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94
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina IV
ISBN: 88-8112-589-7
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Andrea Ricci
DOPO IL LIBERISMO
PROPOSTE PER UNA POLITICA ECONOMICA
DI SINISTRA
Prefazione
di Luciano Gallino
Scorrendo l’indice di questo libro, sulle prime verrebbe da dire che sia-
mo dinanzi a tre libri in uno, ovvero a una platea di argomenti oltremodo
ampia. La globalizzazione e il fallimento, nel settembre 2003, della confe-
renza di Cancun promossa dall’Organizzazione Mondiale per il Commer-
cio; il declino dell’Europa e la storia del trattato di Maastricht; la politica
industriale italiana, la riforma del sistema pensionistico e le lotte dei lavo-
ratori di Melfi nella primavera 2004: i temi affrontati nelle pagine che se-
guono sono davvero numerosi quanto in apparenza eterogenei.
Tuttavia, a mano a mano che si procede nella lettura ci si rende conto
che l’autore non si è limitato a fare un giro di ricognizione dei grandi te-
mi riportabili a una politica economica di sinistra. Li ha collegati organi-
camente uno all’altro, mettendone in risalto le complesse interdipenden-
ze. In tal modo diventa evidente, per dire, come la riforma della previ-
denza sociale testè varata dal governo non sarebbe stata altrettanto re-
gressiva se non avesse avuto sullo sfondo il neoliberismo che ispira tutta
la politica economica dell’Unione Europea. Cancun e Melfi sono distan-
ti, e le questioni del commercio internazionale laggiù discusse dai delegati
di oltre cento paesi sono diversissime dai problemi di orario e di paga che
qui hanno mobilitato gli operai Fiat. Ma, a ben vedere, entrambi gli even-
ti possono venire correttamente interpretati – è quanto fa l’autore – come
espressione di quella mondializzazione delle resistenze che è un segno
delle crepe apertesi, a causa delle sue stesse deficienze strutturali, nel pro-
getto globalitario. E, al tempo stesso, come una dimostrazione che, in de-
terminate circostanze, è ridiventato possibile dire no dal basso alle pre-
tese di organizzare il mondo, la produzione e la vita in un unico modo
omogeneo e livellatore, che provengono dall’alto.
Farà discutere, questo libro. Anzitutto, ovviamente – visto il suo sot-
totitolo –, in tutto l’arco della sinistra. È pur vero che alcuni dei temi che
Ricci propone di inserire da capo nell’agenda politica della sinistra han-
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PREFAZIONE IX
Per contro, i dati qui riportati dicono che tra i secondi anni Settanta e i
primi anni del Duemila la quota dei salari sul valore aggiunto totale del
settore privato ha subito un crollo superiore a quello di ogni altro paese
europeo. In Italia essa perde ben 14,4 punti, scendendo dal 76,6 al 62,2,
mentre la stessa quota perde 10,5 punti percentuali in Francia, solo 4,4 in
Germania, 2,3 in Spagna e ne guadagna addirittura 1,8 in Gran Bretagna.
Sono tutti paesi che si collocano parecchie posizioni più in alto dell’Ita-
lia nelle classifiche internazionali della competitività.
Nella sostanza, gli argomenti ben costruiti, e i dati presentati con rigo-
re e chiarezza, fanno sì che quando le si esamini in dettaglio le proposte
di politica economica contenute in questo libro appaiano assai meno scan-
dalosamente radicali di quanto non farebbe pensare la loro intitolazione.
Se il termine “riforme” non fosse stato svuotato di senso dalle recenti leg-
gi in tema di lavoro e previdenza, come dall’uso che di esso talora fanno
esponenti del centrosinistra, molte delle proposte delineate in questo libro
si potrebbero agevolmente collocare sotto tale nome. Una delle più im-
portanti di esse riguarda la riduzione dell’evasione fiscale. Nel 2004 in Ita-
lia, scrive l’autore, si sono prodotti almeno 220 miliardi di euro di reddi-
to non sottoposto ad alcun prelievo fiscale. È in larga misura il prodotto
dell’economia sommersa, equivalente a nientemeno che il 17 per cento del
PIL. Se si riuscisse a far scendere in cinque anni la quota di evasione fisca-
le di soli 7 punti, avvicinandola così a quella degli altri paesi europei, le en-
trate fiscali potrebbero aumentare di 8 miliardi di euro all’anno. A regime,
questa sola riforma porterebbe quindi alle casse dello Stato e dell’INPS –
e tramite esse, si può ipotizzare, a investimenti in istruzione, ricerca e pro-
tezione sociale – circa 40 miliardi di euro a ogni esercizio.
L’obiettivo è ambizioso, perché le difficoltà sono molte, come dimo-
stra il fallimentare tentativo del governo in carica di far emergere il som-
merso: si attendevano due milioni di domande di regolarizzazione indi-
viduali, ne sono arrivate quattromila. Ed è un obiettivo di sinistra, sia per-
ché il solo porselo significa provare a guidare la politica economica ver-
so una maggiore giustizia sociale, non solo fiscale; sia perché si tratta di
scontentare una quota di elettori orientati prevalentemente verso il cen-
tro, se non addirittura verso destra. Che è una delle ragioni per cui po-
chi governi hanno provato sul serio a contrastare il sommerso.
Dovrebbe però restare evidente che laddove parole come “riforme”, e
magari “socialismo”, tornassero ad avere un senso, proposte del genere
apparirebbero buone candidate per figurare nella piattaforma di una rin-
novata sinistra europea, aggregatrice di domande politiche emergenti in
molteplici forme, quanto risolutamente post terza via. Che qui e ora tali
proposte possano rischiare d’apparire poco realiste, ovvero, detto altri-
menti, politicamente azzardate perfino per talune sensibilità di sinistra, al
punto da non accettare nemmeno di discuterne, dimostrerebbe sempli-
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X LUCIANO GALLINO
Premessa
di Andrea Ricci
PREMESSA XIII
progresso sociale non può avvenire senza incidere in profondità sulle di-
storsioni strutturali della formazione economica e sociale del capitalismo
italiano, sui suoi assetti di classe e sulle sue mentalità consolidate. In altre
parole, occorre invertire i tempi della partita. È giunto il momento di ri-
vendicare prima le riforme e poi, come naturale conseguenza, l’uscita dal-
l’emergenza economica.
In questi anni il termine “riforma” ha subito un radicale processo di
trasformazione semantica. Se prima esso stava a intendere la necessità di
migliorare le condizioni di vita e di partecipazione democratica delle mas-
se popolari e delle classi subalterne, nel corso dell’ultimo decennio le
“riforme” sono state invocate dai poteri costituiti per smantellare diritti e
conquiste sociali. Si parla così di «riforma delle pensioni» per ridurre la
copertura previdenziale dei lavoratori vecchi e nuovi, di «riforma del
mercato del lavoro» per estendere precarietà e insicurezza e così via. Le
classi subalterne sono state così spogliate anche degli strumenti linguisti-
ci attraverso cui esprimere le proprie esigenze e le proprie rivendicazio-
ni. La stessa facoltà di parlare viene, in questo modo, negata alla radice a
chi non ha il potere di decidere nemmeno del significato delle proprie pa-
role. Ciò vuol dire che dobbiamo inventare un nuovo vocabolario della
protesta e della lotta? Non credo che sia questa la giusta soluzione. Dob-
biamo invece smascherare la perversione linguistica dei poteri dominan-
ti e affermare che ridurre pensioni e salari non costituisce una “riforma”
ma, al contrario, una restaurazione delle forme più arcaiche del dominio
di classe, una estensione dei privilegi e delle prerogative per i ricchi e i po-
tenti. Rivendicare una politica di riforme, d’altro canto, non vuol dire in-
vocare una politica “riformista”. Il riformismo è una corrente politica che
ha praticato la moderazione, la gradualità, il compromesso aprioristico
come unico mezzo per realizzare le riforme. Ciò che occorre, nell’Italia di
oggi, è invece una rottura, un salto, una discontinuità rispetto all’evolu-
zione storica dell’organizzazione economica e sociale.
L’attuale risorgenza delle ipotesi neocentriste e concertative, che vivo-
no all’interno di entrambi gli schieramenti politici e che trovano ispira-
zione nei poteri economici e finanziari italiani e internazionali, produce,
quindi, il classico effetto che si manifesta ogniqualvolta si tenta di ripete-
re la storia passata, un effetto farsesco e grottesco. L’Italia di oggi non ha
bisogno di retorica patriottarda né di appelli stantii ai buoni sentimenti.
Sappiamo ormai che questi atteggiamenti hanno un solo fine, quello di
non disturbare il manovratore. Non siamo più negli anni Settanta, quan-
do un potente ciclo di lotte operaie e studentesche, senza pari in Europa,
aveva strappato alle classi dominanti italiane una serie di importanti con-
quiste sociali. Allora si disse, strumentalmente, che la causa dei mali eco-
nomici era da addebitare alla eccessiva rapidità di quelle trasformazioni
sociali e alla conflittualità antagonista che esse portavano con sé. E gli er-
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Ringraziamenti
DOPO IL LIBERISMO
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Prologo
Cancun, penisola dello Yucatán, Messico, settembre 2003.
Il vento si è fermato
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PROLOGO 7
di distanza dai luoghi della conferenza, per sbarrare il passo ai “non ad-
detti ai lavori”. E nemmeno per l’invasione di migliaia di militari e poli-
ziotti messicani, con i loro fucili e i loro mezzi da combattimento, affian-
cati da centinaia di agenti in borghese, europei e statunitensi. Cancun sta
subendo un’altra piccola invasione, questa volta non di turisti. Nelle stra-
de della città cominciano a vedersi autobus sgangherati e polverosi, ben
diversi da quelli lussuosi, con bagno e aria condizionata, al servizio degli
occidentali. Sono pieni di campesinos e di indios, venuti dal Chiapas e dai
luoghi più sperduti del subcontinente messicano, dopo viaggi durati
giorni, percorrendo migliaia di miglia lungo strade impossibili. Hanno
aderito all’appello di Via Campesina, il movimento mondiale che orga-
nizza oltre 70 milioni di braccianti e di piccoli agricoltori di ogni conti-
nente, per contestare il vertice WTO. Possono stare solo pochi giorni, ac-
campati nei parchi della città, perché devono tornare a lavorare i loro mi-
seri campi. E in mezzo a loro ci sono migliaia di altre persone, strane a
vedersi da queste parti. Sono contadini sudcoreani e asiatici e tanti ra-
gazzi e ragazze del movimento europeo e nordamericano, anche loro qui
per la stessa ragione.
Per cinque giorni sulle strade di Cancun è un susseguirsi di manife-
stazioni di massa, di azioni di protesta individuali e di gruppo, di conte-
stazioni, tutte rigorosamente pacifiche. Sono i campesinos a guidare e a
dirigere tutto. Ad andare avanti, a ridosso delle truppe schierate a prote-
zione delle strade che conducono ai palazzi del vertice, sono le donne
maya, vestite dei costumi tradizionali del loro popolo, pieni di colori sgar-
gianti, che, armate di cesoie e di funi, tagliano e tirano giù le reti metalli-
che, i muri eretti per tenere lontano questo popolo dai luoghi del potere.
I pochissimi, per lo più studenti messicani, che erano giunti a Cancun con
intenzioni bellicose, si mettono agli ordini dei dirigenti e dei militanti
contadini e aiutano le donne maya a fare il loro lavoro, passando loro cor-
de e attrezzi. La serena tranquillità di quelle donne, la calma dei loro uo-
mini, abituati da secoli a sopportare i più orribili soprusi senza piegarsi,
covando sempre dentro di sé la certezza di una superiore dignità umana,
contagiano tutti. Anche i militari e la polizia adottano forme di conteni-
mento prudenti e il più possibile pacifiche.
Ma anche dentro i palazzi ovattati dove si svolge la conferenza sono ri-
petuti gli episodi di contestazione e di boicottaggio non violento dei la-
vori, che hanno come protagoniste le tante associazioni e organizzazioni
non governative (ONG), ammesse come osservatrici per sostenere la cau-
sa di un commercio più equo e solidale e per offrire servizi di consulen-
za e di ricerca alle delegazioni dei paesi più poveri. C’è una stretta rela-
zione, concordata preventivamente, tra le azioni del movimento e delle
ONG dentro e fuori il palazzo, in nome di un comune obiettivo: il vertice
deve fallire. D’altra parte, da parecchi mesi in ogni continente il movi-
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PARTE PRIMA
Per un altro mondo
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la sua ideologia e delle sue politiche. Per tale ragione, la definizione cor-
retta della globalizzazione attuale è quella di globalizzazione neoliberista.
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Secondo questa tesi, dunque, la novità dell’attuale fase del sistema capi-
talistico risiederebbe principalmente nella globalizzazione finanziaria,
derivante dalla completa liberalizzazione dei movimenti di capitale, piut-
tosto che in quella reale, che avrebbe soltanto recuperato le dimensioni
già conosciute prima della grande crisi del capitalismo della prima metà
del XX secolo.
Per capire se questa rapida espansione del commercio internazionale
corrisponda a effettive modificazioni strutturali subite dal capitalismo nel
corso dell’ultimo ventennio oppure nasconda, come in un grande gioco
dell’oca della storia, un ritorno alle origini dopo la parentesi del “secolo
breve”, è utile partire da un più accurato esame della dimensione empiri-
ca assunta dal fenomeno del commercio internazionale rispetto alla prece-
dente fase di globalizzazione. In questo senso, l’analisi della crescita delle
esportazioni espressa in volume, cioè in quantità fisiche di merci, ci forni-
sce un’immagine più esatta rispetto a quella data dalla loro espressione in
valore, cioè in quantità monetarie, perché consente di depurare le variabi-
li dagli effetti puramente nominali derivanti dalle variazioni delle quota-
zioni relative tra le diverse valute e dei prezzi dei diversi beni commercia-
ti. Infatti, mentre le variazioni in termini di valore possono essere determi-
nate da variazioni delle ragioni di scambio6, la differenza in termini di vo-
lume fisico del commercio internazionale è più indicativa dei mutamenti
reali subiti dai processi di produzione e di consumo su scala globale.
Nel periodo 1950-70 le esportazioni in volume sono cresciute circa il
50 per cento più rapidamente del PIL. Negli anni Ottanta la crescita del-
le esportazioni tende ad accelerare relativamente alla produzione e lo
scarto arriva all’80 per cento. Ma la vera e propria esplosione avviene ne-
gli anni Novanta, quando il tasso di crescita medio annuo delle esporta-
zioni mondiali in volume (6,5 per cento) supera di ben 2,6 volte il tasso
di crescita del PIL (2,5 per cento) e tale differenza si mantiene costante an-
che nei primi tre anni del nuovo secolo, nonostante la crisi economica. Il
grafico 1 illustra visivamente la divaricazione nella rapidità della crescita
in volume delle esportazioni rispetto alla produzione mondiale che si è
avuta negli anni Novanta.
Nell’ultimo quindicennio è dunque accaduto qualcosa di nuovo nel-
l’economia globale, che ha mutato la composizione e l’organizzazione dei
processi produttivi. Ma cosa si può dire rispetto alla fase antecedente al
primo dopoguerra?
Secondo le stime di Paul Bairoch nel corso del XIX secolo l’espansio-
ne del volume del commercio internazionale è progredita a un ritmo dop-
pio (il 4 per cento) rispetto a quello della produzione lorda (il 2 per cen-
to), con «una progressione priva di precedenti storici»7. Tuttavia, analiz-
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Grafico 1. Crescita del prodotto interno lordo mondiale e del volume delle esportazioni
nella seconda metà del XX secolo. (Fonte: nostre elaborazioni su dati WTO 2003, base
1990 = 100).
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mondiale. Sono invece ben due miliardi e ottocento milioni, pari al 56 per
cento degli abitanti del pianeta, gli esseri umani che riescono a malapena
a sopravvivere con meno di due dollari al giorno. Più di ottocento milio-
ni di persone soffrono la fame. L’1 per cento più ricco della popolazione
mondiale ha un reddito pari a quello del 57 per cento più povero; il 10
per cento dei cittadini più ricchi degli USA, cioè venticinque milioni di
persone, guadagnano e consumano come il 43 per cento della popolazio-
ne mondiale, cioè come due miliardi di persone. Nel 1999 i profitti delle
dieci più grandi imprese transnazionali sono stati superiori al reddito na-
zionale di un intero grande paese come il Bangladesh, che conta 140 mi-
lioni di abitanti, e quelli delle duecento più grandi imprese multinazionali
sono cresciuti a un incredibile tasso medio annuo del 21,3 per cento nel
periodo 1983-99.
Queste cifre mostrano in maniera inequivocabile che il modello di svi-
luppo neoliberista degli anni Novanta, fondato sulla globalizzazione de-
gli scambi commerciali e finanziari internazionali e sulla privatizzazione
di ogni residuo spazio pubblico, ha accentuato, a volte in maniera dram-
matica, le disparità economiche e sociali mondiali. Chi ne ha tratto mag-
giore vantaggio, in termini di giro d’affari e di guadagni, sono state le
nuove imprese transnazionali globali, che ormai operano indifferente-
mente su tutti e cinque i continenti del pianeta. Il principale veicolo su
scala globale di queste politiche è stato il WTO, la nuova istituzione inter-
nazionale della globalizzazione, superiore per efficacia e poteri alle stori-
che istituzioni di Bretton Woods (Fondo Monetario Internazionale e
Banca Mondiale).
ne e di rispetto dei diritti sociali all’interno degli Stati membri. A tal fine
veniva riconosciuto il diritto dei singoli Stati ad adottare forme di prote-
zionismo commerciale quando queste fossero finalizzate allo sviluppo eco-
nomico interno e al mantenimento della sicurezza e dell’indipendenza
economica nazionale. Soltanto le pratiche di protezionismo competitivo,
miranti ad acquisire impropri vantaggi commerciali a danno degli altri
paesi, come era accaduto negli anni Trenta, erano vietate dalla Carta isti-
tutiva della nuova organizzazione. Particolarmente significativo era il rico-
noscimento, contenuto nell’articolo 7 della Carta, che «le inique condi-
zioni di lavoro, in particolare nei settori esportatori, creano difficoltà al
commercio internazionale» e che pertanto la loro presenza era motivo di
sanzione legale nell’ambito delle procedure di risoluzione delle controver-
sie commerciali vigenti all’interno della nuova organizzazione. Allo stesso
modo veniva riconosciuto agli Stati membri il diritto di adottare ogni ap-
propriata misura, compresa quella dell’espropriazione, per impedire agli
investimenti diretti esteri di minare il benessere e l’autonomia economica
nazionale. A tal fine, la competenza legale e giurisdizionale dell’ITO non
era limitata soltanto all’attività dei governi e delle istituzioni pubbliche, ma
si estendeva anche alle imprese private operanti sui mercati internaziona-
li, che erano ugualmente soggette al rispetto dei principi sanciti dalla Car-
ta dell’Avana. Come si può osservare, i principi ispiratori dell’ITO erano
ben lontani da quelli propugnati dalla classica teoria liberista del com-
mercio internazionale e trovavano fondamento nell’idea che il funziona-
mento dei mercati dovesse essere regolato politicamente sulla base delle
necessità di sviluppo economico e di benessere sociale.
Nel 1949, tuttavia, il Congresso degli USA respinse la ratifica del trat-
tato costitutivo della nuova organizzazione, giudicandolo troppo lontano
dai principi del libero mercato e nocivo per gli interessi nazionali. L’anno
successivo il presidente Truman annunciò il ritiro unilaterale degli USA
dall’ITO, che quindi non riuscì mai a vedere la luce e rimase allo stadio di
un brillante progetto di governance economica mondiale. Fu così che per
quasi mezzo secolo il sistema commerciale internazionale fu basato sul
GATT (General Agreement on Tariffs and Trade, o Accordo Generale sul-
le Tariffe e il Commercio), avente sede a Ginevra, con competenze mol-
to limitate, relative solo al commercio di manufatti industriali, e con scar-
si poteri sanzionatori, per la cui applicazione era richiesta l’unanimità dei
consensi degli Stati membri. Questa situazione durò fino alla fine degli
anni Ottanta quando, in epoca di neoliberismo trionfante, proprio colo-
ro che si erano sempre opposti alla creazione di una istituzione mondia-
le del commercio, gli USA, proposero la creazione del WTO per persegui-
re finalità esattamente opposte a quelle che ispirarono nell’immediato do-
poguerra il progetto dell’ITO.
A differenza del suo predecessore, il GATT, l’ambito di attività del WTO
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per alcune, ben definite e circoscritte, gravi malattie (AIDS, malaria e tu-
bercolosi), mentre in tutti gli altri, numerosi casi di emergenza sanitaria il
“sacro” diritto di proprietà (intellettuale) dovrebbe essere onorato37. In
attesa che questa controversia si risolva, milioni di persone, soprattutto
bambini, continuano a morire come mosche a causa di malattie che ri-
chiederebbero banali cure mediche e farmaceutiche.
A differenza degli altri accordi, il TRIPS ha un effetto opposto a quello
propugnato dall’ideologia neoliberista. Esso garantisce legalmente il mo-
nopolio, sopprimendo il libero mercato, a dimostrazione che la dottrina
della libera concorrenza è solo un orpello ideologico, la cui validità viene
prontamente negata ogniqualvolta si pone in contrasto con gli interessi
del capitale dominante38.
L’accordo sull’agricoltura è stato la causa principale del fallimento del-
la conferenza di Cancun e di esso ci occuperemo in seguito. Vale invece
la pena, per capire il ruolo che si vuole assegnare al WTO come agente
principale della globalizzazione neoliberista, soffermarsi sull’accordo
GATS, che è quello che desta più preoccupazioni per l’effetto potenzial-
mente devastante che avrebbe sulle popolazioni dell’intero pianeta.
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testo dell’accordo specifica cosa debba intendersi per «servizi offerti nel-
l’esercizio dell’autorità governativa». Essi sono quei servizi che non sono
offerti «né su una base commerciale, né in competizione con uno o più
fornitori di servizi». Così come formulata la definizione è ambigua e sog-
getta a potenziali contenziosi in sede WTO. Gli unici servizi pubblici cer-
tamente esenti sono quelli forniti esclusivamente dalle pubbliche autorità,
in regime di monopolio legale, a titolo gratuito. I settori che rientrano in
questa categoria, al di là di ogni ragionevole dubbio, sono veramente po-
chi (ad esempio, difesa nazionale o emissione di moneta legale). Persino
l’amministrazione della giustizia non è interamente compresa in questa
definizione, esistendo in molti paesi alcune funzioni giudiziarie (ad esem-
pio, quelle notarili o quelle di arbitrato) gestite da soggetti privati. Allo
stesso modo l’ordine e la sicurezza pubblica non rientrano interamente
nella definizione in senso stretto, data la sempre più diffusa pratica di ap-
paltare a imprese private funzioni di protezione e di sorveglianza carce-
raria. Certamente non vi rientrano né la fornitura dei beni essenziali (ac-
qua40, energia, trasporti, gas) che, anche qualora fossero sotto l’esclusivo
monopolio pubblico, prevedono in genere il pagamento di un corrispet-
tivo da parte dell’utente, né tanto meno la fornitura dei servizi sociali
(sanità, istruzione, assistenza e previdenza) che, oltre a prevedere in ge-
nere una forma di compartecipazione al costo da parte dell’utente
(ticket, tasse d’iscrizione, contributi sociali), sono in genere forniti anche
da imprese private. In altre parole, il GATS potenzialmente riguarda la
quasi totalità dei servizi, compresi i servizi pubblici essenziali, i servizi
educativi e quelli sociali. La conferma in questo senso viene da un do-
cumento ufficiale del Segretariato del WTO, stilato sulla base di consul-
tazioni con tutti i paesi membri, in cui sono elencati tutti i settori di ser-
vizi oggetto di negoziazione in ambito GATS. I settori elencati, a loro vol-
ta suddivisi in sottosettori, sono dodici: business, comunicazioni, edili-
zia e ingegneria, distribuzione, istruzione, ambiente, finanza, sanità e
servizi sociali, turismo, cultura sport e intrattenimento, trasporti, altri
servizi. Non manca proprio nulla.
L’osservanza delle regole del GATS non riguarda solo le autorità nazio-
nali, ma anche le autorità regionali e locali, quindi tutti gli enti pubblici, e
perfino i soggetti giuridici privati che agiscono sulla base di funzioni loro
conferite da enti pubblici (ad esempio, ordini professionali, scuole, uni-
versità, ospedali, ecc.) operanti all’interno del territorio dello Stato ade-
rente. Ciascun paese membro deve dichiarare in un’apposita lista quali
settori di servizi intende liberalizzare e sottoporre integralmente alle rego-
le del GATS e in quali tempi deve essere resa effettiva la liberalizzazione.
Il GATS stabilisce due tipologie di regole. La prima tipologia è costitui-
ta dalle regole di carattere orizzontale che si applicano a tutti i settori di
servizi coperti dall’accordo. La seconda è costituita dalle regole di carat-
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tere verticale che si applicano solo a quei settori di servizi inseriti, in se-
guito agli esiti della contrattazione multilaterale in sede WTO, dai governi
nazionali in un’apposita lista. La più importante regola orizzontale è quel-
la relativa al trattamento di “nazione più favorita” e stabilisce l’obbligo di
trattare ogni fornitore di servizi allo stesso modo, impedendo qualsiasi for-
ma di privilegio o discriminazione tra i differenti fornitori esteri. In que-
sto modo si vieta ai governi nazionali di stabilire relazioni preferenziali con
determinati partner commerciali per ragioni politiche o sociali.
Le due più importanti regole verticali sono quelle relative all’accesso
al mercato e al trattamento nazionale. Le regole per l’accesso al mercato
stabiliscono l’eliminazione di ogni vincolo quantitativo e di ogni barriera
all’entrata per la fornitura di servizi, siano essi erogati da imprese nazio-
nali o estere. Gli Stati, in altre parole, non possono impedire a nessuna
impresa, nazionale o estera, pubblica o privata, di entrare nel mercato e
di competere a parità di condizioni con le imprese già operanti nel setto-
re. Le regole sul trattamento nazionale stabiliscono che le imprese stra-
niere debbono essere trattate esattamente come le imprese nazionali pub-
bliche e private. Sono così vietate differenziazioni fiscali, erogazione di
sussidi, incentivi e aiuti alle imprese nazionali e regolamentazione nor-
mativa specifica sugli investimenti esteri. Ovviamente, i settori sottoposti
alle regole verticali non possono vedere alcuna forma di monopolio pub-
blico, o anche solo di offerta pubblica di servizi in forme e con criteri di-
versi da quelli privatistici e aziendalistici in regime di libera concorrenza.
I settori di servizi che ricadono sotto le regole di carattere verticale risul-
tano così completamente privatizzati e deregolamentati, e operano in re-
gime di totale liberalizzazione interna e internazionale.
L’accordo GATS del 1994 ha avuto finora un impatto reale limitato per-
ché i servizi inclusi dai singoli paesi membri nella lista di quelli compresi
integralmente all’interno dell’accordo sono stati pochi. La sua importan-
za tuttavia non va sottovalutata perché essa consiste: a) nella definizione,
per la prima volta, di un quadro di regole, di vincoli e di procedure mul-
tilaterali per il commercio internazionale dei servizi; b) nell’estensione dei
poteri e delle competenze del WTO al commercio dei servizi, oltre che a
quello dei beni; c) nella fissazione di un formale impegno da parte dei
paesi membri di estendere progressivamente la liberalizzazione al mag-
gior numero di settori possibile; d) nell’obbligo da parte dei paesi mem-
bri di iniziare, entro sette anni dalla firma dell’accordo, un nuovo round
negoziale per l’estensione del GATS.
In conformità a quest’ultima condizione, nel febbraio 2000 è stata as-
sunta la decisione in sede WTO di iniziare un secondo round negoziale per
l’allargamento del GATS, denominato GATS 2000. Nella conferenza WTO di
Doha del 2001 sono state definite le modalità, le procedure e gli scopi del
round GATS 2000, secondo il seguente calendario: entro giugno 2002 ogni
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soddisfazione dei paesi del Sud del mondo per gli effetti negativi sullo svi-
luppo delle loro economie derivanti dall’applicazione degli accordi del-
l’Uruguay Round e dalla nascita del WTO si era tradotta nella resistenza
ad aprire una nuova fase di negoziati per estendere la liberalizzazione dei
mercati e nella rivendicazione di una revisione di alcuni aspetti essenzia-
li degli accordi vigenti42. Dall’altro lato, l’emergere di un forte movimen-
to di protesta contro la globalizzazione aveva prodotto una crisi di con-
senso e di legittimazione nei confronti delle istituzioni economiche inter-
nazionali e delle politiche neoliberiste. Questi due fattori, i contrasti in-
terstatuali e la mobilitazione popolare, si erano reciprocamente rafforza-
ti e avevano prodotto l’insuccesso del WTO a Seattle. Dopo Seattle, i ne-
goziati in seno al WTO si erano paralizzati e lo stesso ruolo di questa isti-
tuzione sembrava destinato a un sensibile ridimensionamento. In questa
situazione, la stessa strategia della globalizzazione neoliberista, così come
era stata perseguita e realizzata nel corso degli anni Novanta, era entrata
in crisi. Prima dell’11 settembre 2001 sembrava prevedibile, a causa de-
gli irrisolti contrasti interstatuali, che anche la IV conferenza di Doha, pre-
vista a novembre 2001, si concludesse con un nulla di fatto e confermas-
se la crisi profonda del WTO43.
Il clima di guerra permanente e infinita, imposto dagli USA dopo gli at-
tentati terroristici al World Trade Center, ha cambiato radicalmente la si-
tuazione. Al vertice di Doha è stato così lanciato un nuovo e molto am-
bizioso round negoziale, paragonabile per estensione, rilevanza e moda-
lità all’Uruguay Round, pietra miliare della globalizzazione neoliberista44.
Il Doha Round, come l’Uruguay Round, ha assunto la forma capestro del
singolo negoziato complessivo. Le questioni principali oggetto del nego-
ziato sono: l’ulteriore liberalizzazione dell’agricoltura, l’estensione del
GATS finalizzata alla privatizzazione dei beni comuni (in primo luogo ac-
qua ed energia), dei servizi sociali e dell’istruzione, la completa elimina-
zione delle barriere commerciali per i prodotti industriali con l’estensio-
ne del GATT, la liberalizzazione integrale degli investimenti reali e finan-
ziari all’estero, la definizione di standard globali per la libera concorren-
za sui mercati interni, la definizione di normative globali per lo svolgi-
mento degli appalti pubblici a garanzia della libera concorrenza, l’acces-
so ai farmaci per i paesi poveri, l’individuazione dei trattamenti speciali e
differenziati per i PVS45, le relazioni tra accordi ambientali e accordi com-
merciali. Come si può vedere, lo spettro di questioni oggetto di negozia-
to copre l’intera struttura del modello della globalizzazione neoliberista.
La questione su cui è formalmente saltata la conferenza di Cancun è
stata quella concernente le cosiddette Singapore issues, cioè i negoziati in
materia di investimenti all’estero, politiche interne per la libera concor-
renza, trasparenza negli appalti pubblici e agevolazioni per il commercio
lanciati nella I conferenza WTO svoltasi a Singapore nel dicembre 199646.
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zione del mercato agricolo produrrebbe così la perdita della sovranità ali-
mentare degli Stati, la distruzione della piccola proprietà contadina e il
conseguente esodo rurale di centinaia di milioni di persone, con un dram-
matico aggravamento dei problemi urbani e la rimozione delle normative
di tutela della sicurezza alimentare e di salvaguardia dell’ambiente. In
questo modo l’alimentazione dell’intera umanità verrebbe consegnata
nelle mani di poche grandi imprese multinazionali americane e, in minor
misura, europee. È per queste ragioni che proprio sul tema dell’agricoltu-
ra si è infranta la marcia della globalizzazione neoliberista.
Entro il 31 marzo 2003, sulla base del calendario negoziale stabilito
nella conferenza di Doha, i paesi membri del WTO avrebbero dovuto già
raggiungere un accordo quadro sulle modalità e sui parametri da appli-
care in materia di commercio agricolo, lasciando alla conferenza di Can-
cun il compito di definire i dettagli concreti del nuovo accordo. A causa
dei contrasti esistenti, tuttavia, alla vigilia dell’apertura della conferenza
di Cancun non si era ancora raggiunto alcun accordo. Il testo predispo-
sto dal coordinatore del negoziato agricolo Stuart Harbison, che tentava
una mediazione tra le diverse posizioni espresse, non aveva accontentato
nessuno e pertanto non era stato accettato come base dei negoziati. A
questo punto, il 13 agosto 2003 gli USA e l’UE assumono l’iniziativa e ren-
dono nota una posizione comune, inviata al WTO come proposta di ac-
cordo quadro sui negoziati agricoli. Il coordinatore del Consiglio genera-
le WTO, Peréz del Castillo, prende unilateralmente l’iniziativa di elabora-
re un testo di possibile compromesso, reso noto il 24 agosto. La proposta
di Castillo viene ufficialmente allegata alla bozza del testo ministeriale che
costituisce la base delle discussioni di Cancun. L’allegato ricalca sostan-
zialmente le posizioni espresse dagli USA e dalla UE, non contenendo né
una quantificazione delle riduzioni delle protezioni agricole di ciascuno,
né un orizzonte temporale definito in cui esse debbano obbligatoriamen-
te attuarsi. Gli unici impegni certi riguardano la definizione di una nuo-
va data limite per raggiungere un accordo sulle modalità del negoziato e
di un termine per avanzare proposte alternative, in ogni caso precedente
l’inizio della V conferenza ministeriale.
Ma qui arriva la prima sorpresa. In passato, il raggiungimento di un
accordo tra le due principali potenze economiche globali, gli USA e l’UE,
era sufficiente per determinare un’adesione unanime di tutti gli altri pae-
si membri, incapaci di coalizzarsi e di avanzare proposte indipendenti. È
per questo che il testo dell’accordo europeo-statunitense viene allegato,
senza alcuna consultazione, al testo ufficiale della conferenza del WTO.
Stavolta, invece, numerosi paesi del Sud del mondo contestano immedia-
tamente la proposta di accordo quadro, giudicandola schiacciata sulle
posizioni dei paesi ricchi. Il Brasile annuncia che il testo proposto costi-
tuisce una base inaccettabile per la continuazione dei negoziati. Vengono
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ricchi. Certo, il salvataggio del WTO non poteva comportare il prezzo del-
la rimessa in questione dei cardini della globalizzazione neoliberista. Per-
ché di questo si è trattato, e non di un semplice scontro sui sussidi agri-
coli. Infatti, accogliere le richieste del Sud del mondo in materia di agri-
coltura significa riconoscere la necessità di un nuovo ordine economico
internazionale, fondato sul controllo politico dei flussi commerciali e fi-
nanziari. Il gruppo dei 21 paesi del Sud del mondo, nuovo protagonista
della scena politica mondiale, non rivendica semplicemente la liberaliz-
zazione agricola, come si è tentato in un primo tempo di far credere. Il
G21 ha posto, sia pure in una forma ancora incompiuta, il tema della so-
vranità alimentare come criterio fondamentale del commercio e della
produzione agricola mondiale. È il contrario del laissez faire, della fissa-
zione di regole formali universalmente valide. È invece la richiesta di re-
gole commerciali differenziate tra paesi (e tra classi sociali) con diverso li-
vello di sviluppo e di potere economico. È la richiesta di una regolazione
politica dei prezzi mondiali per perseguire finalità economiche e sociali.
Viene così colpito il cuore del modello neoliberista, cioè il meccanismo di
formazione dei prezzi secondo il libero gioco delle forze di mercato. Nel
sistema liberista non importa ciò che sta dietro il prezzo di mercato, sia
esso sfruttamento brutale, devastazione ambientale o sussidio. Ciò che
conta è il rispetto di condizioni astrattamente uguali per tutti i concor-
renti. Qui si è conficcata la freccia scagliata dal Sud del mondo, quando
pretende regole e condizioni diversificate e più vantaggiose per i poveri e
i deboli, oppure quando chiede la fine dello scambio ineguale che si na-
sconde dietro la formale uguaglianza del mercato. Questa pretesa viene
avanzata oggi per l’agricoltura, ma domani potrà esserlo per tutti i setto-
ri economici. Il tenace rifiuto opposto alla pressante richiesta degli USA e
della UE di liberalizzare gli investimenti esteri ne è la dimostrazione. In so-
stanza, la richiesta posta dal Sud del mondo è una significativa redistri-
buzione della ricchezza mondiale. Una parziale compensazione della ra-
pina subita in due decenni di globalizzazione neoliberista. Questa istan-
za può essere soddisfatta solo negando i principi del libero mercato, solo
iniziando a fuoriuscire dal dominio incontrastato del capitale globale. Di
questa necessità il movimento è oggi, dopo Cancun, ben più conscio dei
governi del Sud del mondo.
Non sono stati quindi i conflitti tra USA e UE a far fallire il WTO, ma l’e-
splicita e diretta contestazione del neoliberismo che si è manifestata, sia
pure in forme e con contenuti diversi, sia nell’assalto alla zona rossa sia
nei palazzi ufficiali di Cancun. La resistenza di USA e UE alle richieste del
Sud non deriva da un’ostinata, quanto irrazionale, difesa degli interessi
particolari di poche grandi imprese agroindustriali, uniche e vere benefi-
ciarie del sistema dei sussidi. USA e UE hanno, insieme, colto benissimo il
carattere strategico dei contrasti in materia agricola. Hanno capito che
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I negoziati si sono svolti finora nel più completo segreto, senza alcuna
forma di partecipazione della società civile e senza nessuna trasparenza
sul contenuto delle discussioni. Solo attraverso la decisione unilaterale as-
sunta da alcuni governi, in particolare da quello del Venezuela, di infor-
mare l’opinione pubblica sullo svolgimento dei negoziati, è stato possibi-
le acquisire notizie sui contenuti dei colloqui ufficiali. Le proposte avan-
zate dalle organizzazioni della società civile americana non solo non sono
state accolte nelle varie stesure delle bozze di accordo, ma non hanno ri-
cevuto nessun tipo di risposta52.
L’agenda dell’ALCA è la stessa del WTO, con l’aggravante di una estre-
mizzazione selvaggia dei principi neoliberisti: totale liberalizzazione del
commercio dei beni, dei servizi e dei capitali, privatizzazione integrale del
settore pubblico e dei beni comuni, rimozione di ogni regolamentazione
per gli investimenti esteri delle imprese multinazionali. In particolare, es-
sa prevede la copertura, sotto le norme dell’accordo, di tutti i settori pro-
duttivi dei beni e dei servizi, nessuno escluso; vincola tutti i livelli di go-
verno, nazionali, regionali e locali; prevede l’abrogazione automatica di
tutte le leggi e i regolamenti che impediscono alle imprese estere di ope-
rare liberamente all’interno dei paesi membri; rende irreversibili i prov-
vedimenti di liberalizzazione e di privatizzazione decisi in attuazione de-
gli accordi. Nessuno strumento di riequilibrio territoriale è previsto: le re-
gole dell’ALCA varrebbero allo stesso modo per tutti i paesi, grandi o pic-
coli, indipendentemente dal loro livello di sviluppo, senza nessuna forma
di compensazione per i più deboli e svantaggiati, come ad esempio av-
viene con i fondi strutturali dell’Unione Europea. È evidente come, in un
continente così eterogeneo come quello americano, che comprende sia
l’economia più ricca del mondo (USA), sia quelle più povere (Haiti e gli
Stati centroamericani), queste clausole produrranno ulteriori, drammati-
ci squilibri territoriali. La realizzazione dell’ALCA priverebbe dunque i
paesi latinoamericani di qualsiasi sovranità economica e impedirebbe
ogni forma di politica economica nazionale autonoma dagli interessi e dai
voleri delle imprese transnazionali, in particolare di quelle statunitensi. In
questo senso il progetto dell’ALCA è ben più di un’area di libero scambio:
esso definisce e fissa una vera e propria Costituzione economica conti-
nentale che impone un ordine neoliberista sottratto a ogni legittimazione
democratica.
L’ALCA costituisce inoltre la forma giuridica di un nuovo progetto di
colonizzazione dell’America Latina da parte degli USA. Come ha di re-
cente dichiarato il segretario di Stato Colin Powell, l’obiettivo degli USA è
«garantire per le imprese nordamericane il controllo di un territorio che
si estende dall’Artico all’Antartide e il libero accesso, senza nessuna for-
ma di ostacolo, dei nostri prodotti, servizi, tecnologie e capitali in tutto
l’emisfero». La vertiginosa e inarrestabile crescita del deficit estero nel-
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l’interscambio con i paesi asiatici rende infatti strategica per gli USA la
creazione di un’area di sbocco per le esportazioni nell’intero continente
americano al fine di una parziale compensazione dello squilibrio della
propria bilancia commerciale.
Un legame profondo esiste tra il progetto neoliberista dell’ALCA e il
processo di militarizzazione dell’America Latina. Di fronte alla crescita
dei movimenti popolari la risposta ormai prevalente è quella della re-
pressione e del controllo militare, direttamente gestiti e coordinati dalle
Forze Armate statunitensi. Sono più di centomila i soldati di paesi lati-
noamericani inviati dai loro governi ad addestrarsi in 275 scuole militari
degli USA per apprendere le tecniche della repressione. Esemplari pro-
getti di questa strategia di militarizzazione sono il Plan Colombia e il Plan
Puebla Panama (PPP). Il Plan Colombia, lanciato nell’aprile 2000 con il
pretesto della lotta al narcotraffico, prevede l’istituzione in territorio co-
lombiano di basi militari USA permanenti in grado di costituire una forza
di pronto intervento nelle aree politicamente più critiche dell’America
Latina (Venezuela, Colombia, Ecuador, Bolivia, Perù)53. È inoltre oppor-
tuno ricordare che quest’area del continente latinoamericano è tra le più
ricche dell’intero emisfero per risorse naturali (petrolio e biodiversità),
considerate strategiche dalle grandi imprese transnazionali. Il PPP è for-
malmente un progetto per la costituzione di un polo di sviluppo econo-
mico in una vasta area comprendente otto Stati della Repubblica Federa-
le del Messico e tutti i paesi centroamericani (Guatemala, Belize, Hon-
duras, El Salvador, Nicaragua, Costa Rica e Panama). L’obiettivo è quel-
lo di creare una zona di infrastrutture (in particolare di trasporto) e di ser-
vizi comprendente l’intero Centroamerica a disposizione delle imprese
transnazionali USA. Annessi fondamentali di questi piani di sfruttamento
economico sono il rafforzamento e l’ammodernamento del sistema di in-
frastrutture militari USA, per la cui realizzazione si prevede lo sradica-
mento dal territorio di decine di comunità indigene per costruire strade,
aeroporti e basi militari54.
Sul piano economico-sociale, invece, l’arma più potente in mano agli
USA per imporre il progetto è quella del debito estero. Infatti, attraverso
i vincoli finanziari imposti dall’indebitamento, che rendono i paesi lati-
noamericani fortemente dipendenti dalla capacità di esportazione, gli USA
e le organizzazioni economiche internazionali tentano di imporre l’ALCA
e la liberalizzazione commerciale. Basti pensare che nel corso degli ultimi
tre anni i paesi latinoamericani hanno pagato 464 miliardi di dollari al ca-
pitale finanziario internazionale per il servizio del debito estero, con un
flusso finanziario negativo, al netto dei nuovi crediti, di oltre trenta mi-
liardi di dollari annui, finiti in particolare nel mercato dei capitali statu-
nitense. Nello scorso decennio, tra servizio del debito, fuga di capitali e
scambio ineguale, l’America Latina ha trasferito ben mille miliardi di dol-
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bi, con gravi conseguenze negative per i paesi ACP. L’obiettivo, espressa-
mente dichiarato nel testo finale del trattato di Cotonou, è quello di so-
stituire la vecchia convenzione di Lomé con una pluralità di accordi per
la costituzione di aree di libero scambio tra l’UE e sottogruppi regionali
dei paesi ACP62.
Di fronte a questi sviluppi, non sono più sufficienti le singole, pur im-
portanti, campagne di informazione e di sensibilizzazione, come ad esem-
pio quella nata alla vigilia del vertice di Cancun o quella in atto per la tu-
tela dei piccoli produttori africani di cotone. È ormai necessario e urgen-
te che le forze della sinistra europea e i movimenti si adoperino per inter-
rompere i negoziati in corso, tesi a costituire aree di libero scambio regio-
nale con i paesi del Sud del mondo, per rivendicare invece un radicale
cambiamento di ispirazione e di orientamento nella politica commerciale
dell’UE al fine di costruire un nuovo ordine economico internazionale.
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sazione della parità aurea della sterlina. Altri fattori di squilibrio struttu-
rale erano innescati dal settore finanziario. La crescita dei mercati finan-
ziari, derivante anche dall’esplosione del debito pubblico in conseguenza
delle spese di guerra, aveva creato un’enorme massa di capitale finanzia-
rio liquido, che si muoveva per ragioni speculative in cerca della miglio-
re remunerazione di breve periodo e che quindi spesso ostacolava i pro-
cessi di riequilibrio reale. La vicenda delle riparazioni di guerra, che la
Germania avrebbe dovuto pagare alle potenze vincitrici, rendeva ancora
più instabile la situazione. Inoltre, con la fine della prima guerra mon-
diale, gli Stati Uniti avevano ormai definitivamente soppiantato l’Inghil-
terra come potenza dominante sul piano industriale e finanziario e costi-
tuivano un polo di attrazione del capitale speculativo. Per tornare in equi-
librio il sistema avrebbe dovuto prevedere un processo di inflazione ne-
gli USA e di deflazione in Europa e un movimento di capitali in uscita dai
mercati finanziari statunitensi e in entrata in quelli europei. Il gold stan-
dard impediva che questi movimenti potessero essere significativamente
influenzati dalle politiche monetarie dei diversi paesi. Essi dovevano av-
venire spontaneamente, sulla base delle sole forze di mercato. In realtà
avvenne esattamente il contrario. Nel corso degli anni Venti gli USA co-
nobbero un boom economico fortissimo senza significative tensioni in-
flazionistiche a causa dei grandi aumenti di produttività derivanti dall’in-
troduzione del sistema fordista. In più, vi fu una vera e propria esplosio-
ne speculativa dei mercati finanziari, in particolare di quello borsistico,
che attirarono capitali da tutto il mondo.
Quando la bolla speculativa scoppiò, nell’ottobre del 1929 con il crol-
lo di Wall Street, fu l’intero sistema economico internazionale a saltare. Il
crollo borsistico di Wall Street innescò negli Stati Uniti una brusca con-
trazione della domanda interna, fino ad allora cresciuta esponenzialmen-
te su una piramide di debiti, che, sommata alla bancarotta di numerose
imprese industriali e finanziarie, condusse in breve tempo a una seria de-
pressione economica e a una pesante deflazione dei prezzi e dei salari.
A questo punto, le contraddizioni del restaurato gold standard diven-
nero esplosive. Le condizioni economiche e monetarie dei diversi paesi si
modificavano rapidamente lungo una direzione esattamente inversa a
quella necessaria a ristabilire l’equilibrio internazionale. Il 21 settembre
1931 l’Inghilterra sospese la convertibilità della sterlina in oro, innescan-
do una reazione a catena nei principali paesi europei. Un anno e mezzo
dopo, con l’abbandono del tallone aureo da parte degli Stati Uniti, scom-
parve ogni traccia di gold standard. Fino allo scoppio del secondo con-
flitto mondiale, il sistema economico internazionale attraversò una fase di
assoluta anarchia, dominata da svalutazioni competitive e da sempre più
pesanti restrizioni protezionistiche, sia nel commercio di beni e servizi sia
nei movimenti di capitale.
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rendere accettabile e obbligato per gli altri paesi il ruolo esclusivo del dol-
laro nel sistema monetario internazionale. Infatti, il vantaggio principale
di un paese la cui moneta svolge il ruolo di moneta di riserva internazio-
nale è il potere di signoraggio, cioè la possibilità di finanziare un eccesso
di importazioni sulle esportazioni attraverso la semplice emissione della
moneta nazionale. Chi detiene il potere di signoraggio non incontra il vin-
colo esterno, costituito dal saldo della bilancia commerciale, alla propria
crescita economica perché può pagare le merci importate semplicemente
stampando moneta, senza alcuna contropartita reale. La posizione strut-
turalmente eccedentaria della bilancia commerciale statunitense nell’im-
mediato secondo dopoguerra garantiva gli altri paesi rispetto a un possi-
bile abuso del potere di signoraggio degli USA. Ma anche per gli USA, la
posizione dominante acquisita nel corso della guerra fu fonte di tranquil-
lità per accettare la responsabilità di fare del dollaro la moneta di riserva
mondiale, privandosi così della possibilità di svalutare la propria divisa
per recuperare competitività internazionale. Lungo tutti gli anni Cin-
quanta il sistema funzionò senza intoppi. Gli USA finanziarono il proces-
so di ricostruzione delle economie europee e giapponese attraverso aiuti
unilaterali, surplus commerciali e movimenti di capitale a breve e lungo
termine. La preoccupazione maggiore in questo periodo fu una possibile
carenza di dollari in relazione alle necessità di espansione del commercio
internazionale. Infatti, dato che la produzione aurea cresceva molto più
lentamente della crescita in valore del commercio internazionale, la ri-
chiesta di dollari come mezzi di pagamento internazionale era in continua
crescita. Questa preoccupazione fu prontamente sedata da flussi di capi-
tali pubblici, come quelli previsti dal Piano Marshall, e privati in uscita
dagli USA verso il resto del mondo, di gran lunga superiori ai surplus com-
merciali che gli USA continuarono, sia pure con velocità decrescente, ad
accumulare nel corso del decennio.
Fu proprio analizzando lo scarto tra la dinamica della produzione au-
rea e quella dell’espansione del commercio internazionale che nel 1960
l’economista Robert Triffin, in un fondamentale lavoro, mise in luce l’e-
sistenza di un problema strutturale di lungo periodo del dollar exchange
standard, il problema dell’affidabilità. Per garantire ritmi sostenuti di cre-
scita dell’economia mondiale, data l’inelasticità dell’offerta di oro, il rap-
porto tra la quantità di dollari detenuti dalle banche centrali come valu-
ta di riserva e dagli operatori come mezzo di pagamento internazionale e
la quantità di oro detenuta dalle autorità monetarie americane era desti-
nata a crescere e a superare la soglia critica dell’unità. Qualora ciò fosse
accaduto, la convertibilità internazionale dei dollari in oro avrebbe potu-
to essere garantita solo parzialmente, generando un problema di fiducia
nella moneta americana potenzialmente in grado di far saltare l’intero si-
stema. Ciò era già avvenuto nel 1931 con il gold standard, allorché la mas-
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l’Italia non partecipò, non resse però alla profondità della crisi della
metà degli anni Settanta.
Alla fine del decennio l’economia internazionale si trovava in una si-
tuazione di forte instabilità, caratterizzata da comportamenti aggressiva-
mente competitivi delle principali economie, dalla introduzione di misu-
re protezionistiche sui mercati reali e finanziari internazionali, con una
forte inflazione non domata e con tassi di cambio soggetti a rapide e im-
provvise fluttuazioni. Nel corso del 1978 sui mercati finanziari interna-
zionali cominciarono a manifestarsi chiari segni di una crisi di fiducia nei
confronti del dollaro che, se fosse avvenuta, avrebbe condotto al disfaci-
mento del sistema di relazioni economiche internazionali dominante.
Fu in questa situazione che nel corso del 1979 si verificò il secondo
shock petrolifero, il quale, pur essendo meno violento del primo, produs-
se un aumento del 250 per cento dei prezzi del petrolio. Questa volta però
la reazione delle autorità monetarie statunitensi fu molto diversa da quel-
la dei primi anni Settanta. Invece di adottare un comportamento adattati-
vo nei confronti della spinta inflazionistica, la Federal Reserve rispose con
una forte stretta monetaria, che fece schizzare in alto i tassi di interesse e
provocò un fortissimo apprezzamento del dollaro. Questo orientamento
venne rafforzato, dopo le elezioni presidenziali del 1980, dalla vittoria di
Ronald Reagan, che affiancò alla politica monetaria restrittiva una politica
fiscale espansiva, fondata sull’aumento delle spese militari, e un program-
ma di privatizzazioni e di smantellamento del Welfare State.
La svolta nella politica americana del 1979-80 ha avuto effetti profon-
di e duraturi non solo per l’evoluzione del sistema economico internazio-
nale, ma anche per l’assetto politico e sociale del mondo intero, tanto che
si può fondatamente sostenere che i caratteri essenziali della fase storica
attuale trovano la loro origine nelle decisioni assunte in quei mesi crucia-
li dall’establishment della principale potenza capitalistica. Non è questa
la sede per svolgere un esame approfondito degli effetti generali che que-
sta svolta ha avuto nel modellare il mondo in cui ancora oggi viviamo.
Pertanto, ci limiteremo a elencare schematicamente le principali riper-
cussioni sul terreno dell’evoluzione del sistema monetario internazionale.
Innanzitutto, la fortissima rivalutazione del dollaro nella prima metà
degli anni Ottanta ha definitivamente restaurato la moneta americana nel
ruolo di unica moneta di riserva internazionale. Con qualche fluttuazio-
ne superficiale, nel corso dell’ultimo ventennio il dollaro ha continuato a
costituire la quota maggioritaria delle riserve di valuta mondiali. All’in-
domani del crollo del sistema di Bretton Woods erano ben pochi coloro
che avrebbero scommesso su una simile previsione. Nel corso degli anni
Novanta, lo yen, che insieme al marco ha rappresentato per lungo tempo
una delle possibili alternative, ha subito un progressivo e inarrestabile in-
debolimento in conseguenza della profonda stagnazione economica del-
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mente nel corso del 1981, in occasione della XI sessione speciale dell’As-
semblea generale delle Nazioni Unite, la fine del progetto NIEO. Iniziò al-
lora la lunga marcia neoliberista, sfociata nel 1995 nell’istituzione del
WTO. Oggi, grazie al movimento altromondialista, questa marcia si è ar-
restata e di nuovo la questione di un diverso ordine economico globale è
tornata al centro delle discussioni politiche mondiali.
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1) Il ruolo delle IFI. Nel corso delle ripetute crisi finanziarie degli anni
Novanta, il rigido rispetto dei canoni monetaristi e neoliberisti perse-
guito dal FMI ha contribuito ad accentuare, piuttosto che ad attenua-
re, l’intensità e l’estensione delle crisi. L’imposizione di programmi di
aggiustamento strutturale di impronta neoliberista ai paesi in difficoltà
come condizione vincolante per l’erogazione di crediti internazionali,
con il corollario di una restrizione della liquidità interna, ha reso più
diretto e veloce il propagarsi della crisi dal settore finanziario a quello
reale, tanto da rendere permanente la situazione di difficoltà econo-
mica, anche dopo aver superato la fase più acuta e aver proceduto a
una relativa stabilizzazione dei corsi finanziari e valutari. L’esperienza
della Malesia nella crisi asiatica del 1997 ha reso evidente il ruolo ne-
gativo del FMI nella gestione delle crisi. A differenza degli altri paesi
colpiti, la Malesia decise di non seguire le indicazioni del FMI e di ri-
spondere alla crisi attraverso un maggior controllo pubblico sui mer-
cati reali e finanziari e attraverso l’adozione di misure protezionistiche,
riuscendo così a ottenere risultati migliori rispetto a quelli dei suoi vi-
cini. Questi manifesti insuccessi e il timore di un’imitazione dell’espe-
rienza malese, che avrebbe messo a repentaglio la stessa struttura del-
la globalizzazione, hanno portato i ministri finanziari e i governatori
delle banche centrali dei Sette, riunitisi a Washington nell’aprile del
2000, a un ridimensionamento del ruolo del FMI nella gestione delle
crisi, limitandone pressoché esclusivamente l’attività agli interventi fi-
nanziari di breve termine. A partire dagli anni Ottanta, infatti, il FMI
aveva assunto il ruolo di principale attore dell’imposizione delle poli-
tiche economiche neoliberiste su scala mondiale, attraverso la gestio-
ne di una quota sempre più larga dei finanziamenti a lungo termine
pubblici e privati, condizionati al perseguimento di politiche econo-
miche strutturali fondate sulle privatizzazioni, sulla liberalizzazione
dei mercati reali e sull’abolizione delle protezioni commerciali. In que-
sto modo, il ruolo del FMI si era spinto ben oltre quanto previsto ori-
ginariamente dagli accordi istitutivi di Bretton Woods, relegando la
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suo paese e spesso a danno del resto del mondo. Il sistema monetario at-
tuale è intrinsecamente instabile, oltre che ingiusto27. Per questo deve es-
sere superato, non per tornare al predominio dell’oro, questo “relitto bar-
barico”, come lo definì Keynes, ma per giungere a un nuovo e più svi-
luppato stadio di civiltà, in cui il denaro, nella sua forma più pura e astrat-
ta, quella della moneta mondiale, sia regolato democraticamente e consa-
pevolmente dalla comunità internazionale in funzione dei bisogni econo-
mici e sociali dei popoli.
Per realizzare questi ambiziosi obiettivi politici, l’UE, a sessant’anni di
distanza dalla conferenza di Bretton Woods, potrebbe farsi promotrice in-
sieme ai paesi del Sud del mondo di una nuova conferenza internaziona-
le convocata dall’ONU per definire le regole e l’organizzazione di un nuo-
vo ordine economico globale28. La storia economica dimostra che una ra-
dicale riforma del sistema monetario internazionale è un caso raro, che si
verifica soltanto in presenza di eventi traumatici come guerre o grandi de-
pressioni29. Ebbene, oggi siamo esattamente in una situazione di questo ti-
po, con la guerra e una crisi economica lunga e strisciante, e occorre agi-
re prima della catastrofe. La crisi economica e sociale prodotta dal mo-
dello della globalizzazione neoliberista ha infatti dimensioni e intensità
paragonabili a quelle della grande depressione degli anni Trenta. Allora si
scelse la strada dell’anarchia nelle relazioni economiche internazionali,
che accentuò e aggravò la crisi, e soltanto la catastrofe della seconda guer-
ra mondiale indusse le grandi potenze a intraprendere la strada della coo-
perazione internazionale. Il rischio è che oggi la storia si possa ripetere, sia
pure in forme nuove ma pur sempre tragiche, come dimostra l’innesco in-
fernale della spirale della guerra e del terrorismo. Bisogna intervenire pri-
ma che sia troppo tardi con un nuovo progetto multilaterale e democrati-
co di ricostruzione dell’ordine economico mondiale devastato da due de-
cenni di neoliberismo. Sarebbe questo il più grande e importante contri-
buto alla causa della pace e della solidarietà tra i popoli.
In questo senso, il principio del multilateralismo democratico non va
confuso con la dottrina del multipolarismo, che sostiene la necessità di
creare contrappesi di potere statuale nei confronti dell’egemonia statuni-
tense. Il multipolarismo è figlio di una concezione basata sulla competi-
zione e sulla potenza militare, oltre che economica, e conduce inevitabil-
mente o a un’improbabile nuova guerra fredda, cioè a una riedizione di
una rivalità irriducibile tra blocchi di potere contrapposti, o, più realisti-
camente, a una concreta subordinazione delle forze alternative agli inte-
ressi dominanti all’interno di ogni singola area. Dunque, l’UE non deve
porsi l’obiettivo di sostituire l’egemonia aggressiva delle amministrazioni
statunitensi con l’instaurazione di un proprio dominio politico, economi-
co e militare. Questa strada, se mai fosse oggi percorribile e non, come è
più probabile, totalmente velleitaria, condurrebbe a un aggravamento
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88 DOPO IL LIBERISMO
PARTE SECONDA
Per un’altra Europa
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4. Il declino dell’Europa
92 DOPO IL LIBERISMO
Tabella 1. PIL e consumi pro capite negli USA e nell’UEM (1960-2003). I dati del PIL e
dei consumi pro capite sono misurati in termini di parità dei poteri d’acquisto. (Fonte: no-
stre elaborazioni su dati European Commission, 2004).
4. IL DECLINO DELL’EUROPA 93
Tabella 2. Crescita del PIL reale. Tassi medi annui di variazione (UEM, USA, Giappone:
1961-2003). (Fonte: European Commission, 2004).
94 DOPO IL LIBERISMO
4. IL DECLINO DELL’EUROPA 95
96 DOPO IL LIBERISMO
Progresso tecnico 0,9 0,9 0,9 1,5 - 0,1 0,8 0,8 1,1
+ Accumulazione del capitale 0,8 0,8 0,7 1,4 0,6 1,1 0,7 1,1
+ Ore medie annue di lavoro per addetto - 0,2 0 - 0,4 0 - 0,1 - 0,1 - 0,3 0
= PIL REALE PRO CAPITE 1,2 1,2 2,3 2,9 0,5 0,8 1,5 1,8
Tabella 3. Crescita economica nell’UEM e negli USA (1991-2003). Contributo medio an-
nuo dei fattori di offerta. (Fonte: nostre elaborazioni su dati European Commission, 2004,
e OECD, Employment Outlook, Statistical Annex, vari anni).
4. IL DECLINO DELL’EUROPA 97
98 DOPO IL LIBERISMO
4. IL DECLINO DELL’EUROPA 99
nel corso degli anni Novanta il contributo dell’espansione del lavoro part-
time alla riduzione delle ore lavorate annue è stata pari al 62 per cento del
totale13. I dati provenienti dalla stessa fonte mostrano, infine, che nell’in-
tero periodo 1990-2002 le ore medie di lavoro per addetto degli occupa-
ti a tempo pieno dentro l’UEM si sono ridotte in misura insignificante per
gli uomini (-0,7 per cento in tredici anni) e appena superiore per le don-
ne (-1,3 per cento). Negli USA le ore-lavoro sono diminuite di meno per-
ché la quota di occupati part-time sul totale, invece di salire, è scesa con
un’espansione significativa dei contratti di lavoro a tempo pieno.
È allora alquanto discutibile attribuire la diminuzione delle ore-lavoro
in Europa a una scelta volontaria o alle eccessive conquiste sociali dei la-
voratori. Essa è invece essenzialmente un riflesso statistico della massic-
cia precarizzazione del mercato del lavoro europeo. A dimostrazione di
ciò sta il fatto che il salario orario di un lavoratore part-time è nell’UEM il
77 per cento del salario orario di un lavoratore a tempo pieno e che una
quota molto minore di lavoratori part-time è coinvolta in attività di for-
mazione interna alle imprese. La diffusione della precarietà e della flessi-
bilità nel mercato del lavoro europeo è confermata dal notevole incre-
mento, nell’ultimo decennio, dei lavoratori impiegati in orari di lavoro
anomali e socialmente penalizzanti. Nel 2002, in media, nei paesi del-
l’UEM il 15,1 per cento dei lavoratori aveva un orario variabile (contro
l’8,8 per cento del 1992), il 6,5 per cento lavorava di notte (il 4,5 per cen-
to nel 1992), il 13,2 per cento di sera (il 12,2 per cento nel 1992) e il 25,3
per cento nel weekend (40 per cento nel 1992)14. In totale, il 49 per cen-
to degli uomini e il 42 per cento delle donne occupate nell’UE lavora con
orari anomali rispetto al normale orario giornaliero e feriale15. Oltre al la-
voro part-time, anche l’altra componente del lavoro precario, quella con
contratti a tempo determinato, è cresciuta, passando dal 10,2 per cento
del totale degli occupati nel 1990 al 13,6 per cento del 2000. Sono le don-
ne, in particolare, ad aver subito di più gli effetti della precarizzazione:
nel 2000 il 33,2 per cento delle occupate era a part-time e il 14,7 per cen-
to aveva un contratto a tempo determinato16. Ora, anche dal punto di vi-
sta teorico, è indiscutibile che la maggiore flessibilità e variabilità dell’o-
rario di lavoro incida negativamente sull’utilità del lavoratore17. In altri
termini, un’ora di lavoro all’interno di una scansione temporale della pre-
stazione regolare, stabile e certa, rispettosa delle esigenze biologiche e so-
ciali del lavoratore, è preferibile, in termini di utilità, a una medesima ora
di lavoro in condizioni di flessibilità. Pertanto, se si volessero misurare
correttamente le preferenze dei lavoratori, occorrerebbe costruire un in-
dice standard di ora-lavoro sulla base delle diverse articolazioni tempo-
rali dell’organizzazione del lavoro. Si scoprirebbe così che l’aumento del-
la flessibilità ha più che compensato, in termini di disutilità del lavoro, la
piccola riduzione dell’orario medio annuo. In altre parole il lavoratore
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DOMANDA INTERNA 1,1 2,5 2,6 4,7 0,6 2,3 1,6 3,3
Tabella 4. La crescita della domanda nell’UEM e negli USA (1991-2003). Tassi medi an-
nui di variazione in termini reali a prezzi 1995. (Fonte: nostre elaborazioni su dati Euro-
pean Commission, 2004).
(1) (2)
Profittabilità delle imprese private 1,1 2,3 3 2,4 0,3 1,4 1,6 2,2
Salari reali pro capite(1) 0,9 0,8 0,3 2,4 0,6 0,5 0,5 1,4
Tassi di interesse reali a breve termine 5,4 2,1 2,7 4 1 0,5 3,3 2,5
Tassi di interesse reali a breve - Crescita PIL 3,9 - 0,4 0,1 - 0,1 0,1 - 1,5 1,5 - 0,5
netaria. Come si può vedere, i tassi di interesse reali sono stati più elevati
in Europa rispetto agli USA nella media dell’intero periodo. Tuttavia, un in-
dicatore ancora più significativo per valutare se la politica monetaria ab-
bia un orientamento di tipo restrittivo oppure espansivo è dato dalla dif-
ferenza tra il tasso di interesse a breve termine, controllato dalle banche
centrali, e il tasso di crescita del reddito. Quando la differenza è positiva
vuol dire che la remunerazione del capitale finanziario cresce più della re-
munerazione del capitale reale e del lavoro; in altri termini, che è più con-
veniente investire in titoli finanziari piuttosto che nell’attività produttiva.
In questo caso il peso delle rendite finanziarie sul reddito totale cresce, ori-
ginando un processo di redistribuzione del reddito a danno dei lavoratori
e delle attività produttive. Ora, la differenza nella politica monetaria del-
l’ultimo quindicennio nelle due aree è, come si vede, clamorosa: nell’UEM
i tassi di interesse sono stati costantemente superiori alla crescita del red-
dito, fino a toccare punte esasperate nella prima metà degli anni Novanta,
mentre negli USA sono stati sempre inferiori, in maniera molto accentuata
dopo lo scoppio della crisi negli ultimi anni. Nell’area dell’euro la politica
monetaria ha, quindi, determinato un enorme aumento della redditività
degli investimenti finanziari rispetto a quelli reali e all’attività lavorativa.
Questa politica monetaria così restrittiva è andata a esclusivo vantaggio
della finanza e ha costituito un fattore frenante per l’espansione della pro-
duzione. Il contrario è accaduto negli USA, dove invece il tasso di crescita
del reddito è stato superiore a quello della rendita finanziaria, incentivan-
do così l’investimento produttivo. La politica monetaria restrittiva nel-
l’UEM è stata così una delle cause della minor crescita europea.
L’altra causa del più alto tasso di accumulazione del capitale è l’anda-
mento della domanda interna22. Le imprese, infatti, fanno nuovi investi-
menti produttivi soltanto se prevedono che potranno vendere la maggio-
re quantità di prodotti che da essi deriverebbe. Osservando la tabella 4 si
scopre allora che, accanto agli investimenti, negli USA anche l’espansione
dei consumi è stata notevole. A questo proposito va rimarcato che l’au-
mento dei consumi americani non è derivato soltanto dagli elevati livelli
di spesa delle famiglie, ma anche dalla spesa pubblica. A partire dal 1996
negli USA il tasso di crescita dei consumi pubblici è stato superiore a quel-
lo dell’Europa. Clamorosa è la differenza negli ultimi anni di crisi. I dati
della tabella 6, dove il valore del tasso di crescita del PIL è scomposto sul-
la base dei contributi delle singole componenti della domanda, mostrano
che la maggiore tenuta dell’economia americana è dovuta pressoché
esclusivamente all’enorme incremento di spesa pubblica, prevalentemen-
te costituito dalle spese di guerra, avvenuto a partire dal 2001. La diver-
sa risposta di politica fiscale data al rallentamento della dinamica econo-
mica dagli USA rispetto all’UEM è la sola causa che spiega la differenza nei
tassi di crescita delle rispettive economie negli ultimi tre anni.
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+ Consumi privati 0,4 1,8 1,1 2,3 0,3 0,4 0,6 1,7
= DOMANDA INTERNA 1,1 2,5 2,5 4,8 0,8 2,3 1,5 3,4
+ Esportazioni nette 0,4 - 0,1 0,1 - 0,7 0,1 - 0,4 0,3 - 0,4
Tabella 6. Crescita economica nell’UEM e negli USA (1991-2003). Contributo medio an-
nuo delle componenti della domanda. (Fonte: nostre elaborazioni su dati European Com-
mission, 2004).
per cento al 18 per cento24. La recente rivalutazione dell’euro nel 2003, vo-
luta dalla Banca Centrale Europea, ha fatto il resto, annullando anche il
piccolo progresso registrato nei vent’anni precedenti.
Diametralmente opposta è stata la risposta allo scoppio della crisi eco-
nomica, all’inizio dell’attuale decennio, data dagli USA e dall’Europa. L’am-
ministrazione Bush non ha esitato un attimo a buttare alle ortiche l’orto-
dossia di bilancio e si è lanciata in una nuova, enorme corsa agli arma-
menti, giustificata dalla necessità della guerra preventiva al terrorismo, e in
una massiccia riduzione delle tasse alle imprese e ai ceti abbienti, che han-
no fatto esplodere il deficit pubblico. Contemporaneamente, la banca cen-
trale americana, la Federal Reserve, ha ridotto in pochi mesi i tassi di inte-
resse all’1 per cento, il livello più basso degli ultimi quarant’anni, per dare
fiato alla Borsa e al mercato immobiliare. Tutto ciò ha garantito una mag-
giore tenuta della domanda interna e reso meno forte il contraccolpo del-
la crisi, pur accentuando le contraddizioni strutturali del sistema economi-
co americano derivanti dai crescenti “deficit gemelli”, quello pubblico e
quello dei conti con l’estero, e dall’elevato livello di indebitamento del set-
tore privato. L’Europa è invece rimasta ferma, immobile nella reiterazione
ottusa e impotente delle vecchie litanie di Maastricht25.
Non bisogna confondere la profonda avversità che suscita la politica di
guerra dell’amministrazione Bush con la risposta tecnica di politica eco-
nomica da essa data alla crisi. Dal punto di vista tecnico, la risposta ame-
ricana è indubbiamente più corretta, perché essa tiene conto della lezione
della storia, quella della grande depressione degli anni Trenta. È il conte-
nuto politico delle scelte economiche dell’amministrazione Bush ad esse-
re profondamente sbagliato, perché incentrato sull’aumento delle già in-
tollerabili disuguaglianze sociali e sul militarismo guerrafondaio. L’Euro-
pa doveva imitare gli USA nell’avvio di una strategia generale di politica
economica marcatamente orientata in senso espansivo, per allontanarsene
sul piano dei contenuti concreti, puntando su un intervento pubblico di re-
distribuzione del reddito in senso egualitario e di potenziamento dell’of-
ferta produttiva26. In questo modo, l’Europa avrebbe anche massimizzato
l’efficacia macroeconomica della politica espansiva, evitando le contraddi-
zioni strutturali che il carattere di classe della politica economica america-
na comporta e che si manifestano in una esplosione del debito finanziario
del paese, sia nel settore pubblico, sia in quello privato delle famiglie e del-
le imprese27. L’Europa, invece, ha fatto esattamente il contrario, inseguen-
do il modello sociale americano intriso di neoliberismo darwiniano28 e pro-
seguendo nella dottrina dei sacrifici e del rigore nella politica economica.
Un comportamento autolesionista ai limiti del masochismo.
Infatti, le politiche di austerità attuate in Europa negli ultimi quindici
anni, contrassegnate da una redistribuzione del reddito verso i ceti ab-
bienti e da una drastica riduzione dell’intervento pubblico, hanno rallen-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 107
La lunga strada che ha portato alla moneta unica europea ha avuto co-
me sua tappa fondamentale il trattato di Maastricht, stipulato nell’omo-
nima cittadina belga il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore, dopo la rati-
fica dei parlamenti nazionali, il primo novembre 1993. In esso venne de-
finita l’architettura istituzionale della futura Unione Economica e Mone-
taria (UEM), oltre che i tempi, le modalità e le condizioni della sua costi-
tuzione. I contenuti dell’accordo di Maastricht hanno determinato, in lar-
ga misura, i caratteri assunti dal processo di transizione dalle monete na-
zionali all’euro e, ancora adesso, rappresentano il cardine dell’intera co-
struzione europea.
La straordinaria importanza del trattato di Maastricht non risiede sol-
tanto nei meccanismi giuridici e istituzionali da esso stabiliti, ma soprat-
tutto nella definizione del modello sociale e dei principi ispiratori della
futura Europa. Da questo punto di vista, Maastricht è addirittura supe-
riore, per importanza e concreta influenza, a una carta costituzionale. Il
progetto di Costituzione europea, all’esame dei capi di Stato e di gover-
no dell’Unione, dimostra che è ancora Maastricht a rappresentare il qua-
dro strategico entro cui si muove il processo di integrazione.
Ciò è particolarmente vero per la politica economica. Strumenti e con-
tenuti della politica monetaria e della politica di bilancio in Europa sono
ancora, nelle loro linee di fondo, quelli definiti, più di dodici anni fa, nel-
la piccola cittadina belga. I successivi accordi sulla conduzione della po-
litica economica europea, compreso il Patto di Stabilità e Crescita, rap-
presentano la prosecuzione e la specifica articolazione delle strategie al-
lora definite per costituire l’UEM. Per questo è lecito affermare che anco-
ra oggi il marchio, il logo, il simbolo dell’Unione Europea rimane quello
del trattato di Maastricht.
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1) il tasso di inflazione non doveva superare per più dell’1,5 per cento il
tasso medio di inflazione registrato dai tre paesi con inflazione più
bassa;
2) i tassi di interesse a lungo termine non dovevano superare per più del
2 per cento quelli medi dei tre paesi con maggiore stabilità dei prezzi;
3) il tasso di cambio delle monete nazionali doveva restare, nei due anni
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Stati membri 1991 1997 1991 1997 1991 1998(3) 1991 1998(3)
Tabella 7. I parametri di Maastricht all’inizio e alla fine del periodo di transizione verso
l’UEM (1991 e 1997). (Fonte: IME, 1998).
colo alla loro espansione fino a che non avessero raggiunto una condizione
di piena occupazione. In altri termini, sarebbe stata la recessione economi-
ca a ripristinare l’equilibrio macroeconomico in caso di andamento diver-
gente di un’economia nazionale rispetto alle condizioni medie dell’area. Ta-
le meccanismo poteva risultare talmente gravoso da mettere a rischio la
permanenza stessa dei paesi a più lenta crescita all’interno dell’area unifi-
cata. Per ridurre al minimo questi rischi occorreva allora che, all’interno
dell’unione monetaria, esistesse un grado soddisfacente di omogeneità eco-
nomica strutturale. La scelta istituzionale compiuta a Maastricht obbligava
quindi a perseguire la convergenza economica tra i paesi appartenenti al-
l’area monetaria europea per tre ordini di ragioni.
In primo luogo, il controllo della quantità di moneta e dei tassi di in-
teresse è uno strumento fondamentale di politica economica, che ciascun
paese dotato di sovranità monetaria può utilizzare per far fronte a parti-
colari e specifiche situazioni congiunturali interne. Emblematico a questo
proposito è il comportamento della Federal Reserve statunitense che, sot-
to la direzione di Alan Greenspan, ha mostrato uno straordinario dina-
mismo nell’adeguare le condizioni monetarie alla congiuntura, attraverso
continue e ripetute variazioni dei tassi di interesse10. La politica moneta-
ria, attraverso i tassi di interesse, influenza il livello nominale e reale del-
la domanda interna. Con l’unificazione monetaria europea, i paesi, ri-
nunciando alla sovranità monetaria nazionale, si spogliano della possibi-
lità di utilizzare autonomamente la politica monetaria come strumento di
politica economica. Essa diventa unica e uguale per tutti i paesi apparte-
nenti all’UEM e non può essere più adattata alle specifiche esigenze na-
zionali. Se le economie dei paesi membri dell’Unione presentano marca-
te divergenze strutturali, l’unificazione monetaria può produrre un’ac-
centuazione degli squilibri territoriali, aggravare i problemi macroecono-
mici nazionali e mettere così a repentaglio la coesione politica dell’Unio-
ne. La convergenza è dunque un prerequisito per una corretta gestione
della politica monetaria comune.
In secondo luogo, l’unificazione monetaria elimina un altro strumento
di politica economica a disposizione delle autorità nazionali, la manovra
sul tasso di cambio. Con la moneta unica esiste un unico tasso di cambio
della moneta dell’Unione nei confronti delle monete del resto del mondo
e scompaiono i tassi di cambio tra le monete dei paesi membri. Il livello
del tasso di cambio influenza le esportazioni e le importazioni di ogni
paese e il grado di competitività internazionale della produzione nazio-
nale. Attraverso la modifica del tasso di cambio, cioè con la svalutazione
o la rivalutazione della propria moneta, ciascun paese dotato di sovranità
monetaria può influenzare il livello della domanda interna ed estera e
l’andamento della propria bilancia dei pagamenti internazionali. Se i pae-
si dell’Unione si trovano in situazioni economiche divergenti, un unico
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 117
deficit primario
Stati membri dell’UEM deficit effettivo(1)
strutturale(1)
Belgio - 4,2 - 4,0
Tabella 8. Aggiustamento fiscale nel periodo di Maastricht. Dati in percentuale del PIL.
Variazioni complessive (1991-97). (Fonte: Buti - Sapir, 1999).
nente delle entrate fiscali o attraverso una riduzione permanente della spe-
sa pubblica per consumi collettivi o per investimenti. Un esame più anali-
tico dei dati di composizione di bilancio mostra che la parte di gran lunga
prevalente dello sforzo di risanamento in quasi tutti i paesi (ad eccezione
di Belgio, Irlanda e Portogallo) è stata giocata dalla riduzione della spesa
primaria corrente. Ciò vuol dire che sono stati i tagli alla spesa per il per-
sonale pubblico e per il welfare a sopportare la quasi totalità dell’aggiu-
stamento. La maggiore entità della riduzione del deficit primario struttu-
rale rispetto al deficit effettivo indica che mentre la spesa pubblica per i
consumi collettivi si riduceva drasticamente, la spesa per interessi conti-
nuava a crescere. Poiché, a partire dagli anni di Maastricht, il saldo pri-
mario strutturale è passato da una situazione di deficit a una situazione di
surplus in tutti i paesi dell’UEM, gli Stati incassano ormai in valore assolu-
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to, sotto forma di tasse, più di quanto spendono per fornire beni e servizi
pubblici. La persistenza di deficit effettivi di bilancio nei paesi europei di-
pende esclusivamente dal pagamento delle rendite finanziarie sul debito
pubblico. I riflessi in termini di distribuzione del reddito delle politiche di
Maastricht sono stati quelli di un enorme trasferimento di ricchezza dai
redditi da lavoro ai redditi da capitale in tutta Europa16.
Se osserviamo i singoli paesi, scopriamo che per alcuni di essi l’aggiu-
stamento fiscale è stato più massiccio che per altri. In complesso, il defi-
cit pubblico dell’UEM nel periodo di Maastricht si riduce del 45 per cen-
to. Tale riduzione è però concentrata prevalentemente in alcuni paesi,
quelli che partivano da una situazione iniziale peggiore. Per uno scherzo
della storia, anche la Germania, dopo la repentina unificazione, ha dovu-
to faticare per rispettare quei parametri, costruiti a propria immagine e
somiglianza, dovendo compiere una manovra strutturale dell’ordine del
4 per cento del PIL. Ma è per la Grecia e l’Italia che il rispetto dei vinco-
li di Maastricht ha assunto proporzioni inaudite, con una riduzione strut-
turale del bilancio pubblico primario rispettivamente del 13,7 per cento
e del 10,2 per cento del PIL. Per l’Italia ciò ha significato una riduzione
delle spese primarie correnti di ben l’8 per cento del PIL, dal 27,9 per cen-
to nel 1991 al 19,9 per cento del 199817.
Insieme alla feroce stretta sulla spesa pubblica primaria, l’aggiustamen-
to fiscale derivante da Maastricht ha interessato, sia pur in misura più ri-
dotta, anche il lato delle entrate. All’inizio del periodo, nel 1990, il livello
di imposizione fiscale corrente nei paesi dell’UEM era pari al 43,7 per cen-
to del PIL. Nel 1998 aveva raggiunto il 47,1 per cento. Ma al di là del pur
non disprezzabile aspetto quantitativo, è significativa la struttura della tas-
sazione europea per fonte di imposizione rispetto a quella prevalente ne-
gli altri principali paesi industriali. La struttura della tassazione europea
nel 1998 si differenziava da quella della media dei paesi OECD per un pe-
so maggiore assunto dalla contribuzione sociale (32 per cento contro 28
per cento) e dalle imposte indirette (30 per cento contro 24 per cento) e
per una minore quota di imposte sul reddito personale (24 per cento con-
tro 30 per cento), sui profitti di impresa (7 per cento contro 9 per cento)
e sulla proprietà (8 per cento contro 9 per cento). È da rilevare che le im-
poste indirette costituiscono una forma di imposizione fiscale di tipo re-
gressivo sul piano sociale perché, tassando i consumi e non i redditi o le
ricchezze, non rispondono al requisito della capacità contributiva. Inoltre,
poiché la quota di reddito spesa in consumi cresce al diminuire del reddi-
to, essa grava in misura maggiore sulle fasce di popolazione con redditi
medi e bassi e, quindi, in definitiva sui redditi da lavoro.
Questa distorsione del sistema fiscale ai danni del lavoro è conferma-
ta dalla maggiore aliquota effettiva, o in termini tecnici implicita, che
grava sui redditi da lavoro (36,3 per cento nel 2002) rispetto ai redditi
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da capitale (19,6 per cento). Negli ultimi anni infatti sono state le im-
prese le maggiori beneficiarie delle riforme fiscali in Europa, dato che
l’aliquota massima effettiva sugli utili di impresa nell’UE è passata dal 38
per cento del 1995 al 31,4 per cento del 200218. Vedremo in seguito che
in Italia questa distorsione fiscale assume dimensioni ancora più clamo-
rose e intollerabili. Inoltre, mentre la spesa sociale si riduceva, passando
dal 27 per cento del PIL dell’UEM nel 1993 al 26 per cento del 2000, con-
temporaneamente scendeva anche la quota di spesa finanziata con i con-
tributi delle imprese, dal 31,6 per cento al 30,6 per cento. Questa parti-
colare struttura dell’imposizione europea è dunque tale da limitare il
grado complessivo di progressività del sistema fiscale. Ne consegue che
l’aumento delle entrate correnti avutosi negli anni di Maastricht è pesa-
to in maniera di gran lunga prevalente sui redditi da lavoro19. In altre pa-
role, i lavoratori hanno ricevuto meno protezione sociale pagandola di
più. Questo elemento, accoppiato, come vedremo più in dettaglio nel ca-
pitolo 8, alla riduzione della quota dei salari sul valore aggiunto totale,
ha determinato una compressione della parte di reddito disponibile net-
to attribuita al lavoro.
Il duplice effetto della riduzione della spesa pubblica primaria e del-
l’aumento delle tasse sul lavoro e sul consumo non poteva che alimen-
tare gli effetti depressivi sulla domanda interna e quindi causare un ral-
lentamento della crescita. Invece, durante gli anni di Maastricht si arrivò
addirittura a negare questi prevedibili effetti pur di giustificare quanto
si andava facendo. Ci furono infatti grandi sforzi per giustificare sul pia-
no della teoria economica la bontà di un orientamento restrittivo della
politica fiscale anche dal punto di vista della crescita del reddito. In par-
ticolare, diversi economisti sostennero, attraverso la costruzione di sofi-
sticati modelli economici, che un taglio della spesa pubblica corrente
avrebbe prodotto effetti “non keynesiani”, cioè avrebbe aumentato la
produzione, attraverso positivi effetti sia di offerta che di domanda. Dal
punto di vista dell’offerta si sostenne che una spesa pubblica elevata nel
lungo periodo avrebbe prodotto un incremento della tassazione sul la-
voro e un conseguente aumento delle rivendicazioni salariali, tale da ge-
nerare una perdita di competitività internazionale con effetti negativi
sull’economia. Dal punto di vista della domanda, l’ipotesi prevalente ri-
guardava la capacità dei consumatori di scontare i futuri aumenti di im-
posta derivanti da un deficit pubblico e di diminuire così immediata-
mente i consumi. Le ricerche empiriche effettuate sulle politiche fiscali
nel periodo di Maastricht non hanno confermato l’esistenza di tali effetti
positivi della restrizione fiscale e anzi hanno provato che in genere gli ef-
fetti delle manovre di politica fiscale negli anni Novanta nell’UE sono coe-
renti con la classica macroeconomia keynesiana, cioè la riduzione della
spesa pubblica ha ridotto il reddito, i consumi e gli investimenti, mentre
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Tabella 9. Gli effetti economici del trattato di Maastricht. Medie annue dei periodi 1986-
91 e 1992-97. (Fonte: European Commission, 2004).
dei tassi di disoccupazione e dei livelli di produttività del lavoro, i cui an-
damenti rimangono strettamente correlati al tipo di specializzazione
produttiva originaria delle diverse regioni (agricola, industriale, terzia-
ria)22. Da queste analisi si può concludere che nella fase di transizione al-
la moneta unica e poi nella fase di vera e propria unificazione monetaria
i divari territoriali di sviluppo dentro l’UE si sono allargati.
Il processo di unificazione monetaria sta portando alla nascita di nuo-
ve aggregazioni regionali transnazionali, differenziate sulla base dei ritmi
di crescita economica: da un lato le aree più favorite dall’integrazione, in
cui agiscono forti meccanismi agglomerativi delle attività economiche a
più alto valore aggiunto, e dall’altro le aree più svantaggiate, che subisco-
no un progressivo processo di emarginazione dai circuiti centrali dell’e-
conomia comunitaria23. Il processo di integrazione monetaria europea
sembra così tendere verso una accentuazione della polarizzazione dello
sviluppo all’interno di ciascun paese tra le regioni più dinamiche e le re-
gioni più statiche. In un certo senso, si può affermare che il modello ita-
liano di sviluppo territoriale dualistico, anziché essere superato dai pro-
cessi di integrazione europea, tende al contrario a imporsi anche in quei
paesi dove lo sviluppo economico aveva in passato presentato caratteri-
stiche più equilibrate.
Questi meccanismi spontanei di polarizzazione hanno impedito non
solo la convergenza economica ma anche quella sociale. Alla fine del de-
cennio di Maastricht, quando ormai l’unione monetaria è diventata una
solida realtà e merci e capitali circolano indisturbati all’interno delle fron-
tiere europee, si assiste ancora a una marcata differenza nei diritti sociali
goduti dai cittadini dei diversi paesi membri dell’UEM. Ad esempio, se
consideriamo la media dei tre paesi dell’UEM con la quota di spesa socia-
le più alta rispetto al PIL (Francia, Germania e Austria) e li confrontiamo
con quella dei tre paesi membri con la quota minore (Spagna, Portogallo
e Irlanda), osserviamo che nel 2001 il primo gruppo ha investito in pro-
tezione sociale il 29,4 per cento del reddito nazionale contro appena il
19,5 per cento del secondo. Ancora più marcata è la differenza in termi-
ni di euro spesi pro capite per le prestazioni sociali: i cittadini del primo
gruppo di paesi potevano contare su una spesa sociale pari a 7.400 euro
a testa, mentre quelli del secondo gruppo (in questo caso Spagna, Grecia
e Portogallo) soltanto su 3.159 euro24. Questi sono i risultati dell’approc-
cio monetario di stampo neoliberista alla convergenza.
Anche le disuguaglianze nella distribuzione interpersonale del reddito
all’interno dell’UE sono cresciute negli anni Novanta25. Il reddito del 5 per
cento più ricco della popolazione, che nel 1980 era 6,9 volte quello del 20
per cento più povero, nel 1990 era arrivato a 7,3 volte e nel 1998 a 7,5
volte. Considerando l’indice sintetico di concentrazione di Gini si osser-
va un costante e ininterrotto aumento della disuguaglianza nella distribu-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:40 Pagina 126
zione del reddito in Europa negli ultimi vent’anni. Dal punto di vista del-
la condizione sociale, le tre classi che, nel 1997, avevano un reddito indi-
viduale inferiore a quello medio sono i contadini (79 per cento), i non oc-
cupati (84 per cento) e gli operai (89 per cento)26. La disuguaglianza nel-
la distribuzione del reddito è dunque un fenomeno di classe.
La concentrazione del reddito ha contribuito all’estensione del feno-
meno della povertà, che ha riacquistato dimensioni per nulla trascura-
bili nella ricca Europa. Tra il 1990 e il 1998 il numero delle persone che
vivono in una condizione di povertà assoluta, con meno di dieci dollari
al giorno, è aumentato del 10 per cento e rappresenta l’1,1 per cento
della popolazione (circa quattro milioni di cittadini); le persone in con-
dizioni di povertà relativa, con un reddito inferiore alla metà del valore
mediano – cioè del reddito di quelli che si collocano esattamente a metà
della distribuzione – continuano a rappresentare il 12,1 per cento del
totale, come nel 1980, e hanno superato i quarantacinque milioni. Le
persone considerate a “rischio di povertà”, sulla base degli indicatori di
inclusione sociale concordati nel Consiglio Europeo di Laeken27, con un
reddito inferiore al 60 per cento di quello mediano (circa seicento euro
al mese), raggiungevano nel 1998 il 18 per cento della popolazione del-
l’Unione Europea. La classe di età con maggiore rischio di povertà è
quella dei bambini e dei ragazzi inferiori ai sedici anni. Ben il 24 per
cento di loro sono in queste condizioni nell’Europa di Maastricht. Si-
gnificativo il fatto che rischiano la povertà il 7 per cento dei lavoratori
dipendenti, il 16 per cento di quelli indipendenti, il 38 per cento dei di-
soccupati, il 18 per cento di pensionati e il 27 per cento di coloro che
sono inattivi. Se, invece del reddito, prendiamo in considerazione le
condizioni materiali di vita, le cose peggiorano ulteriormente. Nel 1997
ben il 26,7 per cento della popolazione europea viveva in condizioni di
privazione ambientale (spazio e luce insufficienti, inquinamento acusti-
co e atmosferico), il 22 per cento non riusciva a soddisfare le quotidia-
ne necessità primarie (cibo, vestiario, mobili) e il 12,9 per cento viveva
in abitazioni deteriorate28. Secondo l’indice sintetico di povertà mate-
riale, elaborato dalla Commissione Europea, il 15 per cento della po-
polazione complessiva dell’UE si trovava in una situazione di privazio-
ne. Anche in questo caso la quota di contadini, inoccupati e operai è più
alta della media. L’efficienza del sistema dei trasferimenti sociali a ope-
ra della pubblica amministrazione nel perseguire l’obiettivo di un rie-
quilibrio delle condizioni di vita è molto scarsa: nel 1997 il 20 per cen-
to di popolazione europea con reddito più basso riceveva il 16 per cen-
to delle risorse complessive destinate a questo scopo, mentre il 20 per
cento con reddito più alto ne riceveva il 24 per cento29. Sembra assurdo
ma è proprio così, i più ricchi ricevono dallo Stato più protezione so-
ciale di quella erogata ai più poveri.
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Infine, il dato più stupefacente di tutti, quello che meglio di ogni altro
è in grado di illustrare sinteticamente ciò che è l’Europa di Maastricht: se-
condo le statistiche di Eurostat la percentuale di famiglie europee che nel
1998 si trovavano in condizioni di difficoltà finanziaria ammontava all’82
per cento del totale (l’86 per cento in Italia)30.
In conclusione, si può dire che i parametri di Maastricht hanno impo-
sto ai popoli europei una riduzione della crescita economica, un allarga-
mento delle disparità territoriali di sviluppo e un aumento dell’ingiustizia
sociale nella distribuzione del reddito. Il passo di lumaca imposto da
Maastricht peserà a lungo sul grado di competitività e di qualificazione
produttiva dell’Europa e sull’equità del suo modello sociale.
l’affermarsi su scala europea della linea neoliberista, alla cui testa si pon-
gono le forze della sinistra moderata, anche al prezzo di una drammati-
ca rottura con le forze della sinistra alternativa.
Dopo Maastricht, dunque, di nuovo, sempre di più, Maastricht. Que-
sta recrudescenza del neoliberismo e del monetarismo su scala europea
avrà, da allora, un nuovo nome e un nuovo simbolo: il Patto di Stabilità
e Crescita, che ancora oggi continua a gravare come un macigno, dal pe-
so sempre più insopportabile, sulle economie e le società europee.
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paese accusasse un deficit pubblico pari al 4 per cento del PIL, dovrebbe
pagare nel primo anno una multa alla Commissione Europea dell’ordine
dello 0,3 per cento del PIL, cioè di circa 4 miliardi di euro, pari a una tassa
di settanta euro per ogni cittadino italiano, e negli anni successivi una som-
ma dello 0,1 per cento del PIL (1,3 miliardi di euro) fino a un ammontare
complessivo di 6,5 miliardi di euro (circa 120 euro pro capite).
Come si è potuto notare, con il PSC cambia strutturalmente lo scopo
della disciplina fiscale all’interno dell’UEM. Mentre il parametro di Maa-
stricht, relativo al rapporto deficit/PIL, era finalizzato a limitare l’indebi-
tamento pubblico al solo scopo di finanziare le spese di investimento, in-
dipendentemente dalla congiuntura macroeconomica, il PSC impone la
tendenziale copertura di tutte le spese pubbliche, comprese quelle di in-
vestimento, con le entrate fiscali correnti. Situazioni di deficit possono es-
sere tollerate, entro il limite massimo del 3 per cento del PIL, solo in si-
tuazioni macroeconomiche particolarmente depresse. La disciplina fisca-
le diventa così ben più rigida e stringente di quella prevista nei parametri
di Maastricht perché il saldo effettivo del bilancio pubblico deve essere a
pareggio o in positivo nel medio periodo. Eventuali deficit di bilancio nei
periodi di bassa congiuntura devono essere più che compensati da sur-
plus di bilancio in periodi di alta congiuntura. La motivazione fornita per
questo irrigidimento è la necessità di ridurre e stabilizzare lo stock di de-
bito pubblico.
I parametri fiscali di Maastricht erano stati formulati sulla base dell’i-
potesi di una crescita nominale del PIL del 5 per cento annuo, che, consi-
derato l’obiettivo di inflazione, equivaleva alla previsione di una crescita
economica reale del 3 per cento. In queste condizioni, deficit dell’ordine
del 3 per cento non comportavano aumenti del rapporto debito pubbli-
co/PIL. In realtà, la crescita economica nell’UEM nel corso degli anni No-
vanta era stata ampiamente inferiore (circa la metà) a quella ipotizzata,
tanto che, nonostante il rigore fiscale, il debito pubblico era aumentato in
quasi tutti i paesi. Per questa ragione, si decise di rendere ancora più re-
strittiva la disciplina fiscale. Infatti, con un bilancio in pareggio nel me-
dio periodo, è sufficiente una crescita nulla per garantire la stabilità del
rapporto debito/PIL. Il PSC, prendendo spunto dal fatto che nel trattato
di Maastricht non sono previste eccezioni al requisito di una continua ri-
duzione del rapporto debito/PIL verso la soglia del 60 per cento, stabili-
sce che il debito pubblico non può crescere nemmeno in situazioni di
grave recessione. I paesi con elevato debito pubblico, al di sopra del li-
mite del 60 per cento o anche solo vicino ad esso, sono condannati a una
permanente restrizione fiscale, indipendentemente dalla fase del ciclo
economico in cui si trovano.
In questo modo, però, in nome di una cieca fedeltà all’ortodossia neo-
liberista, si è caduti in un circolo vizioso, estremamente pericoloso, di ca-
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rattere recessivo. Infatti, la bassa crescita del PIL all’interno dell’UEM nel
periodo del trattato di Maastricht ha avuto come principali cause proprio
la disciplina e il rigore fiscale e la politica monetaria restrittiva e antinfla-
zionistica derivanti dai parametri di convergenza. Le politiche di aggiu-
stamento monetario e fiscale, in conseguenza dei parametri di Maastricht,
hanno depresso la domanda interna e hanno incrementato il debito pub-
blico a causa degli alti tassi di interesse, provocando in tal modo una di-
storsione verso il basso del ciclo economico europeo. In realtà, erano
completamente errate le previsioni iniziali circa la possibilità di una cre-
scita reale media del 3 per cento annuo sotto le forche caudine del trat-
tato di Maastricht. È difficile dire se questo ottimismo infondato fosse al-
lora dovuto a una totale incomprensione dei meccanismi economici, de-
rivante dalla cieca adesione alla teoria economica neoliberista, o fosse in-
vece voluto per scopi politici, al fine di giustificare ulteriori riduzioni del
ruolo economico dello Stato. Probabilmente, sono vere entrambe le co-
se. Fatto sta che con il PSC l’errore si ripete e si accentua: poiché la poli-
tica economica restrittiva di Maastricht ha fallito, allora occorre rendere
ancora più restrittiva la politica economica: «Errare è umano, persevera-
re è diabolico», questo è il motto che dovrebbe essere scritto davanti a
ogni ingresso dei palazzi del potere comunitario.
Oltre al vincolo del pareggio del saldo di bilancio nel medio periodo,
anche la definizione data dal PSC di recessioni gravi è indizio di un asso-
luto e insensato rigore fiscale. Come si è visto, il deficit pubblico può es-
sere superiore al 3 per cento del PIL in caso di recessioni eccezionalmen-
te gravi, pari almeno alla caduta del 2 per cento del reddito. Ora, negli ul-
timi quarant’anni, nei paesi dell’UEM ci sono stati solo sei casi in cui il PIL
è calato in questa misura: due volte in Finlandia, una volta ciascuno in
Grecia, in Italia, in Lussemburgo e in Portogallo, mai negli altri Stati
membri dell’UEM. Più frequenti le recessioni gravi, secondo la definizio-
ne del PSC, comprese tra -0,75 per cento e -2 per cento del PIL: negli ulti-
mi quarant’anni ciò è accaduto diciannove volte per i paesi membri del-
l’UEM (tre volte per Belgio, Germania, Portogallo e Finlandia, due volte
per Grecia e Italia, una volta per Spagna, Francia, Lussemburgo e Olan-
da, mai per Austria e Irlanda). Queste gravi recessioni sono tutte acca-
dute in tre periodi: 1974-75, 1980-82 e 1991-93. Nei primi due periodi
esse furono l’effetto degli shock petroliferi, nel terzo invece dell’impatto
economico della riunificazione tedesca e del crollo dell’URSS, particolar-
mente sentito nelle economie del Nord Europa4.
In tutti i casi, quindi, le gravi recessioni hanno avuto origine da even-
ti economici o politici di eccezionale rilevanza e di carattere assoluta-
mente straordinario, non derivanti dall’andamento normale del ciclo eco-
nomico. In tutti i casi, esse hanno assunto la forma prevalente di shock
dal lato dell’offerta, piuttosto che di cadute dei livelli della domanda. È
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evidente, allora, che la definizione di recessioni gravi adottata dal PSC, per
consentire uno scostamento dalla ferrea disciplina fiscale, non consente
di far fronte a situazioni di “normale” difficoltà economica. Ad esempio,
una situazione di prolungata stagnazione, con crescita nulla o di poco ne-
gativa, quale quella che l’UEM sta attraversando da quattro anni a questa
parte, non consente alcun allontanamento dalle regole fiscali.
Inoltre, la definizione di recessione basata esclusivamente sulle varia-
zioni del PIL è parziale e incompleta, poiché non viene presa in conside-
razione un’altra variabile chiave per il benessere economico: quella del
tasso di disoccupazione. La disoccupazione può infatti aumentare consi-
derevolmente anche in situazioni di lieve recessione, di stagnazione o ad-
dirittura di moderata crescita economica, perché la produttività del lavo-
ro continua ad aumentare, a seguito dei miglioramenti tecnologici o del-
le riorganizzazioni produttive. Ignorando totalmente la variabile disoccu-
pazione, il PSC dimostra che ciò che interessa all’UEM è soltanto il valore
aggiunto prodotto dalle imprese e per nulla la piena occupazione. La di-
soccupazione può pure aumentare, l’importante è che le imprese non ve-
dano ridursi i propri affari: questa è la filosofia implicita nel PSC, che ha
così sostituito al posto del diritto al lavoro, sancito nelle costituzioni de-
gli Stati europei, il diritto all’utile d’impresa. Non è un caso, d’altra par-
te, che nelle formulazioni dei documenti ufficiali dell’UE il concetto di oc-
cupazione, che corrisponde all’obiettivo di operare per assicurare il dirit-
to al lavoro da parte delle autorità di politica economica, sia stato pro-
gressivamente sostituito dal termine di “occupabilità”, che invece espri-
me una pura potenzialità, la cui eventuale realizzazione concreta ricade
interamente sulle spalle dell’individuo, che deve adattarsi alle mutevoli
esigenze del mercato5.
Altro elemento da considerare riguarda le modalità attraverso cui si
può affrontare una situazione di grave recessione. Anche in periodi ecce-
zionalmente negativi, il saldo di bilancio pubblico deve restare in pareg-
gio o in surplus nel medio periodo. Ciò vuol dire che eventuali deficit fi-
scali eccessivi sono accettabili, in presenza di una profonda crisi econo-
mica, solo se, successivamente, saranno compensati da analoghi o supe-
riori surplus di bilancio. La politica fiscale, quindi, deve essere essenzial-
mente basata sugli stabilizzatori automatici di bilancio e deve escludere
ogni intervento strutturale o discrezionale. In sostanza, la formazione del
bilancio pubblico deve perdere gran parte del suo significato politico, at-
tinente alla distribuzione delle risorse e alla organizzazione della società,
per ridursi a un meccanismo tecnico che si aggiusta da solo, automatica-
mente, al variare delle condizioni dei mercati.
In questo modo, la politica fiscale diventa impotente ai fini della stabi-
lizzazione macroeconomica proprio quando essa sarebbe più necessaria,
cioè nei momenti di crisi economica strutturale, nelle fasi di transizione
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PIL e del reddito pro capite, anche misurato in termini di parità del pote-
re d’acquisto, nettamente superiori a quelli dell’UEM7. Si comprende me-
glio così da che cosa derivi la prevalente contrarietà delle popolazioni di
questi Stati all’adozione dell’euro come moneta nazionale.
Tabella 10. La crescita economica negli anni del Patto di Stabilità e Crescita. Tassi medi
annui di variazione del PIL (1998-2003). (Fonte: Banca d’Italia, Relazione del governa-
tore per il 2004, appendice).
to per il 2004 e del 3,8 per cento per il 2005. Subito dopo hanno seguito a
ruota la Francia (-3,1 per cento nel 2002, -4,1 per cento nel 2003, -3,7 per
cento stimato nel 2004 e -3,5 per cento nel 2005) e la Germania (-3,6 per
cento nel 2002 e -3,9 per cento nel 2003 e -3,6 per cento stimato nel 2004).
Infine, l’ultima arrivata tra i paesi inadempienti è stata la Grecia (-3,2 per
cento nel 2003 e stesso valore stimato nel 2004). Le stime della Commis-
sione Europea prevedono che nel 2004 i paesi inadempienti diventeranno
sei, con l’aggiunta dell’Italia (-3,2 per cento stimato nel 2004 e -4,0 per cen-
to stimato nel 2005) e dell’Olanda (-3,5 per cento nel 2004 e -3,5 per cen-
to nel 2005). Il peso economico dei paesi inadempienti è pari a circa i quat-
tro quinti del totale dell’economia dell’area dell’euro.
In particolare, il PSC si è mostrato particolarmente vulnerabile per quei
paesi, come la Francia e la Germania, che hanno un tasso di inflazione in-
feriore alla media. Per questi paesi, la politica monetaria comune impone
elevati tassi di interesse reali, che in una fase recessiva debbono essere
controbilanciati da politiche fiscali espansive per evitare il completo crol-
lo della domanda interna. Tali politiche fiscali sono però ostacolate dalla
vigenza del PSC. Rigore fiscale e politica monetaria antinflazionistica sono
il mix di politica macroeconomica che sta strangolando il cuore pulsante
dell’economia europea.
In questa situazione, sostenere ancora la validità dello strumento del
PSC equivale a professare un vero e proprio atto irrazionale di fede. Per
comprendere fino in fondo il fallimento del PSC, basta confrontare gli
obiettivi definiti nei programmi di stabilità presentati dai singoli paesi
con i risultati ottenuti8.
Nei programmi di stabilità presentati nel 1998 si definiva un obiettivo
di deficit per il 2002 nel complesso dell’UEM pari allo 0,8 per cento del
PIL: il risultato reale è stato del -2,2 per cento. Per il 2003, gli obiettivi de-
finiti nel 1999 fissavano al -0,2 per cento – una situazione di sostanziale
pareggio – il deficit dell’area euro. Si è arrivati invece al -2,7 per cento.
La distanza dei risultati dagli obiettivi non migliora di molto se si consi-
dera il breve periodo, invece del medio. Nel 2001 i programmi di stabi-
lità indicavano nello 0,9 per cento il deficit per l’anno successivo, contro
il 2,2 per cento poi realizzatosi, e così via per gli anni successivi.
Questi dati dimostrano in maniera inequivocabile che il fallimento del
PSC non poteva essere più clamoroso. Il patto non ha funzionato né per i
risultati, né per il metodo. Ormai è diventato soltanto un elemento di
confusione e di incertezza nelle politiche economiche, avendo perso ogni
credibilità nell’influenzare le aspettative degli operatori. Esso continua
però a provocare danni sempre maggiori, perché impedisce di adottare
politiche fiscali attive ed espansive per fronteggiare una crisi economica
strutturale di dimensioni rilevanti quale quella che attanaglia l’economia
europea. Infatti, la decisione assunta dal Consiglio Europeo nel novem-
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Solo una lettura superficiale può considerare, come pure è stato fatto,
la proposta della commissione come un allentamento dei vincoli del PSC.
In realtà siamo di fronte a una ulteriore stretta sulle politiche fiscali. Il ri-
ferimento al saldo strutturale, invece che al saldo effettivo di medio pe-
riodo, implica che le misure di riduzione del deficit verso il pareggio o
surplus devono concentrarsi esclusivamente sugli elementi permanenti
del bilancio pubblico. Per rispettare questo criterio occorre quindi inter-
venire, in particolare, su quelle componenti di spesa pubblica poco sen-
sibili all’andamento della congiuntura (ad esempio, spese per il persona-
le, sanità, pensioni, scuola). Il ritmo di marcia verso un saldo strutturale
in equilibrio, pari almeno allo 0,5 per cento del PIL all’anno, è particolar-
mente accelerato, soprattutto considerando l’attuale fase di stagnazione
dell’economia. Il meccanismo delle sanzioni diventa più cogente e di-
screzionale, perché esso può scattare ogniqualvolta la commissione riten-
ga che vi sia un rilassamento della disciplina fiscale, anche qualora non si
fosse mai oltrepassata la soglia del 3 per cento deficit/PIL. Eccezioni alle
rigide regole della nuova interpretazione del PSC possono essere consen-
tite solo ai paesi che rispettano il requisito del debito e solo per l’attua-
zione di riforme strutturali coerenti con la strategia di Lisbona. In con-
creto, questo significa riduzione delle pensioni e del welfare, riduzione
della pressione fiscale, precarizzazione del mercato del lavoro, grandi in-
vestimenti infrastrutturali, incentivi e sussidi alle imprese. Il PSC potreb-
be dunque allentarsi solo se la politica fiscale fosse orientata alla distru-
zione del modello sociale europeo e alla piena aderenza alla logica della
competizione globale.
La maggiore considerazione del requisito del debito pubblico imporrà
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ai paesi lontani dal parametro del 60 per cento (Italia, Belgio, Grecia e,
in minor misura, Austria) una cura da cavallo. Inoltre, poiché nel corso
degli ultimi anni anche Francia e Germania, oltre al Portogallo, hanno or-
mai raggiunto o di poco superato il limite del 60 per cento nel rapporto
debito/PIL, in realtà l’interpretazione flessibile del PSC riguarderebbe sol-
tanto pochi paesi dell’UEM, quelli economicamente di minori dimensioni.
In conclusione, nella nuova interpretazione del PSC proposta dalla
Commissione Europea non c’è nessuno spazio per utilizzare la politica fi-
scale e l’intervento pubblico per il rilancio della domanda e per la tra-
sformazione strutturale del sistema produttivo. Anzi, le falle e le smaglia-
ture del PSC vengono chiuse attraverso una più rigida attivazione delle
procedure sanzionatorie e un più forte controllo politico della tecnocra-
zia dell’UEM nei confronti delle politiche economiche nazionali. La nuo-
va interpretazione della Commissione Europea rende il PSC un vincolo
ancora più restrittivo e soffocante per le economie dell’UEM.
nia (dal 2,4 per cento all’1,8 per cento). Nello stesso periodo negli USA e
in Giappone, invece, gli investimenti pubblici hanno mostrato una ten-
denza alla crescita. La riduzione degli investimenti pubblici, in un perio-
do di forte innovazione tecnologica e produttiva, ha pesato negativamen-
te sulla competitività di sistema dell’Europa e ha sicuramente contribui-
to alla bassa crescita degli anni Novanta. La causa della riduzione delle
spese pubbliche in conto capitale è certamente derivata dal carattere re-
strittivo delle politiche fiscali in Europa, imposto da Maastricht prima e
dal PSC dopo.
Oltre alla categoria delle spese per investimenti pubblici, sono state
proposte da varie parti altre applicazioni della golden rule per allentare la
disciplina fiscale: le spese per la difesa, per incentivare il potenziamento e
l’ammodernamento militare europeo, le spese in ricerca e sviluppo, per in-
crementare il tasso di innovazione tecnologica nell’UEM, le spese per la for-
mazione professionale, per aumentare la qualificazione della manodopera
e per accompagnare i processi di precarizzazione del mercato del lavoro.
Tutte le proposte di golden rule sono però soggette a forti obiezioni
teoriche e politiche11. In primo luogo, la catalogazione delle spese pub-
bliche non è né facile né netta. La collocazione di un intervento nell’una
o nell’altra categoria è soggetta ad ampi margini di discrezionalità conta-
bile. La golden rule sarebbe così intrinsecamente priva di un fondamento
oggettivo e quindi soggetta ad arbitrarie applicazioni sulla base delle in-
tenzioni politiche dei governi e, soprattutto, della Commissione Europea.
In secondo luogo, l’introduzione della golden rule produrrebbe una di-
storsione nelle scelte allocative delle risorse pubbliche, non giustificata
sul piano dell’efficienza economica e sociale. I governi sarebbero incenti-
vati ad aumentare le spese ricomprese nella golden rule e a ridurre le al-
tre. Ad esempio, la costruzione di un’autostrada non è detto che sia eco-
nomicamente e socialmente preferibile all’adozione di misure per incen-
tivare il trasporto pubblico, la produzione di un caccia bombardiere è si-
curamente meno preferibile da ogni punto di vista all’aumento dell’assi-
stenza agli anziani o delle spese per l’istruzione e così via. In terzo luogo,
poiché le spese per investimenti richiedono tempi piuttosto lunghi dalla
decisione di stanziamento alla realizzazione effettiva dell’opera, l’intro-
duzione della golden rule sarebbe del tutto inefficace per sostenere l’eco-
nomia nelle fasi di stagnazione. Anzi, potrebbe agire in senso prociclico,
accentuando le fluttuazioni della congiuntura.
Sul piano politico, infine, le proposte di golden rule pubblicamente
avanzate si muovono tutte nell’alveo del neoliberismo. Infatti, qualora es-
se venissero realizzate, i vincoli del PSC, resi ancora più stringenti dalla
nuova interpretazione della commissione, ricadrebbero pressoché esclu-
sivamente sulle spese sociali. Alla fine a sopportare il peso prevalente o
esclusivo della disciplina fiscale europea rimarrebbero le spese per il wel-
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zionali europei per scopi politici particolari, dimostra che, finché non sa-
ranno eliminate le regole automatiche di politica economica in virtù di
scelte democratiche e consapevoli attuate a livello europeo sulla distribu-
zione delle risorse e sul modello sociale, i rischi dell’attuale configurazio-
ne istituzionale dell’UEM per i popoli europei sono ancora fortissimi.
È vero che, di fronte alle proposte di modifica delle regole fiscali del
PSC finora avanzate, si potrebbe controbattere avanzando nuove propo-
ste: ad esempio, escludere dal saldo del bilancio pubblico considerato dal
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PSC le spese sociali e sanitarie oppure le spese per interessi, che ridistri-
buiscono il reddito a favore della rendita finanziaria e sono condizionate
dalla politica monetaria della BCE. In questo ultimo caso, se invece delle
spese per la difesa o per i grandi investimenti si eliminassero dal calcolo
del rapporto deficit/PIL le spese per interessi sul debito pubblico, even-
tualmente fissando una soglia massima di detraibilità per evitare l’innesco
di spirali esplosive, gli Stati europei, oltre ad avere un allentamento dei
vincoli contabili, acquisirebbero un più ampio margine di autonomia nel-
le scelte di politica fiscale, poiché taglierebbero uno dei canali (il tasso di
interesse) attraverso cui la BCE determina l’indirizzo delle politiche fiscali
nazionali. Infatti, sostituendo l’indebitamento netto primario (al netto
della spesa per interessi) all’indebitamento netto come parametro da rap-
portare al PIL per calcolare il pareggio di bilancio, nel periodo di vigenza
del PSC l’UEM si sarebbe trovata, ai fini del rispetto dei vincoli comunitari,
con un surplus medio annuo del 2,6 per cento e avrebbe avuto la possi-
bilità di attuare massicce manovre fiscali di carattere espansivo. O anco-
ra, si potrebbe fissare un livello minimo di spesa sociale incomprimibile.
È, in altre parole, possibile elaborare una serie di proposte di regole fi-
scali di carattere istituzionale alternative a quelle di stampo neoliberista
finora prospettate. Tuttavia, accettare questo terreno di confronto è estre-
mamente pericoloso, e non solo per lo stato attuale dei rapporti di forza
politici e sociali in un’Europa dominata da governi conservatori. Le re-
gole fiscali, comunque formulate, sono pur sempre dei meccanismi auto-
matici e rigidi di politica economica. Esse si inscrivono teoricamente in
quel filone di pensiero economico, di stampo monetarista e neoliberista,
che sostiene la necessità di limitare al massimo il ruolo dell’intervento
pubblico nell’economia attraverso la costruzione di vincoli e di regole
istituzionali, invalicabili e immodificabili, alla politica economica14. La
politica economica dovrebbe, in questo approccio, essere prevedibile e
fornire il quadro istituzionale al cui interno possano liberamente agire le
forze di mercato. Dietro l’idea di regole istituzionali di politica economi-
ca c’è la concezione dello Stato neutrale rispetto all’allocazione delle ri-
sorse e alla distribuzione del reddito, affidate al libero gioco del mercato.
Lo Stato non sarebbe un soggetto attivo nel conflitto distributivo o nel
processo economico, ma un osservatore esterno che si limita a garantire
il rispetto delle regole del gioco. Inoltre, applicare una regola universale
per paesi in situazioni economiche e sociali molto diverse, con gradi di
sviluppo economico estremamente differenziati, come quelli attuali del-
l’UEM, o ancor più come accadrà in futuro a seguito dell’allargamento a
Est dell’UE, vuol dire, da parte dei poteri pubblici, rinunciare a program-
mare e indirizzare strategicamente lo sviluppo.
Se si accettano regole fiscali, perché allora si dovrebbe criticare la fis-
sazione di rigide regole quantitative per la politica monetaria? Se si ac-
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Non è quindi una crisi passeggera, quella che sta attraversando l’Euro-
pa. Rischia al contrario di diventare una condizione permanente. In realtà,
è giunto al suo capolinea l’approccio all’integrazione di tipo mercantile e
tecnocratico, l’idea cioè che l’Europa potesse avere senso e vita solo come
libero spazio economico. È l’idea dell’integrazione negativa, fondata sullo
smantellamento di ogni vincolo esterno alla pura logica dei processi spon-
tanei di mercato, che ha sin qui guidato la costruzione europea. Prima le
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merci, poi i servizi e i capitali, infine le monete sono state unificate in uno
spazio sottratto a ogni forma di controllo pubblico e sociale. Così l’Euro-
pa è stata pensata e vissuta come puro strumento di costruzione di mer-
cati e la sua funzione è stata limitata alla semplice regolamentazione, alla
definizione tecnica e normativa delle condizioni dei traffici privati.
Esemplare in tal senso, come abbiamo visto, è l’architettura dell’UEM.
Unico fine dell’unificazione monetaria è quello di garantire la stabilità dei
prezzi e di eliminare i costi di cambio per le imprese in modo da incre-
mentare il volume dei commerci interni ed esterni. E a questo unico fine
si subordina non solo la politica monetaria comune, ma, attraverso il Pat-
to di Stabilità, le politiche fiscali nazionali e quindi l’intera politica eco-
nomica dell’area. Per svolgere queste funzioni non servono né la politica,
né la democrazia, anzi esse sono dannose. È sufficiente la tecnica. È così
che l’Europa diventa preda di una tecnocrazia senza volto, custode su-
prema delle regole ferree e impersonali che la presiedono, del tutto estra-
nea al concreto fluire della vita materiale e sociale dei popoli europei e in-
tenta solo a vigilare sull’astratto e spettrale fluire delle merci e del denaro.
Questa Europa di mercanti è figlia di una grande utopia negativa,
quella del neoliberismo. Utopia, perché il mondo che esso descrive è im-
maginario: il mercato, infatti, non è mai libero, ma è sempre imprigiona-
to in una fitta rete di relazioni asimmetriche e gerarchiche che riprodu-
cono le condizioni del dominio. Negativa, perché il neoliberismo si fon-
da su una profonda sfiducia nelle capacità umane di determinare consa-
pevolmente le condizioni dell’esistenza sociale e affida a un meccanismo
impersonale, il mercato appunto, il compito di costruire la società. Essa
ha trovato giustificazione nell’idea che il mercato lasciato a se stesso, li-
berato da ogni condizionamento politico e sociale, potesse garantire pro-
sperità e benessere per tutti. La crisi economica ha ora spazzato via defi-
nitivamente questo mito. In realtà, l’utopia negativa del neoliberismo è
stata la maschera ideologica di precisi interessi materiali, di classe, quelli
del capitale. Con il trattato di Maastricht e il PSC è stato infatti costruito
un potente meccanismo di controllo delle rivendicazioni sociali delle clas-
si subalterne.
Alla luce di queste conclusioni, è arrivato il momento per la sinistra di
abbandonare gli schemi del passato e di proporsi il compito di fornire
nuove e inedite risposte alla crisi del processo di integrazione europea.
Oggi l’alternativa all’Europa neoliberista di Maastricht e del PSC passa at-
traverso un di più di integrazione e non un di meno. Ormai, il vecchio so-
gno europeista della costruzione di un’entità statuale continentale, fon-
data sui valori della democrazia e della partecipazione, può essere incar-
nato solo dalle forze della sinistra, di una sinistra però che sappia liberarsi
definitivamente dalla subalternità all’ideologia neoliberista e che ritrovi il
coraggio di osare. Come mostra il topolino della Costituzione europea,
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ormai le forze dominanti non possono procedere oltre sulla strada del-
l’integrazione, perché dovrebbero rinunciare al loro modello politico e
sociale, oggi alla base dell’UEM. Il compimento dell’unità europea coinci-
de così con la costruzione dell’alternativa al neoliberismo1.
zione dei ruoli delle sedi democratiche a vantaggio delle istanze tecno-
cratiche, subordinate agli interessi economici e finanziari dominanti. È
evidente come questo meccanismo di formazione delle politiche ma-
croeconomiche sia direttamente ispirato dall’impostazione neoliberista,
perché di fatto svuota le autorità pubbliche dalla possibilità di adottare
una coerente politica economica. Ai poteri pubblici rimane soltanto il
compito di definire gli interventi specifici e settoriali, di carattere mi-
croeconomico e unicamente orientati alla promozione della concorren-
za, coerenti con il quadro rigido delle regole comunitarie.
Questo assetto europeo deve essere radicalmente trasformato. Il con-
solidamento dell’identità europea non può avvenire in una situazione in
cui i cittadini dei singoli paesi membri godono di diritti sociali e di op-
portunità di vita così differenti come quelli oggi esistenti. Né il ripristino
di un solido meccanismo di sviluppo economico può essere possibile in as-
senza di programmi di investimento pubblico per la costruzione di reti in-
frastrutturali, tecnologiche e di ricerca a dimensione continentale. La po-
litica industriale nei settori strategici, quelli a più alto contenuto tecnolo-
gico e quelli che forniscono servizi essenziali all’intero apparato produtti-
vo, come l’energia, se vuole essere efficace ed evitare una competizione
esasperata all’interno dello spazio economico europeo, deve assumere un
carattere sopranazionale. Anche la riconversione ecologica del sistema
produttivo, per invertire la tendenza in atto al degrado dell’ambiente e
della qualità della vita, necessita di politiche pubbliche fortemente inte-
grate a livello europeo. Insomma, non si può pensare che la costruzione
europea possa continuare a vivere se essa è limitata a un grande mercato
unico delle merci e dei capitali. Se rimane così, essa è destinata a deperire
e, presto, di fronte al declino, a invertire la tendenza verso una sempre
maggiore integrazione per innescare meccanismi, già peraltro ben visibili,
di disgregazione. Invece è proprio verso questa disgregazione che le attuali
classi dirigenti europee stanno marciando. Il progetto di Costituzione eu-
ropea sancisce il predominio assoluto del mercato come principale ele-
mento costitutivo dell’Unione Europea e non identifica alcun serio ed ef-
ficace meccanismo di coordinamento e integrazione delle politiche pub-
bliche ad eccezione di quelle neoliberiste, cioè del vincolo alle privatizza-
zioni e alla liberalizzazione e deregolamentazione dei mercati2.
Per quanto riguarda la politica fiscale, occorre, al contrario di quan-
to avviene ora, procedere verso una maggiore integrazione, introducen-
do, accanto a strumenti di coordinamento gestionale, anche forme di de-
finizione a livello comunitario degli indirizzi strategici e dell’orienta-
mento macroeconomico complessivo dell’area. Gli obiettivi della politi-
ca fiscale dell’Unione dovrebbero essere posti in termini di sviluppo eco-
nomico, di crescita occupazionale e di garanzia universale dei diritti so-
ciali fondamentali.
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Ma, in terzo luogo, una maggiore integrazione fiscale vuol dire anche
procedere, dal lato delle entrate pubbliche, verso una convergenza dei si-
stemi tributari nazionali e, dal lato delle spese pubbliche, verso una mag-
giore omogeneità dei sistemi di protezione sociale. In questo modo si co-
struirebbe, accanto allo spazio economico, anche uno spazio sociale eu-
ropeo, nel quale i cittadini possano godere tendenzialmente dei medesimi
diritti. Come per l’integrazione monetaria si sono stabiliti dei criteri di
convergenza economica, così per realizzare l’integrazione fiscale occorre
fissare dei criteri di convergenza sociale a cui i paesi membri devono ob-
bligatoriamente tendere, come ad esempio la riduzione del tasso di disoc-
cupazione e della precarietà del lavoro, dei livelli di povertà e di disagio
sociale e del grado di disuguaglianza nella distribuzione del reddito, l’au-
mento dei livelli di istruzione, la garanzia di livelli essenziali di assistenza
sanitaria gratuita e universale, ecc. Inoltre, è solo attraverso una più forte
integrazione fiscale che l’intervento pubblico nell’economia può acquista-
re gli strumenti e le risorse necessarie per politiche strutturali sull’appara-
to industriale e produttivo, non limitate alla sola liberalizzazione dei mer-
cati. L’integrazione della politica fiscale dovrebbe quindi essere accompa-
gnata, per essere veramente efficace, da una contemporanea e profonda
revisione dell’attuale normativa europea sulla concorrenza che, ponendo
l’accento sulla liberalizzazione dei mercati, di fatto penalizza l’intervento
e la gestione pubblica nell’industria e nei servizi di pubblica utilità. La
nuova normativa sul mercato interno dovrebbe, in particolare, riconosce-
re il ruolo essenziale dei servizi pubblici per il benessere economico e so-
ciale collettivo, introducendo il criterio dell’intangibilità dei beni comuni
(acqua, energia, trasporti, istruzione, salute, previdenza e assistenza) ri-
spetto al loro possibile sfruttamento privato finalizzato alla ricerca del
profitto. È significativo di un avviato, anche se incompiuto, processo di ri-
pensamento, rispetto alle posizioni assunte nel recente passato dalla sini-
stra moderata, il fatto che, alla vigilia delle ultime elezioni europee, alcu-
ni dei principali esponenti del Partito Socialista Europeo, come, tra gli al-
tri, Michel Rocard, Jacques Delors, Enrique Baron Crespo e Piero Fassi-
no, insieme a esponenti dei nuovi movimenti sociali, come José Bové e Su-
san George, abbiano pubblicato, sul quotidiano francese «Le Monde» del
9 giugno 2004, il testo di un appello dove si chiede l’introduzione di rigi-
di criteri di convergenza sociale e il riconoscimento del ruolo dei servizi
pubblici nella nuova Costituzione europea6. Risulta, tuttavia, ancora aper-
ta la palese contraddizione, esistente all’interno delle forze socialiste eu-
ropee, tra queste nuove posizioni di politica sociale e la strenua difesa del
Patto di Stabilità e dell’impianto complessivo di politica economica del
trattato di Maastricht, che sono tra loro manifestamente incompatibili.
In quarto luogo, nell’ambito di una stretta integrazione delle politiche
fiscali è possibile reintrodurre forme di finanziamento monetario del de-
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ficit pubblico7. Uno dei requisiti iniziali e preliminari del percorso inizia-
to a Maastricht è consistito nel divieto assoluto di finanziamento da par-
te delle banche centrali nazionali e della BCE dei deficit pubblici dei sin-
goli Stati. La principale motivazione fu che, in caso contrario, si sarebbe
promosso il lassismo fiscale da parte dei governi nazionali, che avrebbe-
ro potuto scaricare sull’insieme dei paesi le eventuali conseguenze infla-
zionistiche del loro mancato rigore. Tuttavia, nel quadro di una politica
fiscale integrata questa motivazione non ha più ragion d’essere. Se l’im-
postazione strategica della politica fiscale è definita a livello di Unione,
non saranno ammissibili, né concretamente possibili, comportamenti di
tipo opportunistico dei governi nazionali. Si potrebbe prevedere una pro-
cedura flessibile e concordata di finanziamento monetario del deficit del
bilancio comunitario e dei deficit nazionali sulla base di specifici pro-
grammi di investimento pubblico di rilevanza europea e di interventi di
omogeneizzazione della rete di protezione sociale nei diversi paesi mem-
bri. Così come appare opportuno ipotizzare l’istituzione di un debito
pubblico europeo, distinto da quello degli Stati membri, che possa fun-
gere da canale di raccolta del risparmio internazionale per finanziare pro-
getti di investimento di dimensione continentale.
Naturalmente, procedere verso l’integrazione fiscale porta con sé una
parziale riduzione della sovranità degli Stati nazionali. Ma, in realtà, già
oggi, con il PSC, essa è largamente espropriata a vantaggio delle tecnocra-
zie e degli interessi economici dominanti. L’integrazione fiscale dovrebbe
essere accompagnata dalla democratizzazione dei meccanismi decisiona-
li dell’Unione, con un ruolo primario del Parlamento Europeo, unica isti-
tuzione espressione di una sovranità popolare europea. Infine, integra-
zione fiscale non vuol dire centralizzazione. L’esperienza storica di nu-
merosi Stati federali mostra una varietà di possibili soluzioni in grado di
garantire sia l’efficacia generale della politica fiscale, sia il decentramento
decisionale e operativo. Recentemente è stata, a questo riguardo, avanza-
ta in sede teorica una proposta che merita di essere attentamente consi-
derata a livello politico e istituzionale8. Essa prevede la costituzione a li-
vello di UE di un fondo comune di risorse a disposizione dei paesi colpiti
da specifici shock economici negativi per adottare politiche fiscali di sta-
bilizzazione e di riequilibrio, discrezionali e non condizionate nel loro uti-
lizzo. L’accesso al fondo potrebbe scattare quando il tasso di disoccupa-
zione di un paese, o di una regione, ecceda di una quantità stabilita quel-
lo medio comunitario. In tal modo, attraverso un meccanismo di mutua-
lità pubblica, si darebbe la possibilità di condurre politiche economiche
finalizzate alla convergenza territoriale e nazionale, orientate alla riduzio-
ne della disoccupazione, rafforzando il grado di coesione interna e la stes-
sa legittimazione dell’Unione. In tal caso, infatti, l’unione monetaria non
sarebbe più vista, in negativo, come la “grande fustigatrice”, ma acqui-
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le banche centrali non devono essere, nello svolgimento del loro compi-
to tecnico e istituzionale, agli ordini di nessun altro potere, sia esso quel-
lo esecutivo, sia quello rappresentativo. Nessuno può imporre a una ban-
ca centrale di effettuare un tipo di operazione monetaria piuttosto che un
altro, né può chiederle di non adempiere al proprio compito di sorve-
glianza e di vigilanza del mercato monetario e bancario per favorire qual-
che interesse particolare. In questa dimensione relativa, l’autonomia e
l’indipendenza della banca centrale sono conquiste recenti e devono es-
sere integralmente salvaguardate9. Anzi, esse dovrebbero essere rafforza-
te ed estese anche rispetto alla protezione da influenze estranee a quelle
dei pubblici poteri, che invece oggi non di rado inquinano i processi de-
cisionali delle banche centrali. Ma questo non vuol dire affatto che una
banca centrale possa fare quello che vuole e fissare, senza ascoltare nes-
suno, gli obiettivi della propria azione e poi essere totalmente libera da
ogni forma di controllo, di verifica e, addirittura, di motivazione del pro-
prio operato. Può sembrare incredibile, ma è proprio questo che oggi ac-
cade con la BCE10.
Ad esempio, il suo compito istituzionale è attualmente solo quello del-
la stabilità dei prezzi. Ma chi definisce che cosa concretamente vuol dire
stabilità dei prezzi, cioè quale tasso di inflazione deve essere considerato
come obiettivo della politica monetaria? Oggi è la BCE, che ha stabilito il
tasso di inflazione ottimale al 2 per cento. Al di sopra di questo valore,
dunque, l’orientamento della politica monetaria rimarrà restrittivo. Ora,
non è possibile determinare in via assoluta, da un punto di vista teorico,
l’inflazione ottimale. Essa dipende dalle specifiche e variabili circostanze e
dalle preferenze soggettive dell’autorità di politica monetaria. L’unica con-
siderazione che si può fare è di tipo comparativo: un tasso di inflazione
medio del 2 per cento è un valore estremamente basso rispetto all’anda-
mento storico dell’inflazione nei dodici paesi membri dell’UEM. Ad esem-
pio, il tasso di inflazione negli anni Sessanta, prima quindi degli shock pe-
troliferi e delle conquiste salariali dell’“autunno caldo” e in un regime di
cambi fissi, è stato pari al 4,3 per cento nella media dei paesi membri, più
del doppio dell’obiettivo inflazionistico perseguito oggi dalla BCE, in una
situazione di cambi flessibili e di volatilità del prezzo del petrolio11.
In secondo luogo, poiché a cinque anni di distanza dall’unificazione
delle politiche monetarie i tassi di inflazione nazionali permangono signi-
ficativamente diversi all’interno dei paesi membri, aver fissato un obietti-
vo inflazionistico così basso penalizza fortemente le economie più virtuo-
se nella stabilità dei prezzi. La motivazione addotta dalla BCE per la defi-
nizione di un obiettivo medio di inflazione per tutta l’area è che, all’inter-
no di un’unione monetaria, gli aggiustamenti strutturali degli squilibri
esterni delle singole zone dovrebbero avvenire attraverso la variazione dei
prezzi e dei salari. Nulla di sorprendente, quindi, se i tassi di inflazione ri-
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crescita del reddito. In questo periodo, i tassi di interesse reali di breve ter-
mine sono stati in media dell’1 per cento e quelli di lungo termine del 2,5
per cento, a fronte di una crescita reale del PIL dell’UEM pari allo 0,9 per
cento. Questo vuol dire che, persino in una fase di recessione, quando oc-
correrebbe incentivare la spesa e l’investimento produttivo, la distribuzio-
ne del reddito si è spostata a favore della rendita finanziaria. Alla luce del-
l’esame della condotta della BCE si può affermare che la politica monetaria
in Europa ha rappresentato un fattore di aggravamento della crisi econo-
mica e di accentuazione delle disuguaglianze sociali.
Ora, il fatto che tutto ciò avvenga al di fuori di qualsiasi controllo de-
mocratico è intollerabile. In questo contesto, non c’entrano per nulla i
principi dell’autonomia e dell’indipendenza di una istituzione pubblica
nello svolgimento delle sue funzioni. Siamo di fronte a una situazione in
cui non solo le modalità di svolgimento, ma anche la determinazione del-
le funzioni da svolgere è decisa in modo arbitrario e discrezionale dalla
BCE. Si può affermare, senza esagerazioni, che la BCE rappresenta oggi l’u-
nico potere assolutamente sovrano all’interno dell’Europa.
Per le ragioni esposte, è necessario proporsi una radicale trasforma-
zione della BCE, sia sul piano dei privilegi istituzionali di cui essa gode, sia
su quello dei contenuti della politica monetaria.
In primo luogo, la definizione degli obiettivi della politica monetaria e
del tasso di cambio deve comprendere, oltre alla stabilità dei prezzi, an-
che la crescita economica e occupazionale, come già avviene per la banca
centrale americana, e l’equità distributiva. La BCE deve cioè preoccupar-
si anche del benessere economico e sociale dei cittadini europei e non so-
lo delle esigenze dei mercati finanziari.
In secondo luogo, la conduzione della politica monetaria deve essere
sottoposta a poteri di indirizzo politico e di verifica dell’operato, formu-
lati da organismi istituzionali sottoposti a controllo democratico e diret-
tamente responsabili nei confronti dei cittadini.
Il documento europeo di programmazione economica dovrebbe con-
tenere anche indirizzi e direttive vincolanti alla Banca Centrale Europea
in merito alla politica monetaria e del tasso di cambio, in modo da ren-
dere coerenti e coordinati tutti gli strumenti di politica macroeconomica
a disposizione. Infatti, l’assoluta indipendenza della BCE, oltre a rappre-
sentare un deficit democratico, costituisce anche un fattore di possibile
incoerenza nella definizione della strategia di politica macroeconomica.
Nulla impedisce oggi che la politica monetaria, definita in assoluta auto-
nomia dalla BCE, agisca in direzione contraria rispetto alla politica fiscale,
generando incertezza e minando l’efficacia dell’intervento pubblico.
In terzo luogo, occorre introdurre a livello europeo una nuova tassa sui
movimenti speculativi di capitale, la cosiddetta Tobin tax, dal nome del-
l’economista americano, premio Nobel in economia, che per primo la
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zazione, cioè dello spostamento degli impianti nei paesi dove il costo del-
la manodopera è più basso. La delocalizzazione delle attività produttive
non è un fenomeno recente. La liberalizzazione commerciale e finanzia-
ria degli anni Novanta ha già contribuito al trasferimento di intere fasi dei
cicli di produzione nel Sud del mondo. In particolare sono state interes-
sate da un lato le attività industriali a minor contenuto tecnologico, che
richiedono un basso livello di formazione della manodopera, e dall’altro
le fasi ordinarie delle attività ad alto contenuto professionale, come le
prestazioni ingegneristiche e informatiche. Infatti, le differenze salariali
più rilevanti nel mondo si concentrano nelle fasce estreme del mercato
del lavoro. Tanto è vero che a soffrire di più della delocalizzazione sono
stati, ad esempio, i distretti industriali in Italia e la Silicon Valley negli
USA. Sembra ora che siamo entrati in una nuova fase, quella della minac-
cia di delocalizzare il cuore dei processi industriali, le fasi di produzione
centrali, quelle che richiedono il maggiore investimento in capitale fisso
e che occupano la maggior parte della forza lavoro europea. Un esempio
emblematico è stato quello di una solida industria tedesca, come la Mer-
cedes, che ha evocato lo spettro dello spostamento della produzione in
Sud Africa per ottenere in cambio un aumento dell’orario di lavoro sen-
za contropartita salariale. Le conseguenze dell’avvio di questi processi sa-
rebbero devastanti per l’occupazione e per il benessere sociale. Ma si trat-
ta di un ricatto o di una prospettiva reale?
In Europa la crisi economica è più acuta che altrove. La stagnazione
della produzione dura ormai da quattro anni e, a differenza del passato,
non sembra superabile attraverso il rilancio della domanda estera deri-
vante dalla pur timida e incostante ripresa economica mondiale. I nodi
strutturali del modello economico e sociale europeo, imposti dalle politi-
che di Maastricht, sono ormai arrivati al pettine. L’Europa è a un bivio de-
cisivo. O si rimettono in discussione i fondamenti della politica economi-
ca, attraverso un rilancio della domanda interna innescato da interventi di
redistribuzione del reddito e la ripresa di un massiccio intervento pubbli-
co per la riqualificazione dell’apparato industriale, oppure l’unica strada
è quella della “sudizzazione” dell’Europa, cioè dell’ulteriore e indefinita
compressione dei diritti e dei salari dei lavoratori. Questo secondo scena-
rio è quello scelto dal grande capitale europeo. È una scelta miope perché
condurrebbe all’inesorabile declino economico e politico dell’Europa.
Tuttavia, la minaccia della delocalizzazione è un’arma spuntata in ma-
no alle imprese, e non solo per gli enormi costi derivanti dal trasferimen-
to degli impianti e per la tendenza all’aumento dei salari per la classe ope-
raia centrale dei paesi emergenti. Infatti, qualora l’Europa fosse ridotta a
un deserto economico e sociale, a chi pensano di vendere i propri pro-
dotti le imprese che delocalizzano? Se tutti i lavoratori del mondo fosse-
ro ridotti nelle condizioni degli operai asiatici o sudafricani, chi mai com-
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vellamento verso il basso dei salari e dei diritti dei lavoratori. Non saran-
no i paesi socialmente meno progrediti a convergere verso quelli con li-
velli di maggiore tutela del lavoro ma avverrà il contrario, sotto la spinta
del ricatto della delocalizzazione. Già queste tendenze sono in atto, come
dimostra il ruolo giocato dagli investimenti diretti per piegare la ristrut-
turazione industriale dei paesi dell’Est in conformità alle esigenze euro-
peo-occidentali di trasferimento dei processi produttivi fordisti ad alta in-
tensità di lavoro19. E tutto ciò aggraverà la crisi strutturale dell’economia
europea. D’altra parte, se con il mercato unico e la moneta comune la re-
munerazione del capitale, reale e finanziario, tende a convergere verso un
unico tasso di profitto e una medesima rendita, perché mai la stessa cosa
non deve succedere per il lavoro? Si tratta solo di stabilire se il livella-
mento salariale avverrà verso i livelli medi della Germania o verso quelli
della Lettonia. Le imprese non hanno dubbi su quale sia per loro la scel-
ta migliore. Ma per i lavoratori? Il livellamento delle condizioni minime
contrattuali deve quindi essere posto come obiettivo non solo sindacale,
ma anche politico, attraverso la costituzione di appositi fondi di sostegno
messi a disposizione dall’Unione per facilitare l’adeguamento strutturale
dei paesi più lontani dal salario medio comunitario e per accompagnare
la riduzione dell’orario di lavoro.
L’ostilità suscitata dalle proposte di riduzione dell’orario di lavoro e di
incrementi salariali si basa sui presunti effetti negativi sulla competitività
della produzione europea derivanti da una riduzione della produttività
per addetto e da un aumento del costo del lavoro. Queste obiezioni sono
però infondate. Secondo un recente studio della Commissione Europea,
negli ultimi dieci anni, quelli del declino economico europeo, nell’UE il li-
vello dei salari reali, rapportato al livello della produttività del lavoro, è
tornato ai valori degli anni Sessanta20, annullando così per intero le con-
quiste salariali del grande ciclo di lotte operaie della generazione prece-
dente all’attuale. Nel periodo di Maastricht, dunque, nonostante una
continua e massiccia compressione della dinamica dei salari reali, la com-
petitività europea è calata a picco. Insomma, quale altra evidenza empiri-
ca si vuole osservare per ammettere che il problema economico dell’Eu-
ropa non è affatto quello del lavoro?
Inoltre, la riduzione dell’orario di lavoro e l’aumento salariale è soltan-
to una parte di un progetto complessivo di rilancio dell’economia euro-
pea e deve andare di pari passo a un mutamento generale degli indirizzi
di politica economica, quale quelli delineati in precedenza. Abbiamo in-
fatti visto come la causa principale della crisi europea risieda nella caren-
za di domanda interna generata dalla politiche restrittive derivanti dal
trattato di Maastricht. Un mercato interno asfittico riduce le potenzialità
di ammodernamento tecnologico del sistema produttivo. Una riduzione
della spesa pubblica ostacola la riqualificazione delle infrastrutture terri-
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retto, dei margini di profitto, dopo la flessione degli anni Settanta, ha co-
stituito il baricentro attorno a cui è ruotata la politica economica europea
e la prolungata stagnazione dell’Europa ne è la conseguenza. Sta qui dun-
que l’origine dell’orientamento deflattivo che ha contrassegnato l’econo-
mia europea e l’architettura istituzionale fissata nel trattato di Maasticht
ne è stata il suo presupposto.
Ma questa forzosa redistribuzione del reddito a vantaggio del capitale
ha avuto come prezzo l’arresto completo dei meccanismi di crescita del-
l’economia europea. Ciò è avvenuto sia sul fronte della domanda, attra-
verso la contrazione dovuta ai bassi salari e ai tagli alla spesa sociale pub-
blica, sia sul fronte dell’offerta, attraverso le privatizzazioni, gli alti tassi
di interesse, la conseguente finanziarizzazione delle imprese e il loro de-
clino tecnologico. La crisi strutturale in cui versa l’economia europea de-
riva quindi in primo luogo da una distribuzione del reddito incompatibi-
le con la crescita e il rafforzamento qualitativo del sistema produttivo. I
bassi salari sono all’origine non solo del decadimento delle condizioni di
vita dei lavoratori e dei pensionati, ma della stagnazione permanente del-
l’economia europea.
Per queste ragioni l’asse di politica economica da perseguire è quello
del salario e di nuovi diritti del lavoro come variabili indipendenti, della
crescita salariale e dell’introduzione di nuove forme di rigidità positiva
nel mercato del lavoro come obiettivi autonomi e prioritari della politica
economica europea. Non si tratta di provocazione o di nostalgia da re-
duci. È oggi al contrario la bussola indispensabile per rilanciare un nuo-
vo processo di sviluppo economico e sociale in Europa. L’uscita dalla re-
cessione attuale richiede non generici e indiscriminati interventi di espan-
sione della spesa pubblica, ma una coerente azione di politica economica
finalizzata sia all’immediata crescita salariale, attraverso misure dirette di
carattere redistributivo, sia alla sua sostenibilità nel tempo, attraverso in-
terventi pubblici diretti all’ammodernamento e alla riqualificazione del-
l’offerta. In questo quadro è necessario che la politica monetaria comune
integri alla stabilità dei prezzi gli obiettivi della piena occupazione e del-
l’equità distributiva.
Non è questo quindi il tempo della concertazione, della ricerca di un
nuovo compromesso sociale. Esso è stato spezzato dal capitale. Sta qui,
in fondo, in questa illusione volontaristica, l’impotenza e la subalternità
del riformismo europeo, il suo pericoloso velleitarismo. Senza la ricon-
quista delle condizioni di autonomia del mondo del lavoro è privo di sen-
so parlare di un nuovo compromesso sociale.
Per la riconquista di questa autonomia la ripresa di una conflittualità
operaia e sindacale dentro i luoghi di produzione, se rimane una condi-
zione necessaria, non è però assolutamente sufficiente. Nel corso di que-
sti vent’anni il mondo del lavoro dipendente è stato completamente de-
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PARTE TERZA
Per un’altra Italia
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8. Il declino dell’Italia
Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, gli anni di Maastricht so-
no stati anni di gelo economico per l’intera Europa. Tuttavia, essi hanno
pesato di più per alcuni paesi. Infatti, la dinamica di crescita economica
e produttiva dentro l’Unione Europea, nei tredici anni che compongono
il periodo considerato, presenta differenziazioni, a volte anche marcate,
come mostra la tabella 11.
L’Irlanda costituisce l’eccezione più clamorosa, con tassi di sviluppo
straordinariamente alti in una prospettiva storica. Questa piccola nazione
dell’arcipelago britannico, fino a non molto tempo fa terra di carestie e di
esodi, sta vivendo una stagione di miracolo economico, recuperando in
tempi da record il ritardo secolare che il brutale giogo imperiale inglese le
aveva imposto fino all’inizio del secolo scorso1. Tuttavia, Irlanda a parte, ne-
gli altri paesi dell’UE la variabilità dei tassi di crescita è ugualmente consi-
derevole. Le nazioni mediterranee della penisola iberica e di quella elleni-
ca hanno fatto registrare ritmi di sviluppo superiori dal 50 per cento al 70
per cento della media europea. Nell’Europa continentale e nordica, Lus-
semburgo, Olanda, Austria, Danimarca, Svezia, Finlandia e Belgio hanno
conosciuto una crescita economica superiore alla media, sia in termini as-
soluti che pro capite. La stessa cosa è accaduta per la Gran Bretagna. Os-
servando i dati, ci accorgiamo allora che sono solo tre, sui quindici che
compongono l’UE, i paesi che si trovano sotto la media e sono proprio i tre
maggiori paesi dell’area dell’euro. La Germania ha sicuramente dovuto
scontare il peso della repentina riunificazione nazionale, avvenuta all’inizio
del periodo di Maastricht, che le ha imposto un poderoso sforzo di ristrut-
turazione generale del sistema economico e sociale. La Francia è appena di
poco sotto la media per quanto attiene la crescita del PIL, mentre invece la
produzione industriale è perfettamente in linea con l’andamento medio.
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PIL Produzione
PIL
pro capite industriale(1)
Tabella 11. La crescita in Europa negli anni di Maastricht. Tassi medi annui di variazio-
ne per singoli paesi (1991-2003). (Fonte: European Commission, 2004).
Tasso di cambio
Paesi Quota 1991(1) Quota 2002(1) Variazione %
reale(2)
Italia 5,0 3,8 - 24,0 - 9,9
Tabella 12. Quote di esportazioni di beni e servizi sul mercato mondiale e competitività
di prezzo dei paesi dell’UE (1991 e 2002). (Fonte: nostre elaborazioni su dati WTO, 2002
e 2003 e European Commission, 2004).
Nell’ambito di una netta flessione del peso dell’UE nel suo complesso
sul commercio globale (-9,3 per cento), la situazione dei singoli paesi è
molto variegata. Solo l’Irlanda, che ha più che raddoppiato il proprio pe-
so commerciale, e la Spagna hanno aumentato la quota detenuta dai loro
prodotti sul mercato mondiale. Belgio, Grecia, Portogallo, Finlandia e, a
fatica, Danimarca, Gran Bretagna, Svezia, Olanda e Austria hanno so-
stanzialmente tenuto le posizioni, mentre sono di nuovo i tre maggiori
paesi europei ad arretrare significativamente. Anche in questo caso, tutta-
via, nessuno è andato così male come l’Italia, che nel giro di poco più di
un decennio ha perso un quarto del proprio peso economico globale, pas-
sando dal 5 per cento al 3,8 per cento nella quota delle esportazioni mon-
diali, tornando ai livelli di mezzo secolo fa. Come si può osservare dall’ul-
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PIL PIL
Periodo
reale pro capite
Tabella 13. La crescita economica in Italia dall’Unità a oggi (1862-2003). Tassi medi an-
nui di variazione in percentuale. (Fonte: per il periodo 1862-1968 De Mattia, 1994; per il
periodo 1969-2003, European Commission, 2004).
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competitività dell’Italia rispetto alla media europea non può essere adde-
bitata a fattori di prezzo, ma trova la sua spiegazione in fenomeni più
profondi, di carattere strutturale, che hanno investito la nostra economia.
Vedremo successivamente il carattere di questi fenomeni.
Spostiamoci invece ora a esaminare l’andamento dell’economia italia-
na negli anni di Maastricht in una prospettiva storica di lungo periodo.
Nella tabella 13 abbiamo suddiviso l’intero periodo storico di esistenza
dello Stato unitario italiano in dodici sottoperiodi, corrispondenti a par-
ticolari fasi di sviluppo dell’economia e della società italiane.
Come si può osservare, negli oltre 140 anni di storia dello Stato italia-
no, soltanto in tre periodi la crescita del PIL reale è stata inferiore a quel-
la degli anni di Maastricht. Si tratta dell’ultimo quarto del XIX secolo
(1874-96), quando l’intera economia europea attraversò una lunga fase di
depressione, caratterizzata da una universale stagnazione della crescita
economica, e, ovviamente, degli anni a cavallo della seconda guerra mon-
diale (1940-48). Negli anni della prima guerra mondiale e della ricostru-
zione (1914-26) il tasso di crescita del PIL reale è stato superiore in ter-
mini assoluti ma leggermente inferiore in termini pro capite, a causa di
una forte dinamica di incremento demografico negli anni immediata-
mente successivi alla grande guerra. In tutti gli altri periodi, compreso
quello della grande crisi degli anni Trenta (1927-39), la crescita economi-
ca è stata nettamente maggiore rispetto al periodo attuale. Allungando la
prospettiva, verifichiamo che nel corso dell’intera storia dello Stato uni-
tario (1862-2003) la crescita media annua del PIL è stata di oltre un pun-
to percentuale superiore a quella degli anni di Maastricht; nei primi qua-
rant’anni del secondo dopoguerra (1949-90) è stata addirittura il triplo.
In termini di crescita economica gli anni di Maastricht sono paragonabi-
li al periodo più fosco e terribile attraversato dall’Italia nell’intero arco
della sua storia, quello che comprende le due guerre mondiali, la grande
crisi degli anni Trenta e la dittatura fascista (1914-48).
Il quadro attuale diventa ancora più buio se guardiamo all’andamento
della produzione industriale nel lungo periodo. Come si vede dalla tabel-
la 14, se si eccettuano le due guerre mondiali, quando le distruzioni ma-
teriali ridussero drasticamente la capacità produttiva, mai nella storia uni-
taria l’industria italiana era cresciuta così poco come oggi, nemmeno nel-
l’Italia contadina della seconda metà dell’Ottocento. Il tasso medio an-
nuo di crescita della produzione industriale lungo l’intero periodo di sto-
ria unitaria è stato più del triplo (2,6 per cento) di quello degli ultimi tre-
dici anni (0,8 per cento). Nei terribili decenni della prima metà del seco-
lo scorso (1914-49) il ritmo di sviluppo dell’industria italiana è stato co-
munque il doppio di quello degli anni di Maastricht.
In conclusione, nel panorama dei paesi industriali l’Italia è quello che va
peggio di tutti e continua a perdere rapidamente posizioni. In una pro-
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Produzione
Periodo
industriale(1)
1862-97 1,1
1898-1913 3,9
1914-21 0
1922-38 3,6
1939-49 0
1950-67 6,7
1968-73 5
1974-90 2,5
1991-03 0,8
Media 1862-2003 2,6
Media 1862-1913 2,0
Media 1914-49 1,7
Media 1950-90 4,7
(1) Escluse le costruzioni
Tabella 14. Produzione industriale in Italia dall’Unità a oggi (1862-2003). Tassi medi an-
nui di variazione in percentuale. (Fonte: per il periodo 1862-1967, Fuà, 1983; per il pe-
riodo 1968-2003, European Commission, 2004).
mento analitico già usato per ricercare le cause del declino europeo. Ini-
ziamo osservando la scomposizione della crescita economica italiana nei
fattori di offerta e il raffronto con l’andamento medio delle stesse varia-
bili nell’UEM (vedi tabella 15).
Progresso tecnico 1,1 0,9 0,7 0,9 - 0,6 - 0,1 0,6 0,8
+ Accumulazione del capitale 0,6 0,8 0,6 0,7 0,6 0,6 0,6 0,7
+ Ore medie annue di lavoro per addetto - 0,2 - 0,2 - 0,2 - 0,4 - 0,3 - 0,1 - 0,2 - 0,3
= PIL REALE 1,3 1,5 1,8 2,6 0,8 0,9 1,4 1,8
= PIL REALE PRO CAPITE 1,1 1,2 1,6 2,3 0,6 0,5 1,2 1,5
Tabella 15. Crescita economica nell’Italia e nell’UEM. Contributo medio annuo dei fat-
tori di offerta (1991-2003). (Fonte: nostre elaborazioni su dati European Commission,
2004, OECD, Employment Outlook, Statistical Annex vari anni e ministero dell’Econo-
mia e delle Finanze, 2003).
Esso, quindi, non può essere sconfitto né con misure puramente con-
giunturali né tanto meno con l’estensione della precarietà del lavoro. Lo
smantellamento delle garanzie e dei diritti dei lavoratori, avvenuto nel
corso degli ultimi anni, ha spesso avuto come effetto soltanto quello di
sostituire un lavoratore stabile con due mezzi disoccupati, aggravando,
anziché risolvendo come pretendevano i fautori della deregolamentazio-
ne, la piaga della scarsità cronica di un lavoro adeguato, in grado di assi-
curare condizioni di vita dignitose, che colpisce da tempi immemorabili
la popolazione italiana e in particolare quella delle regioni meridionali9.
Consumi pubblici - 0,2 1,8 0,9 1,6 2,7 2,5 0,9 1,9
Consumi privati 0,9 1,3 2,6 2,5 0,9 1,1 1,5 1,7
DOMANDA INTERNA 0,3 1,1 2,4 2,6 1,3 0,6 1,4 1,6
Tabella 16. La crescita della domanda nell’Italia e nell’UEM (1991-2003). Tassi medi an-
nui di variazione in termini reali a prezzi 1995. (Fonte: nostre elaborazioni su dati Euro-
pean Commission, 2004).
Consumi pubblici - 0,1 0,6 0,4 0,7 0,7 0,8 0,3 0,7
+ Consumi privati 0,6 0,4 1,3 1,1 0,3 0,3 0,8 0,6
= DOMANDA INTERNA 0,3 1,1 2,3 2,5 1,3 0,8 1,3 1,5
Tabella 17. La crescita economica nell’Italia e nell’UEM. Contributo medio annuo delle
componenti della domanda (1991-2003). (Fonte: nostre elaborazioni su dati European Com-
mission, 2004).
talia torna ad essere un paese cronicamente deficitario sul piano delle par-
tite correnti.
Se la riduzione della spesa pubblica è addebitabile al rigore e alla disci-
plina fiscale, realizzata attraverso massicci tagli al bilancio pubblico, da che
cosa è invece derivato il calo delle esportazioni, così accentuato nell’ultima
fase, quando, con l’entrata nell’euro, non è stato più possibile recuperare
temporaneamente, attraverso svalutazioni competitive della lira, il deficit
di competitività delle nostre merci? È questo l’effetto macroeconomico
della specializzazione internazionale del nostro paese11. L’Italia si caratte-
rizza, rispetto alle altre economie con analogo livello di sviluppo, per una
accentuata distorsione della struttura settoriale della produzione e delle
esportazioni verso prodotti a medio-basso contenuto tecnologico e a scar-
sa dinamica innovativa. I punti di forza delle nostre esportazioni sono in-
fatti i beni di consumo tradizionali legati alla persona e alla casa (tessile-ab-
bigliamento, pelli e calzature, mobili, elettrodomestici, ecc.) e le macchine
e le attrezzature per la produzione dei beni di consumo tradizionale. For-
te è invece la debolezza della struttura produttiva italiana nei settori ad al-
ta intensità di ricerca e sviluppo (computer, informatica, elettronica, tele-
comunicazioni, biotecnologie, ecc.) e a forti economie di scala industriali e
commerciali (chimica, metallurgia, mezzi di trasporto, software, ecc.).
La struttura del commercio internazionale dell’Italia è la più polariz-
zata all’interno dell’area dell’euro e, contemporaneamente, anche la più
statica. La Spagna, infatti, che per molti versi presenta analogie con l’Ita-
lia sul piano della composizione merceologica dei prodotti esportati, ma-
nifesta un grado di convergenza verso i modelli produttivi dell’Europa
continentale, in specie di quello tedesco e francese a più alta intensità di
capitale umano impiegato, ben più rapido di quello italiano12. Ciò rende
il nostro paese più vulnerabile a mutamenti improvvisi delle condizioni di
offerta o di domanda che colpiscono singoli settori produttivi e alle va-
riazioni della politica monetaria e del tasso di cambio comune, perché ac-
centua l’impatto generale di specifiche e circoscritte fluttuazioni erratiche
delle grandezze economiche.
Questa particolare specializzazione, che avvicina l’Italia più ai paesi
emergenti dell’Asia che ai paesi industriali dell’Occidente, comporta, inol-
tre, altre due conseguenze negative. La prima consiste nel fatto che le no-
stre esportazioni sono più soggette alla concorrenza dei paesi in via di svi-
luppo, che possono offrire i medesimi prodotti a prezzi notevolmente in-
feriori. La maggiore qualità stilistica delle produzioni italiane, derivante
dalla creatività del sistema moda e dal più curato design, non può soppe-
rire, se non per limitate nicchie di consumo di fascia alta, all’influsso ne-
gativo del fattore prezzo. La seconda conseguenza negativa è di carattere
dinamico. Man mano che il reddito cresce, la domanda dei consumatori
tende a rivolgersi in maniera prevalente verso i nuovi beni di consumo ri-
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spetto a quelli tradizionali. Si riduce cioè il peso del consumo di beni le-
gati alle necessità materiali di sopravvivenza (cibo, vestiti, arredamento di
base) e cresce la quota di reddito spesa in consumi tecnologici o ad ele-
vato contenuto di conoscenza. Questa tendenza determina come effetto
che la domanda di beni di consumo tradizionali si espande molto più len-
tamente della domanda totale. In altri termini, la dimensione del mercato
per le esportazioni italiane tende, relativamente al mercato totale, a ridur-
si nel tempo. La competizione, all’interno di un mercato che va restrin-
gendosi, diventa sempre più feroce e il fattore prezzo tende ad assumere
un’importanza decisiva. Inoltre, poiché anche le preferenze dei consuma-
tori italiani si orientano sempre più verso prodotti tecnologici, il vincolo
estero diventa sempre più stringente. Osservando i dati ISTAT sulla com-
posizione della bilancia commerciale italiana nel 2003 possiamo verifica-
re che il deficit nei conti con l’estero è concentrato, oltre che nel settore
energetico (-25 miliardi di euro), nei settori manifatturieri a più elevato li-
vello tecnologico: chimica (-9,5 miliardi di euro), macchine elettriche ed
elettroniche (-9,7 miliardi di euro), mezzi di trasporto (-9,8 miliardi di eu-
ro), agroalimentare (-8 miliardi di euro), metallurgia e siderurgia (-2,5 mi-
liardi di euro). È sempre più difficoltoso riuscire a compensare questi sal-
di negativi esportando articoli di abbigliamento, calzature, mobili, gioiel-
li, ceramica e piastrelle, articoli in plastica e piccoli macchinari.
La particolare specializzazione produttiva rende l’Italia molto più vul-
nerabile degli altri paesi europei alla impetuosa ascesa della Cina come
potenza economica mondiale. Quest’ultima ha già abbondantemente su-
perato il nostro paese nella graduatoria dei principali esportatori. Per
avere la dimensione della pressione concorrenziale cinese sulle esporta-
zioni italiane è utile esaminare la variazione della quota di mercato mon-
diale detenuta dai due paesi nei settori di specializzazione dell’economia
italiana (vedi tabella 18).
La tabella si riferisce ai macrosettori produttivi dove la quota di espor-
tazioni italiane sul mercato mondiale è maggiore della quota media dete-
nuta dal nostro paese sul totale delle merci. Come si può osservare, la cre-
scita delle esportazioni cinesi è travolgente proprio nei settori di forza del
nostro apparato produttivo e a questa ascesa corrisponde una marcata di-
scesa dei prodotti italiani venduti all’estero, con la sola eccezione del set-
tore del tessile-abbigliamento, che finora ha retto meglio degli altri. Di
fronte a tale preoccupante andamento, negli ultimi tempi si sono moltipli-
cate in Italia le richieste di misure protezionistiche contro la concorrenza
cinese, che hanno trovato la loro voce più autorevole nell’ex ministro del-
l’Economia Giulio Tremonti. Queste tentazioni difensive non avrebbero
nessun effetto positivo nel medio periodo, non solo perché inneschereb-
bero reazioni contro le esportazioni italiane, ma soprattutto perché non
potrebbero in alcun modo portare al necessario mutamento della nostra
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1990 2002
Settori produttivi
Italia Cina Italia Cina
Sistema moda: beni di consumo: prodotti tessili 11,3 4,4 11,8 11,2
Tabella 18. Quota dell’Italia e della Cina sulle esportazioni mondiali nei settori di spe-
cializzazione produttiva italiana (1990 e 2002). (Fonte: ICE, 2003).
mulazione delle zone centrali e quindi non sia riuscito, salvo rare ecce-
zioni, ad acquisire quelle funzioni strategiche in grado di garantire auto-
nomia e indipendenza nelle traiettorie di sviluppo. Questi limiti struttu-
rali dei distretti di prima generazione derivano essenzialmente dal fatto
che il loro sviluppo è stato spontaneo e non governato. Il ruolo dei pote-
ri pubblici locali è infatti stato ancillare e accomodante rispetto alle esi-
genze che, di volta in volta, emergevano spontaneamente dalle imprese.
Non c’è stata programmazione diretta dello sviluppo distrettuale da par-
te delle amministrazioni locali, né costruzione di un organico sistema di
relazioni istituzionali e sociali in grado di indirizzare i distretti verso l’ac-
quisizione di autonomia strategica24.
Questi vincoli strutturali hanno provocato una evoluzione della orga-
nizzazione interna delle economie distrettuali. Oggi la tipica configura-
zione di un distretto industriale vede al suo centro un’impresa leader, di
dimensioni medio-grandi, talvolta anche esterna al territorio, che ha in-
trecciato una fittissima rete di rapporti di subfornitura con la miriade di
piccole imprese distrettuali. I distretti si sono quindi riorganizzati gerar-
chicamente e verticalmente. Il fitto tessuto delle piccole imprese distret-
tuali consente all’impresa leader di ammortizzare l’incertezza del merca-
to, scaricando al proprio esterno, sulle microimprese flessibili e subap-
paltatrici italiane ed estere, i costi delle fluttuazioni e dei necessari aggiu-
stamenti. La crescita delle imprese di medie dimensioni, che tante spe-
ranze suscita tra gli inguaribili ottimisti come possibile via d’uscita alla
crisi industriale, è quindi avvenuta attraverso una duplice operazione di
prosciugamento a monte, rispetto alle grandi imprese in precedenza com-
mittenti, e a valle, rispetto alle piccole imprese ora commissionarie25. Il
saldo complessivo di questa ristrutturazione è comunque negativo per il
complesso produttivo e occupazionale del paese.
La crisi dei distretti industriali ha così tolto il poco ossigeno che anco-
ra rimaneva alla asfittica industria italiana, tanto che oggi tutti gli osser-
vatori concordano sul fatto che la specializzazione produttiva dell’Italia
nella fascia medio-bassa della divisione internazionale del lavoro deriva in
larga misura dalla struttura industriale basata sulla piccola e media im-
presa. È infatti universalmente riconosciuto che la principale difficoltà
del sistema industriale italiano è oggi costituita da una struttura dimen-
sionale delle imprese troppo piccola e frammentata. Questa caratteristica
produce una carenza strutturale di innovazione, di investimenti e di ri-
cerca e sviluppo, che mina la competitività dei prodotti italiani sui mer-
cati globali. Basti osservare che il valore aggiunto per addetto nelle im-
prese manifatturiere con meno di dieci occupati è meno della metà di
quello delle imprese con più di cento addetti e che gli investimenti per
addetto delle microimprese ammontano ad appena 4.800 euro all’anno
rispetto ai 13.000 delle imprese medio-grandi26. La percentuale di mi-
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così massiccia e pervasiva come in Italia. Alla vigilia dell’avvio della sta-
gione delle privatizzazioni, nel 1993, la quota di occupati del settore pub-
blico raggiungeva il 13,5 per cento del totale, un livello simile a quello
della Francia (13,4 per cento), ma molto più elevato di quello tedesco (8,3
per cento) e inglese (4,3 per cento). Questo maggiore peso dell’occupa-
zione pubblica sul mercato del lavoro italiano è stato in gran parte dovu-
to alla presenza di una forte industria statale. Negli anni Settanta e Ot-
tanta le due principali holding pubbliche (IRI ed ENI) hanno, da sole, da-
to occupazione a circa seicentomila lavoratori, pari al 3 per cento del to-
tale della forza lavoro del nostro paese. Inoltre, in Italia è stato anche spe-
rimentato un modello gestionale, quello delle partecipazioni statali, che
affonda le sue radici nell’approccio nittiano di inizio del XX secolo, origi-
nale e oggetto di studio e di imitazione all’estero30.
L’industria pubblica, finché è esistita, ha contribuito a correggere, al-
meno parzialmente, le deficienze strutturali del nostro modello produtti-
vo. Infatti, la dimensione d’impresa, i settori con rilevanti economie di
scala e quelli innovativi o a maggiore intensità di capitale fisso sono stati
sostenuti e diretti, per oltre mezzo secolo, dallo Stato. Negli anni Sessan-
ta e Settanta il 30 per cento della spesa per ricerca e sviluppo e un terzo
degli investimenti fissi lordi delle imprese italiane erano svolti dall’indu-
stria pubblica. Il ruolo dello Stato, esercitato in particolare attraverso le
imprese pubbliche, nel processo di creazione e, soprattutto, di diffusione
delle conoscenze scientifiche e tecnologiche ha supplito alla cronica man-
canza delle imprese private in queste attività e ha contributo in maniera
determinante alla modernizzazione economica dell’Italia nel secondo do-
poguerra31. Importante, anche se controverso, è stato il ruolo svolto dal-
l’industria pubblica nella diffusione dell’industrializzazione anche in al-
cune aree del Mezzogiorno, attraverso una politica di investimenti che
privilegiava la localizzazione degli impianti nelle aree meno sviluppate del
paese. Accanto all’industria statale, anche le aziende pubbliche di servizi
a gestione locale, come le municipalizzate, hanno contribuito alla moder-
nizzazione del paese nel secondo dopoguerra, fornendo i servizi di pub-
blica utilità (gas, illuminazione, trasporti pubblici, acqua, ecc.) a prezzi
accessibili per tutta la popolazione italiana.
Negare il ruolo storico svolto dalle aziende pubbliche per lo sviluppo
economico del paese, come spesso si tende a fare, è stupido, prima anco-
ra che falso. Questo non vuol dire affermare che l’industria pubblica ab-
bia sempre esercitato una funzione positiva per il progresso economico e
civile dell’Italia. È, infatti, altrettanto innegabile che la gestione delle im-
prese a partecipazione statale è stata spesso piegata al perseguimento di
interessi politici da parte degli allora partiti di governo (Democrazia Cri-
stiana e, più tardi, Partito Socialista Italiano) e che queste interferenze
hanno contribuito alla diffusione capillare di un sistema di generalizzato
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stiti da imprese private, dovrebbe ormai aver spazzato via le illusioni pro-
pagandistiche che hanno accompagnato la sbornia delle privatizzazioni
nell’ultimo decennio. Infatti, proprio laddove il processo di privatizza-
zione si è spinto più avanti, si sono cominciati a manifestare i primi, im-
portanti segnali di ritorno indietro, verso una ripublicizzazione dei servi-
zi e dei beni comuni. Valgano a questo proposito due casi esemplari av-
venuti nei due paesi, la Gran Bretagna e gli USA, che per primi e con mag-
giore convinzione avevano imboccato la strada della gestione privata.
L’Inghilterra, all’epoca della rivoluzione industriale, è stato il primo
paese al mondo a dotarsi di un sistema ferroviario che, per secoli, è stato
un esempio di efficienza e di qualità del servizio. Tutto è cambiato a par-
tire dagli anni Ottanta quando Margaret Thatcher avviò la privatizzazio-
ne del settore, completata dal suo successore John Major nel 1994. La
British Railways, l’azienda ferroviaria pubblica, venne smembrata in de-
cine di società private, che hanno assunto la gestione di singoli pezzi e
funzioni del trasporto su rotaia. Da allora, il caos più totale è regnato nel-
le ferrovie inglesi, con un drastico aumento degli incidenti, molti dei qua-
li mortali, il taglio della gran parte delle linee secondarie, il licenziamen-
to di migliaia di lavoratori e la lievitazione esponenziale dei costi per la
manutenzione e l’ammodernamento delle linee, con una inevitabile de-
qualificazione del servizio. Accanto a eventi tragici, come i continui disa-
stri ferroviari, non sono mancati episodi comici e grotteschi, come è ac-
caduto quando un treno passeggeri è rimasto fermo per ore in mezzo al-
la verde campagna inglese perché si era… perso! Questa pessima qualità
del servizio ha ovviamente prodotto un allontanamento dei cittadini e
delle imprese dall’utilizzo del treno come mezzo di trasporto. Come logi-
ca conseguenza, le società private di gestione ferroviaria, dopo essere sta-
te a lungo sovvenzionate dallo Stato, sono fallite una dopo l’altra e il go-
verno laburista, per la verità a malincuore, si è trovato costretto a proce-
dere a una rinazionalizzazione delle ferrovie inglesi, accollandosi per in-
tero i costi di un sistema ridotto al collasso39.
In California, invece, la gestione privata della produzione elettrica è
stata la principale causa dell’esplosione dell’emergenza energetica in una
delle regioni più moderne e sviluppate del pianeta, la culla della new eco-
nomy e di Silicon Valley, abitata da oltre trentacinque milioni di perso-
ne40. La liberalizzazione e la privatizzazione del settore, avvenuta nel
1996, aveva portato alla costituzione di un libero mercato energetico do-
ve le aziende private produttrici vendevano alla società pubblica di di-
stribuzione la quantità di energia elettrica richiesta sulla base di un prez-
zo dipendente dalla domanda e dall’offerta che quotidianamente si espri-
meva sul mercato. Così, si era detto, si sarebbero evitati gli sprechi e tut-
ti ne avrebbero beneficiato, cittadini, imprese e casse dello Stato. Questo
modello era diventato un esempio ammirato dai neoliberisti di tutto il
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duttive. Poiché tali compiti avevano un forte impatto sul benessere eco-
nomico collettivo si è a lungo ritenuto che essi dovessero essere sottratti
a una pura logica privatistica di mercato. Infatti, a differenza delle im-
prese private che perseguono solo l’efficienza gestionale, cioè sono atten-
te solo a che i ricavi siano superiori ai costi, le banche devono in più as-
sicurare anche l’efficienza allocativa, cioè devono fare in modo che il ri-
sparmio loro affidato dai cittadini contribuisca allo sviluppo economico
e sociale del territorio in cui operano. Di qui la preponderante proprietà
pubblica degli istituti di credito che, fino al 1992, raggiungeva oltre il 70
per cento del mercato bancario italiano.
Nel corso degli anni Novanta questo quadro è stato radicalmente tra-
sformato, sia negli assetti proprietari, sia nelle funzioni, attraverso vaste mi-
sure di privatizzazione e di liberalizzazione tese ad assimilare le banche a
normali imprese private42. Con il testo unico in materia bancaria e crediti-
zia, emanato nel 1993, si è sancita la natura imprenditoriale dell’attività
bancaria e sono state eliminate le segmentazioni funzionali, permettendo
così alle banche di operare su tutto lo spettro delle attività finanziarie, com-
prese quelle azionarie, secondo il modello della banca universale tedesca.
Con la Legge 218/1990, la cosiddetta legge Amato, le casse di rispar-
mio, le banche del monte, gli istituti di credito di diritto pubblico e gli
istituti di credito speciale sono stati trasformati in società per azioni. A
causa della scarsità di capitale privato disponibile e in attesa di una loro
graduale privatizzazione, il controllo azionario delle ex banche pubbliche
è stato in gran parte conferito alle fondazioni bancarie, che originaria-
mente erano enti di natura pubblicistica con funzioni di assistenza, bene-
ficenza e utilità sociale senza scopo di lucro. Tuttavia, per obbligo di leg-
ge, le fondazioni bancarie non potrebbero intervenire in alcun modo sul-
la gestione strategica e operativa delle banche possedute. Alla fine degli
anni Novanta, con la Legge delega 461/98 e il successivo decreto legisla-
tivo 153/99, le fondazioni bancarie sono state trasformate in enti di dirit-
to privato operanti nel settore del non profit e si è loro imposto l’obbligo
di procedere entro quattro anni alla dismissione delle partecipazioni azio-
narie di controllo delle banche. Questa nuova normativa perseguiva con-
temporaneamente due scopi. Il primo era quello di portare a compimen-
to il processo di privatizzazione del settore bancario. Il secondo era quel-
lo di rafforzare il settore del privato sociale e del non profit, con la costi-
tuzione di forti soggetti giuridici di natura privata, dotati di una rilevan-
te disponibilità di risorse finanziarie, operanti nel campo dei servizi so-
ciali in funzione di integrazione e di parziale sostituzione delle funzioni
pubbliche43. Il disegno che ha ispirato la nuova normativa è quindi di lar-
go respiro e si inserisce all’interno di una strategia complessiva mirante a
ridurre il ruolo pubblico non solo nel campo del credito ma anche in
quello del welfare. L’obiettivo implicito è quello di pilotare il sistema ban-
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Profittabilità delle imprese private(1) (2) 2,3 1,1 6,3 3 1,5 0,3 3,7 1,6
Salari reali pro capite(1) - 0,5 0,9 0,1 0,3 0,3 0,6 - 0,1 0,5
Tassi di interesse reali a breve termine 6,1 5,4 2,8 2,7 0,5 1 3,6 3,3
Tassi di interesse reali a breve - Crescita PIL 4,8 3,9 1 0,1 - 0,3 0,1 2,2 1,5
Tutto ciò ha portato a una marcata riduzione della quota dei redditi da
lavoro sul reddito totale. Alcune semplici elaborazioni sui conti naziona-
li ISTAT ci danno la percezione delle dimensioni straordinarie del feno-
meno. Se sottraiamo al PIL gli ammortamenti, che servono a rimpiazzare
il capitale consumato nella produzione, le imposte indirette e i contribu-
ti sociali otteniamo il reddito distribuito ai fattori produttivi al lordo del-
le sole imposte dirette, che possiamo denominare reddito primario priva-
to lordo. L’evoluzione della distribuzione di questa misura del reddito ai
fattori produttivi è rappresentata nel grafico 3.
Negli anni Ottanta la quota delle retribuzioni sul reddito primario pri-
vato lordo ammontava al 46 per cento. Nel periodo di Maastricht (1991-
2003) è scesa al 43 per cento. Analogo andamento per i redditi attribui-
bili a lavoro autonomo: dal 24,1 per cento si è passati al 18,7 per cento.
Tutto a vantaggio dei redditi da capitale, che hanno accresciuto il loro pe-
so sulla torta del reddito per più di otto punti percentuali, passando dal
29,9 per cento al 38,3 per cento. Poiché nel frattempo l’occupazione to-
tale è aumentata di circa il 10 per cento, con due milioni di unità di lavo-
ro in più, l’effetto redistributivo è ancora più accentuato. Il tasso medio
reale di crescita dei redditi per unità di capitale è stato del 7 per cento al-
l’anno contro l’1,8 per cento dei redditi per unità di lavoro. Negli ultimi
tredici anni i profitti e le rendite sono dunque aumentati circa quattro
volte più rapidamente dei salari.
Per paragonare quanto è avvenuto alla distribuzione del reddito in Ita-
lia, in una prospettiva di lungo periodo, rispetto all’andamento degli altri
paesi industriali, utilizziamo le statistiche della banca dati dell’OECD e
consideriamo la quota dei salari e degli stipendi lordi sul valore aggiunto
totale prodotto nel settore privato. Pur trattandosi di un indicatore meno
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Grafico 3. La distribuzione del reddito in Italia. Quote percentuali sul reddito primario
privato lordo (1980-2003). (Fonte: ISTAT, conti nazionali).
(1) Media aritmetica di Francia, Germania, Spagna, Gran Bretagna; (2) Dato non disponibile; (3) Media arit-
metica di Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Spagna, Svezia, Gran Bretagna; (4) Media aritmetica dei
paesi di cui al (3) più Austria e Olanda; (5) Media aritmetica dei paesi di cui al (4) più Belgio, Danimarca e Ir-
landa; (6) media aritmetica dei paesi di cui al (5) più Portogallo.
Tabella 20. Quota dei salari sul valore aggiunto totale del settore privato (in percentuale).
Valori medi del periodo 1960-2003. (Fonte: nostre elaborazioni su dati OECD, Economic
Outlook Database).
(1) Per la composizione delle medie vedi le note alla tabella precedente.
Tabella 21. Variazioni della quota dei salari sul valore aggiunto totale del settore privato
(1960-2003). (Fonte: nostre elaborazioni su dati OECD, Economic Outlook Database).
Tabella 22. Differenza tra il tasso di crescita dei salari orari e il tasso di crescita del reddi-
to nazionale. Valori medi annui (1970-2002). (Fonte: nostre elaborazioni su dati OECD,
Employment Outlook Database ed European Commission, 2002).
(1) Lavoratori con salario netto mensile inferiore ai due terzi del salario mediano.
(2) Valore a prezzi del 1998.
(3) Rapporto percentuale tra il salario netto del 5 per cento dei lavoratori meglio pagati rispetto al 5 per cento
dei lavoratori con salario più basso.
(4) L’indice di Gini varia da 0 (perfetta uguaglianza) a 1 (completa concentrazione).
(5) Sono considerati poveri i lavoratori appartenenti a famiglie con reddito disponibile inferiore al 50 per cento
di quello mediano.
Il trattino indica che il dato non è disponibile.
Tabella 23. Bassi salari e povertà tra i lavoratori dipendenti. Italia, 1989 e 1998. Quote
percentuali sul totale. Valori monetari espressi in lire (1998). (Fonte: nostre elaborazioni
su dati Brandolini - Cipollone - Sestito, Banca d’Italia, 2001).
ratori dipendenti del Sud (27,6 per cento) percepiscono a fine periodo
una bassa remunerazione. Questi dati, davvero impressionanti, sulla cre-
scita dei bassi salari nel Meridione, testimoniano che già alla fine degli
anni Novanta il processo di differenziazione territoriale dei salari era in
fase avanzata, in coerenza con le tendenze federaliste che a livello istitu-
zionale cominciavano ad affermarsi.
In termini di settore economico i bassi salari colpiscono prevalente-
mente l’agricoltura e il commercio, ma anche il settore dell’industria pre-
senta una forte incidenza del fenomeno (16,6 per cento). In termini di
condizione professionale sono gli operai ad essere più penalizzati: nel de-
cennio considerato la quota di operai a basso salario è più che raddop-
piata (dal 12,2 per cento al 24,9 per cento) e ciò è avvenuto anche per co-
loro che hanno un lavoro a tempo pieno (dal 10,1 per cento al 18,1 per
cento). È comunque manifestazione di una tendenza generale il fatto che
anche la categoria dei lavoratori non manuali presenti una forte accelera-
zione della quota di basse retribuzioni.
L’estensione del fenomeno dei bassi salari è indizio, oltre che di un
chiaro impoverimento della classe lavoratrice, anche di un aumento delle
disuguaglianze all’interno del mondo del lavoro dipendente. Come si può
osservare dalla tabella, il salario reale dei dipendenti a tempo pieno me-
glio pagati è aumentato, sia pur di poco, nel decennio considerato (+2 per
cento) a fronte di un vero e proprio crollo dei salari dei lavoratori dipen-
denti a tempo pieno che si collocano in fondo alla scala retributiva (-16
per cento). Mentre nel 1989 il 5 per cento di lavoratori meglio pagati per-
cepiva un salario mensile netto pari a 2,98 volte quello percepito dal 5 per
cento dei lavoratori meno pagati, nel 1998 la differenza è cresciuta fino a
4,95 volte. L’indice di disuguaglianza di Gini all’interno del lavoro dipen-
dente è aumentato nel periodo di Maastricht del 25 per cento, arrivando
a quota 0,241.
Tuttavia, nonostante questo incremento, la disuguaglianza all’interno
del lavoro dipendente rimane significativamente inferiore a quella rela-
tiva al complesso delle famiglie. L’indice di Gini sul totale della popola-
zione italiana nel 2000 è infatti risultato pari a 0,3605, con un deciso in-
cremento rispetto al valore di un decennio prima6. Studi ulteriori hanno
mostrato come la tendenza alla concentrazione dei redditi negli anni No-
vanta non sia un fenomeno limitato soltanto al lavoro dipendente ma
rappresenti una tendenza generale che ha coinvolto l’intera popolazio-
ne7. In particolare, la concentrazione dei redditi risulta molto maggiore
nel Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord, a conferma della persistenza
di un dualismo non soltanto economico ma anche sociale all’interno del
nostro paese8.
Tornando alla tabella 23 possiamo osservare che all’incremento dei la-
voratori a basso salario è corrisposto un raddoppio dei lavoratori che vi-
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Quota sul totale delle famiglie italiane 25% 25% 25% 15% 10% 100
RICCHEZZA REALE 0,8 9,2 21,2 23 45,8 100
di cui Abitazione principale 0,6 7,4 17,7 16,6 19,1 61,4
Altre attività reali (1) 0,2 1,8 3,5 6,4 26,7 38,6
RICCHEZZA FINANZIARIA 3,6 8,2 14,2 19 55 100
di cui Depositi bancari 2,5 5,2 6,5 6,7 13,3 34,2
Titoli di Stato 0,6 1,6 2,7 3,8 6,1 14,8
(2) 0,5 1,4 5 8,5 35,6 51
Altri titoli finanziari
Debiti 12,5 21,2 26,3 20,3 19,7 100
RICCHEZZA NETTA TOTALE (3) 1,5 8,7 18,9 21,8 49,1 100
Tabella 24. Concentrazione e composizione della ricchezza delle famiglie italiane. Anno
1998. (Fonte: nostre elaborazioni su dati Faiella - Neri, Banca d’Italia, 2004).
che venuto meno il divieto della commistione tra banca commerciale e in-
dustria. Abbiamo così assistito a un connubio sempre più stretto di parte-
cipazioni azionarie incrociate tra grandi istituti bancari e finanziari e gran-
di imprese industriali. La banca è diventata proprietaria dell’industria e vi-
ceversa. In questo modo, i potenziali conflitti di interesse si sono moltipli-
cati a dismisura, fino a diventare la norma. La storia economica ha dimo-
strato come in queste condizioni il credito perda la sua funzione di filtro,
per assumere una funzione conservativa e parassitaria. La Banca d’Italia
ha assecondato questo andazzo, chiudendo tutti e due gli occhi di fronte
a tale spettacolo. La politica fiscale e la gestione del debito pubblico, più
attente alle esigenze dei mercati finanziari che alla minimizzazione degli
oneri, hanno dato il loro contributo, promuovendo la cultura della ren-
dita e del facile guadagno. In questo modo si sono bruciate non solo le ri-
sorse ricavate dal maggiore sfruttamento del lavoro, ma anche quelle di
tanta parte del piccolo risparmio. Perché, quando la grande giostra si è
fermata, con lo scoppio della bolla speculativa e con la recessione, il ca-
stello di carte è crollato. Ci si è accorti allora che agli abnormi livelli di in-
debitamento di alcune grandi imprese corrispondevano ben poche ric-
chezze reali. Si è scoperto che i lauti margini di utile non derivavano dal-
la produzione, ma dai debiti di altri.
Le vicende della Parmalat e della Cirio non sono, allora, riducibili al-
le propensioni criminali di un imprenditore. Né alle carenze dei control-
li societari e finanziari. E nemmeno all’arretratezza del nostro capitalismo
nazionale. Beninteso, questi elementi esistono e serviranno soprattutto al-
la magistratura per ricostruire le modalità particolari dei crack. Ma essi
da soli non danno conto del perché di quanto è avvenuto. Ridurre la vi-
cenda a questi elementi, come capita spesso di leggere, vuol dire tentare
di circoscriverne portata e significato. Infatti, l’intento speculativo è par-
te costitutiva dell’identità di ogni imprenditore, il cui ruolo economico è,
per dirla con Keynes, quello di assumere su di sé l’incertezza del futuro
per trarne guadagno. D’altra parte, il sistema di controlli oggi in vigore
esiste da tempo e mai, finora, si era dimostrato così colpevolmente ineffi-
ciente. Infine, i crack di Cirio e di Parmalat, così simili a quelli che han-
no sconvolto Wall Street18, segnalano semmai una modernizzazione del
nostro capitalismo, diventato sempre più simile al modello americano.
Certo, la particolare caratteristica del capitalismo italiano, quella di es-
sere ancora dominato negli assetti proprietari dalle grandi, o più spesso
piccole, dinastie familiari, ha fatto sì che la vis speculativa sprigionata dal-
l’esplosione della finanza internazionale degli anni Novanta attecchisse in
misura maggiore nel nostro paese19. Il capitalismo familista nostrano, in-
fatti, ha diffuso una concezione patrimonialistica dell’impresa, che ricorda
più l’idea feudale che non quella borghese della proprietà. La grande fa-
miglia, che spesso, grazie all’inestricabile gioco delle scatole cinesi di so-
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cietà fittizie da noi così diffuso, riesce a controllare una importante impre-
sa multinazionale possedendo soltanto una piccola parte minoritaria del
capitale azionario, tende a considerare come cosa propria, come propria
“roba”, l’intera azienda e tutte le parti che la compongono. Essa si arroga
così il diritto di disporre pienamente non soltanto delle azioni in suo pos-
sesso, ma anche di quelle dei piccoli azionisti, così come dei beni, delle ri-
sorse gestionali e perfino degli stessi lavoratori dell’azienda. Così non è più
la famiglia che si pone al servizio dell’impresa, allo scopo di perseguire
obiettivi di efficienza produttiva oppure anche solo di massimizzazione del
profitto, ma, viceversa, è l’impresa tutta che diventa strumento di potere,
di splendore e molto più sovente di miseria dinastica. L’atavico carattere
predatorio del capitalismo italiano si è trovato perfettamente a proprio
agio negli anni d’oro delle avventure finanziarie, perché aveva anticipato,
forse per la prima volta nella sua storia, un modello che è diventato uni-
versale, quello della globalizzazione finanziaria di stampo neoliberista.
In questa nuova e selvaggia versione dell’economia capitalistica è, in-
fatti, mutata alla radice la stessa funzione dell’impresa20. Suo compito
esclusivo è diventato quello della creazione immediata di valore finanzia-
rio. Non più quindi la produzione di ricchezza reale, bensì l’appropria-
zione di ricchezza finanziaria è la sua nuova missione. La quotazione di
Borsa, non più l’uso efficiente e razionale dei fattori produttivi, è diven-
tato l’indice supremo di successo imprenditoriale. È caduta così ogni di-
stinzione tra rendita e profitto. L’impresa non produce più beni e servizi
da cui ricavare l’utile, ma titoli finanziari da cui mungere rendite. Nel-
l’attuale modello di capitalismo l’ottica con cui l’impresa viene gestita è
quella della massimizzazione della remunerazione finanziaria di breve pe-
riodo della proprietà azionaria. In tal modo, l’impresa viene ridotta sem-
plicisticamente a una macchina di distribuzione di profitti e dividendi a
favore dei suoi proprietari. La dimensione puramente finanziaria ha così
il sopravvento su quella produttiva. Gli altri interessi coinvolti, quelli dei
lavoratori, dei risparmiatori, dei consumatori, vengono trascurati o addi-
rittura eliminati dalla logica gestionale. L’impresa non è più allora il luo-
go di produzione della ricchezza e del benessere, dove interessi e sogget-
ti reciprocamente autonomi concorrono, anche in maniera conflittuale, a
un risultato socialmente utile ed economicamente efficiente, ma diventa
strumento di appropriazione privata di ricchezza sociale, elemento di di-
struzione e non di produzione di valore economico.
E poiché l’impresa è il cuore dell’economia capitalistica, il suo centro
motore, tutto intorno a lei è stato ricostruito per agevolare lo svolgimen-
to della sua nuova missione. I mercati finanziari sono volubili ed emotivi?
Il valore finanziario è soggetto a rapidi e improvvisi mutamenti? Allora
l’impresa deve essere snella e agile per navigare veloce tra questi marosi
imbizzarriti. Tutti gli ormeggi e le zavorre devono essere eliminati. In pri-
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mo luogo, quelli, pesanti perché fatti di carne e sangue, del lavoro: flessi-
bilità e precarietà generalizzate ne sono la conseguenza. Poi, quelli delle
garanzie sociali: tutto, dalla scuola alla sanità ai beni comuni, deve diven-
tare terreno di caccia per la moltiplicazione delle cedole. Ancora, i vinco-
li spaziali e temporali devono saltare: il mondo intero è un unico, perpe-
tuo mercato virtuale, popolato di tanti paradisi fiscali, coccolati dalle au-
torità monetarie. In questa orgia di privatizzazioni e liberalizzazioni la di-
mensione pubblica e sociale dell’impresa sparisce. Lo Stato, la collettività,
la società, diventano entità diaboliche da evitare o sottomettere. I confini
della legalità e della moralità si dissolvono. I mercati non premiano chi ri-
spetta le regole. I mercati premiano chi paga. E finché paga. Tutti gli scan-
dali finanziari di questi anni, in Italia e nel mondo, sono venuti a galla so-
lo quando l’impresa non era più in grado di onorare il soldo, mai prima.
Eppure tutte queste imprese da anni agivano in modo fraudolento, ap-
plaudite e vezzeggiate innanzitutto da chi doveva vigilare su di loro.
C’è chi penserà che in verità, da sempre, fin dai tempi delle Compa-
gnie delle Indie orientali, l’impresa capitalistica altro non è stata che una
vorace divoratrice di uomini, cose e natura per trasmutare il tutto in va-
lore monetario, in profitto, in dividendi. Questo è storicamente vero. Ma
è altrettanto vero che un tempo questi comportamenti, pur nella loro
brutalità, spingevano avanti la ruota della storia e promuovevano, seppur
a un caro prezzo, grondante di sangue, lo sviluppo delle forze produttive
dell’umanità. Per questo, nel capitalismo adolescente e proiettato al futu-
ro, l’impresa teorizzata divergeva da quella praticata. L’impresa veniva
descritta e presentata, dai suoi apologeti, come il motore del progresso
umano, come il soggetto che, perseguendo i suoi fini egoistici, migliora-
va la condizione di tutti. E c’era allora, contemporaneamente, una dupli-
ce verità interna, sia nelle tesi dei difensori che in quelle dei critici del-
l’impresa capitalistica e del suo sistema. Oggi invece non è più così. Og-
gi è la teoria dell’impresa che si è adeguata alla sua sempiterna pratica.
Oggi nei consigli di amministrazione delle multinazionali globali, come
nelle aule delle più prestigiose università americane, non si parla più del-
la missione sociale e storica dell’impresa, ma solo della sua mission azien-
dale, valutata in termini della quotazione del listino della Borsa che, in
qualche remota parte del mondo, sta aprendo i battenti, in una staffetta
perpetua con un’altra che li sta serrando. L’impresa capitalistica non è più
in grado né di essere, né di apparire come l’avanguardia del progresso
umano. E questo cambia le cose. È il segno della decadenza, dell’avvizzi-
mento di ogni prospettiva futura, che consuma il modello della globaliz-
zazione neoliberista. Questo degrado, fisico e morale, dell’impresa capi-
talista rischia di trascinare con sé l’intera società.
Oggi in Italia tutti, anche coloro che hanno prosperato su questo si-
stema, dicono a parole di volere nuove regole. Questo è giusto, perché le
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Nel corso degli ultimi due decenni il mondo del lavoro ha subito una ra-
dicale trasformazione sia in termini della sua condizione materiale, sia in
termini della sua identità sociale. L’origine di questo fenomeno è inscritta
nel mutamento di paradigma produttivo che ha investito il modo di pro-
duzione capitalistico dopo la crisi sociale della prima metà degli anni Set-
tanta. Molte discussioni si sono sviluppate intorno alla definizione termi-
nologica con cui indicare questo mutamento. In particolare, esse vertono
sull’uso e sul significato dei termini “fordismo” e “postfordismo”. È bene
allora chiarire che questi termini verranno utilizzati nel testo che segue co-
me semplici definizioni sintetiche, senza alcun rinvio a preordinate matrici
ideologiche, delle trasformazioni subite dai modelli di organizzazione della
produzione e del lavoro. Vista la loro provvisorietà e ambiguità semantica,
saranno usati tra virgolette. L’unico presupposto è quello del carattere rea-
le e concreto delle trasformazioni, perché non voler accorgersi che il mon-
do del lavoro e l’organizzazione della produzione sono oggi per molti
aspetti diversi da quelli di mezzo secolo fa è indice di pigrizia e di inerzia
intellettuale1.
Il tramonto dell’era “fordista” e il passaggio verso un’epoca “postfor-
dista”, ormai entrata nella sua maturità, ha decomposto la precedente
struttura di classe, frantumando figure sociali, distruggendo soggettività
ma anche modificando in profondità ruolo e posizione della forza lavoro
all’interno del processo produttivo e più in generale della società. La de-
finizione più sintetica di ciò che è avvenuto è quella di un massiccio pro-
cesso di svalorizzazione del lavoro. Questa categoria si declina concreta-
mente sotto quattro aspetti. In primo luogo, dal punto di vista economi-
co, la partecipazione dei redditi da lavoro alla distribuzione della ric-
chezza prodotta ogni anno è costantemente scesa, per un periodo non
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mente chiede. In realtà la macchina non pensa, non vuole, non chiede ma
è il lavoratore che si è fatto pensiero, volontà, linguaggio della macchina,
che è diventato un’appendice non solo fisica ma mentale della macchina.
La macchina “postfordista” succhia non solo il corpo ma anche la mente
del lavoratore. Nell’organizzazione del lavoro “postfordista” il lavoratore
deve pensare nel senso che deve conferire alla macchina la facoltà del
pensiero, la coscienza. Anche nel “postfordismo” il pensiero del lavora-
tore è vuoto, non perché non lo eserciti ma perché il suo pensiero è il pen-
siero della macchina. L’alienazione non si presenta più come dissociazio-
ne tra corpo e mente, ma come privazione e annullamento di sé, del pro-
prio Io, della propria soggettività. Ma, al di fuori della razionalità codifi-
cata della macchina, esiste un residuo dell’Io, fatto di impulsi, intuizioni,
sogni che la macchina non riesce ancora a codificare e che consentono al
lavoratore di pensare ancora alla propria liberazione. Nel “postfordismo”
il lavoro morto e il lavoro vivo sono in un rapporto di dominazione rea-
le, perché il lavoro morto appare come lavoro vivo, dotato di coscienza,
e il lavoro vivo come lavoro morto, inanimato. Il risultato dell’automa-
zione “postfordista” dei sistemi di produzione è un incremento esponen-
ziale della produttività del lavoro, che però appare come proprietà delle
macchine e delle procedure organizzative dell’impresa, cioè del capitale.
È il capitale quindi che incorpora dentro il processo produttivo il lavoro
speso per riprodurre in maniera allargata le condizioni di operatività del-
la tecnologia e dell’organizzazione dell’impresa. Questo tipo di lavoro,
differente da quello principalmente esecutivo del modello “fordista”, è
stato chiamato lavoro “cognitivo”. Il lavoro “cognitivo” è un lavoro com-
plesso, di natura intellettuale, frutto dei processi di apprendimento e di
formazione continua del lavoratore all’interno e all’esterno del momento
produttivo. Il lavoratore deve imparare a pensare per la macchina, ne de-
ve imparare le procedure, i codici, il linguaggio, deve imparare a capire
cosa la macchina vuole. Questo processo di apprendimento intellettuale,
di carattere continuo e processuale, richiede tempo, energie, dispendio di
risorse maggiori dei processi di apprendimento manuali, di carattere di-
screto, richiesti al lavoratore “fordista”. Il tempo di lavoro “cognitivo” è
dunque un multiplo del tempo di lavoro esecutivo perché incorpora il
tempo individuale e sociale speso per formare e apprendere continua-
mente le capacità di applicare il lavoro “cognitivo” all’interno del pro-
cesso produttivo. Esso tuttavia è remunerato dal capitale alla stregua del
lavoro esecutivo, come dimostra il divario crescente tra l’andamento del-
la produttività del lavoro e l’andamento dei salari. Il capitale si appropria
quindi gratuitamente del tempo individuale e sociale impiegato per pro-
durre lavoro “cognitivo”. In tal modo il capitale riesce a estrarre una
maggiore quantità di pluslavoro, cioè ad aumentare il grado di sfrutta-
mento e a incrementare la propria valorizzazione. Inoltre, il capitale rie-
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Per l’Italia, ancor più che per l’Europa, la priorità economica fonda-
mentale è oggi quella di una distribuzione più egualitaria del reddito.
L’attuale configurazione distributiva, squilibrata a vantaggio dei redditi
da capitale come mai era avvenuto nella storia del dopoguerra, è causa
non soltanto di un intollerabile aumento delle ingiustizie sociali e di un
massiccio impoverimento di larghe fasce della popolazione, ma anche
della crisi e del declino dell’economia italiana. La carenza di domanda in-
terna, che da oltre un decennio affligge il nostro sistema economico, tro-
va in ultima istanza la sua causa fondamentale nella compressione dei
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Per ricostruire l’unità del mondo del lavoro occorre prima di ogni al-
tra cosa essere in grado di trovare le forme di rappresentanza e poi di
espressione concreta degli interessi, dei bisogni e delle aspirazioni di que-
sto insieme composito di nuove soggettività. Per questo occorre capacità
di innovazione teorica e organizzativa, anche a costo di rimettere in di-
scussione vecchie e consolidate certezze. Sul piano sindacale è evidente
come sia necessario allargare gli spazi di democrazia diretta, consentendo
a tutte le figure lavorative, anche a quelle più flessibili e precarie, di par-
tecipare realmente alla costruzione delle piattaforme rivendicative e alla
ratifica degli accordi. Per fare ciò non c’è che una strada, quella dell’uso
del referendum tra tutti i lavoratori, indipendentemente dalla loro mili-
tanza in questa o quella organizzazione, e del rispetto assoluto e vinco-
lante degli esiti delle consultazioni. Così come, allo stesso modo, dovreb-
bero essere composti, senza eccezioni o privilegi, gli organismi di rappre-
sentanza diretta dei lavoratori9.
Sul piano del sistema contrattuale è ormai chiaro che un meccanismo
basato sulla sola contrattazione collettiva di categoria non è più adegua-
to a rappresentare gli interessi comuni dei lavoratori mobili e flessibili di
oggi. Occorre trovare una modalità, uno strumento che sia in grado di
esprimere la condizione comune di salariati, prima ancora che quella di
metalmeccanici, di tessili, di dipendenti pubblici o di precari, disoccupa-
ti e inoccupati. Allora è forse il caso di ripensare a un radicato e storico
orientamento del movimento operaio italiano, che si è sempre mostrato
diffidente e ostile a interventi generali, di tipo legislativo, in materia di de-
finizione del salario e della prestazione lavorativa, per il fondato timore
di un indebolimento della forza organizzata dei lavoratori. Ma i tempi e
le condizioni sono mutate. Per riunificare il mondo del lavoro è oggi ne-
cessario utilizzare anche lo strumento della legge per fissare un insieme
minimo di diritti e di salvaguardie valido universalmente per tutti i sala-
riati, indipendentemente dalla loro temporanea e particolare collocazio-
ne sul mercato del lavoro. D’altra parte è proprio su questo terreno, quel-
lo della rivendicazione di diritti sanciti per legge, che è nato il movimen-
to operaio nel XIX secolo. Basti pensare alle grandi lotte per l’ottenimen-
to delle leggi per la riduzione della giornata lavorativa, per vietare il la-
voro minorile o il lavoro notturno delle lavoratrici. Ma, anche venendo a
tempi più recenti, siamo sicuri che lo Statuto dei lavoratori avrebbe retto
all’offensiva di classe del padronato se non fosse stato sancito, attraverso
una legge, nell’ordinamento giuridico italiano?
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l’intero mondo del lavoro e anche per le prospettive future del nostro si-
stema economico. Essa darebbe, infatti, una garanzia minima di tipo sa-
lariale anche a tutti quei soggetti che non sono in condizioni di far valere
pienamente i propri diritti contrattuali e sindacali.
In questo quadro, con una nuova scala mobile e un salario minimo in-
tercategoriale fissati per via legislativa, la contrattazione collettiva nazio-
nale di categoria si libererebbe del fardello di una rincorsa affannosa alla
continua riaffermazione di diritti e salari minimi e riacquisterebbe il suo
ruolo originario ed essenziale di strumento per la distribuzione dei bene-
fici derivanti dalla crescita della produttività media, di definizione del re-
gime generale della prestazione lavorativa e di luogo di confronto sulle
prospettive di sviluppo del settore, mentre alla contrattazione aziendale
spetterebbe il compito di occuparsi delle questioni specifiche e particola-
ri di ogni luogo di lavoro. Il ruolo della contrattazione collettiva, e quin-
di dell’organizzazione sindacale democratica, ne uscirebbe potenziato e
valorizzato perché la tutela dei diritti più elementari sarebbe garantita a
monte, dalla legislazione.
Ma, accanto a questi elementi di tutela di base di una nuova scala mo-
bile e del salario minimo, è necessario introdurre per via legislativa un ter-
zo strumento, quello del salario di cittadinanza. In sua assenza, infatti, ri-
marrebbe discriminata una parte affatto marginale dei salariati, quella dei
disoccupati e del precariato sociale. Anche a questa parte di lavoratori so-
ciali, che è esclusa dalla possibilità di entrata nel mondo del lavoro, deve
essere garantito il diritto alla sopravvivenza autonoma e indipendente. Se
così non fosse, la leva della disoccupazione di massa continuerebbe a pe-
sare in maniera preponderante nella definizione dei rapporti di forza con-
trattuali tra lavoratori e imprese. Esisterebbe sempre un potenziale ser-
batoio da cui attingere per indebolire i diritti di tutti i lavoratori. È anco-
ra oggetto di controversia, tra i sostenitori di questa proposta, se la cor-
responsione di un salario di cittadinanza (è preferibile chiamarlo salario
piuttosto che reddito di cittadinanza per evidenziare l’appartenenza al
mondo del lavoro) debba esse collegata o meno a un obbligo lavorativo,
ad esempio nel settore dei lavori di pubblica utilità12. La cosa più ragio-
nevole sarebbe condizionare il salario di cittadinanza a un obbligo di
comportamenti utili dal punto di vista sociale. Questi non si esplicano
soltanto attraverso la classica prestazione lavorativa, ma anche in altre ti-
pologie, come la formazione culturale e professionale, la partecipazione
ad attività di volontariato, lo svolgimento di attività assistenziali all’inter-
no del proprio nucleo familiare o fuori di esso, la comunicazione e la dif-
fusione di pratiche e di conoscenze sociali, la cura e la promozione del
territorio, dell’ambiente e del patrimonio artistico. Il livello minimo del
salario di cittadinanza dovrebbe essere almeno superiore alla soglia di po-
vertà relativa definita dalle misure ufficiali e dovrebbe essere integrato
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polazione europea sia fortemente aumentata (dal 90 per cento della me-
dia europea nel 1992 all’84 per cento nel 2001), con una tendenza per il
futuro all’allargamento della divergenza, fenomeno unico tra tutti i paesi
UE . In queste condizioni è veramente difficile pensare di allontanare lo
18
spettro del declino produttivo con retorici appelli alla fiducia, tanto più
di fronte alla controriforma della scuola operata dal governo Berlusconi,
che colpisce la scuola pubblica a vantaggio di quella privata e accelera la
fuoriuscita dei giovani dal percorso scolastico per inserirli, già nella fase
dell’istruzione obbligatoria, nel mondo delle imprese.
Non possono essere oggetto di questo libro, dedicato alla politica eco-
nomica, le necessarie modifiche qualitative da apportare alla tipologia de-
gli interventi per la protezione sociale e l’istruzione e alle modalità della
loro erogazione, se non per sottolineare la necessità di una assoluta pre-
minenza della gestione pubblica dei servizi e della scuola. Invece, qual-
cosa di importante è possibile dire dal punto di vista quantitativo. Di
fronte alla situazione sopra illustrata, l’aumento delle risorse complessive
destinate alla spesa sociale deve diventare una priorità della politica eco-
nomica dei prossimi anni. Il potenziamento del sistema del welfare avreb-
be effetti benefici non soltanto sul piano del miglioramento delle condi-
zioni sociali del paese, riducendo il grado di disuguaglianza, di povertà e
di sofferenza sociale, ma anche sulla domanda. Infatti, in aggiunta all’in-
cremento diretto della spesa per consumi collettivi, essa libererebbe ri-
sorse anche per la spesa privata delle famiglie italiane. Ad esempio, nel
decennio 1991-2001 la spesa privata sostenuta ogni anno dalle famiglie
italiane per le cure sanitarie è più che raddoppiata, passando da dieci a
ventidue miliardi di euro, per far fronte alla riduzione della copertura
delle prestazioni pubbliche. Per la grande maggioranza delle famiglie la
spesa sanitaria privata va a scapito di consumi, spesso essenziali, e indu-
ce anche a un comportamento previdente, di risparmio e di rinuncia, di
fronte a possibili malattie future. La stessa cosa vale, sia pur in misura più
ridotta, per le altre tipologie di prestazioni sociali. L’obiettivo minimo e
assolutamente realistico che il nostro paese si deve porre è quello di rag-
giungere, in un arco temporale non superiore al quinquennio, la stessa
percentuale di spesa per il welfare che in media spendono gli altri quat-
tordici paesi dell’UE, il che equivale a prevedere un aumento complessivo
della spesa sociale del 2 per cento del PIL. Saremmo ancora ben lontani
dalle quote dei maggiori paesi europei, tuttavia potremmo avere a dispo-
sizione alla fine del periodo qualcosa come trenta miliardi di euro in più
da destinare a sanità, salario di cittadinanza, casa, servizi alle famiglie, al-
l’infanzia e agli anziani.
Allo stesso modo è indispensabile, dopo aver al più presto abrogato la
riforma Moratti, aumentare la spesa per la scuola pubblica e per l’univer-
sità. Ciò è importante sia per garantire una migliore opportunità di com-
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Dove invece l’Italia balza al primo posto in Europa è nella spesa pen-
sionistica pubblica, che assorbe il 51,7 per cento del totale della spesa so-
ciale, contro una media dell’UE pari al 41,3 per cento19. In rapporto al PIL,
la spesa complessiva per le pensioni è in Italia del 12,7 per cento rispetto
al 10,9 per cento della media comunitaria. Questi dati sono stati spesso
portati a sostegno della tesi della necessità di una riforma del sistema pre-
videnziale italiano per ridurre la spesa pensionistica in modo da liberare
risorse per altre funzioni, oggi penalizzate, del welfare. Vale allora la pe-
na di soffermarci ad analizzare meglio i dati. In primo luogo, Eurostat
chiarisce che, all’interno del dato italiano, è compresa una voce, il tratta-
mento di fine rapporto (TFR), cioè la liquidazione, che andrebbe, a rigor
di logica, scorporata dalla spesa pensionistica e inserita, in analogia con
la classificazione di istituti aventi scopi similari negli altri paesi europei,
all’interno delle prestazioni sociali per il sostegno ai disoccupati20. La spe-
sa per il TFR non è di scarsa rilevanza, incidendo per il 6 per cento sulla
spesa sociale totale. Applicando le indicazioni dell’istituto ufficiale euro-
peo di statistica, la spesa propriamente pensionistica italiana calerebbe al
45,7 per cento del totale della spesa sociale e all’11,2 per cento del PIL. In
questo modo, allora, l’anomalia dell’elevata spesa pensionistica italiana
praticamente scompare, essendo superiore a quella media europea per
appena lo 0,3 per cento del PIL. Conteggiando propriamente il TFR, l’Ita-
lia scende bruscamente al quarto posto, a pari merito con la Gran Breta-
gna, per spesa pensionistica all’interno dell’UE, superata dalla Grecia
(12,7 per cento del PIL), dalla Germania (11,7 per cento) e dalla Svezia
(11,3 per cento). Ma non basta. In Italia i redditi da pensione sono tassa-
ti allo stesso modo dei redditi da lavoro e le statistiche relative alla spesa
pensionistica riportano la spesa al lordo delle imposte dirette. In molti al-
tri paesi europei, invece, le pensioni godono di particolari agevolazioni fi-
scali rispetto agli altri redditi, che ne abbassano il livello di imposizione21.
Per fare un esempio, mentre in Italia le tasse prelevate sulle pensioni am-
montano al 2,9 per cento del PIL, in Gran Bretagna sono pari soltanto al-
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lo 0,4 per cento e in Germania all’1,3 per cento. Poiché le imposte paga-
te sulle pensioni finiscono nelle casse dello Stato, un conteggio appro-
priato della spesa pensionistica pubblica dovrebbe essere fatto in termini
netti e non lordi, per evitare l’effetto contabile della partita di giro delle
tasse. In questo caso, anche la piccola differenza rimanente della quota di
spesa pensionistica pubblica sul PIL tra l’Italia e il resto dell’UE verrebbe
più che annullata. Dunque, non esiste nessuna anomalia italiana in Euro-
pa in questo campo22. Gli argomenti che sostengono la necessità di ta-
gliare la spesa pensionistica per allineare l’Italia all’Europa sono sempli-
cemente falsi e privi di ogni fondamento oggettivo.
L’altra giustificazione che viene portata a sostegno della necessità di una
riduzione delle prestazioni previdenziali è relativa all’andamento demo-
grafico. Si afferma che, a causa dell’invecchiamento progressivo della po-
polazione, derivante dall’innalzamento delle aspettative di vita e dalla ri-
duzione dei tassi di fertilità, l’attuale sistema previdenziale non sarebbe in
grado di reggere dal punto di vista finanziario nei prossimi decenni. Infat-
ti, le tendenze demografiche in atto comporteranno un notevole aumento
del numero di anziani in rapporto alla popolazione in età da lavoro e ciò
renderebbe troppo gravoso il finanziamento della spesa pensionistica. La
conclusione che se ne trae è che allora bisogna ridurre, in una forma o nel-
l’altra, l’importo complessivo delle pensioni pubbliche future. Questo può
avvenire aumentando l’età media di pensionamento, in modo da ridurre gli
anni di pagamento della pensione, o riducendo l’importo mensile della
pensione, oppure ancora attraverso una combinazione delle due misure.
La riforma delle pensioni varata dal governo Berlusconi rientra in que-
st’ultimo caso: costringe i lavoratori ad andare in pensione più tardi, anche
attraverso l’abolizione della pensione di anzianità maturata dopo trenta-
cinque anni di lavoro, e contemporaneamente riduce l’importo medio del-
le pensioni future, attraverso la decontribuzione per i neoassunti23.
Questa conclusione è priva di ogni base logica. Infatti, un conto è il
problema del finanziamento della spesa pensionistica pubblica, cioè il
modo in cui reperire le risorse per pagare le pensioni, un altro è il pro-
blema dell’importo complessivo delle pensioni future.
Soffermiamoci innanzitutto sul primo aspetto del problema. Sicura-
mente gli andamenti demografici solleveranno serie difficoltà in futuro
per quei sistemi previdenziali basati su un meccanismo cosiddetto “a ri-
partizione”, in base al quale le pensioni dell’anno in corso sono finanzia-
te attraverso i contributi sociali versati da coloro che stanno attualmente
lavorando. Infatti, se aumentano gli anziani relativamente a coloro che so-
no in età da lavoro, per garantire il pagamento delle pensioni occorrerà
che i contributi sociali versati dagli occupati crescano continuamente. Il
sistema a ripartizione ha svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo eco-
nomico e sociale del nostro paese e trova le sue origini negli istituti mu-
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parte il fatto che nessuno può assicurare i lavoratori che da qui a trent’an-
ni non si verificheranno altri episodi come quello della Enron e della Par-
malat, anzi possiamo star certi che ce ne saranno parecchi, tanto che la
previdenza privata può essere assimilata a una forma di lotteria piuttosto
che di risparmio, c’è un altro piccolo dettaglio. La liquidazione non è un
regalo delle imprese ma è una quota di salario che obbligatoriamente de-
ve essere investita ogni mese dal lavoratore in un apposito fondo azienda-
le e che gli verrà restituita alla fine del rapporto di lavoro, con un coeffi-
ciente minimo di rivalutazione. Il TFR è dunque una voce per nulla margi-
nale del salario del lavoratore, pari a circa il 7 per cento della retribuzione
annua complessiva. La sua istituzione era legata alla garanzia di avere un
minimo di sostentamento in caso di interruzione anticipata e improvvisa
del rapporto di lavoro. Se in altri paesi esso non esiste, è solo perché il si-
stema del welfare ha una maggiore estensione e garantisce un reddito mi-
nimo ai disoccupati. Per i lavoratori a fine carriera la liquidazione è stata
spesso l’unica forma di risparmio che si è potuto accumulare in una vita e
consentiva di affrontare spese straordinarie, come l’acquisto di una casa
per sé o per i figli. Se il lavoratore è ora costretto a rinunciare al TFR in
cambio di una polizza assicurativa che, se sarà fortunato, gli garantirà una
pensione complessiva al massimo uguale a quella percepita dagli attuali
pensionati, la conclusione da trarre è semplice e diretta. Con questa ope-
razione, il salario reale di un lavoratore viene automaticamente decurtato
del 7 per cento a tutto vantaggio della rendita finanziaria. Ecco cosa na-
sconde tutta l’operazione della previdenza integrativa. L’obiettivo dell’a-
brogazione della riforma delle pensioni, varata dal governo Berlusconi, è
dunque uno dei presupposti indispensabili per mettere in campo una po-
litica di redistribuzione del reddito a vantaggio dei salari. L’altra misura in-
dispensabile, che costituisce un impegno morale prima ancora che econo-
mico, è quella di portare subito il livello minimo di tutte le pensioni alme-
no a 516 euro al mese, pur sapendo che questa cifra ormai ha un valore
ben minore del vecchio milione di lire. È veramente incredibile come lo
Stato possa ancora erogare circa quattro milioni di pensioni che sono in-
feriori al livello di povertà che esso stesso, nelle stime ufficiali, stabilisce!
Se, come abbiamo mostrato, non esiste oggi in Italia nessuna emer-
genza relativa alla possibile esplosione della spesa pensionistica pubblica,
anzi ne esiste una relativa alla necessità di aumentare le pensioni più bas-
se e di garantire una pensione adeguata ai lavoratori precari, tuttavia ri-
mane aperto il problema, descritto all’inizio del paragrafo, della insoste-
nibilità delle forme di finanziamento del sistema previdenziale a riparti-
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sare un’aliquota media pari alla quota di reddito nazionale che si vuole
destinare alla popolazione anziana per rendere sostenibile, senza limita-
zione alcuna, il sistema previdenziale pubblico.
Questo nuovo sistema pensionistico muterebbe certamente natura e
scopo rispetto a quello attualmente in vigore. Esso non avrebbe più né una
natura di tipo mutualistico, né una natura di tipo assicurativo. La pensio-
ne cesserebbe di essere la remunerazione di un risparmio accumulato, in
qualunque forma, dal lavoratore attraverso il versamento di contributi e
acquisterebbe lo status di diritto sociale garantito universalmente dallo
Stato. La garanzia del reddito durante gli anni della vecchiaia diventereb-
be un diritto inalienabile analogo a quello della tutela della salute o dell’i-
struzione obbligatoria. Così verrebbero anche pienamente salvaguardati i
legami di solidarietà intergenerazionale, che rafforzano il grado di coesio-
ne sociale di un paese, perché il compito di assicurare un livello decente
di vita agli anziani diventerebbe un impegno inderogabile dell’intera col-
lettività. In questo modo, inoltre, sarebbero risolti anche tutti i problemi
derivanti dalla precarizzazione e dalla flessibilità del lavoro, perché la pen-
sione non dipenderebbe più né dagli anni, né dalla quantità di contribu-
zione, ma sarebbe garantita a tutti coloro che, indipendentemente dal per-
corso lavorativo, raggiungessero l’età del pensionamento. Quest’ultima,
inoltre, potrebbe essere fissata a età diverse a seconda del tipo di lavoro
svolto, cosicché un lavoratore che abbia esercitato una professione fatico-
sa e usurante potrebbe maturare il diritto alla pensione prima di un lavo-
ratore che invece svolga un lavoro più appagante. L’unico problema che
sorgerebbe da questo nuovo sistema sarebbe quello dell’importo della
pensione da assegnare a ciascuna categoria di lavoratori. In questo caso, la
scelta dipenderebbe dalle preferenze della società rispetto a una distribu-
zione più o meno egualitaria del reddito. Se non si volesse incidere sulla
distribuzione del reddito che emerge dalla sfera della produzione, baste-
rebbe fissare la pensione di ogni singolo lavoratore sulla base di una per-
centuale del salario percepito identica per tutti. Viceversa, se si volesse
correggere la distribuzione per renderla più equa, occorrerebbe fissare un
coefficiente maggiore per le pensioni percepite dai lavoratori a basso sala-
rio. Sarebbe, in ogni caso, indispensabile fissare un importo minimo della
pensione, al di sotto del quale non si può andare, tale da garantire all’an-
ziano un livello di consumi adeguato rispetto allo standard di vita medio
della popolazione e sulla base di questo riferimento procedere alla defini-
zione della scala pensionistica per tutte le categorie di lavoratori.
Infine, un sistema pensionistico di questo tipo si integrerebbe in ma-
niera coerente con l’istituzione di un salario di cittadinanza, esposto in
precedenza, perché andrebbe a configurare un quadro unitario di prote-
zione sociale teso a garantire un diritto universale al reddito e alla sussi-
stenza economica per tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro capa-
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11.1. Per battere le politiche di destra e non solo il governo delle destre
Per contrastare questo esito, negli anni Sessanta e Settanta la parte più
illuminata dell’intellettualità borghese avanzò l’idea di un “patto dei pro-
duttori”, di un nuovo compromesso sociale che mettesse insieme la clas-
se lavoratrice con i settori più dinamici e innovativi dell’imprenditoria
pubblica e privata italiana in nome della lotta alla rendita e della moder-
nizzazione del paese. Questa proposta spesso trovò eco e riscontro anche
in parti non marginali del movimento operaio, tanto che essa ha influito
sugli orientamenti di fondo che hanno portato alla sua sconfitta nei de-
cenni successivi e anche alla sua perdita di autonomia culturale, che a vol-
te non è mancata di trasformarsi in vera e propria subalternità. Se questo
progetto non funzionò allora, quando potevano esservi elementi oggetti-
vi su cui basarlo, riproporlo oggi è assolutamente privo di ogni senso e di
ogni efficacia.
Infatti, l’attuale situazione italiana presenta aspetti paradossali perché
può essere descritta, in termini esattamente opposti a quelli di allora, co-
me una sintesi di “modernità” sociale e di arretratezza economica. Il
mondo del lavoro è da noi frammentato e precarizzato come e forse più
di quanto avviene negli altri paesi industriali e lo stesso può dirsi per il
grado elevato di concentrazione del potere economico; il profitto e la ren-
dita si sono fusi in un unico intreccio di interessi e di soggetti. La strut-
tura sociale italiana risponde, dunque, pienamente ai dettami del model-
lo della globalizzazione neoliberista. Le stesse nuove forme della protesta,
della contestazione e del conflitto dei soggetti penalizzati ed esclusi da
questo modello sono in Italia identiche a quelle del resto dell’Occidente
e, anzi, per certi aspetti nel nostro paese assumono dimensioni e caratte-
ristiche di avanguardia, come mostra l’estensione e l’effervescenza dei
nuovi movimenti sociali italiani, da quello pacifista a quello altromondia-
lista, alle lotte locali e ambientaliste. Dove invece arranchiamo è nella
struttura economica e nelle potenzialità di crescita e di sviluppo. Il “pat-
to dei produttori” è quindi una proposta del tutto fuori dalla realtà e
quando viene agitata, nelle forme della “concertazione”, è solo per inten-
ti di conservazione1.
Ma che cosa indica l’esistenza di una situazione caratterizzata da mo-
dernità sociale e arretratezza economica? Indica che la traiettoria di svi-
luppo del capitalismo contemporaneo, quella fondata sul neoliberismo,
ha prodotto in Italia guai molto più seri che altrove. Oltre all’aumento
drammatico del grado di sofferenza sociale e individuale per la gran par-
te della popolazione, essa ha seccato le fonti stesse dello sviluppo econo-
mico, facendo ripiombare il paese in una condizione di arretratezza pro-
duttiva rispetto al resto delle maggiori economie industriali e annullando
mezzo secolo di rincorsa. Allora, in Italia più che altrove, è necessario in-
vertire la rotta e abbandonare, senza reticenze, il modello neoliberista al-
la ricerca di un nuovo modello alternativo che sappia coniugare in modo
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dizi di una svolta recessiva mondiale erano presenti fin da prima della vit-
toria elettorale del 2001, ma vennero ignorati, cosicché, più che di scom-
messa, è meglio parlare di fede cieca in un miracolo. Cosa, questa, che
getta una luce inquietante non solo su Berlusconi e i suoi, ma anche sul-
la totale irresponsabilità di quella parte consistente delle classi dirigenti
italiane, a partire dal mondo imprenditoriale, che gli fornirono appoggio
e sostegno.
Fin dall’inizio, quindi, la politica economica del governo è stata se-
gnata da una doppia emergenza, per sua natura contraddittoria, quella
della crisi globale del neoliberismo e quella del mantenimento delle pro-
messe populiste. Tremonti, che concentrava su di sé tutti i poteri di poli-
tica economica, è stato il grande giocoliere che ha tentato, a volte con fan-
tasia, altre volte con dilettantismo, di conciliare l’inconciliabile. Questo
carattere contraddittorio diventava manifesto quando Tremonti insisteva
con ostinazione a propugnare le privatizzazioni e le riduzioni fiscali ai ric-
chi e, simultaneamente, auspicava misure protezionistiche contro la con-
correnza estera. Gli scogli su cui si è infranto l’equilibrismo di Tremonti
sono stati due: l’attacco alla Banca d’Italia e l’Europa. Infatti, per conti-
nuare il gioco di prestigio, occorreva avere una politica monetaria e cre-
ditizia più accondiscendente e una maggiore flessibilità delle regole di bi-
lancio europee. Vale a dire che bisognava modificare strutturalmente gli
assetti del potere reale neoliberista a livello nazionale ed europeo. La de-
bolezza del disegno strategico di Tremonti è infatti strutturale e origina-
ria. Essa risiede nell’idea di poter superare da destra la crisi economica,
riportando alla politica e allo Stato il ruolo di direzione reale del model-
lo neoliberista, oggi in mano ai mercati e alle tecnocrazie, per un suo più
compiuto funzionamento. L’illusione di Tremonti è stata, quindi, quella
di poter interpretare gli interessi neoliberisti meglio del neoliberismo
stesso. È lo stesso tentativo che fece Colbert, non a caso ammirato dall’ex
ministro, nella Francia dell’assolutismo per salvare la monarchia. Allora
l’esperimento riuscì e l’ancien régime durò ancora più di un secolo. Ma,
si sa, quando la storia si ripete, la tragedia si trasforma in farsa. Berlusco-
ni e la sua corte non sono Re Sole, abitano ad Arcore e non a Versailles.
Perse le elezioni, non ci hanno pensato un attimo a scaricarlo.
Dopo Tremonti, è da aspettarsi un tentativo di restaurazione neocen-
trista nella politica economica, con il ritorno alle pratiche dell’epoca del
neoliberismo trionfante, prima tra tutti quella della concertazione a tutto
campo per smorzare il risorgente conflitto sociale. Però non funzionerà,
perché per superare la grave crisi economica occorre cambiare il model-
lo che l’ha generata. Se è vero, come è vero, che gli assetti reali del pote-
re neoliberista oggi sono i principali ostacoli alla ripresa, essi devono es-
sere sconfitti non, come voleva Tremonti, con manovre interne di palaz-
zo o con giochi di prestigio, ma con una grande mobilitazione sociale che
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le che tra non molto lo diventeranno di diritto. Ma chi sono queste ban-
che? Sono i principali gruppi bancari del paese, i cui maggiori azionisti
sono le fondazioni bancarie, la cui natura è, come abbiamo visto, sia pu-
re in una forma contorta e ambigua, pubblica. Al di là delle complicate
interpretazioni giuridiche, resta il fatto sostanziale che nessun soggetto
privato è proprietario delle fondazioni, nessun cittadino o nessuna im-
presa ha mai cacciato un solo euro per finanziare o acquistare la proprietà
delle fondazioni bancarie. Le fondazioni hanno ottenuto il patrimonio
azionario delle banche perché lo Stato glielo ha affidato per legge, senza
alcuna ricompensa da parte di nessuno. Se questo è vero, allora possiamo
concludere che già oggi la Fiat è, indirettamente e di fatto, in mani pub-
bliche, ma continua ad essere gestita da soggetti privati che dovrebbero
anche deciderne le sorti finali a scapito dell’intera collettività! La via per
la nazionalizzazione dell’industria automobilistica nazionale è quindi già
tracciata e non costerebbe praticamente nulla alle casse dello Stato. Si
tratterebbe soltanto di trovare la forma giuridica, da definire in via legi-
slativa, per rendere questa situazione di fatto anche una situazione di di-
ritto, sulla base delle preferenze in merito all’allocazione della proprietà
azionaria di controllo in una holding pubblica, direttamente allo Stato
centrale o in comproprietà con il sistema delle autonomie locali. Questa
scelta allocativa della proprietà deve essere naturalmente coerente con il
disegno strategico futuro che si vuole dare alla nuova Fiat nazionalizzata
e da questo punto di vista le prospettive possono essere davvero promet-
tenti per ridefinire l’ossatura strategica del nostro modello di sviluppo.
La Fiat pubblica potrebbe essere la spina dorsale produttiva di una
nuova industria pubblica della mobilità, avente lo scopo di riprogramma-
re il sistema dei trasporti del nostro paese, attraverso lo sviluppo di siste-
mi alternativi al trasporto privato su gomma e la minimizzazione degli im-
patti ambientali. La produzione di automobili per il consumo privato do-
vrebbe essere soltanto uno dei settori di attività della nuova industria pub-
blica e dovrebbe caratterizzarsi per una marcata specializzazione verso
vetture a bassa emissione di inquinanti, come ad esempio auto che utiliz-
zano mezzi di combustione alternativi ai derivati petroliferi (metano, idro-
geno, elettricità, biomasse). Possiamo essere certi che, per una serie di fat-
tori non soltanto di carattere ambientale (basti pensare all’inevitabile au-
mento dei costi del petrolio), il futuro dell’automobile evolverà necessa-
riamente verso questa prospettiva. Le case automobilistiche che per pri-
me si posizioneranno lungo questa traiettoria godranno di notevoli van-
taggi competitivi. Una industria pubblica, non condizionata dalla ricerca
ossessiva di una redditività immediata, sarebbe in grado di affrontare con
successo i grandi investimenti necessari per questo tipo di specializzazio-
ne, potendo anche contare, nell’ambito di un coordinamento strategico
delle attività pubbliche per la R&S, di economie di scala derivanti dall’in-
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questa vitale risorsa, perché anzi ne siamo ricchi. La carenza d’acqua non
è un fenomeno naturale ma la conseguenza dell’incuria umana, perché gli
acquedotti e i sistemi di distribuzione delle risorse idriche sono fatiscen-
ti o inesistenti, cosicché una gran parte dell’acqua prelevata alla sorgente
si disperde prima di giungere nelle case. Non è questo un problema che
attiene soltanto all’enorme disagio causato ai cittadini. Infatti, come si
può pensare che nascano attività industriali, agricole e produttive in zo-
ne dove l’acqua deve essere distribuita con i camion cisterna in quantità
assolutamente insufficienti e con costi elevatissimi? Allora, invece di crea-
re nuove autostrade, che non si sa dove far passare per quanto ne siamo
pieni, sarebbe meglio progettare un grande piano di ammodernamento e
di riqualificazione del sistema idrico con l’obiettivo di portare in un trien-
nio l’acqua in quantità sufficiente in ogni comune e in ogni casa del no-
stro paese, in modo da risolvere per sempre questo annoso problema.
Inoltre, l’Italia, ricco paese industriale, ha ancora un sistema ferroviario
incompleto. Nei rari casi in cui esistono, la gran parte delle linee ferrovia-
rie del Mezzogiorno è a un solo binario e ciò comporta lentezze, disfun-
zioni e riduzione del potenziale traffico di merci e di passeggeri. Invece di
spendere montagne di euro per risparmiare cinque minuti nella tratta di
alta velocità Torino-Lione, non sarebbe meglio costruire ferrovie e metro-
politane leggere in quella grande parte del territorio, ad alta densità di po-
polazione, dove mancano del tutto oppure sono a dir poco fatiscenti?
Oppure, il sistema catastale di una buona parte dei comuni italiani è
ancora quello dell’Ottocento, stipato in archivi cartacei polverosi e rosic-
chiati dai topi, che certificano lo stato di un territorio urbano che ormai
non esiste più da un pezzo, radicalmente cambiato dalle opere di trasfor-
mazione edilizia nel frattempo intervenute. Tutto ciò comporta, oltre a
gravi inefficienze burocratiche a danno dei cittadini e delle imprese, l’im-
possibilità di una seria pianificazione del territorio e di un efficace siste-
ma di riscossione delle imposte sugli immobili. Non si potrebbero assu-
mere per cinque anni centomila giovani tecnici e geometri con il compi-
to di aggiornare e informatizzare l’intero sistema catastale, come avviene
periodicamente in ogni paese civile? A beneficiarne sarebbero non sol-
tanto l’ambiente, il paesaggio e i cittadini, in termini di lotta all’abusivi-
smo e al dissesto idrogeologico e di efficienza dei servizi, ma anche, e in
modo considerevole, le casse dello Stato perché le risorse introitate, in
termini di lotta all’evasione fiscale, supererebbero di gran lunga i costi di
un’operazione di questo genere.
Infine, il problema della casa. A differenza di quanto avviene in tutti
gli altri paesi, in Italia la gran parte delle famiglie possiede la proprietà
dell’abitazione dove vive. Questo è senz’altro un bene. Un quarto delle
famiglie italiane, tuttavia, vive in affitto, e le persone che intendono spo-
starsi per lavoro, anche se sono proprietarie di una casa nel luogo di ori-
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zione del mondo e della vita (commercio equo, finanza etica, consumo
critico, produzioni naturali e biologiche, cooperazione e solidarietà inter-
nazionale, volontariato sociale). Queste esperienze hanno lentamente se-
dimentato, fino a confluire nel movimento altromondialista e a raggiun-
gere così una dimensione di massa.
Queste nuove reti economiche e sociali, sottratte alla logica mercanti-
le, si sono sviluppate però anche in un rapporto di alterità, quando non di
ostilità, nei confronti dello Stato e della dimensione politico-istituzionale.
La forza e il limite di queste esperienze è stata la loro particolarità, la lo-
ro unicità, la loro diffidenza nei confronti di un progetto generale di tra-
sformazione. In questa loro dimensione concreta hanno trovato la moti-
vazione per crescere e durare, dando vita a spazi di autodeterminazione
liberati dall’ossessione competitiva. L’efficacia del risultato concreto, di
una nuova e ricca esperienza individuale nel lavoro e nelle relazioni inter-
personali sono stati i loro principali punti di forza. E questa loro vitale e
molecolare persistenza, nonostante le tentazioni di risucchio del modello
dominante, ha contribuito a erodere la legittimità dell’ideologia neolibe-
rista, concorrendo alla sua crisi. Tuttavia, questa dimensione concreta e
puntuale è stata spesso vissuta soggettivamente come una lontananza, per-
sonale e ideale, verso un disegno complessivo di politica economica e più
in generale verso le sfere proprie delle istituzioni e dello Stato5.
Oggi però cresce il bisogno di individuare un progetto unificante, di
legare i tanti nodi costituiti dalla pluralità di queste esperienze in una re-
te in grado di occupare non più solo le nicchie, ma l’insieme della società.
E la crescita di questo bisogno deriva proprio dalla consapevolezza della
crisi irreversibile dell’utopia negativa neoliberista e dall’urgenza di un’al-
ternativa di modello, non più solo di esperienze puntuali. Il compito, ar-
duo e difficile, è quello di generalizzare le particolarità, di costruire un
nesso organico tra di esse, di fare società senza disperdere il carattere
concreto, calibrato sui bisogni individuali delle esperienze di economia
alternativa. Il filo rosso che può legare queste esperienze e produrre un
progetto generale è quello della ricostruzione di un nuovo spazio pubbli-
co e sociale. È su questo terreno, su queste aspirazioni che esse si inter-
secano con la ricerca di una nuova politica economica fondata su un qua-
lificato intervento pubblico.
Questo però non deve essere pensato come un semplice ritorno al pas-
sato. Sia nelle esperienze del socialismo reale, sia in quelle delle economie
miste, la logica dell’intervento pubblico nell’economia è stata interna a un
modello di sviluppo quantitativo, in cui la massimizzazione della crescita
economica, misurata in termini di valore monetario, costituiva lo scopo
finale. La concorrenza al modello liberista si svolgeva sul terreno di una
identica concezione dello sviluppo: l’intervento pubblico era giustificato
soltanto dal fatto che esso poteva garantire una crescita maggiore, maga-
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sfera dell’economia privata. I beni e i servizi essenziali alla vita umana e na-
turale sono rivendicati come beni comuni (acqua, aria, energia, ma sempre
più anche salute, istruzione, informazione e comunicazione). I beni comu-
ni sono proprietà di tutti e di nessuno. Di tutti perché appartengono di-
rettamente alla comunità, alla collettività e non alla sua astrazione istitu-
zionale, allo Stato. Di nessuno perché la loro fruizione universale e gratui-
ta e la loro salvaguardia integrale non può essere mutata, non è disponibi-
le per nessuno, nemmeno per la comunità stessa. Infatti, i beni comuni ap-
partengono alle generazioni passate, presenti e future. Le passate perché
hanno conservato, tramandato e migliorato col loro lavoro e con la loro
lungimiranza i beni comuni. Le future perché dovranno goderne allo stes-
so modo delle presenti. La gestione dei beni comuni è così sottratta per
principio a qualsiasi forma di utilizzazione e valorizzazione economica.
Non hanno valore di scambio ma solo valore d’uso. Naturalmente la defi-
nizione giuridica del concetto di bene comune è ancora incompleta e ap-
prossimativa, anche se le sue origini sono molto antiche e risalgono ad al-
cune forme di proprietà pre-capitalistica, come le comunanze agrarie e le
terre comuni. Tuttavia, la rivendicazione materiale e la precisazione giuri-
dica del bene comune è un aspetto fondamentale per un’economia alter-
nativa e definisce la direzione e il significato di un nuovo intervento pub-
blico nell’economia. Infatti, un nuovo intervento pubblico deve essere
pensato come leva di un nuovo modello di sviluppo fondato sui principi
dell’equità sociale, della partecipazione democratica e della coscienza eco-
logica di rispetto dei cicli naturali. Ad esso deve anche corrispondere una
nuova misurazione dello sviluppo: dagli indicatori di crescita economica
quantitativa (PIL) occorre passare a indicatori più complessi e significativi
di benessere collettivo, come gli indici di sviluppo umano.
Infine, accanto alla dimensione macroeconomica, occorre una nuova
dimensione microeconomica. Una diversa concezione dell’impresa, pub-
blica e privata, è necessaria di fronte alle deformazioni e alle degenera-
zioni che sono state clamorosamente portate alla luce dai numerosi crack
finanziari di questi ultimi anni. La fuoriuscita dal modello neoliberista
implica quindi anche la definizione di una concezione dell’impresa di-
versa e alternativa rispetto a quella oggi dominante. D’altra parte, i limiti
e anche gli insuccessi del vecchio modello di impresa statale, sia di quel-
lo prevalente nei paesi del socialismo reale sia di quello dei paesi a eco-
nomia mista, impone oggi di sviluppare una concezione dell’impresa in-
novativa, che valorizzi gli elementi di partecipazione dei lavoratori e dei
consumatori, all’interno di un più generale rilancio della programmazio-
ne economica pubblica. In questo senso, la questione della responsabilità
sociale dell’impresa, insieme alla ripresa della riflessione sull’autogestio-
ne e sulla democrazia partecipativa, costituisce una parte importante del-
la ricerca di un’alternativa al neoliberismo.
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Saldo
Anno Interessi Residuo(3) Debito/PIL
primario(2)
1991 0,0 + 2,1 + 1,3 100,6
1992 - 1,8 + 6,3 + 2,6 107,7
1993 - 2,4 + 8,9 + 3,8 118,1
1994 - 1,8 + 5,1 + 2,4 123,8
1995 - 4,0 + 2,3 + 1,1 123,2
1996 - 4,4 + 4,1 - 0,7 122,1
1997 - 6,8 + 4,6 - 0,1 119,8
1998 - 5,4 + 3,3 - 1,5 116,2
1999 - 5,0 + 3,6 + 0,3 115,1
2000 - 6,2 + 0,6 + 1,0 110,5
2001 - 5,0 + 2,2 + 2,1 109,8
2002 - 3,8 + 2,3 + 1,2 109,4
Tot.
- 46,6 + 45,3 + 13,5 + 12,2
1991-2002
SIMULAZIONE: DEBITO NEL 2002 CON VARIAZIONE NULLA
(4)
DEGLI ALTRI FATTORI
(1) Il segno meno indica che il fattore ha fatto diminuire il rapporto debi-
to/PIL; il segno più che lo ha fatto crescere.
(2) Il saldo primario è la differenza tra le entrate statali e la spesa pubblica
al netto degli interessi.
(3) La componente residuale del debito pubblico è data dalla differenza tra
il disavanzo di competenza e il fabbisogno di cassa e deriva da operazioni
straordinarie di carattere finanziario (dismissioni e regolazione debiti).
(4) In ciascuna riga è indicato il valore totale che avrebbe avuto il rapporto
debito pubblico/PIL nel 2002 qualora i fattori indicati nelle altre due righe
della tabella non fossero variati.
Tabella 25. Fattori della crescita del debito pubblico italiano(1). Dati in percentuale del PIL
(1991-2002). (Fonte: nostre elaborazioni su dati Banca d’Italia, Relazione del governato-
re, vari anni).
Infatti, le cose sono andate nel senso opposto a causa dell’impatto ne-
gativo degli altri due fattori, a cui è interamente da addebitare l’aumento
del debito pubblico. La parte del leone la fa la spesa per interessi che, da
sola, è responsabile dell’aumento del 45,3 per cento nel rapporto debi-
to/PIL. Nel periodo considerato abbiamo avuto ben 1.090 miliardi di euro
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:41 Pagina 293
di spesa per interessi, cioè ogni anno lo Stato ha in media trasferito ai pos-
sessori di titoli pubblici il 9,5 per cento del PIL, una volta e mezzo in più di
quanto ha speso per sanità e servizi sociali. Possiamo concludere, quindi,
che il debito pubblico è rimasto così elevato perché è servito a pagare gli
interessi alla comunità finanziaria e che tutti i sacrifici sopportati dai citta-
dini in più di un decennio, in termini di aumento delle tasse e di riduzio-
ne dei servizi pubblici, hanno giovato soltanto per remunerare di più il ca-
pitale finanziario. In realtà, quindi, la vera e sola causa del continuo au-
mento del debito pubblico non risiede nell’eccesso di intervento dello Sta-
to nell’economia, ma risiede altrove e precisamente nella politica moneta-
ria che è stata condotta nell’ultimo decennio, dalla Banca d’Italia prima e
dalla BCE poi, e nella politica di gestione del debito pubblico del ministero
del Tesoro. È stata la spesa per interessi che si è mangiata completamente
i tagli alla spesa pubblica, facendo lievitare ancor di più il debito pubblico.
Una obiezione di apparente buon senso che si potrebbe rivolgere alla te-
si qui sostenuta è quella che afferma che il pagamento degli interessi è ob-
bligatorio a meno di voler derubare coloro che hanno investito in titoli di
Stato. In realtà così non è. La condizione per porre una variazione nulla del
fattore della spesa per interessi sulla crescita del debito pubblico è molto
meno stringente e meno onerosa per i possessori di titoli di Stato. Se il tas-
so di interesse reale, depurato dall’inflazione, fosse pari al tasso di crescita
del PIL, la spesa per interessi sarebbe neutra rispetto alla variazione del de-
bito pubblico. In altri termini, se la rendita finanziaria fosse aumentata (ba-
date bene aumentata, non diminuita!) allo stesso modo di tutti gli altri red-
diti da lavoro o da impresa, il rapporto debito pubblico/PIL sarebbe sceso
nel 2002, a parità di altre condizioni, al 64,1 per cento. Se invece, come è
accaduto, il tasso di interesse pagato sul debito pubblico è superiore al tas-
so di crescita del PIL, si verifica uno spostamento di ricchezza verso la ren-
dita finanziaria e una tendenza automatica all’aumento del rapporto debi-
to/PIL. La condizione di neutralità della spesa per interessi implica, infatti,
semplicemente una quota costante della rendita finanziaria pubblica sulla
distribuzione del reddito. Quello che è avvenuto in realtà nel corso degli
anni Novanta è stata una colossale redistribuzione del reddito a favore del-
la rendita e a scapito dei redditi da lavoro, gestita direttamente dallo Stato
e pagata con il taglio delle spese sociali e con la riduzione dei salari reali net-
ti. L’ammontare del trasferimento di reddito da parte dello Stato a favore
della rendita finanziaria, derivante da tassi di interesse reali molto superio-
ri al tasso di crescita del PIL, è impressionante, e pari in media a più di ven-
ticinque miliardi di euro all’anno per quasi quindici anni consecutivi!
Ma non è finita qui. La cosa ancora più strabiliante la si può ricavare
da un altro, semplice esercizio di simulazione, supponendo che nell’ulti-
mo decennio i tassi di interesse reali in Italia fossero stati uguali a quelli
vigenti negli USA, dove di sicuro non si può dire che la rendita finanziaria
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:41 Pagina 294
se la passi poi tanto male. Se la Banca d’Italia prima e la BCE poi avesse-
ro adottato una politica monetaria analoga a quella della Federal Reser-
ve, il fattore spesa per interessi avrebbe contribuito alla riduzione del 2,8
per cento del rapporto debito/PIL in Italia. Ovvero, se i tassi di interesse
reali in Italia fossero stati uguali a quelli statunitensi, a parità di altre con-
dizioni, nel 2002 ci saremmo ritrovati con un rapporto debito/PIL pari al
61,3 per cento, sostanzialmente in linea con il parametro di Maastricht!
Ma è ragionevole ipotizzare che il beneficio reale sarebbe stato addirittu-
ra maggiore, considerando che con tassi di interesse reali significativa-
mente più bassi la crescita del PIL sarebbe stata ben più elevata. La ne-
cessità oggi di una riduzione dei tassi di interesse, di fronte alla stagna-
zione economica, non deriva tanto dall’effetto diretto sui consumi e sugli
investimenti privati, quanto dall’allargamento degli spazi di intervento
pubblico che essa consentirebbe.
Ma, accanto agli alti tassi di interesse, esiste anche un’altra causa che
ha impedito una riduzione del livello di indebitamento pubblico e cioè
la politica di gestione del debito adottata, in particolare negli ultimi an-
ni, dal ministero del Tesoro. Vediamo infatti quali sono stati gli effetti
della politica economica del governo Berlusconi. Nel DPEF per il 2004 il
governo ha previsto una spesa per interessi pari al 5,1 per cento del PIL,
che equivale a un tasso di rendimento medio dei titoli del debito pub-
blico del 4,9 per cento nominale e del 2,8 per cento reale, ben superio-
re alla crescita del PIL stimata dallo stesso governo. La stessa cosa è ac-
caduta nel 2003, quando la remunerazione della rendita pubblica ha su-
perato di due punti percentuali la crescita del reddito, e negli anni pre-
cedenti. Anche per gli anni successivi, fino al 2007, il governo prevede
che la rendita pubblica cresca più del reddito complessivo. Eppure ne-
gli ultimi anni abbiamo assistito a una caduta verticale dei tassi di inte-
resse. I BOT sono stati collocati sul mercato a tassi ben inferiori al 2 per
cento; i BTP quinquennali a tassi intorno al 2,5 per cento. Solo i tassi a
lungo e lunghissimo termine hanno rendimenti reali positivi. In una si-
tuazione dei mercati finanziari così favorevole esistevano le condizioni
per una significativa riduzione della spesa per interessi, considerando
che nel biennio 2003-04 si rinnovava circa la metà dei titoli in circola-
zione. Sarebbe bastato accorciare di qualche mese la vita media del de-
bito, oggi pari a quasi sei anni, per sfruttare i bassi tassi di interesse a
breve e medio termine senza nessuna conseguenza per la credibilità fi-
nanziaria dello Stato.
Invece, la gestione del debito pubblico è stata esattamente opposta.
Nel solo 2003 la vita media del debito è aumentata di cinque mesi e ciò
ha impedito di cogliere pienamente gli effetti della riduzione dei tassi. Il
Tesoro ha continuato a emettere titoli a lungo e lunghissimo termine,
quelli oggi più onerosi per le casse dello Stato, non solo per rinnovare
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:41 Pagina 295
re una limitata riduzione della scadenza media del debito senza incorre-
re in rischi di alcun tipo per la stabilità finanziaria dello Stato, a maggior
ragione dopo l’entrata nell’euro. Se tutto ciò non è stato ancora fatto è
perché si sono voluti privilegiare più gli interessi dei mercati finanziari
che quelli di una corretta gestione delle finanze pubbliche.
La tesi diffusa circa l’esaurimento di spazi per politiche fiscali espan-
sive è quindi falsa e fuorviante. Esse richiedono semplicemente uno stret-
to coordinamento con la politica monetaria e la gestione del debito pub-
blico, in modo da rendere convergenti e omogenei gli obiettivi dei diver-
si attori della politica economica. Fino a oggi, la massima remunerazione
della rendita finanziaria è stata la variabile indipendente della politica
economica, a cui tutto si è dovuto adeguare. Per questo, lo scontro di po-
litica economica tra destra e sinistra (se e quando c’è stato) è avvenuto
sulla distribuzione dei sacrifici. Se passassimo a un’ottica di crescita e di
sviluppo, dove anche la politica monetaria e la gestione del debito sono
al servizio di obiettivi politici e sociali, lo scontro politico potrebbe ver-
tere invece sulla distribuzione dei benefici e sulla qualità dello sviluppo.
Dopo circa quindici anni consecutivi di pesanti manovre fiscali, carat-
terizzate da drastici interventi antipopolari di taglio e restrizione della
spesa, i conti pubblici non si trovano più in una condizione di emergen-
za. Il risanamento del bilancio pubblico è stato, in larga misura, compiu-
to, anche se permangono al suo interno distorsioni, sprechi e ingiustizie
sociali derivanti dalla sua composizione qualitativa e non dalla sua di-
mensione. Il livello persistentemente elevato del debito pubblico italiano
non deriva quindi da uno Stato “spendaccione”, ma dall’elevato livello
dei tassi di interesse reali, che sono rimasti fino a oggi su valori netta-
mente superiori al tasso di crescita dell’economia. In questa condizione,
ciò che deve impressionare non è l’alto livello del debito pubblico anco-
ra esistente, ma semmai, al contrario, il fatto che il debito pubblico non
sia esploso e sia rimasto sotto controllo, addirittura con una tendenza in
graduale riduzione.
La combinazione di politiche monetarie antinflazionistiche e di politi-
che fiscali restrittive, caratteristiche dell’epoca di Maastricht, ha ridotto
la crescita economica e, in tal modo, ha contribuito a mantenere alto il
rapporto debito/PIL, agendo su entrambi i lati: aumento esponenziale
della spesa per interessi e riduzione del tasso di crescita del PIL. Invece, il
metodo più efficace per ridurre il debito, una volta stabilito il controllo
sulla dinamica della spesa primaria, è quello della crescita economica.
Siamo ormai da tempo giunti in tale situazione. Soltanto un innalzamen-
to strutturale della crescita potrà liberare il nostro paese dal fardello di un
debito pubblico superiore al reddito annuo. Se non si imbocca rapida-
mente questa strada, è reale il rischio di prolungare indefinitamente la
spirale perversa, il circolo vizioso, fatto da alti interessi-aumento del de-
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:41 Pagina 297
Accanto alla spesa per interessi vi sono altre voci di uscita nel bilancio
pubblico che dovrebbero essere tagliate per liberare risorse a favore di
una nuova politica economica. Le principali sono le spese militari e i sus-
sidi alle imprese.
Nel bilancio 2003 le spese militari sono ammontate complessivamen-
te a 13,8 miliardi di euro, pari all’1,1 per cento del PIL. Per il 2004, il bi-
lancio di previsione presentato dal governo ha previsto un aumento del-
le spese per la Difesa di 285,4 milioni di euro, per un totale di 14,1 mi-
liardi. A queste vanno aggiunte i 1.200 milioni di euro richiesti per il man-
tenimento semestrale dei contingenti militari italiani all’estero, in primo
luogo in Iraq e in Afghanistan. Le prime due voci di spesa militare in ter-
mini di stanziamento riguardano le spese per il personale (7,5 miliardi,
+6,7 per cento sul 2003) e le spese per investimento in nuovi sistemi d’ar-
ma (3 miliardi).
È da rilevare come per le Forze Armate pare non valgano le stesse re-
gole valide per tutti gli altri dipendenti pubblici. Infatti, mentre per il
complesso del personale pubblico si prevede un incremento di spesa pa-
ri all’1 per cento, per il personale della Difesa l’incremento sarà del 6,7
per cento. Ciò potrebbe far supporre che le remunerazioni dei soldati e,
soprattutto, degli ufficiali saranno ben superiori al tasso di inflazione
programmata e che per Esercito, Marina e Aeronautica non vale il bloc-
co delle assunzioni pubbliche. In realtà quelle maggiori risorse serviran-
no non per aumentare il soldo ordinario, ma per remunerare le presta-
zioni straordinarie dei militari italiani impegnati in operazioni in zone di
guerra.
I programmi per i nuovi armamenti, tra l’altro, comprendono: la nuo-
va portaerei Andrea Doria (186 milioni), le fregate Orizzonte (155 milio-
ni), i sommergibili U212 (105 milioni), i caccia intercettori Eurofighter
(434 milioni), il nuovo supercaccia americano JSF F35 (126 milioni), i cac-
cia Tornado (186,5 milioni), nuovi aerei da trasporto (273 milioni), nuo-
vi elicotteri (316 milioni). Come si vede, la qualità e la quantità di acqui-
sizione di nuovi armamenti è imponente e di certo non calibrata per eser-
citare funzioni di difesa del territorio nazionale, ma proiettata verso un
uso al di fuori dei nostri confini. Mentre, quindi, il governo Berlusconi si
premura di tagliare le spese sociali e di ridurre le pensioni presenti e fu-
ture, non lesina fondi e risorse per dotare le nostre Forze Armate delle
più moderne armi di offesa e di attacco.
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:41 Pagina 298
l’FBI riuscì, dopo anni e anni di indagini, a incastrare il noto gangster non
per le sue attività criminali, ma per i reati di falso in bilancio, di frode ed
evasione fiscale. Se Capone avesse avuto a disposizione una legislazione
fiscale come quella costruita dal governo Berlusconi, non avrebbe di cer-
to concluso i suoi giorni in prigione!
invece se consideriamo la quota dei diversi redditi sul gettito totale delle
imposte dirette: le tasse pagate dal lavoro dipendente ammontano al 55,3
per cento contro il 44,7 per cento degli altri redditi. In questo modo i red-
diti da lavoro dipendente, al netto dell’imposizione fiscale diretta, scen-
dono al 37,7 per cento del totale, mentre quelli da capitale e da lavoro au-
tonomo salgono al 62,3 per cento. Se il sistema fiscale fosse neutro ri-
spetto alla distribuzione del reddito le quote sul reddito totale dovrebbe-
ro rimanere identiche sia prima che dopo il prelievo fiscale diretto. Se, co-
me stabilisce la Costituzione, fosse progressivo, i redditi da lavoro dipen-
dente e assimilati, comprese quindi le pensioni, dovrebbero pesare sul to-
tale delle entrate dirette meno di quanto pesano sul reddito totale. Pos-
siamo allora concludere che il sistema tributario agisce in senso regressi-
vo, operando una rilevante redistribuzione del reddito ai danni del lavo-
ro dipendente e a vantaggio dei redditi da capitale e da impresa. L’am-
montare della redistribuzione è enorme: qualora il fisco fosse neutrale ri-
spetto alle diverse categorie di reddito, cioè il prelievo fosse semplice-
mente proporzionale al reddito, i lavoratori dipendenti e i pensionati do-
vrebbero pagare, a parità di gettito totale, 11,7 miliardi di euro di tasse in
meno di quelle che effettivamente pagano e viceversa per i redditi da ca-
pitale e da impresa. In altre parole, è come se ogni lavoratore dipenden-
te e ogni pensionato regalassero ogni mese trentacinque euro alle impre-
se e ai possessori di attività finanziarie!
Le diverse stime sulla consistenza dell’economia sommersa o in nero,
calcolate sulla base di differenti metodi di misurazione, sono tutte con-
cordi nel rilevare che l’Italia è di gran lunga il paese industriale dove que-
sto fenomeno è più esteso. Una recente ricerca, effettuata sulla base dei
dati relativi al mercato monetario, fornisce una stima per la quota di eco-
nomia sommersa sul PIL italiano che sfiora il 30 per cento, oltre il doppio
della media dei paesi dell’OECD6. Le stime dell’ISTAT sono più prudenti e
affermano che la quota di prodotto annuo sottratto al fisco oscilla tra il
17 per cento e il 20 per cento, anche se il divario relativo con gli altri pae-
si industriali rimane dello stesso ordine di grandezza.
Rimanendo nell’ambito della cautela e assumendo i valori dell’econo-
mia sommersa sulla base delle stime più basse, possiamo affermare che
nel 2004 ci sono stati in Italia almeno 220 miliardi di euro di reddito pro-
dotto che non sono stati sottoposti a nessun prelievo tributario. Sulla ba-
se di queste analisi si può stimare che, tra prelievo fiscale e contributi so-
ciali evasi, le amministrazioni pubbliche hanno subito nel 2004 una sot-
trazione di risorse per circa novanta miliardi di euro. La reiterata propo-
sizione di condoni fiscali attuata dal governo Berlusconi ha già prodotto
l’effetto di incrementare il fenomeno dell’evasione fiscale. La lotta all’e-
vasione e all’elusione fiscale non è mai stata condotta con convinzione e
con efficacia. Una forte volontà politica e amministrativa consentirebbe,
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:41 Pagina 305
Aumento della tassazione sugli utili delle società di capitale. Fino al 2002
l’aliquota IRPEG sui profitti di impresa era del 36 per cento. La legge fi-
nanziaria del 2003 ha ridotto al 34 per cento tale aliquota. Il decreto at-
tuativo della riforma fiscale per le imprese la ridurrà ancora, portandola al
33 per cento. Va ricordato che l’IRPEG è un’imposta che si paga sugli utili
delle società di capitale. La grande parte delle piccole imprese italiane ha
una forma giuridica diversa, essendo principalmente costituita da imprese
individuali, imprese familiari e società di persone. La riduzione dell’IRPEG
decisa dal governo Berlusconi va a vantaggio, quindi, principalmente del
sistema delle imprese medio-grandi e per nulla a vantaggio dei lavoratori
autonomi e dei piccoli dettaglianti. Il ripristino dell’aliquota IRPEG al 36
per cento potrebbe dare un gettito aggiuntivo pari a 4,5 miliardi di euro.
Aumento dell’aliquota sul reddito delle persone più ricche. La legge de-
lega sulla riforma fiscale, approvata dal Parlamento, prevede che a regi-
me le aliquote dell’IRPEF vengano ridotte a due soltanto, dalle precedenti
cinque. Con la legge finanziaria del 2003 è stata abolita l’aliquota minima
del 18 per cento, unificando il primo con il secondo scaglione di reddito
al 23 per cento. Quando l’intera riforma sarà attuata i redditi fino a cen-
tomila euro saranno assoggettati a un’aliquota del 23 per cento, quelli su-
periori al 33 per cento. Solo lo 0,5 per cento dei contribuenti ricadrà nel-
la seconda aliquota. In questo modo, il governo Berlusconi intende por-
tare a definitivo compimento una tendenza, che dura ormai da molto
tempo, a ridurre il carattere progressivo dell’imposta sul reddito e a ridi-
mensionare il ruolo redistributivo del sistema fiscale. Basta ricordare che
quando fu istituita l’IRPEF, nel 1974, l’aliquota massima superava l’80 per
cento. Nel corso dei trent’anni successivi si è proceduto a una costante ri-
duzione dell’aliquota massima e a un accorpamento degli scaglioni di
reddito, che all’inizio erano ben trentadue. In ogni caso, fino al 1997 l’a-
liquota massima era stabilita al 51 per cento. Essa fu portata nel 1998 al
45,5 per cento e infine nel 2001 al 45 per cento. Una politica fiscale orien-
tata all’equità dovrebbe andare in direzione esattamente opposta, ridu-
cendo il carico fiscale per i redditi più bassi e aumentandolo per quelli
più alti. Un modesto incremento dell’aliquota IRPEF per l’ultimo scaglio-
ne di reddito (quello oltre i settantamila euro di reddito individuale an-
nuo) dal 45 per cento al 47 per cento produrrebbe un aumento delle en-
trate pari a 3,5 miliardi di euro.
voro, quindi, si pagano in media circa ventisette euro di tasse, più i con-
tributi previdenziali del 32,7 per cento, mentre sugli stessi cento euro di
interessi su titoli o su azioni se ne pagano solo 12,5, senza nessun contri-
buto previdenziale. Inoltre, le aliquote fiscali sulle attività finanziarie so-
no le stesse per tutti: le famiglie Agnelli o Berlusconi pagano, sui rendi-
menti dei loro enormi patrimoni finanziari, il 12,5 per cento di imposte,
come il povero pensionato che ha investito i suoi magri risparmi in titoli
di Stato. In termini di efficienza, la diversificazione dell’aliquota sostitu-
tiva secondo lo strumento finanziario posseduto favorisce alcune forme
di risparmio rispetto ad altre e guarda caso, come abbiamo visto nel ca-
pitolo 9, sono penalizzate proprio le forme di risparmio detenute dalle fa-
miglie più povere, come i depositi in banca. La riforma proposta dal go-
verno, se risolve il problema dell’efficienza, aggrava enormemente il pro-
blema dell’equità dell’imposizione fiscale a tutto vantaggio della rendita
e del profitto e a danno del lavoro. Bisognerebbe invece inserire i reddi-
ti di natura finanziaria nell’ambito della imposizione progressiva sul red-
dito, prevedendo l’opzione di usufruire di un’imposizione sostitutiva del
36 per cento (pari all’aliquota IRPEG proposta). In questo modo, i reddi-
ti di natura finanziaria saranno sottoposti allo stesso prelievo fiscale che
grava sui redditi da lavoro, introducendo un criterio basilare di equità se-
condo cui ogni reddito, indipendentemente da come guadagnato, paga le
stesse tasse. Inoltre, si stabilirà così il principio costituzionale di progres-
sività delle imposte anche per i redditi finanziari: chi più ha, più deve pa-
gare. Per evitare che da questo nuovo regime di tassazione sfuggano le
rendite finanziarie pagate agli investitori esteri, occorrerebbe istituire una
trattenuta alla fonte a titolo d’acconto almeno pari all’aliquota minima
dell’imposta sul reddito (23 per cento) per tutte le attività finanziarie. Le
cifre ricavabili per il bilancio dello Stato sarebbero enormi. Stime effet-
tuate per il 2003 danno una probabile maggiore entrata, derivante dalla
perequazione fiscale per fonte di reddito, di ben nove miliardi di euro.
Quando si avanzano proposte di maggiore tassazione della rendita fi-
nanziaria, non manca mai qualcuno che si affretta a sollevare due tipi di
obiezioni, riguardanti da un lato la presunta fuga di capitali e il conse-
guente crollo del mercato finanziario e, dall’altro, l’onere che colpirebbe
in primo luogo le famiglie medie italiane che hanno comprato titoli fi-
nanziari, in particolare quelli del debito pubblico. Esaminiamo allora
quanto queste obiezioni siano fondate, cominciando col vedere come la
rendita finanziaria è tassata negli altri paesi europei8.
Innanzitutto osserviamo che in base al regime di tassazione della rendi-
ta finanziaria l’UE è esattamente spaccata a metà. Oltre all’Italia vi sono al-
tri sette paesi (Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Grecia, Portogallo e Sve-
zia) dove la rendita finanziaria è soggetta a tassazione separata da quella del
reddito e sette paesi (Danimarca, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Olan-
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verebbe sarebbe tale da agire nel senso di una riduzione dei rapporti de-
ficit/PIL e debito pubblico/PIL nel medio periodo. Come già detto, per
migliorare i saldi di finanza pubblica dobbiamo ormai intervenire sul de-
nominatore di questi rapporti (il PIL) e non più, come accade da quindi-
ci anni, sempre sui numeratori (deficit e debito). Solo una decisa ripresa
dei trend di crescita economica è in grado di far uscire l’Italia dalla pe-
renne emergenza del bilancio pubblico.
Né le misure di politica economica proposte comportano un insop-
portabile aumento della pressione fiscale. Le cifre illustrate in questo ca-
pitolo sono il frutto di un calcolo sommario e approssimativo (anche se
tutte derivano da elaborazioni su dati ufficiali), che non ha alcuna prete-
sa di essere esatto fino all’ultimo centesimo, tuttavia l’ordine di grandez-
za dell’impatto sul bilancio pubblico è, senza dubbio, pari a diverse deci-
ne di miliardi di euro. Soltanto una parte di queste risorse sarebbe ne-
cessaria per avviare una nuova politica di spesa pubblica finalizzata alla
redistribuzione del reddito e a un nuovo intervento dello Stato nell’eco-
nomia, come delineato nei due capitoli precedenti. Una parte rilevante
(diciamo venti miliardi di euro?) potrebbe essere destinata ad alleviare il
carico fiscale per i lavoratori dipendenti, per i pensionati e per le famiglie
meno abbienti.
Alla fine di tutto, quindi, la pressione fiscale totale aumenterebbe di po-
co, intorno all’1 per cento del PIL. Sarebbe un grave problema? Assoluta-
mente no, perché la pressione fiscale in Italia è perfettamente in linea con
la media dell’Unione Europea. Nel 2003 la quota delle entrate pubbliche
correnti sul PIL è stata del 44,5 per cento contro una media UE del 44,4 per
cento. In Germania la pressione fiscale è pressoché identica alla nostra,
mentre in Francia è superiore di oltre quattro punti. Semplicemente sa-
rebbe diversa la distribuzione del carico fiscale, che graverebbe in manie-
ra più equa sulle diverse fonti di reddito e opererebbe per correggere, e
non come ora per accentuare, le disuguaglianze sociali.
Non esiste quindi nessuna anomalia italiana in termini di livello assolu-
to di tassazione. D’altra parte, il mantenimento del modello europeo di wel-
fare necessita, per essere finanziato, di simili livelli di entrate fiscali. L’alter-
nativa è il modello americano, dove a una pressione fiscale inferiore di cir-
ca dieci punti si accompagna un sistema di protezione sociale affidato al
mercato, in cui i cittadini ottengono i servizi sociali pagando direttamente
i fornitori privati anziché il fisco, con l’inevitabile conseguenza di una
drammatica accentuazione della disuguaglianza. Anzi, semmai si può dire
che in Italia il livello della pressione fiscale attuale non consente di avere un
sistema di protezione sociale analogo a quello medio europeo perché una
quota maggiore di entrate (circa il 2,5 per cento del PIL) è destinata al pa-
gamento degli interessi sul debito pubblico, anziché alla spesa sociale.
Ma, oltre alla necessità di salvaguardare un sistema di servizi sociali a
ricci ultimissimo 26-10-2004 14:41 Pagina 312
Si dice: ma sono anni che la pressione fiscale aumenta. È vero che dal
1991 al 2002 il gettito totale delle imposte dirette statali è aumentato in
termini reali del 15,4 per cento. Ma questa è la media del pollo di Trilus-
sa. Infatti, mentre il gettito del prelievo fiscale diretto sui redditi da lavo-
ro dipendente e assimilati è aumentato del 40,4 per cento, quello sui red-
diti da capitale e da lavoro autonomo è addirittura diminuito del 3,6 per
cento! Quindi affermare che il livello assoluto di tassazione non deve es-
sere ridotto non vuole affatto dire che bisogna lasciare le cose come stan-
no. Se è vero che dal punto di vista quantitativo il sistema fiscale italiano
è adeguato, è altrettanto incontestabile che dal punto di vista qualitativo
esso è assolutamente inadeguato e deve essere cambiato. La fondamenta-
le inadeguatezza risiede, come abbiamo visto, in una distribuzione grave-
mente sperequata della tassazione diretta sul reddito. Per questa ragione
bisogna aumentare le imposte sul capitale finanziario e sui grandi patri-
moni, mentre occorre ridurle per il lavoro dipendente, per i pensionati e
per le famiglie povere.
La proposta del governo deve quindi essere contrastata per un dupli-
ce ordine di ragioni. Primo, perché, per come è confezionata, è ingiusta.
Secondo, perché la riduzione della pressione fiscale media, comunque
confezionata, aggrava la crisi economica e sociale. Non si può allora ri-
spondere, come pure fa una parte del centrosinistra, con il “gioco del co-
cuzzaro”, rimproverando al governo di non riuscire a fare ciò che an-
nuncia. Bisogna, al contrario, impedire al governo Berlusconi ciò che di-
ce di voler fare. E domani, bisognerà abrogare gran parte di ciò che pur-
troppo è riuscito a fare. È necessario, insomma, mettere in campo una
strategia alternativa di politica economica.
Epilogo
Melfi, Lucania, Italia, aprile 2004.
Un nuovo vento è arrivato. Il vento caldo del Sud
Fino a dieci anni fa, Melfi era un tipico centro agricolo, uno di quei
tanti grossi borghi che popolano le pianure, incastonate tra l’Appennino
e il mare, del Mezzogiorno d’Italia. Fino a dieci anni fa Melfi, Lucania,
provincia di Potenza, era una delle zone più povere e diseredate del no-
stro paese. Da secoli terra di braccianti e di piccoli contadini, terra di
emigrazione e di brigantaggio. Negli anni Ottanta i giovani di Melfi stu-
diavano, non potendo trovare lavoro. Geometri, tecnici, ragionieri, tutti
nel miraggio di un posto fisso, magari nella pubblica amministrazione o
in qualche azienda del Nord. Nel frattempo aiutavano i padri a coltivare
gli orti, a mietere il grano dei piccoli appezzamenti di terreno, strappati
al latifondo con le lotte bracciantili degli anni Cinquanta, essenziali anche
oggi per sopravvivere, per tirare avanti. Priva di qualsiasi tradizione in-
dustriale, Melfi era un “prato verde”, una zona incontaminata dalle cimi-
niere, dai fumi, dai capannoni di cemento e di lamiera che popolano i no-
stri paesaggi industriali.
Proprio qui, nella piana di San Nicola di Melfi, in questa terra vergi-
ne, di là dalla collina oltre la quale è adagiato il paese, la Fiat annuncia,
in un grigio giorno d’autunno del 1990, esattamente dieci anni dopo la
sconfitta operaia di Mirafiori, di voler costruire un nuovo impianto1. Un
impianto gioiello, ispirato alla nuova filosofia aziendale della produzione
snella e della qualità totale. Un impianto “leggero”. Non più i colossi di
Mirafiori e di Rivalta, non più pesanti e rigide catene di montaggio, sarà
un impianto ad alta densità tecnologica, organizzato per “isole di mon-
taggio” (UTE, o unità tecnologiche elementari), ciascuna diretta da un ca-
po appartenente all’inquadramento gerarchico manageriale. Lo stabili-
mento sarà circondato da altre decine di piccoli stabilimenti, dove do-
vranno insediarsi le microimprese di subfornitura, perché il modello pro-
duttivo è quello giapponese e “post-fordista”, del “just in time” e della
fabbrica integrata. «Ridurre i costi di produzione e migliorare la qualità
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EPILOGO 317
del prodotto», è questo il motto del progetto Fiat a Melfi. Quasi cinque-
mila miliardi di lire di investimento, di cui un terzo a carico dello Stato,
per due milioni e 700.000 metri quadri di superficie complessiva, con una
capacità produttiva di 450.000 vetture all’anno, che può occupare circa
diecimila lavoratori, per due terzi direttamente e per un terzo nella forni-
tura. Altri cinquemila posti di lavoro saranno creati nell’indotto. Un’oc-
casione mai verificatasi in terra lucana. I lavori di costruzione iniziano nel
giugno successivo e in due anni lo stabilimento è pronto. Il primo gen-
naio 1994 entra pienamente in funzione la nuova “fabbrica del futuro”.
Melfi è stata scelta dalla dirigenza Fiat perché qui non c’è classe ope-
raia, non c’è sindacato industriale e soprattutto non c’è lavoro, non ci so-
no alternative all’infuori dell’esodo, della sussistenza agricola o del peren-
ne precariato per i giovani. Perché per far rendere un impianto del gene-
re, al di là della tecnologia e dell’automazione, ciò che occorre, prima di
ogni altra cosa, è, sempre e comunque, un controllo pieno e totale sulla
forza lavoro, una disciplina interna ed esterna alla fabbrica che possa con-
sentire un adattamento continuo del lavoro alle esigenze e agli imprevisti
della produzione e del mercato. I lavoratori assunti sono tutti giovanissi-
mi, sotto i trentadue anni, alla prima esperienza di fabbrica, tutti con con-
tratti di formazione e lavoro, sottoposti al ricatto della conferma dopo due
anni. La selezione del personale, proveniente dall’intera provincia e da
buona parte della regione, non si basa sulle capacità tecniche acquisite,
ma sulla disponibilità incondizionata a obbedire alle necessità della pro-
duzione. Il lavoratore di Melfi conosce la fabbrica solo attraverso l’opera
iniziale di formazione aziendale, che non punta affatto a fornire cono-
scenze professionali specifiche, ma ha un contenuto essenzialmente peda-
gogico, mira a far pensare il lavoratore con il cervello dell’azienda. Infat-
ti, nel linguaggio aziendale il lavoratore non esiste nemmeno, è una “ri-
sorsa umana”, come una macchina, una materia prima o un capitale li-
quido. All’inizio gli aspiranti operai non capiscono perché i corsi di for-
mazione siano organizzati per turni. Lo comprenderanno solo più avanti.
Lo stabilimento di Melfi non si chiama Fiat ma SATA (Società Auto-
mobilistica a Tecnologia Avanzata), un trucco dell’azienda per chiarire
che gli operai-modello di Melfi non hanno nulla a che fare con gli operai
di Mirafiori. Infatti a Melfi non si applica il contratto aziendale Fiat ma
un altro contratto, stipulato con i sindacati nel dicembre del 1990, prima
ancora che lo stabilimento fosse costruito e che i lavoratori venissero as-
sunti. Inoltre, in sede di trattativa sindacale è stato concordato che anche
il contratto collettivo nazionale di categoria possa essere parzialmente de-
rogato. In questo modo i giovani operai lucani lavorano più degli altri del
gruppo: recupero delle fermate per disfunzioni tecniche attraverso l’ac-
celerazione della linea, gestione discrezionale delle pause individuali, la-
voro notturno anche per le donne, sabato lavorativo, cadenza variabile in-
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EPILOGO 319
EPILOGO 321
Note
1. Per una testimonianza di uno dei protagonisti della “battaglia di Seattle” cfr. Bové
- Dufour (2000), pp. 135-167. Sugli eventi di Seattle cfr. anche George (2000).
2. Cfr. in proposito la relazione svolta, appena tre mesi dopo gli avvenimenti di Seat-
tle, in occasione di un seminario tenuto alla Columbia University da Smith (2000),
docente di Sociologia alla State University di New York. In essa, oltre a una detta-
gliata analisi degli avvenimenti di Seattle, si pone l’attenzione sui caratteri assolu-
tamente inediti e teoricamente innovativi del nuovo movimento globale.
1. 1. Sostiene questa tesi, ad esempio, Tiberi (2001). Diverso è invece l’uso della ca-
tegoria di imperialismo che fanno altri autori marxisti come Dumenil e Lévy, se-
condo i quali l’imperialismo non rappresenta, come per Lenin, un particolare sta-
dio del modo di produzione capitalistico ma una sua caratteristica permanente, pre-
sente fin dagli albori della sua nascita. In questa interpretazione neomarxista l’im-
perialismo odierno sarebbe diverso da quello del XIX e XX secolo, poiché sareb-
be entrato nella fase del neoliberismo globale, dove avrebbero perso di importan-
za i precedenti fattori geopolitici a vantaggio dei fattori geoeconomici e finanziari.
Questa nuova teoria dell’imperialismo è più vicina alle analisi del paradigma inter-
pretativo della globalizzazione neoliberista, piuttosto che a quelle della teoria clas-
sica dell’imperialismo, perché mette l’accento sulle novità strutturali del capitali-
smo contemporaneo. Cfr. Duménil - Lévy (2003).
3. Salvo diverse indicazioni, i dati utilizzati in questo paragrafo sono presi da WTO
(2003).
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324 NOTE
5. Per il 1910 i dati sono presi da Bairoch (1999), p. 540, e per il 2003 da European
Commission (2004b), p. 101.
6. Ad esempio, nel corso degli anni Settanta, in presenza di forti turbolenze nei mer-
cati valutari, connesse al crollo del regime di Bretton Woods, e nei mercati delle ma-
terie prime, derivanti dagli shock petroliferi, a fronte di un aumento medio annuo
del valore dell’export pari addirittura a oltre il 20 per cento e del valore della pro-
duzione di solo il 4,3 per cento, l’aumento in termini di volume fisico è stato del 4,3
per cento sia per le esportazioni, sia per il PIL.
11. Le materie prime, che nel 1980 rappresentavano il 25,7 per cento dell’export mon-
diale, sono scese nel 1998 al 14,8 per cento, mentre i prodotti a medio-alta intensità
tecnologica sono passati nello stesso periodo dal 46,6 per cento al 59,8 per cento;
cfr. UNCTAD (2002), p. 68.
12. Cfr. UNCTAD (2002), pp. 62-64. Secondo Bellofiore (1999) questo dato sarebbe
il risultato della diffusione del sistema “fordista” piuttosto che quello dello svilup-
po di un nuovo modello “postfordista” di produzione. Resta, comunque, il fatto
che, al di là delle definizioni, nel corso degli ultimi decenni l’internazionalizzazio-
ne della produzione è aumentata in una maniera mai sperimentata in passato.
13. I dati sulle imprese multinazionali sono tratti da Anderson - Cavanagh (2000).
14. Una esposizione esemplare di questa tesi è contenuta nel rapporto sulla globaliz-
zazione economica del Comitato economico congiunto del Parlamento degli USA
stilato nel maggio 2002; cfr. Saxton (2002).
18. Per una critica delle basi teoriche della dottrina neoliberista del commercio inter-
nazionale cfr. Orati (2003).
19. Analizzando la storia economica del XIX secolo, Bairoch (1996), p. 78, scrive che
«regolarmente, il protezionismo ha condotto all’industrializzazione e allo sviluppo
economico, o almeno ha agito come fattore concomitante. Inoltre, nei quattro
esempi di liberismo, tre ebbero conseguenze negative o molto negative».
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NOTE 325
20. I dati seguenti sono tratti da UNDP (2002) e da Weller - Scott - Hersh (2001). Per
un esame del rapporto tra globalizzazione e crescita delle disuguaglianze cfr. Gal-
lino (2000). Sulla relazione tra squilibri demografici e tassi di crescita cfr. Alessan-
drini - Ricci (1995). Lo studio di Milanovic (2002) mostra come in entrambi i pe-
riodi di globalizzazione, quello attuale e quello del 1870-1913, le divergenze tra
paesi nella crescita economica e nella distribuzione del reddito tendono a crescere
rispetto ai periodi di relativa chiusura dei mercati internazionali.
21. In questo libro si utilizzano soltanto due elementari concetti statistici, quello di me-
diana e di media (aritmetica). Dato un insieme di dati, ordinati in modo crescente,
dal più piccolo al più grande, il valore mediano è quello che si colloca esattamente
a metà, cioè che spacca in due parti di uguale numerosità la distribuzione statisti-
ca, mentre il valore medio rappresenta la somma totale dei valori dei dati divisa per
il loro numero e rappresenta il valore che ogni dato assumerebbe se tutti i valori
della distribuzione fossero uguali, cioè se il totale fosse uniformemente distribuito.
Facciamo un esempio pratico. Supponiamo di avere la seguente distribuzione: 1,
5, 14, 30, 50. In questo caso il valore mediano è 14 e il valore medio è 20.
22. La disuguaglianza nella distribuzione del reddito può essere misurata in molti mo-
di. Uno degli indicatori più usati è l’indice di Gini, che mostra di quanto la distri-
buzione reale si allontana da quella perfettamente egualitaria. L’indice di Gini è pa-
ri a zero in caso di perfetta uguaglianza e pari a uno in caso di completa concen-
trazione. Questo indice verrà utilizzato anche nei capitoli successivi. Sulle diverse
misure della disuguaglianza cfr. Checchi (1997), cap. 1.
24. Sull’evoluzione del sistema commerciale internazionale dal GATT al WTO cfr.
Shukla (2000). Per una breve storia del sistema commerciale internazionale cfr. Gil-
pin (2003), cap. 8. Cfr. anche George (2004), pp. 58-63.
25. Per un dettagliato esame dei principi e delle clausole della Carta dell’Avana e del-
l’ITO cfr. Drache (2000).
29. Nel libro di Wallach - Sforza (2000) sono analizzati alcuni illuminanti casi oggetto
di controversia in sede WTO.
30. Sui rapporti di stretta collaborazione tra le istituzioni di Bretton Woods e il WTO
cfr. Rowden (2001) e Caliari (2002).
31. Sul ruolo delle multinazionali nelle attività del WTO cfr. Hertz (2001), pp. 87-95.
32. Per una puntuale analisi sui meccanismi reali di funzionamento del WTO cfr. Kwa
(2003). Una descrizione cruda delle dinamiche interne al WTO è in Ziegler (2003),
pp. 143-161.
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326 NOTE
34. Per un esame dei contenuti dell’accordo TRIPS dal punto di vista dei paesi meno
sviluppati cfr. UNCTAD (2002). Cfr. anche UNDP (2003), cap. 11.
35. Sugli aspetti legali ed economici dell’estensione del diritto di brevettazione cfr.
Maréchal (1999).
36. Su 1.223 principi attivi immessi sul mercato tra il 1975 e il 1997 dalle aziende far-
maceutiche, soltanto 13 sono finalizzati alle malattie tropicali, di cui 5 derivati da ri-
cerche veterinarie. Sulla politica commerciale delle multinazionali farmaceutiche,
protetta dal WTO, e sulla loro responsabilità nella negazione di cure sanitarie es-
senziali per milioni di persone, in particolare dell’Africa del Sud, cfr. Bulard (2000),
da cui sono tratti i dati riportati nel testo.
37. Sul sistematico boicottaggio dei paesi occidentali e in particolare degli USA, in me-
rito all’applicazione concreta della Dichiarazione di Doha, cfr. Love (2003).
38. Sulle forme di tutela monopolistica dei diritti di proprietà intellettuale garantiti dal
WTO cfr. Antinucci (2002).
39. Tra i tanti lavori dedicati all’esame delle clausole e degli effetti dell’accordo GATS si
segnalano: Secretariat OMC (1999), Krajewski (2001), Wesselius (2002), Woodroffe
(2002), Sinclair - Grieshaber Otto (2002), Gould (2002), Friends of the Earth (2002).
40. Gli effetti della privatizzazione dei servizi idrici, imposti dal WTO attraverso l’ac-
cordo GATS, sulla disponibilità di acqua per le popolazioni del Sud del mondo so-
no analizzati in Shiva (2003).
41. I veri contenuti dell’accordo MAI, negoziato in segreto dentro l’OECD fin dal
1995, divennero di pubblico dominio grazie a una serie di articoli pubblicati da «Le
Monde Diplomatique», cfr. Albala (1998) e Wallach (1998), dopo i quali si orga-
nizzò un esteso movimento di opinione, in particolare in Francia. Sulla riuscita mo-
bilitazione popolare contro l’accordo MAI cfr. De Brie (1999). Sul ruolo del WTO
come possibile sostituto dell’abortito MAI cfr. Kohr (1997).
42. Sulla “ribellione” dei paesi del Sud del mondo alla conferenza di Seattle, in siner-
gia con le contestazioni di piazza, cfr. l’analisi di Sinai (2000).
43. Sul percorso da Seattle a Doha cfr. George (2002), pp. 80-92.
44. Sui risultati della conferenza di Doha cfr. La Vina - Yu III (2002) e WTO (2002).
45. Sin dal 1979, in occasione del Tokyo Round, ai paesi in via di sviluppo sono state ri-
conosciute clausole speciali, denominate Special and Differential Treatment (Tratta-
mento speciale e differenziato – S&D), allo scopo di introdurre misure di riequili-
brio economico internazionale. In particolare, gli S&D riconoscevano un accesso
preferenziale al mercato per i prodotti dei PVS e una maggiore flessibilità per i PVS
nell’applicazione dei trattati commerciali, al fine di garantire a questi paesi l’auto-
nomia necessaria a perseguire politiche economiche di sviluppo. Nel corso degli an-
ni Ottanta e Novanta, sotto la spinta dell’ideologia neoliberista, gli S&D sono stati
rimessi in discussione, anche attraverso la pressione esercitata dal FMI e dalla Ban-
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NOTE 327
46. Sulla I conferenza WTO di Singapore, cfr. Cassen (1996). Sulle Singapore issues cfr.
Charlton (2004).
47. Una ricostruzione in tempo reale degli avvenimenti di Cancun è reperibile nei bol-
lettini giornalieri sui lavori della conferenza WTO a cura dell’ICTDS (2003). Cfr.
anche il bollettino mensile dell’ICTDS. Sulla I conferenza WTO di Singapore, cfr.
Cassen (1996).
48. Sull’accordo agricolo in sede WTO cfr. Weeks (1999) e Murphy (2002).
49. Sull’impatto di queste problematiche sulle agricolture di tipo tradizionale cfr. Ma-
zoyer - Routard (1997).
50. Per un’analisi della formazione del G21 cfr. l’intervista a Vandana Shiva, in Jampa-
glia (2004).
51. Sull’agenda dell’ALCA definita a Santiago del Cile nel 1998 e sulle sue intercon-
nessioni con il controllo politico e militare degli USA nell’America Latina, cfr. Ha-
bel (2000) e Brunelle (2001).
52. Le osservazioni critiche della società civile americana rispetto alla bozza del tratta-
to ALCA sono contenute in HSA (2003). Un’ampia e articolata piattaforma alter-
nativa rispetto al progetto dell’ALCA è quella predisposta dalla rete di associazio-
ni che hanno dato vita all’Hemispheric Social Alliance; cfr. HSA (2002).
53. Sul Plan Colombia come strumento di violenta e agghiacciante repressione delle ri-
vendicazioni popolari e democratiche cfr. il libro di Piccoli (2003).
55. Per un’analisi sul legame esistente tra progetto dell’ALCA e “dollarizzazione”, sul-
le sue possibili conseguenze per l’autonomia politica ed economica dell’America
Latina e sulla proposta alternativa di un’unione monetaria regionale latinoameri-
cana, cfr. Formento (2002).
56. La posizione del Venezuela è esposta in un opuscolo ufficiale, redatto in lingua spa-
gnola e inglese, del governo, che contiene anche le linee negoziali tenute all’interno
del WTO dalla delegazione venezuelana; cfr. Presidential Commission for the FTAA
(2003).
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328 NOTE
57. Il 4 luglio 2002 l’Unione Europea, nell’ambito dei negoziati GATS, ha avanzato le
richieste di liberalizzazione dei settori di servizi a 109 paesi membri del WTO. Sol-
tanto alla fine di febbraio 2003, tuttavia, sono stati resi noti all’opinione pubblica i
contenuti delle richieste. Dei 109 paesi oggetto delle richieste di liberalizzazione,
ben 94 sono PVS e di questi 29 sono classificati come LDC (Least Developed
Country), cioè sono i paesi più poveri del mondo. Le richieste europee rivendica-
no in particolare la totale liberalizzazione dei settori idrico, energetico e del sistema
di telecomunicazioni.
59. Sugli accordi commerciali dell’UE con il Messico e il Cile cfr. Szepesi (2004).
60. Cfr. Berthelot (2000), per un’analisi degli accordi di partenariato economico regio-
nale dell’UE con i paesi dell’ACP (Africa, Caraibi, Pacifico) e del loro impatto in
particolare sul commercio agricolo. Sui deludenti risultati della convenzione di
Lomé cfr. Mouradian (1995 e 1998).
61. Per un esame della disputa giuridica sulle banane in seno al WTO cfr. Drache et
al. (2002).
62. Sui negoziati avviati in vista della scadenza del 2008 cfr. Stevens (2002).
3. Sul piano Keynes e sul ruolo avuto dall’economista inglese nelle trattative di Bret-
ton Woods cfr. Harrod (1974), cap. 13.
4. Per un esame critico sul ruolo del FMI e della Banca Mondiale negli anni Novanta
cfr. i saggi contenuti nel volume di Alternatives Sud (1999).
NOTE 329
le imposti dal FMI e dalla Banca Mondiale ai paesi del Sud del mondo negli anni
Ottanta e Novanta cfr. Bello (2004). Sulla incongruenza di un meccanismo genera-
lizzato di crescita basato sulle esportazioni cfr. Palley (2002)
10. Sul ruolo e sul funzionamento interno del FMI e della Banca Mondiale nel corso
degli anni Novanta è esemplare la testimonianza e l’analisi di un autorevole perso-
naggio del calibro di Sitglitz (2002) che, oltre ad aver ottenuto il premio Nobel per
i suoi studi economici, è stato anche vicepresidente della Banca Mondiale in questo
periodo. Sul clima di conformismo intellettuale e di mercenariato che domina den-
tro la Banca Mondiale cfr. anche Ziegler (2002).
11. Una valutazione critica del “nuovo corso” del FMI e della Banca Mondiale è con-
tenuta nel volume collettaneo edito da Focus on The Global South (2000). Per
un’analisi dei PRPS e dei PRGF cfr. Focus on the Global South (2003). Sul “Mon-
terrey Consensus” cfr. Radke (2002). Per una critica delle basi teoriche che stanno
dietro il tentativo di ampliare l’originario Washington Consensus con nuovi assetti
istituzionali cfr. Rodrik (2002).
1. Una dettagliata panoramica sullo svolgimento dei negoziati del Doha Round e sul-
le diverse posizioni assunte dai principali gruppi di paesi alla vigilia del vertice di
Cancun è in ICTSD (2003) e in Razeen (2003).
3. Per un commento critico sull’accordo del 31 luglio 2004 cfr. Meregalli (2004) e Bel-
lo - Kwa (2004).
4. Per una rassegna delle diverse impostazioni in merito al WTO presenti all’interno
del movimento altromondialista cfr. i lavori di Keet (2000), Barry (2001) e Bond
(2001). Sulle proposte di riforma avanzate dalle ONG cfr. Third World Network
(2001), pp. 79-96, Oxfam (2001) e Jacobs (2002).
5. Uno dei principali sostenitori di questa posizione, ben prima di Seattle, è Walden
Bello. Cfr. Bello (2002), cap. 2.
6. Sulla storia del dibattito sul nuovo ordine economico internazionale all’interno del-
l’ONU cfr. Sneyd (2003).
330 NOTE
9. L’organizzazione che più spinge per un rilancio del ruolo dell’UNCTAD è Focus on
the Global South, un influente istituto di ricerca economica con sede a Bangkok,
ascoltato anche dalle élite ufficiali di governo dei paesi del Sud del mondo, il cui di-
rettore è Walden Bello, un autorevole economista attivo nel movimento. Sulla sto-
ria e sul ruolo dell’UNCTAD cfr. Bello (2002), cap. 1.
10. Sulla necessità di una riforma della PAC compatibile con le esigenze di riequilibrio
poste dai paesi del Sud del mondo cfr. Mazier (2003).
11. Il principio della sovranità alimentare è alla base della piattaforma di lotta di Via
Campesina, un movimento mondiale composto da circa settanta organizzazioni
contadine del Sud e del Nord del mondo, con oltre cinquanta milioni di aderenti.
Su Via Campesina e la sovranità alimentare cfr. Fabbris (2003) e Borras (2004).
12. Cfr. Shiva (2002a). Un bel libro dove si raccontano venticinque episodi di lotta di
comunità nel Sud del mondo per la difesa del proprio territorio, del proprio am-
biente e della propria cultura è quello di Forti (2004).
13. Per un esame delle diverse forme di protezionismo cfr. Shiva (2002b). Dell’esigen-
za di un nuovo “protezionismo altruista” finalizzato a salvaguardare i modelli so-
ciali più avanzati parla Cassen (2000).
14. Cfr. International Financial Institution Advisory Commission (2000). Una rassegna
delle posizioni ufficiali intorno alla riforma dell’architettura finanziaria internazio-
nale è in Goldstein (2001) e Saccomanni (2002), cap. VI.
15. Per un’analisi critica del Rapporto Meltzer cfr. Heinrich Boll Foundation (2000).
17. L’istituzione di una Corte Internazionale per l’Insolvenza è stata richiesta ufficial-
mente dall’UNCTAD e dal governo canadese. A seguito della crisi argentina que-
sto tema è entrato nell’agenda di discussione del FMI, il quale tuttavia è orientato
a promuovere forme contrattuali di rinegoziazione del debito basate sull’assenso
della maggioranza dei creditori piuttosto che verso la creazione di organismi giuri-
sdizionali; cfr. Carvalho (2002).
20. Questa proposta sarà ripresa nel capitolo 7, dove sono riportate anche le necessarie
referenze bibliografiche di approfondimento.
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NOTE 331
22. Sui punti di forza e di debolezza dell’attuale egemonia monetaria mondiale eserci-
tata dagli USA cfr. Arrighi (2004).
24. Per uno studio sull’evoluzione della composizione delle riserve monetarie e delle
sue determinanti cfr. Eichengreen - Mathieson (2000).
25. La ripresa in una “versione conflittuale” del Piano Keynes del 1943 è stata recen-
temente avanzata da Brancaccio (2003). La proposta di una vera e propria banca
centrale globale è stata indicata come obiettivo del movimento sociale mondiale da
Brecher - Costello - Smith (2001), p. 150.
26. In diverse occasioni il premio Nobel per l’economia, Robert Mundell, uno dei pa-
dri della moderna teoria macroeconomica internazionale, ha espresso il suo accor-
do verso tale ipotesi; cfr. Mundell (2001), in cui viene anche citata l’opinione di
Paul Volcker, già governatore della Federal Reserve, secondo cui «a global eco-
nomy needs a global currency». Per un panoramica su questo punto di vista cfr.
Feasta (2004) e Budd (2004).
29. Per una ricostruzione storica dei processi di riforma del sistema monetario inter-
nazionale negli ultimi due secoli cfr. Eichengreen - James (2001).
30. Una delle rare analisi obiettive, svolte da un prestigioso centro di ricerca internazio-
nale esterno all’area del movimento, dove si passano in rassegna i diversi approcci
che animano le lotte per un’altra globalizzazione, è quella di Forrer - Wilkins (2003).
31. Si tratta dell’ultima lirica dei Canti di Giacomo Leopardi, “La ginestra o il fiore del
deserto”, pubblicata postuma nel 1845.
32. Lungo questo asse si snoda la rifondazione di una nuova identità comunista in Ita-
lia e in Europa; cfr. Bertinotti - Gianni (2002).
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332 NOTE
4. Il declino dell’Europa
2. Uno dei primissimi atti del governo di centrodestra francese, appena insediato do-
po le elezioni della primavera del 2002, è stato quello di consentire, attraverso l’am-
pliamento delle ore concesse di straordinario, il ritorno alla settimana lavorativa di
trentanove ore, soddisfacendo in pieno le richieste della Confindustria francese; cfr.
Lagneau-Ymonet (2002).
3. Cfr., ad esempio, Faini (2004) e Blanchard (2004), ripresi nel rapporto annuale del-
l’ISAE (2004). A livello giornalistico questa tesi è stata rilanciata in Italia da Ko-
storis-Padoa Schioppa (2004), nell’ambito del dibattito suscitato dalla proposta di
Berlusconi sulla riduzione delle ferie e dei ponti feriali.
5. Ad esempio, Faini (2004), sulla base di una scomposizione del tasso di crescita del
reddito basata su fattori demografici e sulle ore lavorate per addetto, stima che la ri-
duzione dell’orario medio annuo di lavoro abbia ridotto la crescita economica di
ben lo 0,62 per cento annuo nel periodo 1979-2001.
6. La misurazione della produttività può avvenire sulla base di diversi indici. Due so-
no le misure più usate della produttività del lavoro. La prima è la produttività per
addetto e misura il reddito prodotto da ciascun occupato, ottenuta dividendo il PIL
per il numero degli occupati. La seconda è la produttività per ora di lavoro e mi-
sura il reddito prodotto in un’ora di lavoro, ottenuta dividendo il PIL per il nume-
ro totale di ore-lavoro nell’economia. Sulle differenti misure della produttività cfr.
Schreyer - Pilat (2001).
9. Il metodo analitico per costruire la tabella che scompone la crescita economica nei
diversi fattori di offerta è stato il seguente.
Il reddito (Y) può essere scomposto nella produttività del lavoro per addetto (Y/L)
e nella quantità di lavoro (L):
(1) Y = (Y/L) L = Po L, con Po = (Y/L).
In termini di tassi di variazione la relazione (1) può essere scritta nei seguenti ter-
mini:
(2) y = pl +l, dove le lettere minuscole indicano i tassi di variazione delle variabili.
Utilizzando una funzione aggregata di produzione alla Solow, pl può essere scritto
nel seguente modo:
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NOTE 333
(3) pl = t +a k – a l, dove t è la variazione della produttività totale dei fattori che può
essere interpretata come un indice del miglioramento dell’efficienza tecnica e or-
ganizzativa, a è l’inverso del rapporto tra capitale netto e prodotto ed è compreso
tra zero e uno, k è il tasso di accumulazione del capitale e l il tasso di crescita della
quantità di lavoro.
A sua volta la quantità di lavoro può essere scomposta nel numero medio di ore an-
nue lavorate da ciascun addetto (Hm) e nel numero degli addetti (O):
(4) L = Hm O
Sostituendo la (3) e la (4) nella (2) abbiamo:
(6) y = t +a k +(1 – a) hm +(1 – a) o.
Per trovare la variazione del reddito pro capite basta sottrarre il tasso di variazio-
ne della popolazione (i) dalla (5), cioè:
(7) ypc = t +a k +(1 – a) hm +(1 – a) o – i.
La (6) è la funzione usata per costruire la tabella.
La variazione della produttività oraria è:
yh = t +a k – a (hm +o)
dove si vede che la riduzione delle ore lavorate in media per occupato aumenta la
produttività oraria.
La variazione della produttività per addetto è: yo = t +a k +(1 – a) hm – a o
dove si vede che la riduzione delle ore lavorate in media per occupato e l’aumento
del numero degli occupati riducono la produttività per addetto.
11. Per un esame delle misure di riduzione dell’orario di lavoro nei paesi europei cfr.
Buffardi (2000).
18. Le statistiche sono tratte da European Commission (2003a), p. 168. Nel 1999 i mor-
ti sul lavoro erano stati 5.275.
19. Cfr. gli studi di van Ark (2001) e van Ark - Inklaar - McGuckin (2002).
22. Sulle cause del maggiore tasso di accumulazione negli USA rispetto all’Europa cfr.
Caselli - Pagano - Schivardi (2000), dove attraverso un’analisi di tipo econometri-
co emerge l’importanza fondamentale dei fattori di domanda sulla dinamica degli
investimenti.
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334 NOTE
25. Cfr. l’analisi critica delle linee guida di politica economica dell’UE 2002-05 effet-
tuata da Frangakis (2003) nell’ambito dell’Euromemorandum (2003) per una poli-
tica economica alternativa in Europa, stilato da vari anni da un nutrito gruppo di
economisti europei critici verso l’Europa di Maastricht.
26. Esercizi di simulazione econometrica hanno stimato che se l’Europa avesse segui-
to una politica monetaria simile a quella della Fed e avesse allentato i vincoli fisca-
li, avrebbe raggiunto nel triennio 2001-03 un tasso di crescita triplo rispetto a quel-
lo realizzato, con una significativa riduzione del tasso di disoccupazione e al prez-
zo di un aumento dei disavanzi pubblici molto modesto; cfr. Boltho (2003).
27. Per una lucida e dettagliata analisi della risposta di politica economica data negli
USA allo scoppio della crisi di inizio secolo cfr. il saggio di Brenner (2004).
28. Sulla tendenza affermatasi nei paesi europei, anche in quelli guidati da forze di cen-
trosinistra come la Gran Bretagna di Tony Blair, a imitare il modello sociale ameri-
cano, cfr. il bel libro di Hutton (2003).
1. Sulle asimmetrie strutturali insite nel meccanismo di aggiustamento dello SME cfr.
Parboni (1985), cap. 5. Sul funzionamento dello SME cfr. i saggi contenuti nella
prima e seconda parte del libro di Padoa-Schioppa (2004).
2. Sulla lunga e complessa vicenda politica che ha portato all’Unione Monetaria Eu-
ropea cfr. Castronovo (2004).
3. Sulla crisi valutaria del settembre 1992 e, più in generale, sull’esperienza dello
SME, con particolare riferimento all’economia italiana, cfr. Graziani (1996).
4. Sul Piano Werner e sul dibattito negli anni Settanta intorno all’unificazione mone-
taria europea cfr. Magnifico (1976).
7. Per una tassonomia delle configurazioni istituzionali di un’area monetaria sulla ba-
se dei meccanismi di aggiustamento regionale in essa prevalenti cfr. Ricci (1993a).
8. Per un’analisi comparativa delle diverse strade perseguite dagli USA e dall’UE per
arrivare all’unificazione monetaria cfr. Eichengreen (1991).
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NOTE 335
11. Sui diversi approcci teorici all’integrazione economica cfr. Ricci (1991).
12. L’autore che per primo, fin dagli anni Cinquanta, ha indagato dal punto di vista teo-
rico i processi di causazione circolare e cumulativa è stato l’economista svedese,
premio Nobel per l’economia, ministro del Commercio nell’immediato dopoguer-
ra e segretario esecutivo della CEE, Gunnar Myrdal. Si veda il suo classico libro,
in edizione italiana, Myrdal (1974).
14. Ad esempio, nel 1974 fu pubblicato un rapporto, stilato da cinque autorevoli eco-
nomisti dei principali paesi europei (Caincross per l’Inghilterra, Giersch per la Ger-
mania, Lamfalussy per il Belgio, Petrilli per l’Italia e Uri per la Francia) in cui si so-
steneva la necessità di affiancare l’unificazione monetaria a una unificazione fisca-
le per garantire i meccanismi perequativi e redistributivi interni all’area, conside-
rati indispensabili per alleviare il peso economico giudicato altrimenti insostenibi-
le per le regioni più povere; cfr. Caincross et al. (1975). Ugualmente influenti su
questo tema furono allora i lavori di Holland (1976 e 1977).
15. Sulla politica fiscale negli anni di Maastricht, cfr. Buti - Sapir (1999), parte terza.
16. Sugli effetti redistributivi e recessivi degli alti tassi di interesse nell’Europa di Maa-
stricht cfr. Fitoussi (1997), cap. 3.
17. Vedi Relazione annuale del governatore della Banca d’Italia, vari anni.
23. Per un’evidenza econometrica di queste tendenze cfr. Croci Angelini (2002).
25. Le stime sulla disuguaglianza nella distribuzione del reddito all’interno dell’UE so-
no contenute nello studio di Morrisson - Murtin (2004). Per i dati sulla povertà cfr.
European Commission (2003a).
336 NOTE
31. Fin dalla nascita del governo Prodi, Rifondazione Comunista aveva sostenuto la ne-
cessità di uscire dalle politiche di Maastricht, cfr. PRC (1996). Ciononostante, per
due anni, fino all’ammissione dell’Italia nell’area dell’euro, il PRC continuò ad ap-
poggiare dall’esterno il governo, anche in occasione delle manovre finanziarie del
1997 e del 1998, molto pesanti sul piano finanziario.
1. È questa la lucida analisi del significato e delle ragioni della sospensione del PSC
condotta da Bellofiore - Gianni (2004).
2. Un’analisi critica del PSC che evidenzia i presupposti monetaristi e neoliberisti che
stanno alla base della sua costruzione è in Arestis - McCauley - Sawyer (1999).
9. Un esame delle principali proposte di revisione del PSC, condotto dal punto di vi-
sta della Commissione Europea, è contenuto in Buti - Eijffinger - Franco (2003).
11. Per un critica teorica della golden rule dalla prospettiva istituzionalista cfr. Fottin-
ger (2001).
13. Cfr. Mills - Quinet (2001). Una versione più attenuata di questa proposta, avan-
zata da Catenaro - Tirelli (2002), prevede la fissazione di vincoli ai livelli di spesa
e di tassazione, piuttosto che al saldo di bilancio.
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NOTE 337
15. Una proposta di questo tipo è stata avanzata in Von Hagen - Harden (1994). Per
una rassegna di questo approccio cfr. Hemming - Kell (2001).
2. Per una critica dell’impianto neoliberista del progetto di Costituzione europea cfr.
Russo (2004).
4. Sulle politiche di riequilibrio regionale nell’UE e sulla necessità di un loro forte po-
tenziamento cfr. Bömer - Mazier - Mouhoud (2003).
6. Il testo dell’appello è stato pubblicato anche in italiano sulla «la rivista del manife-
sto», n. 52, del luglio-agosto 2004.
8. Per una dettagliata esposizione della proposta cfr. Farina - Tamborini (2002).
9. Sull’evoluzione storica del principio di autonomia delle banche centrali cfr. Gian-
nini (2004), pp. 255-64. Sulla differenza tra autonomia e indipendenza strumenta-
le e autonomia e indipendenza di obiettivi finali nell’operato delle banche centrali
cfr. Debelle - Fischer (1994). Un esame sotto questo profilo dello status della BCE
è in European Commission (2004c). Per una storia dell’evoluzione delle banche
centrali dalle origini a oggi, cfr. Goodhart (1991).
10. Per una puntuale critica agli aspetti non democratici del funzionamento della BCE
cfr. Fitoussi (2002).
11. Negli anni Settanta il tasso di inflazione medio è salito al 9,4 per cento, per scendere
al 6,2 per cento negli anni Ottanta e al 2,6 per cento negli anni Novanta. Nei pri-
mi tre anni dell’attuale decennio esso è ancora pari al 2,3 per cento. I dati sono trat-
ti da European Commission (2004b).
13. Sui rapporti tra unificazione monetaria europea e cicli del dollaro cfr. De Cecco
(2003).
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338 NOTE
17. Per un’analisi delle motivazioni teoriche a sostegno della riduzione dell’orario di la-
voro cfr. Mazzetti (1997).
18. Per i dati sulle differenze salariali in Europa cfr. Paternoster (2004).
19. Sul ruolo degli investimenti diretti nei nuovi paesi dell’Unione cfr. Vasapollo - Ar-
riola (2004), pp. 49-60.
21. Sul dibattito in Italia sulla riduzione dell’orario di lavoro cfr. AA.VV. (1999).
22. Cfr. il libro, che ebbe grande successo, di Rifkin (1995). Per una critica alle tesi sul-
la “fine del lavoro” cfr. Antunes (2002).
8. Il declino dell’Italia
1. Basti ricordare la grande carestia che avvenne nel 1846-49, periodo d’oro per lo svi-
luppo del capitalismo industriale in Inghilterra, durante la quale morirono di fame
un milione e mezzo di irlandesi e altri due milioni e mezzo dovettero emigrare nel-
la più assoluta indifferenza delle autorità imperiali inglesi, fedeli e rispettose del li-
bero gioco delle forze di mercato. Nel solo anno 1847 morì di fame il 18,5 per cen-
to di tutta la popolazione irlandese. Una tragedia di dimensioni incomparabili nel-
l’Europa liberale dell’Ottocento, troppo spesso dimenticata. Per un’agile ricostru-
zione di quelle vicende cfr. Warde (1996).
2. Lo studio più sistematico sugli aspetti strutturali del declino economico dell’Italia,
apparso in tempi recenti, è quello del vicedirettore generale della Banca d’Italia
Pierluigi Ciocca (2003). Un libro di saggistica di successo che raccoglie tutte le ci-
fre del declino è quello di Petrini (2002).
NOTE 339
4. I dati sulla diffusione del lavoro atipico sono tratti dal Rapporto annuale ISTAT
(2004). Per un’analisi della diffusione del lavoro atipico e dei costi sociali ad essa
connessi nell’Italia degli anni Novanta, cfr. Gallino (2001).
8. I dati sulle caratteristiche individuali dei disoccupati sono tratti da OECD (2004);
quelli sulla composizione territoriale da ISTAT (2003).
9. Per un’analisi degli scarsi effetti della diffusione della flessibilità e della precarietà
del lavoro sulla disoccupazione cfr. Gallino (1998).
10. Per un’analisi degli eventi che portarono alla crisi valutaria del 1992 e delle loro
conseguenze politiche ed economiche cfr. Rossi (2003), pp. 88-110.
11. Per una recente analisi della specializzazione settoriale dell’industria italiana cfr.
Onida (2004).
15. Sui problemi che comporta il “nanismo” delle imprese per la capacità competitiva
del nostro sistema industriale cfr. Nardozzi (2004), pp. 91-106, e Onida (2004), pp.
31-58.
16. Un bel libro che documenta, con lucidità e amarezza, le tante occasioni perdute di
possibile sviluppo industriale, per insipienza o per interesse, dalle classi dirigenti
del nostro paese è quello di Gallino (2003).
17. Dati ISTAT (2004).
340 NOTE
19. Sulla crisi della grande impresa e sul decentramento territoriale degli anni Settan-
ta e Ottanta cfr. Trigilia (1995).
20. Per una storia dei distretti industriali cfr. Brusco - Paba (1997).
21. Per un’analisi del ruolo dei distretti industriali negli anni Settanta e Ottanta cfr. i
saggi contenuti in Becattini (1989, a cura di).
22. Sui processi di ristrutturazione territoriali del sistema industriale italiano dopo
l’“autunno caldo” cfr. Graziani (1998), pp. 91-6.
23. Per un esame dei problemi attuali di una tipica economia distrettuale come quella
marchigiana cfr. Alessandrini (2004).
24. Già a metà degli anni Novanta Bonomi (1997) sottolineava nella difficoltà a “fare
società” il principale limite del modello di sviluppo dell’area del Nord-Est.
25. Ad esempio, in una recente analisi sullo stato del sistema industriale italiano Berta
(2004) si mostra scettico rispetto alle tesi sul declino produttivo del paese, argo-
mentando questa sua posizione, certamente molto più ottimistica di quelle corren-
ti, con il crescente ruolo delle medie imprese.
30. Cfr. ad esempio la ricerca, che ebbe vasta risonanza, sulle partecipazioni statali in
Italia condotta negli anni Settanta da Amoroso e Olsen (1978), due docenti di uni-
versità danesi. Per una storia delle partecipazioni statali, con particolare attenzio-
ne ai modelli di controllo e di gestione, cfr. Barca - Trento (1997). Un esame dell’a-
scesa e della caduta dell’industria pubblica nel dopoguerra, inserito in una pano-
ramica storica di ampio respiro sul sistema finanziario e industriale dell’Italia, è in
Bruno - Segreto (1996).
31. Queste sono le conclusioni tratte da Antonelli (1995) al termine di una importan-
te ricerca sul cambiamento tecnologico nel sistema economico italiano del secon-
do dopoguerra.
32. Per uno studio dettagliato delle privatizzazioni in Europa negli anni Novanta cfr.
Tartufi - Vasapollo (2003), da cui sono tratte le cifre riportate nel testo.
33. Per un esame delle privatizzazioni italiane negli anni Novanta cfr. lo studio realiz-
zato da Mediobanca - R&S (2000) per la commissione Bilancio della Camera dei
deputati.
34. I dati riportati nel testo sono tratti dall’indagine ISTAT sulle imprese a controllo
estero; cfr. ISTAT (2004), pp. 175-181.
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NOTE 341
35. Cfr. ISAE (2003b). In media la dissomiglianza della struttura industriale italiana,
che varia dal 18 per cento con la Germania al 22,7 per cento con la Francia, è au-
mentata tra il 1990 e il 2000 dell’1,5 per cento nei confronti della Germania, del 5,3
per cento della Francia, del 6,6 per cento della Gran Bretagna e del 3,2 per cento
della Spagna. Ancora più marcato è il livello di divergenza nella struttura delle
esportazioni, che oscilla tra il 26 per cento e il 32,9 per cento. Nel corso degli anni
Novanta, la dissomiglianza della struttura delle esportazioni italiane è aumentata ri-
spetto a quelle tedesche, francesi e inglesi ed è diminuita rispetto a quelle spagno-
le.
36. La spesa per ricerca e sviluppo è in Italia pari all’1,1 per cento del PIL contro una
media europea del 2 per cento. Le imprese private contribuiscono per circa un ter-
zo del toale, rispetto a quasi il 60 per cento del contributo privato nell’UE. Dati
ISTAT (2004).
38. Sul fallimento della politica di privatizzazioni nell’UE cfr. Huffschmid (2003). Sul-
le pericolose ambiguità che ancora sussistono nelle recenti posizioni della Com-
missione Europea cfr. Bernardo (2003).
39. Sulle vicende della privatizzazione ferroviaria in Inghilterra cfr. Nussbaumer (2002)
e Hutton (2003), pp. 232-233.
40. Per un’analisi delle disastrose conseguenze della deregulation elettrica california-
na cfr. Krugman (2004), cap. 13.
41. Le dichiarazioni di Davis sono state riportate sul quotidiano «La Repubblica» del
10 gennaio 2001 nell’articolo di Rampini (2001).
42. Per un’analisi delle trasformazioni subite dal sistema bancario italiano nel corso de-
gli anni Novanta cfr. Messori - Tamburini - Zazzaro (2003, a cura di).
43. Sulle trasformazioni giuridiche delle fondazioni bancarie e sul loro collegamento
con il terzo settore cfr. Capriglione (1997), cap. IX.
44. Ad esempio, al capitale azionario dei primi cinque gruppi bancari italiani parteci-
pano ben 15 fondazioni, di cui 9 con quote superiori al 5 per cento. Le banche con-
trollate dalle fondazioni sono invece 25. Cfr. Sarcinelli (2003).
46. Nel 2002 i primi cinque gruppi detenevano una quota del 55 per cento del totale
dell’attivo bancario, contro il 35 per cento del 1995. Il grado di concentrazione del-
l’attivo bancario è così diventato superiore a quello tedesco e francese e analogo a
quello inglese e spagnolo. Cfr. a questo proposito la relazione svolta dal presiden-
te dell’ABI, Sella (2003), di fronte alla commissione attività produttive della Ca-
mera dei deputati.
47. I dati sopra illustrati sono riportati in Panetta (2003) e in ASSBB (2002).
342 NOTE
49. Sugli effetti negativi della trasformazione bancaria degli anni Novanta, in partico-
lare per le piccole imprese e il Mezzogiorno, cfr. Realfonzo (2004a).
2. Nel 1980 il tasso di occupazione sulla popolazione totale era del 36,8 per cento e
nel 2003 del 37,9 per cento, dati ministero dell’Economia e delle Finanze (2003), ta-
vola 3.3.
6. Nel 1989 l’indice di Gini per il totale delle famiglie italiane era pari a 0,339; cfr.
Brandolini (1999), p. 53.
7. Una ricerca condotta su un più ampio universo campionario, che considera, oltre ai
redditi da lavoro, anche i redditi da pensione e da altri trasferimenti, conferma la si-
gnificativa crescita della disuguaglianza avvenuta durante gli anni Novanta. Degno
di nota è anche il fatto che nel corso dell’ultimo decennio la funzione redistributi-
va della famiglia tende a ridursi e, conseguentemente, il reddito individuale au-
menta di importanza nel determinare la condizione economica delle persone. Cfr.
D’Alessio - Signorini (2000).
8. Ad esempio, nel periodo 1995-2000 l’indice di Gini per il reddito familiare com-
plessivo era in media pari a 0,325 nelle regioni meridionali e nelle isole, contro un
valore di 0,299 nelle regioni del Nord e di 0,276 in quelle centrali. Cfr. Cannari -
D’Alessio (2003).
10. I dati sulla povertà per il biennio 2001-2002 sono presi dall’indagine ISTAT
(2003b).
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NOTE 343
12. La definizione ufficiale dell’ISTAT (2004), p. 331, delle famiglie quasi povere con-
sidera quelle famiglie che hanno una spesa media per consumi superiore alla linea
di povertà di non oltre il 20 per cento.
13. Addirittura il 23,7 per cento delle famiglie in cui la persona di riferimento è disoc-
cupata si trovano in questa condizione.
14. Cfr. ad esempio quanto scrive l’ISTAT nel Rapporto annuale 2004, p. 213: «Si trat-
ta dunque di una sorta di corto circuito: se l’occupazione femminile è troppo bas-
sa e le retribuzioni troppo modeste, le famiglie non hanno redditi abbastanza ele-
vati per acquistare quei servizi che occupano in misura rilevante le donne stesse e,
al tempo stesso, consentono alle altre donne di conciliare lavoro e famiglia. In que-
sto contesto, è dunque importante reinterpretare il nesso tra partecipazione fem-
minile e natalità, per evidenziare come, per una parte crescente della nostra società,
siano la bassa occupazione femminile e i bassi salari (oltre ad altri, essenziali fatto-
ri legati al sostegno e alla cura dei figli) a costituire un condizionamento per la fe-
condità e non viceversa».
15. Il tasso di utilizzo degli impianti industriali nel periodo 1991-2003 è stato dell’83,7
per cento in Germania, dell’84,6 per cento in Francia e del 76,9 per cento in Italia.
Dati European Commission (2004a).
17. In un recente libro Stefanoni (2004) ricostruisce le truffe finanziarie italiane degli
ultimi anni. L’elenco è veramente lungo. Per una dettagliata ricostruzione della vi-
cenda Parmalat, dalle sue origini allo scoppio dello scandalo, cfr. Capolino - Mas-
saro - Panerai (2004). Sul carattere predatorio del capitalismo degli anni Novanta
cfr. Gallino (2004). Per una ricostruzione delle vicende dei principali gruppi finan-
ziari del paese e dei loro manager cfr. Mucchetti (2003). Una ricostruzione delle
spregiudicate battaglie finanziarie che hanno segnato le vicende della globalizza-
zione neoliberista degli anni Novanta è in Cingolani (2000).
18. Cfr. la ricostruzione del principale scandalo finanziario che ha colpito Wall Strett,
quello della Enron, fatta da Borzi (2002). Le analogie nei comportamenti spregiu-
dicati del manager della multinazionale energetica americana, Kenneth Lay, con
quelli del patron della Parmalat, Calisto Tanzi, sono davvero tante.
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344 NOTE
20. Sulle trasformazioni della concezione dell’impresa nella fase della globalizzazione
neoliberista cfr. Fligstein (2004).
1. Sulle trasformazioni del lavoro nel “postfordismo” cfr. all’interno della vasta let-
teratura disponibile i contributi di Revelli (1995) - Trentin (1997) e Cillario
(1996).
2. Ormai questa è una verità che comincia a farsi strada anche nelle sedi ufficiali. Cfr.
quanto afferma l’ISTAT nel Rapporto annuale 2004, pp. 212-214: «Nel decennio in-
tercorso tra il 1993 e il 2003, in Italia il reddito da lavoro dipendente reale pro ca-
pite ha subito un arresto, mentre negli altri paesi europei cresceva a ritmi variabili,
anche piuttosto sostenuti. Il raffreddamento della dinamica retributiva, in connes-
sione con la contrazione della produttività, si è tradotto nell’ultimo biennio in una
vera e propria perdita di potere d’acquisto delle retribuzioni di fatto in alcuni setto-
ri […]. Elementi nella spiegazione di quest’ultima sfavorevole caratterizzazione del-
la fase di crescita dell’economia italiana vanno ricercati, del resto, anche nella stessa
stagnazione salariale […]. Il rallentamento salariale ha avuto effetti negativi sulla cre-
scita economica non solo per l’attenuarsi degli effetti della massa salariale aggrega-
ta sulla domanda interna […] ma, probabilmente, anche per il venire meno degli sti-
moli alla competitività e alla riorganizzazione delle imprese a fronte di una dinami-
ca salariale estremamente moderata. La caduta della quota del lavoro nel reddito,
peraltro, evidenzia il divario che si è venuto a creare tra la crescita della produttività
e quella delle retribuzioni lorde. Tra il 1993 e il 1999, mentre la produttività del la-
voro aggregata cresceva, in termini nominali, del 35,5 per cento, le retribuzioni lor-
de per unità di lavoro crescevano del 23,1 per cento. Negli anni successivi le due va-
riabili crescevano in modo omogeneo».
3. Sulle distorsioni di significato subite nel corso degli anni da termini quali “concer-
tazione”, “politica dei redditi”, “flessibilità”, cfr. Rieser (2000).
4. Sulla razionalità del conflitto salariale, anche dal punto di vista della teoria econo-
mica, cfr. Brancaccio - Realfonzo (2004).
5. Sulle vicende della contrattazione salariale in Italia cfr. Rieser (2004). Sulle trasfor-
mazioni degli anni Novanta cfr. anche Fagiani - Locarno - Oneto - Sestito (1998) e
Zenezini (2002).
NOTE 345
8. Sulle forme di subordinazione che caratterizzano il nuovo lavoro autonomo cfr. Bo-
logna - Fumagalli (1997, a cura di).
9. L’uso vincolante e generale del referendum tra tutti i lavoratori e una nuova legge
sulla rappresentanza sindacale sono due cardini della linea del principale sindaca-
to industriale italiano, la FIOM; cfr. Rinaldini (2004).
10. Sulle conseguenze della precarietà e dell’insicurezza sulla psicologia individuale cfr.
Sennett (1999) e Bauman (2000).
11. Sull’impatto, articolato e complesso, del fenomeno migratorio sul mercato del la-
voro e sui salari cfr. Pugliese (2000).
12. Sulle diverse posizioni presenti tra i sostenitori del salario di cittadinanza cfr. Man-
tegna - Tiddi (2000). Sul reddito di cittadinanza cfr. il libro a cura di Fumagalli e
Lazzarato (1999).
13. Sulla necessità della ricostruzione di un nuovo vincolo interno all’economia cfr.
Bertinotti (1999).
14. Sull’origine e lo sviluppo del sistema del welfare in Italia fino all’inizio degli anni
Ottanta cfr. Ascoli (1984, a cura di).
15. Sull’erosione del sistema del welfare negli anni Novanta cfr. Bosi (2002).
16. I dati sono tratti dal più recente rapporto Eurostat (2004) sulla protezione sociale
in Europa e si riferiscono all’anno 2001.
19. I dati sono ripresi da Eurostat (2004). Gli assegni di reversibilità, non compresi nel
dato riportato nel testo, ammontano in Italia al 10,6 per cento della spesa sociale
totale e nell’UE al 4,8 per cento. Le pensioni di reversibilità hanno natura più as-
sistenziale che previdenziale, essendo volte principalmente a garantire il manteni-
mento di un reddito minimo familiare alla morte del percettore della pensione.
21. Cfr. le considerazioni svolte a questo proposito da Marano (2002), p. 46, sulla ba-
se di una ricerca dell’OECD.
22. Tenendo conto anche di altri fattori, Pizzuti (2004) conclude, al contrario di quan-
to comunemente si afferma, che la spesa pensionistica italiana è inferiore a quella
media europea.
23. Per un’analisi degli effetti della legge delega pensionistica del governo Berlusconi
cfr. Pizzuti (2002).
24. Sulle modifiche subite dal sistema previdenziale italiano negli anni Novanta cfr.
Martufi - Vasapollo (2000).
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346 NOTE
25. Infatti, soltanto meno di un quarto degli oltre cinque milioni di pensionati con pen-
sione inferiore al milione al mese ha potuto beneficiare dei provvedimenti contenuti
nella legge finanziaria 2002; cfr. ISTAT (2004), pp. 380-283.
26. Sul carattere irrealistico e illusorio di queste tesi, sostenute anche da alcuni espo-
nenti della sinistra politica e teorica, cfr. Bellofiore (2002).
27. Sugli effetti del crack Enron sui fondi pensione dei lavoratori americani cfr. Black-
burn (2002).
28. Sui fondi pensione, in particolare su quelli italiani, e sulle tante insidie che essi na-
scondono, cfr. Andruccioli (2004).
29. Cfr. Mazzetti (2003), dove viene compiuta un’opera di demistificazione teorica di
tutte le favole sull’emergenza pensionistica.
30. Per un esame dei sistemi previdenziali nei vari paesi dell’UE cfr. Commissione Eu-
ropea-Consiglio Europeo (2003).
1. È questo, ad esempio, il caso del “nuovo corso” della Confindustria dopo l’elezio-
ne di Luca Cordero di Montezemolo come suo presidente; cfr. Cremaschi (2004).
2. Sulla necessità di una politica industriale italiana incentrata sulla qualificazione tec-
nologica dopo l’entrata nell’euro cfr. Graziani (2002).
3. Cfr. Relazione annuale del governatore della Banca d’Italia per il 2004, Appendi-
ce, tav. aB 23.
4. Sulla crisi della Fiat cfr. le analisi di Bellofiore (2002) e Garibaldo (2002).
1. Per un esame delle radici ideologiche conservatrici che ispirano le misure di ridu-
zione delle tasse negli USA e in Italia e dei loro reali effetti economici e redistribu-
tivi cfr. Pennacchi (2004).
2. Per un’analisi della riforma fiscale del governo Berlusconi e dei suoi effetti distri-
butivi cfr. Baldini - Bosi (2002), gli studi contenuti in NENS (2002) e Cavaterra
(2003).
NOTE 347
4. Gran parte delle proposte che seguono sono il frutto di un lavoro svolto per la pre-
sentazione della relazione parlamentare di minoranza alla legge finanziaria 2004 da
parte dei gruppi di Rifondazione Comunista alla Camera e al Senato.
6. Cfr. la rassegna sulle diverse metodologie di calcolo e sulle diverse stime dell’eco-
nomia sommersa contenuta in Lucifora (2003).
8. Per un esame dei differenti regimi di tassazione delle rendite finanziarie in Europa
cfr. ASSBB (2001).
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Afghanistan, 24, 297 62-65, 70, 77-79, 82, 85, 169
Africa, paesi africani, 8, 15, 18, 19, 26, 32, banche centrali nazionali, 48, 52-55, 78-
36, 45, 58, 63, 73, 137 79, 104, 115, 129, 155, 255
Agnelli, famiglia, 273, 308 banche centrali, autonomia e indipenden-
agricoltura, 15, 22, 25, 27, 31-37, 42-45, za delle, 111-12, 156-57
65, 68, 75, 153, 214 banche, sistema bancario, 80, 115, 193,
Alaska, 258 199-204, 218-22, 257, 273-75, 277-80,
ALCA (Area de Libre Comercio de Las 315
Américas), 38-44, 72-73 Bangladesh, 20
Amato, Giuliano, 200 Belgio, 71, 113-14, 120, 123, 134, 141,
America Latina, 15, 26, 38-44, 58, 61-63, 163, 173-75, 209, 308
73, 77, 136 Belize, 40
Amsterdam, 130 beni comuni, 31, 39, 43, 76, 83, 154, 197,
antitrust, autorità, 280, 282 224, 263, 284, 286-88, 314
Arcore, 268 Berlusconi, governo, 95, 139, 182, 191,
Argentina, 41-42, 44 237-38, 247, 250, 252, 254, 256-59, 267-
Aristide, Jean-Baptiste, 41 69, 279, 294-95, 297, 299-306, 312, 313-
ASEAN (Association of Southeast Asian 14
Nations), 73 Blair, Tony, 299
Asia, paesi asiatici 26, 40, 47, 52, 58, 61- Bolívar, Simón, 42
62, 64, 73, 76-78, 105, 107, 185 Bolivia, 40-41
ATTAC 307 Bossi, Umberto, 245
Austria, 113-14, 120, 123, 125, 134, 141, Bové, José, 154
173-75, 209, 308 Brandt, Rapporto, 67
Avana, Carta dell’, 20-21 Brasile, 35, 38, 41-42, 44, 62, 166
Bretton Woods, 20, 47, 51-55, 57, 71, 77-
Bairoch, Paul 16 78, 81, 84-86
Banca Centrale Europea (BCE) 106, 111, British Railways, privatizzazione di, 197
115, 129, 146-47, 151, 155-61, 169, 293- Brunetta, Renato, 143
94 Bundesbank, 109
banca centrale mondiale, 51, 84-85 Bush, amministrazione, 24, 38, 59, 81, 106,
Banca d’Italia, 137, 180, 201, 211, 217, 167, 267, 299, 300
222, 225, 268, 277, 280-81, 290, 293-94,
303, 309, 310 California, mercato elettrico della, 197-199
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ENEL, 192, 194, 272 Germania, 44, 50, 54-56, 71, 95, 97, 109,
Engels, Friedrich, 13 113, 114, 120-21, 123-25, 127, 129, 134,
ENI, 192-94, 265, 272 138, 141, 156, 164, 173-75, 187, 194,
Enron, 65, 259 196, 209-11, 249-51, 253-54, 264, 271,
equità sociale, 83, 145, 160, 168, 237, 287, 274, 308, 311, 318
301, 306-08 Giappone, 15, 16, 24, 26, 27, 52, 54-56,
esportazioni, 15-18, 26-27, 32-33, 36, 40, 76, 92-94, 142, 208-11, 271
45, 53, 56, 58, 63-64, 101, 105, 116, 174- Ginevra, 21
75, 183-87 Gini, indice di, 19, 125, 212-14, 216
Eurostat, 127, 250, 253 globalizzazione, 6, 11-18, 20, 24, 26-27,
evasione fiscale, 283, 300-01, 303-05 30-31, 33, 35-37, 43, 55, 60, 62, 66-70,
72-73, 78, 81, 86-88, 107, 112, 127, 130,
farmaci, accesso ai 150-51, 165-67, 169-70, 189, 209, 221,
per i paesi poveri, 26, 30 223-25, 245, 265-66, 278, 286, 313
Fassino, Piero, 154 gold standard, 48-50, 53
FBI (Federal Bureau of Investigation), 303 Göteborg, 143
Federal Reserve, 54-55, 57, 62, 85, 106, Gran Bretagna, 17, 71, 91, 110, 136, 173-
115-16, 156, 159, 267, 294 75, 187, 196-97, 209-11, 249-50, 253,
Fiat, 45, 163, 272-77, 316-21 264, 309
FIM (Federazione Italiana Metalmeccani- Grecia, 114, 120-21, 123, 125, 127, 134,
ci), 319 138, 141, 163, 174-75, 249-50, 253, 271,
Fini, Gianfranco, 245 308-09
Finlandia, 114, 120, 123, 124, 134, 173-75, Greenspan, Alan, 116
209, 261, 308 Guatemala, 40
FIOM (Federazione Italiana Operai Me-
talmeccanici), 319, 321 Hong Kong, 68
fiscale, sistema
italiano, 299-313 ICC (International Chambers of Com-
FISMIC, 319 merce), 25
fondazioni bancarie, 200-03, 275, 277-78 IFO (International Finance Organization),
fondi pensione, 11, 257-258 82, 84-85
Fondo Monetario Internazionale (FMI), ILO (Internazional Labour Organization),
20, 23-24, 47, 51-52, 55, 59, 62-65, 70, 74
77-80, 82, 85, 129, 169 IME (Istituto Monetario Europeo), 111,
fordismo, 50, 164, 188-89, 226-33, 241 114
Forme di proprietà 286-87 immigrazione, 22, 244-45, 260
Francia, 95, 114, 120, 123-25, 129, 134, imposizione fiscale, 83-84, 106, 119, 121-
138, 141, 145, 163, 173-75, 187, 193-94, 22, 144-45, 147, 160-61, 207, 213, 218,
196, 209-11, 238, 249-51, 264, 268, 274, 253-54, 267, 283, 289-313
308, 311 imposta sui grandi patrimoni, 301, 305-
Friedman, Milton, 302 06, 310
Fujimori, Alberto, 41 impresa
concezione della, 222-25, 279, 287-88
G21, 36-38, 68 dimensioni di, 188-193
G8 70, 78, 208 grande, 98, 161, 180, 187-92, 195-96,
GATS (General Agreement on Trade in 222, 235, 241, 269-70, 272, 297-98
Services,) 25, 27-31 piccola e media,188-90, 203, 221, 232,
GATT (General Agreement on Tariffs and 269, 277-78
Trade), 21, 23, 25, 59 tassazione dei redditi di, 106, 122, 301-
General Eletrics, 195 05
Generali Assicurazioni, 201 imprese multinazionali, 17-28, 30, 32, 34-
Genova, 6 35, 37, 39-40, 43, 45, 64-65, 71, 75, 83-
George, Susan, 154 84, 195
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69, 173-74, 176-78, 180, 196, 205-07, NAFTA (North America Free Trade Area)
211, 214, 219-20, 249, 251, 263, 270, 38, 73
289, 291, 294, 296 neoliberismo, 6, 8, 14, 18, 21, 30, 32, 37-
MAI (Multinational Agreement on Invest- 38, 43, 45, 60, 63, 66-68, 70, 72, 86, 88,
ments), 30 93, 106, 110, 119, 128, 142, 149-50, 163,
Major, John, 197 166-67, 191, 235, 249, 266-69, 287-88,
Malesia, 78 299, 313-15
Marche, 188 New Hampshire, 47
Maroni, Roberto, 143, 256 Nigeria, 36
Marrakech, accordi di, 20, 22 Nixon, Richard, 54-56
Marshall, Piano, 53 Norvegia, 249-50
Marx, Karl, 13 nuovo modello di sviluppo, 281-88
marxismo, 13-14, 165, 227-28 nuovo ordine economico internazionale
Mattei, Enrico, 265 (NIEO), 37, 46, 66, 70-73, 82, 86, 88,
Mattioli, Raffaele, 199, 265 169
Mediobanca,201
Medioriente, 137 OCA (Organization for Corporate Ac-
Melfi, 316-21 countability), 83
Meltzer, Rapporto, 77 occupazione, piena, 11, 83, 116, 119, 135,
mercati finanziari, 12, 15, 50, 55-57, 59- 161, 168, 234
62, 77, 79-80, 82, 105, 110, 112, 115, OECD (Organisation for Economic Co-
117, 151, 159-61. 199, 203-04, 222-23, operation and Development), 34, 98,
255, 258, 270, 279-281, 294-96, 306, 308 121, 180, 182, 208-10, 271
Mercedes, 162-63 Olanda, 113-14, 120, 123, 134, 138, 173-
MERCOSUR (Mercado do Cono Sur), 75, 209
42, 44-45, 73 ONG (Organizzazioni non Governative),
Messico, 5, 38, 40-41, 45, 61, 65, 73 7-8, 68
Messina, 282 ONU (Organizzazione delle Nazioni Uni-
Mezzogiorno, 153, 182, 193, 202, 214, te), 20, 23-24, 67, 70-72, 74, 82-83, 85-
216, 265, 277, 279, 282-83, 290, 316 86, 169
Miami, 38, 42
Mirafiori,316-18 Panama, 40
Modigliani, Franco, 302 Paraguay, 42, 44
moneta di riserva internazionale, 51-53, Parlamento Europeo, 91, 139, 153, 155
55, 57-58, 61, 84-86, 267 Parmalat, 221-22, 225, 258-59, 269, 279-81
monetarismo, 41, 49, 78, 128, 146, 159, Partito Socialista Europeo, 154
166 Partito Socialista Italiano, 193
Montenegro, 24 Patto di Stabilità e Crescita, 88, 93, 105,
Monterrey Consensus, 65 108, 110, 128-49, 151, 154-55, 267
Moratti, riforma, 252 pensioni e previdenza, 28, 76, 131, 140,
movimenti di capitale, 12, 16, 48, 50-51, 143-44, 154, 181-82, 201, 219, 227, 238,
53, 58, 60, 77, 80, 84-85, 112, 115, 160, 247-49, 253-63, 289, 297, 299, 302-04,
163, 306-07 307, 312, 314-15
movimenti sociali, 5-8, 31, 37, 40-42, 44, Perù, 40, 41
46, 62, 68-73, 81-82, 87-88, 154, 225, Plan Colombia, 40
266, 272, 285-88, 315 Plan Puebla Panama (PPP), 40
movimento operaio, 88, 150, 227-28, 232- politica dei redditi, 234-35
33, 235, 240-42, 248, 255, 265, 266, 272 politica fiscale, 57, 59, 104, 111-12, 115,
multilateralismo commerciale, 72-76, 82- 117-19, 122, 124, 129-30, 132, 135-36,
83, 86 140-41, 144, 146-47, 152-55, 160, 169,
multipolarismom 86 184, 222, 290-91, 306, 314
Müntzer, Thomas, 288 politica industriale, 152, 187, 199, 264,
Mussolini, Benito, 49 269-70, 278, 298
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politica monetaria, 48, 56-57, 59, 104, SADC (Southern Africa Development
108-09, 111-12, 115-17, 119, 134, 138, Community), 73
146-47, 149, 151, 156-61, 165, 168-69, salario di cittadinanza, 233, 243-247, 252,
185, 205, 236, 267-68, 290, 293-94, 296 262-63, 315
Portogallo, 114, 120, 123, 125, 134, 137, salario minimo 233, 243-247
141, 174-75, 209, 249-50, 271, 308 salario, dinamiche e politiche del, 49-50,
postfordismo, 226-33, 316 56, 64-65, 94-100, 103, 115, 118, 122-24,
Potenza,316 157, 159, 161-64, 167-68, 187, 191-92,
povertà, 19, 42, 45, 65, 77, 79, 83, 124, 205-15, 219, 221, 226-27, 230, 234-42,
126, 154, 211-16, 219, 225, 246, 252, 263, 270, 293, 314-15, 318-19, 321
259, 261, 300, 302, 314 San Francisco, 198
Powell, Colin, 39 sanità, 27-28, 33, 76, 131, 140, 143, 146,
Prebisch, Raul 74 154, 224, 247-50, 252, 289, 293, 299,
privatizzazioni, 6, 20, 27, 29, 31, 39, 41, 302, 312, 315
43, 45, 57, 63-65, 78, 143-44, 148, 152, Santiago del Cile, 38
168, 192-204, 221, 224, 248-50, 267, SAP (Structural Adjustment Programs),
268, 270, 272, 282, 284, 286, 290, 302, 64-65
312, 314-15 Saraceno, Pasquale, 265
Prodi, Romano, 127, 129, 181 scala mobile, 235-40, 246
profitto, 20, 34, 43, 75, 103, 105, 121, 154, Scanzano, 319
163, 167-68, 203-04, 206-11, 219-21, Schroeder, Gerard, 127, 299
223-24, 231, 234, 236, 245, 249, 260, Schwartzenegger, Arnold, 199
266-67, 270, 272, 277, 305, 307-08 scuola e istruzione, 28, 31, 34, 76, 140,
programmazione economica, 63, 118, 142-43, 154, 206, 224, 247-53, 262, 287,
145-46, 153, 160, 169, 190, 234, 276, 289, 299, 312, 315, 320
282, 285, 315 Seattle, 6, 25, 30, 31,62, 69
Prometeia, 215 Serbia, 24
protezionismo, 21, 33-34, 43, 50, 57, 59, servizi pubblici e sociali, 5, 15, 18, 22, 25,
73, 76, 78, 186-87, 268 27-32, 39-45, 58, 63-65, 68, 76, 82, 102,
PVS (Paesi in Via di Sviluppo), 26, 31, 33- 119, 121, 131, 143-44, 148, 152, 154,
34, 36, 58, 66, 69, 75, 137 175, 181, 192-93, 196-99, 200, 241, 247-
52, 267, 270, 274, 276, 282-83, 286, 290-
Reagan, Ronald, 57-58, 71, 199, 267, 299, 91, 293, 299, 310, 312, 315
300 signoraggio, potere di, 53, 58, 84-85
redistribuzione, politiche di, 37, 63, 69, Silicon Valley, 162, 197
104, 106, 115, 118, 127, 145, 153-54, sindacati, 49, 163, 168, 235-36, 240, 242,
159, 162, 165-67, 169, 233-40, 246-47, 246, 272, 317-321
259-60, 262-63, 269, 289, 311, 314 Singapore issues, 31-32, 68, 326
Regno Unito, 51, 91, 114 sinistra, 13-14, 46-47, 72, 81, 88, 127-29,
Renault, 274 149, 163, 170, 227-28, 257, 265, 269,
rendita, 25, 103-04, 121, 146, 160, 164-65, 291, 296, 313
167, 196, 207, 210-11, 217-23, 231, 239, Siria, 24
258-60, 264-67, 293-96 Sistema Monetario Europeo (SME), 60,
Repubblica Dominicana, 36 109-10, 113, 184
Resistenza, 265 Slovacchia, 249
RFT (Repubblica Federale Tedesca), 109 Slovenia, 249, 271
ricerca e innovazione tecnologica 34, 105, Spagna, 44, 114, 120, 123-25, 134, 174-75,
107, 142, 165, 185, 189-91, 193, 196, 206, 187, 196, 208-11, 249-50, 271, 309
220, 229, 242, 269, 271, 276, 278, 315 specializzazione produttiva dell’Italia, 183,
Rifondazione Comunista, 127 185-87, 190, 195, 206, 251, 264, 275
Rocard, Michel, 154 speculazione finanziaria 50, 54, 60, 77, 79-
Roma, 109, 199, 319, 320 80, 84-85, 110, 136, 145, 153, 159-61,
Russelsheim, 318 195-96, 197, 221-22, 225, 238, 270, 278-
Russia, 61, 63, 77 79, 284, 306-07, 312-13
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Statuto dei Lavoratori, 192, 242, 247 146, 153, 155, 159, 163-64, 166-67, 169,
Stoccolma, 143 173-76, 182, 188, 196, 208-10, 249-54,
Sud, del mondo 271, 302, 308, 311
paesi del, 8, 17, 23, 25-26, 31, 34-37, UEM (Unione Economica e Monetaria),
43-46, 57, 59-65, 67, 71-77, 79, 81- 92-93, 95-99, 101-05, 108, 110-16, 119-
82, 86, 151, 162, 169, 244, 314 23, 125, 127, 130, 132-39, 141-44, 146-
Sudest asiatico, 61, 77 51, 153, 157, 160-61, 174-75, 179-80,
Svezia, 114, 136, 150, 173-75, 209, 253, 183-84, 194, 206-07, 307
261, 308-09 UNCTAD, 34, 74-75
sviluppo equo e sostenibile, 69, 74, 82, 87, Ungheria, 249
247 URSS, 47, 58, 134
Svizzera, 249-50 Uruguay, 44
Uruguay Round, 20, 27, 31-32, 74
Tanzi, Calisto 221, 225 USA, 5, 16, 19-21, 24, 26-27, 31-41, 43-45,
tassazione della rendita finanziaria, 302, 47, 50-56, 57-63, 66, 71, 73, 76-77, 81,
307-10 84-85, 92-99, 101-06, 115, 124, 137, 142,
tassi di cambio, 49, 52, 54, 57, 77, 85, 109- 145, 151, 162, 166-67, 169, 197, 199,
13, 115-17, 149. 151, 156, 158-60, 167, 206, 209-11, 257, 271, 293, 299-300,
175-76, 184-85, 205 302, 313
tassi di interesse, 48, 57, 59, 62, 71, 103-
04, 106, 112-17, 119-20, 131, 134, 138, Veneto, 189
146, 159-60, 168, 187, 202, 207, 220, Venezuela, 36, 38-42, 326
255, 289, 291-97, 302, 308-11 Versailles, 268
Terni, 195, 271 Via Campesina, 7-8, 329
TFR (Trattamento di Fine Rapporto), 253, Vietnam, 54
258-59 Volkswagen, 274
Thatcher, Margaret, 197, 299
Tobin tax, 84, 160-61, 306-07 Wall Street, 50, 55, 58, 222, 313
Torino, 283, 319 Washington, 78-79
Tremonti, Giulio, 76, 186, 201, 267-68, 302 Washington Consensus, 59, 62-63, 65, 77,
Treu, Tiziano, 181 81
Triffin, Robert, 53 Welfare State (Stato sociale), 57, 248, 300,
Trilussa, 313 312
TRIPS (Agreement on Trade Related Werner, Piano, 110, 117
Aspects of Intellectual Property Rights), White, Piano, 51
25-27 World Trade Center, 31
Truman, Henry, 21 World Trade Organization (WTO), 5-8,
11, 17, 20-32, 35-39, 43-45, 59, 66-70,
UE (Unione Europea), 15, 24-35, 32-37, 72-76, 81-82, 88, 169, 175
39, 43-46, 66, 72-76, 86, 88, 91-92, 94-
95, 98-100, 108, 122, 124-26, 132, 136, Yucatán, 5
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Tabella 2. Crescita del PIL reale. Tassi medi annui di variazione (UEM, USA,
Giappone: 1961-2003), p. 93
Tabella 9. Gli effetti economici del trattato di Maastricht. Medie annue dei pe-
riodi 1986-91 e 1992-1997, p. 123
Tabella 10. La crescita economica negli anni del Patto di Stabilità e Crescita.
Tassi medi annui di variazione del PIL (1998-2003), p. 137
Tabella 11. La crescita in Europa negli anni di Maastricht. Tassi medi annui di
variazione per singoli paesi (1991-2003), p. 174
Tabella 12. Quote di esportazioni di beni e servizi sul mercato mondiale e com-
petitività di prezzo dei paesi dell’UE (1991 e 2002), p. 175
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Tabella 18. Quota dell’Italia e della Cina sulle esportazioni mondiali nei setto-
ri di specializzazione produttiva italiana (1990 e 2002), p. 187
Tabella 20. Quota dei salari sul valore aggiunto totale del settore privato (in per-
centuale). Valori medi del periodo 1960-2003, p. 209
Tabella 21. Variazioni della quota dei salari sul valore aggiunto totale del setto-
re privato (1960-2003), p. 210
Tabella 22. Differenza tra il tasso di crescita dei salari orari e il tasso di crescita
del reddito nazionale. Valori medi annui (1970-2002), p. 211
Tabella 23. Bassi salari e povertà tra i lavoratori dipendenti. Italia, 1989 e 1998.
Quote percentuali sul totale. Valori monetari espressi in lire (1998), p. 213
Tabella 25. Fattori della crescita del debito pubblico italiano. Dati in percen-
tuale del PIL, (1991-2002), p. 292
Grafico 1. Crescita del prodotto interno lordo mondiale e del volume delle
esportazioni nella seconda metà del XX secolo, p. 17
Indice
Ringraziamenti XV
DOPO IL LIBERISMO 1
4. Il declino dell’Europa 91
4.1. Il declino dell’Europa, p. 91 – 4.2. Una tesi incredibile: l’oziosità dei
lavoratori come causa del declino europeo, p. 94 – 4.3. Il triste lascito di
Maastricht, p. 101
Note 323
Bibliografia 349
Indice delle persone e delle cose notevoli 367
45. Philippe Beaussant, Anche il Re Sole sorge al mattino. Una giornata di Luigi
XIV, prefazione di Giuliano Ferrara. Traduzione di Laura Pugno. (Scritture)
46. Alessandro Spaventa - Fabrizio Saulini, American Lies. Ascesa e caduta del-
la Enron. (Interventi)
47. Ekkehart Krippendorff, L’arte di non essere governati. Politica etica da Socra-
te a Mozart, traduzione di Vinicio Parma. (Pensiero)
48. Dag Tessore, La mistica della guerra. Spiritualità delle armi nel cristianesimo
e nell’islam, prefazione di Franco Cardini. (Civiltà)
49. Jacques Allaman, Cecenia. Ovvero, l’irresistibile ascesa di Vladimir Putin, tra-
duzione di Giuliano Cianfrocca. (Interventi)
50. Antonio Monda, La magnifica illusione. Un viaggio nel cinema americano.
(Scritture)
51. Nafeez Mosaddeq Ahmed, Dominio. La guerra americana all’Iraq e il geno-
cidio umanitario, traduzione di Thomas Fazi, Andreina Lombardi Bom, Nazza-
reno Mataldi, Pietro Meneghelli, Vincenzo Ostuni e Isabella Zani. (Interventi).
52. Mario Gamba, Questa sera o mai. Storie di musica contemporanea. (Scritture)
53. Christopher Hitchens, Processo a Henry Kissinger, traduzione di Marco Pet-
tenello. (Interventi)
54. James Wilson, La terra piangerà. Le tribù native americane dalla preistoria ai
nostri giorni, traduzione di Alberto Bracci Testasecca. (Civiltà)
55. Baruch Kimmerling, Politicidio. Ariel Sharon e i palestinesi, traduzione di
Elisa Bonaiuti. (Interventi)
56. Colm Tóibín, Amore in un tempo oscuro. Vite gay da Wilde ad Almodóvar,
traduzione di Pietro Meneghelli. (Scritture)
57. Robert Nozick, Invarianze. La struttura del mondo oggettivo, introduzione di
Sebastiano Maffettone. Traduzione di Gianfranco Pellegrino. (Pensiero)
58. Manlio Dinucci, Il potere nucleare, prefazione di Giulietto Chiesa. (Inter-
venti)
59. Rita Di Giovacchino, Il libro nero della Prima Repubblica, prefazione di Mas-
simo Brutti, con un’intervista a Giovanni Pellegrino. (Interventi) (2a ed.)
60. Clyde V. Prestowitz, Stato canaglia. La follia dell’unilateralismo americano,
traduzione di Irene Floriani. (Interventi)
61. Will Hutton, Europa Vs. USA. Perché la nostra economia è più efficiente e la no-
stra società più equa, prefazione di Guido Rossi, con un saggio di Massimiliano
Panarari. Traduzione di Fabrizio Saulini. (Interventi)
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62. Gianfranco Fini, L’Europa che verrà. Il destino del continente e il ruolo del-
l’Italia, a cura di Carlo Fusi, prefazione di Giuliano Amato. (Interventi)
63. Thomas Cahill, Desiderio delle colline eterne. Il mondo prima e dopo Gesù,
traduzione di Nazzareno Mataldi. (Civiltà)
64. William Blum, Il libro nero degli Stati Uniti, con un aggiornamento di Nafeez
Mossadeq Ahmed. Traduzione di Giorgio Bizzi, Maria Fausta Marino, Riccardo
Masini, Chiara Vatteroni e Isabella Zani. (Interventi) (4a ed.)
65. Alessandro Spaventa - Fabrizio Saulini, Divide et impera. La strategia dei neo-
conservatori per dividere l’Europa. (Interventi)
66. Gore Vidal, Il canarino e la miniera. Saggi letterari 1956-2000, postfazione di
Claudio Magris. Traduzione di Stefano Tummolini. (Scritture)
67. James Bamford, L’orecchio di Dio. Anatomia e storia della National Security
Agency, traduzione di Riccardo Masini. (Interventi)
68. Tariq Ali, Bush in Babilonia. La ricolonizzazione dell’Iraq, traduzione di Fran-
cesca Minutiello. (Interventi)
69. Klaus K. Klostermaier, Induismo. Una introduzione, traduzione di Mimma
Congedo. (Civiltà)
70. John H. Berthrong - Evelyn Nagai Berthrong, Confucianesimo. Una introdu-
zione, traduzione di Marcello Ghilardi. (Civiltà)
71. Hilary Putnam, Fatto/Valore. Fine di una dicotomia e altri saggi, introduzio-
ne di Mario De Caro, traduzione di Gianfranco Pellegrino. (Pensiero)
72. Lapo Pistelli - Guelfo Fiore, Semestre nero. Berlusconi e la politica estera, pre-
fazione di Lucio Caracciolo. (Interventi)
73. Henri de Grossouvre, Parigi Berlino Mosca. Geopolitica dell’indipendenza
europea, prefazione di Pierre Marie Gallois. Traduzione di Maura Posponi.
(Interventi)
74. Jonathan Spence, Mao Zedong, traduzione di Loredana Baldinucci. (Bio-
grafie)
75. Paul Johnson, Napoleone, traduzione di Ilaria Belliti. (Biografie)
76. Philip Jenkins, La terza chiesa. Il cristianesimo nel XXI secolo, prefazione di
Franco Cardini. Traduzione di Pietro Meneghelli. (Civiltà)
77. Franco Ferrucci, Il teatro della fortuna. Potere e destino in Machiavelli e
Shakespeare. (Scritture)
78. Gore Vidal, Democrazia tradita. Discorso sullo stato dell’Unione 2004 e al-
tri saggi, traduzioni di Marina Astrologo, Giuseppina Oneto e Stefano Tum-
molini. (Interventi)
79. Ekkehart Krippendorff, Critica della politica estera, prefazione di Gian
Giacomo Migone. Traduzione di Elisabetta Dal Bello. (Pensiero)
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Finito di stampare
nel mese di novembre 2004
nello stabilimento grafico
Legatoria del Sud di Ariccia (Roma)
per conto di
Fazi Editore