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Saggi Tascabili Laterza

346
Mauro Calise

IL PARTITO PERSONALE
I due corpi del leader

Editori Laterza
© 2000, 2010, Gius. Laterza & Figli

Prima edizione 2000


Nuova edizione ampliata 2010

www.laterza.it

Questo libro è stampato


su carta amica delle foreste, certificata
dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata


Gius. Laterza & Figli Spa,
Roma-Bari
Finito di stampare
nel settembre 2010
SEDIT - Bari (Italy)
per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 978-88-420-9217-9
a Nino
Premessa

Dieci anni dopo, il partito personale continua a pre-


sidiare il sistema politico italiano. Il modello berlu-
sconiano ha resistito a molte tempeste e ha contagia-
to gli altri partiti, alleati e di opposizione. La perso-
nalizzazione dei partiti non è solo, però, un fenome-
no di vertice. Si è insinuata anche dal basso, rinvigo-
rendo l’antica tradizione italiana del particolarismo.
Accanto ai macro-leader nazionali, si sono moltipli-
cati a centinaia i micro-capi locali che fanno ormai
squadra a sé. L’Italia dei grandi partiti appare defini-
tivamente alle spalle, e non sarà certo il tramonto di
Berlusconi a farla resuscitare.
In questa nuova edizione, ho lasciato pressoché
intatto il testo originario del volume, ora parte pri-
ma e seconda, che si conferma di estrema attualità.
Ho aggiunto una introduzione, e una terza parte in
cui passo in rassegna le principali novità. Analizzan-
do la parabola berlusconiana, ma anche richiaman-
do l’attenzione sul fatto che il fenomeno ormai tra-
scende i destini del suo Prometeo. Anche per que-
sto, nelle conclusioni, ho cambiato le ultime pagine.
Oggi, meno disincantate. Anche alla luce di uno sce-
VII
nario internazionale in cui declinano i corpi colletti-
vi. E torna a prendere il sopravvento l’altro corpo
del re.
IL PARTITO PERSONALE
I due corpi del leader
Introduzione
DIECI ANNI DOPO

Il successo del partito personale è legato alla parabo-


la, longeva e tenace, di Silvio Berlusconi. È con lui che,
nel gergo corrente, il termine è stato identificato. Ed è
legata al Cavaliere – alla sua sorte individuale – la do-
manda che tutti, più o meno apertamente, si fanno: co-
sa accadrà al Pdl quando Berlusconi uscirà di scena?
Resisterà il partito personale alla scomparsa del suo
fondatore e padre-padrone, oppure imploderà nei tra-
vagli di una impossibile lotta di successione? L’inte-
resse maggiore per il partito personale resta focalizza-
to sul destino del Cavaliere. Questo libro ha richiama-
to l’attenzione del pubblico – pro e anti-Berlusconi –
sul fatto che la scena italiana fosse occupata e condi-
zionata da un nuovo tipo di partito, creato e sviluppa-
to in pochi mesi dalla straordinaria forza finanziaria,
mediatica ed organizzativa di Silvio Berlusconi. È gra-
zie alla disponibilità di un partito nuovo di zecca – per
struttura, reclutamento, ideologia – che Berlusconi è
rimasto per quindici anni il dominus incondizionato
del sistema politico, resistendo nei momenti di diffi-
coltà e riuscendo a dare per ben tre volte con succes-
so la scalata a Palazzo Chigi.
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Già nella sua prima edizione, tuttavia, il libro met-
teva in risalto come il processo di personalizzazione
non riguardasse solo la neonata creatura del Cavalie-
re, ma investisse, in varie forme, l’universo dei parti-
ti italiani. In particolare, erano tre i tipi di partito per-
sonale che affiancavano il new model army di Berlu-
sconi: il partito dei sindaci, quello dei notabili, e quel-
lo che traeva la sua forza dalle leve istituzionali di Pa-
lazzo Chigi. Negli ultimi dieci anni, questi tre partiti
hanno avuto alterne vicende.
I partiti formatisi come seguito elettorale e ammi-
nistrativo dei nuovi sindaci sono inevitabilmente ri-
sultati vittime della clausola che limita a due manda-
ti la durata di un primo cittadino. E il tramonto del-
la cosiddetta «primavera dei sindaci» ha messo ulte-
riormente in ombra questo fenomeno. Nondimeno,
la poltrona di primo cittadino resta un importante
trampolino per carriere politiche nazionali e, almeno
nelle maggiori città, rappresenta un parcheggio di
tutto rispetto per restare ben visibili – e influenti –
sulla scena mediatica e nel gioco degli intrecci e scam-
bi romani. In ogni caso, persiste il dato più impor-
tante ai fini della nostra tipologia, e cioè l’autonomia
che i sindaci rivendicano e difendono nei confronti
delle ingerenze della nomenklatura romana, forti del
proprio bacino di consensi, facendo, fin che dura il
mandato, partito a sé. Dai sindaci, questa capacità e
questo atteggiamento si sono presto estesi ai gover-
natori. I presidenti di regione sono oggi dei potenti
play-makers sulla scena nazionale. Amministrano ri-
sorse finanziarie ingentissime, in un rapporto di cre-
scente indipendenza rispetto ai propri consigli regio-
nali e, ancor più, verso i propri partiti locali che non
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perdono occasione per manifestare il proprio disap-
punto per l’impossibilità di imbrigliare questi leader
monocratici1.
Non sorprende che proprio da una delle maggio-
ri regioni italiane sia venuto, in questi ultimi mesi, il
progetto di un partito nazionale legato, appunto, al-
la figura di un governatore. Un progetto che, almeno
nelle intenzioni, vorrebbe estendersi ad una piat-
taforma e una constituency macro-territoriale: il par-
tito del Sud. La forza di questo partito consisterebbe
nell’attingere al recinto della nuova politica rappre-
sentato dalle elezioni regionali, con i suoi meccanismi
di reclutamento diretto e di controllo piramidale del-
la macchina esecutiva, mentre continuerebbe a fare
affidamento sui vecchi circuiti di patronage notabila-
re tipici della politica meridionale e degli antichi ca-
pitani di ventura.
Non meno importante è l’altro esempio di partito
personale di straordinario successo, legato alla indo-
mabile personalità del magistrato più amato – e odia-
to – dagli italiani. Ci sono voluti anni e diversi stop-
and-go prima che il partito di Di Pietro conquistasse
un peso nazionale di tutto rispetto. Certo, in questo
hanno giocato anche clamorosi errori da parte della
dirigenza del Pd, che ha trasformato un suo perico-
losissimo competitor in un alleato col vento in pop-
pa. Ma non meno importante è risultata la capacità di
Di Pietro di agganciare con nuovi canali mediatici
settori agguerriti della pubblica opinione. Nessun al-
tro partito ha fatto un uso così sapiente e innovativo
del blog, dimostrando che la personalizzazione ha in-
numerevoli chiavi di accesso, e non si riduce certo al-
la televisione e al porta a porta.
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Accanto ai partiti mediatici, clientelari, carismatici,
un altro partito sembrava avere ottime carte per de-
collare: il partito del premier. Questa ascesa si aggan-
ciava ai processi di presidenzializzazione in atto in tut-
te le principali democrazie – rafforzamento dell’ese-
cutivo e del primo ministro al suo interno, autonomia
dai partiti di riferimento, incremento e autogestione
della presenza mediatica sia nella gestione del gover-
no che nelle campagne elettorali2. Dieci anni fa in Ita-
lia, su questo fronte, avevamo avuto l’esordio – picco-
lo ma significativo – della lista Dini, e, poco dopo, l’e-
sperienza ben più impegnativa e duratura di Romano
Prodi che, partendo dai suoi Democratici, avrebbe
iniziato la marcia conclusa, molti anni dopo, col Pd.
Anche nella strategia di D’Alema, come lucidamente
intuì subito Ilvo Diamanti3, la via presidenziale era sta-
ta vista come una possibile risposta alla debolezza dei
partiti storici. Se ciò contemplasse anche la creazione
di un nuovo partito dalla costola di Palazzo Chigi, non
lo sapremo e forse, all’epoca, neanche D’Alema pote-
va saperlo. Resta il fatto che con l’uscita di scena del-
l’unico leader del centrosinistra capace di una visione
istituzionale, il progetto rimase nel limbo.
Chi invece ha tratto il massimo beneficio dalle
molteplici risorse cui può oggi attingere il primo mi-
nistro è stato Silvio Berlusconi, riuscendo nella invi-
diabile impresa di forgiarsi un doppio partito perso-
nale: per metà sua proprietà privata, e per l’altra metà
appannaggio pubblico. L’anomalia del partito perso-
nale come risorsa patrimoniale del suo leader si è co-
sì potuta fondere coi vertici dello stato italiano, con
alcuni provvedimenti che rischiano di trasformare la
stessa natura pluralista del nostro sistema politico.
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Dalle leggi ad personam al controllo a tappeto delle
reti televisive e di ampia parte della stampa, Berlu-
sconi è giunto a un passo dal trasformare l’Italia in un
regime monopartito: il suo.
Di fronte a questa progressiva colonizzazione per-
sonalistica della politica italiana, la risposta più dif-
fusa è stata quella di demonizzare e criminalizzare il
fenomeno: sia che riguardasse il potere di Silvio Ber-
lusconi sia quando, su scala più ridotta, ha investito
altri protagonisti. In realtà, queste reazioni ideologi-
che hanno finito col nascondere che la personalizza-
zione è andata avanti in almeno altre tre direzioni,
tutte capillari e incisive.
La prima ha riguardato i leader, del centrodestra
come del centrosinistra. L’avventura delle liste per-
sonali è stata tentata da tutti i big del centrodestra,
nel tentativo di arginare l’inglobamento del Cavalie-
re. Fini ha dovuto – temporaneamente – cedere, Ca-
sini ha retto bene la controffensiva, ancorché in con-
dizioni difficili. Bossi ha continuato ad adottare una
soluzione mista: può vantare – a detta di molti – il so-
lo partito, oggi in Italia, con una solida struttura di in-
sediamento territoriale; al tempo stesso, il suo con-
trollo sulla linea e gli umori della Lega è militare, ed
è difficile immaginare come possa il partito fare a me-
no, un domani, del suo carisma autoritario. Nel cen-
trosinistra, i tentativi principali di clonazione del mo-
dello sono stati, fino ad oggi, due. Il primo, targato
Di Pietro, continua ad avere ampio seguito. Il secon-
do, più complesso, è stato ideato e perpetrato da Vel-
troni, e si è rivelato un flop.
Torneremo, nella terza parte del libro, sugli ele-
menti che hanno portato al fallimento di un progetto
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che è riuscito, per alcuni mesi, a galvanizzare un’am-
pia parte dell’elettorato di sinistra. L’operazione era
molto audace, perché ha cercato – senza mai dirlo
esplicitamente – di attingere a due ingredienti chiave
della personalizzazione: il decisionismo dall’alto e la
partecipazione dal basso. Veltroni ha puntato le sue
chance sulla centralizzazione del messaggio e, più in
generale, di ogni forma di comunicazione come
esclusiva prerogativa del leader, personalizzando il
rapporto con i media e l’elettorato. Al tempo stesso –
complice la nuova legge elettorale – ha avocato a sé le
principali decisioni in materia di candidature e asset-
ti della nomenklatura. Dietro il volto ammiccante del
buonismo, il loft ha resuscitato il pugno di ferro del
Politburo.
Per legittimare questa forma di superdirigismo,
Veltroni e il suo staff hanno fatto ricorso alle prima-
rie. Questo canale era già stato utilizzato da Prodi, ma
aveva avuto la funzione limitata di un rito di accla-
mazione di massa per il candidato alla presidenza del
consiglio. Con Veltroni viene esteso a meccanismo di
selezione della dirigenza del nuovo partito, tanto al
centro che in periferia. Diversamente dal modello in-
valso nell’esperienza americana, le primarie non sono
più limitate alla nomination per le cariche istituzio-
nali monocratiche – di presidente, di governatore, di
sindaco – ma diventano la procedura obbligata per
scegliere anche i segretari regionali4.
Contrariamente alle previsioni di scuola, che spe-
ravano di rivitalizzare il partito immettendo energie
fresche dalla cosiddetta «società civile», le primarie si
riveleranno un fattore di frantumazione correntizia
della fragile struttura in formazione. Trapiantate a ta-
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volino e dall’alto nel tessuto politico periferico, le pri-
marie finiranno inevitabilmente col saldarsi a un al-
tro potentissimo fattore di personalizzazione politica:
la rete di consensi individuali costruita intorno ai pic-
coli – e grandi – potentati locali facenti capo – oltre
che a sindaci e governatori – alla pletora di consiglie-
ri circoscrizionali, comunali e regionali. In breve, la
mitologia delle primarie impatta – e si impantana –
con la dura realtà del potere micro-personale.
Accanto alla personalizzazione delle leadership,
primarie e reti micro-personali sono gli altri due prin-
cipali campi di sviluppo della personalizzazione poli-
tica. Si tratta di due fenomeni accomunati da un
profondo – e opposto – bias ideologico. Le primarie
sono la bandiera di un nutrito schieramento di poli-
tologi ed opinion makers, che ne hanno fatto lo stru-
mento di rinnovamento e rifondazione delle super-
stiti macchine di partito. Le reti micro-personali ven-
gono, invece, viste come la sopravvivenza di pratiche
clientelari facenti capo a piccoli e grandi signori del
voto – e delle tessere. Queste rappresentazioni mani-
chee hanno alimentato una facile battaglia mediatica.
Ma hanno finito col nascondere l’incapacità di trova-
re soluzioni organizzative condivise per le molte e
contraddittorie facce della personalizzazione. Col fal-
limento della personalizzazione dall’alto e incapace
di trovare una sintesi tra primarie e reti micro-perso-
nali, il maggior partito d’opposizione viene travolto
dalla macchina personale bi-motore – patrimoniale e
istituzionale – di Berlusconi. Forte del controllo di
Palazzo Chigi, del Pdl e di una parte preponderante
dei canali mediatici, il Cavaliere appare imbattibile.
Tranne che per il più insidioso dei nemici: se stesso.
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All’apice della propria potenza, la personalizza-
zione espone anche il suo limite invalicabile: la fragi-
lità fisica del capo, il suo cortocircuito biologico. Do-
po essere riuscito a conquistare la sfera pubblica, il
partito personale ripiega nei meandri della sfera pri-
vata. Gli ultimi anni del berlusconismo testimoniano
il progressivo declino della sua ideologia politica e
l’irrompere sulla scena del corpo – materiale e indi-
viduale – del leader.
Sono fin troppo note le cronache di una vicenda
che, a sguardi diversi, appare vergognosa e dolorosa.
Ma il suo significato trascende le polemiche di parte,
e va inquadrato sullo sfondo di una parabola più an-
tica, e inquietante: il declino del corpo politico come
patrimonio collettivo e il ritorno, al vertice della po-
lis, del corpo nudo del potere.
Parte prima
IL PARTITO CHE NON C’È
1.
LA SPIRALE DEL SILENZIO

C’è un paradosso nella crisi italiana. Per riconosci-


mento unanime, il cuore della crisi è rappresentato
dal declino dei partiti come architrave del sistema po-
litico. Sino alla fine degli anni Ottanta, l’Italia veniva
rappresentata, anche all’estero, come una partitocra-
zia, vale a dire un regime fondato sui partiti. Al di là
dell’accezione denigratoria del termine, il significato
era inequivocabile: le principali funzioni del sistema
politico venivano svolte, o comunque filtrate e con-
dizionate, dai partiti. Oggi, sappiamo tutti che ciò
non è più vero. Non fosse altro che per la scomparsa
dei due principali partiti, la Dc e il Psi, che avevano
retto il regime partitocratico; nonché per la trasfor-
mazione profonda che ha investito il loro principale
oppositore, sopravvissuto ma con una veste – ideolo-
gica e organizzativa – irriconoscibile. Nondimeno, di
fronte a un collasso di tale portata, le analisi su come
stanno cambiando i partiti sono poche e frammenta-
rie; e non riescono a far breccia nel dibattito pubbli-
co su dove – e come – stia andando il nostro paese.
Peggio ancora, rimbalzano contro un muro di
gomma, il muro dell’ideologia dominante su come
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dovrebbero cambiare i partiti. Il principale ostacolo a
fornire rappresentazioni adeguate della strada im-
boccata dai partiti consiste nella falsa coscienza in cui
ci ritroviamo impigliati: tutti desiderosi di assegnare
ai partiti un ruolo che non possono svolgere. Il risul-
tato è che giornalisti, politici, opinionisti di ogni co-
lore o tendenza litigano, in Italia, su tutto. Ma su un
punto sono assolutamente concordi e non ammetto-
no discussione o eccezione: sul fatto che il cambia-
mento dei partiti debba prendere una certa strada, la
strada del bipartitismo perfetto. La montagna di ana-
lisi e dibattiti prodotta in questi anni ruota ossessiva-
mente intorno a un unico scenario obbligato: perché
non siamo ancora riusciti a trasformarci nella copia di
Westminster. In bilico tra Beckett e O’Neill, atten-
diamo un ospite salvifico che sempre più, col passare
del tempo, incarna solo il nostro fallimento.
Ciò non significa che i cittadini non vedano come
si stanno mettendo le cose. La cronaca quotidiana li
bersaglia con un quadro a dir poco schizofrenico. Da
un lato i vecchi partiti, quelli almeno sopravvissuti a
se stessi, appaiono arroccati in metodi di gestione del
potere che l’ideologia della Seconda Repubblica vor-
rebbe definitivamente sepolti. Soprattutto per ciò
che riguarda il monopolio delle leve statali – e relati-
ve spartizioni – i partiti attuali appaiono, se possibi-
le, ancora più presenti e vigili di ieri. Questo tipo di
rapporto strettissimo tra partiti ed esecutivo non ri-
guarda, però, solo le sigle riconducibili al passato.
Anche i partiti che si fregiano – a torto o a ragione –
del titolo di partiti ex novo, quando ne hanno avuto
l’occasione, hanno mostrato una straordinaria capa-
cità di penetrazione nei gangli del potere statale. In-
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somma, a osservare l’azione quotidiana dei partiti al-
le prese con la cosa pubblica, sembrerebbe che la
partitocrazia sia rimasta, alla fine, in sella.
La novità (e schizofrenia), però, è che si tratta – se-
condo una felice espressione – di una «partitocrazia
senza partiti». Lo stesso cittadino che osserva il per-
durare del controllo partitico sulla macchina di go-
verno si accorge che i partiti che dominano oggi la
scena sono profondamente diversi da quelli di solo
pochi anni fa. La differenza principale consiste nel
fatto che l’apparato collegiale, di tipo organizzativo e
ideologico, con il quale operavano i partiti della Pri-
ma Repubblica è stato, in gran parte, smantellato e
sostituito con un apparato personale. I partiti stan-
no diventando macchine personali al servizio di que-
sto o quel leader politico. È un fenomeno trasversa-
le, che riguarda destra e sinistra; anche se, come avre-
mo modo di vedere, presenta, da caso a caso, forme
molto diverse: i partiti personali possono essere im-
perniati su – e guidati da – nuovi sindaci o vecchi no-
tabili, capitani d’azienda o primi ministri. Ciò che
hanno in comune è il peso, determinante e coagulan-
te, del capo in cui si riconoscono.
Con un corollario destinato a pesare su molti aspet-
ti della vita politica: al posto delle lealtà e appartenen-
ze riconducibili a un’ideologia o, comunque, a sistemi
normativi complessi e consolidati, il legame tra il capo
e i suoi seguaci, nei nuovi e vecchi partiti personali, è
dettato da altri incentivi. Il ruolo di collante, al posto
delle identità collettive, è svolto da interessi particola-
ristici o da sollecitazioni emotive. Dove, fino a ieri, re-
gnava la logica dell’azione di gruppo, organizzata e
orientata a un fine esplicito, oggi prevale la strategia
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individuale mirata a un vantaggio immediato, preferi-
bilmente nascosto, oppure la mobilitazione di massa
dettata dall’adesione improvvisa a un nuovo idolo.
Nel linguaggio della tipologia weberiana che ha inter-
pretato il mutamento politico nella società contempo-
ranea, stiamo assistendo – nella vita dei partiti – a un
ritorno del potere patrimoniale e carismatico ai danni
di quello legale-razionale sul quale si erano fondate le
antiche burocrazie di partito.
In presenza di un mutamento di tale portata, il pa-
radosso più inquietante consiste nell’afasia della cul-
tura politica, nella sua incapacità a decifrare i cam-
biamenti che la stanno investendo. O forse, meglio,
nella sua riluttanza. Con una sorta di rimozione col-
lettiva, l’opinione pubblica si è rifugiata in un’auto-
rappresentazione di comodo del proprio ruolo e del-
la direzione in cui pensava di spingere il sistema.
Adottando una panacea in cui classificare e giudica-
re l’evoluzione istituzionale e politica: il modello del
maggioritario. La formula magica del maggioritario è
stata invocata per curare, con la bacchetta di un prov-
vedimento legislativo, i guasti principali ereditati dal-
la vecchia partitocrazia: ridurre il numero dei partiti
a due soli grandi attori, garantire la stabilità del siste-
ma grazie a una regolare alternanza tra maggioranza
e opposizione e, infine, rinvigorire il rapporto tra i
cittadini e i partiti sulla base di un’adesione raziona-
le alle diverse opzioni programmatiche.
A fronte di queste promesse è addirittura impie-
toso rilevare, dati alla mano, il fallimento dell’illusio-
ne maggioritaria che è sotto gli occhi di tutti: con una
miriade di partiti in parlamento, con un governo vit-
tima designata di ribaltoni e ribaltini, e con un assen-
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teismo montante in un elettorato che fa sempre più
fatica a raccapezzarsi sulle reali differenze di propo-
ste tra uno schieramento e l’altro, la débâcle del mag-
gioritario, come bandiera e ideologia del mutamento,
è un fatto che si commenta da solo. Ciò su cui, inve-
ce, occorre riprendere a ragionare pubblicamente so-
no, appunto, i cambiamenti profondi che la chimera
maggioritaria ha finito per esorcizzare e occultare. I
cambiamenti che non corrispondono al figurino co-
stituzionale rassicurante del bipartitismo perfetto,
ma riflettono, invece, altri processi, tendenze, di-
scontinuità. Mettere, insomma, di nuovo in agenda il
paese (fin troppo) reale, coi suoi difetti e le sue pul-
sioni, in luogo di quello virtuale in cui tutti si ricono-
scevano ma nessuno ha trovato posto. Rompendo
quella «spirale del silenzio» che dimostra che l’opi-
nione pubblica deriva la propria forza dalla sua ca-
pacità di imporre la minaccia dell’isolamento sulle
voci individuali dissenzienti1.
Prendere atto delle trasformazioni in corso non si-
gnifica condividerle e assecondarle. Ma qualunque
ipotesi di riforma dei partiti deve fare i conti con un
processo di cambiamento ormai consolidato e diffu-
so, anche se poco visibile nei dibattiti a mezzo stam-
pa e nelle autorappresentazioni di comodo che i par-
titi continuano a dare di se stessi. Un processo che,
per alcuni aspetti, ripropone caratteristiche dell’anti-
ca partitocrazia: il declino dei vecchi partiti è burra-
scoso se si guarda ai rapporti sociali ormai avvizziti e
spesso recisi, ma molto più lento se si osserva il loro
radicamento nello stato, sul piano dei finanziamenti
e delle nomine. Per altri aspetti, al contrario, si tratta
di una vera e propria rivoluzione rispetto agli equili-
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bri stagnanti della Prima Repubblica: i partiti perso-
nali sono una sfida a molti modelli rassicuranti del-
l’evoluzione dei meccanismi rappresentativi. E della
legittimità democratica.
Sullo sfondo di questo libro e dei fenomeni che
descrive, si agitano domande che è impossibile circo-
scrivere alle trasformazioni dei partiti. Nel capitolo
conclusivo, riprenderò i nodi classici della sociologia
del potere, a partire dalla tripartizione di Weber so-
pra richiamata, tornata di bruciante attualità per
comprendere alcune tendenze decisive dei sistemi
politici. Mai come in questo millennio tutto proteso
verso il futuro la storia sembra contrarsi e rispec-
chiarsi nel proprio passato.
2.
IL TRAMONTO DEI DINOSAURI

L’idea che la gente comune ha dei partiti è quella di


organizzazioni che dovrebbero rappresentare e gesti-
re i bisogni dei cittadini. In occasioni specifiche e pe-
riodiche (le elezioni), la gente va a votare per espri-
mere il proprio parere. Può trattarsi di ideologie ra-
dicate o di opinioni più superficiali. E possono esse-
re coinvolti interessi più o meno consistenti – indivi-
duali, di gruppo, di classe. La convinzione diffusa,
comunque, è che i partiti siano un’organizzazione di
trasmissione della domanda sociale, col compito di
tradurla in atti legislativi e di governo.
Una simile idea dei partiti ricalca la concezione
dominante della democrazia come regime rappresen-
tativo, e assegna ai partiti il ruolo decisivo nel colle-
gare società e istituzioni. Dietro, però, la facciata del-
la democrazia rappresentativa, si intravede un altro
caposaldo della cultura contemporanea: il razionali-
smo. La moderna concezione rappresentativa dei
partiti fa affidamento sulla capacità degli individui di
valutare i propri bisogni e di scegliere, su tale base,
chi può meglio tutelarli. I princìpi del razionalismo
sono parte integrante del nostro codice genetico di
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uomini del XXI secolo, governano il nostro compor-
tamento nelle principali sfere di attività quotidiana,
sono alla base dei nostri orientamenti più elementari.
Non sorprende che, nel pensare ai partiti, ci immagi-
niamo che corrispondano a questi princìpi. Tanto più
che coincidono con quelli che ritroviamo, ogni gior-
no, sui giornali e in televisione, nella sfera dell’opi-
nione pubblica. Nondimeno, quest’idea dei partiti
non corrisponde alla loro realtà. I partiti sono oggi
molto diversi da come continuiamo, per comodo o
per pigrizia, a immaginarceli. Come le «dignified in-
stitutions» di cui Walter Bagehot parlò già per l’In-
ghilterra vittoriana, i partiti restano sulla scena poli-
tica a recitare un copione per il quale non sono più
adeguati. E al quale, però, gli spettatori non sono di-
sposti a rinunciare.
I partiti, per loro natura, non sono attrezzati a re-
cepire le domande individuali formulate sulla base di
un modello di tipo razionale. La loro funzione rap-
presentativa affonda le radici in un’epoca diversa e
ormai molto lontana da quella in cui ci ritroviamo a
vivere. Un’epoca in cui i bisogni dell’elettorato emer-
gevano come bisogni collettivi di grandi aggregati so-
ciali omogenei, organizzati politicamente dai partiti
che si ergevano a loro portavoce. Questa capacità
rappresentativa dei partiti si è andata inesorabilmen-
te spegnendo, mano a mano che il processo di mo-
dernizzazione erodeva la loro base sociale originaria.
L’idea, però, dei partiti come organismi rappresenta-
tivi non poteva scomparire, perché è il cardine della
loro legittimazione democratica. Così abbiamo con-
tinuato a pretendere che i partiti ci rappresentassero:
sostituendo, però, all’antico legame sociale di gruppo
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un rapporto razionale di tipo individuale. Questa
pretesa ci ha aiutato a convivere con una democrazia
in tumultuosa crisi di identità. Ma rischia, oggi, di tra-
sformarsi in un alibi di fronte a una realtà politica che
ci trova sempre più incompetenti e impotenti.
Per comprendere i limiti e le difficoltà di adatta-
mento dei partiti, conviene mettere un momento da
parte le lenti del razionalismo per inforcare quelle
dell’etologo, osservando i partiti come una specie
(istituzionale) in via di estinzione. All’epoca delle
grandi ideologie è stata usata la metafora dei partiti-
chiesa, a indicare il rapporto fideistico che si veniva
a creare tra i votanti e i loro partiti. Oggi che assi-
stiamo al declino delle funzioni originarie dei partiti,
la metafora più efficace è quella – hollywoodiana –
dei dinosauri. Una metafora che racchiude la forza
straordinaria di questi organismi, che hanno domi-
nato la politica del XX secolo, insieme alla loro di-
pendenza da un habitat che sta rapidamente scom-
parendo. La specie dei partiti-dinosauro si sta estin-
guendo perché è calato il gelo sull’ambiente che li
aveva visti nascere: quello degli infuocati scontri re-
ligiosi e sociali che hanno scandito – e insanguinato
– il secolo alle nostre spalle.
I partiti traevano la propria linfa e le principali ca-
ratteristiche dal fatto di essere radicati nelle grandi
fratture che hanno segnato la formazione delle de-
mocrazie contemporanee. L’industrializzazione, l’ur-
banesimo, la secolarizzazione, la centralizzazione sta-
tale sono processi che hanno coinvolto drammatica-
mente masse enormi di uomini, lacerando il corpo so-
ciale in gruppi contrapposti. I partiti sono diventati i
custodi della coesione di questi gruppi, interpretan-
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do le loro rivendicazioni; al tempo stesso, si sono
sforzati di ricomporre o mitigare le fratture intera-
gendo, in seno al governo e al parlamento, con i par-
titi avversari. Portando avanti quel processo di inte-
grazione delle masse nell’edificio statale che resta,
agli occhi della storia, il loro principale contributo.
Paradossalmente, i partiti possono oggi essere
considerati come vittime del proprio successo. Le
grandi fratture sociali si sono rimarginate soprattutto
grazie ai partiti, lasciandoli però privi della loro ra-
gion d’essere originaria. Se, all’inizio, i partiti nasce-
vano dall’interno della società e trovavano nelle sue
fratture il proprio habitat ideale, oggi sono costretti a
ricostituire – e giustificare – a ogni tornata elettorale
il proprio legame e il proprio ruolo. Ma il legame rap-
presentativo che nasce dall’organizzare e dare voce a
grandi blocchi sociali o culturali omogenei è ben di-
verso da quello cui spetta interpretare e aggregare in-
teressi individuali e diffusi. Di fronte alla sfida della
complessità, i partiti-dinosauro sarebbero già da tem-
po scomparsi.
Sono, invece, sopravvissuti, anche se in modo
sempre più precario, grazie a due circostanze favore-
voli. La prima è che il sistema politico è rimasto per
lungo tempo cristallizzato – o imbalsamato – lascian-
do ai partiti il monopolio della rappresentanza poli-
tica. Dopo l’ingresso tumultuoso dei partiti al vertice
dello stato, per oltre un secolo non si sono fatti avan-
ti organismi che ne contestassero il predominio go-
vernativo. Il legame dei partiti con la società si svuo-
tava e si indeboliva, ma quello con lo stato non era
mai seriamente minacciato. Anzi – ed è la seconda
circostanza che ha favorito la sopravvivenza dei par-
22
titi – l’occupazione partitica dello stato è cresciuta
mano a mano che si diffondeva la penetrazione stata-
le nei meandri della società civile. Se la forza espan-
siva dei partiti era originata dal basso, la loro capacità
di resistenza si annida in alto, in una sfera statale che
offre ai partiti le risorse che non sono più in grado di
estrarre dalla loro antica base sociale. Ma quanto po-
trà durare la sopravvivenza dei possenti dinosauri del
passato imprigionati nella rete del Leviatano?
Le risposte degli studiosi si dividono – come al so-
lito – in due filoni contrapposti: i nostalgici e i realisti.
Appartengono al filone dei nostalgici coloro che vor-
rebbero preservare i partiti come cardine del rappor-
to tra i cittadini e lo stato e concepiscono la loro forza
solo in funzione di quel ruolo. Per costoro, tutti gli in-
dicatori della salute del partito volgono inesorabil-
mente al ribasso. Dalla partecipazione dei militanti al-
l’attaccamento degli elettori, dalla vivacità della di-
scussione ideale alla presenza organizzata sul territo-
rio, il panorama dei partiti moderni offre un quadro di
declino diffuso. Al punto di poter parlare, senza trop-
pa esagerazione, dell’avvento di un base-less party, un
partito senza base e radici nella società, al posto dei
partiti di massa che portavano, nel proprio nome, il se-
gno orgoglioso di una larga adesione popolare1.
Per contro, i realisti non negano l’evidenza di una
profonda trasformazione delle organizzazioni di par-
tito, ma introducono una serie di distinguo, riguardo
la misura e i tempi del declino. E, soprattutto, avan-
zano un dubbio di fondo sull’interpretazione dei no-
stalgici: ma perché i partiti dovrebbero restare in-
chiodati alla funzione per la quale, tanto tempo fa, so-
no nati?
23
La bottiglia della crisi di partito può essere vista
mezza piena piuttosto che mezza vuota. È vero, ad
esempio, che il numero degli iscritti ai partiti sta de-
clinando inesorabilmente da oltre dieci anni. Ma
un’organizzazione che conta quasi un milione di
iscritti individuali (come oggi il Pd) o può vantare,
come il Labour, circa quattro milioni di adesioni cor-
porate attraverso i sindacati, è pur sempre un’orga-
nizzazione rispettabile. D’altronde, se è vero che la
partecipazione interna si è fatta sempre più asfittica,
non mancano gli sforzi per rivitalizzarla. In Germa-
nia, ad esempio, durante gli anni Novanta, entrambi
i maggiori partiti hanno intrapreso iniziative a tappe-
to per incentivare il coinvolgimento dei militanti di
base2. Inoltre, di una crisi del partito di massa si è co-
minciato a parlare almeno dai tempi della fortunata
diagnosi di Kirchheimer, che parlava di una loro tra-
sformazione in catch all parties, partiti pigliatutto. A
distanza di più di quarant’anni, sono ancora quegli
stessi partiti a tener banco. Se proprio si tratta di cri-
si, è tutt’altro che precipitosa.
Ma ancor più che sull’entità della crisi della vita
organizzativa e dei rapporti con la base sociale, i dub-
bi dei realisti sul tramonto dei dinosauri si appunta-
no sull’idea che i partiti non abbiano altro destino po-
litico all’infuori di quello originario. Se è vero che la
loro funzione fondativa è stata quella di integrare le
masse nell’edificio statale, perché mai – oggi che quel
compito si è esaurito – i partiti sarebbero condanna-
ti a scomparire? Al contrario, secondo i realisti, i par-
titi trovano nuova linfa proprio dallo stretto rappor-
to che si è venuto consolidando nel tempo tra la loro
organizzazione – e i loro uomini – e l’apparato stata-
24
le. Secondo la formula usata da Katz e Mair, oggi i
partiti, a molti effetti, sono lo stato3. Lo sono grazie
alle regole fondamentali della democrazia che essi
stessi hanno instaurato e difeso4. Ed è in questa chia-
ve che vanno osservati e valutati. A partire da alcune
importanti novità.
La prima è la crescente professionalizzazione dei
partiti, dove diminuisce il peso degli attivisti volontari
e cresce quello delle persone la cui unica occupazione
e fonte di reddito è rappresentata dal lavoro nel parti-
to. All’apparenza, tale fenomeno non è inedito, perché
anche l’avvento dei partiti di massa segnò l’afferma-
zione di un ceto politico fatto di uomini di apparato, la
cui professione era appunto quella di organizzare il
partito, diversamente dai politici ottocenteschi di
stampo notabiliare. I politici per vocazione – si disse –
sono stati sostituiti dai politici per professione. In
realtà, il cambiamento attuale modifica sostanzialmen-
te il quadro emerso all’inizio del secolo con i vecchi
professionisti di partito. A differenza dei loro antena-
ti, i nuovi professionisti di partito passano molto me-
no tempo all’interno dell’organizzazione, a contatto
con i militanti o impegnati in interminabili discussioni
ideologiche che avevano la funzione di legittimarne la
leadership. I nuovi professionisti hanno una specializ-
zazione diversa: nel loro curriculum è prevalente l’e-
sperienza all’interno delle istituzioni statali. Dalle am-
ministrazioni locali ai parlamenti regionali e centrali,
dal lavoro nelle commissioni legislative a quello ai ver-
tici dei ministeri, il professionismo politico di oggi è
molto più statale che partitico. Un professionista poli-
tico di successo deve, quindi, essere soprattutto in gra-
do di utilizzare bene i meandri della macchina statale.
25
La seconda novità dei partiti statalizzati è rappre-
sentata dalle forme del loro finanziamento. In passa-
to, i partiti traevano il proprio sostentamento dalla
società civile, erano – a tutti gli effetti – delle associa-
zioni private. Anzi, questa caratteristica era una con-
dizione per la loro indipendenza e autonomia nei
confronti di uno stato spesso ostile. Al tempo stesso,
l’autofinanziamento dei partiti, non diversamente da
quello di altre organizzazioni, li obbligava a un’atti-
vità assidua di proselitismo. Coltivare la propria base
non era solo un obiettivo ideologico, costituiva anche
un’esigenza vitale per la sopravvivenza dell’organiz-
zazione e dei suoi leader. Al giorno d’oggi, tutti i
principali partiti europei dipendono dal finanzia-
mento statale molto più che dai – sempre minori –
versamenti dei propri iscritti5. I soldi pubblici posso-
no venire in forma diretta, attraverso i rimborsi per le
spese elettorali, i quali, oltre che essere utilizzati per
pagare campagne sempre più costose, vengono di-
rottati per retribuire le organizzazioni centrali e peri-
feriche dei partiti. Ma una fonte di reddito sempre
più consistente è rappresentata dalle retribuzioni in-
dirette, i salari versati ai professionisti di partito che
hanno incarichi nelle assemblee elettive o di governo,
oltreché ai loro sempre più numerosi collaboratori.
Super-professionalizzazione istituzionale e finan-
ziamento pubblico sono le due principali conseguen-
ze, agli occhi degli osservatori realisti, della crescen-
te statalizzazione dei partiti. Si tratta di due caratteri-
stiche che consentono ai partiti di sopravvivere, a di-
spetto del fatto che si siano allentati i legami origina-
ri con la società civile. E che permettono di mitigare
la diagnosi catastrofista sul tramonto dei dinosauri.
26
Riassumendo i risultati di una indagine a tappeto
sulle trasformazioni organizzative dei partiti europei,
Katz e Mair concludono che «l’ipotesi centrale che
emerge da questa ricerca è che, in realtà, solo le strut-
ture di base del partito sono in declino e stanno di-
ventando meno importanti, mentre le risorse centra-
li del partito, soprattutto quelle di tipo statale, si so-
no di fatto rafforzate. In questo senso, noi sostenia-
mo che l’enfasi sul declino dei partiti tout court pos-
sa essere fuorviante»6. Di fronte a questo cauto otti-
mismo, la principale obiezione riguarda il fatto che –
come spesso succede – i realisti possano finire con
l’essere più... realisti del re. L’idea che i partiti siano
ancora, sostanzialmente, in buona salute cozza con-
tro le ondate sempre più rumorose e violente di di-
saffezione popolare che investono i partiti ormai in
ogni angolo d’Europa7. Se agli inizi l’antipartitismo
era un sentimento latente, circoscritto a qualche élite
intellettuale o coltivato da maggioranze silenziose,
oggi l’opposizione ai partiti esplode in forme aperte
e organizzate: dai movimenti referendari ai gruppi
protestatari di estrema destra, passando per un clima
d’opinione che vede schierate le principali testate
giornalistiche.
Il tarlo che alimenta oggi il sentimento antipartito
riguarda la misura incontrollata della occupazione
statale. Oltre quale soglia il connubio tra partiti e sta-
to cessa di essere una modalità legittima per far fun-
zionare la democrazia e diventa, all’opposto, un’oc-
cupazione indebita di spazi amministrativi che do-
vrebbero restare neutrali? La dipendenza finanziaria
dei partiti dai contributi statali ha un significato mol-
to diverso se si ferma al rimborso delle campagne
27
elettorali e alla retribuzione degli eletti o se, invece,
viene estesa a forme grigie di cointeressenza e collu-
sione. La strada verso la corruzione, purtroppo, è
sempre in discesa e l’allentarsi delle barriere fra par-
titi e stato non facilita certo la salvaguardia dell’one-
stà dei politici.
Per il cittadino italiano, questi due rischi rappre-
sentano una dolorosa e ben collaudata realtà. Ma an-
che negli altri paesi occidentali, corruzione e occupa-
zione statale sono fenomeni sempre più diffusi8. Ci si
può consolare con l’idea che «la partitocrazia italiana
sia un evento eccezionale», salvo aggiungere, subito
dopo, che «tuttavia, la crisi che ha colpito i partiti che
si erano fin troppo immedesimati con lo stato, tra-
scurando di adeguarsi ai mutamenti della società ci-
vile e finendo con l’avvitarsi quasi esclusivamente
nelle loro manovre interne, è una crisi cui farebbero
bene a prestare attenzione tutti i partiti al potere og-
gi in Europa»9. In realtà, a farci attenzione sono so-
prattutto, e già da un pezzo, gli elettorati delle de-
mocrazie occidentali. Dimidiati tra la protesta ol-
tranzista, la rinuncia disincantata e la ricerca di una
soluzione. O illusione.
3.
IL FANTASMA DI ROUSSEAU

La protesta contro i partiti non è un fenomeno nuo-


vo nei regimi democratici. Né conosce barriere ideo-
logiche. Più di mezzo secolo fa, un politologo ameri-
cano, Schattschneider, notava, con qualche ironia,
come il fenomeno accomunasse destra e sinistra. Non
a caso, per molto tempo l’etichetta usata per conno-
tare – ed esorcizzare – il fenomeno è stata quella di
«qualunquismo». Negli ultimi anni, però, la protesta
antipartito si è andata annidando – e organizzando –
in movimenti con un profilo ideologico più marcato
e consapevole, meno, appunto, qualunquista. È il ca-
so dei movimenti della «nuova destra», che hanno
fatto del sentimento antipartito una componente im-
portante della propria piattaforma1. In Italia, il prin-
cipale rappresentante di questa tendenza è stata la
Lega Nord, che ha trasformato il diffuso malconten-
to nei confronti della inefficiente burocrazia romana
in una guerra di indipendenza contro la partitocrazia.
Accanto alla protesta rumorosa della nuova de-
stra, ha preso piede una protesta silenziosa ma – nu-
mericamente – ancora più consistente, quella dell’a-
stensione. Entro una certa soglia, l’astensionismo è
29
un fenomeno fisiologico di una democrazia funzio-
nante. E si può anche arrivare a sostenere che esista-
no altre forme più efficaci di partecipazione politica
oltre al voto, che resta, dopotutto, una procedura mi-
nima ed elementare per far sentire la propria voce.
Nondimeno, le analisi del «non voto» dimostrano
che l’astensione coinvolge solo raramente le élites. La
scelta di tirarsi fuori riguarda soprattutto coloro che
non dispongono di altri canali di accesso alla politica.
È l’elettorato di massa che, elezione dopo elezione, si
assottiglia, confermando la previsione pessimistica
che l’indebolimento dei vecchi partiti allontana i ceti
più deboli dalla partecipazione alla cosa pubblica.
La crisi e il rifiuto dei partiti non suscita, però, so-
lo ondate di protesta qualunquista o spirali di asten-
sionismo rassegnato. Esiste una terza via, il «diretti-
smo»: bypassare i partiti, scavalcare la loro interme-
diazione inefficiente per arrivare a incidere diretta-
mente sulla cosa pubblica. Il direttismo può prende-
re strade molto diverse. Può puntare sulla mobilita-
zione collettiva, attraverso lo strumento del referen-
dum, moltiplicandolo per numero e importanza dei
temi sino a trasformare il sistema in una democrazia
referendaria. O può mirare a svilupparsi attraverso
forme individualistiche – e solipsistiche – di parteci-
pazione, come sta avvenendo oggi nella miriade di
comunità virtuali che operano attraverso Internet,
mirando a fare di chat e blog le agorà del nuovo mil-
lennio2. Nella maggioranza dei casi, tuttavia, il diret-
tismo si diffonde attraverso forme – almeno all’appa-
renza – meno radicali: come la selezione dei candida-
ti alle cariche pubbliche attraverso il sistema delle
primarie; o come l’elezione diretta del governo. In
30
questi casi il direttismo non si pone obiettivi imme-
diatamente deliberanti, non pretende esplicitamente
di sostituirsi al legislatore. Il risultato, tuttavia, ai fini
della dinamica rappresentativa, non è molto diverso,
perché coincide – come vedremo – con un sostanzia-
le esautoramento dei partiti.
Anche il «direttismo» non è un fenomeno nuovo,
anzi è alle origini stesse dell’idea di democrazia. La po-
lis degli ateniesi era fondata sulla democrazia diretta, e
bisogna attendere molti secoli perché si affermi l’idea
che il modo migliore per fare funzionare la democra-
zia sia di affidarsi a dei rappresentanti. Con l’avvento
della democrazia rappresentativa, la politica viene
sempre più percepita come un’attività complessa e
specializzata, che necessita di una attenzione e dedi-
zione che non si possono pretendere dal cittadino co-
mune. Proprio il principio della rappresentanza e del-
la sua inevitabilità diventa lo spartiacque riconosciuto
tra la democrazia degli antichi e quella dei tempi mo-
derni. Con una rilevante eccezione, il rilancio della de-
mocrazia diretta a opera di Jean-Jacques Rousseau.
All’epoca in cui formulava la sua teoria, Rousseau
era un pensatore isolato. Il fatto di interpretare con
coerenza le aspirazioni più radicali dell’Illuminismo
gli valse notorietà, riconoscimenti, adesioni. Ma, sul
piano empirico, le sue idee ebbero scarso riscontro. Il
XIX secolo è scandito dal progredire, lento ma ineso-
rabile, della democrazia rappresentativa e il diretti-
smo viene relegato nel recinto di un’utopia tanto no-
bile quanto poco praticabile. Rousseau stesso, d’al-
tronde, nelle rare occasioni in cui si era occupato del-
le possibili applicazioni della sua teoria, aveva fatto ri-
ferimento a piccole repubbliche, dove fosse insomma
31
possibile ricreare l’habitat ideale dell’antica polis.
L’affermazione, al contrario, di stati nazionali sempre
più ampi e differenziati al loro interno, con il crescere
di tensioni e conflitti, sembrò segnare irrevocabil-
mente il tramonto del direttismo.
L’idea della democrazia diretta sopravvisse, tutta-
via, in una forma che solo molto lontanamente poteva
essere ricondotta al pensiero di Rousseau: il plebisci-
to, una forma di consultazione popolare diretta su te-
mi di particolare rilevanza, quali l’adozione di una
nuova costituzione. La politica plebiscitaria fece pre-
sto intravedere la sua possibile degenerazione, nel
passaggio dal pronunciamento su una singola que-
stione al pronunciamento su un capo. Nell’Europa di
fine Ottocento, il termine bonapartismo divenne si-
nonimo di un sistema politico in cui i meccanismi de-
cisionali di tipo rappresentativo venivano soppiantati
dall’immedesimazione plebiscitaria tra i cittadini e il
loro leader. Tali precedenti ottocenteschi, rimasti a
lungo sporadici, tornarono prepotentemente alla ri-
balta con l’avvento, tra le due guerre, dei regimi auto-
ritari in Europa. Per i fascismi di Mussolini, Franco e
Salazar, come per il nazismo di Hitler, l’adesione di
massa alla politica dei dittatori alimentò il plebiscita-
rismo. Coinvolgendo la democrazia diretta nella sin-
drome – e nell’accusa – di democrazia totalitaria.
Le sorti della democrazia diretta appaiono così,
per buona parte del secolo, strettamente intrecciate a
quelle delle dittature personali con cui tendono a es-
sere identificate. Coinvolgendo, in questo corto cir-
cuito, la forma di potere su cui si erano all’inizio ap-
puntate molte aspettative di innovazione: il potere
del capo carismatico. Nelle analisi dei padri fondato-
32
ri della moderna sociologia politica, il capo carisma-
tico avrebbe dovuto rappresentare un’alternativa al
conservatorismo oligarchico delle grandi burocrazie.
L’ingresso delle masse in politica rischiava di essere
egemonizzato e controllato dalle potenti macchine di
partito che si ergevano a loro custodi, irreggimentan-
do la democrazia in un apparato ancora più rigido di
quello statale. Al contrario, il capo carismatico avreb-
be potuto tenere in vita, nel nuovo elettorato di mas-
sa, l’istanza etica di trasformazione del mondo. Que-
sta scommessa weberiana naufragò, però, rapida-
mente nelle tragedie del nazismo e dello stalinismo.
Per un lungo periodo successivo alla seconda
guerra mondiale, l’idea di democrazia diretta ritornò,
così, a essere coltivata solo su piccola, anzi piccolissi-
ma scala. Sopravvisse nelle costituzioni europee uni-
camente nell’abbinamento con lo strumento referen-
dario, sottoposto, a sua volta, a molti vincoli e limita-
zioni. In pratica, la democrazia diretta sembrava rien-
trata nei ranghi ristretti in cui, dopotutto, lo stesso
Rousseau l’aveva confinata. Solo in un caso aveva re-
sistito, in ambito democratico, uno stretto e imme-
diato abbinamento con il potere: nel caso dell’elezio-
ne presidenziale negli Stati Uniti d’America. Almeno
formalmente, il presidenzialismo americano si pre-
sentava come un sistema istituzionale in cui vigeva un
rapporto diretto tra l’elettorato e il capo del governo
prescelto. E, infatti, proprio questo rapporto era val-
so, all’indomani della sconfitta del nazismo, a tenere
ben lontano il presidenzialismo dai nuovi assetti co-
stituzionali europei: temendo che potesse trasfor-
marsi in un cavallo di Troia per il ritorno di un capo
carismatico e, con lui, del plebiscitarismo totalitario.
33
In realtà, nel presidenzialismo americano c’era
ben poca democrazia diretta e ancor meno leadership
carismatica. Per tutto il XIX secolo, il meccanismo
per l’elezione del capo del governo negli Stati Uniti
era stato controllato e gestito dai partiti. Erano le po-
tenti e ramificate macchine dei partiti a esprimere i
candidati, la cui principale caratteristica era, secondo
la nota battuta di Lord Bryce, di «non essere grandi
uomini»3. Si trattava, infatti, di portavoce di decisio-
ni prese altrove, dalle oligarchie di notabili che co-
mandavano l’apparato. Lo stesso rapporto con l’elet-
torato di massa era monopolizzato dai partiti, la-
sciando al presidente, nel migliore dei casi, il ruolo di
simbolo dell’unità nazionale. Per una lunga fase del-
la loro storia, gli Stati Uniti erano stati tenuti al ripa-
ro dalla leadership carismatica – e dalle sue possibili
degenerazioni – grazie al peso dei loro partiti. Come
aveva notato Woodrow Wilson, nelle vesti di scien-
ziato politico, il regime presidenziale americano era,
in realtà, un governo parlamentare, incentrato sulla
democrazia rappresentativa dei partiti4.
È solo con l’avvento del New Deal di Franklin De-
lano Roosevelt che la presidenza americana inaugura
un’era nuova, l’era di un rapporto più stretto e diret-
to tra il capo del governo e i cittadini. A partire da
due importanti cambiamenti della scena politica, uno
sul fronte istituzionale e l’altro su quello delle tecno-
logie di comunicazione. Con il New Deal prende cor-
po per la prima volta, in un regime democratico, la
tendenza che dominerà, più tardi, anche le altre de-
mocrazie occidentali: il rafforzamento del potere ese-
cutivo in chiave monocratica nei confronti degli altri
attori istituzionali. Il presidenzialismo americano vie-
34
ne rifondato nel terribile laboratorio della Grande
Crisi, al punto che gli storici parlano di una «secon-
da costituzione americana», quella appunto in cui il
presidente e il suo potere diventano il centro del si-
stema5. Questo processo di rifondazione presiden-
ziale coincide con il progressivo esautoramento dei
partiti, già dall’inizio del secolo in crisi sulla scena na-
zionale e sempre più relegati a gestori, più o meno
clientelari, del potere locale.
La crisi dei partiti come veicolo della partecipazio-
ne di massa ha rappresentato una condizione e un in-
centivo per l’ascesa della presidenza moderna. Ma, al
tempo stesso, ha costretto i presidenti a cercare nuo-
vi canali per il rapporto con l’elettorato: la diffusione
della radio e, poco dopo, della televisione offrì una
preziosissima alternativa alla intermediazione arrug-
ginita dei partiti. Il termine stesso inaugurato per de-
scrivere il fenomeno indicava che i media diventava-
no un nuovo soggetto di intermediazione tra i cittadi-
ni e le istituzioni, un vero e proprio quarto potere. In
tal modo, però, il nuovo regime presidenziale nasceva
con un’ambiguità, che si sarebbe rivelata, di volta in
volta, una contraddizione o un contrappeso. Forte-
mente legato e condizionato dai media per il proprio
rapporto personale con l’elettorato, il presidente ame-
ricano sarebbe apparso, a molti, come legato a un
nuovo padrone: al posto dei vecchi partiti, la nuova
intermediazione della radio e della televisione. Tanto
più che il condizionamento dei media come filtro del-
la comunicazione del presidente coi cittadini non ri-
guardava solo i rapporti di forza tra i poteri, lo scon-
tro, cioè, quotidiano tra l’establishment dei giornalisti
e gli uomini del presidente per imporre – come si di-
35
ce in gergo – l’agenda con cui rivolgersi al pubblico.
Non meno decisivo era il cambiamento che si veniva
a creare nel formato della comunicazione, costretto ad
adeguarsi ai tempi e al linguaggio della televisione. Il
presidente ideale doveva possedere, accanto a doti
spiccate di personalità, anche la capacità di farle emer-
gere sul ring agguerritissimo della tv. Per bucare il vi-
deo, erano indispensabili grandi comunicatori con la
personalità magnetica e l’istinto del dominatore delle
folle. Cacciato dalla porta delle grandi tragedie stori-
che della prima metà del secolo, il capo carismatico
rientrava dalla finestra del piccolo schermo.
Trovando, come interlocutore, un individuo mol-
to diverso dalle rappresentazioni fiduciose del razio-
nalismo. Al posto dell’elettore informato che do-
vrebbe operare, dati alla mano, le sue scelte respon-
sabili, l’era delle comunicazioni di massa ha visto la
proliferazione del cittadino telediretto dalle sugge-
stioni e dalle emozioni dell’immagine. Il quadro del-
la cultura politica che emerge dalle indagini sul cam-
po presenta un panorama di diffusa ignoranza, super-
ficialità, noncuranza: «un vuoto culturale e di infor-
mazione che lascia inorriditi»6. Il fantasma di Rous-
seau torna, dunque, per specchiarsi in un futuro im-
previsto. Coltivato all’ombra rassicurante dell’Illumi-
nismo settecentesco, il mito dell’uomo razionalmen-
te e direttamente responsabile delle proprie scelte
politiche si affaccia su uno scenario ricco, al contra-
rio, di emozioni e sollecitazioni irrazionali alimentate
dal nuovo linguaggio imposto dalla rivoluzione tele-
visiva. Il direttismo, pensato originariamente come
strumento per il trionfo dell’homo sapiens, si trasfor-
ma in habitat ideale per la deriva dell’homo videns.
36
4.
LA FRONTIERA AMERICANA

Almeno dai tempi di Tocqueville, gli europei si sono


abituati a guardare alla democrazia americana come
a uno specchio del loro futuro. Descrivendola, a se-
conda delle speranze o delle convenienze, come una
palingenesi o uno spauracchio. Su un punto, però, gli
europei hanno conservato l’orgogliosa certezza di
una propria differenza e superiorità: la forza dei pro-
pri partiti politici. L’origine di questa convinzione è
in gran parte legata al ruolo importante che l’ideolo-
gia ha svolto nella formazione dei principali partiti
europei. Privi del collante ideologico del socialismo o
della religione, i partiti americani sono sempre ap-
parsi a noi europei come delle macchine senz’anima
e, alla lunga, senza forza.
In realtà, i partiti americani hanno anch’essi una
tradizione secolare che affonda in spaccature profon-
de della società del Nuovo Mondo: basti pensare alla
Guerra Civile che contrappose all’ultimo sangue De-
mocratici e Repubblicani. Solo che questa storia ap-
partiene al secolo scorso, e la politica ha la memoria
corta. Così è potuto succedere che gli europei potes-
sero riformulare la storia e la teoria dei partiti come se
37
quelli americani non fossero mai esistiti. Ancora oggi,
molti manuali che girano per le nostre università non
menzionano i partiti americani, né di ieri né di oggi.
E, quando lo fanno, li trattano come un fenomeno che
non ha niente a che vedere con le vicende di casa no-
stra. In realtà, fare i conti con l’ascesa e il declino del
governo dei partiti negli Stati Uniti è un’operazione
tanto necessaria quanto ostica. Analizzando gli ante-
cedenti americani, si ritrovano molti dei nodi che, in
questi ultimi anni, si stanno imponendo anche in Eu-
ropa1. Anche per i partiti, gli Stati Uniti si conferma-
no terra di innovazione e di frontiera: «Il paese che ha
inventato il moderno partito politico, mentre altrove
lo si cercava di imitare, ha abbandonato la propria in-
venzione. In questo secolo, passo dopo passo, quasi
inesorabilmente, ha preso corpo una nuova invenzio-
ne americana: il presidente senza partito»2.
Come abbiamo visto nelle pagine precedenti, l’a-
scesa della presidenza moderna ha fatto da catalizza-
tore e volano della crisi dei partiti negli Usa. Ed è dal
ruolo del presidente, dai suoi nuovi canali di orga-
nizzazione e comunicazione del consenso, che biso-
gna partire per cogliere le principali trasformazioni in
atto. Evitando, tuttavia, di incorrere nell’equivoco
dell’eccezionalismo americano. Molte analisi, infatti,
che riconoscono la carica dirompente della presiden-
za americana nei confronti degli assetti partitici più
tradizionali, tendono a limitarne gli effetti a un con-
testo istituzionale in cui il presidente sia formalmen-
te riconosciuto come perno del sistema politico: sen-
za presidenzialismo nell’accezione costituzionale del
termine, nessun rischio di presidenzializzazione del
sistema politico. L’Europa sarebbe al riparo dall’a-
38
mericanizzazione del suo sistema politico grazie agli
assetti parlamentari delle sue Carte fondamentali.
Al contrario, la scena dei maggiori paesi europei
mostra che gli Stati Uniti stanno facendo da batti-
strada a dispetto dei vincoli del parlamentarismo. A
parte l’esempio francese, per il quale è sempre possi-
bile trovare l’alibi di un assetto costituzionale bifron-
te, già dall’inizio degli anni Ottanta la rivoluzione di
Margaret Thatcher in Inghilterra aveva richiamato
l’attenzione sul fatto che, in barba al dettato costitu-
zionale, il premier parlamentare britannico aveva fi-
nito col concentrare più poteri del suo collega presi-
denziale americano3. Più tardi, la Blitzkrieg per la riu-
nificazione tedesca avrebbe fatto emergere un feno-
meno, per molti aspetti analogo, sul fronte del cancel-
lierato tedesco. In pratica, la gran parte dei paesi eu-
ropei si sta indirizzando verso un rafforzamento del
proprio vertice esecutivo, imperniato su una leader-
ship monocratica sempre più visibile e decisionista4.
Sgombrare il campo dalla barriera, sempre più
inefficace e fuorviante, dell’assetto costituzionale for-
male non significa, naturalmente, ricadere nell’ecces-
so opposto, di un’assimilazione tout court dell’Euro-
pa all’esperienza e al trend americano. Aiuta, però, a
comprendere che il fattore chiave nella trasformazio-
ne in corso non è rappresentato dalla lettera delle
Carte costituzionali, ma da un processo più generale
di personalizzazione del potere che investe tutte le
democrazie alle soglie del terzo millennio5. L’espres-
sione che meglio coglie il nuovo ordine del potere po-
litico negli Usa è quella del «personal president», dal
titolo del libro di Theodore Lowi che per primo ha
39
descritto la mutazione genetica avvenuta al vertice
degli Stati Uniti negli ultimi cinquant’anni6.
Riconoscere la centralità della personalizzazione
sulla scena politica contemporanea, senza legarla pre-
giudizialmente agli assetti costituzionali, contribui-
sce anche a evitare un altro rischio della visione pre-
sidenzialista: l’idea di trovarsi di fronte a un fenome-
no limitato ai vertici della cosa pubblica, senza inve-
stire altri livelli della rappresentanza politica. Al con-
trario, la vicenda americana mostra che la personaliz-
zazione è un fenomeno diffuso e che lo spodesta-
mento dei partiti non riguarda solo l’arena presiden-
ziale, ma coinvolge più in generale il rapporto tra
elettori ed eletti: col passaggio da un sistema eletto-
rale centrato sui partiti a un sistema candidate cente-
red, centrato sui candidati. Questa trasformazione
prende piede già agli inizi degli anni Settanta e ri-
guarda le funzioni più importanti del partito politico
nella competizione elettorale: la selezione dei candi-
dati, la scelta del programma, il finanziamento della
campagna. Lì dove, in passato, questi compiti spetta-
vano alla macchina di partito, sempre più, col passa-
re degli anni, vengono gestiti direttamente dai candi-
dati e dalle loro organizzazioni personali. Dal canto
loro, i grandi partiti nazionali sopravvivono solo a co-
sto di una profonda riorganizzazione, diventando
agili e sofisticate strutture di servizio professionale
per i candidati, come supporto e integrazione delle
loro macchine personali7.
Se la spinta iniziale verso un sistema centrato sul
candidato era venuta dalle elezioni presidenziali, al-
meno altri due fattori sono risultati determinanti per
l’affermazione della new politics centrata sul candi-
40
dato: la domanda di rinnovamento «dal basso» cana-
lizzata nelle primarie come sistema più democratico
e partecipato di selezione dei candidati; e la diffusio-
ne dei sondaggi come modalità dominante di rappre-
sentazione delle opinioni dei cittadini.
La diffusione delle primarie, a partire dagli anni
Settanta, rifletteva una reazione e una protesta contro
la chiusura delle élites di partito verso i fermenti che
attraversavano la società americana. Ma, almeno ini-
zialmente, l’intento non era quello di scavalcare i par-
titi quanto di contribuire a riformarli, portando loro
linfa nuova dalla società civile8. Nel volgere di pochi
anni, però, l’esito delle primarie nelle campagne elet-
torali è stato quello di esautorare i partiti a favore di
altre organizzazioni e altre logiche di comunicazione.
L’apertura, infatti, del processo di selezione a uomini
esterni all’apparato di partito ha avuto, come conse-
guenza inevitabile, che i «candidati senza partito» si
fornissero di una propria organizzazione. Inizialmen-
te, si trattava di associazioni formate prevalentemen-
te da volontari, in cui svolgeva un ruolo importante
la piattaforma programmatica del candidato. Rapida-
mente, però, sono diventate decisive altre risorse.
In primo luogo, sul piatto delle nomination si so-
no rivelate sempre più importanti le doti personali
del candidato. Ciò non significa che le issues siano
scomparse dalla competizione, anzi, la moltiplicazio-
ne dei candidati ha reso ancora più importante la ri-
cerca di un profilo programmatico ben visibile e
identificabile. Per queste stesse ragioni, tuttavia, le
piattaforme hanno teso a ridursi a poche e chiare pa-
role d’ordine, la cui efficacia finisce col dipendere so-
prattutto dalla personalità del candidato e dalla sua
41
capacità nel comunicarle. Le doti personali non sono
riducibili, come spesso si tende a pensare, alle sole
qualità caratteriali di appeal e gradimento da parte
del pubblico. Non meno importanti sono le espe-
rienze istituzionali precedenti e le reti relazionali nel
mondo degli affari e della politica in senso lato. La
novità rispetto al passato è, comunque, che queste ri-
sorse sono autonome, vengono gestite dal candidato
indipendentemente dall’intervento del partito.
Ciò diviene ancor più importante a proposito del-
le risorse finanziarie. Una conseguenza immediata
della diffusione delle primarie è stata il prolunga-
mento della campagna elettorale e, al tempo stesso, il
maggiore coinvolgimento dei mass media. Entrambi
questi fattori hanno comportato un innalzamento
verticale dei costi e, di conseguenza, la necessità di
mettere in campo sistemi sempre più sofisticati di
raccolta dei fondi. Se prima i costi delle campagne
elettorali erano prevalentemente a carico dei partiti,
in danaro o in natura con le prestazioni volontarie dei
militanti, con la politica candidate centered le spese
crescenti delle campagne sono ricadute direttamente
sulle tasche dei candidati e dei Pac (Political Action
Committees), le organizzazioni che scendono in cam-
po a fiancheggiarli.
In pratica, nel volgere di pochi anni, la spinta alla
democratizzazione dal basso dei partiti ha prodotto
l’esito, per molti versi opposto, di una verticalizza-
zione finanziaria delle campagne. Lo stesso ruolo de-
gli attivisti che si raccolgono intorno al candidato ten-
de ad assumere vesti sempre più professionali: si trat-
ta di esperti superpagati o di volontari, il più delle
volte, stipendiati. Ciò che rende ancora più radicale
42
il cambiamento è la trasformazione del ruolo degli at-
tivisti, dalla funzione iniziale di raccordo con le istan-
ze sociali a quella tipicamente mediatica di diffusio-
ne del messaggio del candidato.
Nei partiti tradizionali, i militanti svolgevano il
ruolo cruciale di «terminali intelligenti» delle do-
mande provenienti dai vari segmenti della società.
Erano le antenne dei nuovi trend, il termometro del-
le tensioni: costituivano un sistema capillare e diffu-
so di rilevazione delle preferenze dell’elettorato, for-
nendo all’organizzazione di partito e alla sua dirigen-
za le informazioni necessarie per operare le scelte in
una direzione o in un’altra. Con l’esaurirsi del ruolo
dei partiti e della loro capacità di rappresentanza e
rappresentazione della società, questa funzione fon-
damentale per il processo di legittimazione democra-
tica è stata sempre più assunta da un nuovo canale, il
sondaggio.
Nelle moderne campagne elettorali, incentrate sul
candidato e sulla personalizzazione della comunica-
zione, il sondaggio è diventato lo strumento decisivo
di orientamento strategico delle decisioni. Attraverso
i sondaggi, l’organizzazione del candidato acquisisce
le informazioni chiave per la scelta dei temi su cui
concentrare la propria iniziativa, sul target di elettori
più sensibili a diversi tipi di messaggio, sulle modalità
ottimali per comunicare con il pubblico. In misura
sempre più massiccia, le campagne elettorali vengo-
no costruite sulla base di un’intensa attività di scree-
ning dell’opinione pubblica condotta attraverso i
sondaggi e tecniche integrative, come i focus groups.
Così elaborato, il messaggio del candidato ritorna
verso la base: attraverso l’acquisto mirato di spazi te-
43
levisivi o orientando il contatto «porta a porta» da
parte degli attivisti.
La centralità dei sondaggi nelle moderne campa-
gne elettorali ha sollevato critiche durissime. Da
quelle che sostengono l’inadeguatezza del sondaggio
come effettivo strumento di rappresentazione delle
preferenze, vista la superficialità imperante in un’o-
pinione pubblica sempre più disinformata e distrat-
ta; a quelle che vedono i sondaggi come strumento
per l’affermazione di una vera e propria tirannia del
polling, la «sondocrazia» come manipolazione dell’o-
pinione pubblica, soprattutto quando i sondaggi si
saldano a un uso spregiudicato della televisione, di-
ventando il canale per una informazione «drogata»
degli elettori9. È improbabile, tuttavia, che queste
critiche scalfiscano il ruolo dominante dei sondaggi.
Possono, anzi, rappresentare un alibi per non pren-
dere atto che i canali di formazione dell’opinione
pubblica sono ormai definitivamente cambiati; così
come è tramontato il ruolo chiave dei partiti quale
supporto e integrazione di quei canali. La politica dei
prossimi anni, ancor più con l’introduzione del-
l’informazione interattiva di Internet, sarà sempre
più basata sull’uso dei sondaggi come strumento per
orientare le scelte politiche chiave. Nell’esperienza
americana, questo strumento è stato decisivo per l’af-
fermazione del partito del candidato, che si tratti di
politica locale o della sfida per la poltrona presiden-
ziale. Ma l’uso professionale dei sondaggi può anche
diventare uno strumento per rivitalizzare un’organiz-
zazione di partito indebolita ma non rassegnata. Co-
me nell’incredibile rimonta del Labour Party in In-
ghilterra.
44
Di fronte agli attacchi del direttismo, i partiti-di-
nosauri non hanno, infatti, solo la deriva di tipo ame-
ricano verso il partito del candidato. Ci sono almeno
altre tre possibilità di reazione. La prima è di rin-
chiudersi in se stessi, in una difesa a oltranza della
propria identità passata, riproponendo, con orgoglio
o vanagloria, quel ruolo di trasmissione sociale che,
in realtà, non riescono più a svolgere. La seconda
possibilità è di rinchiudersi nello stato, rafforzando la
propria capacità di controllo degli accessi al potere
istituzionale; contando sul fatto – o illusione – che, al-
la lunga, il monopolio del governo resterà nelle pro-
prie mani. Spesso, questi due tipi di reazione coesi-
stono, soprattutto nel ceto di partito che occupa po-
sizioni di secondo piano e fa più fatica a comprende-
re e accettare le sfide dell’innovazione. Infine, la ter-
za possibilità è che il partito accetti di navigare in ma-
re aperto. Magari perché costretto dal rischio di ina-
bissarsi, o perché trainato da un leader più lungimi-
rante o ambizioso. È questa la strada perseguita dal
New Labour, l’unico partito di massa della vecchia
Europa che sia riuscito a risalire la china di una scon-
fitta disastrosa adeguandosi al nuovo scenario me-
diatico, rivoluzionando da cima a fondo i suoi sche-
mi di comunicazione con l’elettorato.
5.
LA RIVINCITA INGLESE

Nel 1983, il Labour era un partito al suo minimo sto-


rico: alle elezioni nazionali aveva raccolto il 28% dei
voti, il peggior risultato dal 1900, solo due punti per-
centuali al di sopra del terzo incomodo, l’alleanza tra
Sdp e Liberali, che sembrava ormai pronta a scalzare
i laburisti dalla scena politica inglese. Nel giro di
quindici lunghissimi anni, i laburisti sono riusciti a ri-
conquistare il governo e a farlo con una vittoria
schiacciante, sul piano elettorale e ancor più su quel-
lo dei seggi parlamentari. Questa incredibile rimonta
ha un filo rosso, una chiave di lettura privilegiata: la
centralizzazione strategica delle funzioni di comuni-
cazione del partito, affidate a un nutrito staff di pro-
fessionisti e imperniate sulla valorizzazione del lea-
der. Il leader è così diventato il principale testimonial
– o, se si preferisce, venditore – della nuova immagi-
ne del partito. In questa chiave, la personalizzazione
diventava la risorsa obbligata per competere effica-
cemente sul mercato dei media, ma in un rapporto
strettissimo con le trasformazioni – e le esigenze – del
partito: la personalizzazione era adoperata come ca-
nale di comunicazione del nuovo posizionamento del
46
partito rispetto alle principali issues. Rinnovamento
programmatico e leadership personalizzata si fonde-
vano in una strategia comunicativa unitaria.
È sufficiente enunciare le linee guida della rivolu-
zione, interna ed esterna, del Labour per immaginare
le resistenze incontrate da parte dei settori più con-
servatori dell’apparato. Una riforma di questa portata
comportava l’esautoramento degli organismi tradizio-
nalmente preposti a gestire le funzioni di comunica-
zione del partito. In realtà, nel vecchio Labour, le fun-
zioni di comunicazione passavano, prevalentemente,
attraverso la rete dei militanti locali e quella, corposa
quanto obsoleta, dei sindacati. Si trattava di una rete
sempre più autoreferenziale, capace, cioè, di rivolger-
si solo alla cerchia degli elettori vicini: dai militanti ai
simpatizzanti, la comunicazione del partito di massa si
era ridotta ormai a un circolo vizioso. Non sorprende
che da questo circolo restassero fuori segmenti sempre
più ampi dell’opinione pubblica, raggiungibili solo at-
traverso altri canali, quelli appunto dei media, che il
partito non sapeva coltivare e adoperare.
L’introduzione di nuove tecniche di comunicazio-
ne e nuovi organismi per deciderle e implementarle
fu, dunque, un processo graduale. Che andò tuttavia
avanti a dispetto delle ripetute sconfitte elettorali
che, almeno agli occhi degli oppositori interni, pare-
vano metterne in dubbio l’utilità. Il processo ruotava
intorno a tre variabili, intrecciate anche se tutt’altro
che semplici da mixare: la professionalizzazione, la
centralizzazione e la personalizzazione1. Si tratta di
variabili da sempre presenti nel contesto organizzati-
vo dei partiti, ma che, nel caso del New Labour, so-
no state ridefinite in funzione del nuovo ambiente co-
47
municativo egemonizzato dai media, vecchi e nuovi,
e da un’opinione pubblica refrattaria ai canali – e ai
messaggi – tradizionali dei partiti.
L’organismo che meglio rappresenta l’innesto sul
vecchio tronco del partito di nuove professionalità del
mondo della comunicazione è la Shadow Communi-
cation Agency, formata da Kinnock nel 1985 come
strumento di reazione alla débâcle elettorale del parti-
to. Fu proprio lo stato di profondo sbandamento or-
ganizzativo a consentire al nuovo leader di dare vita a
un organismo che sottraeva molte funzioni al quartier
generale del partito e ai suoi organi direttivi tradizio-
nali, introducendo un gruppo nutrito di professionisti
esterni, al servizio diretto del leader. Infatti, «caratte-
ristiche salienti della Sca erano l’alta concentrazione di
esperti della comunicazione e la stretta dipendenza
dalla leadership. Alcuni dei professionisti che fecero
parte di questo gruppo provenivano direttamente dal
mondo dell’informazione (giornalisti, produttori tele-
visivi), altri avevano fondato agenzie per le ricerche di
mercato, altri ancora provenivano dal mondo della
pubblicità, altri vennero reclutati nei migliori diparti-
menti di sociologia delle università del paese»2.
Per cogliere a pieno l’entità del mutamento, basta
guardare al numero delle persone coinvolte, oltre che
alle loro nuove caratteristiche professionali. Non si
trattò di un brain trust ristretto di consulenti del lea-
der, ma di una vera e propria macchina operativa con
tentacoli in tutti gli ambienti professionali chiave:
«Nel 1987, si calcola che circa duecento esperti era-
no al lavoro per la campagna elettorale del partito» in
collegamento con la Sca3. Il tutto su base volontaria,
a eccezione del coordinatore centrale, Philip Gould,
48
che aveva anche introdotto l’idea originaria della Sca,
prendendola a prestito da un’esperienza simile del
Partito repubblicano negli Stati Uniti4. In pratica, si
era venuta a creare una nuova «comunità strategi-
ca»5, formata da professionisti della comunicazione
che godevano di uno strettissimo rapporto fiduciario
col leader e coi suoi consiglieri politici. Il tramite pri-
vilegiato dell’operazione sarebbe stato, infatti, Peter
Mandelson, un professionista del mondo della televi-
sione che aveva, però, come principale risorsa, la fi-
ducia incondizionata prima di Kinnock e poi di Blair.
Non sorprende che un’impresa di queste propor-
zioni suscitasse l’opposizione aperta dell’apparato, so-
prattutto nella sua componente di sinistra abituata a
concepire la comunicazione come un patrimonio dei
militanti di base e del loro rapporto «faccia a faccia»
con l’elettorato. Tanto più che l’intervento della Sca si
spostò rapidamente dalle tecniche di comunicazione ai
temi che dovevano rappresentare l’immagine del par-
tito presso l’elettorato. Apparve subito chiaro che mi-
gliorare la presentazione del messaggio serviva a poco,
se non si scalfivano gli stereotipi negativi coi quali il
Labour continuava a essere identificato dalla maggio-
ranza dell’opinione pubblica. In pratica, si trattava di
ridefinire il programma stesso del partito, rispetto alle
questioni più importanti: il suo conservatorismo in
economia e il legame troppo stretto coi sindacati. Te-
mi che andavano dritti al cuore del potere del vecchio
apparato. La Sca venne, così, «accusata dai membri
del Comitato esecutivo nazionale di sostituire la cam-
pagna, di decidere le questioni da sottoporre ai son-
daggi, di interpretare i risultati e di decidere le conse-
guenti strategie di comunicazione. [...] La ‘moderniz-
49
zazione’ del partito, che comprendeva l’abbandono di
molte policies di sinistra e un’enfasi sui metodi profes-
sionistici di comunicazione, era considerata dai critici
come la svendita dei valori del partito agli ordini dei
consulenti e degli esperti di sondaggi»6.
Il processo di professionalizzazione nel settore
della comunicazione, dunque, si accompagnava a una
ridefinizione delle priorità politiche. Nel nome di una
comunicazione più consona alle aspettative dell’elet-
torato, veniva, pezzo dopo pezzo, smontata la piat-
taforma del vecchio Labour, sostituendola con gli in-
gredienti vincenti di una nuova linea. Dando luogo a
una nuova forma di centralizzazione strategica basa-
ta sul controllo del messaggio con cui il partito si ri-
volgeva all’esterno. Perché, infatti, la strategia di co-
municazione risultasse fino in fondo efficace, era in-
dispensabile presentare un’immagine del partito
compatta, unita intorno alla nuova linea. In passato,
proprio la litigiosità e la frammentazione interna era-
no state gli handicap maggiori dei laburisti. Uno dei
compiti principali della Shadow Communication
Agency fu di mettere tutto il partito in condizione di
presentarsi all’esterno con posizioni uniformi sulle is-
sues più importanti, soprattutto nella fase decisiva
della campagna elettorale.
In realtà, come è facile prevedere, la strategia del
New Labour si basava su un’idea di permanent cam-
paigning, di campagna elettorale permanente. Se il
problema del partito era di rifocalizzare la sua imma-
gine nei confronti dell’opinione pubblica, si trattava
di uno sforzo capillare e costante di ricostruzione – e
comunicazione – dell’identità laburista sui principali
temi politici, da condurre a tempo pieno e a tutto
50
campo. Nondimeno, la sfida elettorale restava il mo-
mento decisivo di verifica, nonché quello in cui il
nuovo apparato di comunicazione centrale avrebbe
potuto offrire più proficuamente i diversi servizi me-
diatici concepiti all’interno della nuova strategia. Il
successo della riconversione del New Labour dipese,
infatti, in gran parte dalla straordinaria capacità di far
recepire in periferia l’esigenza – e le opportunità – del
cambiamento. Soprattutto attraverso l’intervento nei
collegi critici (nel gergo «collegi marginali»), vale a
dire quei collegi in cui era minore la distanza nei con-
fronti del candidato conservatore che aveva vinto al-
le ultime elezioni, e che quindi più facilmente pote-
vano essere conquistati.
Poche cifre bastano a descrivere la macchina da
guerra messa in campo dal New Labour sul fronte dei
key seats: «Già nei due anni precedenti la consulta-
zione elettorale si erano cominciati a monitorare al-
meno 5.000 elettori fluttuanti per ciascuno dei circa
90 seggi chiave. In seguito, questi potenziali sosteni-
tori del Labour erano stati contattati più volte diret-
tamente o per via telefonica, era stata loro inviata una
lettera firmata da Blair e i più giovani avevano addi-
rittura ricevuto un suo video. I candidati di quei seg-
gi erano stati inoltre invitati a contattare direttamente
almeno 1.000 di quegli elettori individuati come flut-
tuanti, erano stati accompagnati almeno una volta da
Blair o Mandelson, avevano ricevuto quotidianamen-
te consigli dalla Millbank Tower (la struttura comu-
nicativa centrale) ed infine avevano avuto a loro di-
sposizione sia i volontari arruolati dal partito sia un uf-
ficio con funzionari locali che, con l’aiuto della Mill-
bank Tower, monitoravano l’andamento della cam-
51
pagna via computer»7. Millbank Tower era, appunto,
«il nuovo quartier generale della comunicazione di
partito, un edificio di 20.000 piedi quadrati del costo
di 2 milioni di sterline, dove le operazioni (coordinate
dall’ufficio di Blair) vengono eseguite sotto la direzio-
ne del Capo della Strategia Elettorale del Labour, Pe-
ter Mandelson, probabilmente la persona con mag-
giore peso e influenza nella ‘comunità strategica’»8.
Il processo di centralizzazione strategica, dunque,
non prevedeva affatto un’emarginazione della perife-
ria del partito ma, al contrario, un suo pieno coinvol-
gimento nella nuova linea di comunicazione, con i
suoi target, i suoi messaggi, le sue tecniche di contat-
to ultraprofessionalizzato. Il significato principale
della centralizzazione, nello scontro decisivo dei col-
legi marginali, consisteva nella irreggimentazione e fi-
nalizzazione di tutte le risorse disponibili. In questo
senso, la macchina del Labour evoca quella, antesi-
gnana, dei partiti americani della fine dell’Ottocento,
che si disputavano gli stati decisivi per le elezioni pre-
sidenziali mettendo in campo uno schieramento «mi-
litare» di pari capillarità ed efficacia: nell’Indiana,
uno stato chiave, gli elettori del Partito repubblicano
erano organizzati in blocchi di cinque, da tenere sot-
to strettissimo controllo con un vero e proprio siste-
ma di schedatura individuale9. A ricordarci, con le
parole del boss Roscoe Conkling, che i partiti sono
comunque delle macchine di uomini10. La differenza
cruciale, comunque, è che, rispetto alle organizzazio-
ni del passato, la nuova macchina dei laburisti orga-
nizzava il lavoro dei militanti attraverso risorse pro-
fessionali provenienti dal mondo esterno della comu-
nicazione. Nonché – ed è, forse, questa la disconti-
52
nuità più significativa – facendo confluire uomini e
strategie sulla valorizzazione del leader quale princi-
pale risorsa da spendere sul mercato elettorale.
La personalizzazione è, infatti, la terza variabile
che, insieme alla professionalizzazione e alla centra-
lizzazione, descrive il processo di rifondazione del
Labour. In questo caso molto più che di una innova-
zione si trattò dello sforzo affannoso di colmare un ri-
tardo decennale. Rispetto agli standard di autorevo-
lezza e popolarità imposti, sulla scena britannica, dal-
la leadership di Margaret Thatcher, il Labour soffri-
va di una endemica carenza di visibilità. I suoi segre-
tari erano percepiti come succubi delle divisioni in-
terne e comunque vincolati al rispetto di ingombran-
ti tabù ideologici. In ogni caso, si trattava di uomini
senza nessuna delle doti principali del moderno lea-
der politico nell’era del videopotere. Era stato questo
uno dei limiti degli uomini che avevano ripetutamen-
te portato il Labour alla sconfitta, ma fu anche, per
una lunga fase iniziale, l’handicap principale di Kin-
nock. Paradossalmente, proprio l’uomo che con più
lucidità aveva intuito l’esigenza di una svolta radica-
le nell’immagine del suo partito, si rivelò inadeguato
a diventare il tramite personale di quella svolta. Vuoi
per la sua precedente storia di sconfitte politiche,
vuoi per le sue involute performance televisive, a Kin-
nock facevano difetto le caratteristiche principali del
comunicatore, quelle che maggiormente condiziona-
no la ricettività di un messaggio: l’affidabilità, la com-
petenza e l’appeal11. Naturalmente non mancarono
gli sforzi per modificare questa immagine, confezio-
nando un identikit diverso e più telegenico: dall’ad-
destramento all’oratoria sotto i riflettori delle teleca-
53
mere piuttosto che nei comizi in piazza, fino alla pro-
duzione di un video di propaganda che lo ritraeva al
fianco della moglie, nello sforzo di sostituire l’imma-
gine tribunizia del leader del movimento operaio con
quella middle class di una coppia giovanile. I risulta-
ti, tuttavia, restarono al di sotto delle aspettative, e il
Labour rinnovato subì nel 1994 – seppure per un sof-
fio – l’ennesima sconfitta elettorale.
Fu solo con l’avvento di Tony Blair, dopo la breve
reazione di rigetto e il tentativo di restaurazione por-
tato avanti dalla segreteria di John Smith, che i tre fat-
tori del rinnovamento si integrarono nella formula
vincente. La vicenda di Tony Blair è ben nota al gran-
de pubblico. Molto meno lo è la storia della lunga e
contrastata riforma organizzativa interna al Labour
che ha reso lo sfondamento personale di Blair così ef-
ficace. Nel quadro spesso stagnante o, peggio, autodi-
struttivo di molti partiti europei, la vicenda del La-
bour rappresenta il tentativo forse più riuscito di sal-
vaguardare alcuni elementi di continuità col passato
grazie all’innesto coraggioso di molte rilevanti novità.
In un ambiente elettorale sempre più caratterizzato
dalla professionalizzazione e dalla personalizzazione,
la formula del New Labour riuscì a coniugare la inevi-
tabile centralità della leadership con la riforma e l’a-
deguamento del partito nel suo insieme ai nuovi codi-
ci della comunicazione di massa. Tra la deriva presi-
denziale americana, in cui i partiti tendono a ridursi a
mere strutture di supporto dei candidati, e la stagna-
zione – o autodissoluzione – di tanti altri partiti della
vecchia Europa, il New Labour costruì, passo dopo
passo, una terza via, o compromesso: «promuovere il
partito nella forma del leader»12. Utilizzando la per-
54
sonalizzazione che domina la scena elettorale moder-
na come uno strumento per ridare coerenza e unità di
programmi a tutta l’organizzazione del partito.
Per il lettore – e cittadino – italiano ripercorrere la
vicenda della riorganizzazione del Labour è uno
shock culturale che apre inquietanti interrogativi po-
litici. In Inghilterra e in altri paesi, la storia di questa
incredibile rimonta è stata analizzata e raccontata in
mille sedi, da una fittissima letteratura scientifica e
un’accesissima discussione sui media. Da noi, al con-
trario, la vicenda è rimasta inesplorata e inascoltata.
L’agenda pubblica italiana è stata dominata – e ingan-
nata – da un’altra Inghilterra, quella imbalsamata dei
modellini costituzionali, il mito arcadico del bipartiti-
smo perfetto. Mentre l’Inghilterra reale sperimentava
una profonda riforma dei partiti portata avanti modi-
ficando dal di dentro assetti e strategie organizzative,
in Italia restavamo fermi alle diatribe sull’Inghilterra
virtuale, inseguendo una improbabile riforma a tavo-
lino che cambiasse la vita dei partiti con l’espediente
di una legge fotocopiata da Westminster. Per dirla con
una facile battuta, guardavamo l’Inghilterra sbagliata.
Nel frattempo, sorda alle chiacchiere che alimen-
tava, l’Italia dei partiti prendeva tutt’altra strada.
Parte seconda
IL RITORNO DEL CAPO
6.
I PARTITI PERSONALI

In nessun paese occidentale la crisi dei vecchi partiti


è stata rapida e diffusa come in Italia. Quello che era
comunemente considerato come il più stabile dei si-
stemi di partito europei si è praticamente disintegra-
to nel volgere di pochissimi anni. Le diagnosi su un
tracollo di simili proporzioni mettono in campo vari
fattori, dall’esplosione degli scandali sulla corruzio-
ne, con le inchieste di Tangentopoli, allo smantella-
mento del blocco sovietico. All’improvviso i partiti
italiani apparvero nudi ai loro elettori: privi dello scu-
do ideologico che aveva a lungo coperto la loro inca-
pacità e rapacità. Non va comunque dimenticato che
gli scricchiolii si avvertivano da tempo, almeno sulla
scrivania degli studiosi. Tutti gli indicatori, organiz-
zativi ed elettorali, della forza dei partiti italiani era-
no vistosamente al ribasso da diversi anni. Se a crol-
lare furono dei giganti, si trattava comunque di gi-
ganti dai piedi di argilla1.
Per spiegare e affrontare il terremoto si è fatto ine-
vitabilmente ricorso agli schemi interpretativi del
passato. Per cinquant’anni, la chiave di lettura del si-
stema politico italiano era stata il bipartitismo imper-
59
fetto. Il monopolio governativo della Democrazia cri-
stiana (col condominio di socialisti e laici) si reggeva
grazie all’assenza di una alternativa praticabile, data
la collocazione del Pci all’estrema sinistra. In tal mo-
do, i due grandi partiti popolari si puntellavano a vi-
cenda: l’uno nella cittadella del potere, l’altro in quel-
la dell’ideologia. Con la caduta del muro di Berlino e
la messa sotto processo di quasi tutta la maggioranza
governativa, il paese era finalmente pronto per la
grande svolta, l’alternanza con l’opposizione. La dot-
trina si aspettava – e auspicava – l’avvento del bipar-
titismo perfetto.
La dottrina, però, aveva fatto i conti senza la crisi
precipitosa dei due maggiori partiti italiani, che pas-
sarono, in meno di dieci anni, dal controllo di due
terzi dell’elettorato all’inseguimento di poco più di
un quarto. Gli altri tre quarti dei voti furono rapida-
mente occupati da un’altra cinquantina di partiti: un
record europeo battuto solo dalla Polonia. Su queste
basi, continuare a parlare di bipartitismo era un
astratto esercizio accademico. Nondimeno, l’eserci-
zio andò avanti, con alcune conseguenze spiacevoli
che esamineremo più avanti. Sarebbe, tuttavia, inge-
neroso addebitare ai professori un errore di valuta-
zione e impostazione che fu volentieri condiviso da
quasi tutta la classe politica e dall’intero establish-
ment mediatico. In realtà, la chimera del bipartitismo
(successivamente, e surrettiziamente, edulcorata in
bipolarismo) offriva almeno l’illusione di un approdo
rassicurante. E stendeva un velo pietoso sulla realtà
che stava prendendo una piega del tutto diversa.
Mentre, infatti, il dibattito pubblico si imbelletta-
va con le riforme istituzionali impossibili che avreb-
60
bero dovuto produrre, ex lege, i due partiti che non
esistevano, il potere politico sceglieva i sentieri più
praticabili per trovare un nuovo equilibrio interno.
Alcuni molto antichi, altri più nuovi o ignoti. Tutti,
comunque, lontani dalla strada maestra delle formu-
le di cui, in pubblico, si continuava a discettare. E, al
contrario, vicini ai processi ben più concreti di tra-
sformazione dei partiti descritti nella prima parte e
sui quali, naturalmente, anche l’Italia era sintonizza-
ta. Con alcune peculiarità e accelerazioni.
Più di ogni altro paese europeo – e, forse, inaspet-
tatamente – l’Italia si è ritrovata a essere la culla del
direttismo. Con una variante importante, rispetto al-
la versione americana: il peso del referendum. Se ne-
gli Stati Uniti la variabile istituzionale che ha fatto da
moltiplicatore della crisi dell’intermediazione partiti-
ca è stato il meccanismo delle primarie, in Italia la
cornice legislativa più favorevole per bypassare i par-
titi è stata offerta dai referendum. Durante gli anni
Novanta, le campagne referendarie si sono moltipli-
cate per numero, spettro tematico, visibilità e, so-
prattutto, incidenza politica. Da fenomeno occasio-
nale riservato a grandi temi di rilevanza etica e civile,
come l’aborto e il divorzio, il referendum si è trasfor-
mato in componente permanente del sistema politi-
co2. Modificandone alcune caratteristiche salienti,
come la legge elettorale, ma, in modo ancor più inci-
sivo, condizionando stabilmente le strategie e i com-
portamenti dei suoi principali attori. Per molti aspet-
ti, la politica italiana degli anni Novanta può essere
definita come una democrazia referendaria3.
Le campagne referendarie non hanno, però, solo
offerto lo strumento più agevole ed efficace per sca-
61
valcare i partiti e i loro apparati. Hanno anche costi-
tuito l’ambiente propizio per il ritorno, in Italia, di un
fenomeno che era stato da molti anni dimenticato ed
esorcizzato: l’ascesa del capo carismatico. Già nel
corso degli anni Ottanta, la scena politica italiana era
stata bruscamente movimentata dalla presenza di
personalità molto forti al vertice della cosa pubbli-
ca. In particolare la leadership di Bettino Craxi ave-
va impresso un passo molto diverso alla sonnolenta
oligarchia di partito. Da allora, erano fioccate le ana-
lisi sulla crescente personalizzazione e spettacolariz-
zazione della vita politica, accompagnate dalle mai
sopite paure sull’avvento dell’«uomo forte». In real-
tà, il maggiore protagonismo dei segretari – non solo
di quello socialista – faceva ancora prevalentemente
riferimento al retroterra organizzativo del proprio par-
tito. Restava quello il serbatoio principale di risorse,
anche se nell’utilizzarle venivano enfatizzate le doti
caratteriali – e le ambizioni – del leader.
Nel caso del movimento referendario a lungo ca-
peggiato da Mario Segni assistiamo, invece, all’affer-
mazione di un nuovo tipo di leadership. Il retroterra
di partito non conta, anzi viene esplicitamente scon-
fessato e abbandonato. Il rapporto che, attraverso il
referendum, si instaura tra i cittadini e il leader è
quello dello statu nascenti: l’entusiasmo per una nuo-
va avventura, un nuovo obiettivo, un leader la cui vi-
cenda politica si identifica pienamente con la mobili-
tazione referendaria. A dare ancora maggiore rilievo
al ritorno del capo carismatico sulla scena politica ita-
liana c’è il carattere fondativo della sfida, il fatto che
l’obiettivo preposto sia una modifica radicale del si-
stema esistente. La metafora che viene scelta a sim-
62
bolo del movimento referendario di Segni è l’instau-
razione della Seconda Repubblica. Nell’immaginario
popolare, la repubblica fondata sui partiti attraverso
l’Assemblea costituente di cui furono protagonisti in-
discussi viene soppiantata da una nuova repubblica,
il cui pilastro è la legge elettorale maggioritaria che
porta il nome di Mario Segni.
La parabola personale di Segni conoscerà un rapi-
do quanto inaspettato declino. Ma la innovazione ra-
dicale da lui introdotta nel rapporto tra il leader e i cit-
tadini si diffonderà rapidamente sia al centro che alla
periferia del sistema politico. Il testimone della nuova
leadership sarà raccolto prima dalla sinistra, con l’e-
sperimento dei nuovi sindaci. In questo caso, cambia
il formato istituzionale, e il direttismo trova l’alveo
americano a esso più congeniale: quello del rapporto
elettorale immediato tra cittadini e candidati, senza il
filtro dei vecchi partiti. Le campagne elettorali per la
scelta dei sindaci con la nuova legge a elezione diretta
con ballottaggio svolgeranno in Italia un ruolo molto
simile a quello delle primarie negli Stati Uniti. Saran-
no, cioè, la palestra per l’affermazione di nuove tecni-
che di campagna che metteranno in primo piano la
personalità dei candidati e daranno uno spazio molto
maggiore alla televisione e alla stampa.
Il decollo rapidissimo del direttismo dei nuovi sin-
daci è in parte dovuto alla crisi drammatica dei parti-
ti, che proprio in quegli anni conobbero i momenti
più bui di Tangentopoli. Oltreché, ovviamente, alle
opportunità che la nuova legge offriva, anzi impone-
va. Ma il debito principale del successo della nuova
formula è verso il clima d’opinione favorevole, in-
staurato dai referendum, nei confronti della demo-
63
crazia diretta come modalità più evoluta per la sele-
zione del leader. Ed è a questo stesso clima, cultura-
le e politico, che attingerà Silvio Berlusconi per la sua
straordinaria impresa che, nel volgere di pochi mesi,
lo trasforma da capitano d’azienda in premier della
Repubblica italiana.
La differenza principale tra il direttismo dei sin-
daci e quello di Berlusconi riguarda la scala del rap-
porto diretto che si instaura tra leader e cittadini. I
nuovi sindaci avevano sfruttato – e resuscitato – le
identità locali, la tradizione civica, trascurata ma mai
sopita, dei mille campanili italiani. E lo avevano fatto
grazie al rilancio di un rapporto capillare con i citta-
dini, battendo porta a porta i quartieri secondo la tra-
dizione dei vecchi partiti, ma con la differenza che,
questa volta, era il candidato in persona a farsi vivo.
I media avevano a loro volta contribuito alla perso-
nalizzazione della campagna dei sindaci, sia con la co-
pertura giornalistica tutta centrata sulle doti indivi-
duali, sia con gli accesi duelli tra i candidati sulle te-
levisioni locali. Il fenomeno, però, riguardava la sca-
la relativamente ridotta di una platea cittadina.
Berlusconi deve, invece, affrontare un’audience di
dimensioni nazionali, fare arrivare il proprio messag-
gio a decine di milioni di cittadini in ogni angolo del-
la penisola. Il tutto, nel volgere di pochi mesi. Per una
sfida di tale portata, la televisione diventa uno stru-
mento insostituibile. E, giustamente, le analisi del
successo della guerra lampo di Berlusconi si concen-
treranno sulla potenza di fuoco mediatico del padro-
ne di Mediaset, un fenomeno senza precedenti nelle
democrazie occidentali. Per sei mesi, le sue tre reti te-
levisive tempesteranno gli italiani con un messaggio
64
elettorale a favore dell’astro politico nascente e del
suo partito personale, alternando le dichiarazioni di
voto esplicite di presentatori famosi a tecniche sofi-
sticate di comunicazione subliminale. Per compren-
dere, però, il successo istantaneo di Berlusconi in
un’impresa di tale portata, il ruolo chiave giocato dal
suo impero televisivo non è sufficiente.
Un fattore altrettanto decisivo è consistito nella
possibilità di utilizzare, nello scontro tra destra e si-
nistra, lo stesso codice comunicativo affermatosi nel-
la campagna referendaria: il codice binario della con-
trapposizione amico/nemico, dell’alternativa secca
tra il pro e il contro, della soluzione chiara a portata
di mano. Molto più che alle sue doti di comunicato-
re, la rapida trasformazione di Silvio Berlusconi da
anonimo imprenditore in leader riconosciuto è stata
dovuta al fatto di ricalcare le orme appena tracciate
da Mario Segni e dal suo movimento referendario.
Un altro capo scendeva in campo, per un’altra batta-
glia con un obiettivo decisivo per le sorti del paese.
Se con Segni si era trattato di inaugurare il nuovo cor-
so della Seconda Repubblica, con Berlusconi la posta
in gioco era quella di salvare il paese dal pericolo co-
munista. Ma con lo stesso meccanismo di identifica-
zione tra gli elettori che si mobilitavano, al di fuori e
contro i vecchi partiti, e il capo che li trascinava alla
meta.
Accanto ai nuovi capi locali, impersonati dai sin-
daci a elezione diretta, e al leader carismatico nazio-
nale, inaugurato da Mario Segni e consacrato da Sil-
vio Berlusconi, c’è un terzo tipo di leadership che oc-
cupa prepotentemente la scena italiana. Si tratta, in
questo caso, di un fenomeno tutt’altro che inedito,
65
anzi ben radicato nella nostra tradizione politica,
quello del potere notabiliare. Vale a dire, di un pote-
re personale con forti radici localistiche, ma che tro-
vava nei partiti politici un veicolo di organizzazione e
promozione nazionale. Il sistema di governo demo-
cristiano si era a lungo basato sulla capacità di tenere
insieme centro e periferia attraverso il collante per-
sonalistico – e clientelare – di questo tipo di figura.
Nella crisi degli anni Novanta, la leadership notabi-
liare torna a occupare un ruolo di primissimo piano.
Questa volta, però, il canale di comunicazione nazio-
nale non è più offerto dal contenitore partitico, ma
dalla sua frantumazione.
I micro-partiti notabiliari, che fioccano numero-
sissimi in questi anni, si innestano su un precedente
consolidato, quello delle correnti di partito4. Ma so-
no adesso costretti a navigare per conto proprio e in
mare aperto, sfruttando le (molte) opportunità che il
nuovo sistema elettorale offre loro. Alcune di queste
liste si misurano con la competizione elettorale a tut-
to campo. Più di frequente, però, nascono da riaccor-
pamenti parlamentari, secondo la mai sopita tradizio-
ne italiana del trasformismo. In tutti i casi, comun-
que, devono la propria vitalità alla capacità di fare da
tramite – e collante – tra due tipi di frammentazione,
entrambi riconducibili alla legge maggioritaria: la
frantumazione del potere in periferia, dove il collegio
uninominale favorisce la nascita delle liste fai-da-te; e
la frantumazione al centro, dove la disomogeneità e
precarietà dei due blocchi contrapposti si presta a
continue escursioni da un fronte all’altro da parte di
«capitani di ventura» spregiudicati e intraprendenti.
Al centro di questo panorama variegato e movi-
66
mentato di nuovi capi e vecchi capetti, svetta il pri-
mato istituzionale, recente ma già molto ingombran-
te, dell’inquilino di Palazzo Chigi. È questa la novità
principale del sistema politico italiano nell’ultimo
quarto di secolo, l’emergere e il consolidarsi di un go-
verno – finalmente – degno del suo nome. A dispet-
to della scarsa attenzione ricevuta dagli studiosi e dal-
l’opinione pubblica, il fenomeno è ben noto ai politi-
ci, che competono ormai solo in funzione della con-
quista della premiership. È questo, prima e oltre Tan-
gentopoli, il terremoto che ha sconvolto il paese: lo
sgretolamento di un sistema basato su una miriade di
pesi e contrappesi, distribuiti cencellianamente in
tutti i gangli del potere, e l’irrompere di un meccani-
smo centripeto che raccoglie tutti i fili più importan-
ti sul tavolo del primo ministro.
L’avvento di un premier forte ha colto i partiti po-
litici doppiamente impreparati e impotenti. Innanzi-
tutto, ha fatto entrare in crisi la formula dei governi
di coalizione, su cui si era retta la Prima Repubblica.
Il problema non è, infatti, nel numero dei partiti che
compongono un’alleanza, come già si era visto all’e-
poca della staffetta tra Craxi e De Mita. Il problema
è che non esiste partitino – o partitone – di una coa-
lizione al governo che possa rassegnarsi a restare cin-
que anni fuori dal cono di luce che oggi emana da Pa-
lazzo Chigi. Anche solo per prendere una fionda e
spegnere il riflettore, come minacciano in continua-
zione di fare – e talvolta, purtroppo, fanno – i tanti
Davide che si alternano a sfidare il Golia di turno.
Un premier forte, però, non è solo una minaccia
per gli alleati. Rappresenta un pericolo mortale anche
per il proprio partito. Per un partito della Prima Re-
67
pubblica, adattarsi alle nuove regole del primato isti-
tuzionale del premier è una rivoluzione copernicana
che assomiglia a un harakiri. Per questo la Dc preferì
l’eutanasia di una resistenza passiva, lasciandosi an-
dare alla deriva. Per la stessa ragione, l’unico tentati-
vo riuscito di conciliare la premiership con la leader-
ship di partito è stato quello di Forza Italia: un parti-
to nuovo di zecca, di tipo patrimoniale, che non ri-
sponde a nessun altro che al suo padre padrone.
Di fronte al divorzio crescente tra i partiti storici
italiani e la nuova presidenza del consiglio, ha preso
corpo il «partito del premier». Un partito personale
costantemente in bilico, per definizione, tra istituzio-
ni e politica.
7.
I PRÌNCIPI DEMOCRATICI

Se l’idea di Seconda Repubblica non è subito misera-


mente naufragata nelle sabbie mobili di una riforma
elettorale sbagliata lo si deve soprattutto all’iniezione
di fiducia rappresentata dai sindaci eletti nel 1993, in
occasione della prima esperienza concreta e diffusa
degli italiani con i meccanismi dell’elezione diretta.
Per alcuni anni, le città sarebbero apparse il vero – e
unico – laboratorio istituzionale del paese. Mentre a
Roma si continuava a discettare su «Grandi Riforme»
e accordi impossibili, in periferia si stava siglando e
sperimentando sul serio il nuovo patto tra governan-
ti e governati. La rinascita civile del paese passava per
i suoi mille campanili, per il recupero di una mai so-
pita tradizione e orgoglio municipalistici. Il motore
trainante di questo «new deal» cittadino non erano
più i partiti con le loro ideologie obsolete e i loro pro-
grammi incoerenti, ma il leader illuminato che si ri-
volgeva direttamente agli elettori per la sua investitu-
ra. Dalla bisaccia della storia italiana rispuntava il mi-
to del principe, per giunta con la benedizione della
legittimità democratica1.
La primavera dei sindaci sboccia con qualche me-
69
se di ritardo rispetto all’esordio ufficiale. La prima
volta che si era votato con la nuova legge, nel giugno
del 1993 a Torino e Milano, l’elezione diretta del sin-
daco era un meccanismo del tutto sconosciuto e dal-
le potenzialità nascoste. Il risultato fu che l’ebbero
vinta soprattutto gli errori e l’inesperienza, con degli
scontri confusi sia per i troppi candidati in lizza, sia
per la scarsa consapevolezza della strategia da adot-
tare per vincere una competizione a doppio turno. Il
gioco era nuovo e complicato e, come al solito, l’uni-
co modo per imparare sarebbe stato dai propri sba-
gli. I Progressisti fecero tesoro delle sconfitte più bru-
cianti. Le sfide che si tennero, in autunno, nelle prin-
cipali città italiane e in tantissimi centri minori, eb-
bero una storia del tutto diversa.
Prima di analizzare i fattori culturali e politici che
contribuirono alla rivoluzione dei sindaci, non va di-
menticato il ruolo decisivo svolto dalla cornice istitu-
zionale riformata dalla nuova legge sull’elezione e sui
poteri del primo cittadino. Si era trattato, come già al-
tre volte in Italia nei pochi casi di riforme riuscite, di
una legge varata in sordina, ai tempi del vecchio pen-
tapartito. I cambiamenti nel meccanismo elettorale
furono quelli, in principio, più visibili. L’elezione di-
retta del sindaco con doppio turno di ballottaggio in-
troduceva sulla scena politica almeno tre grosse no-
vità, tutte e tre dagli effetti distruttivi per i partiti tra-
dizionali. La prima consisteva nel meccanismo del-
l’elezione, strappato ai consiglieri di partito e messo
direttamente nelle mani dei cittadini. In passato, le
giunte comunali erano caratterizzate da una instabi-
lità endemica, con i primi cittadini nel ruolo di ostag-
gio obbligato di maggioranze consiliari frammentate
70
e rissose. Basti pensare che il periodo, apparente-
mente ininterrotto, della prima esperienza di gover-
no delle sinistre a Napoli, tra il 1975 e il 1983, fu in
realtà segnato dalla successione di sei giunte diverse.
Con quali esiti sulla continuità e serenità dell’azione
amministrativa, è facile immaginare.
Un altro dato non meno importante della nuova
legge era il potere del sindaco di nominare diretta-
mente i propri assessori, con l’obbligo di sceglierli al
di fuori del consiglio comunale (o tra i consiglieri, ma
pena la loro decadenza). In tal modo, veniva a crear-
si un sistema di divisione istituzionale dei poteri tra il
sindaco e il consiglio comunale. Da un lato, il primo
cittadino con la sua squadra di fiducia impegnati nel-
la routine amministrativa, dall’altro il consiglio co-
munale con compiti legislativi limitati alle questioni
di maggiore rilievo. Al posto della brutta copia del
meccanismo parlamentare che avevano subìto in pas-
sato, le città italiane si trovavano a sperimentare un
regime di tipo minipresidenziale.
Il fattore, però, decisivo nel fare dei nuovi sindaci
il laboratorio su scala locale della personalizzazione
politica fu il rapporto strettissimo instauratosi tra i
sindaci e i media. I giornali colsero subito l’enorme
opportunità offerta dalla discesa in campo di candi-
dati che puntavano tutto (o quasi) sulla propria per-
sonalità e capacità di comunicare con il pubblico. Fi-
nalmente, la stampa italiana aveva l’occasione di pre-
sentare lo scontro politico non più come una lontana
competizione tra oligarchie di partito, col loro lin-
guaggio esoterico e orizzontale, riservato cioè alla
cerchia ristretta degli addetti ai lavori. Al contrario, i
sindaci – come candidati e ancor più come primi cit-
71
tadini – avevano un bisogno vitale di instaurare un fi-
lo diretto e ravvicinato con la cittadinanza. I media
diventarono di buon grado la cassa di risonanza dei
nuovi sindaci, nonché – per conto dei cittadini – il lo-
ro cane da guardia, secondo la felice espressione del
giornalismo americano.
Abbiamo già visto come tutti questi fattori trovas-
sero un terreno fertilissimo grazie al clima politico in-
staurato dalle campagne referendarie a favore del di-
rettismo. A un anno di distanza dalla trionfale affer-
mazione di Mario Segni sotto la bandiera della rifor-
ma elettorale maggioritaria, i cittadini avevano final-
mente l’occasione di sperimentare dal vivo il funzio-
namento del nuovo sistema. I sindaci furono i primi
– e, forse, gli unici – beneficiari del direttismo come
nuova ideologia democratica della nascente Seconda
Repubblica.
L’analisi del successo della rivoluzione dei sinda-
ci non sarebbe, tuttavia, completa senza dare il do-
vuto riconoscimento a due componenti storiche del-
la nostra tradizione politica, non riconducibili cioè al
terremoto del direttismo e della personalizzazione,
ma che hanno svolto un ruolo chiave nel consolida-
mento della nuova esperienza amministrativa: il mu-
nicipalismo e il populismo.
Che l’Italia dei comuni fosse la principale – se non
l’unica – risorsa «di lunga durata» del tessuto istitu-
zionale del paese era un fatto ben noto agli storici. E,
da qualche tempo, anche gli economisti avevano ri-
chiamato l’attenzione sul localismo come fattore deci-
sivo del successo del modello economico della «Terza
Italia», con cui il paese aveva riguadagnato posizioni
nel panorama internazionale. Per la prima volta, però,
72
grazie alla rivoluzione dei sindaci, il municipalismo si
era presentato come un’occasione di rinascita politica.
Puntare sull’orgoglio e sulle appartenenze era stato fi-
no ad allora, in politica, una prerogativa dei partiti e
delle loro bandiere ideologiche. Issare il gonfalone
dell’identità cittadina divenne, invece, una risorsa
preziosa per i leader locali alla ricerca di un meccani-
smo di comunicazione con i propri elettori meno epi-
sodico e volubile della semplice scheda nell’urna2.
Difficilmente, tuttavia, questa risorsa sarebbe sta-
ta spendibile senza l’ingrediente particolare che mol-
ti tra i nuovi sindaci seppero aggiungere alla formula
del proprio successo: un collaudato know-how popu-
lista. Soprattutto per i sindaci provenienti dalle fila del
movimento operaio, il populismo era stata l’unica ve-
ra modalità di contatto con l’elettorato di massa. Se,
infatti, nella vita di sezione e di federazione i rapporti
politici erano governati dalle rigide gerarchie della no-
menklatura e il linguaggio restava congelato negli
schemi dell’ideologia, i contatti con l’esterno seguiva-
no i precetti oratori e comportamentali, molto più li-
beri e calorosi, del populismo. Nella retorica dei co-
mizi in piazza – così importante per la selezione dei
quadri – non meno che nei contatti porta a porta – che
non mancavano mai nel curriculum di un buon diri-
gente – il populismo costituiva la chiave di rapporto
preferita tra il professionista di partito e gli elettori.
La capacità di aderire e far proprio il punto di vi-
sta della «gente comune», con l’attenzione all’ascolto
per i piccoli problemi e la concretezza delle soluzio-
ni, l’enfasi sul coinvolgimento continuo della gente
come condizione irrinunciabile per il buon governo e
la «buona politica» sono tutti elementi in apparente
73
contrasto con lo stereotipo dell’apparatchiki, chiuso
dietro la cortina di ferro del proprio credo ideologi-
co. In realtà, nel pedigree del funzionario di partito
l’esperienza populista non era meno importante del-
la disciplina leninista3. Anzi, proprio questa capacità
altamente professionale di dialogo con la cittadinan-
za costituirà la marcia in più di molti sindaci di sini-
stra nella pratica concreta di governo. Il caso più em-
blematico resterà quello di Antonio Bassolino, con-
tro la cui «candidatura di apparato» Mario Segni ave-
va gettato tutto il peso della propria influenza, giun-
gendo a rompere, su quella scelta, la propria alleanza
con il fronte dei Progressisti. Solo, però, per accor-
gersi, nel volgere di pochi anni, che l’uomo della no-
menklatura era diventato il sindaco più popolare tra
gli italiani. A conferma che le vie del direttismo era-
no molto più numerose di quanto potesse apparire
sotto il cielo del movimento referendario.
Il riflettore sempre acceso dei media e il filo diret-
to con la gente non erano però solo una risorsa, ma an-
che un vincolo nel selezionare l’agenda degli interven-
ti. Approdati al governo municipale con grande po-
polarità, molti poteri ed enormi aspettative, i sindaci
si trovarono a decidere in quale direzione incanalare
le loro limitate energie. Quali erano le priorità da per-
seguire nella giungla di un’amministrazione spesso in
bancarotta finanziaria, con una burocrazia inefficien-
te, e nel pieno di una rivoluzione politica che aveva re-
ciso i fragili collegamenti di partito? Tanto più che, tra
i vantaggi del direttismo, c’era il fatto di aver squar-
ciato il velo sulla vecchia finzione del programma. La
lista delle cose da fare, bene ordinate come ogni libro
dei sogni, aveva ancora campeggiato in testa alla can-
74
didatura di ogni sindaco. Ma la partita reale, stavolta,
si era giocata sull’appeal e sulla credibilità personali.
La fiducia era stata data al sindaco e alle poche paro-
le d’ordine che lo avevano presentato ai cittadini.
Spettava al sindaco, adesso, decidere da dove comin-
ciare a sbrogliare la matassa dei problemi pubblici.
Di fronte a responsabilità così ampie e, al tempo
stesso, indeterminate, il sindaco non poteva che sce-
gliere la scorciatoia delle politiche simboliche4. Vale
a dire, intervenire innanzitutto – e soprattutto – in
quei settori nei quali fosse più facile tenere in carbu-
razione gli elementi su cui il principe democratico
fondava la propria forza: l’attenzione dei media e la
tensione dei cittadini. Il termine politiche simboliche
può trarre facilmente in inganno, facendo pensare
che si tratti di interventi soltanto di immagine. Al
contrario, l’impatto reale di questo tipo di interventi
è stato, in molti casi, concretissimo. La peculiarità
delle politiche simboliche non è quella di limitarsi al
circuito mediatico della (buona) immagine, ma di
adoperarlo come leva principale di comunicazione.
Le politiche simboliche sono quelle che attraggono
facilmente l’attenzione, suscitano controversia e pas-
sione, mettono, insomma, in collegamento diretto l’i-
niziativa amministrativa del sindaco con settori mol-
to ampi della cittadinanza. Non si limitano a fare no-
tizia in un titolo o in un’intervista, per poi tornare a
essere inghiottite dalle mille difficoltà di un processo
di esecuzione necessariamente lento. Al contrario, le
politiche simboliche entrano stabilmente a far parte
dell’immaginario collettivo.
Inoltre, si tratta quasi sempre di interventi a presa
rapida. Un’altra caratteristica importante delle poli-
75
tiche simboliche consiste nel sopperire alle lungaggi-
ni e alle resistenze della macchina burocratica. La
scelta più difficile da fare, per i sindaci appena eletti,
riguardava il rapporto da instaurare con l’apparato
amministrativo ereditato dal vecchio sistema. Si trat-
tava, nella gran parte dei casi, di un apparato ineffi-
ciente e pletorico, rispetto al quale la misura più ido-
nea sarebbe stata quella di un intervento drastico di
riorganizzazione e sfoltimento. Ma, imbarcarsi in
questa direzione avrebbe richiesto tempi lunghi, con
l’unica certezza immediata di incontrare la resistenza
frontale della – piccola e grande – burocrazia. Al con-
trario, concentrare il proprio intervento sul nuovo
fronte delle politiche simboliche consentiva di con-
seguire, in poco tempo, risultati anche importanti,
senza dover subire l’ostracismo e i ricatti delle cor-
porazioni interne alla macchina amministrativa.
Il nodo, tuttavia, del rapporto tra i nuovi sindaci e
la vecchia macchina sarebbe, prima o poi, venuto al
pettine. E, infatti, sul medio periodo, le esperienze di
buongoverno che riescono a mettere radici sono
quelle in cui il patrimonio di popolarità accumulato
nella fase iniziale è stato saggiamente investito nel fa-
ticoso lavoro di riordino dell’amministrazione inter-
na. Tanto più che ai molti poteri che già la legge as-
segnava al sindaco nel rapporto coi dipendenti co-
munali, altri se ne sono aggiunti in questi anni grazie
ai provvedimenti di riforma che hanno investito il
complesso dell’impalcatura statale. Professionalità,
formazione permanente, progressiva privatizzazione
dei rapporti di lavoro, esternalizzazione di molte ex
aziende municipalizzate: sono queste le nuove paro-
le d’ordine delle amministrazioni locali impegnate se-
76
riamente a riformare se stesse5. Si tratta, però, di
obiettivi molto più facili da enunciare sulla carta che
da perseguire dal vivo. Per almeno una ragione (o ali-
bi), che si frappone, come un macigno invisibile, sul-
la strada della riforma amministrativa.
La riforma amministrativa non è facilmente assi-
milabile alle leggi del direttismo. Lì dove il direttismo
presuppone obiettivi immediati e a presa rapida, la
riforma della burocrazia procede lentamente e coin-
volge gli ingranaggi, le procedure, le culture in un
processo di ammodernamento che solo dopo (molto)
tempo e fatica produrrà risultati visibili. In breve, la
riforma amministrativa non è facilmente comunica-
bile, soprattutto in un contesto politico che si è abi-
tuato ai codici forti e istantanei della leadership che
trascina dritto alla meta. Se, al contrario, la meta pre-
suppone un itinerario tortuoso ma tenace, il traguar-
do diventa subito sfuocato. Anche per l’obiettivo dei
media, che non sono attrezzati ad analizzare feno-
meni poco e male riducibili in poche battute o pochi
slogan.
La lontananza dalla riforma della macchina ri-
guarda, oltre che i cittadini e i media, anche il princi-
pe democratico, i capisaldi della sua leadership. Se il
direttismo ha abituato ad aspettarsi dal sindaco in
prima persona la soluzione di ogni problema, l’idea
che sia, invece, indispensabile passare attraverso l’in-
tervento riformatore di altri uomini lede alla base il
rapporto demiurgico tra il capo e i cittadini. Al posto
dell’onnipresenza e onnipotenza, e relativa responsa-
bilità illimitata, del sindaco come unico depositario
dell’autorità, la cultura della riforma burocratica po-
stula l’esistenza di una classe amministrativa autono-
77
ma, responsabile in primo luogo verso la razionalità
e l’efficienza. Ogni volta che il sindaco sceglie di in-
terporre tra sé e i cittadini l’intervento di altre perso-
ne – e altre funzioni – sia pure in suo nome e per suo
conto, sceglie in realtà di fare un passo indietro dalle
luci della ribalta. Ma può un principe accettare l’om-
bra, fosse anche quella della sua luce?
Anche per questo i sindaci eletti direttamente dai
cittadini, magari con maggioranze bulgare, restano, in
realtà, condannati a governare in solitudine. Il solo
partito di cui possono pienamente e coerentemente
disporre è formato dalla propria persona. Oltre che da
un gruppo ristretto di collaboratori di fiducia. Questa
forma di organizzazione – il leader con la sua squadra
di fedelissimi – resta, però, di tipo informale. Il rap-
porto di fedeltà personale può essere integrato da una
carica politica, come assessore o presidente di un’a-
zienda municipalizzata. La presenza di una squadra
del sindaco non modifica, tuttavia, la natura mono-
cratica del potere: il leader resta l’unico direttamente
legittimato a prendere decisioni politiche. L’apporto,
certamente prezioso, di alcuni collaboratori non inve-
ste la relazione politica del sindaco verso i cittadini,
che è di responsabilità personale e indivisibile.
Di qui le molte difficoltà incontrate dai tentativi di
aggregazione più stabile, intorno al primo cittadino,
di segmenti significativi di classe dirigente e/o poli-
tica, all’insegna del «partito del sindaco». Nei casi
più fortunati, l’approdo è stato una lista civica di so-
stegno alla candidatura del sindaco, insieme ai parti-
ti della coalizione o integrandoli al proprio interno.
Si tratta, comunque, di esperienze che, nelle grandi
città, hanno poi avuto difficoltà a sopravvivere alla
78
fase della campagna elettorale. Subito dopo l’investi-
tura, il partito del sindaco inevitabilmente si scopri-
va privo di una missione che non fosse quella di ser-
vire il suo principe. Abbastanza, probabilmente, per
una corte rinascimentale. Ma troppo, o troppo poco,
nell’epoca della responsabilità democratica che pre-
tende, per stare in politica, almeno un’autonomia di
facciata.
Inoltre, il partito del sindaco ha sempre dovuto
vedersela con l’ostilità dichiarata dei partiti tradizio-
nali. Anche se sopravvissuti a stento alla rivoluzione
dei sindaci, col tempo i vecchi partiti si sono andati
riorganizzando, sforzandosi di riguadagnare posizio-
ni. Innanzitutto in consiglio comunale, sui banchi
che, dopotutto, almeno formalmente gli spettavano.
Poi, cercando di infiltrarsi di nuovo tra le poltrone di
governo, rivendicando la spartizione dei posti di as-
sessore che la legge sembrava destinare alla decisione
sovrana del sindaco. Divisi praticamente su tutto – al
proprio interno, verso gli alleati, sulla linea da tenere
nei confronti del sindaco padre-padrone – i partiti
tradizionali riescono a ricompattarsi soltanto di fron-
te al pericolo mortale del superpartito del sindaco.
Quello che li taglierebbe fuori dalla lotta di succes-
sione. La regola non scritta ma ferrea del primato dei
nuovi sindaci è che il principe democratico ha lo scet-
tro, ma a lui solo è consentito di usarlo. Fino al ter-
mine della propria avventura solitaria.
8.
IL CAVALIERE SENZA PAURA

La discesa in campo di Silvio Berlusconi, nel gennaio


del 1994, segna uno spartiacque decisivo nella politi-
ca italiana. All’occhio dello storico, probabilmente
nessun altro evento di questo travagliatissimo decen-
nio apparirà così gravido di conseguenze per tanti
aspetti del sistema politico. Dopo Berlusconi vengo-
no messi a nudo i tabù che per tutto il dopoguerra
avevano retto – e mascherato – l’impalcatura della
partitocrazia. A cominciare dalla negazione ed esor-
cizzazione della destra, un termine che non era mai
stato accettato nel vocabolario politico ufficiale. Sal-
vo affacciarsi periodicamente con le modalità più
violente e incontrollabili, come gli attentati terrori-
stici o la criminalità organizzata. Con Silvio Berlu-
sconi, la destra entra finalmente a far parte del siste-
ma dei partiti, al pari di quanto avviene in tutte le de-
mocrazie occidentali. E gli italiani, squarciato il velo
delle ideologie, accettano di guardarsi allo specchio
per come sono.
Berlusconi si offre, appunto, agli italiani come
«uno di loro». Ancor più che alle doti di comunica-
tore, il suo appeal immediato si fonda sul fatto di
80
proporre se stesso, la propria immagine di self-made
man di successo. Al posto di un programma com-
plesso, o di un messaggio più o meno credibile, Ber-
lusconi offre al pubblico la formula più immediata di
comunicazione: l’esempio di un uomo ricco, anzi ric-
chissimo. In una cultura politica ufficialmente do-
minata dal disprezzo – gesuitico o rivoluzionario –
del danaro, l’ideologia spudoratamente filocapitali-
sta di Berlusconi ha l’effetto di un tornado. In pochi
mesi, dopo un secolare letargo, i linguaggi e i pro-
grammi dei partiti prendono atto che gli interessi e
le passioni, in politica, non possono essere troppo
distanti da quelli che travagliano la gente nella vita
di tutti i giorni. L’ingresso – e la minaccia – della de-
stra costringe i vecchi politici a un salutare bagno di
realismo.
Ciò che viene comunque proposto, sul piano del-
le rappresentazioni simboliche, non è la semplice
identificazione con il miraggio del danaro (o, più pro-
saicamente, con la sua difesa per chi già ce l’ha). Co-
me nella buona mitologia classica (nonché in quella
hollywoodiana), l’immedesimazione del pubblico nel
nuovo leader viene debitamente trasfigurata attraver-
so la figura retorica dell’eroe che mette a repentaglio
se stesso per sfidare il nemico. Anche se in questo ca-
so, adeguandosi allo spirito dei tempi, la scenografia
della discesa in campo del cavaliere senza paura (e
magari con qualche macchia) non prevede il rischio
della vita, ma solo quello dei propri averi e della pro-
pria tranquillità domestica. L’idea della sfida solita-
ria, del cavaliere che interviene in extremis per salva-
re il paese dall’avanzata delle falangi comuniste, sarà
il Leitmotiv della campagna elettorale, il messaggio
81
ossessivamente ripetuto a reti (private) unificate. In-
sieme all’esortazione a unirsi al seguito del condottie-
ro, a scendere in campo insieme a lui: l’ultimo match
in cui gli italiani si giocano il tutto per tutto1.
Fanno così il loro ingresso sul palcoscenico me-
diatico i club di Forza Italia, le strutture associative
territoriali che – secondo le stime autocertificate di
Mediaset – spuntano come funghi in ogni angolo del
paese. Basteranno, poi, pochi mesi a denunciare l’e-
strema fragilità e aleatorietà di un «tessuto di base»
esistito solo in funzione della propria rappresenta-
zione virtuale. Ma l’immagine della moltiplicazione
spontanea e a macchia d’olio dei seguaci del Cavalie-
re serve bene a mascherare la realtà di una dinamica
organizzativa che, al contrario, procede secondo un
rigidissimo schema top down. Molto più che dalle
fantomatiche schiere dei suoi club, Berlusconi è af-
fiancato e supportato da un esercito professionale di
esperti di comunicazione e di marketing, inquadrati
in una rigida disciplina aziendale. È questo il New
Model Army con cui la destra fa la sua comparsa in
Italia, rivoluzionando gli schemi organizzativi dei
partiti forse ancor più che i loro capisaldi ideologici.
Il tipo di partito che, nel volgere di pochi mesi,
Berlusconi riesce a mettere in piedi non ha nulla in
comune con i partiti del passato. Non nasce da pro-
fonde fratture, sociali o religiose, e tantomeno è un
raggruppamento di notabili parlamentari. Forza Ita-
lia è un partito artificiale, costruito a tavolino sulla
base di un’analisi sofisticata del mercato politico e di
una straordinaria capacità di organizzazione manage-
riale. Si tratta del primo esemplare del genere confe-
zionato in grande stile ad apparire sulla scena delle
82
democrazie occidentali, con un solo parziale prece-
dente – peraltro egregiamente clonato – nel Reform
Party del miliardario texano Ross Perot2.
La novità e il successo fulminante di Forza Italia
metteranno a soqquadro gli ambienti politici nazio-
nali e internazionali. Mai si era visto un imprendito-
re mettere in campo direttamente il proprio peso eco-
nomico in un’operazione di tale portata. E mai si era
registrata una capacità (e rapidità) di penetrazione
nell’opinione pubblica pari a quella fornita a Berlu-
sconi dal suo impero televisivo. Nel volgere di pochi
mesi si erano materializzati due fantasmi ancestrali
della democrazia moderna: la paura che il potere del
danaro potesse condizionare apertamente la compe-
tizione politica e la sindrome orwelliana che assegna
al Grande Fratello il ruolo di padre-padrone delle co-
scienze dei cittadini. La grande azienda multimedia-
le di Silvio Berlusconi, dando vita per gemmazione a
un potente partito politico, trasformava bruscamen-
te in realtà gli incubi di generazioni di studiosi.
Per comprendere, tuttavia, le ragioni del successo
di Forza Italia non sono sufficienti i contorni foschi
quanto imprecisi dell’influenza dei media e del dana-
ro. Dopotutto, entrambi questi fattori erano da de-
cenni sul mercato, italiano e di altri paesi, ma mai era-
no stati mixati in una macchina così micidiale di cat-
tura del consenso di massa. Qual era stata la marcia
in più di cui Berlusconi disponeva? Probabilmente, il
fattore più originale nell’impresa di Forza Italia è
consistito nella professionalità estrema dell’apparato
di uomini e mezzi messi a disposizione della mission
impossible di conquistare, con una guerra lampo,
nientemeno che Palazzo Chigi. In un panorama ita-
83
liano dove gran parte dei vecchi professionisti politi-
ci era finita sotto processo o in contumacia, i nuovi
professionisti provenienti dal mondo della grande
azienda disponevano di un know-how, tecnologico e
organizzativo, del tutto inedito. E tale da mettere ra-
pidamente fuori gioco la «gioiosa macchina da guer-
ra» della concorrenza, ingloriosamente declassata –
dalla stampa e dalle urne – ad armata Brancaleone.
Un primo aspetto importante, quanto spesso sot-
tovalutato, del nuovo professionismo di cui erano
portatori gli uomini di Berlusconi riguardava la cul-
tura della gerarchia aziendale. Nel mondo delle im-
prese private – non certo solo quelle di Berlusconi –
sopravvive, infatti, un principio di disciplina interna
che si è da lungo tempo, invece, appannato nei vari
rami dell’amministrazione pubblica. Le stesse orga-
nizzazioni tradizionali di partito si sono andate da
tempo assimilando alle routine inefficienti della bu-
rocrazia statale, perdendo quella unitarietà di obietti-
vi e di azione che le aveva rese temibili all’epoca degli
esordi. Il centralismo democratico dei vecchi partiti
comunisti e socialdemocratici ha ormai ceduto il pas-
so a strutture poco coese, capaci di produrre decisio-
ni solo attraverso defatiganti conflitti interni e incer-
te mediazioni. Al contrario, il modello aziendale tra-
piantato da Fininvest in Forza Italia ha consentito
chiarezza di obiettivi e rapidità di intervento, due fat-
tori insostituibili in un’operazione lanciata su scala
nazionale e in tempi strettissimi.
Un altro aspetto radicalmente innovativo nel pa-
norama italiano è consistito nella professionalità
massmediologica dello staff di Berlusconi. L’uso in-
tensivo di esperti nel campo della comunicazione è
84
diffuso da molto tempo negli Stati Uniti e anzi, co-
me abbiamo visto, rappresenta uno dei fattori chia-
ve per l’affermazione della candidate centered poli-
tics. In Gran Bretagna, è stato al centro della rivolu-
zione organizzativa del New Labour. Ma anche in
Francia, grazie all’abbinamento con le elezioni pre-
sidenziali, gli istituti di sondaggio e gli esperti di co-
municazione sono diventati elementi importanti nel-
la competizione politica. In Italia, al contrario, i par-
titi erano rimasti refrattari all’uso delle nuove tecni-
che. L’idea che la strategia elettorale dovesse essere
concepita in sinergia con un uso appropriato di
stampa e televisione era considerata lesiva – e offen-
siva – della concezione partitocentrica del «primato
della politica».
In verità, qualche timida innovazione, come ab-
biamo visto, c’era stata in occasione delle campagne
per l’elezione dei sindaci nell’autunno del 1993. Per
la prima volta, anche a sinistra si erano formati grup-
pi di esperti per gestire, insieme al candidato, le fasi
calde della campagna. Si era trattato, per lo più, di
staff molto informali e improvvisati, anche se i risul-
tati non erano certo mancati3. La comunicazione dei
sindaci si era mostrata all’altezza dei tempi nuovi.
Questo piccolo patrimonio di esperienze era stato,
però, rapidamente dilapidato in occasione delle ele-
zioni politiche nella primavera successiva. Anzi, più
propriamente, seppellito nel dimenticatoio. Per quan-
to possa apparire incredibile, non vi fu nessun tenta-
tivo, da parte del quartier generale della coalizione di
sinistra (i Progressisti), di utilizzare le competenze
che avevano dato, appena pochi mesi prima e in tan-
te città d’Italia, una prova così brillante di sé.
85
Rispetto a questo approccio antidiluviano, l’in-
gresso nella competizione di una schiera agguerritis-
sima di esperti aziendali di comunicazione creò subi-
to un divario strategico tra le due forze in campo.
Tanto più che, grazie appunto alla propria esperien-
za nel settore, i professionisti di Berlusconi concepi-
rono fin dall’inizio la campagna di comunicazione co-
me strettamente integrata con il processo di ideazio-
ne del nuovo partito. Secondo gli approcci di marke-
ting più collaudati, il confezionamento del prodotto
doveva in primo luogo rispondere alle aspettative
dell’elettorato. Così, se a sinistra l’uso (scarso e spo-
radico) dei sondaggi fu limitato a fornire previsioni
(subito catastrofiche) sul risultato finale, i sondaggi
di Forza Italia furono, invece, finalizzati a pilotare i
messaggi del nuovo partito, adeguandoli di volta in
volta all’elettore targettizzato sulla base delle diverse
fasce orarie, palinsesti e reti televisive.
Al tempo stesso, i sondaggi furono adoperati co-
me contenuto del messaggio stesso, oltre che come
strumento per confezionarlo. Con un uso delle cifre
a dir poco spregiudicato (anche se, comunque, mai
adeguatamente contrastato), gli strateghi di Forza
Italia accreditarono fin da subito un partito in verti-
ginosa ascesa nel gradimento degli elettori, innescan-
do il circolo virtuoso della profezia autoverificantesi.
Inoltre, gli stessi discorsi di Berlusconi, nonché le sue
rare interviste, fecero un uso frequente del sondaggio
come fonte di validazione delle opinioni del leader.
La frase di rito – «anch’io, come il 65 [68, 71, 74...]
% degli italiani, penso che...» – divenne uno dei più
efficaci artifici retorici con cui Berlusconi, in assenza
di precedenti ideali e ideologici consolidati, dava for-
86
za rappresentativa alle proprie opinioni personali al
cospetto di milioni di telespettatori.
Non tutte le innovazioni introdotte da Forza Ita-
lia erano farina del sacco Fininvest. Ciò, però, non fa
che confermare l’uso strategico del know-how giusto
al momento – e al posto – giusto da parte di Berlu-
sconi. Tra i meriti maggiori del suo staff vi fu, infatti,
l’abilità nell’importare tecniche di comunicazione già
sperimentate dal candidato la cui impresa recente ri-
sultava per tanti aspetti assimilabile al tentativo di
Forza Italia: Ross Perot e il suo Reform Party. Anche
in questo caso si era trattato di un partito creato in
brevissimo tempo dal nulla, grazie soprattutto agli in-
genti investimenti economici per acquistare spazi te-
levisivi. Un elemento decisivo per lo sfondamento di
Ross Perot presso il grande pubblico era stata la scel-
ta di evitare il filtro dei giornalisti, rifiutando il con-
traddittorio delle interviste. Questa linea di comuni-
cazione autogestita (e autoreferenziale) gli inimicò,
almeno all’inizio, l’establishment dei media, gelosis-
simo delle proprie prerogative di agenda setting. Ma
si rivelò, nondimeno, un fattore chiave in una strate-
gia di penetrazione a tappe forzate e incentrata su po-
chi elementi simbolici, da far emergere con estrema
chiarezza e in un rapporto diretto con il pubblico. Gli
infomercials di Ross Perot saranno replicati nelle vi-
deocassette preregistrate di Berlusconi, lasciando al
grande comunicatore carta bianca nei confronti del-
la propria audience4.
A favore di Forza Italia non giocarono, però, sol-
tanto i fattori organizzativi radicalmente innovativi in-
trodotti dal suo capo. Un elemento altrettanto decisi-
vo fu rappresentato dalla crisi lacerante dei partiti del-
87
la vecchia coalizione centrista, che aprì nell’elettorato
un varco di proporzioni gigantesche. Gli studiosi che
da anni si interrogano sulla effettiva capacità di con-
dizionamento dei media – e di chi li sa bene usare – sui
comportamenti di voto sanno che c’è un ostacolo in-
sormontabile agli eccessi della manipolazione media-
tica. Perché il videopotere riesca davvero a «fare la dif-
ferenza» c’è bisogno di una condizione ambientale
che non dipende dalla forza dei media, ma dallo stato
(cattivo) di salute dei partiti che sono al potere. Un re-
quisito indispensabile per lo sfondamento mediatico
è costituito da un elettorato favorevolmente predi-
sposto, pronto cioè a recepire il nuovo messaggio e/o
partito. Il successo di Ross Perot origina, appunto, in
un trend stabile di incremento della quota di elettori
«indipendenti», non più legati cioè all’uno o all’altro
dei due grandi partiti americani. È in questo serbatoio
di cittadini senza più partito che il miliardario texano
poté più facilmente e rapidamente far penetrare il pro-
prio marchio nuovo di zecca.
In Italia, lo smottamento delle vecchie apparte-
nenze partitiche era rimasto a lungo latente, appena
segnalato dagli indicatori di disaffezione che emerge-
vano nelle ricerche degli specialisti o nel crescente
malumore dell’opinione pubblica. Ancora nelle ele-
zioni del 1992, democristiani e socialisti, insieme ai
piccoli partiti laici, potevano illudersi di controllare
la maggioranza dell’elettorato. Ma, con lo scoppio di
Tangentopoli, la crisi era precipitata in pochissimi
mesi, aprendo nel mercato elettorale una voragine
senza precedenti sul fronte dell’offerta politica. Per
un anno, l’elettorato moderato rimase privo di inter-
locutori. Ed è a questo mercato pronto a essere con-
88
quistato che, con audacia e tempismo, si rivolse Sil-
vio Berlusconi nella veste di imprenditore politico.
L’impresa di Berlusconi si staglia, con la sua forza
e i suoi limiti, come un caso esemplare di innovazio-
ne politica. Contrariamente alla vulgata secondo la
quale le riforme dei partiti si possono realizzare sol-
tanto cambiando le leggi elettorali, l’esperienza di
Forza Italia ha dimostrato che i mutamenti più radi-
cali dipendono innanzitutto dalla dinamica organiz-
zativa interna5. È lì che bisogna cercare la chiave del
cambiamento. Una chiave che non riguarda certo sol-
tanto i partiti creati ex novo. Come dimostra la rivo-
luzione del Labour, lo sforzo tenace – durato più di
quindici anni – di perseguire una ristrutturazione ra-
dicale di uomini e apparati.
L’eredità più importante, e ingombrante, che Ber-
lusconi lascia al sistema dei partiti italiani è, dunque,
la dimostrazione che la sfida del cambiamento è pos-
sibile. E proprio a partire dai modelli che, soprattutto
negli Stati Uniti, avevano per decenni dominato il di-
scorso sulla democrazia: il politico come imprenditore
e comunicatore. Il successo di Berlusconi è facilmen-
te interpretabile rileggendo Schumpeter e Downs, i
padri della teoria economica della democrazia, che per
primi hanno concepito il leader politico come un im-
prenditore vincolato alla logica e alle opportunità del
mercato dei voti che deve catturare. Integrando lo
schema dei classici con la mole sterminata di recenti
ricerche empiriche che hanno mostrato come il mer-
cato elettorale sia diventato, oggi, in gran parte, un
mercato di opinioni fluttuanti: influenzabili, a volte
anche manipolabili, ma solo a condizione di essere ri-
levate e comprese con tecniche conoscitive adeguate.
89
Ciò, ovviamente, non significa che l’esperienza di
Berlusconi sia agevolmente esportabile e replicabile.
Le condizioni ambientali propizie, di crisi verticale di
alcuni almeno dei principali partiti, non si ritrovano
facilmente, nemmeno in un’Europa sempre più pro-
fondamente segnata dal tramonto dei vecchi dino-
sauri. Ma il limite principale, nei molti tentativi che
già si vedono in giro di imitare o clonare il successo
di Forza Italia, riguarda il dato idiosincratico che è
congenito a questa esperienza. Proprio perché incar-
na per tanti aspetti il tipo ideale di partito personale,
la parabola di Forza Italia è legata a filo doppio a
quella del suo fondatore. Tra i tanti ingredienti ne-
cessari per ripetere un simile exploit, quello comun-
que irrinunciabile resta la presenza di un capo con
mezzi, personali e organizzativi, adeguati. E la voglia
di metterli in gioco.
9.
I CAPITANI DI VENTURA

Nel panorama dei partiti personali non c’è posto,


però, solo per l’innovazione – che si applichi all’orga-
nizzazione, alla comunicazione, al rapporto con le
funzioni di governo. Nel caso dei capitani di ventura,
il partito personale costituisce la riedizione, con qual-
che accenno di farsa, di un copione fin troppo noto.
Dopotutto, il partito personale rappresenta pur sem-
pre la forma più antica di competizione – e frammen-
tazione – del potere politico. Il termine stesso «parti-
to» veniva in origine associato a quello di fazione o di
cabala, spesso riferendolo a una famiglia nel cui nome
– e al cui seguito – gli uomini di quel partito operava-
no. La caratteristica principale di questi partiti perso-
nali, almeno agli occhi della moderna teoria demo-
cratica, era che, al loro interno, si confondevano e si
mischiavano risorse pubbliche e interessi privati. I se-
guaci, più o meno numerosi, di un partito personale
erano, per definizione, a caccia di prebende; anche se
era buona norma mascherarlo dietro qualche vessillo
glorioso. Per contrasto, l’esordio della democrazia
moderna viene fatto coincidere con la nascita di par-
titi capaci di tracciare una linea di confine tra il go-
verno e chi aspirava a occuparlo.
91
Questa linea è rappresentata dagli ideali – o ideo-
logia – di chi si riconosce in un partito. Il partito mo-
derno non è più al seguito di una persona ma di uno
scopo comune. Col tempo, quello scopo si trasfor-
merà in una dichiarazione, sempre più articolata, di
propositi da realizzare, dando forma ai programmi
dei partiti (e, quindi, ai partiti di programma). In
questo modo, la conquista del potere politico si tra-
sforma, da una causa – e casacca – personale, in una
impresa ideale. Con il programma comune che fa da
collante organizzativo nel partito al posto dei legami
personali; e, al tempo stesso, diventa l’unico collante
legittimo per la gestione del potere, che viene così
messo al riparo (almeno in pubblico) dagli appetiti
personali. Arriviamo così ai partiti che inaugurano,
due secoli fa in Inghilterra, l’era della democrazia
competitiva e che ancora oggi campeggiano nei sus-
sidiari e nel nostro immaginario.
L’affermazione dei partiti di programma come
bussola della democrazia non comporta, però, la
scomparsa dei vecchi partiti personali. Dietro la nuo-
va facciata, la logica dei partiti personali continua –
operosa – a operare. Insieme all’universalismo che fa,
faticosamente, il proprio ingresso al seguito dei par-
titi moderni, la politica resta intrisa di una miriade di
particolarismi; costretti, però, a celarsi o a camuffar-
si per adeguarsi alle nuove regole che separano for-
malmente le persone dalle istituzioni. Il risultato, co-
me spesso accade, sarà, per lungo tempo, un com-
promesso. Per tutto l’Ottocento, la scena sarà domi-
nata dai cosiddetti «partiti di notabili», che uniscono
personalità di potere (e i loro seguiti) nel nome di una
causa comune.
92
Secondo la dottrina ufficiale, i partiti di notabili
scompaiono con l’avvento dei partiti di massa, quan-
do le fragili organizzazioni personali vengono travol-
te dalle macchine centralizzate delle burocrazie di
partito. Nella realtà, la storia si rivela alquanto più
contrastata. Le contaminazioni e le fusioni sono, un
po’ dappertutto, più frequenti di quanto siamo por-
tati a pensare sulla base di uno schema evoluzionista
troppo rigido. Forse, l’ibrido di maggior successo è
rappresentato dalla Democrazia cristiana, che è riu-
scita a combinare al suo interno le due formule orga-
nizzative dando vita a un modello misto di cogestio-
ne tra persone e programmi: il partito delle correnti.
Le correnti hanno, infatti, sempre avuto un capo ri-
conosciuto (e riverito), con un potere personale ac-
cumulato a vario titolo: nella gestione ministeriale,
nella raccolta dei voti, nel controllo dei pacchetti di
tessere. Al tempo stesso, però, le correnti hanno mu-
tuato dai partiti moderni l’uso dell’ideologia come
collante e principio di legittimazione. Anche se, col
tempo, quasi tutte le correnti democristiane si ridur-
ranno a un mero assemblaggio di poteri e clientele, la
loro forza originaria risiede nell’essere state una fuci-
na di piattaforme ideali in competizione tra loro.
Dietro la facciata di un partito unico, la Dc conser-
verà, durante tutta la sua storia, una pluralità di «ani-
me», ciascuna col suo corpo agguerrito e ben oleato di
affiliati. Le correnti, con le loro alterne vicende, segne-
ranno le svolte politiche del partito contenitore, ege-
monizzando, ora l’una ora l’altra, la sua linea politica.
Al tempo stesso, saranno le correnti il vero tramite del
radicamento democristiano nella società e nello stato,
con quella formula di mobilitazione individualistica
93
del consenso che, secondo la felice espressione di Piz-
zorno, coniuga società di massa e interessi particolari1.
Al vertice di queste piramidi di favori e (talvolta) va-
lori, c’è un capo che governa il suo feudo non ricono-
scendo, al di sopra di sé, nessuna autorità se non quel-
la dell’oligarchia di cui è membro. Tranne brevi e
straordinarie eccezioni, la Dc non ha mai un leader ri-
conosciuto che sovrasti – e comandi – tutti gli altri.
Nella cabina di regia del più grande partito italiano,
siede l’oligarchia dei capicorrente, i capi di tanti mini-
partiti personali confederati sotto la stessa bandiera.
I colpi di Mani pulite (e della Lega) aprono una cri-
si lacerante in seno a una superélite che sembrava in-
vincibile e inossidabile. E, nel volgere di pochi mesi,
l’involucro del partito collassa: nei voti, nell’organiz-
zazione, nell’onore. L’ingresso trionfale di Berlusco-
ni, col suo partito aziendale e mediatico che passa co-
me un rullo compressore sulla vecchia politica italia-
na, sembra condannare il glorioso gonfalone della Dc
a un declino rapido e inarrestabile. Come spesso suc-
cede nelle grandi famiglie quando cadono improvvi-
samente in disgrazia, le liti furibonde per spartirsi la
(misera) eredità del partito fino a ieri più potente d’I-
talia lasciano sul campo più cadaveri di quanti ne ave-
vano fatti i nemici. Scissione dopo scissione, la Dc si
divide in mille rivoli, destinati presto a prosciugarsi.
Così, almeno, pare a chi osserva con lo sguardo rivol-
to al futuro.
Chi, invece, guarda agli avvenimenti con un po’ di
memoria storica, scopre che alla scomparsa della Dc
corrisponde la rinascita delle sue correnti. Natural-
mente, sotto altro nome e, talora, con diversi prota-
gonisti. Ma conservando le caratteristiche fondamen-
94
tali delle vecchie correnti: un solido radicamento
clientelare, un capo riconosciuto e una qualche ideo-
logia di bandiera (quasi subito, e quasi per tutte, tra-
sformatasi in banderuola). Con una importante no-
vità: finalmente, dopo decenni trascorsi in semiuffi-
cialità, mimetizzati dietro (e sotto) la sigla della casa
madre, le correnti democristiane si possono presen-
tare in prima persona. Diventano, a pieno titolo, i
partiti personali di piccoli e grandi feudatari che, con
progressione geometrica, sono cresciuti sotto lo
sguardo attonito degli ingegneri istituzionali. Tutti
gli schemi del bipartitismo perfetto cui i politologi
avevano affidato la rinascita del paese naufragano
sullo zoccolo duro delle correnti democristiane. Che,
a dispetto delle previsioni a tavolino, traggono dalla
nuova legge elettorale la linfa per resuscitare e inse-
diarsi al centro del sistema politico.
Per questa esplosione di partiti, tanto piccoli
quanto tenaci, a immagine e somiglianza delle cor-
renti del buon tempo andato, c’è pronta la spiegazio-
ne (auto)consolatoria dei riformatori elettorali incal-
liti, quelli che non si fermano neppure davanti alla
più tragica – o ridicola – delle evidenze. I partitini no-
tabiliari nascerebbero dai difetti della nuova legge,
anzi dal suo peccato originale (e mortale): il fatto di
contemplare una quota proporzionale, con la quale
tenere in vita i partiti minori. La frammentazione at-
tuale sarebbe colpa della sopravvivenza, in seno al
meccanismo maggioritario, di un ombrello propor-
zionale, grazie al quale gruppi e gruppetti possono ri-
manere in parlamento anche se perdono (o non par-
tecipano) alla competizione bipolare innescata dal
maggioritario. A completare l’(auto)assoluzione c’è
95
la designazione del colpevole: guarda caso, un auto-
revole esponente democristiano che avrebbe steso –
e manipolato – il testo finale della legge. Trasfor-
mandolo in un Mattarellum buono per ammassare e
propinare la solita farina italiana, quella della Prima
Repubblica.
Naturalmente, la quota superstite di proporziona-
le ha avuto il suo peso nel garantire la sopravvivenza
di alcune formazioni politiche. Soprattutto di quelle
che non vogliono allearsi con nessuno dei due Poli.
Tuttavia, la vera spina nel fianco del bipolarismo al-
l’italiana non è stata rappresentata dal passato visibi-
le del proporzionale, ma da quello nascosto o camuf-
fato – e quindi ben più insidioso – nel meccanismo
del maggioritario medesimo: quale concretamente
funziona a dispetto delle sue edulcorate e fuorvianti
rappresentazioni accademiche. La prima regola del
maggioritario uninominale secco recita, infatti, che
ogni voto può essere decisivo per vincere, nei singoli
collegi, la posta. Visto che il seggio in palio è uno so-
lo, l’alleanza diventa obbligata sia per i grandi che per
i più piccini. Chi perde non ha diritto, nei collegi, a
nessun premio di consolazione.
Questa regola venne interpretata, dagli apprendi-
sti stregoni della rivoluzione maggioritaria, come il
deus ex machina col quale partorire due forti e coesi
schieramenti, che si fronteggiano in ogni collegio e,
dopo le elezioni, in parlamento. Realizzando, in quat-
tro e quattr’otto, l’epifania del bipartitismo perfetto.
Nella realtà, sempre un po’ più complicata, la regola
ha funzionato spesso al contrario. Diventando il gri-
maldello col quale vecchie correnti e nuovi gruppet-
ti hanno potuto affiancare e sfiancare i pochi partiti
96
maggiori sopravvissuti al passaggio di sistema. Se è
vero, infatti, che ogni voto è decisivo per vincere in
un collegio, basta che un partitino personale si pre-
senti con il suo gruzzoletto di adepti e di consensi al
tavolo delle trattative in cui, prima delle elezioni, si
decidono i candidati nei vari collegi. In un sistema
proporzionale, un pacchetto di voti vale esattamente
quello che pesa: lo 0,5% dei consensi equivale alla
quota corrispondente di seggi parlamentari. A una
manciata di voti corrisponde – giustamente – una
manciata di seggi. Ma sul piatto del maggioritario il
discorso prende un’altra piega.
Quello stesso pacchetto di voti può, infatti, risul-
tare decisivo per conquistare un numero di seggi sen-
sibilmente maggiore di quelli corrispondenti a un cal-
colo proporzionale. Ogni gruzzolo di consensi ha un
suo valore marginale altissimo. Ed è altrettanto chia-
ro, purtroppo, come questa contrattazione non si fer-
mi al giorno della sfida elettorale. Una volta entrati in
parlamento, i partitini personali riprendono la loro
girandola – e il loro mercato. Stavolta la posta in gio-
co non è la vittoria alle elezioni, ma la sopravvivenza
del governo. Come le cronache degli ultimi anni ci
hanno abbondantemente dimostrato, i partitini per-
sonali scorrazzano, senza pudore, da uno schiera-
mento all’altro arrivando a determinare anche il cam-
bio di maggioranza al governo. Che si tratti di ribal-
tone o ribaltino, la minaccia di una crisi di governo è
il fucile che ogni partitino tiene costantemente pun-
tato sull’occupante di Palazzo Chigi.
Per mitigare – ma non annullare – il ricatto dei ca-
pitani di ventura, l’esecutivo si trova costretto a una
contrattazione sottobanco, con concessioni di sotto-
97
governo del tutto simili a quelle con le quali si ali-
mentavano e moltiplicavano le correnti nella Prima
Repubblica. Col risultato che i partitini prosperano
e generano, per gemmazione, altri e più avidi partiti
personali. È questo il film cui abbiamo assistito con
maggiore frequenza – e sconcerto – in questi anni sul
palcoscenico del bipolarismo all’italiana. Un copio-
ne arcinoto in cui cambiano – si fa per dire – solo gli
interpreti. Nel dramma, o farsa, del bipolarismo ri-
cattato dai partitini personali, l’unica novità è rap-
presentata dalla sigla, più o meno riciclata, che riu-
scirà a conquistarsi la scena. Ogni stagione ne sforna
una nuova. Basta avere pazienza e aspettare che il
sonno della ragione (politica) produca il suo nuovo
(piccolo) mostro.
10.
IL PARTITO DEL PREMIER

Di fronte all’invadenza – e impudenza – crescente dei


tanti capitani di ventura che assaltano periodicamen-
te la diligenza di Palazzo Chigi (e quella di Monteci-
torio), il sistema politico italiano sarebbe da un pez-
zo andato in tilt. Com’è possibile governare in modo
efficace se bisogna continuamente vedersela con la
miriade di postulanti che, col pretesto di sigle e si-
glette (e relative identità di famiglia), taglieggiano il
primo ministro e lo tengono sotto tiro? La risposta a
questo puzzle risiede nella crescita dei poteri del pri-
mo ministro.
L’espressione «partito del premier» ha fatto solo di
recente il suo ingresso nel vocabolario dei media. Ma
il fenomeno è tutt’altro che recente. Anzi, si potrebbe
sostenere che gran parte delle trasformazioni del no-
stro sistema politico ruotano intorno al processo di
progressivo rafforzamento del ruolo del capo del go-
verno. Prima sul piano strettamente istituzionale,
quindi su quello mediatico e, infine, su quello più di-
rettamente politico. Con la creazione di quello che ap-
punto, nel gergo giornalistico, viene a essere identifi-
cato come un proprio partito. Ciascuno di questi pia-
99
ni va analizzato separatamente, anche se, come si può
immaginare, l’intreccio è costante e pressante.
L’origine del cambiamento, meno visibile ma più
incisiva, va rintracciata nel lento processo di creazio-
ne di una presidenza del consiglio come organismo
istituzionale dotato di pieni poteri e autorità. È agli
inizi degli anni Ottanta che l’Italia imbocca final-
mente una strada che, per oltre un secolo, le era ri-
masta preclusa. Anche a causa della parentesi fasci-
sta, la Repubblica era nata, infatti, all’insegna del pre-
mier debole; riproducendo al vertice del suo governo
tutte le contraddizioni – e le paure – che già in epoca
liberale avevano minato il ruolo del primo ministro.
Gli interventi di riforma istituzionale della presiden-
za messi a segno nell’ultimo ventennio rappresenta-
no, dunque, una svolta storica: la svolta – e riforma –
più importante del nostro sistema politico.
Questi interventi investono tutti i principali ambi-
ti del potere esecutivo. Innanzitutto, quello dei suoi
confini. Cambia notevolmente, in Italia, lo spazio di
intervento del governo nei confronti del parlamento.
A partire dalla dilatazione del potere normativo di-
rettamente esercitato dall’esecutivo. Sia che si tratti
della proliferazione della decretazione d’urgenza,
che è diventata – a dispetto delle critiche – il princi-
pale canale di produzione legislativa in Italia. Sia che
si tratti del peso crescente della legislazione delegata,
quella cioè che il governo ha il compito – e l’autono-
mia – di implementare sulla base di indicazioni qua-
dro ricevute dal parlamento. Sia, infine, che si guar-
di alla rivitalizzazione del potere regolamentare come
potere normativo secondario: nella proliferazione
delle leggi, la parola definitiva spetta sempre più
100
spesso al dettato ministeriale dei regolamenti, che di-
ventano il vero interprete della «volontà» delle leggi.
Il governo non guadagna peso nei confronti del
parlamento solo dilatando i propri spazi di interven-
to normativo. Un altro cambiamento importante ri-
guarda il rafforzamento del governo dentro il parla-
mento, vale a dire nei meccanismi di controllo dell’a-
genda legislativa che segue l’iter ordinario dell’ap-
provazione delle camere. Sia con riforme incisive dei
regolamenti, che danno, per la prima volta, al gover-
no il potere di controllare efficacemente il calendario
dei lavori e quindi i tempi di attuazione di un proprio
programma; sottraendosi così, almeno in parte, alle
incursioni della micro-legislazione corporativa che,
con le famigerate «leggine», aveva rappresentato il
calvario governativo della Prima Repubblica. Sia con
il varo di alcuni decisivi mutamenti procedurali, qua-
li la nuova disciplina del voto di fiducia e l’abolizio-
ne del voto segreto nella grande maggioranza dei ca-
si; mettendo, così, l’esecutivo al riparo – se non dalle
crisi – almeno dalle imboscate a tradimento da parte
della propria maggioranza.
L’insieme di questi mutamenti – normativi, pro-
cedurali, politici – fa perno sulla rivoluzione organiz-
zativa della presidenza del consiglio, che diventa il
catalizzatore e il motore del nuovo esecutivo italiano.
Con il varo di una legge che per la prima volta, dopo
quarant’anni, ne definisce funzioni e poteri, e con
una serie di interventi normativi successivi, la presi-
denza del consiglio cessa di essere un organismo dai
contorni istituzionali indefiniti per assumere caratte-
ristiche analoghe a quelle che già da tempo contrad-
distinguono la direzione del governo in altri paesi.
101
Basti pensare all’escalation del suo organico, passato
dai cinquanta uomini degli esordi, negli anni Sessan-
ta, ai quattromila del Duemila. Creando, addirittura,
un problema di elefantiasi amministrativa che la legi-
slazione più recente ha cercato di superare1.
Del nuovo esecutivo rinforzato e allargato nelle
sue competenze, il premier diventa il dominus incon-
trastato. Da primus inter pares qual era rimasto du-
rante gli anni della partitocrazia parlamentare, il pre-
sidente del consiglio acquisisce il peso e il prestigio di
un leader. Da organo collegiale debole, il governo ita-
liano diventa, al pari dei principali partner europei,
sempre più un organismo monocratico: con un cen-
tro decisionale – e decisionista – che monopolizza
gran parte delle attività – e visibilità – dei ministeri
che gli fanno corona. Con la significativa eccezione
del Tesoro, cui spetta un ruolo di primo piano sulla
scena internazionale e che riesce anche a stare al pas-
so nell’ammodernamento tecnocratico del proprio
apparato di intervento, i ministeri, un tempo baluar-
do dei boiardi della Prima Repubblica, vengono sem-
pre più risucchiati nell’area di iniziativa politica del
premier e del suo entourage.
La profondità ed estensione dei cambiamenti av-
venuti al vertice del governo trova un riflesso nella
rinnovata attenzione che i media dedicano a Palaz-
zo Chigi. Raramente si tratta di un’attenzione rivolta
al concreto operare del governo, ai suoi nuovi circui-
ti di intervento. Anzi, su questo piano, il dibattito ita-
liano resta fondamentalmente partitocentrico, come
se fossero ancora le organizzazioni di partito a domi-
nare il processo decisionale. Tuttavia, ci sono alme-
no due aspetti del governo che attirano, con crescen-
102
te insistenza, i riflettori dell’opinione pubblica, con-
sacrando il primato del premier sulla scena politica
nazionale.
Il primo aspetto riguarda il ruolo chiave dell’ese-
cutivo nei vari progetti di riforma della costituzione.
Anche sulla scorta della piattaforma referendaria, di-
venta sempre più diffusa l’idea che l’elezione del pre-
sidente del consiglio debba essere sottratta alla me-
diazione dei partiti e affidata direttamente ai cittadi-
ni. Tale idea conoscerà, in questi anni, innumerevoli
declinazioni e variazioni, in cui il direttismo gioca un
ruolo più o meno esplicito e formalizzato. Comun-
que, il principio di un rapporto immediato tra ele-
zione popolare e designazione del premier acquista
un valore simbolico che va al di là delle effettive mo-
difiche elettorali. A dispetto del dettato costituziona-
le che è rimasto quello di una repubblica parlamen-
tare, agli occhi dell’opinione pubblica il capo del go-
verno viene ormai percepito in chiave presidenziale:
da scegliere e legittimare direttamente col voto dei
cittadini.
Tale percezione è stata, ovviamente, facilitata e ac-
centuata dal processo più generale di personalizza-
zione che ha investito la scena politica nel suo insie-
me. Se la personalizzazione si è affermata in questi
anni come codice principale di comunicazione anche
negli ambiti tradizionalmente collegiali della vita di
partito, o in quelli tendenzialmente anonimi delle
correnti, non è difficile immaginare come abbia rapi-
damente attecchito sul terreno favorevolissimo della
leadership di governo. In questo, l’Italia non ha fatto
che adeguarsi, con almeno dieci anni di ritardo, al
meccanismo di identificazione tra cittadini e gover-
103
nanti dominante nelle principali democrazie atlanti-
che, e ora anche in molti paesi di recente democra-
tizzazione.
Alla luce di questa vera e propria rivoluzione –
nella realtà delle istituzioni così come nella loro per-
cezione di massa – si comprendono le tensioni tra
vecchi e nuovi attori politici destinate a lacerare il ce-
to di governo. A cominciare dal declino dei segretari
di partito, che trovano nell’ascesa della moderna pre-
sidenza italiana un concorrente mortale al primato
politico da loro esercitato nella Prima Repubblica. Il
destino del presidente del consiglio si sarebbe sem-
pre più chiaramente divaricato da quello di segreta-
rio del partito di maggioranza. C’è stata prima la sta-
gione dei cosiddetti governi tecnici, con uomini di in-
discusso prestigio e altrettanto chiara autonomia nei
confronti dei partiti politici. Sembrò una fase di tran-
sizione, destinata a fluidificare il passaggio dalla Pri-
ma alla Seconda Repubblica. In realtà fu la prova ge-
nerale di un nuovo ruolo di primo ministro, disposto
a sfidare apertamente la propria maggioranza, ante-
ponendole la missione e il programma istituzionale
sulla cui base aveva ottenuto originariamente la fidu-
cia. Prima con Amato, che vara l’opera più ambizio-
sa e coraggiosa di risanamento finanziario, poi con
Ciampi e con Dini si sperimenta e si consolida una
squadra di governo che sfrutta a pieno tutte le innu-
merevoli risorse istituzionali di cui dispone. Dietro la
formula apparentemente innocua del governo tecni-
co, prende corpo e si afferma in Italia il governo del
primo ministro.
Ancora, però, per qualche anno la portata della la-
cerazione tra premier e segretario di partito stenta a
104
essere percepita. Anche per il clima ottimistico di
identificazione dei due ruoli alimentato dalla piat-
taforma referendaria ispirata al bipartitismo britan-
nico. L’ideologia referendaria propugnava, infatti, la
convinzione che, grazie alla nuova legge elettorale, il
ruolo di candidato a premier fosse – a più o meno
breve scadenza – destinato inevitabilmente a coinci-
dere con quello di segretario del partito che avrebbe
monopolizzato i suffragi, sulla destra come sulla sini-
stra. Per anni, i riflettori dei media si concentrano
sull’illusione che basti far funzionare meglio la legge
maggioritaria, magari abbinandola all’elezione diret-
ta del premier, per risolvere con un colpo di bac-
chetta (legislativa) le tensioni tra sette segretari e un
unico posto di primo ministro. Bisogna attendere che
si consumi lo scontro frontale tra il premier che rap-
presenta la coalizione di centrosinistra e il segretario
del partito che aveva portato la maggioranza dei voti
perché appaia evidente che il sistema non troverà fa-
cilmente un suo equilibrio.
I destini incrociati di Romano Prodi con Massimo
D’Alema prima e Walter Veltroni dopo sono, infatti,
emblematici del mutamento dei rapporti di forza tra
organizzazione di partito e istituzione di governo che
caratterizza il nuovo regime, non meno che della
chiave accentuatamente personalistica in cui il nuovo
equilibrio va gestito. Non sarà l’espansione del parti-
to quale soggetto in grado di controllare saldamente
uno dei due Poli – in chiave, appunto, bipartitica – a
garantire l’elezione del suo segretario a capo del go-
verno. Al contrario, sarà la crescita della personalità
del leader, al di fuori e al di sopra del partito, ad apri-
re le porte dell’esecutivo. Contribuendo all’esauri-
105
mento della – esigua – residua forza propulsiva del
partito di massa come modello organizzativo per la
competizione elettorale decisiva, quella per la con-
quista della premiership.
Parte terza
I DUE CORPI DEL LEADER
11.
IL CORPO POLITICO

L’immortalità è un privilegio – o un dono – divino.


Marca da sempre la distanza tra la terra e il cielo. E,
insieme, ne rappresenta la frontiera. La ricerca del-
l’uomo oltre se stesso è la ricerca della vita eterna. Su
questa possibilità – o promessa – si fondano quasi
tutte le religioni: preservando ed amministrando l’a-
bisso tra i due mondi e, al tempo stesso, istillando la
speranza di poterlo annullare. Dalle ceneri del pro-
prio corpo, la vita rinasce ad aeternum grazie al mira-
colo della fede.
In questa sfida contro la morte, gli uomini sono
tutti eguali. La parabola evangelica – gli ultimi saran-
no i primi – insegna che le ricchezze accumulate in
terra non aiutano ad affrontare il grande viaggio. In
alcuni periodi storici, le chiese hanno blandito i ric-
chi, promettendo ai più generosi – o venali – uno
sconto sul prezzo di ingresso in paradiso. Ma anche
la vendita delle indulgenze non cambia l’inesorabilità
del destino: per rinascere, l’uomo deve morire. L’im-
mortalità è una prerogativa di Dio.
Anche il corpo dei potenti non sfugge alla propria
caducità. L’accumulazione del potere – ogni potere –
109
trova un limite invalicabile nella fine della vicenda
terrena. Ma in ciò trova anche una spinta, un incen-
tivo. La consapevolezza che il potere dovrà essere, in-
fine, abbandonato produce, in qualche caso, il tarlo
della «melanconia». Ma, per la maggioranza degli uo-
mini, significa che non ci sono alternative: la parabo-
la della vita terrena è la condizione naturale del pote-
re. Il potere si identifica con la persona. Con la sua
materialità: forza fisica, forza economica. Con la sua
vitalità: il suo ciclo di crescita, e di morte. Per secoli
– per millenni – il potere si nutre della simbiosi con
la persona cui appartiene.
Agli albori della politica moderna è questo il cer-
chio di ferro che difende e limita il potere. La perso-
nalizzazione del potere spinge a blindare chi lo de-
tiene, a renderlo inavvicinabile, intoccabile: la sacra-
lità del sovrano serve anche a proteggerlo dalla estre-
ma precarietà della sua sorte. Per questo sono così ri-
gide le norme che regolamentano l’alienabilità del
potere. Il sistema feudale, coi suoi riti e le sue gerar-
chie, si sforza di preservare l’unicità del comando, la
sua in-testazione originaria. Il patto di concessione –
e subordinazione – va ribadito a ogni passaggio di
mano, perché resti riconoscibile e visibile la persona
da cui il potere emana. Ma non appena la forza fisica
– o militare – declina, si apre la lotta per la successio-
ne. Le leggi, diverse in ogni paese, che disciplinano
l’ereditarietà sono un fragile baluardo contro la rego-
la che ogni capo porta con sé, nella propria tomba, il
suo potere.
La risposta a questa impasse millenaria è l’inven-
zione del corpo politico. La nascita della comunità
occidentale, quale si è tramandata in questi secoli, è
110
segnata dalla costruzione di un soggetto politico ca-
pace di riprodursi al di là della sfera individuale. Gra-
zie a tre requisiti alla base del suo straordinario suc-
cesso: l’impersonalità del comando, la sua perpetua-
zione nel tempo, la regolamentazione giuridica. La
lingua inglese identifica questo nuovo attore col ter-
mine esemplare: corporation. Il corpo che diventa
istituzione. Il potere che si collettivizza. E, in questa
nuova veste, può tramandarsi oltre l’arco di vita del-
le persone in cui si incarna. Giovandosi di un sistema
normativo riscoperto e rivitalizzato da quello straor-
dinario laboratorio culturale che è la riforma grego-
riana: una vera rivoluzione che riporta l’impero della
legge a fondamento della polis1.
Si tratta di una vicenda contrastata, dall’esito spes-
so incerto. E che solo nel XVII secolo conoscerà una
sua consacrazione con il decollo dello stato moderno.
Per molti secoli il potere personale continuerà a con-
dizionare i vertici della cosa pubblica, riproponendo-
si come legibus solutus e rivendicando la sua forza pa-
trimoniale e privata. Ma la linea di tendenza è traccia-
ta, e il sistema degli stati europeo confermerà – pezzo
dopo pezzo – l’emancipazione del potere dalle sue ra-
dici individuali. Con uno spartiacque emblematico,
racchiuso nella icastica metafora di Ernst Kanto-
rowicz: i due corpi del re. La duplicazione e astrazio-
ne della sacralità del sovrano che segna la separazione
dell’autorità temporale dalla persona del monarca2. Il
corpo del re che si fa corpo statale, l’autorità che tra-
smigra dalla figura del capo nel potere che rappresen-
ta e sopravvive al di là della sua vicenda umana. Da
quella separazione discende la travagliata e ostinata
costruzione della sfera pubblica moderna, sottratta al-
111
la caducità delle persone e affidata alla macchina pos-
sente della riproduzione burocratica.
Occorrerà la lettura weberiana per sancire definiti-
vamente la fusione tra il principio di autorità e i mec-
canismi legali-razionali preposti alla sua gestione quo-
tidiana. Un processo che viene a compimento solo do-
po che lo stato assoluto affronta l’incorporazione del-
le masse. Realizzando, con procedure democratiche,
la creazione di un corpo politico patrimonio di tutti i
cittadini. Perché questa parabola si compia, è decisivo
il ruolo del partito. Al di là delle bandiere ideologiche,
la funzione costituente dei partiti consiste nella capa-
cità di aggregare, mobilitare e organizzare le masse per
integrarle nell’edificio statale. A un secolo di distanza,
mentre impera la pop-politica, è facile smarrire la me-
moria dell’epopea che scandì l’avvento della politica
collettiva. Il corpo statale che si invera, e legittima, nel-
le viscere della società. L’endiadi mistica di re e popo-
lo si trasforma in prassi ordinaria, routine procedura-
li e public policies che trovano nei partiti il motore, il
collante, la progettualità. All’apice del suo successo, la
democrazia dei partiti è l’incontro tra corpo sociale e
corpo politico. E sembra segnare il tramonto definiti-
vo del potere individuale e solitario, la persona che go-
verna la storia al di sopra della collettività.
Invece, il declino dei partiti riapre una antica sfi-
da. Nel volgere di pochi decenni, si passa dall’iper-
trofia ed egemonia dei partiti-chiesa alla loro rapida
erosione e mutazione. Il processo è più o meno mar-
cato nei diversi contesti geo-politici, ma il trend è co-
mune al di là e al di qua del muro, e si accelera dopo
il suo crollo: i possenti apparati si sgretolano e rie-
mergono le reti interpersonali, la direzione collegiale
112
cede il passo alle leadership individuali. L’indeboli-
mento dei partiti procede, di pari passo, con quello
della macchina statale. Dopo una secolare marcia
trionfale culminata nel traguardo del welfare state, la
costruzione universalistica inciampa nella sua stessa
volontà di potenza. Prima la crisi fiscale, poi, più gra-
ve, quella ideale incrinano il prestigio dello stato, la
certezza e capacità del suo comando. Da pilastri del-
la democrazia, partiti e stato diventano imputati e
colpevoli delle sue troppe inadempienze.
È in questo deficit di rendimento e di fiducia delle
grandi organizzazioni collettive che si insinua il cuneo
del potere personale. Approfittando delle crepe che
lacerano i leviatani istituzionali, emergono sulla scena
politica i «monarchi repubblicani»3. Leader senza un
corpo politico, che non sono, cioè, chiamati e obbli-
gati a identificarsi con una macchina – di partito o di
stato – che orienti la loro azione e la proietti oltre il lo-
ro tempo di vita. Leader la cui forza, e obiettivo, con-
siste nel tenersi stretto il potere, avvinghiato alla pro-
pria persona. Senz’altro corpo che il proprio corpo.
L’esordio del nuovo millennio è all’insegna di
questo antico ritorno. Si moltiplicano sulla scena po-
litica i capi che cercano di personalizzare le istituzio-
ni che sono stati chiamati a governare. Invertendo, la
prima volta dopo mille anni, una parabola che si era
sviluppata nella direzione opposta. E spingendo le
democrazie contemporanee sull’orlo di un abisso di
cui sono ancora ampiamente inconsapevoli: la perdi-
ta del corpo politico come luogo impersonale dell’i-
dentità collettiva e dell’autorità legittima. Con la re-
staurazione di un corto circuito tra il potere del capo
e il suo destino fisico.
113
Un’anticipazione di questa inversione di rotta si
era avuta con i regimi autoritari che hanno sanguino-
samente scandito l’arco del Novecento. In questi ca-
si, però, la personalizzazione del comando aveva avu-
to un limite importante, l’assenza di una legittima-
zione democratica per l’ascesa dei nuovi capi. La lo-
ro supremazia si era affermata in esplicita contrap-
posizione alle procedure e ai valori liberaldemocrati-
ci. Rimarcando così, anche all’apice della loro poten-
za, la prospettiva – temporale e ideale – di un’alter-
nativa alla parentesi autoritaria.
I moderni capi non sono in rotta con la democra-
zia, anzi, per molti versi, ne incarnano l’estremo svi-
luppo. Godono di un ampio consenso popolare, in
forme sempre più plebiscitarie e sondocratiche che
non possono, tuttavia, essere tacciate di violare il
principio base della democrazia: l’investitura da par-
te di una maggioranza degli elettori. La loro forza
consiste proprio nel potersi vantare di aver ripristi-
nato – spesso attraverso lo strumento dell’elezione
diretta – il rapporto tra leader e popolo che i vecchi
partiti avevano logorato. Inoltre, la concentrazione
del comando in un uomo solo avviene, oggi, mentre
le istituzioni statali appaiono sempre più incapaci di
assolvere al loro ruolo storico di contenitore e riferi-
mento della vita associata. Il primo corpo del re ri-
prende il sopravvento anche perché il secondo corpo
appare in disfacimento.
I nuovi leader ascendono al potere forti di due ele-
menti chiave della post-modernità. Innanzitutto la
capacità di riflettere, e interpretare, quella centralità
dell’individuo che è il tratto culturale emergente a ca-
vallo dei due millenni. Anticipata dalle rivoluzioni
114
thatcheriana e reaganiana, declinata nell’ideologia
rampante del neo-liberalismo, l’esplosione narcisisti-
ca dell’io è la piattaforma sociale che rilancia il pote-
re personale come modello di leadership. Coniugan-
dosi e moltiplicandosi col secondo fattore che stra-
volge l’edificio istituzionale: il trionfo della politica
spettacolo, che accende i suoi riflettori su grandi – e
piccole – personalità. Contenuta agli inizi dai sistemi
di autotutela e autocensura dei vecchi partiti, l’inva-
sione della televisione stravolge in pochi anni i format
dei network nazionali. Dalle incipriate e paludate tri-
bune televisive degli esordi si passa ai tribuni del po-
polo in presa diretta e incontrollata con la propria au-
dience. Al posto dei politici senza corpo, trionfa l’e-
sibizione del corpo mediale dei leader, nuova icona
della comunicazione di massa4.
L’invasione del corpo privato in ogni angolo del-
lo spazio pubblico non è un fenomeno limitato alle
recenti dinamiche politiche. Anzi, il sistema politico
ha retto più a lungo e meglio degli altri all’imperati-
vo massmediale che ha schiacciato i mondi vitali sul-
la loro rappresentazione virtuale. Chi si sorprende di
fronte al self-marketing di segretari e ministri nel sa-
lotto dei talk-show e alle baruffe in diretta che an-
nientano distanze di status secolari dimentica che i
principali palinsesti televisivi sono impostati, già da
molti anni, su un copione in cui il comune cittadino
veste i panni del Grande Fratello. La più ambita del-
le trasmissioni pubbliche non è altro che una ripro-
duzione, una protesi multimediale del più banale vis-
suto privato. Un analogo cortocircuito ha ridefinito,
in pochi mesi, lo statuto epistemologico di Internet,
traformando in rete sociale ogni anelito informativo
115
o discorsivo. Un decennio di sperimentazioni sulla
nascita di una nuova opinione pubblica è stato spaz-
zato via dall’avvento di un gigantesco cartellone pub-
blicitario in cui ciascuno può metterci la faccia. La
forza travolgente di Facebook sta proprio nel rende-
re possibile – e appetibile – ciò cui per secoli ci siamo
sottratti: gli interstizi della propria vita privata espo-
sti al chiacchiericcio collettivo.
All’alba di questo nuovo mondo virtuale, è impen-
sabile che il corpo politico possa esimersi dalle spinte
sociali e tecnologiche alla profanazione. Non esistono
più i recessi in cui, in passato, si riuscivano a nascon-
dere le passioni o le sofferenze più estreme. Per de-
cenni, i leader democratici erano riusciti a costituirsi
come «leader senza corpo»5. La cortina partitocratica
garantiva che nulla trapelasse della vita privata della
nomenklatura. Per mezzo secolo abbiamo conosciuto
solo raffigurazioni patinate di chi ci ha governato dal
chiuso delle aule parlamentari e di partito. E poche
immagini sono rimaste impresse nella memoria col-
lettiva del paese come l’insulto alla aristocratica riser-
vatezza di Aldo Moro esposto al flash della propria
morte. La «sintassi della distanza» che governava il
rapporto tra i cittadini e i loro capi riuscì a reggere an-
che ai primi assalti dell’intrusione televisiva. Il calva-
rio quotidiano di Kennedy, tra osteoporosi e disfun-
zioni ormonali, non squarciò mai la facciata «dell’ico-
na di un’America giovane e vigorosa» con cui il presi-
dente più amato aveva scelto di autorappresentarsi6.
Oggi, non c’è meandro personale che non venga in-
cessantemente frugato, radiografato, esibito. L’anam-
nesi clinica di un candidato è diventata anche più im-
portante della sua carriera politica, e il giuramento di
116
fedeltà alla costituzione può essere, in molti casi, sur-
classato da quello alla propria consorte.
Con poche coordinate e niente bussole, si sta af-
fermando un nuovo paradigma identitario: la biolea-
dership. La sussunzione nel corpo del leader delle
tensioni e pulsioni che agitano la società ridotta ad
audience e target. Stadio estremo della biopolitica, la
bioleadership precipita in un vincolo fisico e al tem-
po stesso immaginario il rapporto tra leader e popo-
lo7. Riesumando archetipi di forza, audacia e anche
dolore esasperati dalla smisurata potenza di fuoco
tecnologica dei media multicanale. Tra notiziari, talk-
show, scoop, blog, twitter, il leader diventa ubiquo,
nel momento in cui è costretto a autoridursi al fasci-
no primordiale che emana dalla propria fisicità e im-
mediatezza. L’improvviso exploit di Sarah Palin, l’a-
tletica progressione di Obama, il goffo declino di
Brown sono stereotipi elementari che inchiodano
ogni leader alla propria ombra mediatica.
In questo circuito, e in questa trappola, va letta an-
che la spirale italiana del partito personale creato, a
propria immagine, da Silvio Berlusconi. Fin dagli
esordi, la geniale invenzione berlusconiana ha tratto
linfa da un doppio canale di penetrazione politica e
sociale. Da un lato macchina organizzativa inedita
quanto efficace, fondata sul modello aziendale e sul-
le straordinarie risorse umane e finanziarie cui il ca-
po poteva attingere a piene mani. Di fronte alla im-
probabile armata Brancaleone messa in campo dai
progressisti, il partito di Berlusconi è stato, in primo
luogo, una organizzazione efficiente, un esercito di
nuovo modello ricalcato sulla tradizione gerarchica e
sui princìpi di centralizzazione dei più antichi e bla-
117
sonati partiti. L’altra faccia di Forza Italia è stata
quella del Cavaliere. Il volto del suo carisma e del suo
ego, della sua inimitabile retorica e del suo attivismo
sfrenato, della sua vita e ricchezza privata eretti a sim-
bolo del fai-da-te, osmosi tra un paese di arrivisti e il
leader felicemente arrivato.
Queste due facce hanno convissuto a lungo, con
alterne vicende. Ci sono stati momenti in cui è sem-
brato che il partito personale riuscisse finalmente a
far crescere le radici territoriali che aveva all’inizio
preso a prestito dalla struttura aziendale, trasforman-
dosi da partito di plastica – come in molti lo avevano
targato – in partito quasi-regolare, con autonome
procedure congressuali. E ci sono state fasi in cui il
carisma del creatore e padrone assoluto si è incrinato
fin quasi al punto della rottura, graffiato dalle vicen-
de giudiziarie o dalla polvere della sconfitta elettora-
le, per poi imboccare una risalita verticale, un colpo
d’ala che lo ha rimesso in sella lasciando di nuovo al
palo gli avversari. In questa altalena che ha segnato la
storia recente del paese, le due facce sono rimaste
unite in una medesima medaglia: organizzazione e
comunicazione sono stati i pilastri inscindibili del
partito berlusconiano.
Poi, il binomio ha cominciato a scollarsi. Dando vi-
ta al Pdl, Berlusconi aveva certo pensato di potere ge-
stire e controllare il nuovo nato a proprio indiscusso
piacimento. E, almeno nella prima fase, sembrerebbe
esserci riuscito. A costo, però, di sancire una dolorosa
rottura con i suoi interlocutori storici. Nella morsa del
partito unico, sia Casini che Fini hanno deciso, a tur-
no, di sfilarsi o ribellarsi. Paradossalmente, ma non
troppo, il dogma della personalizzazione si è rivoltato
118
contro se stesso. Dopo avere contagiato gli alleati, pie-
gatisi di buon grado all’idea di dare il nome al proprio
partito, il virus del partito personale ha prodotto una
reazione di rigetto. Tre personalità in un corpo solo,
era un’acrobazia improponibile anche per chi è con-
vinto di potere gareggiare con il divino. Inoltre, come
tutte le fusioni a freddo, anche quella del predellino
sembra avere fallito l’amalgama tra tradizioni e cultu-
re eterogenee. Trovando un punto di resistenza e di te-
nuta soltanto nella forza – relazionale e patrimoniale –
del capo. Senza più ormai, però, quel legame di totale
immedesimazione e costrizione che aveva fatto di For-
za Italia una falange indistruttibile.
Contemporaneamente all’impasse del versante or-
ganizzativo del partito, alla sua perdita progressiva di
identità e visibilità, è aumentata l’esposizione perso-
nale e unidimensionale del suo capo. Chiamato a di-
fendere se stesso in uno strenuo corpo a corpo me-
diatico-giudiziario, senza tregua e senza riserve. Se in
passato Berlusconi aveva fatto volentieri sfoggio del
fascino irresistibile del suo privato, la nuova stagione
lo ha costretto a metterlo indiscriminatamente in
piazza. Da combattente di razza, il Cavaliere ha ri-
sposto colpo su colpo. Ma il ring è di quelli che usu-
rano anche gli attori migliori. Prima l’attrazione fata-
le delle escort e delle minorenni, poi l’incriminazione
mediale dell’ennesimo pentito di mafia, infine la sta-
tuetta sacrilega che ha sfigurato il sorriso e l’umore,
hanno esposto il corpo del leader a un forcing senza
attenuanti. Da ultimo, in diretta tv, il dito puntato,
perentorio, dell’ex delfino sulla maschera cerea del
padre-padrone rinnegato. Privo, ormai, di uno scher-
mo ideologico e indebolito nel retroterra organizza-
119
tivo, il re è costretto a mostrarsi carico di anni e di af-
fanni. E, fuor di metafora, nudo.
Mentre la statua del sultano barcolla, l’attenzione
degli opinion maker è sul vuoto di personalità e auto-
rità che si aprirà dopo la caduta. Distrutto o, meglio,
autodistrutto il centro che Berlusconi aveva eretto, chi
potrà prendere il suo posto? Chi prevarrà tra tanti
aspiranti a una improbabile successione? Questa,
però, è la domanda sbagliata. Non solo perché Berlu-
sconi – come lui stesso ha più volte ribadito – è irripe-
tibile e irriproducibile. Ma perché il contagio del mo-
dello, la sua propagazione virale non sono più limitati
al vertice della cosa pubblica che il Cavaliere ha mono-
polizzato. Il partito personale che aveva rimpiazzato la
partitocrazia collegiale è imploso in mille frammenti,
ciascuno un riflesso in miniatura dello specchio da cui
ha tratto luce. Il lascito più ingovernabile – e duratu-
ro – di Berlusconi è l’esercito dei berluschini. L’ice-
berg di cui il Cavaliere è solo la punta di diamante.
Dalla costola del partito personale sono gemmati
cento, mille partitini individuali. Approfittando del-
la omertà del regime, ma anche della spirale di silen-
zio alimentata da un’opinione pubblica ammaliata
dal grande imbonitore. La sindrome del berlusconi-
smo ha catturato la fantasia degli oppositori. Impe-
gnati a combattere il mostro del plebiscitarismo, ar-
roccati nella strenua difesa dall’avanzata del presi-
denzialismo, i nemici del Cavaliere hanno continuato
imperterriti a mirare al bersaglio grosso. Prendendo-
sela con il partito visibile, mentre i tentacoli di quel-
lo sommerso invadevano la penisola. Al solito, a suo-
nare la sveglia ci hanno pensato le inchieste giudizia-
rie. E i titoli dei giornali hanno echeggiato i fantasmi
120
di Tangentopoli. Ma incolpare, a buon mercato, la
politica clientelare e corrotta significa amplificare
l’impatto immediato della denuncia, sottovalutando
però i suoi risvolti strategici nel tessuto istituzionale.
La politica personalizzata si è sdoppiata, riprodu-
cendosi attraverso due canali, distinti anche se co-
municanti. Il primo è quello di cui tutti discutono: il
circuito macro-personale. Vale a dire un circuito che
vede il singolo leader alle prese con macro-strutture
(più o meno gerarchicamente organizzate) e macro-
constituencies (più o meno mediatizzate), in una rela-
zione politica uno-a-molti. La dimensione macro si
riferisce, cioè, sia alla scala delle aggregazioni (di di-
mensione nazionale, regionale, metropolitana) che
alla natura indiretta dei rapporti (mediati dalla tv e/o
dalla organizzazione). La politica macro-personale è
simbolizzata da Berlusconi, ma è stata emulata da al-
tre cariche monocratiche che sono emerse, in questi
anni, sulla scena italiana. Che si tratti di segretari di
partito che si sono intestati la ditta, o di sindaci e go-
vernatori eletti in prima persona, i leader macro-per-
sonali restano la principale novità del ventennio ber-
lusconiano. Rappresentano la più rilevante disconti-
nuità rispetto a un passato governato da logiche e rag-
gruppamenti oligarchici. Soprattutto quando l’inno-
vazione è incardinata saldamente su un profilo istitu-
zionale adeguato, i leader macro-personali hanno in-
nescato dinamiche di competizione e cambiamento.
Finendo però con l’entrare, molto più presto del pre-
visto, in rotta di collisione coi processi concomitanti
di micro-personalizzazione.
Accanto, infatti, alla macro-personalizzazione che
avviene, sotto gli occhi di tutti, al vertice della pira-
121
mide organizzativa e mediatica, altrettanto penetran-
ti sono le dinamiche che la personalizzazione ha in-
nescato in modo meno visibile – ma più palpabile –
alla base della nomenklatura. In quel bacino prezio-
sissimo di interscambio tra società e politica dove av-
viene il reclutamento, la formazione e l’iniziazione di
coloro che si troveranno a guidare le sorti del paese:
le assemblee elettive locali. Il perno dei processi di
micro-personalizzazione è rappresentato dal sistema
elettorale basato sulla preferenza unica. A dispetto
della svolta maggioritaria, in tutte le elezioni locali è
rimasto in piedi il sistema della preferenza unica su
base proporzionale per decidere chi vince la gara per
un posto nelle assemblee elettive. Che si tratti degli
affollatissimi parlamentini circoscrizionali, di un po-
sto in consiglio comunale o dell’ambìto e strapagato
seggio di consigliere regionale, la strada obbligata per
averlo è di fare partito a sé. Ciascun candidato in
guerra innanzitutto con i propri compagni di lista e
di schieramento. Uno contro tutti, preferenza contro
preferenza. Il porta a porta che si trasforma in corpo
a corpo.
Dieci anni dopo, il partito personale ha compiuto
una mutazione genetica che è anche una regressione
storica. Giano bifronte, la sua penetrazione guarda al
futuro, e affonda nel passato. Il partito virtuale e di
plastica inventato da Silvio Berlusconi ha trovato imi-
tatori di rango in giro per il pianeta. Il successo della
Blitzkrieg, mediatica e patrimoniale, con cui il Cava-
liere ha scalato in pochi mesi Palazzo Chigi, ha fatto
numerosissimi proseliti. Tra i potenti di tutto il mon-
do, Berlusconi è diventato il battistrada di una ambi-
zione a lungo proibita: fondere il potere dei soldi con
122
quello delle istituzioni politiche, non più nel chiuso
delle lobby ma in diretta tv e coram populo8. Se alcu-
ni premier più blasonati ancora possono fare mostra
di disprezzarlo, ci sono schiere di aspiranti capi che
sognano solo di imitarlo.
Su scala locale, però, il contagio ha preso una pie-
ga diversa, e molto più virulenta. Se all’inizio era sem-
brato che sindaci e governatori fossero i principali in-
terlocutori del processo di personalizzazione politica,
nel giro di pochi anni il fenomeno ha preso la strada,
anzi i vicoli di una diffusione capillare in ogni anfrat-
to della penisola. Minando alle fondamenta quel po-
co di autorità che rimaneva ai vecchi partiti falcidia-
ti, al centro del sistema, dal ciclone del Cavaliere.
Mentre franavano gli ultimi avamposti delle struttu-
re organizzative collegiali, l’opinione pubblica aspet-
tava la palingenesi dei nuovi leader. E invece sono
spuntati i neo-notabili. Riesumando le reti e i lin-
guaggi degli scambi interpersonali, la ragnatela dei
piccoli interessi nascosti sotto le grandi bandiere. Fe-
deralismo, autonomia, territorio sono state le parole
d’ordine che hanno fatto da cavallo di Troia al ritor-
no del ceppo più antico della politica italiana: quello
dei piccoli capi e i loro seguiti di conoscenti e paren-
ti, amici, e amici degli amici.
Vittima di una cinica e inesorabile legge del con-
trappasso, il mito del cavaliere solitario affonda nella
palude dei propri epigoni. Il partito personale che
nessuna armata avversaria era riuscita a sbaragliare
sul campo, si autoconsuma per partenogenesi. Dopo
aver vinto gli scontri più aspri facendo schiere di pro-
seliti nell’elettorato, Berlusconi viene messo sotto as-
sedio dal suo successo nel ceto politico. Proiettando
123
il peso incontenibile del suo corpo sulla scena politi-
ca nazionale, il Cavaliere l’ha trasformata a propria
immagine. Prima ha invaso lo spazio ideologico, inti-
tolandosi il paese. All’estero, siamo diventati l’Italia
di Berlusconi. E da tre lustri, al nostro interno, siamo
solo pro o anti-Berlusconi. Poi, la contaminazione è
penetrata nel nostro tessuto connettivo. Il meccani-
smo della bioleadership, da nuovo motore propulso-
re, è diventato agente patogeno. E ha innescato un
processo di autoimmunizzazione.
Per mettersi al riparo da ogni possibile attacco, la
politica personalizzata ha riprodotto – e rilegittimato
– l’ambizione alla protezione assoluta. Non più come
corpo collettivo, ma come privilegio individuale. La
pretesa di immunità del sovrano è diventata la pro-
tervia di impunità dei suoi seguaci. Realizzando
un’inversione capillare del contratto universalistico
moderno, quel passaggio ex pluribus ad unum sanci-
to dalle parole di Rousseau: «Ciascuno di noi metterà
in comune la sua persona e tutto il suo potere, sotto
la suprema direzione della volontà generale; e noi tut-
ti in corpo riceviamo ciascun membro come parte in-
divisibile del tutto»9. Al culmine del suo ciclo vitale,
il partito personale diventa l’emblema – e l’epilogo –
del corpo politico. Parafrasando la maledizione di
Hobbes, i corpi ritornano persona, particolare e ina-
lienabile. Annidati nel ventre dello stato.
12.
LE RADICI PERDUTE

In principio, fu lo stato dei partiti1. È preferibile que-


sta espressione a quella, poi invalsa, di partitocrazia
perché mette in rilievo il nerbo istituzionale che al-
trimenti si perde, di peso e di vista. Non si è trattato
solo di kratos, potere, strapotere come poi, generica-
mente e derogatoriamente, si è scritto. Riprendendo
la lezione tedesca di Leibholz e del Parteienstaat, i
partiti riempivano un vuoto, al tempo stesso di élite e
di struttura: il ritardo della costruzione statale2. Era
stata questa la lettura con cui Bobbio aveva ripropo-
sto l’importanza di Mosca nella scienza e nella storia
politica italiana. Il ruolo strabordante delle élites era
anche supplenza allo stato, uno stato debole, incom-
piuto, incapace di fare da collante tra centro e peri-
feria di un paese unificato tardi e male. Per questo la
teoria delle élites – nella definizione di Bobbio – è
una «teorica dello stato» per l’età liberale3. E questa
supplenza i partiti, anche grazie agli innesti fascisti,
ereditarono e reinventarono nell’Italia repubblicana.
La costruzione partitica dello stato democratico è
avvolta in un mix di apologia e apostasia. Da un lato
la rivendicazione delle conquiste costituzionali, col
125
corredo terminologico proprio di ogni ideologia: di-
ritti, partecipazione, riforme e l’inveramento di un
dettato di regole e di valori che solo grazie ai partiti
fu possibile realizzare. Dall’altro lato, non meno pe-
rentoria, la prescrizione della commistione tra parti-
ti e stato vista come la madre di ogni corruzione, e de-
viazione dalla retta via.
Già, la retta via. Bisognerà, prima o poi, scrivere
una denuncia – non anonima – di questo quindicen-
nio come esorcizzazione e negazione di ogni analisi
che non fosse rigidamente improntata e votata al be-
ne: possibilmente a presa rapida, sempre eticamente
inoppugnabile, mediaticamente spendibile e giudi-
ziariamente ineccepibile. Un cocktail micidiale che ci
ha riempito di buoni sentimenti, mentre svuotava gli
scaffali e i salotti di argomenti e ragionamenti che
non fossero politically correct. Chiusa la parentesi.
Tra costituzione e corruzione, come sempre succe-
de, la realtà del Parteienstaat stava nel mezzo. Le con-
quiste costituzionali erano state possibili anche per-
ché avevano camminato sulle gambe di una struttura
di comando capace di funzionare e di reggere l’impat-
to del miracolo economico e del – non meno tumul-
tuoso – miracolo politico che fece, in meno di vent’an-
ni, integrare le masse nello stato. Questa sfida l’Italia
liberale l’aveva tragicamente persa. L’Italia fascista
l’aveva, al tempo stesso, rinnegata ma anche, in alcuni
snodi, per prima sperimentata. L’Italia repubblicana
dei partiti l’ha gestita, consolidata. E, come ben sap-
piamo, dilatata, oltre il necessario e oltre il lecito.
Come funzionasse, nel dettaglio, lo stato dei par-
titi è stato scritto in molti libri che bisognerebbe tor-
nare a spiegare alle generazioni che oggi sono co-
126
strette ad occuparsi solo di federalismo, bipolarismo
e berlusconismo4. Qui basta richiamare due aspetti.
Uno: la classe politica, sia di governo che di opposi-
zione, era formata e selezionata in un continuum tem-
porale, spaziale, culturale e ideale che legava tenace-
mente i territori a Roma. Due: questo continuum
coinvolgeva sia l’input che l’output dell’azione poli-
tica, partiva dai circuiti di raccolta del consenso e ap-
prodava ai meccanismi di policy-making5. Questi due
tratti sono l’architrave su cui l’Italia partitocratica si
è retta per cinquant’anni. Con il naufragio di Tan-
gentopoli, questo architrave è franato. Che cosa, e co-
me, ne ha preso il posto?
Il federalismo certo ha avuto un ruolo importante
nell’evoluzione in questione. Ma è stato un ruolo pre-
valentemente ideologico. È servito soprattutto a di-
stogliere la riflessione, e l’azione, da ciò che stava suc-
cedendo comunque nel corpo vivo dei partiti rinati (o
riciclati) con le regole – elettorali e istituzionali – del-
la Seconda Repubblica. A cominciare dalle due nuo-
ve leggi elettorali che hanno rivoluzionato l’Italia: la
legge per l’elezione diretta dei sindaci e la legge (qua-
si) maggioritaria che ha (quasi) spazzato via il sistema
proporzionale.
Il mix – anche se non preventivato – di queste due
leggi plasma il nuovo rapporto tra centro e periferia
del paese. Un rapporto tutt’altro che organico e soli-
do come nello stato dei partiti. Molto più fluido, pro-
blematico.
Il centrosinistra parte con un insperato vantaggio.
La primavera dei sindaci rivela uno scenario inatteso
di recupero della fiducia con la base e, al tempo stes-
so, un meccanismo inedito di decisione politica. Gra-
127
zie alla legge di riforma che assegna ai sindaci sostan-
ziali poteri di nomina degli assessori e di controllo de-
gli amministratori, si crea un circolo virtuoso tra elet-
tori ed eletti. Che non bypassa i partiti, anzi ne pre-
mia le personalità più autorevoli. Ma libera – così al-
meno sembrerebbe – i partiti, a livello locale, dalle
continue ingerenze nella macchina burocratica. Per
cinque, sei, sette anni si ha l’impressione che possa
cambiare davvero qualcosa, e in positivo, nel rappor-
to tra partiti e stato. Attraverso i sindaci, i partiti si as-
sumono la responsabilità di governo, ma senza do-
versi infilare, e infiltrare, nella routine quotidiana do-
ve si allacciano interessi e compromessi, facendo ine-
vitabilmente fiorire inefficienza e corruzione.
Certo, un limite si intravede (quasi) subito. A par-
te qualche eccezione, il tema della riforma dello sta-
to non campeggia nei programmi dei sindaci, non è
al centro della loro azione6. All’inizio, i sindaci si ac-
contentano di incassare l’onda montante di popola-
rità e si impegnano soprattutto su terreni che non im-
plicano grandi energie amministrative: le cosiddette
politiche simboliche, che offrono risultati immediati
ma senza inoltrarsi nel pantano della intermediazio-
ne burocratica7. Qui si nota un primo deficit storico
nella leadership di centrosinistra, una deformazione
genetica. Abituati a vedere la macchina statale come
fonte di compromessi, i sindaci di maggior peso e
prestigio cercano, al più, di starne alla larga. L’idea di
poterla – anzi doverla! – riformare non appartiene al
Dna dei primi cittadini venuti dal freddo del Par-
teienstaat. E tanto meno appartiene alla cultura del
nuovo establishment mediatico che soffia sul vento
della loro ascesa, alimentando l’idea che un cambia-
128
mento di regime sia un’operazione a go-go, da intro-
durre e incassare subito. La riforma dello stato appa-
re una chimera, o un’astrazione. Che però, tempo
dieci anni, piomberà come un macigno sui sogni dei
sindaci e della loro primavera.
Il vantaggio del centrosinistra non aveva riguarda-
to soltanto la conquista delle città, diventate, a larga
maggioranza, il baluardo della presenza territoriale
dell’Ulivo. Dopo un’incerta partenza, il centrosini-
stra dimostra di riuscire ad annidarsi benissimo an-
che nell’altra novità elettorale, i collegi uninominali.
Qui, paradossalmente, è aiutato dalla propria fram-
mentazione interna. Mentre nel centrodestra si con-
frontano partiti solidi e diversissimi – i cattolici del-
l’Udc, i separatisti della Lega, i nazionalisti di An e i
pigliatutto di Berlusconi – in forte competizione tra
loro, nell’area di centrosinistra è più facile cercare un
amalgama comune. Obbligato dalla legge a serrare su
un candidato unitario, il centrosinistra scopre che il
proprio elettorato fa meno fatica a riconoscersi nella
stessa bandiera. Per tre elezioni di fila, il centrosini-
stra prenderà, nei collegi uninominali, una quota
consistente di voti in più rispetto al proporzionale8.
Con due conseguenze importanti.
La prima è che la forza raccolta sul territorio riesce
– non solo numericamente – a compensare almeno in
parte la debolezza della leadership romana rispetto al
tritasassi berlusconiano. La seconda è che la rappre-
sentanza parlamentare del centrosinistra si forma con
solide radici locali, combatte duri scontri frontali per
vincere e lo fa senza l’ombrello protettivo che al cen-
trodestra viene regalato dal Cavaliere pigliatutto. L’u-
nica leva è costituita dalla capacità di attivare sinergie
129
con la nomenklatura dei partiti alleati, battendo, al
tempo stesso, porta a porta ogni angolo della circoscri-
zione. In ciò, certo, è di aiuto la tenuta delle ammini-
strazioni locali, e il protagonismo dei sindaci che le go-
vernano. Ma è bene sottolineare che si tratta di due ca-
nali paralleli, accomunati dalla medesima capacità di
raccogliere il consenso della periferia del sistema.
Dunque, per oltre dieci anni, il centrosinistra ri-
parte dal basso e si consolida sul territorio. È questa
la sua forza, la risorsa che contrappone al centralismo
mediatico berlusconiano. Ma con un limite, un tallo-
ne d’Achille. Il rapporto con Roma è debole e, col
tempo, si incrina. Diversamente dalle radici territo-
riali del Parteienstaat che confluivano al centro e vi
traevano linfa, regole, gerarchie, le nuove basi del
centrosinistra non trovano una facile sponda romana.
La cosa non dovrebbe sorprendere. Se le radici dei
vecchi partiti erano state profondamente rinnovate
dopo il ciclone di Tangentopoli, non altrettanto era
successo a Roma. Qui la dirigenza superstite era im-
pegnata a sperimentare nuovi contenitori e nuovi no-
mi per la forma-partito in crisi, ma senza riuscire a
competere con il partito di zecca fondato dal Cava-
liere. Con quali risorse e quale assetto organizzativo
era possibile fronteggiare la formidabile macchina da
guerra di un partito aziendale e personale, centraliz-
zato e militarizzato come mai se ne erano visti o so-
gnati nemmeno nell’esperienza sovietica?
L’idea di attingere dal basso energie e formule per
il ricambio non riuscì a farsi strada tra le varie edi-
zioni di cose, alberi e fiori che segnarono gli sforzi ro-
mani di rifondare il centrosinistra come un conteni-
tore unitario. Al contrario, il successo dei sindaci, do-
130
po l’iniziale esultanza, venne visto con crescente so-
spetto. Né ci fu un meccanismo che premiasse, nella
attribuzione delle commissioni o nella gestione locale
dei partiti, quei parlamentari che venivano dai fronti
e dalle vittorie più dure. Non ci fu, insomma, nessun
riconoscimento del rapporto personale col territorio
che era la linfa della nuova classe politica. Anzi. Creb-
be, da parte dei vertici romani prima un fastidio poi
un sospetto nei confronti di chi aveva mostrato di po-
ter accumulare prestigio – e potere – in sostanziale
autonomia. Gli homines novi dei mille campanili e
delle cento circoscrizioni non sfondarono a Roma. E
inesorabile arrivò prima la presa di distanza, poi il ri-
chiamo all’ordine e, infine, la scomunica.
All’inizio si trattò di battute – «cacicchi», «cento-
padelle» – però significative perché giunte dalla parte
più illuminata e autorevole della leadership del cen-
trosinistra romano. Cui, comunque, va dato atto di
aver tentato, in un momento cruciale, un cambio di
passo, una svolta strategica. Fu in occasione delle ele-
zioni regionali del 2000, quando D’Alema, nel suo
ruolo di premier, decise di puntare tutto sulla vittoria
dei governatori. L’unica volta in cui apertamente la
sfida territoriale fu assunta, ai massimi livelli del par-
tito e del governo del centrosinistra, come il terreno
di scontro col partito personale di Berlusconi. La per-
sonalizzazione dal basso contro la personalizzazione
dall’alto. Fu una scelta coraggiosa, audace, l’unica for-
se in grado di fermare la valanga berlusconiana che
stava per abbattersi sulle politiche alle porte. La linea,
purtroppo, non passò. Con l’eccezione di Bassolino in
Campania, il centrosinistra riuscì a portare a casa so-
lo le sue roccaforti storiche. Sconfitto, D’Alema si di-
131
mise. E si chiuse l’unica parentesi in cui era stato visto
e cercato un link strategico tra la periferia e il centro.
Per i cinque anni successivi, l’Ulivo a Roma fu in
primo luogo impegnatissimo a leccarsi le profonde
ferite lasciate dalla sconfitta di Rutelli. L’impasse del-
la dirigenza fu messa alla berlina dalla feroce battuta
di Moretti che fece il giro di mille girotondi. E segnò
un cambiamento di clima, di interlocutori, di scena-
ri. Tornò in campo e nelle piazze – più virtuali che
reali – il mito della società civile. Non più, però, co-
me società in carne e ossa da contattare e reclutare sul
territorio. Ma come società dell’opinione, intercetta-
ta e interpretata attraverso vecchi e nuovi media. Per
ritrovare un rapporto con la base, il partito si affida
ai talk-show, che monopolizzano gran parte del di-
battito e dell’agenda di sinistra, o alla mobilitazione
via Internet. O tornando a far leva sui giornali, so-
prattutto fiancheggiatori, per impostare e imporre –
framing – la discussione pubblica.
All’ascesa della società civile come società dell’o-
pinione corrisponde il declino e l’abiura della società
del territorio come società del consenso. La svolta
formale, l’ukaze che segna il cambio di fase è l’ordi-
ne del giorno votato dalla Direzione Ds nel luglio del
2005. Siamo all’indomani del successo impetuoso del
centrosinistra che è riuscito a riconquistare una larga
maggioranza di giunte regionali, trampolino benau-
gurante della sfida con Berlusconi di lì a un anno. Nel
momento in cui occorrerebbe radunare le forze e le
energie per sferrare l’attacco frontale contro l’armata
del Cavaliere, il vertice romano decide di lanciare un
segnale inquietante, destabilizzante. Le amministra-
zioni regionali passano bruscamente dagli altari della
132
vittoria alla polvere – e al fango – dei sospetti. E vie-
ne lanciato l’anatema che cambierà, soprattutto al
Sud, il ruolo dei governi locali: sindaci e presidenti
non sono più lo snodo virtuoso di un nuovo rappor-
to coi cittadini, ma i registi di un sistema di potere che
evoca esplicitamente i fantasmi della Prima Repub-
blica. Sulle radici del centrosinistra cala la cortina di
ferro della questione morale.
A sancire la spaccatura tra centro e periferia del-
l’Unione arriva, fulmine a tradimento, il Porcellum.
Tra i capitoli chiave del ventennio di egemonia ber-
lusconiana c’è il varo di questa legge truffa che scon-
volge le regole del gioco a un soffio dalla vittoria di
Prodi. Non ci sono molti casi, nella storia delle de-
mocrazie mature, di un colpo di stato perpetrato in
modo così abile e spregiudicato. Andando a colpire
al cuore l’avversario, ma con la sua complicità. In sin-
tesi, per chi ha memoria corta, il Porcellum viene va-
rato al limite (secondo molti violato) della legalità co-
stituzionale. Ma trova solo un’opposizione tiepida.
Invece di alzare barricate, mobilitare le piazze, ap-
pellarsi in modo perentorio a un titubante Capo del-
lo Stato, l’opposizione finisce col subire una legge di
cui non coglie il micidiale dispositivo distruttivo ai
danni della compagine di Prodi. E in cui vede – ov-
viamente, senza confessarlo – finalmente lo strumen-
to per mettere in riga la propria periferia. In fondo, si
saranno detti gli uomini che hanno autoaffondato
l’Unione, le elezioni le vinciamo lo stesso. E portere-
mo in parlamento soltanto gli unti della nomenklatu-
ra. Ma le cose hanno preso un’altra piega.
Lasciamo perdere la propaganda cui Berlusconi
non rinuncia mai anche quando ha sbaragliato l’av-
133
versario, dicendo che con la vecchia legge avrebbe
vinto al Senato. I numeri, a legislazione invariata, non
sarebbero certo stati gli stessi. Con il Mattarellum
l’Ulivo avrebbe, innanzitutto, confermato, come nel-
le precedenti elezioni, lo scarto di 4 o 5 punti a suo
favore nel maggioritario a confronto con il voto pro-
porzionale. È su quella base che vanno fatti i calcoli
di quanti – e quali – seggi avrebbero vinto le due
squadre. Ma alla truffa numerica, che pure ha pesato
moltissimo su un parlamento sopravvissuto due anni
sul filo di una manciata di voti, si aggiunge quella ben
più sostanziosa delle casacche con cui i parlamentari
entrano in Camera e Senato. Non ci sono più depu-
tati o senatori eletti in un collegio reale, città e paesi
con un nome vero e con elettori in carne e ossa, e gra-
zie al concorso attivo di tutte le forze della coalizio-
ne. Gli eletti dell’uninominale territoriale e di coali-
zione vengono sostituiti dagli eletti delle segreterie di
partito. La vita organizzativa dei partiti ne esce total-
mente sconvolta.
Il combinato disposto dell’attacco agli ammini-
stratori locali e della sottomissione o epurazione dei
deputati circoscrizionali, crea una spaccatura vertica-
le tra centro e periferia dei partiti. E lo fa proprio
mentre decolla – o dovrebbe decollare – l’audace ten-
tativo di fondere ex Pci ed ex Dc in un nuovo parti-
to democratico. Col risultato che il Pd di Veltroni
muove i primi passi mettendo fuori gioco la logica
delle alleanze inclusive su cui si era retto – pur tra mil-
le stenti e contraddizioni – il centrosinistra di Prodi
e, ancor più, le amministrazioni con le quali si gover-
navano città e regioni. Cercare, o meglio – come è sta-
to detto – sognare di volare da soli. Da soli, senza più
134
radici, senza più alleati ed anzi con alle costole Di
Pietro che si appropria immediatamente a suo van-
taggio del clima neo-giustizialista. L’atterraggio è sta-
to durissimo.
Ancor più, perché non è stato possibile addossare
tutte le responsabilità a Berlusconi. Nella ascesa del
Cavaliere a dominus della transizione italiana, l’enfa-
si è stata posta unilateralmente sulla marcia irresisti-
bile di un uomo dotato di risorse individuali eccezio-
nali, tanto sul piano finanziario quanto su quello del
controllo strategico dei mezzi di comunicazione di
massa. Ma se ciò può spiegare lo sfondamento di Ber-
lusconi in un sistema politico devastato dalla crisi di
Tangentopoli, non è sufficiente a giustificarne la te-
nuta e il consolidamento su un arco temporale di
quindici anni. Un contributo decisivo al successo del
nuovo principe è venuto dai suoi oppositori, il ceto
dei partiti allo sbaraglio. Fin dagli albori, la vicenda
dello stato moderno si alimenta di una tensione che
è, al tempo stesso, il suo motore propulsivo: l’incon-
tro-scontro tra principe e ceti. Il doppio corpo del re
non nasce per partenogenesi, ma è il risultato di un
dualismo secolare che sfocia in un compromesso isti-
tuzionale: una sfera pubblica collettiva incardinata
nella persona del monarca ma controllata dai ceti,
che ne garantiscono la legittimità attraverso il radica-
mento territoriale9.
Attribuire solo allo strapotere – o prepotenza – di
Berlusconi il controllo monocratico eccezionale che
oggi esercita sul paese, equivale a rifugiarsi – con
qualche secolo di ritardo – nell’ennesima vindiciae
contra tyrannos. Buona soprattutto ad alimentare una
rendita di posizione, all’opposizione. E ad evitare la
135
domanda più scomoda, che ancora costituisce un
tabù per la cultura di sinistra italiana. La domanda ri-
guarda il fallimento del ceto di partito nei confronti
del passaggio obbligato della personalizzazione, la
sua incapacità a fronteggiare, interpretare e assorbire
la nuova sfida che i leader – piccoli e grandi – impo-
nevano alla logica dell’agire collettivo10. Il prorom-
pere sulla scena politica del corpo personale del lea-
der è stato liquidato come l’ennesima anomalia ita-
liana, nell’attesa che passasse la nottata e un’altra pa-
rentesi si chiudesse. Con l’unico risultato di allunga-
re il buio oltre la siepe.
13.
RAGIONI, INTERESSI, PASSIONI

Tra gli ostacoli a mettere a fuoco le dinamiche della


personalizzazione, il più ingombrante e persistente è
il paradigma del voto razionale. L’idea, cioè, che ogni
elettore esprima il proprio voto sulla base di una di-
samina dei programmi in campo e la scelta del più
convincente. Da anni i sondaggisti ci ricordano che,
purtroppo, la maggioranza degli elettori è poco e ma-
le informata. E che a decidere, negli ultimi giorni, l’e-
sito delle consultazioni sono spesso coloro che vivo-
no ai margini della vita politica. Solleticabili e moti-
vabili con strumenti che hanno ben poco a che vede-
re con l’idealtipo della rational choice. Ma l’ideologia
dominante resiste ad ogni evidenza empirica1.
L’idea del votante razionale è, infatti, quella di
gran lunga preferita da tutti gli attori in campo. Pia-
ce innanzitutto ai partiti, che possono così autorap-
presentarsi come attenti ai bisogni della gente, e ca-
paci di tradurli in ponderose liste di interventi mira-
ti a risolvere questo o quel problema. A chiudere il
circolo virtuoso, ci pensa il cittadino-elettore che, do-
verosamente informato, provvede a premiare (o a pu-
nire) il partito a seconda che abbia bene o male cor-
137
risposto alle proprie aspettative. Oltre ai partiti e ai
cittadini, lo schema del votante razionale piace mol-
tissimo ai media, che possono così rappresentare la
competizione elettorale a propria immagine e somi-
glianza: come uno scontro – ordinato – di opinioni at-
traverso (ovviamente!) la stampa d’opinione. Infine,
questo modello soddisfa le pulsioni dei politologi.
Che quando descrivono il mondo in ricerche ponde-
rose e illeggibili sanno essere rigorosi latori di verità
molto scomode. Ma se devono, invece, inseguire i
propri aneliti riformatori preferiscono adeguarsi al
bon ton dell’etica pubblica. Si potrebbe parafrasare:
tutti insieme, razionalmente. La realtà, manco a dir-
lo, è diversa.
Gli studi classici sul comportamento elettorale de-
scrivono almeno altri due circuiti attraverso i quali i
cittadini decidono per chi e come votare: oltre al vo-
to d’opinione, ci sono quelli di appartenenza e di
scambio. Il riferimento canonico per inquadrare que-
sta tipologia resta un saggio di Parisi e Pasquino pub-
blicato trent’anni fa, sulla scia della tradizione ameri-
cana, e che ha avuto grande influenza sul dibattito dei
decenni successivi2. In sintesi molto sommaria, il vo-
to di appartenenza nasce da un attaccamento ai par-
titi, spesso maturato attraverso processi di socializza-
zione primaria (il voto ereditato in famiglia) o di ra-
dicamento territoriale: come nel caso delle arcinote
subculture bianche e rosse tanto in auge nella Prima
Repubblica3. E fissato con un collante ideologico,
che funge da visione del mondo più o meno organica
a supporto dell’appartenenza. Il voto di scambio alli-
gna, invece, nelle reti e reticoli di interessi che si ad-
densano liberamente sul mercato, su base individua-
138
listica. In America lo chiamano patronage, e ha ali-
mentato la machine politics che ha integrato milioni
di immigranti nella melting pot democratica. In Italia
– complici gli stessi studiosi statunitensi con il com-
plesso della civic culture – viene chiamato clienteli-
smo, e attribuito esclusivamente al Sud. Preferibile –
e più avalutativa – è la categoria di voto micro-perso-
nale, come verrà chiarito più avanti.
Tra i vantaggi di questa tipologia, è che individua
con estrema chiarezza e semplicità i principali bloc-
chi in trasformazione del panorama elettorale italia-
no negli ultimi vent’anni4. Ed è stata, in larga misura,
utilizzata a questo scopo negli schemi interpretativi
egemoni, soprattutto nel centrosinistra. Per citare l’e-
sempio più eclatante, la spinta verso l’adozione di un
sistema maggioritario si è alimentata della seguente
diagnosi: a) che erano in crisi le appartenenze parti-
tiche (anche a causa del disgelo ideologico conse-
guente alla caduta del muro); b) che erano in rotta le
reti clientelari (anche grazie all’affossamento giudi-
ziario dei vecchi partiti di governo); c) che l’elettora-
to italiano era pronto ad adeguarsi al trend dominan-
te (?) in tutte le altre democrazie mature, emanci-
pandosi da appartenenze e clientele e scegliendosi ra-
zionalmente il partito più adatto a governarlo. Corol-
lario e al tempo stesso postulato di questo circolo vir-
tuoso era il fatto che i partiti in campo si riducessero
a due: per semplificare la scelta, e renderla, al tempo
stesso, più efficace.
Questa diagnosi è stata tanto accattivante quanto,
purtroppo, fuorviante. Sia nel pesare le trasformazio-
ni dei tre tipi di comportamento di voto. Sia nel limi-
tare ad essi l’analisi dei mutamenti in corso. Infatti, e
139
contrariamente alle attese del paradigma razionalista,
il voto di appartenenza ha resistito molto meglio (o
peggio) del previsto, anzi si dovrebbe dire è risorto,
anche se in enclave impreviste come il blocco nordi-
sta della Lega. Quanto al voto di scambio, è ritorna-
to in auge, dopo una breve parentesi che ne aveva fat-
to sperare l’estinzione, come dimostrano le percen-
tuali dei voti di preferenza ai candidati consiglieri in
tutte le elezioni locali (comunali, circoscrizionali, re-
gionali) al Sud ma anche in molte aree del Nord5; e
come attestano le cronache degli ultimi mesi di nuo-
vo intasate da inchieste giudiziarie e, in parallelo, da
feroci scontri per aggiudicarsi assessorati municipali
e regionali. Infine, il voto di opinione è cresciuto (se
è cresciuto) molto meno che nelle previsioni. Anche
a causa della concorrenza subita da parte di un nuo-
vo tipo di circuito per la mobilitazione del consenso
esploso sulla stessa scena mediatica.
Oltre, cioè, a un diverso andamento dei tre com-
portamenti di voto, va registrata una novità importan-
tissima, che amplia la tipologia tradizionale con l’in-
nesto di un altro tipo di voto: il voto al leader. È stato
questo il vero terremoto che ha scompaginato gli as-
setti dei partiti, a livello sia nazionale che locale. Dalla
primavera dei sindaci all’ascesa di Berlusconi, il vero
mattatore della Seconda Repubblica è stato il voto ma-
cro-personale. Un voto, cioè, in cui conta moltissimo
la personalità e il carisma del leader, in un rapporto
però di uno-a-molti, che lo distingue (abbastanza) net-
tamente dalle reti micro-personali faccia a faccia.
Nella figura che segue, i quattro tipi di voto sono
inquadrati in una matrice che ne disegna con chia-
rezza i contorni, nonché i rapporti che intercorrono
140
Figura 1. Quattro tipi di voto

tra i diversi quadranti. Per ogni approfondimento ri-


mando al saggio di Luigi Di Gregorio, autore di que-
sta esemplare integrazione della tipologia originaria6.
Limitandomi a riprenderne alcuni punti salienti.
Innanzitutto, i due assi differenziano i protagonisti
della competizione elettorale, sia per quanto riguarda
i votanti che per i destinatari del voto. L’asse verticale
distingue un comportamento di voto motivato preva-
lentemente su base individuale da una dinamica che,
invece, privilegia l’appartenenza di gruppo. Sull’asse
orizzontale, party e leadership individuano i due atto-
ri più rilevanti nella strutturazione della competizione
e, di conseguenza, nella scelta degli elettori.
L’incrocio dei due assi dà luogo a quattro qua-
dranti (in gergo metodologico si chiamano spazi de-
gli attributi) che sono altrettanti tipi di comporta-
141
mento di voto7. Non mi soffermo sui tre quadranti
già noti (in basso a destra, lo scambio; in basso a si-
nistra, l’opinione; in alto a sinistra, l’appartenenza),
già illustrati sopra e che vengono puntualmente de-
scritti nel testo da cui riprendo questa argomentazio-
ne. Guardiamo, invece, più in dettaglio le caratteri-
stiche del quadrante in alto a destra, che è la novità
principale: «Qui il riferimento evidente è alla figura
del ‘voto populistico’ o di quello ‘carismatico’, molto
rilevanti in numerose democrazie occidentali con-
temporanee. (...) La personalizzazione e la spettaco-
larizzazione della politica, prodotta da un uso fre-
quente e strumentale della televisione e dei new me-
dia e conseguente alla crisi delle ideologie post-guer-
ra fredda, hanno comportato la crisi e il superamen-
to del partito di massa, favorendo la nascita di ‘parti-
ti personali’, incentrati sul ruolo del leader e sovente
tendenti a cavalcare il malcontento popolare in ma-
niera populistica»8. E, ancora più importante, se-
guiamo il ragionamento dell’autore nello spiegare le
relazioni che – grazie all’inquadramento in matrice –
diventano logicamente visibili tra i diversi tipi di vo-
to: «Ad un livello maggiore di astrazione, sarebbe
forse possibile ipotizzare l’accoppiamento dei due ti-
pi ‘voto di appartenenza’ e ‘voto carismatico’ da una
parte e ‘voto di opinione’ e ‘voto di scambio’ dall’al-
tra, per suggerire la prevalenza, da un lato (quadran-
ti in alto), di un agire razionale orientato al valore, un
qualche sentimento di appartenenza non solo verso
l’ideologia di un partito, ma anche nei confronti di un
leader politico; e, dall’altro, la preponderanza di un
agire razionale orientato allo scopo, che caratterizza
il singolo elettore che struttura il proprio orienta-
142
mento di voto sulla base di una sorta di calcolo, o
quantomeno di valutazione razionale, poco o punto
influenzata da questioni identitarie o relative all’uni-
verso dei valori»9.
La nuova categoria di voto, pertanto, rappresenta
in quest’ottica «un nuovo tipo di voto di apparte-
nenza, non più al partito, bensì al leader e questo
spiegherebbe, passando dalla teoria ai dati empirici,
il perché della stabilità degli orientamenti di voto del-
l’elettorato italiano, che è passato da un voto ideolo-
gizzato (party oriented) ad un voto carismatico (lea-
der oriented), anziché muoversi verso il voto di opi-
nione (issue oriented), come il sistema maggioritario
e la meccanica bipolare prescriverebbero. Una delle
ipotesi sull’assenza di volatilità inter-area può essere
fatta risalire allora a questa anomalia della competi-
zione elettorale, che spinge, tra l’altro verso la fram-
mentazione partitica, nonostante il maggioritario e
nonostante la riduzione numerica e in termini di po-
larizzazione dei cleavages sociali, rispetto alla Prima
Repubblica. Il voto leader oriented spinge, infatti, la
classe politica italiana a creare nuovi partiti, per far
nascere nuove figure di leader in grado di attrarre il
consenso degli elettori»10.
In queste poche righe c’è una impietosa rappre-
sentazione di cosa è veramente successo nel rappor-
to tra elettorato e partiti nella lunga (e ancora incom-
piuta) transizione italiana. Nonché delle difficoltà a
misurarsi con un elettorato che poco e male si adatta
agli schemi della rappresentazione ideologica che la
sinistra continua, imperterrita, a coltivare11. Alla vi-
gilia delle ultime elezioni, la leadership del Pd sem-
brava aver cercato di sfondare nel nuovo quadrante,
143
dando maggiore enfasi e spazio al ruolo del candida-
to premier nella competizione elettorale. Senza però
riuscire a prendere sul serio, e fino in fondo, le carat-
teristiche della nuova arena elettorale. Il loft veltro-
niano si è limitato a puntare le sue carte su una evo-
luzione in chiave personalistica del (solito) voto di
opinione. Una sorta di scelta razionale light, meno is-
sue centered e più candidate oriented. Ma comunque
da giocarsi all’interno della cerchia mediatica, con un
po’ di lifting alle liste e un pressing buonista sull’im-
magine. Tutto questo può anche aiutare (un poco) a
bucare lo schermo, però non basta per sfondare nei
cuori e nello stomaco dell’elettorato. Quello che è in
gioco nel voto populistico è un sentimento identita-
rio, un richiamo capace di innestare e sedimentare un
rapporto anche di tipo autoritario col leader. È ciò
che ne spiega la durata e, al tempo stesso, la tenuta
anche sul piano valoriale.
La sinistra, con questo tipo di leadership, tende a
trovarsi a disagio. Culturale e ideale. Ci sono stati al-
cuni esempi, soprattutto a livello locale, in cui questa
miscela era sembrata funzionare. Ma è certo che, nel
dibattito pubblico e nel proprio carniere ideologico,
la sinistra preferirebbe farne a meno. E continua a
non sapere come intercettare il consenso di un elet-
torato che vota meno con la propria testa di quanto
alla sua intellighentsia piacerebbe... pensare.
Invece, ogni strategia elettorale, per vincere, deve
sapere investire in tutti i target elettorali: non sulla
base delle proprietà sociologiche, ma dei diversi cir-
cuiti del consenso cui fanno riferimento. Non serve
parlare di «giovani» – o donne, o ceti popolari – co-
me fossero un unico universo: ci sono giovani che

144
scambiano favori, giovani che leggono i giornali, gio-
vani ancora radicati nel territorio e giovani che cer-
cano da un leader la sintesi dei loro bisogni. Per ria-
prire un discorso sul partito che non sia un gioco del-
l’oca, non c’è una formula magica, o una chiave pa-
lingenetica, come nel mito ricorrente del richiamo al-
la società civile: anch’essa, ovviamente, intessuta di
ragioni, interessi e passioni. In ogni partito democra-
tico dovrebbe esserci spazio legittimo per tutti e
quattro i quadranti, perché ciascuno riflette un seg-
mento, importante e irriducibile, dell’elettorato ita-
liano. Quattro quadranti con implicazioni diverse sul
piano dell’organizzazione, del personale politico,
delle strategie e prassi di governo. Sarebbe anche una
buona occasione per far funzionare il pluralismo: non
come scontro di correnti o retaggio di ideologie, ma
come modi diversi di intendere – e difendere – i di-
versi voti dei cittadini.
Conclusioni
L’ALTRA FACCIA DI WEBER
Il sipario che sta calando sui grandi partiti-dinosauro
e illumina i nuovi leader prêt-à-porter si presta a faci-
li pessimismi. Complice la fine del millennio, il tra-
monto dei partiti sembrerebbe fare precipitare le cer-
tezze su cui era stata fondata la fede illimitata nella
democrazia: il trionfo della legalità, la diffusione – in
ogni ganglio della vita associata – della capacità indi-
viduale di scelta consapevole e razionale; la fiducia,
infine, che un sistema di valori potesse sfidare il tem-
po e permetterci di lanciare il cuore oltre la siepe.
Sembrerebbe, insomma, incrinarsi quel paradigma
weberiano che ci ha fatto così a lungo da bussola sul
sentiero della modernizzazione.
Sul secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle
nessun sistema di pensiero ha impresso traccia più
profonda di quello di Max Weber. Come per tutte le
teorie che colgono, con geniale lucidità, lo spirito del
proprio tempo proiettando nel futuro i frutti più du-
raturi e vitali, l’influenza di Weber permea gli aspet-
ti più importanti della grande trasformazione che se-
gna l’avvento della società contemporanea. Rilegge-
re, oggi, la nostra storia è praticamente impossibile
149
senza inforcare le lenti weberiane sull’analisi del po-
tere – e sui suoi punti di crisi. Sul piano dell’influen-
za più direttamente culturale, bisognerà attendere,
però, il secondo dopoguerra perché le sue interpre-
tazioni si diffondano in tutte le università americane
attraverso alcuni straordinari e autorevoli divulgato-
ri come Talcott Parsons e Reinhard Bendix. Per poi
ritornare in Europa, e nella stessa Germania in cui il
suo nome era finito in secondo piano, diventando nel
volgere di pochi anni il paradigma obbligato di rife-
rimento per capire dove stava andando il mondo mo-
derno. O, almeno, dove sembrava stesse andando se-
condo la vulgata weberiana transitata per gli Stati
Uniti e, inevitabilmente, semplificata e un po’ edul-
corata secondo l’irresistibile leggerezza americana.
Il Weber americano – che l’Europa si affretterà a
rilanciare – era l’alfiere di un nuovo credo e di una
nuova chiave di volta per il mondo contemporaneo. Al
centro di questo mondo, delle sue radici e destino, c’e-
ra la razionalità burocratica: un principio di ordina-
mento e di ordine che univa il potere dell’autorità a
quello della legittimità. Le istituzioni che consentiva-
no l’espansione dell’economia e della democrazia trae-
vano la loro forza dall’essere uniformate – e vincolate
– alle regole della razionalità e della legge. Fuse, per la
prima volta, in uno straordinario motore di sviluppo,
il potere legale-razionale. Era questo il potere destina-
to a sostituirsi agli arbìtri e alla imprevedibilità del pas-
sato, grazie alla forza che gli derivava dalla imperso-
nalità del comando. L’espansione, in politica, dello
stato democratico come, in economia, del sistema ca-
pitalistico nasceva dall’ampia legittimazione di cui il
potere legale-razionale godeva presso la popolazione
150
nel suo insieme. Una legittimazione universalistica,
fondata sull’automaticità e generalità delle procedure
che governavano la sfera dell’economia e della politi-
ca nel mondo contemporaneo; diversamente dai mille
e svariati legami particolaristici che, per il passato, era-
no necessari per far funzionare la macchina del potere.
Nel nome del nuovo principio di legittimità del po-
tere, il credo legale-razionale, verrà in breve tempo ri-
scritta la storia delle trasformazioni più importanti
della nostra vita organizzata; insieme al suo futuro ine-
vitabile, già tracciato come strada maestra e incerto
solo nei tempi dell’avvento. Anche le eccezioni più vi-
stose saranno assimilate al modello, come nel caso dei
sistemi socialisti, rappresentati quali leviatani buro-
cratici intenti a pianificare il mondo spingendo oltre il
limite della ragionevolezza la soglia – e meta – della ra-
zionalità. Per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, il pa-
radigma dello sviluppo, in politica come in economia,
sarà improntato a poche e lineari categorie interpre-
tative, con uno strumentario di intervento che pro-
metteva la trasformazione, chiavi in mano, di ogni
paese arretrato – o, ideologicamente, alternativo – in
un facsimile del modello realizzato nelle nazioni gui-
da. Il mondo – primo, secondo o terzo – era o sareb-
be stato, magari anche suo malgrado, weberiano.
La cultura economica sarà la prima a risvegliarsi da
questa invadente illusione. E a riconoscere, con ama-
rezza e stupore, che i conti dello sviluppo non tornava-
no. Già alla fine degli anni Settanta, Albert Hirschman
scriverà un’autocritica spietata sull’ascesa e declino
dell’economia dello sviluppo1. Il risultato sarà una re-
visione drastica delle certezze amiche coltivate dal ca-
pitalismo all’ombra della razionalità burocratica, e il ri-
151
torno a chiavi di lettura meno rassicuranti e prevedibi-
li. Gli spiriti animali del mercato riprenderanno, al-
l’insegna del neoliberismo, a dominare la scena econo-
mica. Talora in una veste ottimistica, alimentata dai
tassi di crescita del Pil al posto degli obsoleti livelli di
Zivilisation; talora in una veste problematica, memore
delle Grandi Crisi che in passato avevano ripetuta-
mente frantumato il mito del liberalismo. E che si so-
no, inesorabili, ripresentate. In ogni caso, l’economia
post-weberiana riscopre un filone di realtà che il foun-
ding father delle scienze sociali aveva, in polemica con
Marx e Sombart, troppo frettolosamente scartato.
Nel caso, invece, degli scenari politici, prendere le
distanze dagli eccessi della vulgata weberiana come
irresistibile ascesa del potere legale-razionale ha si-
gnificato, in realtà, riscoprire l’altra faccia di Weber.
Si ritorna a una lettura più rigorosa della tipologia
originaria con cui Weber riformula i rapporti di po-
tere: distinguendo il potere impersonale delle nuove
burocrazie, all’insegna e al riparo della legge e della
razionalità, da quello più tradizionale dei singoli che,
in nome del patrimonio o del carisma, lo gestiscono
in prima persona. Se è vero, infatti, che Weber pro-
pende a vedere nel potere burocratico la forma ege-
mone della nuova era, si guarda bene, però, dall’of-
frire un quadro univoco della sua affermazione. Al
contrario, la tipologia di Weber, molto più che a una
chiave di tipo evoluzionista, si presta a dar conto del-
le molte resistenze e continuità che le altre forme di
potere presentano nella realtà quotidiana. Insieme a
una carica di rottura e di innovazione. Di fronte alla
morsa di ferro che la razionalità rischia d’imporre sui
mondi vitali dell’uomo, il ricorso al potere carismati-
152
co diventa una risorsa preziosa per rompere il cerchio
dell’ordine costituito e pre-costituito. O, per conver-
so, la difesa dei legami tradizionali improntati a inte-
ressi particolaristici consente di conservare uno spa-
zio di movimento – e di arbitrio – nei confronti delle
rigide maglie che il governo della legge imporrebbe.
In ogni caso, all’impersonalità del comando della ra-
zionalità burocratica si oppone, insidiosa e rigoglio-
sa, la personalizzazione del potere.
Per quanto la strada sia tracciata con impietosa
chiarezza, fare i conti con l’altra faccia di Weber non
è, però, culturalmente ed eticamente, un’impresa fa-
cile. Non mancano gli studi che aiutino a raddrizzare
la rotta. Basta rileggere il saggio prezioso di Günther
Roth sul potere personale, un affresco straordinaria-
mente efficace dei massimi sistemi politici alla luce,
appunto, del Weber nascosto. Facendo emergere la
centralità dell’elemento personale e del dominio del-
l’uomo sull’uomo nella Cina e Unione Sovietica for-
malmente iper-burocratizzate, non meno che negli
Stati Uniti ufficialmente votati alla disciplina mana-
geriale2. Sono proprio, però, le riflessioni più acute a
rendere più arduo il compito di guardarsi sino in fon-
do allo specchio. Abituati come siamo a classificare la
realtà sul presupposto che debba comunque confor-
marsi al principio del governo delle leggi, ogni volta
che il governo degli uomini prende prepotentemente
il sopravvento restiamo impreparati. Di fronte all’e-
splosione contagiosa di presidenti personali che
affollano le piazze mediatiche del mondo, ci sorpren-
diamo a scoprire che sono capi a responsabilità illi-
mitata, la cui unica vulnerabilità politica risiede nel
proprio corpo. Come nelle sfide in diretta tra grandi
153
comunicatori addestrati a controllare ogni ruga del
viso, o nelle indagini giudiziarie a colpi bassi che ro-
vistano nello studio ovale le tracce di una passione.
A dispetto della sua rilevanza e invadenza, l’ascesa
del potere personale resta, per il discorso pubblico, un
tabù. Se ne parla ormai diffusamente, senza però riu-
scire a distaccare l’analisi – e i punti di vista – dalle ca-
tegorie ancestrali con le quali il fenomeno è stato per-
cepito, e subìto, in epoca pre-moderna: un ritorno,
una regressione al passato. E in quanto tale, prima an-
cora che compreso, il potere personale viene giudica-
to e combattuto. Quanto maggiore si rivela il suo
ascendente popolare e la sua capacità di espansione
patrimoniale e/o istituzionale, tanto più angusto è il
paradigma mentale con cui si cerca di esorcizzarlo. Re-
stiamo caparbiamente impreparati a decifrare la me-
tamorfosi del potere contemporaneo, il processo di
riappropriazione – ed erosione – personale del patri-
monio collettivo eretto dai regimi liberaldemocratici.
Anche perché c’è un convitato di pietra che ali-
menta la spirale del silenzio sulla personalizzazione
del potere: la rimozione del corpo. L’estrema diffi-
coltà a far rientrare nel santuario del discorso pub-
blico il corpo fisico, materiale, vitale dei potenti con-
temporanei. Non che manchi la consapevolezza del-
la colonizzazione quotidiana dello spazio comunica-
tivo da parte dei corpi mediali onnipresenti dei lea-
der. E, nella cerchia degli specialisti, ci sono analisi
puntualissime di come il corpo privato dei politici sia
emerso improvvisamente dal sipario dietro il quale
era gelosamente celato, e sia tornato a rappresentarsi
al popolo. Portando avanti quella mutazione geneti-
ca anticipata lucidamente da Sartori, il passaggio da
154
homo sapiens a homo videns. Ma la tendenza, e la ten-
tazione, è di circoscrivere il fenomeno nel recinto del-
la politica spettacolo. Relegato al circuito mediale, il
corpo del leader può ancora apparire separato dalla
sfera istituzionale, dai suoi secolari baluardi e dalle
sue collaudate routine di autodifesa e autoriprodu-
zione. Con l’illusione che possa resistere una sorta di
dualismo dei poteri: da un lato quello personale, dal-
l’altro quello istituzionale.
La vicenda del partito personale dimostra, invece,
che anche i più longevi e saldi meccanismi di ripro-
duzione del consenso e selezione della classe politica
possono essere, improvvisamente e rapidamente, an-
nessi alla logica riemergente della personalizzazione.
Aprendo il varco alla scalata anche degli altri snodi
pubblici chiave.
In questo, la tipologia weberiana fa fatica a tenere
il passo con gli eventi. La forza di quella partizione ri-
siedeva innanzitutto nei confini, le linee di demarca-
zione che tracciava tra le diverse arene del potere.
Consegnate ad ambiti spazio-temporali distinti e, so-
prattutto, non comunicanti. La novità del potere per-
sonale all’alba del terzo millennio sta, invece, nella
capacità di fondere le risorse patrimoniali e carisma-
tiche con le leve istituzionali. Questo avviene grazie a
un fattore imprevedibile agli esordi della razionalità
burocratica, l’avvento delle comunicazioni di massa
come tramite fondamentale di socializzazione cultu-
rale. Ma anche per la crisi del sistema di valori e ideo-
logie che ha segnato la secolarizzazione delle grandi
democrazie industriali. Nel ritorno del potere perso-
nale, si agitano pulsioni profonde di una polis alla ri-
cerca di nuovi approdi.
155
NOTE

Introduzione
1
Cfr. F. Musella, Governi monocratici. La svolta presidenziale nel-
le regioni italiane, Il Mulino, Bologna 2009.
2
Cfr. T. Poguntke e P.D. Webb (a cura di), The Presidentializa-
tion of Politics. A Comparative Study of Modern Democracies, Oxford
University Press, Oxford 2005; M. Calise, La Terza Repubblica. Par-
titi contro presidenti, Laterza, Roma-Bari 2005.
3
Cfr. I. Diamanti, Presidenti in cerca di ex partiti, in «Il Sole-24
Ore», 28 febbraio 1999.
4
Cfr. G. Pasquino (a cura di), Il Partito Democratico. Elezione del
segretario, organizzazione e potere, Bononia University Press, Bologna
2009.

Capitolo primo
1
Cfr. E. Noelle-Neumann, The Spiral of Silence, University of
Chicago Press, London & Chicago 1988.

Capitolo secondo
1
Cfr. D.M. Shea, The Passing of Realignment and the Advent of the
«Base-less» Party System, in «American Politics Quarterly», XXVII, 1,
1999.
2
Cfr. S. Scarrow, Parties and the Expansion of Direct Democracy,
in «Party Politics», V, 3, 1999.
3
Cfr. P. Mair, Party Organization: From Civil Society to the State,

157
in R. Katz e P. Mair (a cura di), How Parties Organize: Change and
Adaptation in Party Organizations in Western Democracies, Sage,
London 1994, pp. 1-22.
4
Mi sia consentito, su questo punto, il rinvio a M. Calise, Dopo la
partitocrazia. L’Italia tra modelli e realtà, Einaudi, Torino 1994.
5
Come ben documentato in E. Melchionda, Il finanziamento del-
la politica, Editori Riuniti, Roma 1997.
6
P. Mair, Party Organization cit., pp. 3-4.
7
Cfr., su questo tema, la raccolta di saggi in S. Scarrow e T.
Poguntke (a cura di), The Politics of Anty-party Sentiment: Introduc-
tion, in «European Journal of Political Research», XXIX, 3, 1996.
8
In particolare, sui casi italiano e francese, cfr. F. Cazzola, Della
corruzione. Fisiologia e patologia di un sistema politico, Il Mulino, Bo-
logna 1988; Y. Meny, La corruption de la république, Fayard, Paris 1992
e D. Della Porta e A. Vannucci, Un paese anormale. Come la classe po-
litica ha perso l’occasione di Mani Pulite, Laterza, Roma-Bari 1999.
9
P. Mair, Party Organization cit., p. 17.

Capitolo terzo
1
Cfr. P Ignazi, L’estrema Destra in Europa, Il Mulino, Bologna
1994.
2
Cfr. R. De Rosa, Fare politica in Internet, Apogeo, Milano 2000;
M.R. Kerbel, Netroots. Online Progressives and the Transformation of
American Politics, Paradigm Publishers, Boulder 2009; R.K. Gibson,
A. Römmele e S.J. Ward (a cura di), Electronic Democracy. Mobiliza-
tion, Organization and Participation Via New ICTs, Routledge, London
2004.
3
J. Bryce, The American Commonwealth, Macmillan, London
1888.
4
W. Wilson, Congressional Government. A Study in American
Politics, Houghton, Boston 1885.
5
R. Pious, The American Presidency, Basic Books, New York 1979.
6
G. Sartori, Homo videns, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 140.

Capitolo quarto
1
È la tesi che avevo avanzato in M. Calise, Governo di partito. An-
tecedenti e conseguenze in America, Il Mulino, Bologna 1989.
2
S. Fabbrini, Il Principe democratico. La leadership nelle demo-
crazie contemporanee, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 36.
3
Sulla presidenzializzazione del capo dell’esecutivo inglese cfr. R.

158
Rose, British Government: The Job at the Top, in R. Rose e E.N.
Suleiman (a cura di), Presidents and Prime Ministers, American En-
terprise Institute for Public Policy Research, Washington 1980 e, più
di recente, J. Foley, The Rise of the British Presidency, Manchester
University Press, Manchester 1993.
4
T. Poguntke e P.D. Webb (a cura di), The Presidentialization of
Politics. A Comparative Study of Modern Democracies, Oxford Uni-
versity Press, Oxford 2005.
5
In Italia, ha fatto da isolato battistrada il libro di L. Cavalli, Il ca-
po carismatico, Il Mulino, Bologna 1981.
6
Cfr. T.J. Lowi, The Personal President. Power Invested, Promise
Unfulfilled, Cornell University Press, Ithaca 1985.
7
Cfr. J.C. Green e D.M. Shea (a cura di), The State of the Parties:
The Changing Role of Contemporary American Parties, Rowman and
Littlefield, Lanham 19993.
8
E. Melchionda, Alle origini delle primarie. Democrazia e diretti-
smo nell’America dell’età progressista, Ediesse, Roma 2005.
9
Cfr. G. Sartori, Homo videns, Laterza, Roma-Bari 1999 e M. Ca-
lise, La costituzione silenziosa. Geografia dei nuovi poteri, Laterza, Ro-
ma-Bari 1998, pp. 115-120.

Capitolo quinto
1
Riprendo queste variabili e buona parte dei rimandi alla lettera-
tura che seguono dalla tesi di dottorato di P. Ferrari, Il partito me-
diale, Università di Firenze, 2000.
2
D. Martelli, La comunicazione politica del New Labour, in «Qua-
derni di Scienza Politica», VI, 2, 1999, p. 306.
3
P.D. Webb, Party Organizational Change in Britain: The Iron
Law of Centralization?, in R. Katz e P. Mair, How Parties Organize:
Change and Adaptation in Party Organizations in Western Democra-
cies, Sage, London 1994, p. 125.
4
P.D. Webb, Election Campaigning, Organisational Transforma-
tion and the Professionalisation of the British Labour Party, in «Euro-
pean Journal of Political Research», XXI, 1992, p. 270.
5
Secondo l’espressione di E. Shaw, The Labour Party since 1979.
Crisis and Transformation, Routledge, London 1994, p. 57.
6
D. Kavanagh, Election Campaigning: The New Marketing of
Politics, Basil Blackwell, Oxford 1995, p. 7.
7
D. Martelli, La comunicazione politica cit., p. 323; per un’anali-
si approfondita della nuova organizzazione della campagna elettora-
le del Labour Party cfr. P. Norris, The Battle for the Campaign Agen-

159
da, in A. King (a cura di), New Labour Triumphs: Britain at the Polls,
Chatam House, Chatam 1998, pp. 113-142.
8
R. Heffernan e J. Stanyer, The Enhancement of Leadership Power:
The Labour Party and the Impact of Political Communications, in C.
Pattie, D. Denver, J. Fisher e S. Ludlam (a cura di), British Election
& Parties Review, Frank Cass, London 1997, p. 173.
9
M. Calise, Governo di partito. Antecedenti e conseguenze in Ame-
rica, Il Mulino, Bologna 1989, p. 96.
10
M. Keller, Affairs of State. Public Life in Late Nineteenth Cen-
tury America, Harvard University Press, Cambridge 1977, p. 248.
11
E. Shaw, The Labour Party cit., p. 214.
12
L’espressione è tratta da P. Ferrari, Il partito mediale cit.

Capitolo sesto
1
Cfr. M. Cotta e P. Isernia (a cura di), Il gigante dai piedi di ar-
gilla. Le ragioni della crisi della prima repubblica: partiti e politiche da-
gli anni ’80 a Mani pulite, Il Mulino, Bologna 1996 e M. Calise, La co-
stituzione silenziosa. Geografia dei nuovi poteri, Laterza, Roma-Bari
1998, pp. 17-32.
2
Per un’analisi storica aggiornata di questo istituto cfr. A. Chi-
menti, Storia dei Referendum, Laterza, Roma-Bari 1999.
3
Cfr. M. Fedele, Democrazia referendaria, Donzelli, Roma 1994.
4
Ringrazio Franco Cazzola, uno dei primi e più autorevoli stu-
diosi italiani delle correnti di partito, per aver richiamato la mia at-
tenzione su questo aspetto.

Capitolo settimo
1
Riprendo qui, adattandolo a un contesto diverso, il bel titolo del
libro di S. Fabbrini, Il Principe democratico. La leadership nelle de-
mocrazie contemporanee, Laterza, Roma-Bari 1999.
2
Cfr. E. Pasotti, Political Branding in Cities. The Decline of Ma-
chine Politics in Bogotà, Naples, and Chicago, Cambridge University
Press, New York 2010.
3
Cfr. R. di Leo, La falce e la luna. Potere e politica nel cuore del-
l’Europa, mimeo.
4
In un contesto diverso, il termine è stato introdotto da B. Den-
te (a cura di), Le politiche pubbliche in Italia, Il Mulino, Bologna 1990;
cfr. M. Cilento, Governo locale e politiche simboliche. Il caso Bagnoli,
Liguori, Napoli 2000.
5
Sono i nodi al centro della lucida analisi di L. Vandelli, Sindaci

160
e miti. Sisifo, Tantalo e Damocle nell’amministrazione locale, Il Muli-
no, Bologna 1997.

Capitolo ottavo
1
Cfr. O. Calabrese, Come nella boxe. Lo spettacolo della politica
in Tv, Laterza, Roma-Bari 1998.
2
Per un’analisi di Forza Italia, e rimandi alla ampia letteratura sul
tema, cfr. C. Paolucci, Un marchio in franchising: Forza Italia a livel-
lo locale, in «Rivista Italiana di Scienza Politica», XXIX, 3, 1999.
3
Cfr. T. Marrone, Il Sindaco. Storia di Antonio Bassolino, Rizzo-
li, Milano 1993, pp. 112-130.
4
Per un’analisi aggiornata, e comparata, delle strategie berlusco-
niane di personalizzazione mediatica, cfr. D. Campus, Mediatization
and Personalization of Politics in Italy and France: The Cases of Berlu-
sconi and Sarkozy, in «The International Journal of Press/Politics»,
XV, 2, 2010.
5
Come documentato in numerose analisi empiriche comparate
dei partiti politici, nella scia di A. Panebianco, Modelli di partito, Il
Mulino, Bologna 1988.

Capitolo nono
1
Cfr. A. Pizzorno, I soggetti del pluralismo, Il Mulino, Bologna
1980, pp. 67-98.

Capitolo decimo
1
Cfr. L. Lanzillotta, La riforma della Presidenza del Consiglio dei
Ministri, in «Quaderno dell’Associazione per gli Studi e le ricerche
parlamentari», 13, 2003, pp. 165-175; A. Criscitiello, Il cuore dei go-
verni. Le politiche di riforma degli esecutivi in prospettiva comparata,
Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2004.

Capitolo undicesimo
1
Sul laboratorio medioevale della politica moderna, due riferi-
menti classici sono H.W. Berman, Law and Revolution. The Forma-
tion of the Western Legal Tradition, Harvard University Press, Cam-
bridge 1983 e A. Pizzorno, Politics unbound, in C.S. Maier (a cura di),

161
Changing Boundaries of the political. Essays on the evolving balance
between the state and society, public and private in Europe, Cambridge
University Press, Cambridge 1982, pp. 27-62. Per un inquadramento
di sintesi, vedi M. Calise, Corporate authority in a long-term compara-
tive perspective. Differences in institutional change between Europe
and the United States, in Rechtstheorie, Beiheft 20, 2002, pp. 307-324.
2
Cfr. E.H. Kantorowicz, The King’s Two Bodies: A Study in Me-
dieval Political Theory, Princeton University Press, Princeton 1957 e
S. Bertelli, Il Corpo del Re. Sacralità del potere nell’Europa medievale
e moderna, Ponte alle Grazie, Firenze 1995.
3
M. Duverger, La Monarchie républicaine. Ou comment les dé-
mocraties se donnent des rois, Robert Laffont, Paris 1974.
4
Cfr F. Boni, Il corpo mediale del leader. Rituali del potere e sa-
cralità del corpo nell’epoca della comunicazione globale, Meltemi, Ro-
ma 2002; G. Mazzoleni e A. Sfardini, Politica pop. Da «Porta a Porta»
a «L’isola dei famosi», Il Mulino, Bologna 2009; G. Cuperlo, Par con-
dicio? Storia e futuro della politica in televisione, Donzelli, Roma 2006.
5
Cfr E. Novelli, La turbopolitica. Sessant’anni di comunicazione
politica e di scena pubblica in Italia, 1945-2005, Rizzoli, Milano 2006,
p. 155.
6
V. Zucconi, JFK, il calvario di un presidente. I dolori, le malattie,
i farmaci, in «la Repubblica», 18 novembre 2002, cit. in F. Boni, Il su-
perleader. Fenomenologia mediatica di Silvio Berlusconi, Meltemi, Ro-
ma 2008, pp. 68-69.
7
Sul tema della biopolitica, il riferimento d’obbligo è R. Esposi-
to, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004.
8
Anche grazie a un mai sanato conflitto di interessi, su cui la più
puntuale requisitoria è in G. Sartori, Il sultanato, Laterza, Roma-Ba-
ri 2009, pp. 149-163.
9
J.-J. Rousseau, Discorso sull’economia politica, in Opere, a cura
di P. Rossi, Sansoni, Firenze 1972, cit. in R. Esposito, Immunitas. Pro-
tezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002, p. 139.

Capitolo dodicesimo
1
Questo capitolo riprende, con alcune modifiche, il testo pub-
blicato in «Italianieuropei», 2, 2009.
2
G. Leibholz, La rappresentazione nella democrazia, Giuffrè, Mi-
lano 1989.
3
N. Bobbio, Introduzione, in G. Mosca, La classe politica, Later-
za, Roma-Bari 1975.
4
Una panoramica della letteratura è in M. Calise, Dopo la parti-
tocrazia. L’Italia tra modelli e realtà, Einaudi, Torino 1994.

162
5
M. Calise e R. Mannheimer, Governanti in Italia. Un trentennio
repubblicano (1946-1976), Il Mulino, Bologna 1982.
6
Cfr. L. Vandelli, Sindaci e miti. Sisifo, Tantalo e Damocle nel-
l’amministrazione locale, Il Mulino, Bologna 1997 e R. Catanzaro, F.
Piselli, F. Ramella e C. Trigilia, Comuni nuovi. Il cambiamento nei go-
verni locali, Il Mulino, Bologna 2002.
7
Cfr. M. Cilento, Governo locale e politiche simboliche. Il caso Ba-
gnoli, Liguori, Napoli 2000 e E. Pasotti, Political Branding in Cities.
The Decline of Machine Politics in Bogotà, Naples, and Chicago, Cam-
bridge University Press, New York 2010.
8
Cfr. R. D’Alimonte e S. Bartolini (a cura di), Maggioritario fi-
nalmente? La transizione elettorale 1994-2001, Il Mulino, Bologna
2002.
9
Per un inquadramento storico del dualismo costituzionale, il ri-
ferimento classico è G. Poggi, La vicenda dello stato moderno, Il Mu-
lino, Bologna 1978.
10
Cfr. M. Calise, La Terza Repubblica. Partiti contro presidenti,
Laterza, Roma-Bari 2005.

Capitolo tredicesimo
1
Questo capitolo riprende, con alcune modifiche, il testo pub-
blicato in «Italianieuropei», 3, 2008.
2
A. Parisi e G. Pasquino, Relazioni partiti-elettori e tipi di voto, in
A. Parisi e G. Pasquino (a cura di), Continuità e mutamento elettora-
le in Italia. Le elezioni del 20 giugno 1976 e il sistema politico italiano,
Il Mulino, Bologna 1977, pp. 215-249.
3
Per un riepilogo, e un aggiornamento, di una vastissima lettera-
tura il riferimento d’obbligo è a I. Diamanti, Mappe dall’Italia politi-
ca. Bianco, rosso, verde, azzurro... e tricolore, Il Mulino, Bologna 2009.
4
Per un panorama più ampio degli studi sui comportamenti di vo-
to, cfr. M. Calise, La Terza Repubblica. Partiti contro presidenti, La-
terza, Roma-Bari 2005, pp. 63-77.
5
S. Bolgherini e F. Musella, Voto di preferenza e “politica perso-
nale”: la personalizzazione alla prova delle elezioni regionali, in «Qua-
derni di scienza politica», XIV, 2, 2007, pp. 275-305.
6
L. Di Gregorio, Election, in M. Calise e T.J. Lowi, Hyperpolitics.
An Interactive Dictionary of Political Science Concepts, University of
Chicago Press, Chicago 2010 e www.hyperpolitics.net. Il testo a stam-
pa è la sintesi di una versione più estesa da cui sono tratte le citazioni
in seguito riportate.
7
Per un inquadramento teorico e metodologico di questa ed al-
tre tipologie sviluppate con logica matriciale, si rimanda al capitolo

163
introduttivo, Bringing Concepts Back In, in M. Calise e T.J. Lowi, Hy-
perpolitics cit., pp. 1-25.
8
L. Di Gregorio, Election cit.
9
Ibid.
10
Ibid.
11
In una direzione simile – anche se con sottolineature e argo-
mentazioni diverse – si muovono le belle ricerche di Paolo Natale sul-
la «fedeltà leggera», La fedeltà leggera alla prova: i flussi elettorali del
2006, in R. Mannheimer e P. Natale (a cura di), L’Italia a metà. Den-
tro il voto del Paese diviso, Cairo Editore, Milano 2006, pp. 55-67; e
Mobilità elettorale e fedeltà leggera: i movimenti di voto, in P. Feltrin,
P. Natale e L. Ricolfi (a cura di), Nel segreto dell’urna, Utet, Torino
2007.

Conclusioni
1
Cfr. A.O. Hirschman, Ascesa e declino dell’economia dello svi-
luppo, Rosenberg & Sellier, Torino 1983.
2
Cfr. G. Roth, Potere personale e clientelismo, Einaudi, Torino
1990.
INDICE

Premessa VII

Introduzione Dieci anni dopo 3

Parte prima
Il partito che non c’è
1. La spirale del silenzio 13
2. Il tramonto dei dinosauri 19
3. Il fantasma di Rousseau 29
4. La frontiera americana 37
5. La rivincita inglese 46

Parte seconda
Il ritorno del capo
6. I partiti personali 59
7. I prìncipi democratici 69
8. Il cavaliere senza paura 80
9. I capitani di ventura 91
10. Il partito del premier 99

165
Parte terza
I due corpi del leader
11. Il corpo politico 109
12. Le radici perdute 125
13. Ragioni, interessi, passioni 137

Conclusioni L’altra faccia di Weber 147


Note 157

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