia familiare per eccellenza del capitalismo privato italiano, gli Agnelli, si
è già separata, di fatto se non ancora di diritto, dalla sua creatura, in triste
coincidenza con la scomparsa dei suoi due più autorevoli esponenti del
dopoguerra, Gianni e Umberto.
Che cosa accadrà alla Fiat nel prossimo futuro? Questa non è una do-
manda che interessa soltanto i lavoratori, i fornitori o i creditori dell’a-
zienda, ma coinvolge tutto il paese, e in primo luogo le sue istituzioni. La
perdita del settore automobilistico, dopo quella di tanti altri settori indu-
striali strategici, darebbe una mazzata terribile al già malmesso sistema in-
dustriale italiano. Potrebbe, infatti, accadere che la Fiat venga venduta a
qualche grande concorrente straniero, prevalentemente interessato all’ac-
quisizione di un marchio che ancora riscuote un discreto successo sul
mercato italiano, e ridotta a una succursale periferica di un gruppo mul-
tinazionale tedesco, francese, americano, giapponese o, perché no, cinese,
come sta accadendo alla prestigiosa Rover britannica. In tal modo i rifles-
si negativi per l’economia italiana sarebbero gravi e pesanti, non soltanto
in termini occupazionali, inevitabilmente a rischio estremo in questa pro-
spettiva, ma anche per l’autonomia tecnologica dell’intero paese. I centri
direzionali, logistici, operativi, così come le attività di R&S, sarebbero
smantellati dal territorio italiano e accorpati a quelli centrali. L’Italia per-
derebbe la capacità di determinare, o anche solo di influire, sulle possibi-
li traiettorie di sviluppo di un settore, quello dei trasporti, assolutamente
vitale per l’economia, il territorio, l’ambiente di un grande paese. Ciò è
ancora più vero per l’Italia, dove il sistema dei trasporti, proprio per fa-
vorire la Fiat, è stato progettato e realizzato a uso e consumo dell’indu-
stria automobilistica, con una assoluta prevalenza del trasporto su gomma
rispetto a quello su mare o su rotaia. Che atroce beffa sarebbe! Per de-
cenni abbiamo cementificato il nostro territorio per avere un’industria e
oggi ci ritroviamo con un sistema dei trasporti arretrato e distorto e un
ambiente violentato, senza più avere l’industria. Per non parlare delle
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274 DOPO IL LIBERISMO

enormi risorse finanziarie che lo Stato, in un modo o nell’altro, fino ad ar-


rivare alla rottamazione, ha dato, senza contropartita, all’azienda torinese.
Dobbiamo, come collettività nazionale, assistere impotenti a questo spet-
tacolo, che ci impoverisce tutti? Non è possibile. Anche stavolta, nostro
malgrado, le vicende della Fiat sono lo specchio delle vicende dell’Italia.
È questa una maledizione che pare ci accompagni fin nelle ultime fasi di
vita di quella che fu la regina del capitalismo privato italiano.
Di fronte a questa situazione, allora, l’ipotesi di una nazionalizzazione
della Fiat, cioè dell’acquisizione di una partecipazione pubblica di con-
trollo nell’azionariato della società, è l’unica strada praticabile per evita-
re il disastro. Non bisogna dimenticare che sia la Volkswagen, prima ca-
sa automobilistica europea e tra i principali leader mondiali del settore,
che la Renault, una delle più dinamiche ditte automobilistiche dell’ultimo
decennio, sono, in varie forme, sotto il controllo pubblico. Chi si ma-
schera dietro i divieti comunitari per opporsi alla rinascita di un polo in-
dustriale pubblico nel nostro paese o è disinformato o è in malafede. In
Germania e, in misura ancor più massiccia, in Francia, pezzi fondamen-
tali del sistema produttivo sono, ben saldi, in mano pubblica e nessuno
ha intenzione di venderli. In realtà, le direttive comunitarie, che pure an-
drebbero modificate per aumentare lo spazio dell’intervento pubblico di
tipo indiretto, nulla dicono in merito alla proprietà pubblica o privata
delle imprese, verso la quale sono neutrali. D’altra parte non potrebbe es-
sere che così nella stessa logica neoliberista. Se lo Stato è un soggetto eco-
nomico come un altro, senza privilegi ma anche senza discriminazioni,
nel momento in cui opera in qualità di detentore del capitale azionario
gode degli stessi diritti di qualsiasi altro soggetto privato. E può stabilire
autonomamente sia i propri meccanismi decisionali interni, che possono
essere improntati alla partecipazione democratica di una pluralità di sog-
getti, sia i fini della propria attività. L’ importante è che operi in un regi-
me di libera concorrenza e non di monopolio. Se quest’ultimo vincolo
può creare problemi, più fittizi che reali in verità, per la gestione pubbli-
ca dei servizi di rete, che sono monopoli naturali, non pone invece nes-
sun problema per la gestione pubblica dei settori industriali. Infatti, nes-
suno si sogna di dire che se la Fiat diventasse un’impresa pubblica gli ita-
liani sarebbero obbligati, pena la galera, ad acquistare le Punto oppure
che le autovetture di marca straniera non potrebbero circolare sulle no-
stre strade o essere vendute nelle concessionarie! Sgombriamo subito il
campo da ogni equivoco. La nazionalizzazione della Fiat è una scelta di
politica economica che non incontra nessun ostacolo nella normativa ita-
liana e comunitaria vigente.
Allora cominciamo a vedere come sarebbe possibile compiere la tra-
sformazione della Fiat in un’impresa pubblica. Abbiamo già detto che le
banche sono diventate di fatto le proprietarie dell’azienda ed è probabi-
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11. PER UN NUOVO INTERVENTO PUBBLICO NELL’ECONOMIA 275

le che tra non molto lo diventeranno di diritto. Ma chi sono queste ban-
che? Sono i principali gruppi bancari del paese, i cui maggiori azionisti
sono le fondazioni bancarie, la cui natura è, come abbiamo visto, sia pu-
re in una forma contorta e ambigua, pubblica. Al di là delle complicate
interpretazioni giuridiche, resta il fatto sostanziale che nessun soggetto
privato è proprietario delle fondazioni, nessun cittadino o nessuna im-
presa ha mai cacciato un solo euro per finanziare o acquistare la proprietà
delle fondazioni bancarie. Le fondazioni hanno ottenuto il patrimonio
azionario delle banche perché lo Stato glielo ha affidato per legge, senza
alcuna ricompensa da parte di nessuno. Se questo è vero, allora possiamo
concludere che già oggi la Fiat è, indirettamente e di fatto, in mani pub-
bliche, ma continua ad essere gestita da soggetti privati che dovrebbero
anche deciderne le sorti finali a scapito dell’intera collettività! La via per
la nazionalizzazione dell’industria automobilistica nazionale è quindi già
tracciata e non costerebbe praticamente nulla alle casse dello Stato. Si
tratterebbe soltanto di trovare la forma giuridica, da definire in via legi-
slativa, per rendere questa situazione di fatto anche una situazione di di-
ritto, sulla base delle preferenze in merito all’allocazione della proprietà
azionaria di controllo in una holding pubblica, direttamente allo Stato
centrale o in comproprietà con il sistema delle autonomie locali. Questa
scelta allocativa della proprietà deve essere naturalmente coerente con il
disegno strategico futuro che si vuole dare alla nuova Fiat nazionalizzata
e da questo punto di vista le prospettive possono essere davvero promet-
tenti per ridefinire l’ossatura strategica del nostro modello di sviluppo.
La Fiat pubblica potrebbe essere la spina dorsale produttiva di una
nuova industria pubblica della mobilità, avente lo scopo di riprogramma-
re il sistema dei trasporti del nostro paese, attraverso lo sviluppo di siste-
mi alternativi al trasporto privato su gomma e la minimizzazione degli im-
patti ambientali. La produzione di automobili per il consumo privato do-
vrebbe essere soltanto uno dei settori di attività della nuova industria pub-
blica e dovrebbe caratterizzarsi per una marcata specializzazione verso
vetture a bassa emissione di inquinanti, come ad esempio auto che utiliz-
zano mezzi di combustione alternativi ai derivati petroliferi (metano, idro-
geno, elettricità, biomasse). Possiamo essere certi che, per una serie di fat-
tori non soltanto di carattere ambientale (basti pensare all’inevitabile au-
mento dei costi del petrolio), il futuro dell’automobile evolverà necessa-
riamente verso questa prospettiva. Le case automobilistiche che per pri-
me si posizioneranno lungo questa traiettoria godranno di notevoli van-
taggi competitivi. Una industria pubblica, non condizionata dalla ricerca
ossessiva di una redditività immediata, sarebbe in grado di affrontare con
successo i grandi investimenti necessari per questo tipo di specializzazio-
ne, potendo anche contare, nell’ambito di un coordinamento strategico
delle attività pubbliche per la R&S, di economie di scala derivanti dall’in-
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276 DOPO IL LIBERISMO

sieme degli investimenti pubblici. Ma una nuova industria pubblica dei


trasporti potrebbe anche sviluppare, in stretto collegamento con le am-
ministrazioni metropolitane, forme innovative di utilizzo dell’autovettura,
come ad esempio l’attivazione di una rete capillare di affitto del mezzo di
trasporto privato a costi contenuti. I vantaggi in termini di riduzione del
traffico, di aumento degli spazi liberati dall’invasione di automobili par-
cheggiate e di abbattimento dell’inquinamento (non fosse altro che per la
migliore qualità delle macchine noleggiate rispetto a quelle, spesso obso-
lete, della circolazione privata) sarebbero notevoli se ciascuno di noi po-
tesse utilizzare l’automobile prendendola a nolo soltanto quando è stret-
tamente necessario, a costi pari o inferiori a quelli derivanti dal manteni-
mento di un’autovettura di proprietà. Accanto all’automobile, anche gli
altri vettori alternativi di trasporto potrebbero diventare oggetto non se-
condario della produzione (locomotori ferroviari, treni metropolitani, au-
tobus a basso impatto inquinante, ecc.) in stretta sinergia con le politiche
di trasporto urbano ed extraurbano delle amministrazioni locali e regio-
nali. Infine, una nuova industria pubblica potrebbe avere al proprio in-
terno un’agenzia per la mobilità, al servizio dello Stato e degli enti locali,
incaricata della programmazione, del coordinamento e della pianificazio-
ne logistica e strategica dell’intero sistema dei trasporti, per consentire
una migliore razionalizzazione dell’intero sistema della mobilità. Questa
funzione, di natura estremamente complessa, che oggi nessun soggetto
pubblico o privato è in grado di fornire, consentirebbe di recuperare le
tante inefficienze e i tanti sprechi che producono un aumento dei costi
collettivi e individuali legati alla mobilità di merci e persone.
In conclusione, l’integrazione all’interno di un unico settore pubblico
delle funzioni di ricerca, di produzione e di programmazione del sistema
della mobilità porterebbe un beneficio enorme non soltanto al benessere
collettivo, in termini di migliore qualità ambientale e di vita, ma anche al
settore della produzione privata, perché ne abbatterebbe i costi monetari
(costo del trasporto) e non monetari (tempi e qualità delle consegne e del-
le forniture). Inoltre, la ricaduta in termini di innovazione e diffusione
scientifica e tecnologica su gran parte del sistema industriale del paese sa-
rebbe considerevole. Infatti, il settore della produzione e della gestione del
sistema dei trasporti si intreccia, a monte e a valle, con un vasto insieme di
branche produttive, di merci e di servizi, anche a elevato contenuto tec-
nologico e di conoscenza, che potrebbero trovare sostegno, in termini di
offerta e di domanda, da una fiorente industria pubblica dei trasporti.
Al di là di ben noti interessi privati e particolaristici, quali sarebbero le
controindicazioni rispetto a questo progetto? L’unica sensata è quella del-
l’ambiziosa arditezza di questi propositi. Ma, quando l’Italia era ancora un
paese quasi esclusivamente agricolo, era forse meno ambizioso pensare
che potesse nascere una grande industria siderurgica pubblica che riva-
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11. PER UN NUOVO INTERVENTO PUBBLICO NELL’ECONOMIA 277

leggiasse con i colossi inglesi e tedeschi, come pure avvenne? Oppure,


tempo dopo, che un paese praticamente privo di risorse energetiche e che
aveva perso una guerra mondiale potesse gareggiare alla pari con le “sette
sorelle” del petrolio americano? E si potrebbe continuare a lungo negli
esempi di successo dell’industria pubblica in Italia e nel mondo. D’altra
parte, nessuno può credere che sia possibile uscire da una condizione di
declino strutturale della nostra economia se non ricominciando a pensare
in grande, come nei momenti migliori della nostra storia industriale. E poi,
infine, che cosa dovremmo fare? Assistere impotenti alla caduta degli dèi?
Meglio, in ogni caso e con qualunque esito, tentare di risalire la china.

11.4. Per un nuovo sistema bancario e finanziario

Un sistema bancario e finanziario efficiente è una delle condizioni es-


senziali per lo sviluppo del paese. L’efficienza del credito non può però
essere giudicata sulla base dei soli profitti delle banche e degli altri inter-
mediari ma, prima di ogni altro criterio, sulla base della corretta e razio-
nale attribuzione delle risorse finanziarie, erogate nella forma di prestiti, a
quegli operatori che saranno meglio in grado di farle fruttare per il be-
nessere collettivo. Se vi sono categorie di soggetti economici, come ad
esempio gli artigiani e le piccole imprese, oppure aree territoriali, come il
Mezzogiorno, che subiscono un razionamento del credito, non ottenendo
la quantità di risorse necessarie per le loro attività economiche, un siste-
ma bancario è inefficiente anche qualora mietesse, a fine anno, tanti pro-
fitti. Non bisogna mai dimenticare che le banche, come gli altri interme-
diari, non gestiscono risorse proprie ma quelle della collettività, che affi-
da loro i propri risparmi affinché essi possano essere investiti in attività
economiche utili e remunerative, in modo che tutti possano trarne van-
taggio. Inoltre, il sistema bancario svolge anche un’altra funzione per la
collettività, quella di gestire il sistema dei pagamenti e di creare la mone-
ta necessaria agli scambi. Tanto è vero che le banche, a differenza di ogni
altra impresa privata, sono pressoché immuni dal rischio del fallimento,
perché, in caso di dissesto finanziario, si è praticamente certi del soccor-
so della Banca d’Italia teso a evitare la bancarotta.
Per tutte queste ragioni, per oltre mezzo secolo si è ritenuto, in Italia
come in tanti altri paesi del mondo, che le banche svolgessero prevalen-
temente una funzione pubblica al servizio dell’intera società e che, per ta-
le ragione, dovessero essere controllate, indirizzate e gestite dallo Stato.
Da un decennio a questa parte non è più così e sono stati inventati stra-
ni marchingegni giuridici, come quello delle fondazioni, per fare in mo-
do che le banche diventassero imprese come le altre, con l’esclusivo
obiettivo dei profitti aziendali, senza tuttavia avere la possibilità di ven-
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278 DOPO IL LIBERISMO

derne la proprietà, dato che nessun privato aveva la disponibilità econo-


mica o la volontà di acquistarle. In qualche misura si è fatto in modo che
le banche agissero come soggetti privati pur rimanendo sostanzialmente
in mano pubblica. A dieci anni di distanza il bilancio, in termini di be-
nessere sociale, di tutta questa strana operazione è negativo. Le banche,
pur di mietere guadagni, hanno assecondato le tendenze speculative
sprigionate dalla globalizzazione neoliberista e hanno così frenato lo svi-
luppo economico del paese. Peggio ancora, a volte sono state complici di
vere e proprie truffe finanziarie che hanno bruciato decine di miliardi di
euro di risparmi dei cittadini. A questo punto non resta che rimettere in
discussione quanto si è fatto finora e tornare a considerare le banche co-
me soggetti a preminente interesse pubblico. Due sono le linee di una
riforma del sistema bancario. La prima attiene alla proprietà e la secon-
da ai sistemi di controllo.
Una banca pubblica, che non deve essere condizionata dalla quota-
zione quotidiana di Borsa e dai dividendi annuali, può agire nell’eroga-
zione dei prestiti con un’ottica diversa da quella di una banca privata. Es-
sa può, ad esempio, finanziare investimenti produttivi fortemente inno-
vativi, e dunque potenzialmente più rischiosi, oppure investimenti a lun-
go termine, che daranno i loro primi frutti solo fra qualche anno. Una
banca pubblica può decidere di concedere crediti a soggetti economici,
come i giovani imprenditori, gli artigiani o le piccole imprese, che maga-
ri hanno una redditività meno elevata, anche se pur sempre positiva, ri-
spetto ad altri tipi di investimento finanziario, oppure che non hanno al-
le spalle il patrimonio necessario per garantire il prestito ottenuto. Una
banca pubblica può decidere di privilegiare gli investimenti nelle aree più
depresse del paese per mettere in moto meccanismi di sviluppo che alla
fine saranno profittevoli per tutti. Tutte queste e molte altre cose non pos-
sono essere fatte da una banca privata che agisce con un’ottica molto più
semplice e immediata, quella della massimizzazione dell’utile e della mi-
nimizzazione del rischio. Allora, per una nuova politica industriale l’esi-
stenza di banche pubbliche è una condizione essenziale. Non bisogna ne-
cessariamente ritornare alla situazione precedente, quando la quasi tota-
lità del sistema bancario era pubblica. Esistono ormai nel nostro paese
anche banche private, italiane o estere, ed è bene che continuino a ope-
rare. Ma quelle banche che ancora sono in maggioranza pubbliche di fat-
to, perché in possesso delle fondazioni, sarebbe bene che possano essere
gestite secondo criteri pubblicistici e sociali. Sarebbe allora auspicabile
procedere a una riorganizzazione del sistema in modo tale che possa na-
scere, accanto alle banche private, un polo bancario pubblico che abbia
come funzione preminente il finanziamento delle attività di creazione e
diffusione dell’innovazione, di formazione e comunicazione delle cono-
scenze e di R&S, di credito alle piccole e medie imprese locali, di sostegno
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11. PER UN NUOVO INTERVENTO PUBBLICO NELL’ECONOMIA 279

agli investimenti produttivi nelle aree depresse e in particolare nel Mez-


zogiorno, di prestiti finalizzati a operazioni di riconversione produttiva di
settori industriali per innalzarne il grado di intensità tecnologica. Insom-
ma, un gruppo bancario pubblico che raccolga i risparmi dei cittadini per
metterli a frutto nello sviluppo economico del paese e non nelle opera-
zioni finanziarie speculative.
In secondo luogo, dopo le deficienze emerse con gli scandali Parmalat
e Cirio, è urgente riformare anche il sistema di vigilanza e di controllo sui
mercati finanziari. Il governo Berlusconi ha cercato di utilizzare i recenti
crack finanziari per assoggettare al proprio diretto controllo le autorità di
vigilanza sul risparmio e, loro tramite, l’intero mondo economico al fine
di perseguire innominabili, ma ben identificati, interessi di parte. Tutta-
via, sarebbe sbagliato contrastare questo tentativo arroccandosi nella di-
fesa del sistema esistente o, peggio, dei suoi attuali personaggi. Infatti, i
crack della Parmalat e della Cirio sono stati possibili grazie a una diffusa
rete di complicità e di connivenze da parte di tutti i soggetti, pubblici e
privati, deputati al controllo e alla vigilanza. La liberalizzazione e la dere-
golamentazione dei mercati finanziari è stata uno dei cardini delle politi-
che neoliberiste e ha avuto un impatto enorme sull’organizzazione com-
plessiva del modello economico e sociale. Non è affatto un aspetto se-
condario o tecnico, da lasciare agli esperti, ma ha una grande valenza po-
litica. Incide direttamente sugli assetti di potere e sulle relazioni tra le
classi. Occorre, allora, finalmente prendere atto che il funzionamento di
mercati e autorità finanziarie è oggi strutturato in modo tale da favorire
le grandi concentrazioni di interessi economici e finanziari. Per questa ra-
gione, mercati e autorità vanno profondamente trasformati nel senso di
una maggiore democrazia economica. Questa opera di riforma deve ri-
guardare tutti i livelli coinvolti, nessuno escluso.
Il primo livello è quello degli organi societari interni all’impresa (con-
siglio di amministrazione e collegio dei revisori). I provvedimenti assunti
dal governo Berlusconi in questo campo hanno favorito e incentivato
comportamenti irresponsabili delle imprese. La depenalizzazione dei fal-
si in bilancio è un segnale di tolleranza verso una gestione dell’impresa
poco attenta alla trasparenza e alla tutela degli interessi dei lavoratori e
del pubblico. La riforma del diritto societario attenua, invece di rafforza-
re, i meccanismi di controllo interno alle imprese, attraverso una com-
pressione dei diritti dei piccoli azionisti, una limitazione delle possibilità
di impugnazione dei bilanci e una completa deregolamentazione degli
strumenti finanziari utilizzabili dall’impresa. La prima cosa da fare è dun-
que l’abrogazione della legge sui falsi in bilancio e la revisione della rifor-
ma del diritto societario appena varata.
Il secondo livello è quello delle società di revisione contabile e di ra-
ting. È evidente il conflitto di interessi esistente in società che devono
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280 DOPO IL LIBERISMO

esprimere una valutazione imparziale a beneficio dei risparmiatori ma


che sono pagate dall’impresa controllata. Bisogna allora rescindere ogni
legame tra controllato e controllore. Il meccanismo è semplice: l’impresa
continui a sopportare gli oneri economici ma sia l’autorità pubblica di vi-
gilanza a scegliere i controllori, garantendone la rotazione e vigilando sui
possibili conflitti di interessi presenti e futuri.
Il terzo livello è quello dei mercati finanziari internazionali. Occorre
eliminare i paradisi fiscali, i centri finanziari off-shore, che consentono al-
le multinazionali di fare quello che vogliono. In questo senso è necessa-
rio assumere una forte iniziativa, in sede europea e internazionale, per im-
porre una regolamentazione dei mercati finanziari globali. Tuttavia, è
possibile anche agire unilateralmente impedendo l’accesso al mercato fi-
nanziario nazionale di strumenti finanziari emessi da società che operano
nei paradisi fiscali.
Il quarto livello è quello delle banche. È urgente vietare alle banche la
collocazione presso il pubblico di titoli di società verso cui hanno una ri-
levante esposizione. Allo stesso modo bisogna proibire gli intrecci socie-
tari tra banche creditrici e imprese debitrici, vietando reciproche parteci-
pazioni di controllo.
Il quinto livello è infine quello delle autorità pubbliche di vigilanza e
di controllo. Nel caso Parmalat, CONSOB (Commissione Nazionale per le
Società e la Borsa) e Banca d’Italia hanno responsabilità gravi e pesanti.
Ben che vada, ci sono stati colposi comportamenti omissivi. Bisogna però
distinguere il capitolo delle responsabilità individuali da quello dei com-
piti istituzionali. Le responsabilità di chi ha non ha svolto il proprio do-
vere devono essere verificate e, se del caso, sanzionate con la rimozione
dagli incarichi ricoperti. La riforma delle autorità di controllo deve inve-
ce scaturire da una riflessione ponderata sul sistema attuale per vedere se
esso è coerente e adeguato. Le finalità da perseguire nella tutela del ri-
sparmio sono la stabilità del sistema bancario, che ha influssi diretti sulla
circolazione monetaria; la trasparenza dei mercati e degli operatori, che
consente a tutti la conoscenza delle informazioni rilevanti; e la concor-
renza, che impedisce posizioni di monopolio. Il sistema attuale è però più
orientato a una logica per operatori che a una per finalità. Abbiamo infatti
la Banca d’Italia che vigila sulle banche e gli intermediari finanziari, la
CONSOB sulle società non finanziarie e l’ISVAP sulle assicurazioni. L’auto-
rità Antitrust vigila invece sulla concorrenza nei mercati reali e non su
quella nei mercati finanziari. Questo sistema poteva andar bene quando
ciascuna categoria di operatori svolgeva solo una funzione, ma non va be-
ne oggi che abbiamo operatori multifunzionali. Ad esempio, le banche
non danno solo credito ma collocano titoli sul mercato, curano acquisi-
zioni e fusioni societarie, gestiscono fondi comuni e assicurativi, parteci-
pano al controllo societario di imprese, ecc. Così come le imprese svolgo-
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11. PER UN NUOVO INTERVENTO PUBBLICO NELL’ECONOMIA 281

no anche tipiche funzioni di intermediazione impiegando le risorse prese


a prestito per investimenti finanziari. In questa situazione, le autorità di
controllo organizzate sugli operatori perseguono finalità tra loro contrad-
dittorie. Ad esempio, per garantire la stabilità bancaria può a volte essere
utile nascondere certe informazioni o evitare un grado di concorrenza
troppo elevato. È allora necessario riconfigurare il sistema di controllo
dando a ciascuna autorità il compito di garantire una sola finalità, indi-
pendentemente dalla natura degli operatori. La Banca d’Italia deve ga-
rantire la stabilità del sistema bancario, rinunciando agli altri compiti at-
tualmente svolti. La CONSOB deve garantire la trasparenza dei mercati e
degli operatori, comprese banche, società di intermediazione finanziaria e
assicurazioni. L’Antitrust deve garantire la concorrenza nei mercati finan-
ziari, compreso quello bancario. Tutte le autorità devono infine disporre
di pieni poteri conoscitivi e sanzionatori e scambiarsi tutte le informazio-
ni rilevanti, in uno spirito di coordinamento e collaborazione.
Queste autorità devono essere autonome e indipendenti dall’Esecuti-
vo, per garantire imparzialità e neutralità. Autonomia e indipendenza
non vogliono però dire irresponsabilità. In una democrazia tutti coloro
che svolgono una funzione pubblica, e quindi gestiscono un potere, de-
vono essere chiamati a dar conto del loro operato. Tutte le autorità di
controllo e di vigilanza, comprese le banche centrali, devono quindi es-
sere rese responsabili di fronte al Parlamento, espressione della sovranità
popolare, e al loro interno vanno attivate forme di partecipazione e di
informazione delle associazioni dei consumatori e dei risparmiatori. Infi-
ne, in una democrazia non è concepibile che un potere venga conferito a
vita, come accade oggi per il governatore della Banca d’Italia. È allora ne-
cessario prevedere per tutte le autorità un mandato temporalmente defi-
nito e non rinnovabile e una verifica parlamentare sulla nomina dei loro
organi direttivi.
Ognuna di queste riforme si regge solo dentro il pacchetto complessi-
vo. Farne alcune rinunciando ad altre determinerebbe un aggravamento
degli squilibri esistenti. Le vicende Parmalat e Cirio ci hanno mostrato
che il mercato lasciato a se stesso è come una barca senza timone, facile
preda di pirati senza scrupoli. In altre parole, ci vuole più pubblico e me-
no privato, più Stato e meno mercato. Era ora.

11.5. Per una nuova politica degli investimenti pubblici

Una nuova industria pubblica deve scaturire da un nuovo metodo di


programmazione e di pianificazione strategica, che individui le priorità
dello sviluppo industriale e produttivo alla luce delle potenzialità esisten-
ti e magari represse nei meandri dell’economia italiana, e delle prospetti-
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282 DOPO IL LIBERISMO

ve di evoluzione internazionale dei settori. L’indirizzo generale di questa


nuova programmazione deve essere improntato a un nuovo modello di
sviluppo della società, prima ancora che dell’economia italiana, che pos-
sa coniugare le esigenze di modernizzazione produttiva con quelle di ri-
qualificazione e protezione ambientale e territoriale. La parola d’ordine
deve essere quella della qualità dello sviluppo: qualità industriale e tec-
nologica, qualità scientifica e culturale, ma anche qualità sociale e am-
bientale. Insomma, per esprimersi in termini sintetici, la strada da intra-
prendere è quella di una crescita quantitativa della qualità dello sviluppo
del paese, attraverso un nuovo intervento pubblico nell’economia, di cui
il Mezzogiorno sia il beneficiario principale.
È possibile fin da subito, nell’ambito di un diverso indirizzo di politi-
ca economica, procedere in questa direzione. In primo luogo, bisogna
bloccare il processo di privatizzazione dei servizi di rete e dei servizi pub-
blici locali, rimuovendo completamente gli obblighi alla loro gestione pri-
vatistica, inseriti nella normativa degli ultimi anni, e consentendo il man-
tenimento di una gestione pubblica e diretta. Saranno gli enti e le comu-
nità locali, senza vincoli di alcun tipo, a scegliere, come per decenni è av-
venuto, se l’acqua che consumano, i trasporti che utilizzano, il gas che ri-
scalda le loro case e cuoce i loro cibi, l’energia che illumina la loro vita, lo
smaltimento dei rifiuti che producono, così come la cura dei parchi pub-
blici e tutto l’insieme dei servizi collettivi che fanno una comunità, do-
vranno essere gestiti da privati, magari da multinazionali straniere inte-
ressate soltanto a guadagnare quanto più possibile, oppure da aziende
municipali pubbliche, direttamente controllate dalla popolazione e dai
suoi rappresentanti eletti.
In secondo luogo, è urgente procedere a un rilancio degli investimen-
ti pubblici. La loro drastica riduzione negli anni di Maastricht è una del-
le cause del degrado del sistema economico e sociale. Essi non servono
soltanto a creare domanda in una fase di stagnazione, ma sono indispen-
sabili per ammodernare e far progredire la struttura portante di una col-
lettività. Ma che tipo di investimenti pubblici sono necessari? Il governo
in carica parla di grandi e faraoniche opere di cemento, come il ponte sul-
lo Stretto di Messina o una valanga di nuove strade o linee ferroviarie ad
alta velocità. Queste opere avrebbero come effetto soltanto quello di far
guadagnare decine di miliardi di euro alle imprese costruttrici, distrug-
gendo l’ambiente e il paesaggio, già gravemente compromesso, che costi-
tuisce forse il patrimonio più importante, anche in termini di valore eco-
nomico, del nostro paese. Le strozzature del nostro sistema di infrastrut-
ture sono altre. Facciamo qualche esempio.
Quasi un terzo della popolazione italiana, soprattutto nel Mezzogior-
no, vive in una situazione di permanente carenza di acqua potabile. Ciò
non è dovuto al fatto che nel nostro territorio manchi la disponibilità di
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11. PER UN NUOVO INTERVENTO PUBBLICO NELL’ECONOMIA 283

questa vitale risorsa, perché anzi ne siamo ricchi. La carenza d’acqua non
è un fenomeno naturale ma la conseguenza dell’incuria umana, perché gli
acquedotti e i sistemi di distribuzione delle risorse idriche sono fatiscen-
ti o inesistenti, cosicché una gran parte dell’acqua prelevata alla sorgente
si disperde prima di giungere nelle case. Non è questo un problema che
attiene soltanto all’enorme disagio causato ai cittadini. Infatti, come si
può pensare che nascano attività industriali, agricole e produttive in zo-
ne dove l’acqua deve essere distribuita con i camion cisterna in quantità
assolutamente insufficienti e con costi elevatissimi? Allora, invece di crea-
re nuove autostrade, che non si sa dove far passare per quanto ne siamo
pieni, sarebbe meglio progettare un grande piano di ammodernamento e
di riqualificazione del sistema idrico con l’obiettivo di portare in un trien-
nio l’acqua in quantità sufficiente in ogni comune e in ogni casa del no-
stro paese, in modo da risolvere per sempre questo annoso problema.
Inoltre, l’Italia, ricco paese industriale, ha ancora un sistema ferroviario
incompleto. Nei rari casi in cui esistono, la gran parte delle linee ferrovia-
rie del Mezzogiorno è a un solo binario e ciò comporta lentezze, disfun-
zioni e riduzione del potenziale traffico di merci e di passeggeri. Invece di
spendere montagne di euro per risparmiare cinque minuti nella tratta di
alta velocità Torino-Lione, non sarebbe meglio costruire ferrovie e metro-
politane leggere in quella grande parte del territorio, ad alta densità di po-
polazione, dove mancano del tutto oppure sono a dir poco fatiscenti?
Oppure, il sistema catastale di una buona parte dei comuni italiani è
ancora quello dell’Ottocento, stipato in archivi cartacei polverosi e rosic-
chiati dai topi, che certificano lo stato di un territorio urbano che ormai
non esiste più da un pezzo, radicalmente cambiato dalle opere di trasfor-
mazione edilizia nel frattempo intervenute. Tutto ciò comporta, oltre a
gravi inefficienze burocratiche a danno dei cittadini e delle imprese, l’im-
possibilità di una seria pianificazione del territorio e di un efficace siste-
ma di riscossione delle imposte sugli immobili. Non si potrebbero assu-
mere per cinque anni centomila giovani tecnici e geometri con il compi-
to di aggiornare e informatizzare l’intero sistema catastale, come avviene
periodicamente in ogni paese civile? A beneficiarne sarebbero non sol-
tanto l’ambiente, il paesaggio e i cittadini, in termini di lotta all’abusivi-
smo e al dissesto idrogeologico e di efficienza dei servizi, ma anche, e in
modo considerevole, le casse dello Stato perché le risorse introitate, in
termini di lotta all’evasione fiscale, supererebbero di gran lunga i costi di
un’operazione di questo genere.
Infine, il problema della casa. A differenza di quanto avviene in tutti
gli altri paesi, in Italia la gran parte delle famiglie possiede la proprietà
dell’abitazione dove vive. Questo è senz’altro un bene. Un quarto delle
famiglie italiane, tuttavia, vive in affitto, e le persone che intendono spo-
starsi per lavoro, anche se sono proprietarie di una casa nel luogo di ori-
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284 DOPO IL LIBERISMO

gine, devono necessariamente prendere un’abitazione in affitto. Nel no-


stro paese il mercato dell’affitto è estremamente ristretto e ciò produce
un innalzamento spropositato dei canoni, che arriva ad assorbire gran
parte dei bilanci di una famiglia. Tutto questo, oltre ad aggravare le diffi-
coltà economiche di milioni di famiglie, produce rigidità negli sposta-
menti della manodopera, anche di quella a più alta qualificazione, perché
non ha senso andare a lavorare in un altro luogo se tutto lo stipendio se
ne va per pagare l’affitto della casa. Quindi la scarsità del mercato del-
l’affitto rappresenta una grave strozzatura per lo sviluppo economico del
paese perché impedisce una efficiente allocazione delle professionalità e
delle competenze lavorative, con un grave danno anche per le imprese. In
questo settore, il mercato privato da solo non basta. È necessario che vi
sia un’ampia disponibilità di case in affitto gestite dal settore pubblico, in
modo da aumentare l’offerta e da calmierare i prezzi, come accade in tut-
ti gli altri paesi europei. In Italia, invece, il patrimonio immobiliare pub-
blico, gran parte del quale costruito con i contributi dei lavoratori, è sta-
to o sta per essere totalmente privatizzato e dato in pasto alla speculazio-
ne. Una cosa, questa, completamente irrazionale dal punto di vista del be-
nessere sociale. Al contrario, bisognerebbe mettere in piedi un piano ca-
sa nazionale con l’obiettivo di raddoppiare nel giro di un quinquennio il
patrimonio immobiliare pubblico destinato all’affitto, a prezzi regola-
mentati, dell’abitazione. Grandi sarebbero i vantaggi che ne derivereb-
bero per l’economia dell’intero paese.
Questi sono soltanto alcuni esempi di come è possibile conciliare l’au-
mento dell’efficienza economica complessiva con il miglioramento della
qualità sociale. Questi, e tanti altri interventi, pongono soltanto una con-
dizione: che si abbandoni una concezione economica, come quella neoli-
berista, che ha come unico parametro di valutazione l’aumento del valo-
re monetario della produzione sul mercato privato. Assumendo un’altra
ottica, che rivaluti ruolo e funzioni dell’intervento pubblico, si scoprireb-
be non solo che la società sarebbe più giusta ed eguale e i cittadini vi-
vrebbero meglio, ma che la stessa produzione privata ne ricaverebbe con-
siderevoli vantaggi.

11.6. Omnia sunt communia, per i beni comuni


e la qualità dello sviluppo
In questi anni di egemonia neoliberista, nelle pieghe dell’economia e
della società sono nate esperienze alternative di organizzazione economi-
ca e di ricostruzione del legame sociale spezzato. Nuovi circuiti econo-
mici fondati sulla reciprocità, sulla solidarietà e sulla coscienza ecologica
si sono diffusi e moltiplicati nelle nicchie lasciate libere dalla mercifica-
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11. PER UN NUOVO INTERVENTO PUBBLICO NELL’ECONOMIA 285

zione del mondo e della vita (commercio equo, finanza etica, consumo
critico, produzioni naturali e biologiche, cooperazione e solidarietà inter-
nazionale, volontariato sociale). Queste esperienze hanno lentamente se-
dimentato, fino a confluire nel movimento altromondialista e a raggiun-
gere così una dimensione di massa.
Queste nuove reti economiche e sociali, sottratte alla logica mercanti-
le, si sono sviluppate però anche in un rapporto di alterità, quando non di
ostilità, nei confronti dello Stato e della dimensione politico-istituzionale.
La forza e il limite di queste esperienze è stata la loro particolarità, la lo-
ro unicità, la loro diffidenza nei confronti di un progetto generale di tra-
sformazione. In questa loro dimensione concreta hanno trovato la moti-
vazione per crescere e durare, dando vita a spazi di autodeterminazione
liberati dall’ossessione competitiva. L’efficacia del risultato concreto, di
una nuova e ricca esperienza individuale nel lavoro e nelle relazioni inter-
personali sono stati i loro principali punti di forza. E questa loro vitale e
molecolare persistenza, nonostante le tentazioni di risucchio del modello
dominante, ha contribuito a erodere la legittimità dell’ideologia neolibe-
rista, concorrendo alla sua crisi. Tuttavia, questa dimensione concreta e
puntuale è stata spesso vissuta soggettivamente come una lontananza, per-
sonale e ideale, verso un disegno complessivo di politica economica e più
in generale verso le sfere proprie delle istituzioni e dello Stato5.
Oggi però cresce il bisogno di individuare un progetto unificante, di
legare i tanti nodi costituiti dalla pluralità di queste esperienze in una re-
te in grado di occupare non più solo le nicchie, ma l’insieme della società.
E la crescita di questo bisogno deriva proprio dalla consapevolezza della
crisi irreversibile dell’utopia negativa neoliberista e dall’urgenza di un’al-
ternativa di modello, non più solo di esperienze puntuali. Il compito, ar-
duo e difficile, è quello di generalizzare le particolarità, di costruire un
nesso organico tra di esse, di fare società senza disperdere il carattere
concreto, calibrato sui bisogni individuali delle esperienze di economia
alternativa. Il filo rosso che può legare queste esperienze e produrre un
progetto generale è quello della ricostruzione di un nuovo spazio pubbli-
co e sociale. È su questo terreno, su queste aspirazioni che esse si inter-
secano con la ricerca di una nuova politica economica fondata su un qua-
lificato intervento pubblico.
Questo però non deve essere pensato come un semplice ritorno al pas-
sato. Sia nelle esperienze del socialismo reale, sia in quelle delle economie
miste, la logica dell’intervento pubblico nell’economia è stata interna a un
modello di sviluppo quantitativo, in cui la massimizzazione della crescita
economica, misurata in termini di valore monetario, costituiva lo scopo
finale. La concorrenza al modello liberista si svolgeva sul terreno di una
identica concezione dello sviluppo: l’intervento pubblico era giustificato
soltanto dal fatto che esso poteva garantire una crescita maggiore, maga-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:41 Pagina 286

286 DOPO IL LIBERISMO

ri più duratura e socialmente più equilibrata. L’egemonia neoliberista ha


potuto affermarsi per un lungo periodo perché queste promesse non fu-
rono realizzate. Infatti, il vecchio intervento pubblico ha spesso prodotto
inefficienza economica, arbitrio politico-clientelare, burocratizzazione e
nuove fratture sociali.
L’esempio forse più significativo dell’equivalenza in termini di conce-
zione dello sviluppo tra vecchia economia pubblica ed economia privata
è relativo al concetto di proprietà. Nel corso del Novecento alla proprietà
privata borghese si è contrapposta la proprietà statale. Una terza forma di
proprietà, quella cooperativa, si è sviluppata solo embrionalmente e ha
svolto un ruolo secondario in questo classico conflitto, fino a ripiegare in
molti casi all’interno dei circuiti economici dominanti. Ciò che cambiava
nelle due forme prevalenti di proprietà era soltanto il soggetto proprieta-
rio: da un lato il privato, dall’altro lo Stato. L’estensione giuridica dei di-
ritti proprietari era la medesima e in entrambi i casi era assoluta, tranne
alcuni vincoli su particolari beni (ad esempio, il demanio come patrimo-
nio indisponibile), peraltro in via di superamento. Il proprietario, sia es-
so privato sia esso statale, poteva disporre della sua proprietà secondo i
propri desideri. In particolare, poteva venderla e commerciarla senza vin-
coli e poteva gestirla, organizzarla e sceglierne l’uso che voleva. Infatti,
nella proprietà statale cambiavano, nel migliore dei casi, i fini del posses-
so, non i metodi. In Italia questa equivalenza di diritti proprietari era an-
cora più accentuata dal modello delle partecipazioni statali. Le privatiz-
zazioni di beni e servizi essenziali sono state possibili anche grazie all’e-
quivalenza giuridica tra le forme di proprietà privata e pubblica. Lo stes-
so ritorno al capitalismo delle economie pianificate e statalizzate di tipo
sovietico è risultato così facile, rapido e diretto anche per questa ragione,
perché è bastato assegnare la proprietà dei beni economici statali a que-
sto o a quel soggetto privato, magari agli stessi mandarini pubblici che
prima la gestivano per conto dello Stato. Il mancato sviluppo sociale e
giuridico di forme di proprietà che rompessero radicalmente con il con-
cetto borghese è uno dei maggiori indizi del fallimento delle esperienze
sovietiche nella costruzione di un’economia e di una società diverse da
quelle capitalistiche.
In questi anni, nei movimenti e nei circuiti alternativi, si è formato un
nuovo concetto, una nuova forma di proprietà: la proprietà comune. E pa-
rallelamente un nuovo concetto di bene: il bene comune. Il concetto di be-
ne comune si è venuto via via formando a partire dall’emergenza di una
nuova categoria di beni pubblici nell’era dell’interdipendenza e della glo-
balizzazione, i cosiddetti “beni comuni globali”, la cui fornitura richiede
forme di cooperazione internazionale improntata a criteri diversi da quelli
della produzione mercantile6. L’applicazione del concetto di bene comune
si è poi estesa fino a comprendere molti settori economici, oggi dentro la
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:41 Pagina 287

11. PER UN NUOVO INTERVENTO PUBBLICO NELL’ECONOMIA 287

sfera dell’economia privata. I beni e i servizi essenziali alla vita umana e na-
turale sono rivendicati come beni comuni (acqua, aria, energia, ma sempre
più anche salute, istruzione, informazione e comunicazione). I beni comu-
ni sono proprietà di tutti e di nessuno. Di tutti perché appartengono di-
rettamente alla comunità, alla collettività e non alla sua astrazione istitu-
zionale, allo Stato. Di nessuno perché la loro fruizione universale e gratui-
ta e la loro salvaguardia integrale non può essere mutata, non è disponibi-
le per nessuno, nemmeno per la comunità stessa. Infatti, i beni comuni ap-
partengono alle generazioni passate, presenti e future. Le passate perché
hanno conservato, tramandato e migliorato col loro lavoro e con la loro
lungimiranza i beni comuni. Le future perché dovranno goderne allo stes-
so modo delle presenti. La gestione dei beni comuni è così sottratta per
principio a qualsiasi forma di utilizzazione e valorizzazione economica.
Non hanno valore di scambio ma solo valore d’uso. Naturalmente la defi-
nizione giuridica del concetto di bene comune è ancora incompleta e ap-
prossimativa, anche se le sue origini sono molto antiche e risalgono ad al-
cune forme di proprietà pre-capitalistica, come le comunanze agrarie e le
terre comuni. Tuttavia, la rivendicazione materiale e la precisazione giuri-
dica del bene comune è un aspetto fondamentale per un’economia alter-
nativa e definisce la direzione e il significato di un nuovo intervento pub-
blico nell’economia. Infatti, un nuovo intervento pubblico deve essere
pensato come leva di un nuovo modello di sviluppo fondato sui principi
dell’equità sociale, della partecipazione democratica e della coscienza eco-
logica di rispetto dei cicli naturali. Ad esso deve anche corrispondere una
nuova misurazione dello sviluppo: dagli indicatori di crescita economica
quantitativa (PIL) occorre passare a indicatori più complessi e significativi
di benessere collettivo, come gli indici di sviluppo umano.
Infine, accanto alla dimensione macroeconomica, occorre una nuova
dimensione microeconomica. Una diversa concezione dell’impresa, pub-
blica e privata, è necessaria di fronte alle deformazioni e alle degenera-
zioni che sono state clamorosamente portate alla luce dai numerosi crack
finanziari di questi ultimi anni. La fuoriuscita dal modello neoliberista
implica quindi anche la definizione di una concezione dell’impresa di-
versa e alternativa rispetto a quella oggi dominante. D’altra parte, i limiti
e anche gli insuccessi del vecchio modello di impresa statale, sia di quel-
lo prevalente nei paesi del socialismo reale sia di quello dei paesi a eco-
nomia mista, impone oggi di sviluppare una concezione dell’impresa in-
novativa, che valorizzi gli elementi di partecipazione dei lavoratori e dei
consumatori, all’interno di un più generale rilancio della programmazio-
ne economica pubblica. In questo senso, la questione della responsabilità
sociale dell’impresa, insieme alla ripresa della riflessione sull’autogestio-
ne e sulla democrazia partecipativa, costituisce una parte importante del-
la ricerca di un’alternativa al neoliberismo.
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288 DOPO IL LIBERISMO

In conclusione, dietro la rivendicazione di un nuovo intervento pub-


blico nell’economia non c’è soltanto l’esigenza, pur presente ed essenzia-
le, di dare una risposta efficace alla crisi dell’economia italiana ed euro-
pea, ma c’è di più, molto di più. C’è la consapevolezza che la ricostruzio-
ne di un progetto di società alternativa a quella capitalistica e mercantile
richiede l’abbandono di vecchie e superate concezioni e la sperimenta-
zione di nuove strade, non ancora battute. C’è la forza che a questo pro-
getto, ancora tutto da costruire, è data dal fallimento del neoliberismo.
C’è, infine, la convinzione che esso possa in tempi brevi riuscire a impor-
si a livello di sentire comune, di percezione di massa, come mostra lo svi-
luppo dei nuovi movimenti, perché esso costituisce un momento di pas-
saggio verso forme più alte e democratiche di civiltà e di relazioni sociali.
Chissà, forse un giorno si potrà teorizzare e rivendicare che l’impresa
stessa, questo sacro Moloc del neoliberismo, rappresenta un bene comu-
ne. Torneremo così a far riecheggiare, in una forma nuova, spogliata dal-
la violenza di allora, un vecchio grido, un grido di speranza e di amore
per gli uomini e per la natura, che agli albori dell’era moderna dilagò tra
i contadini, i servi della gleba, i vagabondi e i lebbrosi nelle pianure del
cuore dell’Europa, attraverso la predicazione di un prete tedesco, Tho-
mas Müntzer, un grido che, nonostante i fiumi di sangue versati per soffo-
carlo, non si è mai spento del tutto: Omnia sunt communia, tutte le cose
sono beni comuni.
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12. Più tasse, ma non per tutti!

12.1. Il debito pubblico e la riduzione della spesa per interessi

Di fronte alle proposte avanzate nei due capitoli precedenti, senz’altro


molti lettori si saranno domandati dove si potranno mai prendere tutte le
risorse necessarie a finanziare le misure di redistribuzione del reddito e di
rilancio dell’intervento pubblico. L’interrogativo è legittimo, perché da
tanti anni siamo stati abituati a pensare che la Repubblica Italiana fosse
perennemente sull’orlo della bancarotta a causa delle troppe risorse de-
stinate alle pensioni, alla sanità, alla scuola, all’assistenza oppure ai pub-
blici dipendenti. E che questo sia vero lo dimostrerebbe l’elevato livello
del debito pubblico italiano. Quindi basta sognare e sprecare, bisogna
stringere la cinghia!
Infatti, nell’ultimo decennio il principale argomento utilizzato dai fau-
tori delle politiche neoliberiste per sostenere la necessità di ridurre il pe-
so dell’intervento pubblico nell’economia è stato la preoccupazione per il
crescente livello di indebitamento pubblico, indizio primario di una vera
e propria crisi fiscale dello Stato. In effetti, nel corso degli anni Ottanta,
in Italia il rapporto tra stock del debito pubblico e PIL era aumentato di
oltre venticinque punti percentuali, passando da un livello del 62 per cen-
to nel 1980 al 97,2 per cento del 1990. In assenza di una decisa inversio-
ne di tendenza nelle politiche di bilancio pubblico, il rischio di una crisi
finanziaria dello Stato appariva allora molto probabile. Fu questa preoc-
cupazione a legittimare, anche agli occhi dell’opinione pubblica, l’ado-
zione di politiche draconiane di riduzione della spesa pubblica. La stessa
adesione all’area monetaria europea fu da molte parti giustificata dalla
necessità di porre un vincolo esterno insormontabile alla crescita della
spesa pubblica. La forzosa disciplina di bilancio, derivante dagli obblighi
europei codificati nel trattato di Maastricht, venne invocata come indi-
spensabile per frenare l’incontenibile impulso dei ceti dirigenti del nostro
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290 DOPO IL LIBERISMO

paese verso un continuo aumento della spesa pubblica, spesso finalizzato


esclusivamente alla conquista del consenso elettorale e a un’opera di ge-
neralizzata corruzione della società.
Motore di questa rivoluzione copernicana nella gestione delle finanze
pubbliche furono le autorità monetarie dei paesi europei. In Italia, di
fronte al tracollo del sistema politico derivante dalle inchieste giudiziarie,
la Banca d’Italia assunse una completa egemonia nella definizione della
politica economica nazionale. I più eminenti dirigenti di questa istituzio-
ne ricoprirono periodicamente i principali incarichi di governo, come
presidente del Consiglio o ministro del Tesoro, nel corso della prima
metà degli anni Novanta. Fu proprio in questo periodo che la Banca d’I-
talia acquisì la piena indipendenza nella definizione della politica mone-
taria e creditizia attraverso la rescissione di ogni obbligo di finanziamen-
to monetario del deficit pubblico.
Dall’inizio degli anni Novanta la priorità assoluta della politica fiscale
del nostro paese è stata la riduzione del debito pubblico accumulato in
passato. A tale scopo si è provveduto nel corso degli anni a continui tagli
alla spesa sociale che hanno fortemente ridimensionato, in quantità e
qualità, i servizi pubblici. Con una gigantesca operazione di privatizza-
zioni, lo Stato ha progressivamente smantellato la propria presenza nei
settori produttivi e ha drasticamente ridotto i programmi di investimen-
to nella realizzazione di infrastrutture, nell’ammodernamento tecnologi-
co della pubblica amministrazione, nella riqualificazione ambientale del
territorio, nelle politiche di sviluppo del Mezzogiorno. L’occupazione
pubblica ha subito una drastica cura dimagrante, sia in termini di nume-
ro di dipendenti, sia in termini di remunerazioni.
Eppure, a quindici anni di distanza dall’inizio di queste politiche dra-
coniane, ci ritroviamo con un debito pubblico ancora più elevato rispet-
to a quello del 1990. Oggi, ancor più di ieri, la priorità della politica eco-
nomica resta sempre quella della riduzione del debito pubblico. Sembra
essere una condanna da cui è impossibile liberarci. Tutte le generazioni
che hanno oggi meno di quarant’anni rischiano di essere ricordate come
“le generazioni degli anni della riduzione del debito pubblico”. Come è
possibile spiegare questo apparente mistero? Con tutti i tagli di spesa che
ci sono stati, perché il debito pubblico è cresciuto ulteriormente invece
di diminuire? E se poi scopriamo che la pressione fiscale è nel frattempo
aumentata, passando dal 43,8 per cento del PIL nel 1991 al 46,3 per cen-
to del 2003, il mistero si trasforma in un incubo. Vale la pena, allora, ca-
pirne qualcosa di più.
La risposta corrente è che non si è fatto ancora abbastanza nell’abbat-
timento e nella razionalizzazione della spesa pubblica. Il rigore e l’auste-
rità fiscali sarebbero così ancora gli ingredienti fondamentali e obbligati
di qualsiasi politica economica. A causa del pesante fardello del debito
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12. PIÙ TASSE, MA NON PER TUTTI! 291

pubblico la leva fiscale non sarebbe utilizzabile per politiche macroeco-


nomiche. Nel corso di questi anni abbiamo spesso ascoltato queste argo-
mentazioni non solo a destra, ma anche a sinistra. Ma dobbiamo fidarci?
Meglio controllare direttamente.
La variazione del debito pubblico può essere scomposta in tre fattori:
1) il saldo primario, cioè la differenza tra entrate correnti e spesa pub-
blica, con esclusione della spesa per interessi; 2) la spesa per gli interessi
sul debito pregresso; 3) una componente residuale di carattere finanzia-
rio (dismissioni e regolazioni di debiti), che determina la non coinciden-
za tra il valore dell’indebitamento netto in termini di competenza, cioè le
cifre scritte all’inizio di ogni anno nei bilanci pubblici, e il valore del fab-
bisogno in termini di cassa, cioè le entrate e le uscite effettivamente ri-
scosse o spese.
Il primo fattore, il saldo primario, è determinato dal Parlamento con
l’approvazione delle leggi di bilancio e indica la differenza esistente tra
quanto pagano i cittadini con le tasse e quanto ricevono in cambio dalla
pubblica amministrazione in termini di beni e servizi, al netto degli inte-
ressi sul debito. Il terzo fattore residuale è sotto il controllo del ministe-
ro del Tesoro e della Ragioneria Generale dello Stato. Il secondo fattore,
la spesa per interessi, è determinato dallo stock di debito accumulato ne-
gli anni passati e dai tassi di interesse pagati sui titoli del debito pubblico
in circolazione.
La tabella 25, costruita scomponendo la variazione totale del debito
pubblico nei tre elementi, mostra il contributo dato da ciascuno dei tre fat-
tori alla dinamica del rapporto debito pubblico/PIL e contiene, nelle ulti-
me tre righe, anche un esercizio di simulazione che mostra di quanto sa-
rebbe variato il debito pubblico se fosse cambiato solo uno dei tre fattori.
Come si vede dalla seconda colonna della tabella che mostra l’anda-
mento del saldo primario, a partire dal 1991, la politica fiscale ha avuto un
carattere marcatamente restrittivo, che ha contribuito a ridurre il debito
pubblico di ben il 46,6 per cento del PIL. Da allora a oggi, lo Stato ha in-
cassato ogni anno attraverso il fisco molto più di quanto ha speso per for-
nire beni e servizi di ogni tipo e natura. L’ammontare di questa differenza
è enorme: dal 1991 al 2002 lo Stato ha incassato la bellezza di 478 miliar-
di di euro in più di quanto ha speso per servizi e investimenti di qualsiasi
natura, in media il 3,8 per cento del PIL ogni anno. Tanto è vero che, se gli
altri due fattori, presentati nella terza e quarta colonna, non fossero cam-
biati, nel 2002 il livello totale del debito pubblico sarebbe sceso al 50,6 per
cento del PIL, di gran lunga al di sotto dei parametri di Maastricht, e l’Ita-
lia sarebbe il paese con il minor debito pubblico d’Europa. Invece, nello
stesso periodo il debito pubblico, anziché ridursi, è cresciuto: nel 1991 es-
so era il 100,6 per cento del PIL; nel 2002 è stato il 106,7 per cento. Tutto
ciò è accaduto perché nel frattempo qualcos’altro deve essere cambiato.
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292 DOPO IL LIBERISMO

Saldo
Anno Interessi Residuo(3) Debito/PIL
primario(2)
1991 0,0 + 2,1 + 1,3 100,6
1992 - 1,8 + 6,3 + 2,6 107,7
1993 - 2,4 + 8,9 + 3,8 118,1
1994 - 1,8 + 5,1 + 2,4 123,8
1995 - 4,0 + 2,3 + 1,1 123,2
1996 - 4,4 + 4,1 - 0,7 122,1
1997 - 6,8 + 4,6 - 0,1 119,8
1998 - 5,4 + 3,3 - 1,5 116,2
1999 - 5,0 + 3,6 + 0,3 115,1
2000 - 6,2 + 0,6 + 1,0 110,5
2001 - 5,0 + 2,2 + 2,1 109,8
2002 - 3,8 + 2,3 + 1,2 109,4
Tot.
- 46,6 + 45,3 + 13,5 + 12,2
1991-2002
SIMULAZIONE: DEBITO NEL 2002 CON VARIAZIONE NULLA
(4)
DEGLI ALTRI FATTORI

Saldo primario 50,6


Interessi 142,6
Residuo 110,7

(1) Il segno meno indica che il fattore ha fatto diminuire il rapporto debi-
to/PIL; il segno più che lo ha fatto crescere.
(2) Il saldo primario è la differenza tra le entrate statali e la spesa pubblica
al netto degli interessi.
(3) La componente residuale del debito pubblico è data dalla differenza tra
il disavanzo di competenza e il fabbisogno di cassa e deriva da operazioni
straordinarie di carattere finanziario (dismissioni e regolazione debiti).
(4) In ciascuna riga è indicato il valore totale che avrebbe avuto il rapporto
debito pubblico/PIL nel 2002 qualora i fattori indicati nelle altre due righe
della tabella non fossero variati.

Tabella 25. Fattori della crescita del debito pubblico italiano(1). Dati in percentuale del PIL
(1991-2002). (Fonte: nostre elaborazioni su dati Banca d’Italia, Relazione del governato-
re, vari anni).

Infatti, le cose sono andate nel senso opposto a causa dell’impatto ne-
gativo degli altri due fattori, a cui è interamente da addebitare l’aumento
del debito pubblico. La parte del leone la fa la spesa per interessi che, da
sola, è responsabile dell’aumento del 45,3 per cento nel rapporto debi-
to/PIL. Nel periodo considerato abbiamo avuto ben 1.090 miliardi di euro
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12. PIÙ TASSE, MA NON PER TUTTI! 293

di spesa per interessi, cioè ogni anno lo Stato ha in media trasferito ai pos-
sessori di titoli pubblici il 9,5 per cento del PIL, una volta e mezzo in più di
quanto ha speso per sanità e servizi sociali. Possiamo concludere, quindi,
che il debito pubblico è rimasto così elevato perché è servito a pagare gli
interessi alla comunità finanziaria e che tutti i sacrifici sopportati dai citta-
dini in più di un decennio, in termini di aumento delle tasse e di riduzio-
ne dei servizi pubblici, hanno giovato soltanto per remunerare di più il ca-
pitale finanziario. In realtà, quindi, la vera e sola causa del continuo au-
mento del debito pubblico non risiede nell’eccesso di intervento dello Sta-
to nell’economia, ma risiede altrove e precisamente nella politica moneta-
ria che è stata condotta nell’ultimo decennio, dalla Banca d’Italia prima e
dalla BCE poi, e nella politica di gestione del debito pubblico del ministero
del Tesoro. È stata la spesa per interessi che si è mangiata completamente
i tagli alla spesa pubblica, facendo lievitare ancor di più il debito pubblico.
Una obiezione di apparente buon senso che si potrebbe rivolgere alla te-
si qui sostenuta è quella che afferma che il pagamento degli interessi è ob-
bligatorio a meno di voler derubare coloro che hanno investito in titoli di
Stato. In realtà così non è. La condizione per porre una variazione nulla del
fattore della spesa per interessi sulla crescita del debito pubblico è molto
meno stringente e meno onerosa per i possessori di titoli di Stato. Se il tas-
so di interesse reale, depurato dall’inflazione, fosse pari al tasso di crescita
del PIL, la spesa per interessi sarebbe neutra rispetto alla variazione del de-
bito pubblico. In altri termini, se la rendita finanziaria fosse aumentata (ba-
date bene aumentata, non diminuita!) allo stesso modo di tutti gli altri red-
diti da lavoro o da impresa, il rapporto debito pubblico/PIL sarebbe sceso
nel 2002, a parità di altre condizioni, al 64,1 per cento. Se invece, come è
accaduto, il tasso di interesse pagato sul debito pubblico è superiore al tas-
so di crescita del PIL, si verifica uno spostamento di ricchezza verso la ren-
dita finanziaria e una tendenza automatica all’aumento del rapporto debi-
to/PIL. La condizione di neutralità della spesa per interessi implica, infatti,
semplicemente una quota costante della rendita finanziaria pubblica sulla
distribuzione del reddito. Quello che è avvenuto in realtà nel corso degli
anni Novanta è stata una colossale redistribuzione del reddito a favore del-
la rendita e a scapito dei redditi da lavoro, gestita direttamente dallo Stato
e pagata con il taglio delle spese sociali e con la riduzione dei salari reali net-
ti. L’ammontare del trasferimento di reddito da parte dello Stato a favore
della rendita finanziaria, derivante da tassi di interesse reali molto superio-
ri al tasso di crescita del PIL, è impressionante, e pari in media a più di ven-
ticinque miliardi di euro all’anno per quasi quindici anni consecutivi!
Ma non è finita qui. La cosa ancora più strabiliante la si può ricavare
da un altro, semplice esercizio di simulazione, supponendo che nell’ulti-
mo decennio i tassi di interesse reali in Italia fossero stati uguali a quelli
vigenti negli USA, dove di sicuro non si può dire che la rendita finanziaria
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294 DOPO IL LIBERISMO

se la passi poi tanto male. Se la Banca d’Italia prima e la BCE poi avesse-
ro adottato una politica monetaria analoga a quella della Federal Reser-
ve, il fattore spesa per interessi avrebbe contribuito alla riduzione del 2,8
per cento del rapporto debito/PIL in Italia. Ovvero, se i tassi di interesse
reali in Italia fossero stati uguali a quelli statunitensi, a parità di altre con-
dizioni, nel 2002 ci saremmo ritrovati con un rapporto debito/PIL pari al
61,3 per cento, sostanzialmente in linea con il parametro di Maastricht!
Ma è ragionevole ipotizzare che il beneficio reale sarebbe stato addirittu-
ra maggiore, considerando che con tassi di interesse reali significativa-
mente più bassi la crescita del PIL sarebbe stata ben più elevata. La ne-
cessità oggi di una riduzione dei tassi di interesse, di fronte alla stagna-
zione economica, non deriva tanto dall’effetto diretto sui consumi e sugli
investimenti privati, quanto dall’allargamento degli spazi di intervento
pubblico che essa consentirebbe.
Ma, accanto agli alti tassi di interesse, esiste anche un’altra causa che
ha impedito una riduzione del livello di indebitamento pubblico e cioè
la politica di gestione del debito adottata, in particolare negli ultimi an-
ni, dal ministero del Tesoro. Vediamo infatti quali sono stati gli effetti
della politica economica del governo Berlusconi. Nel DPEF per il 2004 il
governo ha previsto una spesa per interessi pari al 5,1 per cento del PIL,
che equivale a un tasso di rendimento medio dei titoli del debito pub-
blico del 4,9 per cento nominale e del 2,8 per cento reale, ben superio-
re alla crescita del PIL stimata dallo stesso governo. La stessa cosa è ac-
caduta nel 2003, quando la remunerazione della rendita pubblica ha su-
perato di due punti percentuali la crescita del reddito, e negli anni pre-
cedenti. Anche per gli anni successivi, fino al 2007, il governo prevede
che la rendita pubblica cresca più del reddito complessivo. Eppure ne-
gli ultimi anni abbiamo assistito a una caduta verticale dei tassi di inte-
resse. I BOT sono stati collocati sul mercato a tassi ben inferiori al 2 per
cento; i BTP quinquennali a tassi intorno al 2,5 per cento. Solo i tassi a
lungo e lunghissimo termine hanno rendimenti reali positivi. In una si-
tuazione dei mercati finanziari così favorevole esistevano le condizioni
per una significativa riduzione della spesa per interessi, considerando
che nel biennio 2003-04 si rinnovava circa la metà dei titoli in circola-
zione. Sarebbe bastato accorciare di qualche mese la vita media del de-
bito, oggi pari a quasi sei anni, per sfruttare i bassi tassi di interesse a
breve e medio termine senza nessuna conseguenza per la credibilità fi-
nanziaria dello Stato.
Invece, la gestione del debito pubblico è stata esattamente opposta.
Nel solo 2003 la vita media del debito è aumentata di cinque mesi e ciò
ha impedito di cogliere pienamente gli effetti della riduzione dei tassi. Il
Tesoro ha continuato a emettere titoli a lungo e lunghissimo termine,
quelli oggi più onerosi per le casse dello Stato, non solo per rinnovare
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12. PIÙ TASSE, MA NON PER TUTTI! 295

quelli in scadenza, ma anche per coprire il nuovo debito. Non sorprende


che la domanda, in particolare quella estera, per questi titoli sia stata di
gran lunga superiore all’offerta, tenuto conto anche delle aspettative di ri-
valutazione dell’euro sul dollaro. Sono oggi poche le occasioni di investi-
mento così favorevoli nel rapporto rischio-investimento come quelle of-
ferte dai titoli a lungo termine italiani. Addirittura il Tesoro ha avuto la
brillante idea di annunciare una prossima emissione di nuovi titoli ultra-
long, con scadenze superiori ai trent’anni e con rendimenti inevitabil-
mente altissimi!
Il problema è che la politica del governo Berlusconi non è stata fina-
lizzata alla minimizzazione dell’onere del debito, ma a compiacere i mer-
cati finanziari. Le linee guida della gestione del debito per il 2003-04, pre-
disposte dal Tesoro, lo ammettono candidamente, quando affermano che
«l’offerta dei titoli viene calibrata coerentemente con le esigenze degli
operatori, al fine di ridurre l’impatto sul mercato». Incredibile! È come
se ciascuno di noi, quando si reca in banca a chiedere un finanziamento,
domandasse la forma di prestito più confacente alle… esigenze della ban-
ca! Si capisce allora perché il Tesoro non ha mai pensato di rimborsare
anticipatamente quei titoli, emessi nei primi anni Novanta, che continua-
no a pagare interessi superiori al 10 per cento annuo, con tassi che sono
al di sopra del limite legale sopra il quale scatta il reato di usura. Sono
quindi le esigenze degli investitori finanziari, che ovviamente vogliono
guadagnare il massimo rendimento possibile, e non quelle dei contri-
buenti, che altrettanto ovviamente vorrebbero pagare le tasse per riceve-
re servizi e non per arricchire la rendita, ad aver determinato la qualità
dei titoli in circolazione.
L’effetto di una limitata riduzione della scadenza media del debito sul-
le finanze pubbliche sarebbe enorme: se solo si riducesse il tasso di ren-
dimento medio del debito di pochi decimi di punto, portandolo ad esem-
pio al livello del tasso di riferimento per i mutui ipotecari alle famiglie fis-
sato dalla legge anti-usura, oggi pari a circa il 4 per cento, si avrebbe una
minore spesa per interessi pari a dodici miliardi di euro, da destinare al-
l’aumento della spesa sociale o ad altre misure tra quelle indicate nei ca-
pitoli precedenti. Una operazione di questo tipo avrebbe certamente l’ef-
fetto di accorciare il profilo temporale delle scadenze del debito che og-
gi è pari a 5,67 anni. Tuttavia, questa operazione è necessaria in un mo-
mento in cui la curva dei tassi di interesse è molto ripida, con un diffe-
renziale ampio tra tassi a lunga e tassi a breve. L’allungamento del profi-
lo temporale del debito pubblico, la cui vita residua è passata da 1,13 an-
ni nel 1982 agli attuali 5,67 anni, era giustificata quando la curva tempo-
rale dei tassi era più piatta rispetto a quella attuale e quando era necessa-
rio procedere a un consolidamento del debito per evitare improvvise cri-
si finanziarie dello Stato. Oggi, tuttavia, si può tranquillamente sopporta-
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296 DOPO IL LIBERISMO

re una limitata riduzione della scadenza media del debito senza incorre-
re in rischi di alcun tipo per la stabilità finanziaria dello Stato, a maggior
ragione dopo l’entrata nell’euro. Se tutto ciò non è stato ancora fatto è
perché si sono voluti privilegiare più gli interessi dei mercati finanziari
che quelli di una corretta gestione delle finanze pubbliche.
La tesi diffusa circa l’esaurimento di spazi per politiche fiscali espan-
sive è quindi falsa e fuorviante. Esse richiedono semplicemente uno stret-
to coordinamento con la politica monetaria e la gestione del debito pub-
blico, in modo da rendere convergenti e omogenei gli obiettivi dei diver-
si attori della politica economica. Fino a oggi, la massima remunerazione
della rendita finanziaria è stata la variabile indipendente della politica
economica, a cui tutto si è dovuto adeguare. Per questo, lo scontro di po-
litica economica tra destra e sinistra (se e quando c’è stato) è avvenuto
sulla distribuzione dei sacrifici. Se passassimo a un’ottica di crescita e di
sviluppo, dove anche la politica monetaria e la gestione del debito sono
al servizio di obiettivi politici e sociali, lo scontro politico potrebbe ver-
tere invece sulla distribuzione dei benefici e sulla qualità dello sviluppo.
Dopo circa quindici anni consecutivi di pesanti manovre fiscali, carat-
terizzate da drastici interventi antipopolari di taglio e restrizione della
spesa, i conti pubblici non si trovano più in una condizione di emergen-
za. Il risanamento del bilancio pubblico è stato, in larga misura, compiu-
to, anche se permangono al suo interno distorsioni, sprechi e ingiustizie
sociali derivanti dalla sua composizione qualitativa e non dalla sua di-
mensione. Il livello persistentemente elevato del debito pubblico italiano
non deriva quindi da uno Stato “spendaccione”, ma dall’elevato livello
dei tassi di interesse reali, che sono rimasti fino a oggi su valori netta-
mente superiori al tasso di crescita dell’economia. In questa condizione,
ciò che deve impressionare non è l’alto livello del debito pubblico anco-
ra esistente, ma semmai, al contrario, il fatto che il debito pubblico non
sia esploso e sia rimasto sotto controllo, addirittura con una tendenza in
graduale riduzione.
La combinazione di politiche monetarie antinflazionistiche e di politi-
che fiscali restrittive, caratteristiche dell’epoca di Maastricht, ha ridotto
la crescita economica e, in tal modo, ha contribuito a mantenere alto il
rapporto debito/PIL, agendo su entrambi i lati: aumento esponenziale
della spesa per interessi e riduzione del tasso di crescita del PIL. Invece, il
metodo più efficace per ridurre il debito, una volta stabilito il controllo
sulla dinamica della spesa primaria, è quello della crescita economica.
Siamo ormai da tempo giunti in tale situazione. Soltanto un innalzamen-
to strutturale della crescita potrà liberare il nostro paese dal fardello di un
debito pubblico superiore al reddito annuo. Se non si imbocca rapida-
mente questa strada, è reale il rischio di prolungare indefinitamente la
spirale perversa, il circolo vizioso, fatto da alti interessi-aumento del de-
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12. PIÙ TASSE, MA NON PER TUTTI! 297

bito-restrizione fiscale-bassa crescita economica, con danni irreversibili


all’economia.

12.2. Dove tagliare? Spese militari e sussidi alle grandi imprese

Accanto alla spesa per interessi vi sono altre voci di uscita nel bilancio
pubblico che dovrebbero essere tagliate per liberare risorse a favore di
una nuova politica economica. Le principali sono le spese militari e i sus-
sidi alle imprese.
Nel bilancio 2003 le spese militari sono ammontate complessivamen-
te a 13,8 miliardi di euro, pari all’1,1 per cento del PIL. Per il 2004, il bi-
lancio di previsione presentato dal governo ha previsto un aumento del-
le spese per la Difesa di 285,4 milioni di euro, per un totale di 14,1 mi-
liardi. A queste vanno aggiunte i 1.200 milioni di euro richiesti per il man-
tenimento semestrale dei contingenti militari italiani all’estero, in primo
luogo in Iraq e in Afghanistan. Le prime due voci di spesa militare in ter-
mini di stanziamento riguardano le spese per il personale (7,5 miliardi,
+6,7 per cento sul 2003) e le spese per investimento in nuovi sistemi d’ar-
ma (3 miliardi).
È da rilevare come per le Forze Armate pare non valgano le stesse re-
gole valide per tutti gli altri dipendenti pubblici. Infatti, mentre per il
complesso del personale pubblico si prevede un incremento di spesa pa-
ri all’1 per cento, per il personale della Difesa l’incremento sarà del 6,7
per cento. Ciò potrebbe far supporre che le remunerazioni dei soldati e,
soprattutto, degli ufficiali saranno ben superiori al tasso di inflazione
programmata e che per Esercito, Marina e Aeronautica non vale il bloc-
co delle assunzioni pubbliche. In realtà quelle maggiori risorse serviran-
no non per aumentare il soldo ordinario, ma per remunerare le presta-
zioni straordinarie dei militari italiani impegnati in operazioni in zone di
guerra.
I programmi per i nuovi armamenti, tra l’altro, comprendono: la nuo-
va portaerei Andrea Doria (186 milioni), le fregate Orizzonte (155 milio-
ni), i sommergibili U212 (105 milioni), i caccia intercettori Eurofighter
(434 milioni), il nuovo supercaccia americano JSF F35 (126 milioni), i cac-
cia Tornado (186,5 milioni), nuovi aerei da trasporto (273 milioni), nuo-
vi elicotteri (316 milioni). Come si vede, la qualità e la quantità di acqui-
sizione di nuovi armamenti è imponente e di certo non calibrata per eser-
citare funzioni di difesa del territorio nazionale, ma proiettata verso un
uso al di fuori dei nostri confini. Mentre, quindi, il governo Berlusconi si
premura di tagliare le spese sociali e di ridurre le pensioni presenti e fu-
ture, non lesina fondi e risorse per dotare le nostre Forze Armate delle
più moderne armi di offesa e di attacco.
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298 DOPO IL LIBERISMO

Questa politica va rovesciata. Le spese militari devono essere tagliate


per liberare risorse per le spese sociali. Le Forze Armate del nostro pae-
se devono, come impone la Costituzione, essere modellate esclusivamen-
te in funzione della difesa del territorio nazionale. Il ritiro della presenza
militare italiana all’estero, impegnata in zone di guerra, e una razionaliz-
zazione delle altre spese della Difesa, in particolare quelle riguardanti i
progetti di costruzione di nuovi armamenti pesanti, consentirebbero di
ridurre almeno del 20 per cento le spese militari, liberando risorse per tre
miliardi di euro.
Veniamo ora ai sussidi alle imprese. Nel 2003 le amministrazioni cen-
trali dello Stato hanno erogato alle imprese private finanziamenti per 10,3
miliardi di euro, di cui 3,8 miliardi in forma di trasferimenti correnti e 6,5
miliardi in forma di trasferimenti in conto capitale. Si tratta di una som-
ma rilevante, pari allo 0,8 per cento del PIL e al 3,6 per cento delle spese
primarie dello Stato. A queste si aggiungono le risorse provenienti dal si-
stema delle regioni e delle autonomie locali. Fonti del governo hanno sti-
mato che il complesso di risorse pubbliche, nazionali e locali, che è gira-
to al sistema delle imprese ammonta a oltre trenta miliardi di euro, all’in-
circa il 2,5 per cento del PIL.
Questo ingente trasferimento di risorse è frammentato in un groviglio
di misure specifiche, gestite in maniera non coordinata dai diversi settori
e sottosettori delle amministrazioni pubbliche ed è pertanto privo di
qualsiasi indirizzo strategico. La gran parte delle risorse, inoltre, è assor-
bita dal sistema delle grandi imprese. La politica industriale attiva del no-
stro paese è oggi in buona parte costituita da questo ammasso incoeren-
te di risorse trasferite alle imprese senza nessuna contropartita occupa-
zionale o tecnologica. Il rapido declino industriale e produttivo dimostra
ormai che l’effetto reale sullo sviluppo di questa ingente mole di risorse è
nullo o addirittura controproducente per il miglioramento dell’efficienza
e della competitività delle imprese. Per impostare una nuova e diversa po-
litica industriale occorre reperire le risorse necessarie. Questa operazione
passa, innanzitutto, per una radicale revisione e razionalizzazione dell’at-
tuale sistema di incentivi alle imprese. Una nuova politica industriale e il
rilancio dell’industria pubblica potrebbe, in altre parole, essere autofi-
nanziato, e non gravare quasi per nulla in termini di aumento della spesa
pubblica, da una radicale riforma dell’attuale, contorto e incoerente si-
stema di sussidi alle imprese.
Altre ingenti risorse per avviare una nuova politica economica devono
essere ricavate da una radicale riforma del nostro sistema fiscale.
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12. PIÙ TASSE, MA NON PER TUTTI! 299

12.3. «Guai ai poveri», ovvero il fisco secondo Berlusconi

Nel marzo del 2003 il Parlamento ha approvato in via definitiva la leg-


ge-delega in materia di riforma fiscale, presentata dal governo Berlusco-
ni. Entro due anni il governo dovrà emanare i decreti attuativi che la ren-
deranno operativa. Una prima tranche della riforma è stata inserita già
nella legge finanziaria 2003. Il presidente del Consiglio non smette di
promettere che, entro la fine della legislatura, prevista per il 2006, l’inte-
ra riforma diventerà operativa per tutti i contribuenti.
L’ispirazione di fondo della riforma fiscale è quella classica del neoli-
berismo conservatore di stampo anglosassone, ovvero la riduzione della
pressione fiscale come risposta miracolistica ai problemi economici. I pri-
mi esperimenti in tal senso furono realizzati nei primi anni Ottanta negli
USA, con l’amministrazione Reagan, e in Inghilterra, all’epoca della That-
cher. Successivamente, negli anni Novanta, il furore della riduzione della
pressione fiscale è sembrato attenuarsi, pur senza mai sparire del tutto.
Nel periodo più recente, invece, anche a seguito della profonda crisi eco-
nomica in atto, questo tema è tornato alla ribalta in maniera eclatante e
ossessiva. L’amministrazione Bush ha lanciato un programma decennale
di riduzione delle tasse di inedite proporzioni come risposta alla stagna-
zione economica e allo shock dell’11 settembre. Anche i governi di cen-
trosinistra europei, da quello di Blair a quello di Schroeder, si sono la-
sciati ammaliare da questa sirena e hanno messo in cantiere riforme fiscali
dello stesso tenore. Ma quali sono i ragionamenti economici che servono
da giustificazione a queste misure?
Le motivazioni ideologiche della riforma fiscale neoconservatrice ri-
siedono nella convinzione della assoluta superiorità del mercato come
meccanismo di allocazione delle risorse1. La riduzione della pressione fi-
scale ha infatti come diretta conseguenza l’incremento delle risorse di-
sponibili per i soggetti privati (famiglie e imprese) e la riduzione della
spesa pubblica. Perseguire l’obiettivo della riduzione della pressione fi-
scale equivale a sostenere la necessità di un ridimensionamento del ruolo
pubblico nell’economia. In particolare, è la spesa sociale (pensioni, sa-
nità, istruzione, servizi sociali) a subire le principali conseguenze della ri-
duzione delle entrate fiscali, essendo la gran parte delle altre voci di spe-
sa pubblica più difficilmente comprimibili. Il ragionamento alla base di
tale politica sostiene che le famiglie, attraverso le maggiori risorse dispo-
nibili derivanti dell’abbattimento delle tasse, potranno acquistare diretta-
mente sul mercato privato quei servizi che precedentemente il sistema del
welfare garantiva. Inoltre, l’abbattimento dei programmi di pubblica as-
sistenza costringerebbe tutti a lavorare di più e a non gravare sulla collet-
tività con inutili e costose richieste. Come se non bastasse, la riduzione
della pressione fiscale dovrebbe avere anche un effetto propulsivo sulla
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300 DOPO IL LIBERISMO

crescita economica. Aliquote tributarie elevate scoraggerebbero il lavoro


perché, oltre un certo limite di reddito, l’incremento dell’attività lavora-
tiva non sarebbe più conveniente. Il calcolo dei costi-benefici individuali
di un’ora supplementare di lavoro tra maggiore reddito netto e minore
tempo libero a disposizione, in presenza di un sistema fiscale progressivo
con aliquote elevate, determinerebbe un livello di attività lavorativa infe-
riore a quello ottimale, cioè a quello che massimizza la crescita economi-
ca. Per questa ragione, la riduzione della pressione fiscale è perseguita at-
traverso un appiattimento del sistema delle aliquote, che produce una
drastica riduzione della progressività fiscale. Infatti, da sempre le riforme
fiscali neoconservatrici hanno concentrato i benefici della riduzione del-
le imposte sui ceti più abbienti, perché in questo modo, si dice, maggio-
re sarebbe l’impatto positivo sul reddito a beneficio di tutti. La riduzio-
ne delle tasse, attraverso l’eliminazione della progressività fiscale, incen-
tiverebbe a lavorare di più i più ricchi, cioè quei soggetti con una pro-
duttività del lavoro più elevata, e quindi farebbe crescere il valore ag-
giunto prodotto, il reddito e l’occupazione. Non solo, alcuni economisti
ultraconservatori, come l’americano Laffer, sono giunti a sostenere che la
riduzione delle tasse, contrariamente all’opinione fondata sul buon sen-
so, porterebbe addirittura a un aumento delle entrate fiscali perché l’ef-
fetto di incremento del reddito sarebbe così forte da compensare e supe-
rare la riduzione delle aliquote. In sintesi, la ricetta fiscale conservatrice è
quella dell’abbattimento dello Stato sociale per finanziare la riduzione
delle tasse per i più ricchi e ciò in nome di un presunto vantaggio econo-
mico, in termini di efficienza allocativa, di maggiore crescita economica e
di riduzione del debito pubblico, a beneficio di tutta la collettività.
In realtà è proprio l’esperienza degli USA a fornire la dimostrazione de-
finitiva e inconfutabile che questi miracolosi effetti non solo non si veri-
ficano, ma si tramutano nel loro opposto. A seguito della riduzione fisca-
le ai ricchi, negli USA di Reagan e poi in quelli di Bush, il deficit pubblico
è esploso, i livelli di povertà e di disuguaglianza sono diventati intollera-
bili e la crescita economica non ne è stata minimamente avvantaggiata.
Senza il contemporaneo aumento esponenziale della spesa pubblica per
armamenti, la caduta dei livelli di consumo delle famiglie a minor reddi-
to, derivante dalla redistribuzione a favore dei ceti ricchi, avrebbe com-
portato un netto abbassamento dei livelli di crescita del PIL.
In Italia, quando la legge delega sulla riforma fiscale diventerà piena-
mente operativa, cambierà in senso profondamente antidemocratico e
iniquo il patto che lega i cittadini allo Stato. È un luogo comune, corri-
spondente al vero, affermare che il sistema fiscale italiano sia stato fino a
oggi pieno di distorsioni e fonte di ingiustizie. L’alto livello di evasione e
di elusione fiscale, sistematicamente tollerato dalle pubbliche autorità in
nome di un implicito scambio politico tra consenso elettorale e lassismo
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12. PIÙ TASSE, MA NON PER TUTTI! 301

fiscale, ha prodotto una distribuzione del carico tributario concentrata


essenzialmente sul lavoro dipendente. Tuttavia, fino a oggi, continuava a
permanere una vistosa contraddizione tra i principi e le norme astratte
della costituzione fiscale, improntati all’equità e alla progressività del-
l’imposta, e la realtà concreta, fatta di privilegi e di favori a particolari ce-
ti e gruppi sociali. Questa contraddizione era se non altro fonte di indi-
gnazione morale, quando non anche di rivendicazione sociale, da parte di
coloro, primi fra tutti i lavoratori, che sopportavano la gran parte del pe-
so fiscale. D’ora in avanti questa contraddizione sparisce, ma non nel sen-
so di un adeguamento della realtà ai principi, quanto, viceversa, di un
adeguamento dei principi fiscali alla realtà. È la costituzione fiscale reale
del paese che diventa anche costituzione fiscale formale.
I primi segnali di una ferrea volontà del governo Berlusconi di proce-
dere a una “normalizzazione” fiscale, tesa a legittimare posizioni costitui-
te in modo fraudolento, sono stati lanciati immediatamente, fin dalla sua
costituzione, con l’abolizione della tassa di successione sui grandi patri-
moni, con la depenalizzazione del falso in bilancio e con il ripetuto uso
dello strumento del condono fiscale per sanare l’evasione pregressa. Con
la riforma fiscale si esce dai provvedimenti di emergenza e straordinari e
si costruisce un quadro organico e sistematico di norme in cui il privile-
gio, l’elusione e l’inadempimento fiscali diventano i principi dell’ordina-
mento tributario del nostro paese. Vediamo, in estrema sintesi, perché2.
In primo luogo, la futura imposta sul reddito a due aliquote perderà
ogni caratteristica di progressività, riducendosi concretamente a un siste-
ma ad aliquota unica, poiché solo lo 0,5 per cento dei contribuenti, quelli
ricchissimi, ricadrà nel secondo scaglione, sottoposto all’aliquota massima.
Quest’ultima, inoltre, riducendosi dal 45 per cento al 33 per cento, pro-
duce un clamoroso alleggerimento fiscale per quei pochi fortunati, per-
cettori di redditi milionari. Come dimostrano le numerose simulazioni ef-
fettuate dai più importanti centri di ricerca economica, non sarà mai tec-
nicamente possibile ricondurre questo tipo di sistema fiscale a un coeren-
te principio di progressività, attraverso un meccanismo, peraltro ancora
vago e impreciso, di deduzioni e detrazioni3. Il Parlamento ha quindi ille-
gittimamente delegato il governo ad abrogare il secondo comma dell’arti-
colo 53 della prima parte della Costituzione che stabilisce la progressività
del sistema tributario. Ma anche il primo comma del medesimo articolo,
che afferma il principio della capacità contributiva come base dell’imposi-
zione fiscale, è cancellato dalla riforma. Infatti, con l’estensione del con-
cordato preventivo triennale e degli studi di settore per determinare l’im-
posta sui redditi di impresa e di lavoro autonomo, l’importo della tassa-
zione per questi soggetti non sarà basato sull’accertamento dell’effettiva
capacità contributiva, ma su un reddito normale presunto frutto della con-
trattazione tra lo Stato e il cittadino. Solo i lavoratori dipendenti saranno
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302 DOPO IL LIBERISMO

costretti a pagare le tasse sulla base del reddito effettivamente percepito.


In secondo luogo, il carico fiscale sui redditi di impresa viene ulterior-
mente alleggerito con la riduzione al 33 per cento dell’aliquota IRPEG su-
gli utili e con l’abolizione dell’IRAP, principale fonte di entrate proprie per
le regioni, destinata al finanziamento del sistema sanitario. Nulla viene
stabilito su come saranno garantite alle regioni le risorse che così verran-
no a mancare.
In terzo luogo, l’aliquota sulle rendite da capitale viene unificata per
tutte le attività finanziarie al suo attuale valore minimo del 12,5 per cen-
to. L’Italia diviene così un paradiso fiscale per i rentiers, in quanto conse-
guirà il primato della tassazione minima sul capitale finanziario all’inter-
no dell’Unione Europea. Curiosa è la giustificazione data dal governo:
poiché l’Italia ha un elevato debito pubblico, per evitare un’improbabile
fuga di capitali all’estero occorre detassare la rendita. In questo modo il
gioco è fatto, il cerchio è chiuso: il debito pubblico è cresciuto a dismisu-
ra a causa degli alti tassi di interesse che hanno ingigantito la rendita, per-
ciò è ora tempo che la rendita venga, quasi del tutto, esentata dal fisco.
Quali saranno gli effetti redistributivi sul reddito di questa riforma?
Tutti gli istituti di ricerca economica sono concordi nell’affermare che i
vantaggi diretti in termini di maggior reddito disponibile si concentreran-
no quasi esclusivamente sul 10 per cento delle famiglie più ricche, che ve-
dranno aumentare le proprie risorse da un minimo dell’8 per cento a un
massimo di ben il 16 per cento per la piccola quota delle famiglie ricchis-
sime. Ma, tenendo conto anche degli effetti indiretti derivanti dalle mino-
ri entrate dello Stato, stimate in almeno venti miliardi di euro, a cui dovrà
corrispondere un’analoga riduzione della spesa pubblica, l’impatto a re-
gime della riforma fiscale sarà fortemente regressivo, poiché si accompa-
gnerà inevitabilmente a una ulteriore riduzione della protezione sociale e
alla privatizzazione del welfare e del sistema pensionistico. Il modello so-
ciale che sta alla base della riforma fiscale è quello americano: Stato mini-
mo, liberismo selvaggio, competizione sfrenata tra individui, concentra-
zione della ricchezza, diseguaglianza sociale e povertà di massa. Con in
più però un’aggravante. Mentre il sistema fiscale degli USA è improntato a
rigorosi principi di pari trattamento per tutti i cittadini, indipendente-
mente dalla fonte di reddito e dalla categoria sociale, da noi quel model-
lo verrà applicato, appunto, “all’italiana”, legalizzando tutte le distorsio-
ni, i privilegi e i sotterfugi accumulatisi nel corso dei decenni precedenti.
Il ministro Tremonti, ideatore della riforma fiscale, amava rivendicare,
come suoi precursori, alcuni valenti e meno valenti economisti conserva-
tori americani della Reaganomics, da Friedman a Laffer. In effetti, a giu-
dicare dal suo contenuto, dietro alla riforma fiscale sembra fare capolino,
come ideale mentore, un altro noto americano di origine italiana: non il
premio Nobel per l’economia Modigliani, bensì Al Capone. Come si sa,
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12. PIÙ TASSE, MA NON PER TUTTI! 303

l’FBI riuscì, dopo anni e anni di indagini, a incastrare il noto gangster non
per le sue attività criminali, ma per i reati di falso in bilancio, di frode ed
evasione fiscale. Se Capone avesse avuto a disposizione una legislazione
fiscale come quella costruita dal governo Berlusconi, non avrebbe di cer-
to concluso i suoi giorni in prigione!

12.4. Per la giustizia fiscale

Vediamo allora come potrebbe essere trasformato il sistema fiscale ita-


liano per renderlo meno ingiusto e per consentire di ricavare le risorse ne-
cessarie a una nuova politica economica4.

Riduzione dell’evasione e dell’elusione fiscale. L’evasione, l’erosione e


l’elusione fiscale sottraggono ogni anno allo Stato enormi quantità di ri-
sorse. Alcune ricerche, effettuate con metodologie di stima diverse per
calcolare l’ammontare delle risorse sottratte al fisco, affermano che la ba-
se imponibile IRPEF dichiarata ogni anno oscilla dal 45 per cento al 55 per
cento della base imponibile potenziale. La metà di questa sottrazione de-
riva da fenomeni di evasione e di elusione fiscali, cioè da comportamenti
illegali e fraudolenti dei contribuenti miranti all’occultamento del reddi-
to imponibile. L’altra metà è invece frutto di fenomeni di erosione fisca-
le, cioè di imperfezioni nel disegno di un tributo che consentono di esclu-
dere dall’imponibile redditi che idealmente dovrebbero essere sottoposti
a tassazione. Significativo è l’esame della quota di base imponibile di-
chiarata rispetto a quella potenziale per le diverse tipologie di reddito:
redditi da lavoro dipendente e pensioni 81,1 per cento, redditi da terreni
12,5 per cento, redditi da fabbricati 30 per cento, redditi da capitale 5,8
per cento, redditi da lavoro autonomo e impresa 37,2 per cento. A con-
ferma di ciò, una recente ricerca, basata sui dati della Banca d’Italia, af-
ferma che il reddito evaso ammonta al 2,3 per cento per i lavoratori di-
pendenti, al 31 per cento per i liberi professionisti e al 52 per cento per
gli imprenditori5.
Evasione, elusione ed erosione fiscale quindi non sono fenomeni neu-
tri sul piano sociale. L’obbligo della ritenuta alla fonte per i lavoratori di-
pendenti e i pensionati impedisce a questi soggetti di sottrarre il proprio
reddito al fisco, come invece accade per le altre categorie di reddito. In
questo modo, il carico fiscale complessivo è squilibrato e pesa in manie-
ra spropositata sul lavoro dipendente. Nel 2002 la quota delle retribuzio-
ni del lavoro dipendente pubblico e privato sul valore aggiunto al costo
dei fattori, che rappresenta il reddito prodotto nell’intera economia, è
stata pari al 45,6 per cento, mentre la quota degli altri redditi, da capita-
le e da lavoro autonomo, è stata del 54,4 per cento. Il rapporto si ribalta
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304 DOPO IL LIBERISMO

invece se consideriamo la quota dei diversi redditi sul gettito totale delle
imposte dirette: le tasse pagate dal lavoro dipendente ammontano al 55,3
per cento contro il 44,7 per cento degli altri redditi. In questo modo i red-
diti da lavoro dipendente, al netto dell’imposizione fiscale diretta, scen-
dono al 37,7 per cento del totale, mentre quelli da capitale e da lavoro au-
tonomo salgono al 62,3 per cento. Se il sistema fiscale fosse neutro ri-
spetto alla distribuzione del reddito le quote sul reddito totale dovrebbe-
ro rimanere identiche sia prima che dopo il prelievo fiscale diretto. Se, co-
me stabilisce la Costituzione, fosse progressivo, i redditi da lavoro dipen-
dente e assimilati, comprese quindi le pensioni, dovrebbero pesare sul to-
tale delle entrate dirette meno di quanto pesano sul reddito totale. Pos-
siamo allora concludere che il sistema tributario agisce in senso regressi-
vo, operando una rilevante redistribuzione del reddito ai danni del lavo-
ro dipendente e a vantaggio dei redditi da capitale e da impresa. L’am-
montare della redistribuzione è enorme: qualora il fisco fosse neutrale ri-
spetto alle diverse categorie di reddito, cioè il prelievo fosse semplice-
mente proporzionale al reddito, i lavoratori dipendenti e i pensionati do-
vrebbero pagare, a parità di gettito totale, 11,7 miliardi di euro di tasse in
meno di quelle che effettivamente pagano e viceversa per i redditi da ca-
pitale e da impresa. In altre parole, è come se ogni lavoratore dipenden-
te e ogni pensionato regalassero ogni mese trentacinque euro alle impre-
se e ai possessori di attività finanziarie!
Le diverse stime sulla consistenza dell’economia sommersa o in nero,
calcolate sulla base di differenti metodi di misurazione, sono tutte con-
cordi nel rilevare che l’Italia è di gran lunga il paese industriale dove que-
sto fenomeno è più esteso. Una recente ricerca, effettuata sulla base dei
dati relativi al mercato monetario, fornisce una stima per la quota di eco-
nomia sommersa sul PIL italiano che sfiora il 30 per cento, oltre il doppio
della media dei paesi dell’OECD6. Le stime dell’ISTAT sono più prudenti e
affermano che la quota di prodotto annuo sottratto al fisco oscilla tra il
17 per cento e il 20 per cento, anche se il divario relativo con gli altri pae-
si industriali rimane dello stesso ordine di grandezza.
Rimanendo nell’ambito della cautela e assumendo i valori dell’econo-
mia sommersa sulla base delle stime più basse, possiamo affermare che
nel 2004 ci sono stati in Italia almeno 220 miliardi di euro di reddito pro-
dotto che non sono stati sottoposti a nessun prelievo tributario. Sulla ba-
se di queste analisi si può stimare che, tra prelievo fiscale e contributi so-
ciali evasi, le amministrazioni pubbliche hanno subito nel 2004 una sot-
trazione di risorse per circa novanta miliardi di euro. La reiterata propo-
sizione di condoni fiscali attuata dal governo Berlusconi ha già prodotto
l’effetto di incrementare il fenomeno dell’evasione fiscale. La lotta all’e-
vasione e all’elusione fiscale non è mai stata condotta con convinzione e
con efficacia. Una forte volontà politica e amministrativa consentirebbe,
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12. PIÙ TASSE, MA NON PER TUTTI! 305

invece, di ottenere risultati rilevanti. Negli altri paesi europei la quota di


reddito sottratta al fisco, sulla base di stime costruite secondo metodi
comparabili a quelle più prudenti utilizzate per l’Italia, oscilla tra il 5 per
cento dei paesi con le amministrazioni più efficienti e il 10 per cento di
quelli meno efficienti. L’obiettivo di portare la quota di evasione fiscale a
livelli europei deve essere una priorità politica nazionale con una forte e
decisa azione di controllo, di indagine e di sanzione. Le indagini com-
piute annualmente su un campione molto ridotto di imprese dimostrano
che è possibile scoprire e sanzionare le forme di evasione. Un potenzia-
mento delle attività ispettive, innanzitutto attraverso l’aumento del per-
sonale addetto a tale scopo, potrebbe agevolmente portare notevoli ri-
sorse nelle casse dello Stato. Un obiettivo realistico può essere quello di
ridurre entro un quinquennio la quota di evasione fiscale dall’ottimistica
stima del 17 per cento al 10 per cento del PIL, programmando un recu-
pero di PIL sottoposto al fisco dell’1,4 per cento all’anno. Soltanto in que-
sto modo le entrate fiscali potrebbero aumentare di una cifra pari a circa
otto miliardi di euro all’anno.

Aumento della tassazione sugli utili delle società di capitale. Fino al 2002
l’aliquota IRPEG sui profitti di impresa era del 36 per cento. La legge fi-
nanziaria del 2003 ha ridotto al 34 per cento tale aliquota. Il decreto at-
tuativo della riforma fiscale per le imprese la ridurrà ancora, portandola al
33 per cento. Va ricordato che l’IRPEG è un’imposta che si paga sugli utili
delle società di capitale. La grande parte delle piccole imprese italiane ha
una forma giuridica diversa, essendo principalmente costituita da imprese
individuali, imprese familiari e società di persone. La riduzione dell’IRPEG
decisa dal governo Berlusconi va a vantaggio, quindi, principalmente del
sistema delle imprese medio-grandi e per nulla a vantaggio dei lavoratori
autonomi e dei piccoli dettaglianti. Il ripristino dell’aliquota IRPEG al 36
per cento potrebbe dare un gettito aggiuntivo pari a 4,5 miliardi di euro.

Ripristino dell’imposta sulle successioni dei grandi patrimoni. Uno dei


primi atti del governo Berlusconi è stato abolire la tassa sulle successioni
e donazioni, già ridotta dal governo precedente. L’abolizione di questa
tassa dà, forse più di ogni altro provvedimento, il segno della natura clas-
sista e antipopolare del centrodestra. La sua abolizione, assolutamente
priva di motivazioni di ordine economico, è stata soltanto un regalo alle
classi possidenti del nostro paese7. Un economista liberale, strenuo soste-
nitore del laissez-faire, come Luigi Einaudi sosteneva che, tra tutte le tas-
se, quella sulle successioni era la più giusta e la più morale, perché impo-
neva un prelievo su patrimoni guadagnati dagli eredi senza alcun merito
e alcuna fatica. L’Italia è oggi l’unico paese occidentale dove non esiste
una tassa sulle successioni per i grandi patrimoni. Il ripristino dell’impo-
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306 DOPO IL LIBERISMO

sta sulle successioni e sulle donazioni per i patrimoni superiori a 180.000


euro produrrebbe un gettito di un miliardo di euro.

Aumento dell’aliquota sul reddito delle persone più ricche. La legge de-
lega sulla riforma fiscale, approvata dal Parlamento, prevede che a regi-
me le aliquote dell’IRPEF vengano ridotte a due soltanto, dalle precedenti
cinque. Con la legge finanziaria del 2003 è stata abolita l’aliquota minima
del 18 per cento, unificando il primo con il secondo scaglione di reddito
al 23 per cento. Quando l’intera riforma sarà attuata i redditi fino a cen-
tomila euro saranno assoggettati a un’aliquota del 23 per cento, quelli su-
periori al 33 per cento. Solo lo 0,5 per cento dei contribuenti ricadrà nel-
la seconda aliquota. In questo modo, il governo Berlusconi intende por-
tare a definitivo compimento una tendenza, che dura ormai da molto
tempo, a ridurre il carattere progressivo dell’imposta sul reddito e a ridi-
mensionare il ruolo redistributivo del sistema fiscale. Basta ricordare che
quando fu istituita l’IRPEF, nel 1974, l’aliquota massima superava l’80 per
cento. Nel corso dei trent’anni successivi si è proceduto a una costante ri-
duzione dell’aliquota massima e a un accorpamento degli scaglioni di
reddito, che all’inizio erano ben trentadue. In ogni caso, fino al 1997 l’a-
liquota massima era stabilita al 51 per cento. Essa fu portata nel 1998 al
45,5 per cento e infine nel 2001 al 45 per cento. Una politica fiscale orien-
tata all’equità dovrebbe andare in direzione esattamente opposta, ridu-
cendo il carico fiscale per i redditi più bassi e aumentandolo per quelli
più alti. Un modesto incremento dell’aliquota IRPEF per l’ultimo scaglio-
ne di reddito (quello oltre i settantamila euro di reddito individuale an-
nuo) dal 45 per cento al 47 per cento produrrebbe un aumento delle en-
trate pari a 3,5 miliardi di euro.

Istituzione di una tassa sui movimenti di capitale all’estero (Tobin tax).


La completa liberalizzazione dei mercati finanziari e valutari, avvenuta
nel corso degli anni Novanta, ha moltiplicato in maniera esponenziale le
operazioni speculative sul mercato dei cambi. Attraverso un vorticoso e
incessante movimento di capitali, più fittizi che reali, ogni giorno transi-
tano sul mercato valutario italiano svariati miliardi di euro. La grande
parte di queste transazioni non ha alcuno scopo legato all’economia rea-
le, alla produzione o al commercio di beni e servizi, ma ha esclusivamen-
te natura speculativa. Si tratta per lo più di scommesse sul valore presen-
te e futuro delle valute e dei titoli finanziari. Gli enormi guadagni deri-
vanti da queste operazioni sfuggono oggi completamente a qualunque
imposizione fiscale. La crescita pantagruelica dell’economia di carta, le-
gata alla speculazione, ha distolto una parte consistente del risparmio e
della ricchezza dagli investimenti produttivi e spesso ha messo in crisi in-
tere economie nazionali. Per eliminare le distorsioni perverse di questo
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12. PIÙ TASSE, MA NON PER TUTTI! 307

capitalismo d’azzardo occorrerebbe reintrodurre a livello internazionale


nuove forme di regolazione dei movimenti di capitali. In questo senso l’I-
talia dovrebbe farsi promotrice, all’interno dell’UEM, del ripristino dei
controlli sui movimenti di capitale. In attesa di una simile riforma euro-
pea è tuttavia possibile agire sin da subito a livello nazionale, istituendo
un’imposta molto ridotta sulle transazioni in valuta di qualsiasi natura. In
questo modo, dato il livello estremamente basso dell’aliquota, le opera-
zioni in valuta per scopi reali non sarebbero scoraggiate, mentre le ma-
novre speculative, che avvengono tramite una catena lunghissima di ope-
razioni giornaliere, risulterebbero fortemente penalizzate. È questa la co-
siddetta Tobin tax. L’istituzione di una imposta nazionale sulle transazio-
ni valutarie effettuate nei mercati italiani dello 0,04 per cento complessi-
vo sull’importo della transazione (come suggerito dalla proposta di legge
di iniziativa popolare presentata da ATTAC Italia) darebbe un gettito di 1,3
miliardi di euro.

Ripristino della tassa sulle emissioni inquinanti (Carbon tax). Tra i


principali strumenti invocati nel protocollo di Kyoto per la riduzione del-
l’inquinamento atmosferico c’è quello relativo all’introduzione di una tas-
sa sulle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera. In Italia una tale
tassa è esistita fino al 2002. L’attuale governo l’ha abolita, privilegiando
così la tutela del profitto d’impresa alla tutela ambientale e della salute.
La precedente versione della Carbon tax italiana non era affatto ottimale,
poiché favoriva l’utilizzo di fonti energetiche fossili, in particolare petro-
lifere, rispetto a quelle rinnovabili. Tuttavia, essa andava cambiata nel
senso di una maggiore attenzione all’impatto ambientale e non abolita del
tutto. L’introduzione di una nuova tassa sulle emissioni di anidride car-
bonica nell’atmosfera (Carbon tax) potrebbe dare un gettito di almeno un
miliardo di euro.

Tassazione delle rendite finanziarie. Attualmente il prelievo sui redditi


finanziari si articola su due aliquote sostitutive, distinte sulla base della ti-
pologia degli strumenti: il 27 per cento su depositi bancari e postali e su
obbligazioni private con scadenza inferiore ai diciotto mesi; il 12,5 per
cento su tutti gli altri titoli finanziari. Nella legge delega sul fisco, appro-
vata dal Parlamento, si prevede l’unificazione dell’aliquota sostitutiva per
tutte le attività finanziarie al 12,5 per cento. L’attuale sistema è certamen-
te ingiusto sul piano dell’equità e distorsivo dei comportamenti dei ri-
sparmiatori sul piano dell’efficienza. In termini di equità, l’attuale siste-
ma sostitutivo differenzia i redditi sulla base della fonte. I redditi da ca-
pitale, a differenza dei redditi da lavoro, sono esenti da un’imposizione
progressiva e sono tassati, in larga misura, con un’aliquota inferiore a
quella minima IRPEF (oggi 23 per cento). Su cento euro di reddito da la-
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308 DOPO IL LIBERISMO

voro, quindi, si pagano in media circa ventisette euro di tasse, più i con-
tributi previdenziali del 32,7 per cento, mentre sugli stessi cento euro di
interessi su titoli o su azioni se ne pagano solo 12,5, senza nessun contri-
buto previdenziale. Inoltre, le aliquote fiscali sulle attività finanziarie so-
no le stesse per tutti: le famiglie Agnelli o Berlusconi pagano, sui rendi-
menti dei loro enormi patrimoni finanziari, il 12,5 per cento di imposte,
come il povero pensionato che ha investito i suoi magri risparmi in titoli
di Stato. In termini di efficienza, la diversificazione dell’aliquota sostitu-
tiva secondo lo strumento finanziario posseduto favorisce alcune forme
di risparmio rispetto ad altre e guarda caso, come abbiamo visto nel ca-
pitolo 9, sono penalizzate proprio le forme di risparmio detenute dalle fa-
miglie più povere, come i depositi in banca. La riforma proposta dal go-
verno, se risolve il problema dell’efficienza, aggrava enormemente il pro-
blema dell’equità dell’imposizione fiscale a tutto vantaggio della rendita
e del profitto e a danno del lavoro. Bisognerebbe invece inserire i reddi-
ti di natura finanziaria nell’ambito della imposizione progressiva sul red-
dito, prevedendo l’opzione di usufruire di un’imposizione sostitutiva del
36 per cento (pari all’aliquota IRPEG proposta). In questo modo, i reddi-
ti di natura finanziaria saranno sottoposti allo stesso prelievo fiscale che
grava sui redditi da lavoro, introducendo un criterio basilare di equità se-
condo cui ogni reddito, indipendentemente da come guadagnato, paga le
stesse tasse. Inoltre, si stabilirà così il principio costituzionale di progres-
sività delle imposte anche per i redditi finanziari: chi più ha, più deve pa-
gare. Per evitare che da questo nuovo regime di tassazione sfuggano le
rendite finanziarie pagate agli investitori esteri, occorrerebbe istituire una
trattenuta alla fonte a titolo d’acconto almeno pari all’aliquota minima
dell’imposta sul reddito (23 per cento) per tutte le attività finanziarie. Le
cifre ricavabili per il bilancio dello Stato sarebbero enormi. Stime effet-
tuate per il 2003 danno una probabile maggiore entrata, derivante dalla
perequazione fiscale per fonte di reddito, di ben nove miliardi di euro.
Quando si avanzano proposte di maggiore tassazione della rendita fi-
nanziaria, non manca mai qualcuno che si affretta a sollevare due tipi di
obiezioni, riguardanti da un lato la presunta fuga di capitali e il conse-
guente crollo del mercato finanziario e, dall’altro, l’onere che colpirebbe
in primo luogo le famiglie medie italiane che hanno comprato titoli fi-
nanziari, in particolare quelli del debito pubblico. Esaminiamo allora
quanto queste obiezioni siano fondate, cominciando col vedere come la
rendita finanziaria è tassata negli altri paesi europei8.
Innanzitutto osserviamo che in base al regime di tassazione della rendi-
ta finanziaria l’UE è esattamente spaccata a metà. Oltre all’Italia vi sono al-
tri sette paesi (Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Grecia, Portogallo e Sve-
zia) dove la rendita finanziaria è soggetta a tassazione separata da quella del
reddito e sette paesi (Danimarca, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Olan-
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12. PIÙ TASSE, MA NON PER TUTTI! 309

da, Gran Bretagna e Spagna) dove la rendita finanziaria rientra nell’ambi-


to dell’imposizione ordinaria sul reddito. Negli altri paesi europei che
adottano un regime di tassazione della rendita finanziaria analogo a quello
italiano, l’aliquota media è del 22,5 per cento (dal 30 per cento della Sve-
zia al 15 per cento della Grecia). Possiamo quindi dire che oggi l’Italia è il
paese che in Europa tassa meno la rendita finanziaria e, con l’attuazione
della legge delega di riforma fiscale, questo primato verrà ulteriormente
consolidato. Ma, cosa più importante, nei sette paesi che adottano da anni
l’inserimento dei proventi finanziari nel reddito personale ai fini di una tas-
sazione omogenea per fonti di reddito non si è affatto verificato alcun pro-
blema né di fuga dei capitali né di crollo dei mercati. Anzi, paesi come la
Gran Bretagna e il Lussemburgo, che hanno le principali piazze finanzia-
rie d’Europa, adottano proprio questo metodo di tassazione della rendita.
La prima obiezione sui rischi di una maggiore tassazione della rendita fi-
nanziaria in Italia si dimostra quindi del tutto infondata.
Veniamo ora alla seconda obiezione. Poiché i titoli finanziari larga-
mente più diffusi tra le famiglie medie italiane sono i titoli pubblici, pos-
siamo star certi che, andando a vedere chi detiene lo stock di titoli pub-
blici italiani, possiamo avere un’idea, approssimata per eccesso, dell’im-
patto di una maggiore tassazione delle rendite sul reddito disponibile di
una famiglia media italiana. Se analizziamo le consistenze a fine giugno
2003, tratte dal Bollettino economico della Banca d’Italia, vediamo allo-
ra che appena il 17 per cento dei titoli è detenuto dalle famiglie, l’11,6 per
cento da fondi comuni di investimento, il 20,8 per cento da imprese e isti-
tuti finanziari italiani e ben il 50,6 per cento da investitori esteri. Oltre la
metà degli interessi pagati dallo Stato finisce quindi nelle tasche del capi-
tale internazionale. Alle famiglie italiane rimane ben poco, alle famiglie di
lavoratori quasi nulla. Infatti, l’indagine sui bilanci delle famiglie della
Banca d’Italia ci informa che nel 2000 solo l’11,7 per cento delle famiglie
italiane possedeva titoli pubblici. Le famiglie di operai possiedono solo il
4,3 per cento dei titoli pubblici posseduti da tutte le famiglie italiane. Una
famiglia di imprenditori e liberi professionisti possiede in media uno
stock di titoli pubblici dodici volte superiore a quello posseduto da una
famiglia di operai. Incrociando i dati, si può stimare che le famiglie di la-
voratori dipendenti e di pensionati possiedono solo il 10 per cento del de-
bito pubblico italiano: gli operai ne possiedono lo 0,6 per cento, gli im-
piegati il 2 per cento e i pensionati il 7,4 per cento. Il gigantesco am-
montare di interessi pagati sul debito pubblico non va quindi alle fami-
glie di lavoratori e pensionati italiani, ma in massima parte al capitale fi-
nanziario nazionale e internazionale. Perché non dovrebbero pagare le
tasse come tutti gli altri cittadini? Anche la seconda obiezione contro una
maggiore tassazione della rendita finanziaria è dunque priva di motiva-
zioni. Se in Italia non si vuole procedere in questa direzione, anzi si vuo-
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310 DOPO IL LIBERISMO

le andare in direzione contraria, è dunque solo per una scelta politica in


merito alla distribuzione del carico fiscale, che avvantaggia grandemente
i redditi da capitale e penalizza fortemente quelli da lavoro.

Introduzione di una imposta con aliquota minima sui grandi patrimoni.


Nel capitolo 7 abbiamo mostrato come la distribuzione della ricchezza
nel nostro paese sia drammaticamente diseguale, con livelli altissimi di
concentrazione. Paradossalmente, l’unica tassa sul patrimonio che viene
pagata in Italia è sulle abitazioni e sugli immobili (ICI), cioè sulla forma di
ricchezza reale posseduta in prevalenza dalle famiglie medie italiane. Nes-
suna imposizione patrimoniale esiste invece sulle altre forme di ricchez-
za, quelle il cui possesso è più concentrato nelle famiglie ricche. Perché
sulle case sì e sul resto della ricchezza no? Per non gravare troppo sui ri-
sparmi degli italiani sarebbe opportuno istituire una imposta sulla ric-
chezza familiare che gravi solo sui patrimoni complessivi superiori al mi-
lione di euro. In tal modo, verrebbero colpite soltanto il 10 per cento più
ricco delle famiglie italiane. Un’aliquota minima dello 0,2 per cento sui
patrimoni familiari superiori al milione di euro, che presumibilmente sa-
rebbe irrilevante per famiglie così benestanti, darebbe ogni anno alle cas-
se dello Stato, sulla base dei dati Banca d’Italia sulla ricchezza delle fa-
miglie italiane, un cifra dell’ordine dei cinque miliardi di euro.

12.5. A chi ridurre le tasse? Lavoratori dipendenti, pensionati


e famiglie povere
La cifra che si ottiene se sommiamo tutte le risorse che sarebbe possi-
bile reperire dalle misure indicate in questo capitolo, tra tagli alle spese e
nuove imposte, può apparire sbalorditiva in valori assoluti: siamo intor-
no ai sessanta miliardi di euro all’anno. Tuttavia, in termini relativi, rap-
portati cioè al reddito annuo prodotto da un paese come l’Italia, si trat-
terebbe di una manovra pari a circa il 4 per cento del PIL. Non quindi una
rivoluzione, ma una seria e convinta opera riformatrice. La sorpresa che
ci coglie nel riflettere su quanto proposto nasce soltanto dal fatto che or-
mai siamo abituati a ragionare all’inverso, non su quante risorse possia-
mo trovare per aumentare i beni e i servizi offerti dallo Stato ai cittadini,
ma di quanto dobbiamo tagliare i beni e i servizi pubblici per ridurre le
risorse disponibili per lo Stato. Va inoltre messo in evidenza che una de-
cisa politica espansiva, come quella delineata nei capitoli precedenti, non
comporta un’esplosione del deficit di bilancio. La gran parte delle risor-
se necessarie potrebbe essere ricavata da una riduzione delle spese im-
produttive (interessi, armamenti, sussidi alle grandi imprese) e da una se-
ria riforma fiscale. L’accelerazione della crescita economica che ne deri-
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12. PIÙ TASSE, MA NON PER TUTTI! 311

verebbe sarebbe tale da agire nel senso di una riduzione dei rapporti de-
ficit/PIL e debito pubblico/PIL nel medio periodo. Come già detto, per
migliorare i saldi di finanza pubblica dobbiamo ormai intervenire sul de-
nominatore di questi rapporti (il PIL) e non più, come accade da quindi-
ci anni, sempre sui numeratori (deficit e debito). Solo una decisa ripresa
dei trend di crescita economica è in grado di far uscire l’Italia dalla pe-
renne emergenza del bilancio pubblico.
Né le misure di politica economica proposte comportano un insop-
portabile aumento della pressione fiscale. Le cifre illustrate in questo ca-
pitolo sono il frutto di un calcolo sommario e approssimativo (anche se
tutte derivano da elaborazioni su dati ufficiali), che non ha alcuna prete-
sa di essere esatto fino all’ultimo centesimo, tuttavia l’ordine di grandez-
za dell’impatto sul bilancio pubblico è, senza dubbio, pari a diverse deci-
ne di miliardi di euro. Soltanto una parte di queste risorse sarebbe ne-
cessaria per avviare una nuova politica di spesa pubblica finalizzata alla
redistribuzione del reddito e a un nuovo intervento dello Stato nell’eco-
nomia, come delineato nei due capitoli precedenti. Una parte rilevante
(diciamo venti miliardi di euro?) potrebbe essere destinata ad alleviare il
carico fiscale per i lavoratori dipendenti, per i pensionati e per le famiglie
meno abbienti.
Alla fine di tutto, quindi, la pressione fiscale totale aumenterebbe di po-
co, intorno all’1 per cento del PIL. Sarebbe un grave problema? Assoluta-
mente no, perché la pressione fiscale in Italia è perfettamente in linea con
la media dell’Unione Europea. Nel 2003 la quota delle entrate pubbliche
correnti sul PIL è stata del 44,5 per cento contro una media UE del 44,4 per
cento. In Germania la pressione fiscale è pressoché identica alla nostra,
mentre in Francia è superiore di oltre quattro punti. Semplicemente sa-
rebbe diversa la distribuzione del carico fiscale, che graverebbe in manie-
ra più equa sulle diverse fonti di reddito e opererebbe per correggere, e
non come ora per accentuare, le disuguaglianze sociali.
Non esiste quindi nessuna anomalia italiana in termini di livello assolu-
to di tassazione. D’altra parte, il mantenimento del modello europeo di wel-
fare necessita, per essere finanziato, di simili livelli di entrate fiscali. L’alter-
nativa è il modello americano, dove a una pressione fiscale inferiore di cir-
ca dieci punti si accompagna un sistema di protezione sociale affidato al
mercato, in cui i cittadini ottengono i servizi sociali pagando direttamente
i fornitori privati anziché il fisco, con l’inevitabile conseguenza di una
drammatica accentuazione della disuguaglianza. Anzi, semmai si può dire
che in Italia il livello della pressione fiscale attuale non consente di avere un
sistema di protezione sociale analogo a quello medio europeo perché una
quota maggiore di entrate (circa il 2,5 per cento del PIL) è destinata al pa-
gamento degli interessi sul debito pubblico, anziché alla spesa sociale.
Ma, oltre alla necessità di salvaguardare un sistema di servizi sociali a
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312 DOPO IL LIBERISMO

carattere pubblico e universalistico, esiste anche una ragione più stretta-


mente economica per dire che le tasse non vanno ridotte per tutti. Di
fronte alla prolungata stagnazione si è ormai diffusa universalmente la
convinzione che la carenza di domanda interna sia una delle principali
cause della crisi. Perfino il governo Berlusconi motiva la riduzione delle
tasse con la necessità di rilanciare i consumi. Come abbiamo visto in que-
sto libro, il fattore domanda non spiega tutto, perché anche la struttura
dell’offerta è debole, a seguito del ritrarsi dello Stato dal sistema indu-
striale e produttivo. Però questo riconoscimento del ruolo della domanda
è già qualcosa rispetto a quando tutti sostenevano che i problemi dell’e-
conomia italiana erano rappresentati dalle rigidità del lavoro e dalle pen-
sioni. Il punto è che la ricetta fiscale del governo, oltre a rubare ai poveri
per dare ai ricchi, avviterebbe su se stessa la crisi economica. Il principio
di progressività delle imposte, che stabilisce che i ricchi devono contri-
buire più dei poveri al finanziamento della spesa pubblica, è stato inseri-
to nella Costituzione non solo per ovvie ragioni di giustizia evangelica, ma
anche per ragioni economiche. Infatti, è noto che la quota di reddito spe-
sa in consumi è tanto più alta quanto minore è il reddito posseduto. E ciò
per la semplice ragione che il povero riesce a malapena a campare, figu-
riamoci se può risparmiare. In termini macroeconomici, quindi, una ri-
duzione del grado di progressività delle imposte ha effetti depressivi per-
ché, a parità di pressione fiscale totale, riduce la domanda interna. A ciò
il governo obietta che, al di là degli aspetti distributivi, intende ridurre la
pressione fiscale totale e quindi tutti (chi più, chi meno) avrebbero un
vantaggio in termini di maggior reddito disponibile e potrebbero (chi più,
chi meno, chi per niente) aumentare i consumi. Questo è vero a una sola
condizione, cioè se alla riduzione delle tasse non corrispondesse un’ana-
loga riduzione della spesa pubblica. Tuttavia, a quel punto bisognerebbe
chiedere agli italiani se sono d’accordo a far crescere il debito pubblico
per aumentare i consumi di lusso, piuttosto che per migliorare scuola,
pensioni, sanità, ambiente e ricerca. In verità, il governo annuncia che la
riduzione fiscale sarà accompagnata da una contemporanea riduzione
della spesa pubblica ed è facile immaginare che i tagli, come al solito, sa-
ranno allo Stato sociale. I pochi spiccioli che i ceti meno abbienti riceve-
ranno dalla riduzione fiscale non basteranno nemmeno lontanamente a
comprare sul mercato le prestazioni prima fornite dallo Stato e quindi es-
si dovranno ridurre (altro che aumentare!) i precedenti livelli di consumo
per pagare i servizi privatizzati. I più ricchi, invece, utilizzeranno la ridu-
zione fiscale in parte per acquistare più Ferrari o più ville in Costa Sme-
ralda e in parte per aumentare le loro speculazioni finanziarie. Alla fine
dei conti, i tagli della spesa pubblica per ridurre le tasse non saranno per
nulla compensati da un aumento dei consumi. La carenza di domanda ef-
fettiva risulterà aggravata e la crisi economica ancora più acuta.
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12. PIÙ TASSE, MA NON PER TUTTI! 313

Si dice: ma sono anni che la pressione fiscale aumenta. È vero che dal
1991 al 2002 il gettito totale delle imposte dirette statali è aumentato in
termini reali del 15,4 per cento. Ma questa è la media del pollo di Trilus-
sa. Infatti, mentre il gettito del prelievo fiscale diretto sui redditi da lavo-
ro dipendente e assimilati è aumentato del 40,4 per cento, quello sui red-
diti da capitale e da lavoro autonomo è addirittura diminuito del 3,6 per
cento! Quindi affermare che il livello assoluto di tassazione non deve es-
sere ridotto non vuole affatto dire che bisogna lasciare le cose come stan-
no. Se è vero che dal punto di vista quantitativo il sistema fiscale italiano
è adeguato, è altrettanto incontestabile che dal punto di vista qualitativo
esso è assolutamente inadeguato e deve essere cambiato. La fondamenta-
le inadeguatezza risiede, come abbiamo visto, in una distribuzione grave-
mente sperequata della tassazione diretta sul reddito. Per questa ragione
bisogna aumentare le imposte sul capitale finanziario e sui grandi patri-
moni, mentre occorre ridurle per il lavoro dipendente, per i pensionati e
per le famiglie povere.
La proposta del governo deve quindi essere contrastata per un dupli-
ce ordine di ragioni. Primo, perché, per come è confezionata, è ingiusta.
Secondo, perché la riduzione della pressione fiscale media, comunque
confezionata, aggrava la crisi economica e sociale. Non si può allora ri-
spondere, come pure fa una parte del centrosinistra, con il “gioco del co-
cuzzaro”, rimproverando al governo di non riuscire a fare ciò che an-
nuncia. Bisogna, al contrario, impedire al governo Berlusconi ciò che di-
ce di voler fare. E domani, bisognerà abrogare gran parte di ciò che pur-
troppo è riuscito a fare. È necessario, insomma, mettere in campo una
strategia alternativa di politica economica.

12.6. Considerazioni conclusive

Giunti al termine di questo lavoro, ricapitoliamo in estrema sintesi lo


schema di fondo che ha percorso le analisi e le proposte presentate per
costruire un progetto di politica economica che voglia essere, non solo a
parole, di sinistra, dando contemporaneamente risposte ai nodi di fondo
aperti dal fallimento del neoliberismo.
La crisi italiana è un aspetto della crisi generale del modello della glo-
balizzazione neoliberista. Anche nel resto d’Europa le principali econo-
mie si trovano in recessione. Negli USA soltanto un enorme incremento
delle spese militari, per finanziare la guerra di aggressione all’Iraq, è riu-
scito a sostenere la domanda e a impedire finora l’intensificarsi della cri-
si economica esplosa dopo lo scoppio della bolla speculativa di Wall
Street nel 2000. Tuttavia, i giganteschi squilibri dei “deficit gemelli” (bi-
lancio pubblico e partite correnti) dell’economia statunitense costituisco-
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314 DOPO IL LIBERISMO

no una fonte perenne di instabilità e di precarietà per l’intera economia


mondiale. Il Giappone, da oltre un decennio, è in preda alla deflazione e
alla depressione. Nel Sud del mondo si aggrava la povertà e la miseria per
grandi masse di popolazione. Il modello neoliberista, che ha dominato
nello scorso decennio promettendo prosperità e sviluppo al mondo inte-
ro, è ormai entrato in una crisi irreversibile. La sua continuazione è fon-
te continua di nuove minacce per la sopravvivenza dell’umanità.
La politica economica del governo Berlusconi è stata fallimentare e di-
sastrosa. L’Italia è entrata in una lunga fase di ristagno e di recessione eco-
nomica da cui non riesce a uscire. Non siamo di fronte a un classico fe-
nomeno ciclico e congiunturale, bensì a una vera e propria crisi struttu-
rale della nostra economia. Infatti, in Italia, a questa crisi generale si ag-
giunge il vertiginoso declino del sistema industriale e produttivo. La rile-
vante perdita di quote di mercato nel commercio mondiale, la crisi dei
principali settori industriali, a cominciare da quello automobilistico, l’ag-
gravarsi degli squilibri territoriali tra Nord e Sud, la recrudescenza del-
l’inflazione costituiscono gravi segnali di allarme per il nostro futuro. La
disoccupazione riprende a crescere, nonostante l’estensione enorme del-
la precarizzazione dei rapporti di lavoro. Sul piano sociale, assistiamo a
una drammatica perdita di potere d’acquisto dei salari e delle pensioni,
tale da estendere a larghe fasce del lavoro dipendente una condizione di
povertà e di indigenza già di per sé allarmante.
Di fronte a queste emergenze economiche e sociali, la politica del go-
verno Berlusconi è rimasta ancorata ai dogmi del neoliberismo: privatiz-
zazioni, riduzione dell’intervento pubblico, smantellamento del sistema
del welfare. Non contento di ciò, il governo ha aggravato la situazione
perseguendo fini particolaristici e corporativi, tesi a incrementare il pri-
vilegio e l’ingiustizia sociale. L’uso massiccio ed estensivo dei condoni, da
quelli fiscali a quello edilizio, ne sono la manifestazione più eclatante. La
politica economica del governo Berlusconi è prigioniera di un’ottica ra-
gionieristica, ossessionata dalla riduzione dell’intervento pubblico e inca-
pace di disegnare un serio progetto di rilancio dell’economia. Di ben al-
tro avrebbe bisogno l’asfittico sistema economico nazionale. Il fallimento
delle politiche neoliberiste è ormai evidente.
È diventato urgente mettere in campo una politica economica alterna-
tiva. La ripresa dello sviluppo passa necessariamente per una grande ope-
razione di redistribuzione del reddito a vantaggio dei lavoratori e dei pen-
sionati e per una ripubblicizzazione del sistema industriale e dei beni co-
muni. Ciò che occorre è una politica fiscale aggressiva in senso espansi-
vo, che punti a rilanciare l’intervento pubblico su entrambi i fronti del so-
stegno alla domanda e del potenziamento dell’offerta.
Dal lato della domanda occorrerebbe procedere in primo luogo a una
forte azione di redistribuzione del reddito, attraverso l’aumento delle
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12. PIÙ TASSE, MA NON PER TUTTI! 315

componenti dirette e indirette del salario, l’introduzione di nuove rigidità


nel mercato del lavoro e l’aumento delle garanzie e delle protezioni for-
nite dal sistema del welfare (sanità, servizi sociali, previdenza, salario di
cittadinanza e altre forme di sostegno al reddito). Queste misure, tra cui
spicca per urgenza il ripristino di un meccanismo di adeguamento auto-
matico dei salari e delle pensioni all’inflazione, possono consentire una ri-
presa dei livelli di consumo dei lavoratori, dei pensionati e dei ceti a bas-
so reddito, con conseguenze positive per lo sviluppo complessivo dell’e-
conomia. In secondo luogo, sarebbe necessario il varo di un massiccio
programma di investimenti pubblici a carattere pluriennale, orientato
verso interventi ambientalmente compatibili e centrati sullo sviluppo ter-
ritoriale e sulla partecipazione sociale. In questo tipo di azione, un ruolo
fondamentale dovrebbe essere giocato dal potenziamento della scuola,
dell’università e della ricerca pubbliche, per promuovere un ammoder-
namento dei processi formativi e di innovazione.
Dal lato dell’offerta, l’emergenza del declino industriale e produttivo
del paese rappresenta la priorità principale. I processi di privatizzazione
dell’apparato produttivo pubblico degli ultimi dieci anni hanno depaupe-
rato interi settori strategici dell’industria nazionale. È necessario invertire
questa tendenza e creare nuove forme di presenza pubblica diretta nei set-
tori produttivi, non solo nell’industria, ma anche nel terziario avanzato.
Inoltre, il ripristino di una nuova funzione di indirizzo pubblico nelle po-
litiche creditizie, annullato completamente dalla totale privatizzazione del
sistema bancario, è un elemento indispensabile della ricostruzione pro-
duttiva del paese. È poi necessario che il pubblico assuma un importante
ruolo diretto nella promozione e nella fornitura di servizi strategici (com-
mercializzazione, marketing, logistica, comunicazione e informazione) al-
le piccole e medie imprese e ai distretti industriali, oggi in grave difficoltà.
Infine, la questione meridionale, sempre viva e drammatica, necessita del-
la ripresa di un forte ruolo pubblico, non solo in termini di erogazione
delle risorse, ma anche di coordinamento e indirizzo dello sviluppo.
Questo insieme di interventi richiede l’abbandono delle logiche neoli-
beriste, fondate sul primato delle forze di mercato e su un ruolo ancilla-
re del pubblico nei confronti dei processi spontanei, e la sua sostituzione
con una rinnovata logica di programmazione e di pianificazione, fondata
su forti meccanismi di partecipazione diretta degli enti territoriali e delle
collettività locali nella definizione e nella gestione degli interventi.
Oggi la strada per risollevare il paese da un altrimenti inarrestabile de-
clino storico passa per la costruzione dell’alternativa al neoliberismo.
Questo dovrebbe essere l’obiettivo unificante di tutte le forze, politiche,
sociali e di movimento, che vogliono aprire una pagina nuova nella storia
d’Italia.
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Epilogo
Melfi, Lucania, Italia, aprile 2004.
Un nuovo vento è arrivato. Il vento caldo del Sud

Fino a dieci anni fa, Melfi era un tipico centro agricolo, uno di quei
tanti grossi borghi che popolano le pianure, incastonate tra l’Appennino
e il mare, del Mezzogiorno d’Italia. Fino a dieci anni fa Melfi, Lucania,
provincia di Potenza, era una delle zone più povere e diseredate del no-
stro paese. Da secoli terra di braccianti e di piccoli contadini, terra di
emigrazione e di brigantaggio. Negli anni Ottanta i giovani di Melfi stu-
diavano, non potendo trovare lavoro. Geometri, tecnici, ragionieri, tutti
nel miraggio di un posto fisso, magari nella pubblica amministrazione o
in qualche azienda del Nord. Nel frattempo aiutavano i padri a coltivare
gli orti, a mietere il grano dei piccoli appezzamenti di terreno, strappati
al latifondo con le lotte bracciantili degli anni Cinquanta, essenziali anche
oggi per sopravvivere, per tirare avanti. Priva di qualsiasi tradizione in-
dustriale, Melfi era un “prato verde”, una zona incontaminata dalle cimi-
niere, dai fumi, dai capannoni di cemento e di lamiera che popolano i no-
stri paesaggi industriali.
Proprio qui, nella piana di San Nicola di Melfi, in questa terra vergi-
ne, di là dalla collina oltre la quale è adagiato il paese, la Fiat annuncia,
in un grigio giorno d’autunno del 1990, esattamente dieci anni dopo la
sconfitta operaia di Mirafiori, di voler costruire un nuovo impianto1. Un
impianto gioiello, ispirato alla nuova filosofia aziendale della produzione
snella e della qualità totale. Un impianto “leggero”. Non più i colossi di
Mirafiori e di Rivalta, non più pesanti e rigide catene di montaggio, sarà
un impianto ad alta densità tecnologica, organizzato per “isole di mon-
taggio” (UTE, o unità tecnologiche elementari), ciascuna diretta da un ca-
po appartenente all’inquadramento gerarchico manageriale. Lo stabili-
mento sarà circondato da altre decine di piccoli stabilimenti, dove do-
vranno insediarsi le microimprese di subfornitura, perché il modello pro-
duttivo è quello giapponese e “post-fordista”, del “just in time” e della
fabbrica integrata. «Ridurre i costi di produzione e migliorare la qualità
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:41 Pagina 317

EPILOGO 317

del prodotto», è questo il motto del progetto Fiat a Melfi. Quasi cinque-
mila miliardi di lire di investimento, di cui un terzo a carico dello Stato,
per due milioni e 700.000 metri quadri di superficie complessiva, con una
capacità produttiva di 450.000 vetture all’anno, che può occupare circa
diecimila lavoratori, per due terzi direttamente e per un terzo nella forni-
tura. Altri cinquemila posti di lavoro saranno creati nell’indotto. Un’oc-
casione mai verificatasi in terra lucana. I lavori di costruzione iniziano nel
giugno successivo e in due anni lo stabilimento è pronto. Il primo gen-
naio 1994 entra pienamente in funzione la nuova “fabbrica del futuro”.
Melfi è stata scelta dalla dirigenza Fiat perché qui non c’è classe ope-
raia, non c’è sindacato industriale e soprattutto non c’è lavoro, non ci so-
no alternative all’infuori dell’esodo, della sussistenza agricola o del peren-
ne precariato per i giovani. Perché per far rendere un impianto del gene-
re, al di là della tecnologia e dell’automazione, ciò che occorre, prima di
ogni altra cosa, è, sempre e comunque, un controllo pieno e totale sulla
forza lavoro, una disciplina interna ed esterna alla fabbrica che possa con-
sentire un adattamento continuo del lavoro alle esigenze e agli imprevisti
della produzione e del mercato. I lavoratori assunti sono tutti giovanissi-
mi, sotto i trentadue anni, alla prima esperienza di fabbrica, tutti con con-
tratti di formazione e lavoro, sottoposti al ricatto della conferma dopo due
anni. La selezione del personale, proveniente dall’intera provincia e da
buona parte della regione, non si basa sulle capacità tecniche acquisite,
ma sulla disponibilità incondizionata a obbedire alle necessità della pro-
duzione. Il lavoratore di Melfi conosce la fabbrica solo attraverso l’opera
iniziale di formazione aziendale, che non punta affatto a fornire cono-
scenze professionali specifiche, ma ha un contenuto essenzialmente peda-
gogico, mira a far pensare il lavoratore con il cervello dell’azienda. Infat-
ti, nel linguaggio aziendale il lavoratore non esiste nemmeno, è una “ri-
sorsa umana”, come una macchina, una materia prima o un capitale li-
quido. All’inizio gli aspiranti operai non capiscono perché i corsi di for-
mazione siano organizzati per turni. Lo comprenderanno solo più avanti.
Lo stabilimento di Melfi non si chiama Fiat ma SATA (Società Auto-
mobilistica a Tecnologia Avanzata), un trucco dell’azienda per chiarire
che gli operai-modello di Melfi non hanno nulla a che fare con gli operai
di Mirafiori. Infatti a Melfi non si applica il contratto aziendale Fiat ma
un altro contratto, stipulato con i sindacati nel dicembre del 1990, prima
ancora che lo stabilimento fosse costruito e che i lavoratori venissero as-
sunti. Inoltre, in sede di trattativa sindacale è stato concordato che anche
il contratto collettivo nazionale di categoria possa essere parzialmente de-
rogato. In questo modo i giovani operai lucani lavorano più degli altri del
gruppo: recupero delle fermate per disfunzioni tecniche attraverso l’ac-
celerazione della linea, gestione discrezionale delle pause individuali, la-
voro notturno anche per le donne, sabato lavorativo, cadenza variabile in-
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318 DOPO IL LIBERISMO

frasettimanale del riposo compensativo e poi la famigerata “doppia bat-


tuta”, la ripetizione per due settimane consecutive del turno di notte (che
inizia la domenica alle dieci di sera), con in mezzo un unico giorno di ri-
poso, che stravolge ritmi biologici, relazioni sociali e familiari e condizio-
ni di vita. In questo regime particolare, i tempi attivi giornalieri, quelli in
cui si produce, della presenza dell’operaio all’interno della fabbrica rag-
giungono il 95 per cento (411 minuti su 435), contro l’86 per cento di Mi-
rafiori (387 minuti su 450). L’indice di rendimento, che fa pari a cento rit-
mo e intensità della prestazione lavorativa di un operaio medio che lavo-
ra senza lo stimolo di un incentivo variabile, è pari a 160 contro il 133 del
resto del gruppo, grazie all’introduzione del nuovo sistema di misurazio-
ne dei tempi, il TMC-2. Insomma, i tempi produttivi per lo svolgimento di
una identica mansione sono a Melfi inferiori del 20 per cento rispetto a
quelli degli altri stabilimenti Fiat. La stessa differenza che c’è nel salario.
Ma si tratta di una differenza di segno opposto, perché stavolta è il sala-
rio di un operaio di Melfi (meno di mille euro al mese) ad essere il 20 per
cento in meno di quello di un operaio di pari qualifica degli altri stabili-
menti Fiat. Le rappresentanze sindacali di fabbrica sono formalmente ri-
conosciute, ma in realtà la loro possibilità di azione è rigidamente istitu-
zionalizzata dentro le Commissioni paritetiche, in cui sono presenti anche
rappresentanti dell’azienda, in nome del “metodo partecipativo di pre-
venzione del conflitto”. È difficile in questo modo per i delegati sindaca-
li interni acquistare la fiducia dei lavoratori. In compenso la gerarchia di
fabbrica è piena di figure (il capo UTE, il CPI, il REPO) che hanno il com-
pito di spegnere i conflitti individuali e collettivi attraverso un continuo
rapporto interpersonale con l’operaio di linea. E quando non ci riescono
scattano i provvedimenti disciplinari (ben novemila nell’ultimo triennio)
che possono portare a subire multe, sospensioni dal lavoro e non di rado
licenziamenti.
È così che Melfi è diventato lo stabilimento più efficiente dell’intero
gruppo della multinazionale torinese, con una produttività sei volte mag-
giore di quella che aveva Mirafiori nel suo momento di massimo splen-
dore e secondo in Europa soltanto allo stabilimento Opel di Russelsheim
in Germania. Per dieci anni è stato così, senza mai uno sciopero o una lot-
ta collettiva. Poi, improvvisamente, tutto è cambiato.
Aprile 2004: scoppia la protesta dei lavoratori dell’indotto dello stabi-
limento di Melfi. Le piccole imprese, oberate dalle continue richieste di
riduzione dei prezzi dei beni e servizi di fornitura dalla Fiat in crisi, han-
no tirato troppo la corda e la corda si è spezzata. I lavoratori dell’indotto
(circa tremila) hanno condizioni ancora peggiori di quelli degli operai di
Melfi e stavolta decidono di entrare in agitazione. Dopo qualche giorno
scende in campo “mamma Fiat” e tenta una mossa che in passato era
sempre riuscita. Decide di bloccare la produzione dell’impianto e di met-
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EPILOGO 319

tere in libertà, senza paga, i lavoratori di Melfi, in attesa del ripristino di


condizioni di normalità nelle forniture. In questo modo vuole mettere i
lavoratori gli uni contro gli altri, vuole aumentare la pressione sociale per
stroncare la lotta degli operai dell’indotto.
Succede invece una cosa per tutti inaspettata. I lavoratori Fiat di Mel-
fi si riuniscono, di notte, perché i tempi della fabbrica sono diversi da
quelli della vita, in assemblea, esprimono solidarietà agli altri lavoratori in
lotta e approvano una piattaforma rivendicativa “rivoluzionaria”, in cui
chiedono la parificazione dei salari e delle condizioni di lavoro con il re-
sto dei lavoratori del gruppo. La reazione dell’azienda e del governo è di
rabbia e si scaglia in particolare contro la FIOM, accusata di aver sobillato
con discorsi estremisti i lavoratori. Dopo qualche giorno si convoca un ta-
volo di trattative separato, che esclude le RSU, la FIOM e i sindacati di ba-
se, e viene firmato un accordo con FIM, UILM e FISMIC, che non concede
quasi nulla alle rivendicazioni operaie. La Fiat ordina di riprendere la pro-
duzione. Finora, da vent’anni a questa parte, in Fiat è stato sempre così,
gli accordi separati, la divisione del fronte sindacale, hanno sempre fun-
zionato per smorzare la volontà di lotta operaia.
È la mattina del 26 aprile, il giorno in cui dovrebbe riprendere la nor-
male funzionalità dell’impianto. La piana di San Nicola è piena di gente.
Ci sono gli operai di Melfi, tutti, non solo quelli del turno mattutino. Ma
ci sono anche i padri e le madri, le mogli e i mariti, i figli dei non più ra-
gazzi, ma ancora giovani operai e operaie di Melfi, c’è l’intero paese. E in-
sieme a loro c’è il popolo di Scanzano, quelli che hanno dato vita, a po-
chi chilometri di distanza, a una rivolta di massa contro il deposito di sco-
rie nucleari. E ci sono anche centinaia di poliziotti, in tenuta antisom-
mossa, mandati dal governo su ordine della Fiat. L’atmosfera è strana e
nuova, non assomiglia per niente ai classici episodi di agitazione operaia,
quelli che hanno segnato i momenti cruciali della lotta di classe nel no-
stro paese. Non ci sono picchetti, non ci sono barricate. Sembra non es-
serci nemmeno rabbia o tensione esasperata. Il popolo di Melfi e di Scan-
zano è seduto lungo la strada che attraversa la grande piana dove sorge la
fabbrica e non si muove. Parla, fa colazione, ride, scherza, ma non si
muove. Nessun operaio viene fermato o insultato, perché nessuno vuole
entrare in fabbrica. È come se d’un tratto, quasi per magia, i cervelli di
quegli operai non fossero più gli stessi della settimana prima, gli stessi che
per dieci anni hanno accettato la loro condizione di inferiorità e di su-
bordinazione. In realtà, questa nuova e improvvisa consapevolezza è il
frutto di anni e anni di impegno dei pochi e isolati quadri sindacali della
FIOM e dei sindacati di base, che hanno continuato a difendere dignità e
diritti dentro la fabbrica. È il lavoro della talpa, che non si vede, finché
d’un tratto non emerge in superficie. Le notizie che giungono a Roma e
a Torino fanno saltare i nervi al governo e alla Fiat. Viene dato l’ordine di
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320 DOPO IL LIBERISMO

caricare e disperdere, di sgombrare la piana di San Nicola. Operai e po-


polo subiscono la violenta carica senza reagire. Si allontanano e poi, fini-
ta la carica, tornano a sedersi, come prima, a discutere, a mangiare, a ri-
dere e a scherzare. Qualcuno, purtroppo, anche a curarsi le ferite e le
contusioni. E continuano a non muoversi.
Si cambia allora tattica per stroncare la protesta. Governo e Fiat pen-
sano di lasciarli lì, di ignorarli, tanto dovranno pur tornare a lavorare per
guadagnarsi il necessario per vivere. E gli operai di Melfi rimangono lì,
seduti nella piana di San Nicola. Tutto il paese, tutta la provincia, l’inte-
ra regione li sostiene, fornisce loro cibo, vestiti, soldi per andare avanti. I
vecchi e più esperti sindacalisti, venuti da fuori per appoggiare la lotta,
tentano di spiegare la necessità di articolare le forme di protesta per mi-
nimizzare gli effetti negativi per i lavoratori e massimizzare il danno per
l’azienda. Spiegano che un blocco, sia pur pacifico, e uno sciopero, a ol-
tranza e incondizionato, è difficile da reggere a lungo, anche solo per po-
chi giorni, perché ci sono i viveri da comprare, la casa da custodire, i fi-
gli da mandare a scuola, i genitori da aiutare nei campi. E poi ci sono le
minacce della Fiat e del governo: se non si rimuovono i presidi che bloc-
cano l’accesso allo stabilimento si procederà con la forza per difendere la
proprietà privata e la libera circolazione e stavolta si andrà fino in fondo,
fino alla repressione più dura e brutale.
E ogni cosa, ogni mossa, ogni proposta fatta o ricevuta, viene discussa,
approvata o rifiutata nelle assemblee permanenti davanti ai cancelli della
“fabbrica del futuro”. Quella più carica di tensione si svolge il 29 aprile,
quando gli operai decidono di rimuovere i blocchi ma di continuare lo
sciopero. D’ora in poi chi vorrà potrà tornare senza ostacoli a lavorare, co-
me chiede l’azienda. Cosa succederà ora? È la domanda che tutti si pon-
gono. Senza più l’impedimento, più psicologico che fisico, dei blocchi,
ogni operaia, ogni operaio è solo con se stesso, deve assumersi la respon-
sabilità individuale di continuare la lotta. Per l’azienda non ci sono più
scuse. Ora, chi non entra in fabbrica compie un atto di insubordinazione
personale e potrà pagarla molto cara quando tutto tornerà normale.
E anche stavolta gli operai di Melfi decidono di non entrare, di rima-
nere tutti lì, seduti nella piana di San Nicola, ai bordi della strada ormai
sgombra, con la tranquilla serenità dei loro padri, abituati al lento scor-
rere delle stagioni nei campi assolati e aridi della Lucania. Fanno una so-
la eccezione, quando decidono tutti insieme di recarsi a Roma, il 5 mag-
gio, per manifestare al governo e alla Fiat la loro ferma volontà di non
mollare finché non vedranno riconosciuti i loro diritti.
Passano i giorni e le settimane. La Fiat è ormai in ginocchio. Il blocco
della produzione di Melfi costa decine di milioni di euro ogni giorno, tan-
to per un’azienda già piegata dalla crisi. Altri stabilimenti del gruppo de-
vono essere fermati per mancanza di pezzi, ma anche lì accade che i la-
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EPILOGO 321

voratori non se la prendono con gli operai di Melfi, ma con i padroni e


con il governo. Sono passati ormai ventuno giorni dall’inizio dell’agita-
zione, è il 9 maggio. La FIOM viene improvvisamente pregata di tornare al
tavolo delle trattative e lo fa, ma pretendendo che la delegazione sia com-
posta anche dai rappresentanti di Melfi. Dopo poche ore, di notte, viene
firmato l’accordo. I lavoratori di Melfi hanno vinto, godranno degli stes-
si salari e degli stessi diritti di tutti gli altri lavoratori del gruppo Fiat, an-
zi per alcuni aspetti hanno conquistato qualcosa di più. Il testo dell’ac-
cordo viene sottoposto a referendum, a cui partecipano pressoché tutti i
lavoratori, e approvato a stragrande maggioranza. La lotta è finita e si ri-
torna a lavorare.
Ma ormai Melfi non è più la stessa. La fabbrica, il paesaggio, le mac-
chine sono sempre quelle, uguali a come erano state lasciate venti giorni
prima. A cambiare sono gli operai e le operaie, e con loro tutta la popo-
lazione che, solidale, ha contribuito alla vittoria. Melfi non è più la fab-
brica tecnologica del futuro, luogo asettico e incontaminato dai bisogni,
dai sentimenti e dalle passioni umane, governato da una astratta logica
della produzione e del mercato. Melfi è tornata ad essere fatta di carne e
ossa, di muscoli e di cervelli. Il cuore di Melfi è tornato a battere e co-
mincia a pompare il suo sangue lontano, molto lontano.
Il vento che si era fermato a Cancun è tornato a spirare nella piana di
San Nicola. Ma in direzione opposta. È un vento caldo, il vento del Sud.
Non si fermerà sui massicci appenninici, ma inonderà le colline e le pia-
nure del Settentrione. E se sarà fermato, ricomincerà a soffiare, magari da
qualche altra parte, in un altro continente. E tornerà a riscaldarci. Perché,
come gli operai di Melfi, come i campesinos di Cancun, dopo anni e an-
ni, abbiamo improvvisamente ricominciato a pensare. E siamo sereni e
tranquilli, come i nostri padri, come i nostri nonni. Ma vogliamo andare
più avanti di loro.
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Note

Prologo. Cancun, penisola dello Yucatán, Messico, settembre 2003.


Il vento si è fermato

1. Per una testimonianza di uno dei protagonisti della “battaglia di Seattle” cfr. Bové
- Dufour (2000), pp. 135-167. Sugli eventi di Seattle cfr. anche George (2000).

2. Cfr. in proposito la relazione svolta, appena tre mesi dopo gli avvenimenti di Seat-
tle, in occasione di un seminario tenuto alla Columbia University da Smith (2000),
docente di Sociologia alla State University di New York. In essa, oltre a una detta-
gliata analisi degli avvenimenti di Seattle, si pone l’attenzione sui caratteri assolu-
tamente inediti e teoricamente innovativi del nuovo movimento globale.

PARTE PRIMA. Per un altro mondo

1. Il WTO e la globalizzazione neoliberista

1. 1. Sostiene questa tesi, ad esempio, Tiberi (2001). Diverso è invece l’uso della ca-
tegoria di imperialismo che fanno altri autori marxisti come Dumenil e Lévy, se-
condo i quali l’imperialismo non rappresenta, come per Lenin, un particolare sta-
dio del modo di produzione capitalistico ma una sua caratteristica permanente, pre-
sente fin dagli albori della sua nascita. In questa interpretazione neomarxista l’im-
perialismo odierno sarebbe diverso da quello del XIX e XX secolo, poiché sareb-
be entrato nella fase del neoliberismo globale, dove avrebbero perso di importan-
za i precedenti fattori geopolitici a vantaggio dei fattori geoeconomici e finanziari.
Questa nuova teoria dell’imperialismo è più vicina alle analisi del paradigma inter-
pretativo della globalizzazione neoliberista, piuttosto che a quelle della teoria clas-
sica dell’imperialismo, perché mette l’accento sulle novità strutturali del capitali-
smo contemporaneo. Cfr. Duménil - Lévy (2003).

2. Cfr. Newell (2002), p. 8.

3. Salvo diverse indicazioni, i dati utilizzati in questo paragrafo sono presi da WTO
(2003).
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324 NOTE

4. Questa, ad esempio, è la tesi sostenuta da Bairoch - Kozul-Wright (1996) e da Dal


Bosco (2004).

5. Per il 1910 i dati sono presi da Bairoch (1999), p. 540, e per il 2003 da European
Commission (2004b), p. 101.

6. Ad esempio, nel corso degli anni Settanta, in presenza di forti turbolenze nei mer-
cati valutari, connesse al crollo del regime di Bretton Woods, e nei mercati delle ma-
terie prime, derivanti dagli shock petroliferi, a fronte di un aumento medio annuo
del valore dell’export pari addirittura a oltre il 20 per cento e del valore della pro-
duzione di solo il 4,3 per cento, l’aumento in termini di volume fisico è stato del 4,3
per cento sia per le esportazioni, sia per il PIL.

7. Bairoch (1999), p. 538.

8. Cfr. Bairoch (1996), tabella 4.1, p. 67.

9. Cfr. Petras - Veltmeyer (2002), pp. 56-60.

10. Cfr. Lémpèriere (1995).

11. Le materie prime, che nel 1980 rappresentavano il 25,7 per cento dell’export mon-
diale, sono scese nel 1998 al 14,8 per cento, mentre i prodotti a medio-alta intensità
tecnologica sono passati nello stesso periodo dal 46,6 per cento al 59,8 per cento;
cfr. UNCTAD (2002), p. 68.

12. Cfr. UNCTAD (2002), pp. 62-64. Secondo Bellofiore (1999) questo dato sarebbe
il risultato della diffusione del sistema “fordista” piuttosto che quello dello svilup-
po di un nuovo modello “postfordista” di produzione. Resta, comunque, il fatto
che, al di là delle definizioni, nel corso degli ultimi decenni l’internazionalizzazio-
ne della produzione è aumentata in una maniera mai sperimentata in passato.

13. I dati sulle imprese multinazionali sono tratti da Anderson - Cavanagh (2000).

14. Una esposizione esemplare di questa tesi è contenuta nel rapporto sulla globaliz-
zazione economica del Comitato economico congiunto del Parlamento degli USA
stilato nel maggio 2002; cfr. Saxton (2002).

15. Cfr. Hoekmann - Mattoo - English (2002), pp. 562-566.

16. Cfr. Bairoch (1999), p. 537.

17. Cfr. Rodrik (2001) e UNDP (2003), pp. 28-32.

18. Per una critica delle basi teoriche della dottrina neoliberista del commercio inter-
nazionale cfr. Orati (2003).

19. Analizzando la storia economica del XIX secolo, Bairoch (1996), p. 78, scrive che
«regolarmente, il protezionismo ha condotto all’industrializzazione e allo sviluppo
economico, o almeno ha agito come fattore concomitante. Inoltre, nei quattro
esempi di liberismo, tre ebbero conseguenze negative o molto negative».
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NOTE 325

20. I dati seguenti sono tratti da UNDP (2002) e da Weller - Scott - Hersh (2001). Per
un esame del rapporto tra globalizzazione e crescita delle disuguaglianze cfr. Gal-
lino (2000). Sulla relazione tra squilibri demografici e tassi di crescita cfr. Alessan-
drini - Ricci (1995). Lo studio di Milanovic (2002) mostra come in entrambi i pe-
riodi di globalizzazione, quello attuale e quello del 1870-1913, le divergenze tra
paesi nella crescita economica e nella distribuzione del reddito tendono a crescere
rispetto ai periodi di relativa chiusura dei mercati internazionali.

21. In questo libro si utilizzano soltanto due elementari concetti statistici, quello di me-
diana e di media (aritmetica). Dato un insieme di dati, ordinati in modo crescente,
dal più piccolo al più grande, il valore mediano è quello che si colloca esattamente
a metà, cioè che spacca in due parti di uguale numerosità la distribuzione statisti-
ca, mentre il valore medio rappresenta la somma totale dei valori dei dati divisa per
il loro numero e rappresenta il valore che ogni dato assumerebbe se tutti i valori
della distribuzione fossero uguali, cioè se il totale fosse uniformemente distribuito.
Facciamo un esempio pratico. Supponiamo di avere la seguente distribuzione: 1,
5, 14, 30, 50. In questo caso il valore mediano è 14 e il valore medio è 20.

22. La disuguaglianza nella distribuzione del reddito può essere misurata in molti mo-
di. Uno degli indicatori più usati è l’indice di Gini, che mostra di quanto la distri-
buzione reale si allontana da quella perfettamente egualitaria. L’indice di Gini è pa-
ri a zero in caso di perfetta uguaglianza e pari a uno in caso di completa concen-
trazione. Questo indice verrà utilizzato anche nei capitoli successivi. Sulle diverse
misure della disuguaglianza cfr. Checchi (1997), cap. 1.

23. Cfr. Biancotti (2004).

24. Sull’evoluzione del sistema commerciale internazionale dal GATT al WTO cfr.
Shukla (2000). Per una breve storia del sistema commerciale internazionale cfr. Gil-
pin (2003), cap. 8. Cfr. anche George (2004), pp. 58-63.

25. Per un dettagliato esame dei principi e delle clausole della Carta dell’Avana e del-
l’ITO cfr. Drache (2000).

26. George (2002), p. 18.

27. Cfr. Grace (2000).

28. WTO (2001).

29. Nel libro di Wallach - Sforza (2000) sono analizzati alcuni illuminanti casi oggetto
di controversia in sede WTO.

30. Sui rapporti di stretta collaborazione tra le istituzioni di Bretton Woods e il WTO
cfr. Rowden (2001) e Caliari (2002).

31. Sul ruolo delle multinazionali nelle attività del WTO cfr. Hertz (2001), pp. 87-95.

32. Per una puntuale analisi sui meccanismi reali di funzionamento del WTO cfr. Kwa
(2003). Una descrizione cruda delle dinamiche interne al WTO è in Ziegler (2003),
pp. 143-161.
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326 NOTE

33. Cfr. Parlamentary Conference on the WTO (2003).

34. Per un esame dei contenuti dell’accordo TRIPS dal punto di vista dei paesi meno
sviluppati cfr. UNCTAD (2002). Cfr. anche UNDP (2003), cap. 11.

35. Sugli aspetti legali ed economici dell’estensione del diritto di brevettazione cfr.
Maréchal (1999).

36. Su 1.223 principi attivi immessi sul mercato tra il 1975 e il 1997 dalle aziende far-
maceutiche, soltanto 13 sono finalizzati alle malattie tropicali, di cui 5 derivati da ri-
cerche veterinarie. Sulla politica commerciale delle multinazionali farmaceutiche,
protetta dal WTO, e sulla loro responsabilità nella negazione di cure sanitarie es-
senziali per milioni di persone, in particolare dell’Africa del Sud, cfr. Bulard (2000),
da cui sono tratti i dati riportati nel testo.

37. Sul sistematico boicottaggio dei paesi occidentali e in particolare degli USA, in me-
rito all’applicazione concreta della Dichiarazione di Doha, cfr. Love (2003).

38. Sulle forme di tutela monopolistica dei diritti di proprietà intellettuale garantiti dal
WTO cfr. Antinucci (2002).

39. Tra i tanti lavori dedicati all’esame delle clausole e degli effetti dell’accordo GATS si
segnalano: Secretariat OMC (1999), Krajewski (2001), Wesselius (2002), Woodroffe
(2002), Sinclair - Grieshaber Otto (2002), Gould (2002), Friends of the Earth (2002).

40. Gli effetti della privatizzazione dei servizi idrici, imposti dal WTO attraverso l’ac-
cordo GATS, sulla disponibilità di acqua per le popolazioni del Sud del mondo so-
no analizzati in Shiva (2003).

41. I veri contenuti dell’accordo MAI, negoziato in segreto dentro l’OECD fin dal
1995, divennero di pubblico dominio grazie a una serie di articoli pubblicati da «Le
Monde Diplomatique», cfr. Albala (1998) e Wallach (1998), dopo i quali si orga-
nizzò un esteso movimento di opinione, in particolare in Francia. Sulla riuscita mo-
bilitazione popolare contro l’accordo MAI cfr. De Brie (1999). Sul ruolo del WTO
come possibile sostituto dell’abortito MAI cfr. Kohr (1997).

42. Sulla “ribellione” dei paesi del Sud del mondo alla conferenza di Seattle, in siner-
gia con le contestazioni di piazza, cfr. l’analisi di Sinai (2000).

43. Sul percorso da Seattle a Doha cfr. George (2002), pp. 80-92.

44. Sui risultati della conferenza di Doha cfr. La Vina - Yu III (2002) e WTO (2002).

45. Sin dal 1979, in occasione del Tokyo Round, ai paesi in via di sviluppo sono state ri-
conosciute clausole speciali, denominate Special and Differential Treatment (Tratta-
mento speciale e differenziato – S&D), allo scopo di introdurre misure di riequili-
brio economico internazionale. In particolare, gli S&D riconoscevano un accesso
preferenziale al mercato per i prodotti dei PVS e una maggiore flessibilità per i PVS
nell’applicazione dei trattati commerciali, al fine di garantire a questi paesi l’auto-
nomia necessaria a perseguire politiche economiche di sviluppo. Nel corso degli an-
ni Ottanta e Novanta, sotto la spinta dell’ideologia neoliberista, gli S&D sono stati
rimessi in discussione, anche attraverso la pressione esercitata dal FMI e dalla Ban-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:41 Pagina 327

NOTE 327

ca Mondiale in occasione della negoziazione delle condizioni per i prestiti e i pro-


grammi di aggiustamento strutturale. Con gli accordi dell’Uruguay Round il princi-
pio degli S&D è stato tradotto in modo restrittivo, nel senso di concedere ai PVS sol-
tanto tempi relativamente più lunghi per l’applicazione degli obblighi alla liberaliz-
zazione derivanti dai trattati, senza tuttavia prevedere la possibilità di differenziare
permanentemente gli obblighi a seconda del livello di sviluppo del paese. Inoltre,
con gli accordi dell’Uruguay Round, gli S&D sono stati inseriti in forme generiche,
vaghe e non vincolanti, non adeguate a proteggere i PVS da eventuali dispute legali
nel nuovo regime WTO. La Dichiarazione finale di Doha ha riconosciuto l’esigen-
za di rivedere gli S&D per dare maggiore garanzia di flessibilità alle politiche eco-
nomiche dei PVS e ha stabilito la necessità di riscrivere gli S&D in forme chiare e
precise, di tutela e garanzia per i PVS nei confronti delle dispute legali in sede WTO.

46. Sulla I conferenza WTO di Singapore, cfr. Cassen (1996). Sulle Singapore issues cfr.
Charlton (2004).

47. Una ricostruzione in tempo reale degli avvenimenti di Cancun è reperibile nei bol-
lettini giornalieri sui lavori della conferenza WTO a cura dell’ICTDS (2003). Cfr.
anche il bollettino mensile dell’ICTDS. Sulla I conferenza WTO di Singapore, cfr.
Cassen (1996).

48. Sull’accordo agricolo in sede WTO cfr. Weeks (1999) e Murphy (2002).

49. Sull’impatto di queste problematiche sulle agricolture di tipo tradizionale cfr. Ma-
zoyer - Routard (1997).

50. Per un’analisi della formazione del G21 cfr. l’intervista a Vandana Shiva, in Jampa-
glia (2004).

51. Sull’agenda dell’ALCA definita a Santiago del Cile nel 1998 e sulle sue intercon-
nessioni con il controllo politico e militare degli USA nell’America Latina, cfr. Ha-
bel (2000) e Brunelle (2001).

52. Le osservazioni critiche della società civile americana rispetto alla bozza del tratta-
to ALCA sono contenute in HSA (2003). Un’ampia e articolata piattaforma alter-
nativa rispetto al progetto dell’ALCA è quella predisposta dalla rete di associazio-
ni che hanno dato vita all’Hemispheric Social Alliance; cfr. HSA (2002).

53. Sul Plan Colombia come strumento di violenta e agghiacciante repressione delle ri-
vendicazioni popolari e democratiche cfr. il libro di Piccoli (2003).

54. Sul Plan Puebla Panama cfr. Moro (2002).

55. Per un’analisi sul legame esistente tra progetto dell’ALCA e “dollarizzazione”, sul-
le sue possibili conseguenze per l’autonomia politica ed economica dell’America
Latina e sulla proposta alternativa di un’unione monetaria regionale latinoameri-
cana, cfr. Formento (2002).

56. La posizione del Venezuela è esposta in un opuscolo ufficiale, redatto in lingua spa-
gnola e inglese, del governo, che contiene anche le linee negoziali tenute all’interno
del WTO dalla delegazione venezuelana; cfr. Presidential Commission for the FTAA
(2003).
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328 NOTE

57. Il 4 luglio 2002 l’Unione Europea, nell’ambito dei negoziati GATS, ha avanzato le
richieste di liberalizzazione dei settori di servizi a 109 paesi membri del WTO. Sol-
tanto alla fine di febbraio 2003, tuttavia, sono stati resi noti all’opinione pubblica i
contenuti delle richieste. Dei 109 paesi oggetto delle richieste di liberalizzazione,
ben 94 sono PVS e di questi 29 sono classificati come LDC (Least Developed
Country), cioè sono i paesi più poveri del mondo. Le richieste europee rivendica-
no in particolare la totale liberalizzazione dei settori idrico, energetico e del sistema
di telecomunicazioni.

58. Sull’accordo UE-MERCOSUR cfr. Torelli (2003).

59. Sugli accordi commerciali dell’UE con il Messico e il Cile cfr. Szepesi (2004).

60. Cfr. Berthelot (2000), per un’analisi degli accordi di partenariato economico regio-
nale dell’UE con i paesi dell’ACP (Africa, Caraibi, Pacifico) e del loro impatto in
particolare sul commercio agricolo. Sui deludenti risultati della convenzione di
Lomé cfr. Mouradian (1995 e 1998).

61. Per un esame della disputa giuridica sulle banane in seno al WTO cfr. Drache et
al. (2002).

62. Sui negoziati avviati in vista della scadenza del 2008 cfr. Stevens (2002).

2. Il dominio del dollaro e il fallimento del FMI e della Banca Mondiale

1. Ad esempio, qualche anno fa il rapporto annuale dell’UNCTAD (2001) è stato de-


dicato a questo tema. Anche la Commissione Europea ha promosso uno studio in
cui si passano in rassegna le principali ipotesi di riforma del sistema finanziario in-
ternazionale; cfr. European Commission (2002d). Sulla riforma del sistema mone-
tario internazionale cfr. i contributi racolti in Little - Olivei (1999, eds.).

2. La letteratura sulla storia del sistema monetario internazionale è sterminata. In que-


sta sede mi limito a fornire soltanto alcune, parziali, indicazioni bibliografiche che
sono state maggiormente utilizzate come riferimento per la redazione del presente
capitolo: Gilpin (2001 e 2003), Krugman - Obstfeld (1991, parte quarta), Parboni
(1985), De Cindio (1962), Eichengreen (1994), De Cecco (1979), Kindleberger
(1987), James (1999), Strange (1988 e 1999).

3. Sul piano Keynes e sul ruolo avuto dall’economista inglese nelle trattative di Bret-
ton Woods cfr. Harrod (1974), cap. 13.

4. Per un esame critico sul ruolo del FMI e della Banca Mondiale negli anni Novanta
cfr. i saggi contenuti nel volume di Alternatives Sud (1999).

5. Sui meccanismi decisionali antidemocratici prevalenti all’interno del FMI e della


Banca Mondiale cfr. Caliari - Schroeder (2003).

6. Sulla centralità assoluta delle privatizzazioni nell’approccio del Washington Con-


sensus cfr. Cramer (1999).

7. Sulle gravi conseguenze economiche e sociali dei piani di aggiustamento struttura-


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NOTE 329

le imposti dal FMI e dalla Banca Mondiale ai paesi del Sud del mondo negli anni
Ottanta e Novanta cfr. Bello (2004). Sulla incongruenza di un meccanismo genera-
lizzato di crescita basato sulle esportazioni cfr. Palley (2002)

8. Cfr. Saprin (2002).

9. Per un dettagliato esame del supporto delle organizzazioni economiche internazio-


nali all’espansione globale della Enron cfr. Vallette - Wysham (2002).

10. Sul ruolo e sul funzionamento interno del FMI e della Banca Mondiale nel corso
degli anni Novanta è esemplare la testimonianza e l’analisi di un autorevole perso-
naggio del calibro di Sitglitz (2002) che, oltre ad aver ottenuto il premio Nobel per
i suoi studi economici, è stato anche vicepresidente della Banca Mondiale in questo
periodo. Sul clima di conformismo intellettuale e di mercenariato che domina den-
tro la Banca Mondiale cfr. anche Ziegler (2002).

11. Una valutazione critica del “nuovo corso” del FMI e della Banca Mondiale è con-
tenuta nel volume collettaneo edito da Focus on The Global South (2000). Per
un’analisi dei PRPS e dei PRGF cfr. Focus on the Global South (2003). Sul “Mon-
terrey Consensus” cfr. Radke (2002). Per una critica delle basi teoriche che stanno
dietro il tentativo di ampliare l’originario Washington Consensus con nuovi assetti
istituzionali cfr. Rodrik (2002).

3. Per un nuovo ordine economico internazionale

1. Una dettagliata panoramica sullo svolgimento dei negoziati del Doha Round e sul-
le diverse posizioni assunte dai principali gruppi di paesi alla vigilia del vertice di
Cancun è in ICTSD (2003) e in Razeen (2003).

2. Rapporto Brandt (1980).

3. Per un commento critico sull’accordo del 31 luglio 2004 cfr. Meregalli (2004) e Bel-
lo - Kwa (2004).

4. Per una rassegna delle diverse impostazioni in merito al WTO presenti all’interno
del movimento altromondialista cfr. i lavori di Keet (2000), Barry (2001) e Bond
(2001). Sulle proposte di riforma avanzate dalle ONG cfr. Third World Network
(2001), pp. 79-96, Oxfam (2001) e Jacobs (2002).

5. Uno dei principali sostenitori di questa posizione, ben prima di Seattle, è Walden
Bello. Cfr. Bello (2002), cap. 2.

6. Sulla storia del dibattito sul nuovo ordine economico internazionale all’interno del-
l’ONU cfr. Sneyd (2003).

7. Un convinto sostenitore del bilateralismo e del regionalismo nelle relazioni econo-


miche Sud-Sud è Samir Amin (2002), pp. 195-203. Per un esame comparato delle
esperienze del MERCOSUR, del SADC e dell’ASEAN cfr. Keet (2004).

8. Sui devastanti effetti del NAFTA sull’economia messicana, e in particolare sulle


condizioni dei lavoratori, cfr. Murus (2004).
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330 NOTE

9. L’organizzazione che più spinge per un rilancio del ruolo dell’UNCTAD è Focus on
the Global South, un influente istituto di ricerca economica con sede a Bangkok,
ascoltato anche dalle élite ufficiali di governo dei paesi del Sud del mondo, il cui di-
rettore è Walden Bello, un autorevole economista attivo nel movimento. Sulla sto-
ria e sul ruolo dell’UNCTAD cfr. Bello (2002), cap. 1.

10. Sulla necessità di una riforma della PAC compatibile con le esigenze di riequilibrio
poste dai paesi del Sud del mondo cfr. Mazier (2003).

11. Il principio della sovranità alimentare è alla base della piattaforma di lotta di Via
Campesina, un movimento mondiale composto da circa settanta organizzazioni
contadine del Sud e del Nord del mondo, con oltre cinquanta milioni di aderenti.
Su Via Campesina e la sovranità alimentare cfr. Fabbris (2003) e Borras (2004).

12. Cfr. Shiva (2002a). Un bel libro dove si raccontano venticinque episodi di lotta di
comunità nel Sud del mondo per la difesa del proprio territorio, del proprio am-
biente e della propria cultura è quello di Forti (2004).

13. Per un esame delle diverse forme di protezionismo cfr. Shiva (2002b). Dell’esigen-
za di un nuovo “protezionismo altruista” finalizzato a salvaguardare i modelli so-
ciali più avanzati parla Cassen (2000).

14. Cfr. International Financial Institution Advisory Commission (2000). Una rassegna
delle posizioni ufficiali intorno alla riforma dell’architettura finanziaria internazio-
nale è in Goldstein (2001) e Saccomanni (2002), cap. VI.

15. Per un’analisi critica del Rapporto Meltzer cfr. Heinrich Boll Foundation (2000).

16. La proposta di nuove istituzioni economiche globali in sostituzione di quelle esi-


stenti è stata avanzata nel rapporto dell’International Forum on Globalization
(2002), un organismo formato da diciannove tra i più autorevoli economisti antili-
beristi del mondo, che ha lavorato per tre anni all’elaborazione di una concreta
piattaforma alternativa per un nuovo ordine economico globale. L’idea di abolire
il FMI è discussa in Bello (2002). Cfr. anche Gardiner (2002).

17. L’istituzione di una Corte Internazionale per l’Insolvenza è stata richiesta ufficial-
mente dall’UNCTAD e dal governo canadese. A seguito della crisi argentina que-
sto tema è entrato nell’agenda di discussione del FMI, il quale tuttavia è orientato
a promuovere forme contrattuali di rinegoziazione del debito basate sull’assenso
della maggioranza dei creditori piuttosto che verso la creazione di organismi giuri-
sdizionali; cfr. Carvalho (2002).

18. Ad esempio, in un documento inviato da numerose associazioni civili, sindacali e


religiose degli USA al dipartimento del Tesoro si è chiesta la riduzione del debito
estero a un livello tale che il suo onere non superi il 10 per cento del PIL del paese
debitore (il 5 per cento in caso di paesi poverissimi); cfr. US Civil Society Coalition
(2002).

19. Cfr. Chul Park - Wang (2000).

20. Questa proposta sarà ripresa nel capitolo 7, dove sono riportate anche le necessarie
referenze bibliografiche di approfondimento.
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NOTE 331

21. Cfr. Wachtel (1998).

22. Sui punti di forza e di debolezza dell’attuale egemonia monetaria mondiale eserci-
tata dagli USA cfr. Arrighi (2004).

23. Cfr. European Commission (2004,c), p.131.

24. Per uno studio sull’evoluzione della composizione delle riserve monetarie e delle
sue determinanti cfr. Eichengreen - Mathieson (2000).

25. La ripresa in una “versione conflittuale” del Piano Keynes del 1943 è stata recen-
temente avanzata da Brancaccio (2003). La proposta di una vera e propria banca
centrale globale è stata indicata come obiettivo del movimento sociale mondiale da
Brecher - Costello - Smith (2001), p. 150.

26. In diverse occasioni il premio Nobel per l’economia, Robert Mundell, uno dei pa-
dri della moderna teoria macroeconomica internazionale, ha espresso il suo accor-
do verso tale ipotesi; cfr. Mundell (2001), in cui viene anche citata l’opinione di
Paul Volcker, già governatore della Federal Reserve, secondo cui «a global eco-
nomy needs a global currency». Per un panoramica su questo punto di vista cfr.
Feasta (2004) e Budd (2004).

27. Sulla imprevedibilità e quindi sull’intrinseca instabilità dell’attuale sistema mone-


tario internazionale, rispetto a quelli che lo hanno storicamente preceduto, cfr. l’a-
nalisi di Eichengreen (2004).

28. In occasione del sessantesimo anniversario della conferenza di Bretton Woods la


proposta di una nuova conferenza internazionale per ridisegnare le relazioni fi-
nanziarie e monetarie globali ha trovato un autorevole sostenitore nel premio No-
bel per l’economia Robert Mundell (2004). Già da tempo un altro convinto soste-
nitore di questa proposta è l’intellettuale ed economista statunitense Larouche
(2001), che è stato anche candidato alle elezioni primarie del Partito Democrati-
co per scegliere lo sfidante di Bush nelle elezioni di novembre 2004.

29. Per una ricostruzione storica dei processi di riforma del sistema monetario inter-
nazionale negli ultimi due secoli cfr. Eichengreen - James (2001).

30. Una delle rare analisi obiettive, svolte da un prestigioso centro di ricerca internazio-
nale esterno all’area del movimento, dove si passano in rassegna i diversi approcci
che animano le lotte per un’altra globalizzazione, è quella di Forrer - Wilkins (2003).

31. Si tratta dell’ultima lirica dei Canti di Giacomo Leopardi, “La ginestra o il fiore del
deserto”, pubblicata postuma nel 1845.

32. Lungo questo asse si snoda la rifondazione di una nuova identità comunista in Ita-
lia e in Europa; cfr. Bertinotti - Gianni (2002).
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332 NOTE

PARTE SECONDA. Per un’altra Europa

4. Il declino dell’Europa

1. Si tratta del Rapporto Sapir (2004).

2. Uno dei primissimi atti del governo di centrodestra francese, appena insediato do-
po le elezioni della primavera del 2002, è stato quello di consentire, attraverso l’am-
pliamento delle ore concesse di straordinario, il ritorno alla settimana lavorativa di
trentanove ore, soddisfacendo in pieno le richieste della Confindustria francese; cfr.
Lagneau-Ymonet (2002).

3. Cfr., ad esempio, Faini (2004) e Blanchard (2004), ripresi nel rapporto annuale del-
l’ISAE (2004). A livello giornalistico questa tesi è stata rilanciata in Italia da Ko-
storis-Padoa Schioppa (2004), nell’ambito del dibattito suscitato dalla proposta di
Berlusconi sulla riduzione delle ferie e dei ponti feriali.

4. I dati sono presi da Martin - Durand - Saint-Martin (2003).

5. Ad esempio, Faini (2004), sulla base di una scomposizione del tasso di crescita del
reddito basata su fattori demografici e sulle ore lavorate per addetto, stima che la ri-
duzione dell’orario medio annuo di lavoro abbia ridotto la crescita economica di
ben lo 0,62 per cento annuo nel periodo 1979-2001.

6. La misurazione della produttività può avvenire sulla base di diversi indici. Due so-
no le misure più usate della produttività del lavoro. La prima è la produttività per
addetto e misura il reddito prodotto da ciascun occupato, ottenuta dividendo il PIL
per il numero degli occupati. La seconda è la produttività per ora di lavoro e mi-
sura il reddito prodotto in un’ora di lavoro, ottenuta dividendo il PIL per il nume-
ro totale di ore-lavoro nell’economia. Sulle differenti misure della produttività cfr.
Schreyer - Pilat (2001).

7. Utilizzando una funzione aggregata di produzione alla Solow, si verifica facilmen-


te che il tasso di variazione della produttività per addetto è direttamente propor-
zionale alla variazione della produttività totale dei fattori (che può essere conside-
rata un indicatore del progresso tecnico e dell’efficienza organizzativa) e alla varia-
zione del capitale netto impiegato nella produzione, mentre è inversamente pro-
porzionale alla variazione del numero degli occupati e della quantità di ore-lavoro
di ciascun occupato.

8. Cfr. Sapir (2004), pp. 34-35.

9. Il metodo analitico per costruire la tabella che scompone la crescita economica nei
diversi fattori di offerta è stato il seguente.
Il reddito (Y) può essere scomposto nella produttività del lavoro per addetto (Y/L)
e nella quantità di lavoro (L):
(1) Y = (Y/L) L = Po L, con Po = (Y/L).
In termini di tassi di variazione la relazione (1) può essere scritta nei seguenti ter-
mini:
(2) y = pl +l, dove le lettere minuscole indicano i tassi di variazione delle variabili.
Utilizzando una funzione aggregata di produzione alla Solow, pl può essere scritto
nel seguente modo:
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NOTE 333

(3) pl = t +a k – a l, dove t è la variazione della produttività totale dei fattori che può
essere interpretata come un indice del miglioramento dell’efficienza tecnica e or-
ganizzativa, a è l’inverso del rapporto tra capitale netto e prodotto ed è compreso
tra zero e uno, k è il tasso di accumulazione del capitale e l il tasso di crescita della
quantità di lavoro.
A sua volta la quantità di lavoro può essere scomposta nel numero medio di ore an-
nue lavorate da ciascun addetto (Hm) e nel numero degli addetti (O):
(4) L = Hm O
Sostituendo la (3) e la (4) nella (2) abbiamo:
(6) y = t +a k +(1 – a) hm +(1 – a) o.
Per trovare la variazione del reddito pro capite basta sottrarre il tasso di variazio-
ne della popolazione (i) dalla (5), cioè:
(7) ypc = t +a k +(1 – a) hm +(1 – a) o – i.
La (6) è la funzione usata per costruire la tabella.
La variazione della produttività oraria è:
yh = t +a k – a (hm +o)
dove si vede che la riduzione delle ore lavorate in media per occupato aumenta la
produttività oraria.
La variazione della produttività per addetto è: yo = t +a k +(1 – a) hm – a o
dove si vede che la riduzione delle ore lavorate in media per occupato e l’aumento
del numero degli occupati riducono la produttività per addetto.

10. Cfr. European Commission (2003b).

11. Per un esame delle misure di riduzione dell’orario di lavoro nei paesi europei cfr.
Buffardi (2000).

12. Cfr. European Commission (2003a).

13. Cfr. Evans - Lippoldt - Pascal (2001).

14. Dati OECD.

15. Cfr. European Commission (2003a), p. 129.

16. Cfr. European Commission (2003a), p. 184.

17. Cfr. Torrini (1999).

18. Le statistiche sono tratte da European Commission (2003a), p. 168. Nel 1999 i mor-
ti sul lavoro erano stati 5.275.

19. Cfr. gli studi di van Ark (2001) e van Ark - Inklaar - McGuckin (2002).

20. European Commission (2003b).

21. Sulla “strategia di Lisbona” cfr. Padoan (2003).

22. Sulle cause del maggiore tasso di accumulazione negli USA rispetto all’Europa cfr.
Caselli - Pagano - Schivardi (2000), dove attraverso un’analisi di tipo econometri-
co emerge l’importanza fondamentale dei fattori di domanda sulla dinamica degli
investimenti.
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334 NOTE

23. Dati IMF (2004).

24. Dati WTO (2003).

25. Cfr. l’analisi critica delle linee guida di politica economica dell’UE 2002-05 effet-
tuata da Frangakis (2003) nell’ambito dell’Euromemorandum (2003) per una poli-
tica economica alternativa in Europa, stilato da vari anni da un nutrito gruppo di
economisti europei critici verso l’Europa di Maastricht.

26. Esercizi di simulazione econometrica hanno stimato che se l’Europa avesse segui-
to una politica monetaria simile a quella della Fed e avesse allentato i vincoli fisca-
li, avrebbe raggiunto nel triennio 2001-03 un tasso di crescita triplo rispetto a quel-
lo realizzato, con una significativa riduzione del tasso di disoccupazione e al prez-
zo di un aumento dei disavanzi pubblici molto modesto; cfr. Boltho (2003).

27. Per una lucida e dettagliata analisi della risposta di politica economica data negli
USA allo scoppio della crisi di inizio secolo cfr. il saggio di Brenner (2004).

28. Sulla tendenza affermatasi nei paesi europei, anche in quelli guidati da forze di cen-
trosinistra come la Gran Bretagna di Tony Blair, a imitare il modello sociale ameri-
cano, cfr. il bel libro di Hutton (2003).

5. Il manifesto ideologico di Maastricht

1. Sulle asimmetrie strutturali insite nel meccanismo di aggiustamento dello SME cfr.
Parboni (1985), cap. 5. Sul funzionamento dello SME cfr. i saggi contenuti nella
prima e seconda parte del libro di Padoa-Schioppa (2004).

2. Sulla lunga e complessa vicenda politica che ha portato all’Unione Monetaria Eu-
ropea cfr. Castronovo (2004).

3. Sulla crisi valutaria del settembre 1992 e, più in generale, sull’esperienza dello
SME, con particolare riferimento all’economia italiana, cfr. Graziani (1996).

4. Sul Piano Werner e sul dibattito negli anni Settanta intorno all’unificazione mone-
taria europea cfr. Magnifico (1976).

5. Sulle tre fasi dell’UEM cfr. Triulzi (1999) pp. 436-4.

6. Pasinetti (1998), passando in rassegna la voluminosa letteratura sorta per dimo-


strare la validità economica dei parametri di Maastricht, ha mostrato come nessun
contributo sia riuscito a fornire una giustificazione teorica agli specifici vincoli
quantitativi posti alle finanze pubbliche e ha concluso che in realtà la sostenibilità
del bilancio pubblico può essere raggiunta con infinite combinazioni di politica fi-
scale e di gestione del debito pubblico. Cfr. anche Brancaccio (2002).

7. Per una tassonomia delle configurazioni istituzionali di un’area monetaria sulla ba-
se dei meccanismi di aggiustamento regionale in essa prevalenti cfr. Ricci (1993a).

8. Per un’analisi comparativa delle diverse strade perseguite dagli USA e dall’UE per
arrivare all’unificazione monetaria cfr. Eichengreen (1991).
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NOTE 335

9. Cfr. Farina - Tamborini (2002).

10. Bellofiore (2004), ad esempio, ha definito “cripto-keynesismo” il comportamento


del governatore della Federal Reserve.

11. Sui diversi approcci teorici all’integrazione economica cfr. Ricci (1991).

12. L’autore che per primo, fin dagli anni Cinquanta, ha indagato dal punto di vista teo-
rico i processi di causazione circolare e cumulativa è stato l’economista svedese,
premio Nobel per l’economia, ministro del Commercio nell’immediato dopoguer-
ra e segretario esecutivo della CEE, Gunnar Myrdal. Si veda il suo classico libro,
in edizione italiana, Myrdal (1974).

13. Sui meccanismi di aggiustamento all’interno di un’area monetaria in presenza di


imperfezioni del mercato e di squilibri territoriali e sulla necessità di una redistri-
buzione fiscale interna all’area cfr. Ricci (1993b).

14. Ad esempio, nel 1974 fu pubblicato un rapporto, stilato da cinque autorevoli eco-
nomisti dei principali paesi europei (Caincross per l’Inghilterra, Giersch per la Ger-
mania, Lamfalussy per il Belgio, Petrilli per l’Italia e Uri per la Francia) in cui si so-
steneva la necessità di affiancare l’unificazione monetaria a una unificazione fisca-
le per garantire i meccanismi perequativi e redistributivi interni all’area, conside-
rati indispensabili per alleviare il peso economico giudicato altrimenti insostenibi-
le per le regioni più povere; cfr. Caincross et al. (1975). Ugualmente influenti su
questo tema furono allora i lavori di Holland (1976 e 1977).

15. Sulla politica fiscale negli anni di Maastricht, cfr. Buti - Sapir (1999), parte terza.

16. Sugli effetti redistributivi e recessivi degli alti tassi di interesse nell’Europa di Maa-
stricht cfr. Fitoussi (1997), cap. 3.

17. Vedi Relazione annuale del governatore della Banca d’Italia, vari anni.

18. Cfr. European Commission (2004).

19. Cfr. Joumard (2001).

20. Cfr. Caselli - Rinaldi (1998).

21. Cfr. Sapir (2004), pp. 69-79.

22. Cfr. Paci - Pigliaru - Pugno (2002).

23. Per un’evidenza econometrica di queste tendenze cfr. Croci Angelini (2002).

24. Dati European Commission (2004).

25. Le stime sulla disuguaglianza nella distribuzione del reddito all’interno dell’UE so-
no contenute nello studio di Morrisson - Murtin (2004). Per i dati sulla povertà cfr.
European Commission (2003a).

26. Cfr. European Commission (2003b), p. 45.


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336 NOTE

27. Cfr. Dennis - Guio (2003).

28. Cfr. European Commission (2003b), p. 80.

29. Cfr. European Commission (2003b), p. 125.

30. Cfr. European Commission (2003a), p. 189.

31. Fin dalla nascita del governo Prodi, Rifondazione Comunista aveva sostenuto la ne-
cessità di uscire dalle politiche di Maastricht, cfr. PRC (1996). Ciononostante, per
due anni, fino all’ammissione dell’Italia nell’area dell’euro, il PRC continuò ad ap-
poggiare dall’esterno il governo, anche in occasione delle manovre finanziarie del
1997 e del 1998, molto pesanti sul piano finanziario.

6. Il Patto di Stabilità e Crescita europeo

1. È questa la lucida analisi del significato e delle ragioni della sospensione del PSC
condotta da Bellofiore - Gianni (2004).

2. Un’analisi critica del PSC che evidenzia i presupposti monetaristi e neoliberisti che
stanno alla base della sua costruzione è in Arestis - McCauley - Sawyer (1999).

3. Si tratta dei regolamenti n. 1466/97 e n. 1467/97.

4. Cfr. Buti - Sapir (1999), pp. 171-203.

5. Sul progressivo slittamento dell’obiettivo dell’occupazione verso un generico im-


pegno a garantire condizioni di occupabilità, avvenuto nelle sedi comunitarie, dal
Consiglio Europeo di Lisbona nel 2000 a quello di Barcellona nel 2002, cfr. Ago-
stinelli (2002).

6. Cfr. Balassone - Monacelli (2000).

7. Cfr. European Commission (2003c), p. 141.

8. Cfr. ISAE (2003).

9. Un esame delle principali proposte di revisione del PSC, condotto dal punto di vi-
sta della Commissione Europea, è contenuto in Buti - Eijffinger - Franco (2003).

10. Cfr. European Commission (2002).

11. Per un critica teorica della golden rule dalla prospettiva istituzionalista cfr. Fottin-
ger (2001).

12. Cfr. Brunetta - Cazzola (2003).

13. Cfr. Mills - Quinet (2001). Una versione più attenuata di questa proposta, avan-
zata da Catenaro - Tirelli (2002), prevede la fissazione di vincoli ai livelli di spesa
e di tassazione, piuttosto che al saldo di bilancio.
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NOTE 337

14. Il principale esponente di questo approccio è l’economista americano ultracon-


servatore James Buchanan, premio Nobel per l’economia nel 1986. Il testo classi-
co di riferimento è Buchanan - Wagner (1977).

15. Una proposta di questo tipo è stata avanzata in Von Hagen - Harden (1994). Per
una rassegna di questo approccio cfr. Hemming - Kell (2001).

7. Proposte per un’altra Europa


1. Ormai da tempo questa ispirazione europeista guida l’azione della sinistra di alter-
nativa italiana nel Parlamento Europeo; cfr. Vinci (2004).

2. Per una critica dell’impianto neoliberista del progetto di Costituzione europea cfr.
Russo (2004).

3. Bosco e Santoro (2004) argomentano giustamente che la crescita e l’articolazione del


bilancio pubblico dell’UE è condizione indispensabile per una politica di piena oc-
cupazione in Europa. Anche Targetti (2002) ha sostenuto la necessità di un aumen-
to del bilancio pubblico europeo per assolvere alle funzioni di fornitura di beni pub-
blici, di redistribuzione delle risorse e di stabilizzazione del ciclo economico.

4. Sulle politiche di riequilibrio regionale nell’UE e sulla necessità di un loro forte po-
tenziamento cfr. Bömer - Mazier - Mouhoud (2003).

5. Cfr. Buchholz-Will et al. (2002).

6. Il testo dell’appello è stato pubblicato anche in italiano sulla «la rivista del manife-
sto», n. 52, del luglio-agosto 2004.

7. Cfr. Realfonzo (2004b).

8. Per una dettagliata esposizione della proposta cfr. Farina - Tamborini (2002).

9. Sull’evoluzione storica del principio di autonomia delle banche centrali cfr. Gian-
nini (2004), pp. 255-64. Sulla differenza tra autonomia e indipendenza strumenta-
le e autonomia e indipendenza di obiettivi finali nell’operato delle banche centrali
cfr. Debelle - Fischer (1994). Un esame sotto questo profilo dello status della BCE
è in European Commission (2004c). Per una storia dell’evoluzione delle banche
centrali dalle origini a oggi, cfr. Goodhart (1991).

10. Per una puntuale critica agli aspetti non democratici del funzionamento della BCE
cfr. Fitoussi (2002).

11. Negli anni Settanta il tasso di inflazione medio è salito al 9,4 per cento, per scendere
al 6,2 per cento negli anni Ottanta e al 2,6 per cento negli anni Novanta. Nei pri-
mi tre anni dell’attuale decennio esso è ancora pari al 2,3 per cento. I dati sono trat-
ti da European Commission (2004b).

12. Cfr. BCE (2003).

13. Sui rapporti tra unificazione monetaria europea e cicli del dollaro cfr. De Cecco
(2003).
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338 NOTE

14. Cfr. Brancaccio (2002).

15. Cfr. Bellofiore - Brancaccio (2002).

16. I dati si riferiscono al 2001; cfr. European Commission (2003a), p. 139.

17. Per un’analisi delle motivazioni teoriche a sostegno della riduzione dell’orario di la-
voro cfr. Mazzetti (1997).

18. Per i dati sulle differenze salariali in Europa cfr. Paternoster (2004).

19. Sul ruolo degli investimenti diretti nei nuovi paesi dell’Unione cfr. Vasapollo - Ar-
riola (2004), pp. 49-60.

20. Cfr. European Commission (2004c), p. 79.

21. Sul dibattito in Italia sulla riduzione dell’orario di lavoro cfr. AA.VV. (1999).

22. Cfr. il libro, che ebbe grande successo, di Rifkin (1995). Per una critica alle tesi sul-
la “fine del lavoro” cfr. Antunes (2002).

23. Un recente studio di Cavalieri - Garegnani - Lucii (2004), dedicato a un esame di


lungo periodo dell’andamento dei salari e della disoccupazione nei principali pae-
si industriali, evidenzia come non sembra esistere una chiara relazione univoca tra
la dinamica salariale e l’andamento della produttività, né tra il progresso tecnico e
la disoccupazione. Quindi conclude affermando che l’evoluzione dei salari e della
disoccupazione sembra essere determinata nel dopoguerra più da cause politiche
che tecnico-economiche. Particolare influenza sulla distribuzione del reddito pare
avere avuto l’orientamento di politica economica, in specie durante l’impennata in-
flazionistica degli anni Settanta e Ottanta e il successivo periodo di deflazione.

PARTE TERZA. Per un’altra Italia

8. Il declino dell’Italia

1. Basti ricordare la grande carestia che avvenne nel 1846-49, periodo d’oro per lo svi-
luppo del capitalismo industriale in Inghilterra, durante la quale morirono di fame
un milione e mezzo di irlandesi e altri due milioni e mezzo dovettero emigrare nel-
la più assoluta indifferenza delle autorità imperiali inglesi, fedeli e rispettose del li-
bero gioco delle forze di mercato. Nel solo anno 1847 morì di fame il 18,5 per cen-
to di tutta la popolazione irlandese. Una tragedia di dimensioni incomparabili nel-
l’Europa liberale dell’Ottocento, troppo spesso dimenticata. Per un’agile ricostru-
zione di quelle vicende cfr. Warde (1996).

2. Lo studio più sistematico sugli aspetti strutturali del declino economico dell’Italia,
apparso in tempi recenti, è quello del vicedirettore generale della Banca d’Italia
Pierluigi Ciocca (2003). Un libro di saggistica di successo che raccoglie tutte le ci-
fre del declino è quello di Petrini (2002).

3. Cfr. OECD (2004).


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NOTE 339

4. I dati sulla diffusione del lavoro atipico sono tratti dal Rapporto annuale ISTAT
(2004). Per un’analisi della diffusione del lavoro atipico e dei costi sociali ad essa
connessi nell’Italia degli anni Novanta, cfr. Gallino (2001).

5. Nostre elaborazioni su dati ISTAT (2003), tavola 9.22.

6. I 21 contratti atipici oggi possibili sono i seguenti: Apprendistato, Associati in par-


tecipazione, Collaborazione coordinata e continuativa, Collaborazione occasiona-
le, Contratti di somministrazione (staff leasing), Contratto a tempo determinato,
Contratto di formazione e lavoro, Contratto di inserimento, Contratto di solidarietà
esterna, Interinale, Job sharing, Lavori di pubblica utilità, Lavori socialmente uti-
li, Lavoro a domicilio, Lavoro a progetto, Lavoro intermittente, Lavoro stagiona-
le, Piani di inserimento professionale, Prestazioni accessorie, Telelavoro, Tirocinio
estivo di orientamento. Ad essi si aggiungono lo stage e il part-time a tempo inde-
terminato, che nelle classificazioni internazionali vengono conteggiati tra le forme
di occupazione atipica. Ciascuna forma contrattuale può a sua volta essere applicata
in forma permanente o temporanea, a tempo pieno o a tempo parziale.

7. Il Rapporto annuale ISTAT (2004) contiene un’esposizione delle principali carat-


teristiche delle nuove e numerose forme contrattuali atipiche (pp. 240-242). Per un
esame critico della Legge 30 e del successivo decreto applicativo cfr. Bortone - Da-
miano - Gottardi (2004, a cura di).

8. I dati sulle caratteristiche individuali dei disoccupati sono tratti da OECD (2004);
quelli sulla composizione territoriale da ISTAT (2003).

9. Per un’analisi degli scarsi effetti della diffusione della flessibilità e della precarietà
del lavoro sulla disoccupazione cfr. Gallino (1998).

10. Per un’analisi degli eventi che portarono alla crisi valutaria del 1992 e delle loro
conseguenze politiche ed economiche cfr. Rossi (2003), pp. 88-110.

11. Per una recente analisi della specializzazione settoriale dell’industria italiana cfr.
Onida (2004).

12. Cfr. a questo proposito lo studio di Bugamelli (2001).

13. Cfr. ISAE (2003b), pp. XVI-XVII.

14. Cfr. ad esempio Conti (1987).

15. Sui problemi che comporta il “nanismo” delle imprese per la capacità competitiva
del nostro sistema industriale cfr. Nardozzi (2004), pp. 91-106, e Onida (2004), pp.
31-58.

16. Un bel libro che documenta, con lucidità e amarezza, le tante occasioni perdute di
possibile sviluppo industriale, per insipienza o per interesse, dalle classi dirigenti
del nostro paese è quello di Gallino (2003).
17. Dati ISTAT (2004).

18. Cfr. Fuà (1985), p. 116.


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340 NOTE

19. Sulla crisi della grande impresa e sul decentramento territoriale degli anni Settan-
ta e Ottanta cfr. Trigilia (1995).

20. Per una storia dei distretti industriali cfr. Brusco - Paba (1997).

21. Per un’analisi del ruolo dei distretti industriali negli anni Settanta e Ottanta cfr. i
saggi contenuti in Becattini (1989, a cura di).

22. Sui processi di ristrutturazione territoriali del sistema industriale italiano dopo
l’“autunno caldo” cfr. Graziani (1998), pp. 91-6.

23. Per un esame dei problemi attuali di una tipica economia distrettuale come quella
marchigiana cfr. Alessandrini (2004).

24. Già a metà degli anni Novanta Bonomi (1997) sottolineava nella difficoltà a “fare
società” il principale limite del modello di sviluppo dell’area del Nord-Est.

25. Ad esempio, in una recente analisi sullo stato del sistema industriale italiano Berta
(2004) si mostra scettico rispetto alle tesi sul declino produttivo del paese, argo-
mentando questa sua posizione, certamente molto più ottimistica di quelle corren-
ti, con il crescente ruolo delle medie imprese.

26. Cfr. ISTAT (2004), tavola 3.4.

27. Cfr. ISTAT (2004), tavola 3.9.

28. Lo studio in questione è quello di Schivardi - Torrini (2004).

29. Cfr. l’analisi condotta a questo proposito da Schivardi (1999).

30. Cfr. ad esempio la ricerca, che ebbe vasta risonanza, sulle partecipazioni statali in
Italia condotta negli anni Settanta da Amoroso e Olsen (1978), due docenti di uni-
versità danesi. Per una storia delle partecipazioni statali, con particolare attenzio-
ne ai modelli di controllo e di gestione, cfr. Barca - Trento (1997). Un esame dell’a-
scesa e della caduta dell’industria pubblica nel dopoguerra, inserito in una pano-
ramica storica di ampio respiro sul sistema finanziario e industriale dell’Italia, è in
Bruno - Segreto (1996).

31. Queste sono le conclusioni tratte da Antonelli (1995) al termine di una importan-
te ricerca sul cambiamento tecnologico nel sistema economico italiano del secon-
do dopoguerra.

32. Per uno studio dettagliato delle privatizzazioni in Europa negli anni Novanta cfr.
Tartufi - Vasapollo (2003), da cui sono tratte le cifre riportate nel testo.

33. Per un esame delle privatizzazioni italiane negli anni Novanta cfr. lo studio realiz-
zato da Mediobanca - R&S (2000) per la commissione Bilancio della Camera dei
deputati.

34. I dati riportati nel testo sono tratti dall’indagine ISTAT sulle imprese a controllo
estero; cfr. ISTAT (2004), pp. 175-181.
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NOTE 341

35. Cfr. ISAE (2003b). In media la dissomiglianza della struttura industriale italiana,
che varia dal 18 per cento con la Germania al 22,7 per cento con la Francia, è au-
mentata tra il 1990 e il 2000 dell’1,5 per cento nei confronti della Germania, del 5,3
per cento della Francia, del 6,6 per cento della Gran Bretagna e del 3,2 per cento
della Spagna. Ancora più marcato è il livello di divergenza nella struttura delle
esportazioni, che oscilla tra il 26 per cento e il 32,9 per cento. Nel corso degli anni
Novanta, la dissomiglianza della struttura delle esportazioni italiane è aumentata ri-
spetto a quelle tedesche, francesi e inglesi ed è diminuita rispetto a quelle spagno-
le.

36. La spesa per ricerca e sviluppo è in Italia pari all’1,1 per cento del PIL contro una
media europea del 2 per cento. Le imprese private contribuiscono per circa un ter-
zo del toale, rispetto a quasi il 60 per cento del contributo privato nell’UE. Dati
ISTAT (2004).

37. Cfr. ISTAT (2004) tavola 1.22.

38. Sul fallimento della politica di privatizzazioni nell’UE cfr. Huffschmid (2003). Sul-
le pericolose ambiguità che ancora sussistono nelle recenti posizioni della Com-
missione Europea cfr. Bernardo (2003).

39. Sulle vicende della privatizzazione ferroviaria in Inghilterra cfr. Nussbaumer (2002)
e Hutton (2003), pp. 232-233.

40. Per un’analisi delle disastrose conseguenze della deregulation elettrica california-
na cfr. Krugman (2004), cap. 13.

41. Le dichiarazioni di Davis sono state riportate sul quotidiano «La Repubblica» del
10 gennaio 2001 nell’articolo di Rampini (2001).

42. Per un’analisi delle trasformazioni subite dal sistema bancario italiano nel corso de-
gli anni Novanta cfr. Messori - Tamburini - Zazzaro (2003, a cura di).

43. Sulle trasformazioni giuridiche delle fondazioni bancarie e sul loro collegamento
con il terzo settore cfr. Capriglione (1997), cap. IX.

44. Ad esempio, al capitale azionario dei primi cinque gruppi bancari italiani parteci-
pano ben 15 fondazioni, di cui 9 con quote superiori al 5 per cento. Le banche con-
trollate dalle fondazioni sono invece 25. Cfr. Sarcinelli (2003).

45. Cfr. Sarcinelli (2003).

46. Nel 2002 i primi cinque gruppi detenevano una quota del 55 per cento del totale
dell’attivo bancario, contro il 35 per cento del 1995. Il grado di concentrazione del-
l’attivo bancario è così diventato superiore a quello tedesco e francese e analogo a
quello inglese e spagnolo. Cfr. a questo proposito la relazione svolta dal presiden-
te dell’ABI, Sella (2003), di fronte alla commissione attività produttive della Ca-
mera dei deputati.

47. I dati sopra illustrati sono riportati in Panetta (2003) e in ASSBB (2002).

48. Cfr. ASSBB (2003).


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342 NOTE

49. Sugli effetti negativi della trasformazione bancaria degli anni Novanta, in partico-
lare per le piccole imprese e il Mezzogiorno, cfr. Realfonzo (2004a).

50. Cfr. Sarcinelli (2003).

51. Cfr. Sella (2003).

52. Cfr. Onado (2003).

9. La perversa redistribuzione del reddito e il capitalismo predone


nell’Italia di Maastricht

1. È questo l’indicatore usato, ad esempio, dall’IRES-CGIL (2003) per un’analisi del-


la distribuzione del reddito in Italia negli anni Novanta.

2. Nel 1980 il tasso di occupazione sulla popolazione totale era del 36,8 per cento e
nel 2003 del 37,9 per cento, dati ministero dell’Economia e delle Finanze (2003), ta-
vola 3.3.

3. A dimostrazione che i dati delle tabelle sono assolutamente rappresentativi delle


condizioni reali dei lavoratori italiani, un’inchiesta svolta dalla FIOM di Brescia,
condotta analizzando le buste paga di cento lavoratori metalmeccanici per sette an-
ni consecutivi, ha mostrato come nel periodo 1993-98 la paga oraria totale sia au-
mentata del 20 per cento, a fronte di una crescita complessiva del PIL nominale del
23,6 per cento. Cfr. Squassina (2001).

4. Lo studio è quello di Brandolini - Cipollone - Sestito (2001).

5. Cfr. Banca d’Italia (2004), p. 15.

6. Nel 1989 l’indice di Gini per il totale delle famiglie italiane era pari a 0,339; cfr.
Brandolini (1999), p. 53.

7. Una ricerca condotta su un più ampio universo campionario, che considera, oltre ai
redditi da lavoro, anche i redditi da pensione e da altri trasferimenti, conferma la si-
gnificativa crescita della disuguaglianza avvenuta durante gli anni Novanta. Degno
di nota è anche il fatto che nel corso dell’ultimo decennio la funzione redistributi-
va della famiglia tende a ridursi e, conseguentemente, il reddito individuale au-
menta di importanza nel determinare la condizione economica delle persone. Cfr.
D’Alessio - Signorini (2000).

8. Ad esempio, nel periodo 1995-2000 l’indice di Gini per il reddito familiare com-
plessivo era in media pari a 0,325 nelle regioni meridionali e nelle isole, contro un
valore di 0,299 nelle regioni del Nord e di 0,276 in quelle centrali. Cfr. Cannari -
D’Alessio (2003).

9. Cfr. Baldini (2002).

10. I dati sulla povertà per il biennio 2001-2002 sono presi dall’indagine ISTAT
(2003b).
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NOTE 343

11. Il criterio convenzionale di classificazione usato dall’ISTAT considera come soglia


di povertà relativa per una famiglia composta da due persone la spesa media men-
sile pro capite, cioè la spesa mensile che in media compie un cittadino italiano
(823,45 euro nel 2002). In altri termini, una famiglia è considerata povera se le due
persone che la compongono spendono meno di quanto spende in media un solo
cittadino italiano. Per le famiglie più numerose si applica un peso di equivalenza
che tiene conto delle economie di scala della coabitazione. Poiché, per come è cal-
colata, la soglia di povertà relativa è sensibile all’andamento della congiuntura eco-
nomica, è sempre opportuno considerare medie pluriennali per valutare l’estensio-
ne reale del fenomeno. Ad esempio, la riduzione statistica delle famiglie relativa-
mente povere che si è verificata nel 2002 rispetto al 2001 è interamente da attribuire
al fatto che la spesa media pro capite si è ridotta a seguito della recessione econo-
mica in atto e quindi, conseguentemente, si è abbassato di 11 euro mensili il valo-
re soglia della linea di povertà relativa.

12. La definizione ufficiale dell’ISTAT (2004), p. 331, delle famiglie quasi povere con-
sidera quelle famiglie che hanno una spesa media per consumi superiore alla linea
di povertà di non oltre il 20 per cento.

13. Addirittura il 23,7 per cento delle famiglie in cui la persona di riferimento è disoc-
cupata si trovano in questa condizione.

14. Cfr. ad esempio quanto scrive l’ISTAT nel Rapporto annuale 2004, p. 213: «Si trat-
ta dunque di una sorta di corto circuito: se l’occupazione femminile è troppo bas-
sa e le retribuzioni troppo modeste, le famiglie non hanno redditi abbastanza ele-
vati per acquistare quei servizi che occupano in misura rilevante le donne stesse e,
al tempo stesso, consentono alle altre donne di conciliare lavoro e famiglia. In que-
sto contesto, è dunque importante reinterpretare il nesso tra partecipazione fem-
minile e natalità, per evidenziare come, per una parte crescente della nostra società,
siano la bassa occupazione femminile e i bassi salari (oltre ad altri, essenziali fatto-
ri legati al sostegno e alla cura dei figli) a costituire un condizionamento per la fe-
condità e non viceversa».

15. Il tasso di utilizzo degli impianti industriali nel periodo 1991-2003 è stato dell’83,7
per cento in Germania, dell’84,6 per cento in Francia e del 76,9 per cento in Italia.
Dati European Commission (2004a).

16. Cfr. Ciocca (2003).

17. In un recente libro Stefanoni (2004) ricostruisce le truffe finanziarie italiane degli
ultimi anni. L’elenco è veramente lungo. Per una dettagliata ricostruzione della vi-
cenda Parmalat, dalle sue origini allo scoppio dello scandalo, cfr. Capolino - Mas-
saro - Panerai (2004). Sul carattere predatorio del capitalismo degli anni Novanta
cfr. Gallino (2004). Per una ricostruzione delle vicende dei principali gruppi finan-
ziari del paese e dei loro manager cfr. Mucchetti (2003). Una ricostruzione delle
spregiudicate battaglie finanziarie che hanno segnato le vicende della globalizza-
zione neoliberista degli anni Novanta è in Cingolani (2000).

18. Cfr. la ricostruzione del principale scandalo finanziario che ha colpito Wall Strett,
quello della Enron, fatta da Borzi (2002). Le analogie nei comportamenti spregiu-
dicati del manager della multinazionale energetica americana, Kenneth Lay, con
quelli del patron della Parmalat, Calisto Tanzi, sono davvero tante.
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344 NOTE

19. Su queste caratteristiche pre-moderne del capitalismo italiano si è spesso sofferma-


to, con amara lucidità, Giulio Sapelli (1998). Sulle vicende delle grandi famiglie del
capitalismo italiano cfr. Cingolani (1990) e Amatori - Brioschi (1997). Sugli effetti
negativi in termini di efficienza produttiva e allocativa di assetti proprietari a carat-
tere familiare nelle grandi imprese italiane cfr. Barca (1996).

20. Sulle trasformazioni della concezione dell’impresa nella fase della globalizzazione
neoliberista cfr. Fligstein (2004).

10. Prima di tutto il lavoro e il salario!

1. Sulle trasformazioni del lavoro nel “postfordismo” cfr. all’interno della vasta let-
teratura disponibile i contributi di Revelli (1995) - Trentin (1997) e Cillario
(1996).

2. Ormai questa è una verità che comincia a farsi strada anche nelle sedi ufficiali. Cfr.
quanto afferma l’ISTAT nel Rapporto annuale 2004, pp. 212-214: «Nel decennio in-
tercorso tra il 1993 e il 2003, in Italia il reddito da lavoro dipendente reale pro ca-
pite ha subito un arresto, mentre negli altri paesi europei cresceva a ritmi variabili,
anche piuttosto sostenuti. Il raffreddamento della dinamica retributiva, in connes-
sione con la contrazione della produttività, si è tradotto nell’ultimo biennio in una
vera e propria perdita di potere d’acquisto delle retribuzioni di fatto in alcuni setto-
ri […]. Elementi nella spiegazione di quest’ultima sfavorevole caratterizzazione del-
la fase di crescita dell’economia italiana vanno ricercati, del resto, anche nella stessa
stagnazione salariale […]. Il rallentamento salariale ha avuto effetti negativi sulla cre-
scita economica non solo per l’attenuarsi degli effetti della massa salariale aggrega-
ta sulla domanda interna […] ma, probabilmente, anche per il venire meno degli sti-
moli alla competitività e alla riorganizzazione delle imprese a fronte di una dinami-
ca salariale estremamente moderata. La caduta della quota del lavoro nel reddito,
peraltro, evidenzia il divario che si è venuto a creare tra la crescita della produttività
e quella delle retribuzioni lorde. Tra il 1993 e il 1999, mentre la produttività del la-
voro aggregata cresceva, in termini nominali, del 35,5 per cento, le retribuzioni lor-
de per unità di lavoro crescevano del 23,1 per cento. Negli anni successivi le due va-
riabili crescevano in modo omogeneo».

3. Sulle distorsioni di significato subite nel corso degli anni da termini quali “concer-
tazione”, “politica dei redditi”, “flessibilità”, cfr. Rieser (2000).

4. Sulla razionalità del conflitto salariale, anche dal punto di vista della teoria econo-
mica, cfr. Brancaccio - Realfonzo (2004).

5. Sulle vicende della contrattazione salariale in Italia cfr. Rieser (2004). Sulle trasfor-
mazioni degli anni Novanta cfr. anche Fagiani - Locarno - Oneto - Sestito (1998) e
Zenezini (2002).

6. L’inchiesta è stata realizzata da Od&M in collaborazione con il «Corriere Lavoro»;


cfr. Sideri (2003).

7. All’interno della CGIL, e in particolare della FIOM, la questione di un nuovo mo-


dello contrattuale è ormai oggetto di un ampio confronto interno; cfr. l’articolo di
Zipponi (2004), segretario della FIOM di Milano.
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NOTE 345

8. Sulle forme di subordinazione che caratterizzano il nuovo lavoro autonomo cfr. Bo-
logna - Fumagalli (1997, a cura di).

9. L’uso vincolante e generale del referendum tra tutti i lavoratori e una nuova legge
sulla rappresentanza sindacale sono due cardini della linea del principale sindaca-
to industriale italiano, la FIOM; cfr. Rinaldini (2004).

10. Sulle conseguenze della precarietà e dell’insicurezza sulla psicologia individuale cfr.
Sennett (1999) e Bauman (2000).

11. Sull’impatto, articolato e complesso, del fenomeno migratorio sul mercato del la-
voro e sui salari cfr. Pugliese (2000).

12. Sulle diverse posizioni presenti tra i sostenitori del salario di cittadinanza cfr. Man-
tegna - Tiddi (2000). Sul reddito di cittadinanza cfr. il libro a cura di Fumagalli e
Lazzarato (1999).

13. Sulla necessità della ricostruzione di un nuovo vincolo interno all’economia cfr.
Bertinotti (1999).

14. Sull’origine e lo sviluppo del sistema del welfare in Italia fino all’inizio degli anni
Ottanta cfr. Ascoli (1984, a cura di).

15. Sull’erosione del sistema del welfare negli anni Novanta cfr. Bosi (2002).

16. I dati sono tratti dal più recente rapporto Eurostat (2004) sulla protezione sociale
in Europa e si riferiscono all’anno 2001.

17. Le statistiche utilizzate in questo paragrafo sono ricavate da Eurostat (2003).

18. Cfr. ISAE (2002).

19. I dati sono ripresi da Eurostat (2004). Gli assegni di reversibilità, non compresi nel
dato riportato nel testo, ammontano in Italia al 10,6 per cento della spesa sociale
totale e nell’UE al 4,8 per cento. Le pensioni di reversibilità hanno natura più as-
sistenziale che previdenziale, essendo volte principalmente a garantire il manteni-
mento di un reddito minimo familiare alla morte del percettore della pensione.

20. Cfr. Eurostat (2003), p. 53.

21. Cfr. le considerazioni svolte a questo proposito da Marano (2002), p. 46, sulla ba-
se di una ricerca dell’OECD.

22. Tenendo conto anche di altri fattori, Pizzuti (2004) conclude, al contrario di quan-
to comunemente si afferma, che la spesa pensionistica italiana è inferiore a quella
media europea.

23. Per un’analisi degli effetti della legge delega pensionistica del governo Berlusconi
cfr. Pizzuti (2002).

24. Sulle modifiche subite dal sistema previdenziale italiano negli anni Novanta cfr.
Martufi - Vasapollo (2000).
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346 NOTE

25. Infatti, soltanto meno di un quarto degli oltre cinque milioni di pensionati con pen-
sione inferiore al milione al mese ha potuto beneficiare dei provvedimenti contenuti
nella legge finanziaria 2002; cfr. ISTAT (2004), pp. 380-283.

26. Sul carattere irrealistico e illusorio di queste tesi, sostenute anche da alcuni espo-
nenti della sinistra politica e teorica, cfr. Bellofiore (2002).

27. Sugli effetti del crack Enron sui fondi pensione dei lavoratori americani cfr. Black-
burn (2002).

28. Sui fondi pensione, in particolare su quelli italiani, e sulle tante insidie che essi na-
scondono, cfr. Andruccioli (2004).

29. Cfr. Mazzetti (2003), dove viene compiuta un’opera di demistificazione teorica di
tutte le favole sull’emergenza pensionistica.

30. Per un esame dei sistemi previdenziali nei vari paesi dell’UE cfr. Commissione Eu-
ropea-Consiglio Europeo (2003).

11. Per un nuovo intervento pubblico nell’economia

1. È questo, ad esempio, il caso del “nuovo corso” della Confindustria dopo l’elezio-
ne di Luca Cordero di Montezemolo come suo presidente; cfr. Cremaschi (2004).

2. Sulla necessità di una politica industriale italiana incentrata sulla qualificazione tec-
nologica dopo l’entrata nell’euro cfr. Graziani (2002).

3. Cfr. Relazione annuale del governatore della Banca d’Italia per il 2004, Appendi-
ce, tav. aB 23.

4. Sulla crisi della Fiat cfr. le analisi di Bellofiore (2002) e Garibaldo (2002).

5. Un’importante eccezione è costituita dalla campagna Sbilanciamoci!, a cui aderi-


scono numerose associazioni del volontariato e della società civile, che da diversi
anni propone una “Finanziaria alternativa” a quella del governo; cfr. Sbilanciamo-
ci! (2003).

6. Sui beni pubblici globali, cfr. Kaul (2000).

12. Più tasse, ma non per tutti!

1. Per un esame delle radici ideologiche conservatrici che ispirano le misure di ridu-
zione delle tasse negli USA e in Italia e dei loro reali effetti economici e redistribu-
tivi cfr. Pennacchi (2004).

2. Per un’analisi della riforma fiscale del governo Berlusconi e dei suoi effetti distri-
butivi cfr. Baldini - Bosi (2002), gli studi contenuti in NENS (2002) e Cavaterra
(2003).

3. Cfr. ad esempio lo studio svolto per il Parlamento dal CER (2002).


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NOTE 347

4. Gran parte delle proposte che seguono sono il frutto di un lavoro svolto per la pre-
sentazione della relazione parlamentare di minoranza alla legge finanziaria 2004 da
parte dei gruppi di Rifondazione Comunista alla Camera e al Senato.

5. Cfr. Bosi - Guerra (2003).

6. Cfr. la rassegna sulle diverse metodologie di calcolo e sulle diverse stime dell’eco-
nomia sommersa contenuta in Lucifora (2003).

7. Sul significato regressivo dell’abolizione dell’imposta di successione cfr. Cavallaro


(2000).

8. Per un esame dei differenti regimi di tassazione delle rendite finanziarie in Europa
cfr. ASSBB (2001).

Epilogo. Melfi, Lucania, Italia, aprile 2004. Un nuovo vento è arrivato.


Il vento caldo del Sud

1. Sulla storia e sull’organizzazione dello stabilimento di Melfi cfr. Basile - Polacco


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Indice delle persone e delle cose notevoli

ACP, 45-46 Banca Mondiale, 17, 20, 23-24, 47, 51, 59,
Afghanistan, 24, 297 62-65, 70, 77-79, 82, 85, 169
Africa, paesi africani, 8, 15, 18, 19, 26, 32, banche centrali nazionali, 48, 52-55, 78-
36, 45, 58, 63, 73, 137 79, 104, 115, 129, 155, 255
Agnelli, famiglia, 273, 308 banche centrali, autonomia e indipenden-
agricoltura, 15, 22, 25, 27, 31-37, 42-45, za delle, 111-12, 156-57
65, 68, 75, 153, 214 banche, sistema bancario, 80, 115, 193,
Alaska, 258 199-204, 218-22, 257, 273-75, 277-80,
ALCA (Area de Libre Comercio de Las 315
Américas), 38-44, 72-73 Bangladesh, 20
Amato, Giuliano, 200 Belgio, 71, 113-14, 120, 123, 134, 141,
America Latina, 15, 26, 38-44, 58, 61-63, 163, 173-75, 209, 308
73, 77, 136 Belize, 40
Amsterdam, 130 beni comuni, 31, 39, 43, 76, 83, 154, 197,
antitrust, autorità, 280, 282 224, 263, 284, 286-88, 314
Arcore, 268 Berlusconi, governo, 95, 139, 182, 191,
Argentina, 41-42, 44 237-38, 247, 250, 252, 254, 256-59, 267-
Aristide, Jean-Baptiste, 41 69, 279, 294-95, 297, 299-306, 312, 313-
ASEAN (Association of Southeast Asian 14
Nations), 73 Blair, Tony, 299
Asia, paesi asiatici 26, 40, 47, 52, 58, 61- Bolívar, Simón, 42
62, 64, 73, 76-78, 105, 107, 185 Bolivia, 40-41
ATTAC 307 Bossi, Umberto, 245
Austria, 113-14, 120, 123, 125, 134, 141, Bové, José, 154
173-75, 209, 308 Brandt, Rapporto, 67
Avana, Carta dell’, 20-21 Brasile, 35, 38, 41-42, 44, 62, 166
Bretton Woods, 20, 47, 51-55, 57, 71, 77-
Bairoch, Paul 16 78, 81, 84-86
Banca Centrale Europea (BCE) 106, 111, British Railways, privatizzazione di, 197
115, 129, 146-47, 151, 155-61, 169, 293- Brunetta, Renato, 143
94 Bundesbank, 109
banca centrale mondiale, 51, 84-85 Bush, amministrazione, 24, 38, 59, 81, 106,
Banca d’Italia, 137, 180, 201, 211, 217, 167, 267, 299, 300
222, 225, 268, 277, 280-81, 290, 293-94,
303, 309, 310 California, mercato elettrico della, 197-199
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368 INDICE DELLE PERSONE E DELLE COSE NOTEVOLI

Cambridge, 51 Costa Rica, 40, 41


Canada, 24, 27, 38, 41, 137, 209-10 Costa Smeralda, 312
Cancun, conferenza di, 5-8, 25, 27, 30-32, Cotonou, accordo di, 45-46
35-38, 41-46, 66, 68-69, 72, 88, 321, 326 Cragnotti, Sergio, 221, 225
capitalismo italiano, 49, 192, 201, 221-23, Craxi, governo, 236
225, 234, 257, 264-67, 270, 273-74 Cuba, 20, 23, 38, 41
capitalismo, sistema, 13-18, 22, 49, 52, 62,
70, 147, 150, 165, 167, 223-24, 226-31, Danimarca, 71, 114, 136, 150, 173-75,
248, 263 209, 260, 308
Capone, Al, 302-03 Davis, Gray, 198-99
Carbon tax, 307 debito estero, 40-41, 58-59, 61-62, 64, 71,
Cartagena, 74 76, 82
Castillo, Peréz de, 35 debito pubblico
Cavallo, Domingo, 41 in Italia, 222, 289-96, 300, 302, 308-09,
Ceca, Repubblica, 271 311-12
centrosinistra, 81, 119, 127-29, 154, 194, nell’UEM, 109, 113-15, 117, 121, 133-
299, 313 34, 136, 139-41, 144, 146, 155
Chavez, Hugo, 41, 42 negli USA, 44, 106
Chiapas, 7, 41 deficit commerciale
Chiquita, 45 dell’Italia, 185-86
Cile, 41, 45 degli USA, 39, 41, 58, 84, 101, 105-06,
Cina, 15, 19, 23, 27, 36, 60, 85, 105, 107, 313
166-67, 186-87 deficit pubblico
Cirio, 221-22, 269, 279, 281 dell’Italia, 290, 310
Clinton, amministrazione, 38 nell’UEM, 111-15, 117, 119-22, 131-
Colbert, Jean-Baptiste, 268 35, 137-38, 140, 143, 146, 148, 155
Collecchio, 238 degli USA, 59, 106, 300, 313
Colombia, 40 delocalizzazione produttiva, 95, 161-64
colonia, 78 Delors, Jacques, 154
commercio 181, 212, 214, 238 Democrazia Cristiana, 193
commercio internazionale, 5, 7, 15-22, 26, Dini, riforma, 255-56
27, 29-33, 35, 37-39, 45, 50-53, 59, 66, Diritti Speciali di Prelievo (DSP), 55, 85
70, 72, 74-76, 83, 87, 175, 185, 314 disoccupazione, 41, 60, 65, 123-25, 135,
Commissione Europea, 45, 94, 102, 111, 154-56, 161, 163, 167, 182, 227, 246,
126, 129, 131-33, 137, 138-42, 151, 153, 249, 263, 314
164, 196 distretti industriali, 162, 188-90, 269, 315
Comunità Economica Europea, 45, 109 distribuzione del reddito e della ricchezza,
concertazione, 163, 168, 234, 266, 268, 19, 56, 64, 103, 106, 118, 121, 125-27,
270 135, 144, 146, 160, 167-68, 205, 207-08,
confindustria, 45, 129, 191, 240 216-20, 226, 270, 293, 304, 310
Consiglio Europeo, 102, 109, 111, 114, disuguaglianza, 19, 63, 125-26, 154, 211-
126, 127, 129, 130, 132, 138-39, 143, 18, 252, 300, 311
151, 153 Doha, conferenza di, 6, 26, 29, 31-32, 35,
CONSOB (Commissione Nazionale per 43, 68, 325-26
le Società e la Borsa), 280-81 dollaro, 41, 47-61, 71, 77, 81, 84-85, 158,
contratti di lavoro, 98-99, 161, 163-64, 170, 267, 295
167, 181-82, 191-92, 196, 231-32, 235-
47, 263, 317 Ecuador, 40, 41
Corea del Nord, 24 EFIM, 192
Corea del Sud, 61 Egitto, 36
Corte Internazionale per l’Insolvenza, 82 Einaudi, Luigi, 305
Corte Internazionale per la Risoluzione El Salvador, 40
delle Controversie Commerciali, 83 Emilia Romagna,189
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INDICE DELLE PERSONE E DELLE COSE NOTEVOLI 369

ENEL, 192, 194, 272 Germania, 44, 50, 54-56, 71, 95, 97, 109,
Engels, Friedrich, 13 113, 114, 120-21, 123-25, 127, 129, 134,
ENI, 192-94, 265, 272 138, 141, 156, 164, 173-75, 187, 194,
Enron, 65, 259 196, 209-11, 249-51, 253-54, 264, 271,
equità sociale, 83, 145, 160, 168, 237, 287, 274, 308, 311, 318
301, 306-08 Giappone, 15, 16, 24, 26, 27, 52, 54-56,
esportazioni, 15-18, 26-27, 32-33, 36, 40, 76, 92-94, 142, 208-11, 271
45, 53, 56, 58, 63-64, 101, 105, 116, 174- Ginevra, 21
75, 183-87 Gini, indice di, 19, 125, 212-14, 216
Eurostat, 127, 250, 253 globalizzazione, 6, 11-18, 20, 24, 26-27,
evasione fiscale, 283, 300-01, 303-05 30-31, 33, 35-37, 43, 55, 60, 62, 66-70,
72-73, 78, 81, 86-88, 107, 112, 127, 130,
farmaci, accesso ai 150-51, 165-67, 169-70, 189, 209, 221,
per i paesi poveri, 26, 30 223-25, 245, 265-66, 278, 286, 313
Fassino, Piero, 154 gold standard, 48-50, 53
FBI (Federal Bureau of Investigation), 303 Göteborg, 143
Federal Reserve, 54-55, 57, 62, 85, 106, Gran Bretagna, 17, 71, 91, 110, 136, 173-
115-16, 156, 159, 267, 294 75, 187, 196-97, 209-11, 249-50, 253,
Fiat, 45, 163, 272-77, 316-21 264, 309
FIM (Federazione Italiana Metalmeccani- Grecia, 114, 120-21, 123, 125, 127, 134,
ci), 319 138, 141, 163, 174-75, 249-50, 253, 271,
Fini, Gianfranco, 245 308-09
Finlandia, 114, 120, 123, 124, 134, 173-75, Greenspan, Alan, 116
209, 261, 308 Guatemala, 40
FIOM (Federazione Italiana Operai Me-
talmeccanici), 319, 321 Hong Kong, 68
fiscale, sistema
italiano, 299-313 ICC (International Chambers of Com-
FISMIC, 319 merce), 25
fondazioni bancarie, 200-03, 275, 277-78 IFO (International Finance Organization),
fondi pensione, 11, 257-258 82, 84-85
Fondo Monetario Internazionale (FMI), ILO (Internazional Labour Organization),
20, 23-24, 47, 51-52, 55, 59, 62-65, 70, 74
77-80, 82, 85, 129, 169 IME (Istituto Monetario Europeo), 111,
fordismo, 50, 164, 188-89, 226-33, 241 114
Forme di proprietà 286-87 immigrazione, 22, 244-45, 260
Francia, 95, 114, 120, 123-25, 129, 134, imposizione fiscale, 83-84, 106, 119, 121-
138, 141, 145, 163, 173-75, 187, 193-94, 22, 144-45, 147, 160-61, 207, 213, 218,
196, 209-11, 238, 249-51, 264, 268, 274, 253-54, 267, 283, 289-313
308, 311 imposta sui grandi patrimoni, 301, 305-
Friedman, Milton, 302 06, 310
Fujimori, Alberto, 41 impresa
concezione della, 222-25, 279, 287-88
G21, 36-38, 68 dimensioni di, 188-193
G8 70, 78, 208 grande, 98, 161, 180, 187-92, 195-96,
GATS (General Agreement on Trade in 222, 235, 241, 269-70, 272, 297-98
Services,) 25, 27-31 piccola e media,188-90, 203, 221, 232,
GATT (General Agreement on Tariffs and 269, 277-78
Trade), 21, 23, 25, 59 tassazione dei redditi di, 106, 122, 301-
General Eletrics, 195 05
Generali Assicurazioni, 201 imprese multinazionali, 17-28, 30, 32, 34-
Genova, 6 35, 37, 39-40, 43, 45, 64-65, 71, 75, 83-
George, Susan, 154 84, 195
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370 INDICE DELLE PERSONE E DELLE COSE NOTEVOLI

India, 19, 36, 66, 107, 166 Jospin, Lionel, 95


Indonesia, 36
industria e impresa pubblica, 192-96, 206, Kenya, 8
265, 270, 274-77, 281, 287, 298 Keynes, John Maynard, 51, 55, 84, 86, 222
inflazione, 48, 50, 54, 56-57, 109, 112-15, keynesismo, 67, 93, 119, 122, 129
119, 133, 138, 156-59, 167, 176, 213, Köhl, Helmut, 109
235-40, 293, 297, 314-15 Krupp, 195
Inghilterra, 47, 49-50, 71, 150, 197, 299 Kyoto, 307
INPS (Istituto Nazionale della Previdenza
Sociale), 257 Laeken, 126
integrazione europea, 107-08, 125, 127, Laffer, Arthur, 300, 302
130, 149-55, 166, 170 Lafontaine, Oskar, 127
International Clearing Union, 51 lavoro
intervento pubblico, 106, 153, 162, 169, costo del,103, 124, 189, 202, 206, 272
194, 204, 264, 269, 282, 285-88, 294 diritti del, 21-22, 44, 65, 74, 83, 135,
investimenti diretti all’estero, 21-22, 29- 162-68, 191-92, 243-47
31, 37, 39, 43-44, 63-64, 84, 164 divisione internazionale del, 18, 107,
investimenti produttivi, 101-05, 122, 140, 190
145, 183-84, 190, 193, 196, 199, 203, flessibilità del, 98-100, 181, 187, 189,
206-07, 220, 234, 272, 278-79, 294, 306 191, 231-32, 243, 262
investimenti pubblici, 120, 141-42, 145, incidenti sul,100
146, 206, 265, 275-76, 281-82, 291, 315 orario di, 94-101, 161-66, 179-83
Iran, 24 precarietà del, 59, 65, 98-100, 140,
IRAP (Imposta Regionale sul Valore Ag- 142, 154, 180-83, 196, 262
giunto), 302 produttività del, 34, 50, 59-60, 95, 97,
Iraq, 24, 60, 297, 313 102, 125, 135, 163-65, 195, 206, 230,
IRI (Istituto Ricostruzione Industriale), 234, 236-38, 240, 246, 300, 318
192-94 trasformazioni del, 226-33
Irlanda, 114, 120, 123-25, 134, 173-75, Lenin, Vladimir Ilić, 14
209, 249, 308 Lettonia, 163-64
IRPEF (Imposta sul Reddito delle Perso- liberalizzazione dei mercati, 5,6, 12, 16,
ne Fisiche), 303, 306-07 18, 19-20, 22-24, 28-32, 34, 37, 39-40,
IRPEG (Imposta sul Reddito delle Perso- 42-45, 48, 58-60, 64-65, 67-68, 70, 75,
ne Giuridiche), 302, 305, 308 78-79, 112, 115, 118, 154, 161, 162, 169,
Islanda, 249-50 191, 196-97, 200, 221, 224, 270, 279,
ISTAT (Istituto centrale di Statistica), 186, 306
196, 207, 215-16, 237, 304 Libia, 24
ISVAP (Istituto per la vigilanza sulle assi- Lione, 283
curazioni private e di interesse colletti- Lisbona, strategia di,102-03, 140
vo), 280 Lomé, convenzione di, 45-46
Italia, 57, 76, 88, 95, 110, 113-14, 120-24, Londra, 54
127, 129, 131-32, 134, 138, 141, 143, lotte sociali, 5-8, 41, 43, 56, 69, 93, 146,
145, 153, 158, 162, 173-80, 182-88, 190, 163-66, 168-69, 189, 208, 223, 227-29,
192-94, 196, 199, 202, 204, 205-13, 215- 232-33, 235, 242, 248, 255, 265-68, 271-
16, 218-20, 224, 233-34, 238, 244-45, 72, 316-21
248-51, 253-54, 256, 258-59, 261, 264- Lucania, 316, 320
67, 269-71, 273-74, 276-77, 283-84, 286, Lula, Ignacio da Silva, 25
290-91, 293-94, 300, 302, 304-11, 314, Lussemburgo, 71, 113-14, 120, 123, 134,
316 173-75, 249, 308-09
ITO (International Trade Organization),
20-21 Maastricht, trattato di, 60, 88, 93, 101,
Iugoslavia, 24 105-16, 118-24, 126-30, 133-34, 141-43,
148-49, 151, 154-56, 161-62, 164, 166-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:41 Pagina 371

INDICE DELLE PERSONE E DELLE COSE NOTEVOLI 371

69, 173-74, 176-78, 180, 196, 205-07, NAFTA (North America Free Trade Area)
211, 214, 219-20, 249, 251, 263, 270, 38, 73
289, 291, 294, 296 neoliberismo, 6, 8, 14, 18, 21, 30, 32, 37-
MAI (Multinational Agreement on Invest- 38, 43, 45, 60, 63, 66-68, 70, 72, 86, 88,
ments), 30 93, 106, 110, 119, 128, 142, 149-50, 163,
Major, John, 197 166-67, 191, 235, 249, 266-69, 287-88,
Malesia, 78 299, 313-15
Marche, 188 New Hampshire, 47
Maroni, Roberto, 143, 256 Nigeria, 36
Marrakech, accordi di, 20, 22 Nixon, Richard, 54-56
Marshall, Piano, 53 Norvegia, 249-50
Marx, Karl, 13 nuovo modello di sviluppo, 281-88
marxismo, 13-14, 165, 227-28 nuovo ordine economico internazionale
Mattei, Enrico, 265 (NIEO), 37, 46, 66, 70-73, 82, 86, 88,
Mattioli, Raffaele, 199, 265 169
Mediobanca,201
Medioriente, 137 OCA (Organization for Corporate Ac-
Melfi, 316-21 countability), 83
Meltzer, Rapporto, 77 occupazione, piena, 11, 83, 116, 119, 135,
mercati finanziari, 12, 15, 50, 55-57, 59- 161, 168, 234
62, 77, 79-80, 82, 105, 110, 112, 115, OECD (Organisation for Economic Co-
117, 151, 159-61. 199, 203-04, 222-23, operation and Development), 34, 98,
255, 258, 270, 279-281, 294-96, 306, 308 121, 180, 182, 208-10, 271
Mercedes, 162-63 Olanda, 113-14, 120, 123, 134, 138, 173-
MERCOSUR (Mercado do Cono Sur), 75, 209
42, 44-45, 73 ONG (Organizzazioni non Governative),
Messico, 5, 38, 40-41, 45, 61, 65, 73 7-8, 68
Messina, 282 ONU (Organizzazione delle Nazioni Uni-
Mezzogiorno, 153, 182, 193, 202, 214, te), 20, 23-24, 67, 70-72, 74, 82-83, 85-
216, 265, 277, 279, 282-83, 290, 316 86, 169
Miami, 38, 42
Mirafiori,316-18 Panama, 40
Modigliani, Franco, 302 Paraguay, 42, 44
moneta di riserva internazionale, 51-53, Parlamento Europeo, 91, 139, 153, 155
55, 57-58, 61, 84-86, 267 Parmalat, 221-22, 225, 258-59, 269, 279-81
monetarismo, 41, 49, 78, 128, 146, 159, Partito Socialista Europeo, 154
166 Partito Socialista Italiano, 193
Montenegro, 24 Patto di Stabilità e Crescita, 88, 93, 105,
Monterrey Consensus, 65 108, 110, 128-49, 151, 154-55, 267
Moratti, riforma, 252 pensioni e previdenza, 28, 76, 131, 140,
movimenti di capitale, 12, 16, 48, 50-51, 143-44, 154, 181-82, 201, 219, 227, 238,
53, 58, 60, 77, 80, 84-85, 112, 115, 160, 247-49, 253-63, 289, 297, 299, 302-04,
163, 306-07 307, 312, 314-15
movimenti sociali, 5-8, 31, 37, 40-42, 44, Perù, 40, 41
46, 62, 68-73, 81-82, 87-88, 154, 225, Plan Colombia, 40
266, 272, 285-88, 315 Plan Puebla Panama (PPP), 40
movimento operaio, 88, 150, 227-28, 232- politica dei redditi, 234-35
33, 235, 240-42, 248, 255, 265, 266, 272 politica fiscale, 57, 59, 104, 111-12, 115,
multilateralismo commerciale, 72-76, 82- 117-19, 122, 124, 129-30, 132, 135-36,
83, 86 140-41, 144, 146-47, 152-55, 160, 169,
multipolarismom 86 184, 222, 290-91, 306, 314
Müntzer, Thomas, 288 politica industriale, 152, 187, 199, 264,
Mussolini, Benito, 49 269-70, 278, 298
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372 INDICE DELLE PERSONE E DELLE COSE NOTEVOLI

politica monetaria, 48, 56-57, 59, 104, SADC (Southern Africa Development
108-09, 111-12, 115-17, 119, 134, 138, Community), 73
146-47, 149, 151, 156-61, 165, 168-69, salario di cittadinanza, 233, 243-247, 252,
185, 205, 236, 267-68, 290, 293-94, 296 262-63, 315
Portogallo, 114, 120, 123, 125, 134, 137, salario minimo 233, 243-247
141, 174-75, 209, 249-50, 271, 308 salario, dinamiche e politiche del, 49-50,
postfordismo, 226-33, 316 56, 64-65, 94-100, 103, 115, 118, 122-24,
Potenza,316 157, 159, 161-64, 167-68, 187, 191-92,
povertà, 19, 42, 45, 65, 77, 79, 83, 124, 205-15, 219, 221, 226-27, 230, 234-42,
126, 154, 211-16, 219, 225, 246, 252, 263, 270, 293, 314-15, 318-19, 321
259, 261, 300, 302, 314 San Francisco, 198
Powell, Colin, 39 sanità, 27-28, 33, 76, 131, 140, 143, 146,
Prebisch, Raul 74 154, 224, 247-50, 252, 289, 293, 299,
privatizzazioni, 6, 20, 27, 29, 31, 39, 41, 302, 312, 315
43, 45, 57, 63-65, 78, 143-44, 148, 152, Santiago del Cile, 38
168, 192-204, 221, 224, 248-50, 267, SAP (Structural Adjustment Programs),
268, 270, 272, 282, 284, 286, 290, 302, 64-65
312, 314-15 Saraceno, Pasquale, 265
Prodi, Romano, 127, 129, 181 scala mobile, 235-40, 246
profitto, 20, 34, 43, 75, 103, 105, 121, 154, Scanzano, 319
163, 167-68, 203-04, 206-11, 219-21, Schroeder, Gerard, 127, 299
223-24, 231, 234, 236, 245, 249, 260, Schwartzenegger, Arnold, 199
266-67, 270, 272, 277, 305, 307-08 scuola e istruzione, 28, 31, 34, 76, 140,
programmazione economica, 63, 118, 142-43, 154, 206, 224, 247-53, 262, 287,
145-46, 153, 160, 169, 190, 234, 276, 289, 299, 312, 315, 320
282, 285, 315 Seattle, 6, 25, 30, 31,62, 69
Prometeia, 215 Serbia, 24
protezionismo, 21, 33-34, 43, 50, 57, 59, servizi pubblici e sociali, 5, 15, 18, 22, 25,
73, 76, 78, 186-87, 268 27-32, 39-45, 58, 63-65, 68, 76, 82, 102,
PVS (Paesi in Via di Sviluppo), 26, 31, 33- 119, 121, 131, 143-44, 148, 152, 154,
34, 36, 58, 66, 69, 75, 137 175, 181, 192-93, 196-99, 200, 241, 247-
52, 267, 270, 274, 276, 282-83, 286, 290-
Reagan, Ronald, 57-58, 71, 199, 267, 299, 91, 293, 299, 310, 312, 315
300 signoraggio, potere di, 53, 58, 84-85
redistribuzione, politiche di, 37, 63, 69, Silicon Valley, 162, 197
104, 106, 115, 118, 127, 145, 153-54, sindacati, 49, 163, 168, 235-36, 240, 242,
159, 162, 165-67, 169, 233-40, 246-47, 246, 272, 317-321
259-60, 262-63, 269, 289, 311, 314 Singapore issues, 31-32, 68, 326
Regno Unito, 51, 91, 114 sinistra, 13-14, 46-47, 72, 81, 88, 127-29,
Renault, 274 149, 163, 170, 227-28, 257, 265, 269,
rendita, 25, 103-04, 121, 146, 160, 164-65, 291, 296, 313
167, 196, 207, 210-11, 217-23, 231, 239, Siria, 24
258-60, 264-67, 293-96 Sistema Monetario Europeo (SME), 60,
Repubblica Dominicana, 36 109-10, 113, 184
Resistenza, 265 Slovacchia, 249
RFT (Repubblica Federale Tedesca), 109 Slovenia, 249, 271
ricerca e innovazione tecnologica 34, 105, Spagna, 44, 114, 120, 123-25, 134, 174-75,
107, 142, 165, 185, 189-91, 193, 196, 206, 187, 196, 208-11, 249-50, 271, 309
220, 229, 242, 269, 271, 276, 278, 315 specializzazione produttiva dell’Italia, 183,
Rifondazione Comunista, 127 185-87, 190, 195, 206, 251, 264, 275
Rocard, Michel, 154 speculazione finanziaria 50, 54, 60, 77, 79-
Roma, 109, 199, 319, 320 80, 84-85, 110, 136, 145, 153, 159-61,
Russelsheim, 318 195-96, 197, 221-22, 225, 238, 270, 278-
Russia, 61, 63, 77 79, 284, 306-07, 312-13
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:41 Pagina 373

INDICE DELLE PERSONE E DELLE COSE NOTEVOLI 373

Statuto dei Lavoratori, 192, 242, 247 146, 153, 155, 159, 163-64, 166-67, 169,
Stoccolma, 143 173-76, 182, 188, 196, 208-10, 249-54,
Sud, del mondo 271, 302, 308, 311
paesi del, 8, 17, 23, 25-26, 31, 34-37, UEM (Unione Economica e Monetaria),
43-46, 57, 59-65, 67, 71-77, 79, 81- 92-93, 95-99, 101-05, 108, 110-16, 119-
82, 86, 151, 162, 169, 244, 314 23, 125, 127, 130, 132-39, 141-44, 146-
Sudest asiatico, 61, 77 51, 153, 157, 160-61, 174-75, 179-80,
Svezia, 114, 136, 150, 173-75, 209, 253, 183-84, 194, 206-07, 307
261, 308-09 UNCTAD, 34, 74-75
sviluppo equo e sostenibile, 69, 74, 82, 87, Ungheria, 249
247 URSS, 47, 58, 134
Svizzera, 249-50 Uruguay, 44
Uruguay Round, 20, 27, 31-32, 74
Tanzi, Calisto 221, 225 USA, 5, 16, 19-21, 24, 26-27, 31-41, 43-45,
tassazione della rendita finanziaria, 302, 47, 50-56, 57-63, 66, 71, 73, 76-77, 81,
307-10 84-85, 92-99, 101-06, 115, 124, 137, 142,
tassi di cambio, 49, 52, 54, 57, 77, 85, 109- 145, 151, 162, 166-67, 169, 197, 199,
13, 115-17, 149. 151, 156, 158-60, 167, 206, 209-11, 257, 271, 293, 299-300,
175-76, 184-85, 205 302, 313
tassi di interesse, 48, 57, 59, 62, 71, 103-
04, 106, 112-17, 119-20, 131, 134, 138, Veneto, 189
146, 159-60, 168, 187, 202, 207, 220, Venezuela, 36, 38-42, 326
255, 289, 291-97, 302, 308-11 Versailles, 268
Terni, 195, 271 Via Campesina, 7-8, 329
TFR (Trattamento di Fine Rapporto), 253, Vietnam, 54
258-59 Volkswagen, 274
Thatcher, Margaret, 197, 299
Tobin tax, 84, 160-61, 306-07 Wall Street, 50, 55, 58, 222, 313
Torino, 283, 319 Washington, 78-79
Tremonti, Giulio, 76, 186, 201, 267-68, 302 Washington Consensus, 59, 62-63, 65, 77,
Treu, Tiziano, 181 81
Triffin, Robert, 53 Welfare State (Stato sociale), 57, 248, 300,
Trilussa, 313 312
TRIPS (Agreement on Trade Related Werner, Piano, 110, 117
Aspects of Intellectual Property Rights), White, Piano, 51
25-27 World Trade Center, 31
Truman, Henry, 21 World Trade Organization (WTO), 5-8,
11, 17, 20-32, 35-39, 43-45, 59, 66-70,
UE (Unione Europea), 15, 24-35, 32-37, 72-76, 81-82, 88, 169, 175
39, 43-46, 66, 72-76, 86, 88, 91-92, 94-
95, 98-100, 108, 122, 124-26, 132, 136, Yucatán, 5
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ricci ultimissimo 26-10-2004 14:41 Pagina 375

Indice delle tabelle e dei grafici

Tabella 1. PIL e consumi pro capite negli USA e nell’UEM (1960-2003), p. 92

Tabella 2. Crescita del PIL reale. Tassi medi annui di variazione (UEM, USA,
Giappone: 1961-2003), p. 93

Tabella 3. Crescita economica nell’UEM e negli USA (1991-2003). Contributo


medio annuo dei fattori di offerta, p. 96

Tabella 4. La crescita della domanda nell’UEM e negli USA (1991-2003). Tas-


si medi annui di variazione in termini reali a prezzi 1995, p. 101

Tabella 5. Redditività degli investimenti produttivi nell’UEM e negli USA


(1991-2003), p. 103

Tabella 6. Crescita economica nell’UEM e negli USA (1991-2003). Contributo


medio annuo delle componenti della domanda, p. 105

Tabella 7. I parametri di Maastricht all’inizio e alla fine del periodo di transi-


zione verso l’UEM (1991 e 1997), p. 114

Tabella 8. Aggiustamento fiscale nel periodo di Maastricht. Dati in percentuale


del PIL. Variazioni complessive (1991-97), p. 120

Tabella 9. Gli effetti economici del trattato di Maastricht. Medie annue dei pe-
riodi 1986-91 e 1992-1997, p. 123

Tabella 10. La crescita economica negli anni del Patto di Stabilità e Crescita.
Tassi medi annui di variazione del PIL (1998-2003), p. 137

Tabella 11. La crescita in Europa negli anni di Maastricht. Tassi medi annui di
variazione per singoli paesi (1991-2003), p. 174

Tabella 12. Quote di esportazioni di beni e servizi sul mercato mondiale e com-
petitività di prezzo dei paesi dell’UE (1991 e 2002), p. 175
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:41 Pagina 376

376 INDICE DELLE TABELLE E DEI GRAFICI

Tabella 13. La crescita economica in Italia dall’Unità a oggi (1862-2003). Tassi


medi annui di variazione in percentuale, p. 176

Tabella 14. Produzione industriale in Italia dall’Unità ad oggi (1862-2003). Tas-


si medi annui di variazione in percentuale, p. 178

Tabella 15. Crescita economica nell’Italia e nell’UEM. Contributo medio annuo


dei fattori di offerta (1991-2003), p. 179

Tabella 16. La crescita della domanda nell’Italia e nell’UEM (1991-2003). Tas-


si medi annui di variazione in termini reali a prezzi 1995, p. 183

Tabella 17. La crescita economica nell’Italia e nell’UEM. Contributo medio an-


nuo delle componenti della domanda (1991-2003), p. 184

Tabella 18. Quota dell’Italia e della Cina sulle esportazioni mondiali nei setto-
ri di specializzazione produttiva italiana (1990 e 2002), p. 187

Tabella 19. Redditività degli investimenti produttivi in Italia e nell’UEM


(1991-2003), p. 207

Tabella 20. Quota dei salari sul valore aggiunto totale del settore privato (in per-
centuale). Valori medi del periodo 1960-2003, p. 209

Tabella 21. Variazioni della quota dei salari sul valore aggiunto totale del setto-
re privato (1960-2003), p. 210

Tabella 22. Differenza tra il tasso di crescita dei salari orari e il tasso di crescita
del reddito nazionale. Valori medi annui (1970-2002), p. 211

Tabella 23. Bassi salari e povertà tra i lavoratori dipendenti. Italia, 1989 e 1998.
Quote percentuali sul totale. Valori monetari espressi in lire (1998), p. 213

Tabella 24. Concentrazione e composizione della ricchezza delle famiglie italia-


ne. Anno 1998, p. 217

Tabella 25. Fattori della crescita del debito pubblico italiano. Dati in percen-
tuale del PIL, (1991-2002), p. 292

Grafico 1. Crescita del prodotto interno lordo mondiale e del volume delle
esportazioni nella seconda metà del XX secolo, p. 17

Grafico 2. Quota percentuale del lavoro part-time sull’occupazione totale


(1990-2003), p. 98.

Grafico 3. La distribuzione del reddito in Italia. Quote percentuali sul reddito


primario privato lordo (1980-2003), p. 208
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Indice

Prefazione di Luciano Gallino VII

Premessa di Andrea Ricci IX

Ringraziamenti XV

DOPO IL LIBERISMO 1

Prologo. Cancun, penisola dello Yucatán, Messico, settembre 2003.


Il vento si è fermato 5

PARTE PRIMA. Per un altro mondo 9

1. Il WTO e la globalizzazione neoliberista 11


1.1. Uso e significato del termine “globalizzazione”, p. 11 – 1.2. Realtà e mi-
to della globalizzazione economica, p. 15 – 1.3. Che cosa è il WTO, p. 20 –
1.4. Il GATS e lo spettro della privatizzazione globale, p. 27 – 1.5. Il falli-
mento di Cancun, p. 30 – 1.6. L’ALCA e il neoliberismo in America Latina,
p. 38 – 1.7. La politica commerciale dell’Unione Europea, p. 43

2. Il dominio del dollaro e il fallimento del FMI


e della Banca Mondiale 47
2.1. Il sistema monetario internazionale prima di Bretton Woods: il ritor-
no all’oro, p. 47 – 2.2. Il sistema di Bretton Woods, p. 51 – 2.3. Il domi-
nio del dollaro nell’era della globalizzazione neoliberista, p. 55 – 2.4. FMI,
Banca Mondiale e il fallimento del Washington Consensus, p. 62

3. Per un nuovo ordine economico internazionale 66


3.1. Dopo Cancun: le posizioni strategiche degli Stati sul futuro del WTO,
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:41 Pagina 378

p. 66 – 3.2. Le alternative al WTO: il dibattito all’interno del movimento,


p. 68 – 3.3. Per un nuovo ordine commerciale globale, multilaterale e de-
mocratico, p. 72 – 3.4. Le proposte ufficiali di riforma dell’architettura fi-
nanziaria internazionale, p. 77 – 3.5. Una nuova Bretton Woods per co-
struire un nuovo ordine monetario e finanziario globale, p. 81

PARTE SECONDA. Per un’altra Europa 89

4. Il declino dell’Europa 91
4.1. Il declino dell’Europa, p. 91 – 4.2. Una tesi incredibile: l’oziosità dei
lavoratori come causa del declino europeo, p. 94 – 4.3. Il triste lascito di
Maastricht, p. 101

5. Il manifesto ideologico di Maastricht 108


5.1. Il marchio di Maastricht sull’Europa, p. 108 – 5.2. I parametri di
Maastricht e il quadro istituzionale della politica economica europea, p.
110 – 5.3. La strada percorsa a Maastricht e la possibile alternativa man-
cata, p. 115 – 5.4. Gli effetti economici e sociali dei parametri di Maa-
stricht, p. 119 – 5.5. Disparità territoriali, disuguaglianze sociali e povertà
nell’Europa di Maastricht, p. 124 – 5.6. Dopo Maastricht, sempre più
Maastricht, p. 127

6. Il Patto di Stabilità e Crescita europeo 129


6.1. Il fantasma del Patto di Stabilità, p. 129 – 6.2. Che cosa è il Patto di
Stabilità e Crescita europeo, p. 130 – 6.3. Il fallimento del Patto di Stabi-
lità e Crescita, p. 136 – 6.4. La proposta di modifica della Commissione
Europea, p. 139 – 6.5. La golden rule, p. 141 – 6.6. Una nuova Maastricht
per le pensioni, p. 143 – 6.7. Regole solo sulla spesa pubblica, p. 144 –
6.8. Abbandonare gli automatismi nella politica economica, p. 145

7. Proposte per un’altra Europa 148


7.1. La crisi dell’approccio mercantile all’integrazione europea, p. 148 –
7.2. La soluzione non è il ritorno all’autarchia nazionale, p. 150 – 7.3. L’u-
nificazione delle politiche fiscali, p. 151 – 7.4. La riforma democratica del-
la Banca Centrale Europea, p. 156 – 7.5. Per una politica di piena occu-
pazione in Europa, p. 161 – 7.6. L’unità politica dell’Europa in nome del
lavoro, p. 166

PARTE TERZA. Per un’altra Italia 171

8. Il declino dell’Italia 173


8.1. Il baratro dell’economia italiana, p. 173 – 8.2. Perché così male?, p.
178 – 8.3. La precarizzazione del lavoro, p. 180 – 8.4. L’obsoleta specia-
lizzazione produttiva dell’economia italiana, p. 183 – 8.5. Il “nanismo”
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:41 Pagina 379

delle imprese italiane, p. 188 – 8.6. La svendita dell’industria pubblica e


il disastro delle privatizzazioni, p. 192 – 8.7. La strana privatizzazione del
sistema bancario, p. 199

9. La perversa redistribuzione del reddito


e il capitalismo predone nell’Italia di Maastricht 205
9.1. La perversa redistribuzione del reddito, p. 205 – 9.2. Bassi salari, po-
vertà e disuguaglianza nell’Italia di Maastricht, p. 211 – 9.3. Dov’è finito
il tesoro di Maastricht?, p. 219

10. Prima di tutto il lavoro e il salario! 226


10.1. Trasformazioni e nuova centralità del lavoro salariato, p. 226 – 10.2.
La priorità della redistribuzione del reddito, p. 233 – 10.3. Per una nuo-
va scala mobile, p. 235 – 10.4. Per il salario minimo, il salario di cittadi-
nanza e nuove rigidità del lavoro, p. 243 – 10.5. Per un nuovo welfare, p.
247 – 10.6. L’inganno dell’emergenza pensioni, p. 253 – 10.7. Per un nuo-
vo sistema pensionistico, pubblico e universale, p. 259

11. Per un nuovo intervento pubblico nell’economia 264


11.1. Per battere le politiche di destra e non solo il governo delle destre,
p. 264 – 11.2. Per una nuova politica industriale, p. 269 – 11.3. Un esem-
pio concreto. Per la nazionalizzazione della Fiat, p. 272 – 11.4. Per un
nuovo sistema bancario e finanziario, p. 277 – 11.5. Per una nuova poli-
tica degli investimenti pubblici, p. 281 – 11.6. Omnia sunt communia, per
i beni comuni e la qualità dello sviluppo, p. 284

12. Più tasse, ma non per tutti! 289


12.1. Il debito pubblico e la riduzione della spesa per interessi, p. 289 –
12.2. Dove tagliare? Spese militari e sussidi alle grandi imprese, p. 297 –
12.3. «Guai ai poveri», ovvero il fisco secondo Berlusconi, p. 299 – 12.4.
Per la giustizia fiscale, p. 303 – 12.5. A chi ridurre le tasse? Lavoratori di-
pendenti, pensionati e famiglie povere, p. 310 – 12.6. Considerazioni con-
clusive, p. 313

Epilogo. Melfi, Lucania, Italia, aprile 2004.


Un nuovo vento è arrivato. Il vento caldo del Sud 316

Note 323
Bibliografia 349
Indice delle persone e delle cose notevoli 367

Indice delle tabelle e dei grafici 375


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ricci ultimissimo 26-10-2004 14:41 Pagina 381

Collana «Le terre»


(ultime uscite)

45. Philippe Beaussant, Anche il Re Sole sorge al mattino. Una giornata di Luigi
XIV, prefazione di Giuliano Ferrara. Traduzione di Laura Pugno. (Scritture)

46. Alessandro Spaventa - Fabrizio Saulini, American Lies. Ascesa e caduta del-
la Enron. (Interventi)
47. Ekkehart Krippendorff, L’arte di non essere governati. Politica etica da Socra-
te a Mozart, traduzione di Vinicio Parma. (Pensiero)
48. Dag Tessore, La mistica della guerra. Spiritualità delle armi nel cristianesimo
e nell’islam, prefazione di Franco Cardini. (Civiltà)
49. Jacques Allaman, Cecenia. Ovvero, l’irresistibile ascesa di Vladimir Putin, tra-
duzione di Giuliano Cianfrocca. (Interventi)
50. Antonio Monda, La magnifica illusione. Un viaggio nel cinema americano.
(Scritture)
51. Nafeez Mosaddeq Ahmed, Dominio. La guerra americana all’Iraq e il geno-
cidio umanitario, traduzione di Thomas Fazi, Andreina Lombardi Bom, Nazza-
reno Mataldi, Pietro Meneghelli, Vincenzo Ostuni e Isabella Zani. (Interventi).
52. Mario Gamba, Questa sera o mai. Storie di musica contemporanea. (Scritture)
53. Christopher Hitchens, Processo a Henry Kissinger, traduzione di Marco Pet-
tenello. (Interventi)
54. James Wilson, La terra piangerà. Le tribù native americane dalla preistoria ai
nostri giorni, traduzione di Alberto Bracci Testasecca. (Civiltà)
55. Baruch Kimmerling, Politicidio. Ariel Sharon e i palestinesi, traduzione di
Elisa Bonaiuti. (Interventi)
56. Colm Tóibín, Amore in un tempo oscuro. Vite gay da Wilde ad Almodóvar,
traduzione di Pietro Meneghelli. (Scritture)
57. Robert Nozick, Invarianze. La struttura del mondo oggettivo, introduzione di
Sebastiano Maffettone. Traduzione di Gianfranco Pellegrino. (Pensiero)
58. Manlio Dinucci, Il potere nucleare, prefazione di Giulietto Chiesa. (Inter-
venti)
59. Rita Di Giovacchino, Il libro nero della Prima Repubblica, prefazione di Mas-
simo Brutti, con un’intervista a Giovanni Pellegrino. (Interventi) (2a ed.)
60. Clyde V. Prestowitz, Stato canaglia. La follia dell’unilateralismo americano,
traduzione di Irene Floriani. (Interventi)
61. Will Hutton, Europa Vs. USA. Perché la nostra economia è più efficiente e la no-
stra società più equa, prefazione di Guido Rossi, con un saggio di Massimiliano
Panarari. Traduzione di Fabrizio Saulini. (Interventi)
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:41 Pagina 382

62. Gianfranco Fini, L’Europa che verrà. Il destino del continente e il ruolo del-
l’Italia, a cura di Carlo Fusi, prefazione di Giuliano Amato. (Interventi)
63. Thomas Cahill, Desiderio delle colline eterne. Il mondo prima e dopo Gesù,
traduzione di Nazzareno Mataldi. (Civiltà)
64. William Blum, Il libro nero degli Stati Uniti, con un aggiornamento di Nafeez
Mossadeq Ahmed. Traduzione di Giorgio Bizzi, Maria Fausta Marino, Riccardo
Masini, Chiara Vatteroni e Isabella Zani. (Interventi) (4a ed.)
65. Alessandro Spaventa - Fabrizio Saulini, Divide et impera. La strategia dei neo-
conservatori per dividere l’Europa. (Interventi)
66. Gore Vidal, Il canarino e la miniera. Saggi letterari 1956-2000, postfazione di
Claudio Magris. Traduzione di Stefano Tummolini. (Scritture)
67. James Bamford, L’orecchio di Dio. Anatomia e storia della National Security
Agency, traduzione di Riccardo Masini. (Interventi)
68. Tariq Ali, Bush in Babilonia. La ricolonizzazione dell’Iraq, traduzione di Fran-
cesca Minutiello. (Interventi)
69. Klaus K. Klostermaier, Induismo. Una introduzione, traduzione di Mimma
Congedo. (Civiltà)
70. John H. Berthrong - Evelyn Nagai Berthrong, Confucianesimo. Una introdu-
zione, traduzione di Marcello Ghilardi. (Civiltà)
71. Hilary Putnam, Fatto/Valore. Fine di una dicotomia e altri saggi, introduzio-
ne di Mario De Caro, traduzione di Gianfranco Pellegrino. (Pensiero)
72. Lapo Pistelli - Guelfo Fiore, Semestre nero. Berlusconi e la politica estera, pre-
fazione di Lucio Caracciolo. (Interventi)
73. Henri de Grossouvre, Parigi Berlino Mosca. Geopolitica dell’indipendenza
europea, prefazione di Pierre Marie Gallois. Traduzione di Maura Posponi.
(Interventi)
74. Jonathan Spence, Mao Zedong, traduzione di Loredana Baldinucci. (Bio-
grafie)
75. Paul Johnson, Napoleone, traduzione di Ilaria Belliti. (Biografie)
76. Philip Jenkins, La terza chiesa. Il cristianesimo nel XXI secolo, prefazione di
Franco Cardini. Traduzione di Pietro Meneghelli. (Civiltà)
77. Franco Ferrucci, Il teatro della fortuna. Potere e destino in Machiavelli e
Shakespeare. (Scritture)
78. Gore Vidal, Democrazia tradita. Discorso sullo stato dell’Unione 2004 e al-
tri saggi, traduzioni di Marina Astrologo, Giuseppina Oneto e Stefano Tum-
molini. (Interventi)
79. Ekkehart Krippendorff, Critica della politica estera, prefazione di Gian
Giacomo Migone. Traduzione di Elisabetta Dal Bello. (Pensiero)
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:41 Pagina 383

80. John Gray, Al Qaeda e il significato della modernità, postfazione di Seba-


stiano Maffettone. Traduzione di Lorenzo Greco. (Pensiero)
81. Gret Haller, I due Occidenti. Stato, nazione e religione in Europa e negli Sta-
ti Uniti, con una postfazione dell’autrice all’edizione italiana. Traduzione di
Francesca Febbraro. (Interventi)
82. Paolo Cacace, L’atomica europea. I progetti della guerra fredda, il ruolo del-
l’Italia, le domande del futuro, prefazione di Sergio Romano. (Interventi)
83. Richard Heinberg, La festa è finita. La scomparsa del petrolio, le nuove guer-
re, il futuro dell’energia, prefazione all’edizione italiana di Alfonso Pecoraro Sca-
nio, prefazione all’edizione statunitense di Colin J. Campbell, prefazione del-
l’autore all’edizione italiana. Traduzione di Nazzareno Mataldi. (Interventi)
84. Michele Lauria, Telekom Serbia, pupi e pupari, con la collaborazione di Lau-
ra Trovellesi. (Interventi)
85. David Ray Griffin, 11 settembre. Cosa c’è di vero nelle “teorie del complotto”,
prefazione all’edizione inglese di Michael Meacher, prefazione all’edizione sta-
tunitense di Richard Falk. Traduzione di Giuseppina Oneto. (Interventi)
86. Nafeez Mosaddeq Ahmed, Guerra alla verità. Tutte le menzogne dei governi
occidentali e della Commissione “indipendente” USA sull’11 settembre e su Al Qae-
da, traduzione di Nazzareno Mataldi, Pietro Meneghelli, Matteo Sammartino,
Francesca Valente e Piero Vereni. (Interventi)
87. Franco Rella, Pensare per figure, Freud, Platone, Kafka, il postumano. (Pen-
siero)
88. Robert R. Reich, Perché i liberal vinceranno ancora, prefazione di Walter Vel-
troni, con un saggio di Massimiliano Panarari. Traduzione di Francesca Minu-
tiello. (Interventi)
89. Frances Stonor Saunders, La guerra fredda culturale. La CIA e il mondo delle
lettere e delle arti, postfazione di Giovanni Fasanella. Traduzione di Silvio Cal-
zavarini. (Interventi)
90. Robert Pogue Harrison, Il dominio dei morti, postfazione di Andrea Zan-
zotto. Traduzione di Pietro Meneghelli. (Scritture)
91. Fausto Bertinotti - Lidia Menapace - Marco Revelli, Nonviolenza. Le ragio-
ni del pacifismo. (Interventi)
92. Victoria Shofield, Kashmir. India, Pakista e la guerra infinita, traduzione di
Massimiliano Manganelli. (Storia)
93. El Hassan Bin Talal, Il cristianesimo nel mondo arabo, prefazione di Carlo
d’Inghilterra, prefazione all’edizione italiana del cardinale Pio Laghi. Traduzio-
ne di Flavia Tesio Romero. (Civiltà)
94. Andrea Ricci, Dopo il liberismo. Proposte di una politica economica di sinistra,
prefazione di Luciano Gallino. (Interventi)
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:41 Pagina 384

Finito di stampare
nel mese di novembre 2004
nello stabilimento grafico
Legatoria del Sud di Ariccia (Roma)
per conto di
Fazi Editore

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