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DIZIONARIO
DI ECONOMIA
CIVILE
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Comitato editoriale:
In copertina:
ISBN 978-88-311-…….
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INTRODUZIONE
di Luigino Bruni e Stefano Zamagni
scena fino alla metà del Settecento. Gli autori dei lemmi non condivi-
dono le medesime tecniche di analisi né avanzano una proposta unita-
ria circa il modo di trattare la relazionalità come categoria di discorso
economico. Tuttavia, un elemento li accumuna tutti: la presa d’atto che
lo scienziato sociale non fa un buon servizio a sé e soprattutto alla so-
cietà se continua ad ignorare la relazione intersoggettiva nella spiegazio-
ne dei fatti economici. È veramente paradossale, ad esempio, che una
disciplina come l’economia che da sempre, fin dai suoi albori discipli-
nari, si occupa in maniera essenziale di rapporti tra uomini che vivono
in società (si pensi all’attività di produzione di beni e servizi; alle scelte
di consumo; agli scambi di mercato; all’assetto istituzionale e così via)
non abbia avvertito la necessità – salvo rare eccezioni – di fare i conti
con l’intersoggettività. C’è senza dubbio anche lo studio dei rapporti tra
uomo e natura nell’agenda dell’economista, ma non si potrà certo soste-
nere che la cifra del discorso economico stia in questo tipo di studio. A
meno che si voglia ridurre l’economia ad una sorta di ingegneria socia-
le; che si voglia cioè portarla fuori del novero delle “moral sciences”.
ci, quella «a trafficare, barattare e scambiare una cosa per l’altra» – co-
me ha scritto Adam Smith. E così è stato nella ricerca economica – sal-
vo sporadiche eccezioni – nel corso degli ultimi due secoli. Teorie quali
quella dei contratti, dell’organizzazione d’impresa, dei prezzi, delle for-
me di mercato e altre ancora non hanno alcun bisogno di scomodare la
categoria di persona: basta l’individuo ben informato e razionale.
Oggi, però, si è arrivati al punto in cui anche il più “distaccato” degli
economisti deve ammettere che se si vogliono aggredire problemi affat-
to nuovi delle nostre società, quali: l’aumento endemico delle disugua-
glianze, lo scandalo della fame, la ricorrenza di crisi finanziarie di vaste
proporzioni, l’irrompere dei conflitti identitari che si aggiungono ai ben
noti conflitti di interesse, il benessere e malessere lavorativo, i parados-
si della felicità, la sostenibilità dello sviluppo, le organizzazioni, ecc.,
non è più possibile che la ricerca si autoconfini in una sorta di limbo an-
tropologico. Occorre prendere posizione scegliendo il punto di osser-
vazione dal quale scrutare la realtà. Diversamente, la disciplina econo-
mica continuerà anche a dilatarsi e ad accrescere il proprio apparato
tecnico-analitico, ma se non esce dalla sua autoreferenzialità sarà sem-
pre meno capace di far presa sulla realtà e quindi sempre meno capace
di suggerire linee efficaci di azione. Nessuno può negare che questo è il
vero rischio cui va incontro, oggi, la scienza economica e, in un certo
senso, anche la scienza sociale in generale.
Per timore di esporsi nei confronti di una precisa opzione antropologi-
ca, non pochi economisti preferiscono rintanarsi nella sola analisi, de-
dicando crescenti risorse intellettuali all’impiego di sempre più raffina-
ti strumenti logico-matematici. Ma mai potrà esserci un trade-off tra ri-
gore formale del discorso economico – che tuttavia è indispensabile – e
la sua capacità di spiegare, cioè di interpretare i fatti economici. Anche
perché mai si dimentichi la realtà del c.d. “circolo emeneutico” e cioè
che la produzione di sapere economico, mentre va a plasmare o modi-
ficare le mappe cognitive degli attori economici, interviene anche sul lo-
ro apparato disposizionale e sul loro sistema motivazionale – ovvero sul
loro carattere, come Alfred Marshall, alla fine dell’Ottocento, si espri-
meva. Quanto a dire che le teorie economiche sul comportamento uma-
no influenzano, tanto o poco, presto o tardi, il comportamento stesso e
pertanto non lasciano immutato il loro campo di studio. Ecco dunque
il secondo obiettivo che abbiamo desiderato assegnare a questo Dizio-
nario: contribuire a far sì che la scienza economica riesca a superare il
forte riduzionismo di cui va soffrendo. Ciò che rappresenta sia il prin-
cipale ostacolo all’ingresso di nuove idee nella disciplina, sia una forma
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introduzione
pericolosa di protezionismo nei confronti non solo della critica che sa-
le dai fatti, ma anche di tutto ciò che di innovativo proviene dalle altre
scienze sociali.
tratta di una costruzione che rinvia ad una precisa visione del mondo,
quella dell’individualismo assiologico. È questa la vera infrastruttura fi-
losofica su cui poggia l’assunto di homo oeconomicus.
Ecco perché la riduzione dell’esperienza umana alla dimensione “conta-
bile” della razionalità strumentale (cioè al modello della rational choice)
non è soltanto un atto di arroganza intellettuale: è in primo luogo una
grave fallacia metodologica. Non si può far credere che la scelta dell’h o -
mo oeconomicus sia dettata da considerazioni di natura empirica o di co-
modità analitica. Perché ciò non è vero come documenta sia l’economia
sperimentale sia l’evidenza empirica. Ma soprattutto perché l’assunto di
individualismo ha la natura dell’asserto ontologico che, in quanto tale, va
giustificato proprio su tale piano. La vera questione è dunque quella del-
l’allargamento di una qualunque accezione sostenibile della razionalità al-
l’intelligenza del senso sociale del comportamento, che non può prescin-
dere da una sua precisa contestualizzazione spaziale, temporale e cultura-
le. La ragione profonda di questo insoddisfacente stato di cose è a nostro
parere dovuta al fatto che la teoria economica ufficiale si è focalizzata su
una descrizione del comportamento umano pressoché interamente cen-
trata sulle finalità di tipo acquisitivo. Da un punto di vista economico, il
comportamento umano è rilevante nella misura in cui serve a far ottene-
re agli individui “cose” (beni o servizi) che ancora non hanno e che pos-
sono aumentare significativamente il loro grado di benessere. Pertanto, è
razionale l’uomo che sa come “procurarsi ciò che gli serve”. Che la no-
zione di razionalità possa comprendere una accezione esistenziale e che
questa possa entrare in conflitto più o meno radicalmente con la dimen-
sione acquisitiva del comportamento è questione che il mainstream non
riesce a tradurre sensatamente in un orizzonte di senso economico.
C’è dunque bisogno di passare dall’homo oeconomicus all’animal civile
e dunque di far posto al principio del dono dentro (non a latere) la teo-
ria economica. La forza del dono non sta nella cosa donata o nel quan -
tum donato – così è invece nella filantropia o nell’altruismo – ma nella
speciale qualità umana che il dono rappresenta per il fatto di essere re-
lazione. È pertanto lo specifico interesse a dar vita alla relazione tra do-
natore e donatario a costituire l’essenza dell’azione donativa, la quale
può bensì coltivare un interesse, ma questo ha da essere un interesse per
l’altro, mai un interesse all’altro. È in ciò il valore di legame, terza cate-
goria di valore che si aggiunge alle altre due: il valore d’uso e il valore
di scambio. Dilatare l’orizzonte culturale della ricerca economica fino
ad includervi il valore di legame è oggi la sfida intellettuale che gli au-
tori di questo Dizionario hanno inteso raccogliere.
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introduzione
ternità, che non possono essere eluse, né rimandate alla sola sfera pri-
vata o alla filantropia. Al tempo stesso, l’economia civile non è con chi
combatte i mercati e vede l’economico in endemico e naturale conflitto
con la vita buona, invocando una decrescita e un ritiro dell’economico
dalla vita in comune. L’economia civile, invece, propone un umanesimo
a più dimensioni, nel quale il mercato non è combattuto o “controlla-
to”, ma è visto come un luogo civile al pare degli altri, come un momen-
to della sfera pubblica, che se concepito e vissuto come luogo aperto
anche ai principi di reciprocità e di gratuità, può costruire la città.
Il mercato sta oggi occupando la nostra vita, entrando anche negli am-
biti più intimi delle nostre relazioni. Possiamo cercare di difenderci, e
vivere questo passaggio come un male necessario. Possiamo, invece,
cercare di far diventare baby-sitter, badanti, infermiere, maestre, alleati
in un nuovo patto sociale dove interpretiamo e viviamo anche il merca-
to come un pezzo di vita, come economia civile. Noi non abbiamo dub-
bi sulla via da seguire.
RINGRAZIAMENTI
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introduzione
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Accountability
Accountability
Il termine inglese accountability è difficilmente traducibile in italiano
perché non esprime pienamente il significato inglese di: dovere di spie -
gare cosa si è fatto per adempiere ad una responsabilità nei riguardi di
qualcuno.
L’accountability di ogni tipo di →azienda si attua principalmente pre-
sentando al pubblico dati, contabili e non, informazioni e osservazioni
in prosa che esprimono “cosa si è fatto per adempiere alle proprie re-
sponsabilità”.
Lasciando da parte gli strumenti di comunicazione ad uso interno ge-
stionale, come la contabilità direzionale, i budget, ecc., l’azienda comu-
nica continuamente in vario modo con tutti gli →stakeholder che in es-
sa convergono, ma solo una parte dei documenti presentati al pubblico
ha le caratteristiche dell’accountability. Comuni requisiti per tutti i do-
cumenti di questo tipo, oltre ovviamente l’attendibilità di dati e infor-
mazioni, sono la neutralità, la completezza rispetto al fine informativo
dichiarato e l’inclusione di tutti i dati, informazioni e osservazioni in
prosa che sono necessari per una reale resa del conto completa a tutti
gli stakeholder.
I documenti presentati al pubblico senza finalità di accountability, co-
me: comunicati stampa, brochure e spot pubblicitari, non si presenta-
no invece come resa del conto neutrale, inclusiva e riferita al comples-
so dell’istituzione perché hanno solo lo scopo di comunicare, sempre in
modo veritiero, al pubblico aspetti e azioni particolari. Questi docu-
menti sono percepiti come tali dal pubblico che, se opportunamente in-
formato, è in grado di non confondersi tra ciò che è e ciò che non è ac -
countability.
Esistono del resto documenti non finalizzati all’accountability particolar-
mente rilevanti; si pensi ad un comunicato stampa volto a contrastare un
giudizio pubblico delegittimante riguardo a disservizi ai clienti o a casi
di corruzione. Un tale documento, ovviamente se sincero, costituisce
un’importante fonte informativa, ma preso isolatamente non pratica l’a c -
countability poiché manca di neutralità. Potrebbe però diventare un ele-
mento del sistema di accountability dell’azienda qualora fosse inserito in
una relazione degli amministratori o in un →bilancio sociale.
I documenti senza finalità di accountability hanno i vincoli legali ed eti-
ci di non essere menzogneri e di rispettare la personalità di chi li rice-
ve, per non arrivare a manipolazioni ed inganni. È questo un punto de-
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Accountability
licato sul quale non ci si sofferma; in ogni caso la condivisione del rifiu-
to della palese menzogna è comune, a meno di non ritenere vitale e pro-
spera nel lungo periodo una società civile che legittima la menzogna, af-
fermazione che si può facilmente smentire sul piano etico, sia con argo-
menti utilitaristici, sia su basi di deontologia kantiana ed infine in rela-
zione alla dottrina del →Bene comune come inteso dalla Dottrina So-
ciale della Chiesa cattolica.
Per quanto riguarda la manipolazione della persona umana, il discorso
è più complesso. In linea di principio è condivisa l’idea che la persona
umana è un valore prioritario; su come ciò si concretizzi in relazione al-
l’uso di strumenti comunicativi con finalità persuasiva/suggestiva e ri-
volta all’inconscio non vi è concordia. Sull’argomento è in corso un’am-
pia discussione nell’ambito della business ethics (→etica aziendale): in
particolare si veda il dibattito, fra tesi pro e tesi contro, a partire dal sag-
gio di Carr (1968) che legittima la pubblicità esagerata, paragonandola
al bluff del poker.
I documenti con finalità di accountability hanno anch’essi i vincoli etici
indicati in precedenza, ma la loro informazione deve avere in più le ca-
ratteristiche di neutralità, inclusione e rappresentazione dell’intera atti-
vità aziendale.
Ogni documento ha i suoi specifici principi, ma alcune caratteristiche es-
senziali dei documenti di accountability vanno puntualizzate per capirne
la natura: laneutralità implica che il documento debba «…essere impar-
ziale ed indipendente da interessi di parte o da particolari coalizioni»
(GBS 2007, p. 21), mentre l’inclusione comporta la necessità di rispon-
dere alle esigenze informative di resa del conto di tutti gli stakeholder i n-
teressati, motivando, in modo esplicito, un’eventuale esclusione.
L’esigenza di rappresentare l’intera attività aziendale deriva dalle finali-
tà per cui sono redatti i documenti di accountability, la cui resa dei con-
ti è finalizzata ad un giudizio che ha anche una funzione legittimante.
Si può parlare di una legittimazione di tipo giuridico-istituzionale, ri-
ferita a come la legge configura obblighi e finalità costitutive di
un’azienda (profit e →non profit, privata e pubblica, ecc.), e di una le-
gittimazione socio-morale generale, anch’essa importante per la so-
pravvivenza di lungo periodo dell’istituzione. Si tratta di due missioni
complementari, che si collegano alla rendicontazione di accountability
pur avendo una differente ottica: il bilancio d’esercizio cui si aggiun-
gono quelli di missione (→bilancio multidimensionale) per le aziende
non profit e le pubbliche, anche territoriali, e quelli di mandato per le
seconde) deve rispondere al primo tipo di legittimazione, mentre il bi-
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Accountability
FIGURA 1
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Accountability
GIANFRANCO RUSCONI
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Agostino
Agostino
L’economia civile può rinvenire in Agostino (354-430) una significativa
consonanza sui temi che le stanno a cuore, a partire dalla delucidazio-
ne dei fondamenti di un’ontologia relazionale, da cui può discendere
un’antropologia che vede l’uomo come essere in relazione.
Tale ontologia scaturisce dall’indagine agostiniana sul dogma trinitario.
Infatti, per Agostino (cf. specialmente La Trinità, libro V) Dio è uno e
trino, è una sostanza in tre Persone, che non sono tre dèi, ma un solo
Dio. Precisamente, ogni Persona è in modo esclusivo la Relazione che
intrattiene con le altre: solo il Padre è Padre, solo il Figlio è Figlio, so-
lo lo Spirito è Spirito.
Ora, siccome l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio (Gn 1,
26-27), in lui si deve riscontrare una qualche somiglianza del Dio Uno-
Trino. Così, Agostino propone molteplici analogie. Ad esempio, nel-
l’uomo si trovano la memoria, l’intelligenza-conoscenza e la volontà-
amore. E come nell’uomo ci sono tre potenze-facoltà (memoria, intelli-
genza, volontà) distinte tra di loro, ma unite nell’essere, perché radica-
te in una sostanza che è appunto l’uomo, così in Dio ci sono tre Perso -
ne (Padre, Figlio e Spirito) distinte tra di loro, ma unite in una sostanza
che è appunto Dio.
Agostino, che conosce le categorie di →Aristotele, rifiuta di considera-
re la relazione tra le Persone trinitarie come un mero accidente della so-
stanza: «la relazione non è un accidente, perché non è mutevole» (La
Trinità, V, 5, 6). Per esempio (per quanto segue sull’ontologia agostinia-
na citiamo da Samek Lodovici 1979, pp. 163-179, 215, 254, 326), la pre-
dicazione di Padre relativamente al Figlio non è la predicazione di un
accidente, in quanto questa predicazione è eterna, ma non è nemmeno
una predicazione secondo la sostanza (in tal caso il Padre e il Figlio sa-
rebbero due sostanze diverse) e tuttavia è reale: «“Padre” è una relazio-
ne sussistente, dotata di vera realtà».
Anche l’uomo è un’unione di relazioni. Anzitutto, le potenze dell’ani-
ma sono distinte nelle loro operazioni (per esempio il conoscere è di-
stinto dall’amare), ma la loro sussistenza non è assoluta, bensì è il risul-
tato della relazione che ciascuna intrattiene con le altre. Inoltre, «l’in-
sieme delle potenze», rispetto all’anima «non è coglibile secondo il rap-
porto sostrato-attività»: l’anima «non è una cosa a cui ineriscono delle
operazioni; ma è un’unità di relazioni». Precisamente, la mens-anima è
nelle sue operazioni in quanto si esplicita in loro. Lo stesso dicasi del
rapporto anima-corpo, che non sono tra loro né puramente estrinseci,
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Agostino
mo). Anche per Agostino, sulla scorta di buona parte dei classici, l’uo-
mo è un essere sociale, «è portato dalla sua natura a vivere in società».
È vero che Dio all’inizio ha creato solo Adamo; però l’uomo «è stato
creato solo, ma non è stato lasciato solo. Nessun [altro] genere di crea-
ture è così soggetto [come quello umano] alla discordia per vizio, ma
così socievole per natura. La natura umana non potrebbe trovare argo-
mento più efficace contro il vizio della discordia […] che ricordando
quel progenitore che Dio volle creare da solo e dal quale poi far propa-
gare la moltitudine umana, perché con questo avvertimento si potesse-
ro conservare la concordia e l’unità anche in una moltitudine» (La città
di Dio, XIX, 12, XII, 28 e XII, 22).
La stessa vita dell’Ipponate è stata segnata da profonde esperienze di
comunione e di amicizia, un tema sul quale Agostino ha scritto delle pa-
gine toccanti e memorabili (per es. Confessioni, IV).
Ancora, bisognerebbe (cf. Bettetini 2008, cap. VII) forse revocare in
dubbio la tesi di chi, pur autorevole, ha scritto che Agostino ha condan-
nato lo Stato.
Quanto alla felicità, Agostino la connette strutturalmente al rapporto
con Dio; ma anche, in seconda battuta, al rapporto con gli altri. Così, il
linguaggio «permette agli uomini riuniti in società di comunicarsi tra lo-
ro i propri pensieri, perché la vita in società non sia peggiore di qualun-
que solitudine, come accadrebbe se gli uomini non si comunicassero i
loro pensieri» (La Trinità, X, 2). Ancora, «che cosa può consolarci in
questa società umana, piena di errori e tribolazioni, se non una fede au-
tentica ed un amore scambievole fra veri e buoni amici?» (La città di
Dio, XIX, 8).
Infine, Agostino ha colto la natura paradossale della felicità, che non
è direttamente intenzionabile, bensì è un dono che arride al virtuoso.
Infatti, commentando il passo evangelico: «Chi ama la propria anima
la perderà, e chi l’avrà perduta per causa mia la conserverà per la vi-
ta eterna» (Gv 12, 25), Agostino spiega (Discorsi, 313/C; 331; 368):
«Chi ama la propria anima in questa vita, la perderà nella vita futu-
ra; chi ama la propria anima per l’eternità, la perderà in questo mon-
do. […] Ma questi che disse: Per causa mia, egli è il vero Dio e la vi -
ta eterna».
Albertano da Brescia
Nato negli anni ’90 del XII secolo, Albertano da Brescia fu giurista e
letterato. Sfortunatamente le notizie sulla sua vita sono scarne ed appe-
na accennate dallo stesso Albertano nei prologhi e negli explicit dei suoi
trattati. In particolare, ci fa notare Oscar Nuccio, sarà Th. Sundby, nel-
l’introduzione ad un’edizione del Liber Consolationis et Consilii, a sud-
dividere la vita del giurista bresciano in due periodi: il primo, che non
va oltre il 1238, durante il quale Albertano svolgerà un’intensa attività
pubblica, ed il secondo, che va dal 1238 al 1250-53 – è incerto l’anno
della morte – caratterizzato da una vivace produzione letteraria.
Per quanto concerne il primo periodo, Albertano fu protagonista di im-
portanti vicende politiche dell’epoca. In particolare, il 7 aprile del 1226
partecipò a Mosio, insieme agli ufficiali del podestà di Brescia, alla con-
ferma dei patti giurati della Seconda Lega, alla quale aderirono le città
lombarde contro Federico II. Nel 1231, come conseguenza del rientro
dell’imperatore dalla Terra Santa, presenziò in qualità di Sindaco di
Brescia il rinnovo della Lega, alla quale aderirono le città di Mantova e
di Ferrara. Nel 1238, difendendo la città di Brescia, cinta d’assedio dal-
le armate di Federico II, venne fatto prigioniero e tradotto nel carcere
di Cremona, dove scrisse il suo primo trattato: Liber de Amore ed dilec -
tione Dei et proximi et Aliarum Rerum, et de Fortuna Vitae. Le notizie
certe sull’impegno politico di Albertano si esauriscono proprio nel
1238, mentre non abbiamo più notizie sulla sua vita oltre il 1250-53.
Nel 1243, recandosi a Genova, scrisse il suo primo sermone: Sermo in -
ter causidico et quondam notarios super confirmatione vitae illorum (Al-
bertano 1994); nel 1245 scrisse il secondo trattato: Liber de doctrina di -
cendi et tacendi (Albertano 1732); nel 1246 il terzo trattato: Liber Con -
solationis et Consilii (Albertano 1732); proprio questo trattato ebbe un
successo inaudito durante tutto il Medioevo, se è vero che furono redat-
te ben tre edizioni di volgarizzamenti, la prima nel 1268, a Parigi ad
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Albertano da Brescia
Una precettistica che riguarda l’agire economico che appare come il ri-
sultato di una ponderazione delle esigenze spirituali del fidelis con l’esi-
stenza terrena dell’“uomo naturale”, espressione di quella “concezione
bipolare” della vita e della cultura, che, sebbene non ancora del tutto
esplicita, risulta comunque presente nelle opere del Bresciano.
In particolare, Albertano affronta l’ineludibile tema dell’avarizia tanto
nel Liber Consolationis quanto nel trattato morale Liber de Amore ed di -
lectione e specificatamente nel capitolo relativo alla Dilezione dell’altre
cose. Mentre nel primo capitolo aggredisce il tema dell’avarizia median-
te gli argomenti classici che indicano le «rascioni» che devono spingere
gli individui a «schifare l’avarizia», nel secondo – «Poi ch’à auto ne li-
bro de l’Amore e de la dilezione di Dio e del prossimo» – l’enfasi è po-
sta sulle «altre cose»; e tra le altre cose Albertano indica le «cose cor-
porali». Riportiamo dal testo volgarizzato da Andrea da Grosseto alcu-
ni brani significativi: «Et le cose corporali son quelle che si possono toc-
care e vedere, secondo che l’auro e argento, danari, terra, vestimenta e
molte altre cose». Ebbene, secondo Albertano, tali «cose corporali», a
condizione che non si «trapassi ’l modo», sono da amare. Di conse-
guenza, è necessario che le persone si avvalgano della ragione per fare
il miglior uso delle cose temporali; e scrive a tal proposito: «Sappia ad-
dunque la discrezion tua et cognosca le cose temporali e corporali che
son da amare». Lo logica bipolare di cui parla il Nuccio si manifesta in
questo ulteriore brano tratto sempre dal medesimo scritto: «Però che,
secondo che ’l corpo sanza l’anima non può vivere, così ’l corpo dell’uo-
mo non può lungo tempo durare sanza la sustanza temporale; però che
’l mangiare e ’l vestire è si bisognoso al corpo, che per neun potrebbe
durare senz’essa». È manifesto in questi brani di Albertano un profon-
do e sano realismo che guida il Bresciano nell’individuazione del limite
entro il quale le persone sono tenute ad amare le ricchezze di quaggiù
e di provvedere con saggezza all’acquisto di tutto ciò che è utile al be-
nessere (“bene vivere”).
Dalle parole dell’Albertano si evincerebbe anche il superamento del
principio scolastico del “necessario”, posto come limite morale all’ac-
cumulo dei beni. Il moralismo di Albertano si laicizza nel momento
stesso in cui egli giunge a riconoscere la funzione socialmente positiva
svolta dal possesso della “pecunia”. Basti leggere questi brevi estratti
del trattato morale di Albertano per cogliere in modo cristallino il rico-
noscimento della positività della ricchezza: «Le pecunie glorificano co-
lor che son privati di gentilezza; et la povertà invilanisce la casa ch’è al-
ta di gentilezze»; ed ancora, con maggior forza espressiva: «Et intanto
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Albertano da Brescia
fanno ‘pro le temporali ricchezze, che, quando elle vengono meno, di-
venta l’uomo povero, mendico e ladro, e acquistane ognie mal vizio».
L’etica economica di Albertano, dunque, piuttosto che invitare ad
“ischifare” le cose del mondo, invita ad amarle, «pur che non si trapas-
si ’l modo»; il limite posto dal Bresciano non è dato dal necessario –
quia ultra tendit malum inventi di Pietro Lombardo – bensì dall’ismo -
deratezza: «Unde disse il filosofo: ne le cose, e modo e fini son certi, oltr
a’ quali né infra quali non può essere neuna cosa dritta. Convienti ad
dunque ristringer l’amor d’aver le ricchezze temporali a ciò che non sia
ismoderato; però che lo smodrato amore d’avere trae a sé tutt’i vizi. Et
puosi chiamare per ragione avarizia». L’“avarizia” trattata da Alberta-
no, ci fa notare Nuccio, non è la cupiditas di possedere più di quanto sia
necessario, bensì lo «smoderato amore di avere», fonte di tutti i vizi.
Sempre in tema di ricchezza o, più precisamente, del modo in cui gli in-
dividui si dovrebbero relazionare con essa, proseguendo nel trattato Li -
ber de Amore ed dilectione, Albertano indica i modi di acquistare e con-
servare le ricchezze, premettendo che si può essere ricchi e giusti, e por-
ta come esempio Giuseppe d’Arimatea: «Grandemente ti de’ studiare in
acquistare e conservare le ricchezze, et aver tre compagnie, cioè: Dome-
neddio e la coscienza e la buona fama; o almeno due; cioè: Dio e la co-
scienza […] Et certo, secondo li comandamenti di Dio e de’ suoi santi,
puoi avere dirittamente [e] possedere le ricchezze […] Anche, nel Vange-
lio si leggie di Giusep ab Arimazia, che era gentile uomo, e ricco, e giu-
sto, e discepolo di Dio, avegnia che privato per paura di giudei. Ad dun -
que puoi acquistare e possiedere le ricchezze, ma non vi ponere ’l core».
L’acquistare ed il possedere beni terreni non sono semplici forme di ac-
cettazione passiva della ricchezza, in un contesto sociale statico nel qua-
le lo status di ricco coincide con l’aver ereditato un patrimonio. In real-
tà Albertano si riferisce in particolar modo alla ricchezza acquisita, ossia
guadagnata con il lavoro, che non è mera fatica, ma il deliberato eserci-
zio delle conoscenze professionali e il retto uso della ragione impiegata
a fini produttivi. Scrive Albertano: «Et naturalmente sono onesti li gua-
dagni se son fatti con giustizia, per li quali neuna persona è danneggia-
ta; et quello onesto acquistato che non si domandò da neun segniore; et
que’ son veri guadagni che noi comandiamo per adiuto d’interezza». Re-
sta ferma la condanna nei confronti della ricchezza guadagnata median-
te la frode e l’inganno: «Et de’ schifare d’acquistare con rapina e con al-
tro pericolo», mentre emerge con forza l’esortazione del causidico a pro-
curarsi ricchezze attraverso l’operosità, l’intelligenza e la creatività: Ac -
quista addunque onesti guadagni. L’operosità, a cui Albertano esorta l’uo-
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Albertano da Brescia
più santa che non vivere in ozio nella solitudine […] la santità della vi-
ta operosa innalza l’esistenza di molti» (Nuccio 1985, p. 1294). I tratti
più significativi dell’etica economica di Albertano, allora, si possono
sintetizzare nell’elogio del lavoro, nella consacrazione del guadagno,
nella condanna dell’ozio e della povertà; tutti insieme, tali elementi «so-
stanziano anche la precettistica d’Albertano, frutto d’una esperienza vi-
va e sofferta nella travagliata e cangiante società lombarda della prima
metà del Duecento» (Nuccio 1985, p. 1294).
Tutt’altro che personaggio minore del Medioevo, Albertano è figura
emblematica di un’epoca di passioni politiche e culturali. Fu un auten-
tico protagonista negli anni della Seconda Lega, manifestando con la
sua stessa vita i valori della pace, della concordia e dell’armonia che poi
seppe rappresentare nei trattati morali e nei sermoni. Tuttavia, era altre-
sì convinto che quegli stessi valori non fossero assoluti, in quanto pote-
va accadere che essi dovessero essere sacrificati nel nome di valori più
elevati: fede, libertà, giustizia e patria. Albertano con la sua opera rap-
presenta un’idea di uomo a tutto tondo che si affaccia alla modernità. Il
Bresciano è sicuramente una figura di cerniera tra il passato ed il pre-
sente, tra classicismo e cristianesimo, tra rivelazione maggiore e rivela-
zione minore, tra fede e ragione, tra anima e corpo. Albertano riesce ad
armonizzare i diritti ed i doveri degli individui, proponendo un ideale
di rinnovamento sociale che tenga insieme giustizia e libertà. Albertano
«non è soltanto nobilissima voce del Medio Evo che ha riscoperto l’uo -
mo naturale, ancor prima dell’età dell’anglo-olandese Bernard de Men-
deville e dello scozzese Adam Smith, ma pure uno dei molti intelligen-
ti e forti spiriti della rinata Italia che dopo il Mille trasforma i fattori po-
litici ed economici in forze morali ed al mondo elargisce la “nuova civil-
tà umanistica”» (Nuccio, 2005, p. 84).
Sulla scia di Menger, Mises, Popper e Hayek, possiamo affermare che
allo scienziato sociale spetti precipuamente l’avvincente opera di inter-
pretare e di spiegare le istituzioni ed i fenomeni politici ed economici,
in quanto esiti non intenzionali delle azioni intenzionali, prodotti “irri-
flessi” del coesistere di azioni umane volontarie finalizzate alla rimozio-
ne di uno stato d’insoddisfazione. È compito dell’economista analizza-
re e rendere ragione dei nessi causali che gettano luce sul modo in cui
l’interazione, la trasformazione e la selezione di paini individuali possa-
no far emergere istituzioni sociali come i prezzi di mercato, il saggio
d’interesse, la rendita fondiaria, il profitto dell’imprenditore e quant’al-
tro, andando ben oltre la capacità di progettazione dei singoli operato-
ri (Menger 1996, p. 151). Riteniamo che Albertano abbia saputo mette-
34
Albertano da Brescia
FLAVIO FELICE
35
vocabolo
Alterità
Riconoscimento di una differenza, qualificabile, nella sua forma più
propria, come condizione costitutiva della relazione interpersonale (dal
lat. alteritas, che traduce il gr. eterotes, nel quale è però incluso anche il
significato polemico di assenza o rifiuto della relazione). I due aggettivi
pronominali corrispondenti (gr. eteros, lat. alter) si differenziano dalla
coppia allos/alius: mentre alius indica l’altro come unità indefinita di
una serie, in un contesto per lo più impersonale, in alter la radice (al-)
è integrata da un suffisso comparativo (-ter) e attesta un confronto di-
retto, entro un processo di personalizzazione/riconoscimento. Alter
può assumere quindi i significati di “uno dei due” (necesse est, sit alte -
rum de duobus), “secondo” (altero die), “posto di fronte” (altera pars),
“prossimo” (qui nihil alterius causa facit).
Il pensiero classico incontra il problema interrogandosi intorno alla rela-
zione fra l’uno e i molti, di cui offre interpretazioni diverse. Includendo
l ’altro o il diverso tra i cinque generi sommi (accanto a movimento, quie-
te, essere, identità) come dimensioni costitutive dell’essere (Soph. 253 c-
258 e), Platone compie nel Sofista un ideale “parricidio” nei confronti di
Parmenide e della sua concezione statica e monolitica dell’essere, in no-
me di un’articolazione dinamica e plurale dell’ontologia. Esplorando ta-
le nozione nella sua fondamentale polivocità, →Aristotele la riconosce
come propria di ogni ente in rapporto con altri enti (Metaph. 1054 a-
1059 a). Nella vita intersoggettiva, in particolare, essa chiama in causa la
virtù della giustizia, paradigma supremo delle altre virtù etiche. Per tut-
to il pensiero antico, il rapporto tra l’io e l’altro raggiunge nell’esperien-
za pubblica e civile dell’amicizia un vertice esemplare di →reciprocità,
quando consente all’ego di riconoscere l’amico come vero e proprio alter
ego (cf. Aristotele, Eth. Nic. 1170 b 5; Orazio, Carm. 1, 3-8; Ovidio, Trist.
4, 4, 32; Cicerone, Laelius 6, 20; Agostino, C o n f. 4, 6, 11).
In un diverso approccio, tipico della tradizione neoplatonica, il rappor-
to tra l’uno e i molti appare capovolto: l’alterità è una forma transitoria
di alterazione dell’ordine originario e di allontanamento dall’Uno, risul-
tato di un processo di generazione delle altre ipostasi, superabile attra-
verso un percorso contrario di riunificazione. Al problema teoretico
della genesi dei molti dall’Uno (che in Plotino è il risultato di un pro-
cesso di emanazione per sovrabbondanza, mentre nello gnosticismo è
frutto di uno scontro cosmico tra forze contrapposte) corrisponde un
percorso etico di purificazione spirituale in vista del ritorno alla patria
originaria.
36
Alterità
LUIGI ALICI
Antonino da Firenze
Antonio Pierozzi, detto Antonino (1389-1459), nacque a Firenze dal no-
taio ser Niccolò. Entrato nell’Ordine domenicano riformato di Giovanni
Dominici nel 1404, fu priore del convento di San Marco a Firenze dal
1438 e arcivescovo della città dal 1446 alla morte. Fu canonizzato nel
1523. Per la sua fama di canonista e consigliere, rapidamente diffusasi an-
cor prima che ascendesse alla cattedra episcopale, fu detto Antonino dei
Consigli. Sue opere principali sono le due vaste raccolte conosciute con i
titoli, attribuiti posteriormente, di Summa theologica o Summa moralis,
un trattato di teologia morale che ebbe notevole diffusione e rappresen-
39
Antonino da Firenze
LUCA CLERICI
Aristotele
La sua prospettiva presenta molteplici sintonie con l’economia civile: an-
zi, per la sua antropologia e per la sua etica filosofica, Aristotele (384/383
a.C. - 322 a.C.) può esserne considerato un precursore fondamentale.
42
Aristotele
È vero che nella sua ontologia Aristotele tratta la relazione tra le cate-
gorie accidentali della sostanza come una determinazione estrinseca al-
la natura degli enti, uomini compresi (Metafisica, 1028 a 7ss.; Categorie,
7, 6a 36ss.).
Ma, d’altra parte, per lo Stagirita l’uomo è un «essere socievole» (Poli -
tica, 1253 a 3; Etica Nicomachea, 1169 b 18, di seguito EN), cioè un es-
sere strutturalmente orientato alla relazione interpersonale, per (alme-
no) tre motivi: perché ha materialmente bisogno degli altri (appena na-
to dev’essere protetto e nutrito e, anche in seguito, la divisione del la-
voro consente a ciascuno di poter ottenere i beni materiali che gli inte-
ressano; perché ha bisogno degli altri in senso etico, dato che ognuno
riceve dagli altri insegnamenti, incoraggiamenti, trova negli altri dei
modelli a cui ispirarsi e dei compagni nel cammino della vita moralmen-
te buona; perché è ontologicamente proteso a vivere insieme agli altri,
anche quando non ne ricava alcuna utilità materiale ed etica.
Aristotele mette in luce in modo illuminante la specificità della comu-
nicazione umana: «l’uomo, solo tra gli animali, ha la parola: la voce in-
dica ciò che è doloroso e gioioso e pertanto la possiedono anche gli al-
tri animali […], ma la parola è fatta per esprimere […] il giusto e l’in-
giusto: questo, infatti, è proprio dell’uomo rispetto agli altri animali, di
avere, egli solo, la percezione del giusto e dell’ingiusto e degli altri va-
lori» (Politica, 1253 a 10-18, corsivo nostro). Mentre l’animale vede nel-
le cose che incontra solo l’utilità/dannosità (chiede: «è piacevole/dolo-
rosa?»), l’uomo, poiché è razionale, indaga anche la natura delle cose
(chiede: «che cos’è questa cosa?»), vuole conoscerle a prescindere dal-
la loro eventuale utilità/dannosità, e si interroga sul bene e sul male, sul
giusto e l’ingiusto, sul bello ed il brutto. Così, mentre l’animale si limi-
ta a manifestare le sensazioni piacevoli/spiacevoli che prova, l’uomo è
in grado altresì di esprimere la verità sul mondo e sul bene, ed il suo lin-
guaggio non è meramente strumentale, volto solo al conseguimento di
qualcosa (segnalare un pericolo, richiedere cibo, richiamare attenzione,
ecc.), bensì è anche rivelativo. L’uomo, dunque, è un animale parlante
(Politica, 1253 a 9; Anima, 420 b 5 - 421 a 6) e ciò gli consente di esse-
re un “animale sociale”.
Ora, per Aristotele, le azioni umane non devono essere governate dalla
sola ricerca dell’utilità: gli uomini dediti solo al piacere sono “veri e
propri schiavi” che scelgono “una vita da bestie”; la ricerca del succes-
so è precaria perché gli altri ce lo possono improvvisamente revocare;
la ricerca del guadagno come fine “è contro natura” perché la ricchez-
za è sempre un mezzo in vista di qualcos’altro (EN, 1095 b 15 - 1096 a
43
Aristotele
7). L’uomo, così, per la specificità della sua natura, che si esprime e si
realizza già attraverso il linguaggio, è chiamato all’autorealizzazione.
Inoltre, proprio perché è in grado di apprendere il bene e il male di una
comunità (e non solo ciò che è bene e male per sé), può e deve impe-
gnarsi a realizzarlo nella comunità. L’uomo, cioè, realizza la sua sociali-
tà, condividendo la verità e cercando il →bene comune. In tal modo, le
comunità umane differiscono dalle aggregazioni animali, in quanto ri-
cercano la verità ed il bene e non solo l’utile.
Qui veniamo alla vexata quaestio del rapporto in Aristotele tra etica e
politica, tra bene del singolo e bene dello Stato. È vero che si possono
trovare elementi per un’interpretazione organicista di questo tema, che
vede l’etica e il bene del singolo subordinati alla politica e al bene del-
lo Stato; ma hanno molto probabilmente ragione quegli interpreti che
vedono in Aristotele prevalere una visione opposta, in cui la politica è
subordinata all’etica e in cui lo Stato deve perseguire, per quanto è nel-
le sue possibilità, il bene del singolo. Infatti, per Aristotele «l’amicizia
tra marito e moglie [cioè il matrimonio] è naturale: l’uomo, infatti, è per
sua natura più incline a vivere in coppia che ad associarsi politicamen-
te, in quanto la famiglia è qualcosa di anteriore e di più necessario del-
lo Stato» (EN, 1162a 16-19). Così, per Aristotele, il matrimonio è la pri-
ma società, è la cellula fondamentale della società. Dopodiché, gli uo-
mini costituiscono le altre forme di associazione e di comunità sempre
più vaste fino allo Stato, il quale «esiste per rendere possibile una vita
felice» (Politica, 1252 b 30), per favorire la vita buona. Lo Stato può
perseguire le condizioni che aiutano il singolo a cercare di conseguire la
propria autorealizzazione: sia garantendo una situazione economica che
non costringa gli uomini a vivere in vista della loro mera autosufficien-
za e che consenta loro di investigare filosoficamente sul bene e sul ma-
le (Metafisica, A, 982b 22-25); sia garantendo l’ordine pubblico; sia, an-
cora, con le leggi, che esortano e/o preparano l’uomo alla virtù. Infatti,
«è difficile avere fin dalla giovinezza una retta guida alla virtù, se non si
viene allevati sotto buone leggi, giacché il vivere con temperanza e con
fortezza non piace alla massa, e soprattutto non piace ai giovani» (EN,
1179b 26 - 1180a 11).
Per quanto riguarda più direttamente l’etica, Aristotele prende le mosse
da una constatazione. In ogni azione consapevole l’uomo si propone un
qualche fine. Per lo più, i fini che ci proponiamo non sono definitivi, ben-
sì sono solo fini intermedi, che valgono cioè come mezzi, come vie per
raggiungere un fine ulteriore. C’è però un fine ultimo definitivo, che è fi-
ne in se stesso: è il bene supremo, l’→eudaimonia (E N, 1094a 19-23). Sul
44
Aristotele
Pertanto, «Che cosa dunque impedisce di definire felice chi è attivo se-
condo perfetta virtù ed è sufficientemente provvisto di beni esteriori, e
ciò non occasionalmente e temporaneamente, ma per tutta una vita?».
D’altra parte, a differenza di Platone, che aveva rinviato la felicità per-
fetta alla vita dopo la morte, Aristotele non si pronuncia sull’immorta-
lità dell’anima ed è consapevole che anche i virtuosi provvisti durevol-
mente di beni esteriori non sono mai totalmente felici: li «definiremo
beati […], s’intende, come possono esserlo gli uomini» (EN, 1101a 14-
21).
Veniamo specificamente all’amicizia. Aristotele impiega il termine p h i l i a,
che secondo alcuni interpreti può essere usato come sinonimo di amore.
Di certo buona parte delle cose che Aristotele dice dell’amicizia vale per
l’amore nelle sue varie forme, delle quali lo stesso Stagirita parla esplici-
tamente in termini di amicizia (E N, 1159a 27 - 1160a 3, 1162a 16ss.):
quello tra i coniugi, quello dei genitori verso i figli e dei figli verso i geni-
tori, quello tra fratelli.
Ebbene, dice Aristotele, «Riteniamo che l’amico sia uno dei beni più
grandi e che l’esser privo di amici e in solitudine sia cosa terribile» (Eti -
ca Eudemia, 1234b 31-33). L’amicizia è il tema trattato più a lungo nei
testi di Aristotele, che la ritiene necessaria, fondamentale e decisiva per
una vita pienamente umana: «senza amici, nessuno sceglierebbe di vi-
vere, anche se possedesse tutti gli altri beni» (EN, 1155a 5-6).
Essa, insomma, è una forma di amore e quest’ultimo (R e t o r i c a, 2, 4)
consiste nel volere, desiderare e cercare di fare il bene dell’altro, quin-
di un suo elemento indispensabile è la benevolenza. La benevolenza,
però, dev’essere reciproca, dev’essere un mutuo riconoscimento, cioè
due soggetti sono amici se si vogliono entrambi bene e se condividono
gioiosamente la loro vita.
Ora, dice Aristotele (EN, libro VIII), noi vogliamo bene agli altri per tre
possibili motivi, e, correlativamente, si danno tre possibili tipi di amici-
zia. Primo, l’amicizia a motivo dell’utilità che l’altro mi procura. Secon-
do, l’amicizia a motivo del piacere e/o del divertimento che provo stan-
do con l’altro. Terzo, l’amicizia a motivo della virtù-bontà che l’altro
esibisce.
In realtà, però, le prime due forme di amicizia sono imperfette e relati-
ve, perché io dico di volere il bene dell’altro, ma in verità gli voglio be-
ne solo in quanto è utile/piacevole, il che significa che voglio bene a me
stesso e non amo per davvero l’altro, bensì l’utilità che l’altro rappre-
senta per me e/o le gradevoli reazioni emotive che l’altro è capace di su-
scitare in me. Inevitabilmente, dunque, tali amicizie sono instabili, fra-
47
Aristotele
ragionevole che anche la felicità sia un dono divino, tanto più che essa
è il più grande dei beni umani. […] d’altra parte è manifesto che, se an-
che non è un dono inviato dagli dèi ma nasce dalla virtù e da un certo
tipo di apprendimento o di esercizio, la felicità appartiene alle realtà più
divine, giacché il premio ed il fine della virtù è, manifestamente, un be-
ne altissimo, cioè una realtà divina e beata» (EN, 1099b 11-18).
Associazioni di volontariato
Il →non profit in Italia molto spesso è erroneamente identificato con il
volontariato, dimenticando che in realtà il volontariato, sì lo caratteriz-
za, ma resta solo una delle possibili manifestazioni (Rossi 1997, p. 236)
con cui il fenomeno nel suo complesso può esplicarsi. «L’importanza
del volontariato ed in particolare di quello organizzato deriva dalla sua
attitudine a predisporre ed offrire servizi difficilmente vendibili che for-
niscono prevalentemente relazioni di aiuto. La motivazione pro sociale
che regge l’attività di volontariato presuppone le altre due caratteristi-
che identificatrici di tale azione: la gratuità e la solidarietà. Queste tre
caratteristiche implicano che sia possibile parlare di azione volontaria
solo se essa viene prestata in modo personale e spontaneo, senza fine di
lucro e servendosi dell’organizzazione in cui si è inseriti» (Rossi 1997,
p. 132).
Il dettato costituzionale intende per volontariato: «un modo di essere
della persona nell’ambito dei rapporti sociali o, detto altrimenti, un pa-
radigma dell’azione sociale riferibile a singoli individui o ad associazio-
49
Associazioni di volontariato
non riconoscimento dei diritti, oppure per la qualità della vita della
popolazione generale o di una specifica porzione di essa a rischio di di-
sagio o appartenente ad area caratterizzata da degrado con una finali-
tà di utilità sociale; costituisce un’unità operativa, un gruppo di base,
anche se può svolgere, seppure non esclusivamente, funzioni di coor-
dinamento.
STEFANIA VIGNINI
Audit sociale
In un workshop pubblicato nel 1995 a seguito della prima conferenza
sul Social Auditing, organizzata ad Edimburgo dalla New Economics
Foundation (NEF), il social auditing è definito come «il processo trami-
te il quale un’azienda misura e comunica notizie relative al grado di coe-
renza tra i suoi risultati e gli obiettivi sociali, comunitari ed ambientali
dichiarati» (Turnbull 1995, p. 167).
Il social audit, dunque, non è solo verifica esterna del rapporto/bilancio
sociale. In dottrina, soprattutto in quella anglosassone, si sono eviden-
ziate cinque differenti possibili definizioni del termine social audit, de-
scritte nel seguito (Hinna 2005, cap. 10). La prima di queste definizio-
ni vuole il social auditing come sinonimo di social accounting (dentro il
social accounting è compreso sempre anche l’auditing); la seconda lo in-
tende come un termine per la preparazione della rendicontazione socia-
le di un’organizzazione attraverso esterni (social evaluator).
Una terza definizione concepisce l’audit sociale come un fondamentale
processo di rivalutazione sistematica delle decisioni economiche (inter-
53
Audit sociale
LUCIANO HINNA
Azienda
Per cogliere lo specifico dell’Economia aziendale nell’ambito della
scienza economica e, in particolare, la sua rilevanza nella prospettiva
dell’Economia civile, giova muovere dal concetto di azienda. Secondo
una definizione largamente invalsa l’azienda è un istituto economico ri-
volto all’appagamento diretto o indiretto dei bisogni umani (Zappa
1956). Con questo strumento di analisi l’economista di azienda entra in
qualsiasi realtà o istituto sociale – famiglia, impresa, ente pubblico ter-
ritoriale, organizzazione con finalità assistenziali, religiose, politiche,
sindacali, culturali, ecc. – che vede più persone operare insieme per il
conseguimento di fini non perseguibili isolatamente e riconducibili, in
ultima analisi, all’appagamento di dati bisogni, materiali e spirituali, in-
dividuali e collettivi. E vi entra per studiare i fenomeni economici, os-
sia la produzione o l’acquisizione e il consumo di ricchezza necessari
57
Azienda
pur mantenendo l’assetto tipico degli enti for profit, sono controllate
da azionisti che si accordano preventivamente di prelevare una quota
del reddito prossima allo zero, per destinare la ricchezza prodotta so-
lo all’autofinanziamento e/o a cause sociali e culturali. O, ancora, im-
presa posta in essere da un ente non profit in vista di ottenere flussi di
reddito con cui alimentare il funzionamento e lo sviluppo delle attivi-
tà prive di scopo di lucro (si noti che l’oggetto sociale dell’impresa può
essere sia correlato con quello dell’azienda non profit, determinando in
tal modo sinergie a beneficio delle due entità, sia totalmente distinto).
Una seconda categoria di aziende viene qui denominata impresa a mis -
sione sociale. Nel mondo anglosassone, pur nella incertezza dovuta alla
varietà delle accezioni attribuite ai termini, questo profilo è quello più
simile alle cosiddette social venture o all’approccio BOP - Bottom Of the
Pyramid, cf. Prahalad (2006); Seelos-Mair (2007). Si tratta di un’impre-
sa fin dal suo sorgere connotata da una missione produttiva in cui la di-
mensione sociale e/o ambientale è dominante. La natura del fenomeno,
è ben rivelata dal fatto che nel contesto anglo-sassone, lo sviluppo di ta-
li aziende è sostenuto dall’attività delle società di social venture capital:
queste ultime sono sorte con l’intento di investire nel capitale di rischio
di imprese che si prospettano capaci sia di generare ritorni economici
interessanti per gli investitori sia di offrire soluzioni basate sul mercato
a rilevanti problemi sociali e ambientali. Per questo tipo di imprese gli
azionisti sono quindi portatori di aspettative di rimunerazione, anche se
sono consapevoli della necessità di contemperarle con la soddisfazione
delle aspettative sociali per le quali l’azienda è sorta. In sintesi, per l’im-
presa a missione sociale l’ottica win-win costituisce il cuore stesso della
formula competitiva.
La terza categoria, che denominiamo i m p resa sociale autosufficiente, è
mutuata da un recente contributo di Yunus (2008), fondatore della Gra-
meen Bank e vincitore del premio Nobel per la pace 2006. L’Autore usa
il termine Social Business per indicare un nuovo modello idealtipico di
impresa, in cui l’obiettivo dichiarato e perseguito è la massimizzazione
del valore sociale prodotto, avendo come vincolo l’autosufficienza eco-
nomica. Gli azionisti, come massimo obiettivo economico, possono aspi-
rare al recupero delle risorse finanziarie conferite. Il motivo dell’esisten-
za di un simile modello di impresa è così giustificato: «nella realtà sareb-
be molto difficile controllare un’impresa guidata da due obiettivi in con-
flitto come la massimizzazione del profitto e la ricerca del miglioramen-
to sociale, e i dirigenti di una simile azienda ibrida finirebbero inesora-
bilmente con il privilegiare la massimizzazione del profitto, quali che sia-
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Aziende a movente ideale
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vocabolo
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Aziende a movente ideale
MARIO MOLTENI
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vocabolo
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Beccaria Cesare
Beccaria Cesare
Cesare Beccaria Bonesana (1738-1794) è un tipico rappresentante di
una nobiltà milanese animata da grandi ideali, pur afflitta da più mode-
sta capacità realizzativa. Nasce a Milano il 15 marzo 1738 da una fami-
glia che ha tradizioni di banchieri di successo e che è giunta a entrare
nel patriziato della città.
Giovane ribelle per amore sposa all’età di ventitrè anni la giovane sedi-
cenne Teresa Blasco. Da questa unione nasce l’anno successivo Giulia
Beccaria, che nel 1785 darà alla luce Alessandro Manzoni. La materni-
tà di Giulia è comunemente e fondatamente attribuita ad una delle sue
relazioni extraconiugali, quella con Giovanni Verri, fratello minore del
più noto Pietro. Cesare Beccaria è all’epoca un giovane senza occupa-
zione, pur con una buona istruzione ed eccellenti capacità intellettuali.
Ha entusiasmo per le nuove idee specie francesi e subisce il fascino del-
l’astro nascente di Rousseau.
La vicenda di Cesare Beccaria si svolge in singolare parallelismo con
quella di Pietro →Verri. Di dieci anni maggiore di lui e suo mentore in
diverse circostanze, Pietro Verri è in particolare il fondatore e animato-
re di quel gruppo di illuministi milanesi che si riunisce dai primi anni
Sessanta nella Accademia dei Pugni, la quale ha sede in casa Verri nel-
la Contrada del Monte, oggi via Montenapoleone. Dalla Accademia dei
Pugni nascono molteplici frutti tra i quali va menzionato il periodico «Il
Caffè», forse l’espressione più compiuta dell’Illuminismo milanese del-
l’epoca: tra i caratteri di fondo della esperienza del Caffè vi è lo spirito
scientifico e la divulgazione scientifica in generale e, più in particolare,
la avversione alla tradizione giuridica e la enorme fiducia nelle prospet-
tive della economia politica, entrambi aspetti condivisi da Beccaria. È
stato lo stesso Verri ad acquisire l’amico al circolo intellettuale della Ac-
cademia, rappresentandolo come «profondo algebrista, buon poeta, te-
sta fatta per tentare strade nuove se l’inerzia e l’avvilimento non lo sof-
focano».
La fama di Beccaria esplode nel 1764 allorché egli pubblica un pam -
phlet anonimo, presso l’editore Aubert di Livorno, che reca il titolo Dei
delitti e delle pene e discute alcune delle questioni più scottanti del di-
ritto penale, ossia l’impiego della tortura e della pena capitale. Nella
stessa Milano l’uso di questi mezzi è prassi quotidiana. L’opera è inte-
ramente frutto dell’ambiente della Accademia. Così ne descrive la gene-
si Pietro Verri, dando al tempo stesso una immagine realistica della fi-
gura e del carattere dell’autore: «Il libro del marchese Beccaria, l’argo-
77
Beccaria Cesare
mento glielo ho dato io, e la maggior parte dei pensieri è il risultato del-
le conversazioni che giornalmente si tenevano fra Beccaria, Alessandro
[Verri, fratello di Pietro], Lambertenghi e me. Nella nostra società la se-
ra la passiamo nella stanza medesima ciascuno travagliando. Alessandro
ha per le mani la Storia d’Italia, io i miei lavori economico politici, altri
legge. Beccaria si annoiava e annoiava gli altri. Per disperazione mi chie-
se un tema, io gli suggerii questo conoscendo che per un uomo eloquen-
te e di immagini vivacissime era adatto appunto».
Beccaria aveva già trattato ne «Il Caffè» diverse questioni economiche
ed è generalmente noto tra gli studiosi come pioniere della applicazio-
ne della matematica all’economia. Nel pamphlet del 1764 egli adotta
una concezione intieramente utilitaristica intenta a perseguire la felicità
pubblica. È una argomentazione di economia del diritto la sua, che ri-
cerca nella pena il risarcimento che la società richiede a chi ha ad essa
provocato un danno attraverso il proprio comportamento. Di qui sca-
turisce la critica radicale e rivoluzionaria (ben presto oggetto di violen-
te reazioni) alle istituzioni dell’epoca, dipinte come asservite al criterio
emotivo di provocare spavento con inutile crudeltà e dunque incapaci
di far proprio il principio scientifico che insegna a proporzionare la pe-
na al crimine. La opposizione alla tortura e alla pena capitale non è dun-
que, in Beccaria, dettata da mero sentimento umanitario, ma da calco-
lo utilitaristico. La pena di morte e la tortura, in altre parole, non ser-
vono perché non rappresentano un risarcimento e non tutelano la so-
cietà. Così il tema rientra perfettamente nel programma della Accade-
mia e lo stesso Pietro Verri ne tratterà con le Osservazioni sulla tortura,
ben note anche per essere basate su vicende poi riprese da Alessandro
Manzoni nel romanzo e soprattutto nella Storia della colonna infame.
Il successo di Beccaria, pur essenzialmente teorico, è amplissimo ed im-
mediato e tale da superare la sua stessa immaginazione. Avesse Becca-
ria posseduto una tempra personale più solida, la storia della economia
civile sarebbe stata diversa. In questo è da ritrovare la sorgente maggio-
re dei contrasti che divideranno Beccaria dai Verri anche dopo la chiu-
sura della Accademia. Invitato a Parigi, allora capitale culturale del
mondo e sorgente della lumières, con grandi onori, Cesare Beccaria non
riesce a utilizzare l’occasione per dare una dimensione universale al-
l’opera della Milano illuminista. È intimorito, impacciato, incapace di
rappresentare adeguatamente la rivoluzione culturale avviata sotto la
direzione del Verri. A questo suo atteggiamento si deve se, ancor oggi,
non è sempre facile percepire il legame che unisce il pamphlet di Becca-
ria alla economia politica italiana nella seconda metà del Settecento.
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Beccaria Cesare
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Bene comune
Bene comune
Al livello generale, il bene comune è la ragion d’essere della formazio-
ne e conservazione di un corpo sociale. Si tratta, altresì, del valore co-
stituente una comunità politica, del fondamento morale nel quale si af-
fermano le necessarie condizioni affinché ogni soggetto della comunità
– cittadini, famiglie, gruppi, associazioni, popoli, Stati – possa matura-
re e svilupparsi pienamente.
Il principio del bene comune fissa una indissolubile correlazione con la
dimensione personale della società umana: «è la buona vita umana del-
la moltitudine, di una moltitudine di persone; è la loro comunione nel
vivere bene; è dunque comune al tutto e alle parti» (Maritain, 1946). In
tal senso, ogni aspetto della vita sociale, per quanto quest’ultima possa
presentarsi complessa e differenziata, deve trovare coordinamento con
il bene comune. Questo passaggio dal bene percepito individualmente
al bene comune implica l’ulteriore considerazione che «il bene comune
può essere inteso come la dimensione sociale e comunitaria del bene
morale» (Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 2004, 164).
Il principio del bene comune consente la formulazione della dottrina
del suo primato, che afferma la superiorità del bene comune sui beni
privati. La formulazione più antica è quella di Aristotele, ripresa da
Tommaso d’Aquino (Tommaso d’Aquino, Commento all’Etica nicoma -
chea di Aristotele, I, 2). Il bene del tutto è «più divino» del bene delle
parti, nella fondamentale considerazione che tale bene comune sia con-
cepito al servizio della persona umana. La dottrina del primato del be-
ne comune, con ciò, non sostiene la supremazia della ragion di Stato o
di partito nei confronti delle prerogative dei cittadini e dei gruppi so-
ciali. Il bene comune, infatti, non è il bene individuale e neanche la
somma dei beni individuali, tanto meno è riducibile all’equilibrio del
corpo sociale o alla potenza dello Stato. Il bene comune presuppone il
bene di ogni singola persona e ha per fine il bene di ciascun cittadino
del corpo sociale.
È perciò insufficiente considerare il bene comune da una prospettiva
culturale e materiale: non è solo l’insieme dei servizi di pubblica utilità o
d’interesse nazionale, né un esercizio finanziario e amministrativo ordi-
nato ed efficace; non può ridursi neanche alla storia, al patrimonio di
tradizioni e costumi, alla civiltà di un popolo. La concezione piena del
bene comune supera i paradossi dei gruppi che si prefiggono scopi ille-
citi, e che avanzano la pretesa di definire autonomamente dall’etica
l’idea di bene comune. È il caso, per esempio, dello Stato che persegue
80
Bene comune
lazione empatica fra prossimi. Ma anche tali posizioni, pure diffuse, so-
no contraddette dalla posizione elementare che non saremmo con ciò in
grado di assegnare neanche titolarità morale ai contemporanei che esco-
no dalla nostra possibilità di relazione sociale. Molti partono dalla con-
vinzione che l’utilitarismo classico rappresenta il quadro teorico miglio-
re per avanzare la teoria etica per le generazioni future (Pontara 1995).
In pratica, la nostra responsabilità morale al cospetto dei posteri ci per-
mette di massimizzare l’utilità, cioè il benessere. In pratica, il nostro be-
ne comune è direttamente collegato alla condizione in cui le future ge-
nerazioni godranno del proprio bene comune. Questo è vero una volta
assunto il principio etico che, semplicemente, ci dice che la distanza
temporale non può essere la ragione per far valere un’opzione rispetto
a un’altra. Un principio autoevidente, secondo Sidgwick; un’assioma
morale per Rawls. Ora, però, bisogna collaudare questa pretesa teorica
con le contraddizioni che l’utilitarismo spesso è costretto a risolvere. Ta-
li contraddizioni possono essere riassunte in due: il problema dell’asim-
metria morale e quello della conclusione ripugnante. Il problema del-
l’asimmetria morale nasce quando ci si occupa del funzionamento del
principio utilitaristico nel caso delle politiche demografiche. Infatti, po-
trebbe essere in accordo con l’utilitarismo l’idea che per innalzare il be-
ne comune si potrebbe fare a meno degl’individui inabili alla sua incre-
mentazione. Ma, si dice, questo discorso non vale: esso si occupa della
felicità dei restanti vivi, mentre dovrebbe contemplare anche l’infelicità
degli eliminati. Per cui, è doveroso tenere anche conto degli uomini che
si voluto uccidere per capire se la popolazione ha incrementato il pro-
prio utile. Ora, lo stesso discorso non vale per i nascituri. Potrei decide-
re di attivare delle politiche di programmazione demografica (non coer-
citive, ovviamente) dissuadendo dal procreare nuovi individui, in modo
da conservare un livello di benessere adeguato. Di fatto, non dovrei te-
nere conto, nel calcolo dell’utilità della popolazione, dei mancati nasci-
turi. Così, mentre gli uccisi rientrano nel criterio dell’utile, i mancati na-
ti no. Ecco l’asimmetria morale. L’altro problema è quello della conclu-
sione ripugnante. Esso, in sostanza, afferma che una popolazione nume-
ricamente minore che ha una qualità della vita alta ha, tuttavia, un utile
totale minore di un’altra, più estesa numericamente, nella quale gli indi-
vidui conducono una vita appena al di sopra delle condizioni minime di
dignità. Si dice “conclusione ripugnante” perché essa comporta il caso
della società composta dagli aguzzini e dalle vittime: gli aguzzini potreb-
bero chiamare le vittime a procreare, giacché questa moltiplicazione po-
trebbe produrre una diminuzione di sofferenze individuali (gli aguzzini
dovrebbero suddividere tutti i propri maltrattamenti su una porzione di
87
Bene comune
ALBERTO LO PRESTI
Bene relazionale
Entità della sfera delle relazioni interpersonali – come la cordialità tra
venditori e clienti in certi mercatini rionali, o la gradevole atmosfera di
una festa ben riuscita – hanno un valore per i soggetti coinvolti. Se ciò
è vero, allora anche queste entità meritano la qualifica di “bene”, e non
solo quelle altre entità, materiali o immateriali, a cui siamo soliti attri-
buirla, o perché sono oggetto di compravendita, o perché sono ottenu-
te attraverso un processo produttivo ben riconoscibile (pensiamo alle
merci in vendita nel mercatino, e, rispettivamente, all’accompagnamen-
to musicale fornito dall’orchestrina reclutata per allietare la festa).
Questa è l’idea che sta dietro la nozione, relativamente nuova, di “be-
ne relazionale”.
La novità non riguarda certo i fenomeni in gioco, che in questo caso so-
no vecchi quanto il mondo. Nuova non è nemmeno la consapevolezza
che tra la sfera delle relazioni interpersonali e la sfera economica inter-
corrano vari legami, dato che dagli scritti di economisti del calibro di
Malthus e Marshall questa consapevolezza risulta molto chiara. La no-
vità sta piuttosto nel fatto che, mentre in passato si preferiva definire in
modo alquanto ristretto l’oggetto della scienza economica, oggi molti
dei limiti che in precedenza essa si era autoimposta sono venuti a cade-
re. In particolare, affinché una qualche entità possa essere considerata
un bene, oggi non ci si sente più vincolati a condizioni così esigenti co-
me quelle elencate a suo tempo da Böhm-Bawerk, il quale richiedeva,
tra l’altro, che questa entità sia nella libera disponibilità di qualcuno che
abbia il potere di servirsene.
Ecco quindi aperta la porta a nuove categorie di beni, tra cui quelli am-
bientali e, appunto, quelli relazionali.
89
Bene relazionale
Tutto ciò ci dice che nella inusuale “tecnologia di produzione” dei be-
ni relazionali non contano tanto o soprattutto gli aspetti oggettivi,
quanto ciò che essi rivelano delle disposizioni e delle motivazioni sotto-
stanti. Un classico esempio a questo riguardo è quello del →dono, che,
a dispetto di ciò che avviene sul piano oggettivo (la rinuncia volontaria
ad un oggetto da parte di un qualcuno a favore di un qualcun altro),
può generare sentimenti di umiliazione (se non addirittura di ostilità)
nel ricevente e può paradossalmente costituire un serio ostacolo alla co-
municazione interpersonale.
Venendo alla caratteristica 4), è soprattutto in situazioni simmetriche e
in presenza di una pluralità di soggetti interagenti che i beni relaziona-
li si presentano come beni pubblici, nel senso di “non rivali”. Esempi
se ne possono trovare facilmente in contesti collettivi come vivaci ma-
nifestazioni politiche, party calorosi, o reparti di un’azienda caratteriz-
zati da relazioni distese. Chi a tali contesti si aggiunga potrà anch’esso
beneficiare: nelle manifestazioni, del senso di identità collettiva (è que-
sto il principale esempio di beni relazionali proposto dalla Uhlaner); nei
party, della convivialità; nei reparti, dell’atmosfera serena (cosa quanto-
mai preziosa negli ambienti lavorativi). Come sappiamo, la fornitura di
beni pubblici è scoraggiata dal fenomeno del free-riding (la tentazione
di beneficiarne senza pagare la propria parte di costo). Ma i beni rela-
zionali non sono beni pubblici normali, come viene chiarito dalla carat-
teristica 5): per consumarli occorre partecipare all’interazione. Ma allo-
ra, se ciascuno partecipa per poter “consumare” il bene relazionale
“compagnia” , con la sua presenza concorre anche a produrlo, e così
non si ha free-riding. È per questa ragione che alcuni autori preferisco-
no collocare i beni relazionali in una categoria terza rispetto ai beni pri-
vati e ai beni pubblici. Infatti, scrivono ad esempio Bruni e Zarri (2007),
i beni relazionali non sono semplicemente non rivali, ma sono addirit-
tura “anti-rivali”, nel senso che più persone li consumano, più ce n’è da
consumare per ciascuno (un fenomeno, questo, che nel linguaggio del-
l’economia pubblica va sotto il nome di congestione positiva).
Purtroppo, la conclusione che in fatto di beni relazionali non si abbia
free-riding non vale in generale. Per la riuscita di una festa di quartiere
non basta che la gente partecipi quando inizia lo spettacolo o quando i
banchetti iniziano la vendita; occorre anche che qualcuno svolga il la-
voro preparatorio, e qui gli incentivi individuali non vanno nella dire-
zione giusta. Oppure, si pensi ad un gruppi di amici che si ritrovi tutti
i mercoledì per giocare una partita amatoriale di calcio (o per cantare
in coro). Gli incentivi individuali vanno chiaramente nella direzione di
95
Bene relazionale
97
Bene relazionale
Gui B. (2002), Più che scambi, incontri. La teoria economica alle prese
con i fenomeni interpersonali, in Sacco P.L. - Zamagni S. (a cura di),
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Nelson J.A. (2005), Interpersonal relations and economics: comments
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Nussbaum M.C. (1996), La fragilità del bene: fortuna ed etica nella tra -
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Sugden R. (2005), Fellow-feeling, in Gui B. and Sugden R. (a cura di),
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Sociality into a Theory of Rational Action, in «Public Choice», 62,
pp. 253-285.
BENEDETTO GUI
Bentham Jeremy
L’antropologia e l’etica filosofica di Jeremy Bentham (1748-1832) si col-
locano agli antipodi dell’economia civile. Bentham ritiene che l’essere
umano sia sottoposto all’edonismo psicologico egoistico: «la natura ha
posto il genere umano sotto il dominio di due supremi padroni: il dolo -
re e il piacere. Spetta ad essi soltanto indicare quel che dovremmo fare,
come anche determinare quel che faremo. Da un lato il criterio di ciò
che è giusto o ingiusto, dall’altro la catena delle cause e degli effetti, so-
no legati al loro trono. Dolore e piacere ci dominano in tutto ciò che
facciamo, in tutto quel che diciamo, in tutto quel che pensiamo: qual-
siasi sforzo possiamo fare per liberarci da tale soggezione non servirà ad
altro che a dimostrarla. A parole si può proclamare di rinnegare il loro
dominio, ma in realtà se ne resta del tutto soggiogati» (Bentham 1998,
p. 89, di seguito IPML). In altri termini, cioè, in ogni sua azione, l’uo-
mo ricerca sempre e comunque come obiettivo principale e primario il
conseguimento del proprio piacere personale: «nessun atto umano è
mai stato, né può mai essere disinteressato» (in A. Goldworth 1983, p.
212). Anche la simpatia e la benevolenza verso l’altro sono mosse dal
piacere personale.
101
Bentham Jeremy
prevalere i propri interessi (ma non si pone il problema che i media pos-
sano allearsi col potere).
Infine, va segnalato un passo di Bentham in cui è lumeggiata la natura
relazionale della felicità: «per ogni granello di gioia che seminerai nel
petto di un altro, tu troverai un raccolto nel tuo petto, mentre ogni di-
spiacere che tu toglierai dai pensieri e dai sentimenti di un’altra creatu-
ra sarà sostituito da meravigliosa pace e gioia nel santuario della tua ani-
ma» (Bentham Manuscripts, University College, CLXXIV, 80).
Bernardino da Feltre
Bernardino da Feltre, al secolo Martino Tomitano (1439-1494), entrò
nell’Ordine dei Frati minori francescani dopo aver condotto i suoi stu-
di a Padova, iniziando la sua predicazione con un ciclo quaresimale a
Peschiera nel 1471 e divenendo ben presto uno dei più noti predicato-
ri itineranti della fine del Quattrocento. Le sue attività sono note per
merito soprattutto di una biografia redatta da Bernardino Guslino nel
1573 sulla base di un dettagliatissimo diario tenuto da padre Francesco
Canali, che di Bernardino fu dal 1481 compagno e segretario. In una re-
104
Bernardino da Feltre
VERA ZAMAGNI
Bernardino da Siena
Sfera etica e sfera economica risultano fortemente connesse tanto nel-
l’agire dell’uomo medievale come nella riflessione applicata a forme ed
aspetti delle attività commerciali. Il pensiero economico è maturato nei
secoli del medioevo grazie alle riflessioni e agli apporti di uomini di Chie-
sa come Pietro di Giovanni Olivi o Bernardino da Siena. Quest’ultimo,
107
Bernardino da Siena
nato a Massa Marittima nel 1380 dalla nobile famiglia degli Albizzeschi,
entrò a 22 anni nell’Ordine dei Frati minori per aderire dopo breve tem-
po all’Osservanza, movimento iniziato verso il 1368 e caratterizzato da
una rigorosa adesione alla regola francescana e da una rigida interpreta-
zione del voto di povertà. Dotato di vasta cultura che spaziava dai Padri
della Chiesa agli scrittori ecclesiastici contemporanei, conosceva bene le
posizioni di uomini come Iacopone da Todi o Ubertino da Casale consi-
derati con sospetto per talune posizioni mistiche ed ascetiche.
Iniziò a predicare nel 1405 e predicò instancabilmente in numerosissi-
me piazze dell’Italia centro-settentrionale, dalla Liguria al Veneto, dal
Piemonte alle Marche, dall’Umbria al Lazio. Nel corso della sua attivi-
tà omiletica si occupò più che dei grandi problemi teologici ed ecclesio-
logici di molti aspetti concreti della vita di quegli uomini e di quelle
donne che accorrevano numerosissimi ad udirlo. Ebbe molto successo
ma incontrò anche vivaci opposizioni. A creargli difficoltà fu la con-
trapposizione fra Osservanti e Conventuali all’interno della quale Ber-
nardino, Osservante, cercò di muoversi con equilibrio e prudenza, do-
ti non da tutti apprezzate. Gli valse poi accuse di eresia il suo proporre
al pubblico il noto trigramma IHS, di sua invenzione, che indicava il
nome di Gesù e doveva servire a stimolare l’attenzione e la devozione.
Le sue idee in campo economico-sociale sono da alcuni decenni al centro
dell’interesse degli studiosi dopo un lungo periodo di scarsa attenzione
per questo importante ed originale aspetto del suo pensiero. Anche in
ambito etico-economico a caratterizzare il suo pensiero furono la concre-
tezza e l’equilibrio. Le sue posizioni si collocano sulla scia della sensibili-
tà e delle ideazioni dello stesso Francesco, vissuto nell’Italia della piena
esperienza comunale e dell’altrettanto piena esperienza mercantile, ambi-
to dal quale egli stesso proveniva come peraltro molti dei suoi seguaci, in-
terpretate alla luce delle esigenze dei nuovi tempi. Francesco maturò un
pensiero sulla ricchezza e sulla povertà originale e duttile al centro del
quale stava l’idea che il denaro non è in sé né buono né cattivo ma che
tutto dipende dall’uso che se ne fa. In un’epoca di vertiginosi scambi e di
innovative pratiche economiche la posizione di Francesco mostrò tutta la
sua potenzialità con un suo successore, Pietro di Giovanni Olivi al quale
si deve la prima definizione di capitale come denaro speciale, dotato di
una peculiare seminalità. In quanto votato agli affari e quindi a generare
altro denaro, il capitale ha in sé, nella concezione dell’Olivi, «la virtuale
possibilità di un guadagno» e dunque in caso di restituzione ciò legitti-
mava la richiesta non solo del semplice valore della moneta ma anche di
un →valore aggiunto. Una interpretazione del genere collocata all’inter-
108
Bernardino da Siena
va con coraggio temi delicati che stavano a cuore agli uomini del primo
XV secolo alle prese con concrete necessità da armonizzare con le esi-
genze morali. Bernardino fornì un’utile chiave per capire come collocar-
si ed operare all’interno del mondo degli affari per conciliare interessi
terreni ed ultraterreni evitando, come già Francesco, di indicare nel de-
naro o nell’attività economica, un pericolo ma considerandolo un mez-
zo in sé neutro. La ricchezza, tutt’altro che inevitabile ostacolo al bene,
poteva essere un mezzo per realizzare comportamenti virtuosi. Se i traf-
fici, con annesso guadagno onesto e misurato per chi li conduceva, con-
tribuivano al →bene comune erano valutati positivamente diversamente
dall’accumulo sterile della ricchezza o dallo spreco. Quest’ultimo pren-
deva frequentemente forma, negli ultimi secoli del Medioevo nella pas-
sione per il lusso di molti uomini e donne che spendevano consistenti
somme di denaro in abiti ed ornamenti. Ciò comportava l’immobilizza-
zione in sete e perle di ingenti capitali che avrebbero potuto essere im-
piegati più utilmente per aiutare i meno abbienti e per animare i com-
merci. Di ciò Bernardino si è occupato in più occasioni e in particolare
nel corso del ciclo di prediche che tenne a Siena nel 1427 ne ha parlato
in una predica, la XXXVII, che è un autentico capolavoro per comple-
tezza di argomenti ed efficacia oratoria. In essa ha ordinatamente espo-
sto le innumerevoli ragioni in base alle quali ci si doveva guardare dalle
lusinghe delle vanità. Una di esse era costituita dalla sottrazione di risor-
se ad un uso più avveduto rappresentato dai commerci. I denari spesi in
pellicce e gioielli erano da lui definiti morti proprio in quanto non inve-
stiti in proficui usi mercantili. Bisognava però imparare a distinguere i
mercanti utili dagli autentici profittatori “traditori del prossimo”: anche
a questo serviva la predicazione di Bernardino la cui familiarità con i te-
mi economici è dimostrata anche dal frequente ricorso a metafore e a
formule proprie al mondo mercantile: un modo per farsi capire, per in-
teressare il pubblico, per misurarsi con una realtà che rischiava di sfug-
gire al controllo morale e per condizionarla dall’interno.
Predicò fino a pochi giorni prima della sua morte che intervenne al-
l’Aquila il 20 maggio del 1444. Sei anni dopo venne proclamato santo.
Bilanci di giustizia
La critica ad un modello di sviluppo economico all’interno del quale
una piccola minoranza ricca, possiede e consuma la stragrande maggio-
ranza del reddito e delle risorse a scapito di milioni di poveri sparsi in
tutto il mondo, è stato il punto di partenza della relazione del missiona-
rio comboniano padre Alex Zanotelli durante l’incontro di Verona del
movimento «Beati i Costruttori di Pace» nel 1993. È sulla scia di que-
sta severa denuncia che viene a costituirsi una fra le più autentiche e ra-
dicali esperienze di consumo critico italiano: nel 1994 un gruppo di fa-
miglie trentine risponde a questo appello inaugurando la campagna Bi -
lanci di Giustizia.
Interrogandosi circa l’assunzione di consapevolezza riguardo le respon-
sabilità di cui ogni singolo consumatore è titolare all’intero del sistema
economico globale, sorge la necessità di promuovere un impegno im-
mediato e pro-attivo teso a contrastare le ingiustizie economiche. Que-
st’ultime, sovente considerate quali problematiche astratte e lontane
dall’esperienza del vivere quotidiano, se analizzate in maniera corretta
mostrano con chiarezza uno stretto rapporto in relazione alle modalità
di consumo che caratterizzano quotidianamente le scelte d’acquisto di
ogni singolo soggetto economico.
In quest’ottica la campagna Bilanci di Giustizia è correttamente inqua-
drabile come una particolare articolazione della più ampia corrente del
consumo critico, mediante la quale gruppi di consumatori eticamente
orientati colgono l’occasione per tornare a ridiventare veri protagonisti
del sistema economico, orientando le proprie scelte di consumo secon-
do criteri di consapevolezza e responsabilità, indirizzando così il siste-
ma socio-economico verso auspicabili obiettivi di giustizia ed equità.
Bilanci di Giustizia è una campagna animata da famiglie che esprimono
il desiderio di monitorare sistematicamente i propri consumi, con lo
scopo di indirizzarli verso scelte eticamente orientate.
111
Bilanci di giustizia
TOMMASO REGGIANI
114
Bilancio multidimensionale
Bilancio multidimensionale
Possiamo definire multidimensionale un risultato di un’organizzazione
caratterizzato dalla presenza di componenti misurabili economicamen-
te e componenti misurabili con unità di misura non finanziarie.
La teoria della creazione del valore evidenzia che, ad ogni processo eco-
nomico si accompagnano, in modo più o meno intenzionale, risultati
economici e risultati di natura non strettamente economica ai quali so-
no associati anche quegli stessi risultati a impatto economico, ma non
finanziariamente misurabili (o misurabili esclusivamente dal punto di
vista finanziario).
Sono risultati talora funzionali e intenzionalmente espressi nella strate-
gia aziendale e in relazione alle esigenze degli stakeholder, talora com-
presenti inaspettatamente ad effetto più della dimensione culturale del-
l’organizzazione che della pianificazione degli obiettivi a breve o medio
termine.
È nell’analisi delle potenzialità che è stato possibile rendersi conto che
agli indicatori tradizionali legati alle performance economico-finanzia-
rie ed espresse nel bilancio contabile mancavano le informazioni utili ad
esprimere il vero valore dell’impresa, le risorse di competitività, la ca-
pacità di sopravvivenza, informazioni che possono essere fornite, inve-
ce, da aspetti intangibili come il knowhow sviluppato dall’impresa,
piuttosto che la rete fiduciaria con i fornitori, l’effetto del marchio o del
brand. Sono proprio tali informazioni che giungono a codificare diver-
samente valore di mercato e valore contabile della stessa impresa.
L’integrazione tra processi interni e processi esterni in un quadro stra-
tegico coerente e unitario, a partire dai punti di forza e con l’obiettivo
di misurare tutte le conseguenze con una logica di risultato è il percor-
so che la Balanced Scorecard propone, a partire dal 1992, per offrire al
management una prospettiva di crescita di lungo periodo coerente con
gli obiettivi a breve e medio termine.
Si tratta di un sistema di analisi e reporting utile a identificare, monito-
rare e controllare gli obiettivi strategici di un’organizzazione e le perfor-
mance dei manager che la guidano, attraverso un set di misure che fa ri-
ferimento a più dimensioni (economico-finanziari, di mercato, di pro-
cesso e produttività, di innovazione e sviluppo). Si garantisce così un al-
lineamento tra obiettivi aziendali e obiettivi individuali, facilitando il
confronto tra gli stessi e le prestazioni manageriali o di area. La logica
della Balance Scorecard, che ha il pregio di aver complicato e arricchi-
115
Bilancio multidimensionale
nizzazione e sulle sue possibilità di futuro. Include i dati relativi alla ca-
pacità di creare nuovi posti di lavoro – e di conservarli in momenti di
difficoltà di mercato –, così come le modalità di gratificazione e soddi-
sfazione delle diverse tipologie di esigenza dei lavoratori, sia monetarie
che non monetarie.
Nelle imprese dell’economia civile un elemento di analisi certamente
caratterizzante è la diffusione della cultura del →dono all’interno del-
l’organizzazione, mediante le più varie forme di solidarietà interna ed
esterna attraverso cui si manifesta.
Capitale relazionale, ossia il prodotto delle relazioni con tutti i soggetti
interni ed esterni che hanno a che fare con essa per motivi produttivi –
clienti, fornitori, aziende partner, lavoratori… – istituzionali – associa-
zioni di categoria, Pubblica Amministrazione, società civile nei suoi
rappresentanti – e sociali – associazioni, comunità locale.
Cultura ed →etica aziendale, l’insieme tacito o esplicito di valori e ap-
procci che guidano scelte e comportamenti, la cui consapevolezza per-
mette anche una sua verifica sia normativa – come sembra emergere
dall’adozione dei codici etici – sia in termini di assimilazione di valori
dichiarati e desiderati che rendono l’organizzazione coerente e piena-
mente efficace.
Qualità socio ambientale, come qualità nella relazione tra le persone e con
l’ambiente sociale e naturale, includendo così il tema delicato del clima
dell’ambiente di lavoro e quello urgente dell’ecologia. Porta con sé la pos-
sibilità di riflettere e condividere su un tema prezioso per le imprese del-
l’economia civile, ovvero la fiducia, componente chiave delle relazioni tra
le persone e con il contesto. In questo senso si pone un tema di investi-
mento in →capitale sociale che possa produrre effetti positivi sia all’inter-
no dell’organizzazione che nelle reti esterne alle quali essa è collegata.
Capitale umano, indubbiamente uno dei fattori più rilevanti per il suc-
cesso aziendale, nelle sue forme organizzative ed espressive. In primis
infatti la forma secondo cui opera l’organizzazione, la sua dimensione
infrastrutturale, i processi e le modalità di funzionamento, le dinamiche
strutturali esigono una intenzionalità esplicita e agita anche nelle picco-
le dimensioni: la descrizione dei processi organizzativi, il superamento
della spontanea informale presa in carico per una esplicita responsabi-
lizzazione, la condivisione di processi decisionali e di valutazione sono
alcune tappe di investimento, indicatori del livello di sviluppo consape-
vole dell’organizzazione.
Capitale intellettuale, che include l’insieme delle conoscenze e del kno -
whow delle persone che vi operano, insieme alla loro possibilità e capa-
117
Bilancio multidimensionale
GIAMPIETRO PAROLIN
Bilancio sociale
Nell’accezione comune per bilancio si intende un “documento struttu-
rato”, tipicamente di natura contabile, che un’azienda presenta alla fi-
ne dell’esercizio e che rendiconta, in maniera sintetica e mediante l’ado-
118
Bilancio sociale
Ltd, la quale, partendo dallo studio dei suoi primi rapporti, cerca di in-
dividuare un modello standardizzato di rendicontazione sociale: il So -
cial Audit Report (→Audit sociale). Si tratta di un documento di repor -
ting in cui il controllo e la rendicontazione sull’attività dell’impresa so-
no svolte da un istituto esterno (auditor), che come tale segue procedu-
re precise e codificate.
È negli anni ’90 che la Gran Bretagna registra la prima vera esperienza
di social statement, con il bilancio sociale di una società inglese di pro-
dotti di bellezza, The Body Shop International.
Successivamente viene emesso lo standard AA1000 che pone l’attenzio-
ne su “come” ottenere una migliore qualità del sistema di rilevazione
contabile anche avvalendosi di una fase di verifica esterna (a u d i t i n g)
della rendicontazione etica e sociale.
La Francia è l’unico paese in cui la rendicontazione sociale è stata in-
trodotta come obbligo di legge sebbene limitatamente alle imprese di
grandi dimensioni.
La Legge francese n. 769 del 12 luglio 1977, con cui viene introdotta
l’obbligatorietà della rendicontazione sociale, individua i contenuti mi-
nimi del bilancio sociale, i destinatari (interni) ed i soggetti obbligati a
produrre le informazioni. Il paragrafo introduttivo della legge sintetiz-
za chiaramente il ruolo del bilancio sociale. Esso riassume in un unico
documento i dati numerici che permettono di apprezzare la situazione
dell’impresa in campo sociale, di registrare le realizzazioni effettuate e
di misurare i cambiamenti intervenuti nel corso dell’anno trascorso e
dei due precedenti.
Vi sono tre funzioni principali che la legge francese assegna al bilancio
sociale: informare il personale, i sindacati e gli azionisti sull’andamento
dell’azienda; coordinare le politiche di intervento sociale sia a livello
statale sia aziendale; contenere, sulla base di quanto concertato con le
parti, il programma di interventi futuri (il budget sociale). Più dettaglia-
tamente il Bilan Social si articola in sette capitoli che hanno per ogget-
to: 1) l’occupazione; 2) le retribuzioni e le altre indennità accessorie; 3)
le condizioni di igiene e di sicurezza; 4) le altre condizioni di lavoro; 5)
la formazione; 6) le relazioni industriali; 7) le altre condizioni di vita de-
rivanti dall’impresa.
In Germania, l’esperienza della rendicontazione sociale è particolarmen-
te ricca. La prima esperienza risale addirittura al 1938. In quell’anno la
AEG acclude al bilancio di esercizio un quadro statistico delle prestazio-
ni a favore del personale e delle spese sostenute per la collettività.
121
Bilancio sociale
lora Ministero del Tesoro che doveva decidere, come poi decise (D.lgs.
153/1999, meglio conosciuta con il nome di Legge Ciampi sulle Fonda-
zioni bancarie), sulla forma struttura e contenuto del bilancio delle fon-
dazioni bancarie che erano sotto la sua vigilanza. Il concetto di bilancio
di missione è stato poi fatto proprio sia dal mondo accademico, sia da
quello delle fondazioni e più in generale da tutto il settore non profit.
Sebbene nella prassi non si faccia grande distinzione, il bilancio sociale
dell’azienda tende ad evidenziare “quanto” sia socialmente responsabi-
le l’azienda, mentre l’azienda non profit, già socialmente responsabile
per definizione, deve dimostrare “quanto” essa abbia operato nel ri-
spetto della sua missione. Il bilancio di missione per le aziende non pro -
fit, quindi, non si “aggiunge” al bilancio tradizionale delle cifre, ma di-
venta il “vero” bilancio, inteso come strumento di rendicontazione.
Per le strutture pubbliche la rendicontazione sociale si pone nell’ambi-
to di un nuovo concetto di →accountability. La rendicontazione della
P.A. storicamente, infatti, si è concentrata sull’analisi della spesa piutto-
sto che su quella dei risultati ottenuti, rivolgendosi prevalentemente agli
organi di controllo e poco ai cittadini. In questo senso, dunque, la ren-
dicontazione sociale si colloca nell’area del diritto all’informazione, un
elemento cardine della democrazia (v. la c.d. «Direttiva Baccini», la di-
rettiva 17 febbraio 2006 del Dipartimento della Funzione Pubblica).
Concettualmente il documento di rendicontazione sociale di una strut-
tura pubblica è più vicino a quello di una struttura non profit che non
a quello di un’impresa che opera per conseguire un profitto. Infatti es-
sa non ha un utile da distribuire agli azionisti, crea valore sociale, ma
non riesce a misurarlo contabilmente come differenziale tra input ed
output, è più attenta agli atteggiamenti degli stakeholder che non a quel-
li degli shareholder, che nei fatti non ci sono.
L’espressione più adatta per definire il documento di rendicontazione
sociale di una struttura pubblica è probabilmente “bilancio di ricaduta
sociale”, ammesso e non concesso che questa espressione sia compren-
sibile per gli stakeholder, con tutte le varianti del caso legate alla deno-
minazione del documento: relazione, rapporto, documento e natural-
mente bilancio.
Lo stesso strumento di rendicontazione, coerente con le esigenze che è
chiamato a soddisfare, assume dimensioni qualitative diverse: rappor-
to/bilancio sociale nelle strutture profit per gestire la responsabilità so-
ciale; rapporto/bilancio di missione in quelle non profit per gestire la le-
gittimazione sociale; infine, rapporto/bilancio di ricaduta sociale nelle
pubbliche amministrazioni per gestire l’accountability sociale.
127
Bilancio sociale
LUCIANO HINNA
131
vocabolo
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Calvino Giovanni
Calvino Giovanni
Per comprendere Giovanni Calvino (1509-1564) e il suo influsso sullo
sviluppo socio-politico in Europa bisogna tener presenti tre concezioni
fondamentali: molti elementi importanti della teologia di Calvino deri-
vano da un’eredità comune della Riforma protestante e in quanto tali si-
gnificativi; bisogna distinguere tra Calvino, il calvinismo e i gruppi pro-
testanti descritti da Max Weber; le idee di Calvino su questioni di natu-
ra socio-economica non vanno separate dai suoi principi ecclesiologici,
ma questo è espressione della sua convinzione circa l’importanza della
Sacra Scrittura per l’intera vita umana e quindi di un compito profeti-
co dei cristiani nella società, evitando tuttavia una commistione teocra-
tica di Chiesa e Stato (Biéler 1961, p. 129).
L’insegnamento centrale della Riforma, la giustificazione solo per fede,
muta in modo basilare la prospettiva dell’uomo sulla propria attività so-
ciale. L’agire umano non ha il proprio obiettivo nel paradiso (che, per
Cristo, viene donato al credente gratuitamente), bensì sulla terra. Questo
capovolgimento del punto di vista favorisce lo sviluppo di un’analisi so-
ciale spassionata e delle rispettive strutture sociali. Un dualismo tra sacro
e profano (e parallelamente tra clero e laicato) è rifiutato. Purtuttavia il
mondo non viene privato della sua dimensione religiosa; essa è piuttosto
– conseguentemente alla dottrina della creazione e dell’incarnazione –
luogo della provvidenza divina e campo di prova della fede dell’uomo. È
tipico di Martin Lutero l’uso del termine tedesco Beruf con la doppia
connotazione di “mestiere” e “vocazione”, che Calvino riprende descri-
vendo i vari genera vitae come vocationes. Ogni impegno civile cristiano
è vero servizio divino. Non è escluso l’ambito del lavoro e dell’economia.
Calvino sottolinea più di altri riformatori anche la santificazione. La rifor-
ma della dottrina comporta anche la riforma della vita, sulla base dei co-
mandamenti divini. La santificazione non è però mai da comprendere so-
lo in senso individuale, ma ha una dimensione sociale e deve quindi com-
prendere l’intera comunità degli uomini (nella Chiesa e nella società).
L’uomo è fondamentalmente un essere comunicativo, che poggia su
rapporti nella →reciprocità. Il comandamento cristiano dell’amore re-
ciproco corrisponde a questo essere dell’uomo. Ogni singolo uomo si
trova di per sé nella sua coscienza direttamente davanti a Dio ed è chia-
mato ad assumere responsabilità, ma trova la sua vera destinazione so-
lamente se è collegato come parte della vita sociale nella corrente della
comunicazione, che presenta aspetti spirituali, culturali e materiali (Bié-
ler 1961, p. 235).
133
Calvino Giovanni
STEFAN TOBLER
136
Capitale civile
Capitale civile
A ben considerare, uno dei più inquietanti problemi di questa epoca
di sviluppo è l’affermazione di un trade-off nuovo, almeno nelle dimen-
sioni attuali: quelli tra sicurezza e libertà. È un fatto che i cittadini che
popolano le nostre società chiedono sempre più sicurezza, di natura
economica, sociale, fisica. Ne conosciamo la ragione di fondo: l’essere
umano non vive bene e non è in grado di sviluppare appieno il proprio
potenziale quando i livelli di insicurezza che caratterizzano il suo con-
testo di vita oltrepassano una certa soglia. Un’affermazione questa che
oggi ci viene confermata dalle neuroscienze che ci informano che
un’eccessiva insicurezza blocca la creatività e la capacità di adattamen-
to del cervello umano. Per soddisfare questo bisogno crescente di si-
curezza siamo allora indotti a rivolgerci ad istituzioni, politiche ed eco-
nomiche, sempre più forti. Di qui il dilemma: quanto maggiore il no-
stro bisogno di sicurezza, tanto più siamo disposti a delegare quote di
potere decisionale a soggetti impersonali come appunto sono le istitu-
zioni pubbliche. Al tempo stesso, però, quanto più potere viene dele-
gato a tali soggetti, perché siano sempre più efficaci nel perseguimen-
to dell’obiettivo della sicurezza, tanto più gli spazi della nostra libertà
vengono ristretti, il che provoca insoddisfazione e, per ultimo, infelici-
tà. In sintesi estrema: costi dell’insicurezza versus costi della restrizio-
ne di libertà.
Bowles e Jayadeve (2007) hanno introdotto la nozione di “lavoro di tu-
tela” per denotare tutti quei soggetti occupati in mansioni quali quelle
svolte dalle guardie private, dalla polizia, dai militari, dagli addetti al
controllo e alla supervisione nei luoghi di lavoro. Secondo gli autori,
nell’economia USA circa un individuo su quattro svolge lavoro di tu-
tela per garantire sia la sicurezza delle persone (e delle loro proprietà)
sia la disciplina negli ambienti di lavoro. In Svezia, invece, la percen-
tuale in questione è meno della metà di quella americana. Ancora: il
Dipartimento del Lavoro USA ha stimato che entro il 2012 si conte-
ranno nel paese più guardie giurate private che insegnanti di scuola su-
periore. Infine, considerando la percentuale del lavoro di tutela sul to-
tale delle forze di lavoro, si trova che questa è del 9,7% in Svizzera,
dell’11% circa in Svezia, Danimarca e Norvegia, del 14,3% in Italia,
del 19,8% in Spagna e Inghilterra e del 22,2% negli USA. (Dati riferi-
ti al 2007). Non ci vuole grande acume per comprendere che quello di
tutela è lavoro improduttivo nel senso di Adam →Smith: certamente
utile per soddisfare bisogni reali, ma incapace di creare nuovo valore –
137
Capitale civile
138
Capitale civile
Figura 1
Il più alto livello dell’una componente di costo viene compensato dal più
basso livello dell’altra componente. Il significato dell’osservazione è
chiaro: muovendosi lungo la medesima curva ciò che muta non è il be-
nessere complessivo, ma il benessere dei vari gruppi sociali in cui è arti-
colata la società. Se dovesse prevalere la piattaforma politica a, ad esem-
pio, saranno avvantaggiati quei gruppi cui la sicurezza sta particolarmen-
te a cuore, anche se ciò va a scapito della loro libertà. Proprio come ri-
cordava Benjamin Constant: «Al dolore che accompagna la sottomissio-
ne è preferibile il dolore che sempre accompagna la libertà». Ragiona-
menti analoghi valgono per tutti gli altri punti. Tuttavia, se prendiamo la
società nel suo insieme, la somma totale dei costi non muta granché.
Si pone la domanda: da cosa dipende tale somma? Non dalla forma, ma
dalla posizione della frontiera, vale a dire dalla distanza (euclidea) della
stessa dall’origine degli assi cartesiani. Consideriamo, infatti, la frontiera
139
Capitale civile
re una pura tecnica senza valori; non può ridursi a mera procedura per
prendere decisioni. Terzo, il processo deliberativo postula la possibilità
dell’autocorrezione e quindi che ciascuna parte in causa ammetta, ab
imis, la possibilità di mutare le proprie preferenze e le proprie opinioni
alla luce delle ragioni addotte dall’altra parte. Ciò implica che non è
compatibile col metodo deliberativo la posizione di chi, in nome del-
l’ideologia o della difesa degli interessi della propria parte, si dichiara
impermeabile alle altrui ragioni. È in vista di ciò che la deliberazione è
un metodo essenzialmente comunicativo. Secondo l’opinione di Cohen
(1989), la democrazia deliberativa è una «deliberazione pubblica foca-
lizzata sul bene comune», nella quale chi vi partecipa si dichiara dispo-
nibile a mettere in gioco le proprie preferenze iniziali, poiché «le prefe-
renze e le convinzioni rilevanti sono quelle che emergono da o sono
confermate per mezzo della deliberazione» (p. 69). Dal punto di vista
della legittimità democratica, i risultati del processo deliberativo valgo-
no «se e solamente se possono essere l’oggetto di un libero e ragionato
consenso tra uguali» (p. 73).
Una conferma recente della rilevanza pratica dei metodi della democra-
zia deliberativa al fine di migliorare l’efficacia dell’azione di governo ci
viene dalla vasta indagine condotta dalla Banca Mondiale – consultabi-
le al sito http://www.govindicators.org – su 37 paesi. A parità di asset-
to costituzionale e di quadro giuridico e in condizioni basicamente
omogenee di sviluppo economico, più alta è la partecipazione politica
dei cittadini in forma quali i forum deliberativi, le giurie popolari, ecc.,
più alta è la qualità dei servizi pubblici e più elevata la credibilità dei
governi. D’altro canto, se sempre in riferimento al lavoro di Bowles e
Jayadev (2007), si vanno a considerare i principali fattori da cui dipen-
de la vertiginosa crescita del lavoro di tutela, si scopre che questi – la
disuguaglianza economica, il conflitto politico, il conflitto identitario –
hanno tutti a che vedere con una carente o inadeguata applicazione del
principio democratico.
Infine, il terzo elemento costitutivo del capitale civile è rappresentato
dalle specificità della matrice culturale che plasma l’ethos pubblico di
una comunità. Sappiamo che lo sviluppo economico moderno più che
il risultato dell’adozione di più efficaci incentivi o di più adeguati asset-
ti istituzionali, consegue piuttosto dalla creazione di una nuova cultura.
Invero, l’idea per la quale in economia incentivi o istituzioni efficienti
generano risultati positivi a prescindere dalla cultura prevalente è desti-
tuita di fondamento, dal momento che non sono gli incentivi di per sé,
ma il modo in cui gli agenti percepiscono e reagiscono agli incentivi a
142
Capitale civile
STEFANO ZAMAGNI
Capitale sociale
Sebbene il termine “capitale sociale” fosse già stato usato da alcuni stu-
diosi in precedenza, la sua popolarità nelle scienze sociali inizia verso la
fine degli anni Ottanta, quando Coleman (1988) e poi Putnam, Leonar-
di e Nanetti (1993) catalizzano l’attenzione degli studiosi sul nuovo
concetto.
Coleman riflette sul fatto che l’interazione sociale genera strutture rela-
zionali durature, che possono essere sfruttate come una risorsa produt-
tiva dai singoli individui. Gli esempi si possono moltiplicare: la rete dei
miei contatti mi può servire per trovare un posto di lavoro; il patrimo-
nio di fiducia incorporato nelle mie relazioni può diminuire i miei costi
di transazione e permettere la conclusione di affari altrimenti preclusi;
la presenza di norme civiche effettive può evitare i problemi legati al ri-
schio morale e all’opportunismo; le organizzazioni sociali (sia verticali,
come nelle imprese, sia orizzontali, come in molte associazioni della so-
cietà civile) costituiscono chiaramente una risorsa produttiva (di profit-
to o di “→beni relazionali”); la coesione sociale può ridurre il conflitto
e la delinquenza; un tessuto sociale ricco facilita l’apprendimento indi-
viduale e l’accumulazione di capitale umano, e così via. La peculiarità
di tali risorse produttive consiste nel fatto che non sono incorporate in
beni fisici o in singoli individui, come il capitale fisico e il capitale uma-
no. Piuttosto, si tratta di caratteristiche della struttura sociale. Coleman
tuttavia le considera alla stregua delle altre forme di capitale, appunto
come “capitale sociale”, in quanto vanno incontro a processi di accu-
mulazione e decumulazione nel tempo e possono essere oggetto di spe-
cifici investimenti. Coleman sottolinea però un potenziale problema di
sotto-investimento, dovuto al fatto che il capitale sociale ha un aspetto
importante di “bene pubblico”, dal momento che molte delle strutture
sociali che lo costituiscono sono pubblicamente disponibili e non sono
proprietà privata di nessuno. In altre parole, le esternalità positive fan-
no sì che i rendimenti sociali siano maggiori dei rendimenti privati.
146
Capitale sociale
Putnam propone una prospettiva più ristretta sul capitale sociale, pen-
sato in termini di densità delle reti associative orizzontali, caratteristi-
che della società civile. In particolare, studiando il funzionamento poli-
tico ed economico dell’Italia, egli mostra come le amministrazioni loca-
li siano più efficienti laddove più forte è il senso civico; come le diffe-
renze storiche nella partecipazione civica possano spiegare il persisten-
te divario fra Nord e Sud; e come l’impegno civico sia intimamente le-
gato alla presenza delle reti associative orizzontali.
Un utile punto di riferimento è una definizione del capitale sociale,
adattata da Narayan (1999), come quell’insieme di norme e relazioni so-
ciali, incorporate nella struttura sociale di un gruppo, che consentono
agli individui di coordinare le proprie azioni per raggiungere gli scopi
desiderati. Tale definizione ci consente di fare alcune osservazioni. An-
zitutto, la dimensione del gruppo può andare da un singolo individuo
all’intera società. Corrispondentemente, il capitale sociale può essere
definito a livello individuale o aggregato. Esso è in ogni caso costituito
da norme e relazioni sociali, le quali sono attributi della struttura socia-
le che si modificano nel tempo, ma che in un dato momento costitui-
scono uno stock. A seconda del tipo di norme e di relazioni considera-
te, il concetto può essere sfaccettato, ma la sua funzione produttiva è
comunque definita in relazione agli obiettivi individuali. Tali obiettivi
possono ovviamente concernere beni di mercato così come beni non di
mercato, ad esempio beni forniti socialmente, quali lo status o l’amici-
zia. È importante notare che gli obiettivi di un gruppo possono essere
in accordo oppure in contrasto con quelli di un altro, cosicché il capi-
tale sociale può avere esternalità sia positive che negative. Ad esempio,
può servire tanto a fini di cooperazione quanto di estrazione di rendite.
Infine, l’accumulazione e la decumulazione di capitale sociale avvengo-
no tipicamente attraverso processi di interazione sociale che rafforzano
o indeboliscono le norme e le relazioni. A differenza del capitale fisico,
che si logora con l’uso, ma al pari del capitale umano, le norme di coo-
perazione, la fiducia e le relazioni sociali si possono rafforzare attraver-
so l’uso (anche se ovviamente un uso opportunistico può impoverire lo
stock di capitale sociale). A complicare ulteriormente le cose, cambia-
menti istituzionali (ad esempio l’affermazione dei diritti civili e politici)
o tecnologici (ad esempio la diffusione del telefono o di internet) pos-
sono influenzare significativamente le dinamiche di interazione sociale
e di accumulazione del capitale sociale. A seconda che le norme e le re-
lazioni siano intra-gruppo o inter-gruppo si parla di capitale sociale di
tipo bonding e di tipo bridging. Tale distinzione evidenzia l’intrinseca
difficoltà di aggregare il capitale sociale: un insieme di gruppi diversi,
147
Capitale sociale
pitale” non sembra appropriato. Tuttavia altri sono più inclini ad usare
ugualmente il termine capitale, connotandolo di un rinnovato significa-
to. Ad esempio, in uno studio recente, Guiso, Sapienza e Zingales par-
lano del capitale sociale come di una “buona cultura” (good culture), in-
tesa come un insieme di credenze (beliefs) e valori che favoriscono la
cooperazione, e che è persistente nel tempo.
Al di là delle disquisizioni definitorie, l’utilità per la ricerca del concet-
to di capitale sociale è largamente dovuta alla sua misurazione empiri-
ca ed alla misurazione dei suoi effetti. Diverse proxy del capitale socia-
le sono risultate significative per spiegare svariati fenomeni di primaria
importanza, quali la crescita economica, la qualità del governo, l’accu-
mulazione di capitale umano, il crimine, lo sviluppo finanziario ed altri
ancora. Una rassegna esaustiva dei risultati ottenuti in questa vasta let-
teratura è impossibile in questa sede. Il miglior riferimento per saperne
di più è costituito dal portale Social Capital Gateway, gestito da Sabati-
ni (2009). Nei limiti di questo spazio menzioneremo, a modo di esem-
pio, soltanto alcuni contributi fondamentali sulla misurazione e gli ef-
fetti del capitale sociale.
Knack e Keefer (1997) misurano la fiducia attraverso la percentuale di
coloro che rispondono affermativamente alla domanda se in generale ci
si possa fidare degli altri. Inoltre, misurano le norme di cooperazione ci-
vica attraverso indicatori ricavati dalle valutazioni individuali di diversi
comportamenti anti-civici. Infine, utilizzano come proxy della densità
delle reti associative orizzontali una media del numero di tipi diversi di
gruppi associativi cui gli individui appartengono. I loro risultati princi-
pali sono che, in un gruppo di 29 paesi dell’OCSE, le prime due misu-
re, altamente correlate tra loro, sono una determinante significativa del-
la crescita economica, mentre la terza misura non è significativa. L’im-
portanza della fiducia per la crescita è confermata anche da uno studio
di Zak e Knack per un campione più vasto di paesi. In un articolo del
2000, attraverso esperimenti e questionari sui comportamenti effettivi,
Glaeser, Laibson, Scheinkman e Soutter mostrano che la misura della
fiducia usata da Knack e coautori riflette in realtà maggiormente l’affi-
dabilità di un individuo che il suo grado di fiducia negli altri. Temple e
Johnson usano una misura alternativa di “capacità sociali” (social capa -
bilities) e la trovano significativa per la crescita dei paesi in via di svi-
luppo. In due articoli del 1999, La Porta, Lopez-de-Silanes, Shleifer e
Vishny e Alesina, Baqir e Easterly trovano che variabili culturali, quali
l’eterogenità etnolinguistica e la religione, sono importanti per spiegare
rispettivamente la qualità dei governi e la spesa in beni pubblici. Nello
149
Capitale sociale
PAOLO VANIN
Capitalismo
Il sistema economico moderno viene sovente classificato come un’“eco-
nomia di mercato”. Ciò significa che l’allocazione delle risorse è l’esito
di milioni di decisioni individuali prese dai produttori e dai consuma-
tori, in risposta a segnali pubblicamente disponibili, i prezzi, che fun-
zionano automaticamente, in quanto a loro volta reagiscono agli esiti, in
termini di acquisto o di vendita, derivanti dall’aggregazione delle deci-
sioni individuali. Sul mercato, dunque, nessuno comanda e pianifica; il
meccanismo di coordinamento è decentrato e volontario. I prezzi forni-
151
Capitalismo
NICOLÒ BELLANCA
Carta Caritatis
All’interno del grande movimento monastico che si diffuse in Europa a
partire da san Benedetto (480-547), i cistercensi presero avvio dalla fuo-
riuscita dal monastero cluniacense di Molesme di alcuni monaci, critici
della decadenza nella osservanza delle regole di san Benedetto da parte
dei monaci cluniacensi. Alberico, Stefano Harding e Roberto (quest’ulti-
mo era l’abate di Molesme), con alcuni altri monaci, fondarono il Novum
Monasterium di Cîteaux (25 km. a sud-est di Digione), che prese a fun-
zionare dal 1098, con un nuovo statuto, denominato Carta Caritatis (o
Charta Charitatis). La redazione originaria dello statuto non è stata tutto-
ra ritrovata; di esso si conosce un testo (Carta Caritatis Prior) databile at-
torno al 1113/14 ed approvato da papa Callisto II nel 1119, ma in segui-
to ne vennero formulati altri, fino alla redazione finale (Carta Caritatis Po -
sterior) databile tra 1152 e 1165. Le innovazioni introdotte nel monache-
simo benedettino dai monaci di Cîteaux e delle abbazie “figlie” che suc-
cessivamente vennero fondate (fra cui la più famosa è certamente Clair-
vaux, Cistercium in latino, da cui deriva il nome di cistercensi, fondata da
san Bernardo nel 1115) ebbero influenze che si estesero ben al di là del-
l’Ordine stesso e per questo motivo sono state ampiamente studiate.
163
Carta Caritatis
I piloni portanti della Carta Caritatis nelle sue varie versioni sono tutti
fondati sulle concrete forme di applicazione della carità cristiana pro-
poste dai monaci cistercensi sulla scia dell’ispirazione benedettina del-
l’Ora et labora. Per quanto riguarda la vita propria del monastero, l’in-
novazione più significativa è quella dei rapporti delle abbazie fra di lo-
ro, rapporti che vengono minuziosamente normati dalla Carta Caritatis
con l’obiettivo di mantenere unità nella diversità, evitando sia l’autono-
mia disgregante sia il centralismo assoluto e optando per un governo
che, in termini moderni, potremmo definire “democratico parlamenta-
re”. Ogni abbazia poteva “figliarne” un’altra, senza pretendere nulla a
livello economico, ed era responsabile dei suoi primi passi, fin che que-
sta potesse autogovernarsi. L’abate dell’abbazia “madre” aveva però an-
che in seguito il dovere di fare una visita regolare alle abbazie “figlie”
per controllarne l’osservanza della regola. Cîteaux, che non aveva una
casa madre, veniva visitata regolarmente dagli abati delle sue prime
quattro abbazie figlie (proto-abati). Una volta all’anno tutti gli abati
delle abbazie si riunivano a Cîteaux in un Capitolo generale (tradizio-
nalmente il 14 settembre), per una verifica dell’andamento generale di
tutte le comunità e per intervenire vicendevolmente se c’era qualcosa da
correggere. Era escluso che l’abbazia madre potesse avvalersi delle ri-
sorse dell’abbazia figlia, per evitare che, come si legge nell’incipit della
Carta, «arricchendoci a spese della loro povertà, noi ci rendiamo colpe-
voli del vizio dell’avarizia che, secondo l’Apostolo, è una vera idola-
tria». Al contrario, si legge sempre nella Carta, «se per caso qualche ab-
bazia fosse venuta a trovarsi in estrema povertà, l’abate di quel luogo
faccia presente il caso a tutto il capitolo. Allora ciascun abate, acceso
dalla più grande carità, si affretti a risollevare l’indigenza di quella ab-
bazia con i beni concessi da Dio a ciascuno, secondo le proprie risor-
se». V’erano precedentemente stati altri tentativi nel mondo monastico
di andare nella direzione di governo condiviso della comunità, ma la
Carta Caritatis è la prima a dare formalizzazione e attuazione concreta
al principio, che poi gli stessi cistercensi furono richiesti di aiutare ad
applicare in altre comunità monastiche, fino a che il modello dei Capi-
toli generali divenne universalmente applicato e servì anche da ispira-
zione per l’introduzione di un governo partecipato in campo civile (a
cominciare dalla Magna Charta del 1215).
Sul versante dell’applicazione del dettato benedettino del “labora”, vie-
ne ribadito che i monaci devono vivere del proprio lavoro manuale e che
“perciò ci è lecito possedere, per le nostre necessità, corsi d’acqua, bo-
schi, vigne, prati, terreni lontani dai centri abitati e animali”. L’innova-
zione fondamentale consistette nell’introduzione di un sistema di lavoro
164
Carta Caritatis
VERA ZAMAGNI
Casse rurali
Il proporsi del credito cooperativo non può andar disgiunto dalle pro-
blematiche emergenti in Europa attorno a quel complesso fenomeno
che va sotto il nome di processo di industrializzazione. In un arco di
tempo tutto sommato circoscritto, a partire dalla seconda metà del
166
Casse rurali
tiche e per periodi anche superiori all’anno. Si sarebbe dovuto fare ope-
ra di convincimento nei confronti dei contadini per far loro capire che
grazie a tale tipologia di credito anche i più piccoli tra di loro sarebbe-
ro stati stimolati a conseguire nuovi traguardi di crescita economica e
sociale, in un contesto oltretutto di solidarietà evangelica.
Ciò che potrebbe risultare anomalo nel caso italiano è il verificare che
a farsi carico della prima divulgazione di un’organizzazione mutualisti-
ca che manifestava dichiaratamente la propria ispirazione cristiana, non
fosse qualcuno degli organismi, capillarmente diffusi, espressi dalla co-
munità cattolica italiana, bensì esponenti di una scuola di pensiero fon-
damentalmente laica e che addirittura il primo promotore delle casse
rurali fosse un ebreo: Leone Wollemborg. Egli, dopo aver fondato nel
1883 la prima cassa italiana a sistema Raiffeisen a Loreggia, una locali-
tà agricola del Padovano, si diede l’obiettivo di divulgare tale esperien-
za a tutte le campagne della penisola. Nel promuovere il modello di cre-
dito cooperativo ideato da Raiffeisen, Wollemborg focalizzò l’attenzio-
ne attorno al concetto che a garantire un balzo in avanti qualitativo nel-
l’impostazione dell’attività produttiva nelle campagne fosse lo stesso ri-
sparmio delle varie categorie contadine: proprietari anche di piccole
aziende, mezzadri e perfino braccianti.
La semplicità del funzionamento del piccolo istituto di Loreggia, i po-
sitivi risultati da esso conseguiti fin dall’avvio della sua attività e la ca-
pacità di Wollemborg di saperli opportunamente divulgare, furono alla
base della rapida diffusione delle casse rurali. Alla fine del 1887 a soli 5
anni dall’esordio del credito cooperativo nelle campagne italiane risul-
tavano attive ben 34 casse rurali e 30 di esse erano sorte nell’area vene-
ta e friulana, mentre le province di Firenze, Caserta, Cuneo e Como ne
potevano vantare una ciascuna (Marconato 1984, pp. 137-152).
Proprio questa fioritura imponeva però delle scelte di coordinamento,
si veniva pertanto imponendo l’opportunità che esse stesse si dotasse-
ro, come previsto da Raiffeisen, di un proprio organismo di promozio-
ne e coordinamento. Così nel novembre del 1887 Wollemborg diede vi-
ta alla «Federazione fra le casse rurali italiane». La sensibilità tuttavia
nei confronti di quest’iniziativa risultò essere piuttosto tiepida, posto
che passarono ben 7 anni prima che si giungesse ad una convergenza di
intenti sulle modalità di funzionamento della federazione stessa (Cafa-
ro 2001, pp. 49-70). Dalla seconda metà degli anni Novanta comunque
l’organizzazione del credito cooperativo italiano conobbe un’importan-
te consolidamento. S’erano infatti affermate due significative novità: la
prima era costituita dalla crescente efficienza che caratterizzava l’opera-
170
Casse rurali
tività delle piccole casse, la seconda era ancora più significativa ed era
legata al prorompente impegno assunto dal movimento cattolico nel far
proprio il messaggio di Raiffeisen e di renderlo operativo su larga scala
nelle campagne di tutt’Italia.
Sul primo versante va rilevato che le ragioni del successo delle casse ru-
rali, nonostante un clima di tradizionale diffidenza nei confronti delle
novità, proprio degli ambienti contadini, erano riconducibili al fatto
che questi stessi ambienti seppero cogliere assai rapidamente come le
casse fossero realmente al servizio della componente più debole della
società contadina. Questa si rese ben presto conto dei vantaggi che le
potevano derivare dalla semplificazione delle procedure di accesso ai
prestiti e dalla loro scadenza di lungo periodo. Proprio questa attenzio-
ne verso i più umili accentuò l’interesse dei cattolici verso le casse rura-
li. La valorizzazione che assumeva, non solo nell’impalcatura teorica,
ma anche nelle realizzazioni pratiche di Raiffeisen, l’elevazione dell’uo-
mo dal punto di vista sociale ed etico, cui la cooperazione mirava attra-
verso l’attuazione dell’ideale cristiano dell’amore verso il prossimo, non
poteva lasciare insensibili gli ambienti cattolici, soprattutto dopo la pro-
mulgazione nel 1891 dell’enciclica leonina Rerum novarum (Leonardi
2000, pp. 579-583).
Il primo a muoversi lungo la direttrice seguita qualche anno prima da
Wollemborg fu un prete che operava in un villaggio della campagna
dell’entroterra veneziano: Luigi Cerutti. Questi nel 1891 fece assumere
alla Cassa rurale di Gambarare in provincia di Venezia, fondata l’anno
precedente, la conformazione di prima cassa rurale “cattolica” d’Italia.
Da quel momento la cooperazione di credito conobbe nelle campagne
italiane un’accelerazione di incredibile vigore. La cosiddetta svolta
“confessionale” finì dunque per imprimere un enorme slancio alla dif-
fusione delle casse rurali in Italia. Tale passaggio, pur senza volerne sot-
tacere le motivazioni di carattere ideologico e politico, era dettato da un
profondo significato economico. In effetti per tenere unita una compa-
gine sociale composta prevalentemente da coltivatori diretti, piccoli fit-
tavoli e mezzadri, ma anche da qualche esponente della piccola borghe-
sia rurale, era indispensabile uno spirito di coesione particolarmente
forte. Esso non poteva che derivare dalla condivisione dell’iniziativa
cooperativa, ma aveva bisogno di un collante più robusto, che doveva
essere costituito da un ferreo controllo sociale esercitato in un ambito
strettamente locale. Un’impresa senza capitali d’impianto era per forza
di cose costretta a coinvolgere solo elementi legati da vincoli particolar-
mente saldi. Solo in tale maniera poteva mobilitare tante piccole risor-
171
Casse rurali
nio del XX secolo anche tra le regioni centrali e meridionali, dove spic-
cava in modo evidente la Sicilia. Il deciso impegno dei cattolici seppe
dunque dare speranza in ogni regione italiana ad ambienti come quelli
rurali che raramente risultavano oggetto delle attenzioni dei riformato-
ri sociali.
L’attività di intermediazione delle casse risultava facilitata dal fatto di po-
ter contare su un clima di conoscenza reciproca da parte di tutti gli as-
sociati, che condividevano i medesimi obiettivi. I depositanti che si rivol-
gevano alla cassa rurale erano i suoi soci e parallelamente i fruitori delle
attività del piccolo istituto erano sempre i soci, evidentemente interessa-
ti a tutelare un’impresa collettiva nei confronti della quale impegnavano
tutte le loro sostanze. Se tutto ciò poteva essere di stimolo all’allarga-
mento dell’esperienza a tutte quelle comunità dove poteva essere indivi-
duato un nucleo di operatori agricoli disposti ad aggregare le loro ener-
gie al fine di realizzare insieme condizioni di vita più dignitose, non man-
cavano però di venire a galla gli elementi di debolezza insiti nella stessa
modesta dimensione di ciascuna cassa. Si trattava di un limite chiara-
mente individuato dallo stesso Raiffeisen, che per ovviare alle sue possi-
bili ricadute negative aveva maturato l’idea dell’opportunità – che nel-
l’arco di poco tempo si trasformò in necessità – di aggregare tra di loro
le varie cooperative, con intenti di coordinamento e di promozione. A
tal proposito provvide a costituire le federazioni regionali tra le coope-
rative che si ispiravano al modello da lui coniato, che rispondevano al
primo scopo e le casse centrali di compensazione, che intendevano con-
cretizzare il secondo obiettivo (Leonardi 2000, pp. 570-574).
Nella realizzazione però di questo importante traguardo emersero in
Italia diversi problemi, connessi proprio con le fratture sociali presenti
nella penisola e con le stesse diatribe interne al movimento cattolico,
che impedirono un tragitto comune capace di coordinare istituti “neu-
tri” e “confessionali”. Il mancato obiettivo nella realizzazione di una
cassa di compensazione, che mettendo in relazione tra di loro istituti
operanti in ambienti economici complementari avrebbe potuto risolve-
re i problemi delle casse rurali, che nel corso di un medesimo esercizio
finanziario potevano trovarsi nella condizione tanto di carenza, quanto
di eccedenza di liquidità, a seguito del ciclo stagionale, non impedì che
si operasse per dare vita all’altro organismo di coordinamento previsto
da Raiffeisen, quello di una federazione tra casse, che svolgesse compi-
ti di tutela, di rappresentanza e di promozione. Anche in questo caso
tuttavia il tragitto non fu semplice, in quanto dalla fase di progettazio-
ne della federazione, impostata nel 1909, a quella della sua nascita, tra-
173
Casse rurali
scorsero ben 5 anni; solo nel dicembre del 1914 venne infatti costituita
a Bologna la «Federazione italiana delle casse rurali cattoliche». Il suo
obiettivo era quello di fare delle casse rurali di impronta “confessiona-
le”, posto che ogni forma di dialogo con la componente “neutra” del
credito cooperativo si era rivelata impercorribile, un autentico movi-
mento, capace di avere voce anche in sede politica (Cafaro 2001, pp.
180-191). Le casse di ispirazione cattolica, infatti, mancavano fino a
quel momento di una reale rappresentanza politica, mentre i piccoli isti-
tuti di credito che si ispiravano a Wollemborg, seppure numericamen-
te piuttosto contenuti, erano riusciti a costituire nel maggio del 1914
una cassa di compensazione: la «Banca nazionale delle casse rurali ita-
liane», che pur avendo poco seguito, poteva comunque rappresentare
una sorta di emblema per la cooperazione di credito “neutra” (Marco-
nato 1984, pp. 114-129).
Nonostante dunque non potesse essere considerato un insieme monoli-
tico, il credito cooperativo rappresentava pur sempre una presenza si-
gnificativa nel quadro degli intermediari creditizi italiani. Non era infat-
ti rilevante solo dal punto di vista numerico, in quanto le casse rurali –
aziende monosportello – erano certamente gli istituti di credito più dif-
fusi nella penisola, ma anche per il fatto di costituire un punto di riferi-
mento basilare per l’economia agricola del paese. Nel 1913 un’indagine
statistica condotta dal governo rilevò che il peso specifico del credito
cooperativo nella raccolta del risparmio degli italiani appariva sì mode-
sto, con appena l’1,39% di quanto era affluito nel 1912 nelle istituzio-
ni bancarie, ma evidenziava come tale risparmio fosse imputabile esclu-
sivamente alla categorie economiche più deboli del mondo rurale (Ca-
faro 2001, pp. 212-213). I prestiti poi, nella forma generalmente dello
sconto cambiario, che in un primo tempo erano destinati in via priori-
taria a consentire di superare i livelli minimi di sussistenza in un am-
biente che era tradizionalmente falcidiato dalla piaga dell’usura, venne-
ro via via evolvendo, indirizzandosi a sostegno della produzione e dun-
que all’acquisto di bestiame, o di attrezzi e scorte agrarie innanzitutto,
ma non di rado anche a vantaggio di attività artigianali e commerciali.
Le casse rurali svolsero dunque negli anni della belle époque la funzio-
ne di strumenti basilari su cui poggiare qualsiasi iniziativa mirata prio-
ritariamente a togliere dall’emarginazione ampi strati delle popolazioni
rurali (Cafaro 2001, pp. 78-92).
La guerra e le vicende dell’immediato dopoguerra non interruppero cer-
to l’attività delle casse rurali italiane, ma certamente contribuirono a ri-
disegnarne i connotati. In quella fase tra l’altro il sistema cooperativo ita-
174
Casse rurali
liano nelle sue diverse articolazioni, stava conoscendo una dinamica for-
temente espansiva (Fornasari - Zamagni 1997, pp. 107-112). Un eviden-
te contributo alla crescita numerica delle varie tipologie cooperative, ol-
tre che dalla nascita di nuovi organismi, era dato anche dall’inserimento
nella compagine delle cooperative italiane delle società che operavano
nelle “nuove province”, dove esse erano nate nel quadro normativo e
istituzionale asburgico. E non si trattava certo di una realtà marginale,
posto che la regione trentino-altoatesina costituiva l’area a più forte con-
centrazione cooperativa d’Europa (Leonardi 2000). Negli anni del do-
poguerra, piuttosto caotici dal punto di vista finanziario, il sistema cre-
ditizio nel suo complesso appariva sovradimensionato rispetto alle esi-
genze della realtà economica italiana. E anche le casse rurali avevano
partecipato all’ondata espansiva, concretizzatasi attraverso la costituzio-
ne di nuove società. Proprio all’inizio degli anni Venti il numero dei pic-
coli istituti di credito cooperativo raggiunse in Italia il proprio apice, che
può essere collocato oltre le 3.000 unità (Leonardi 2006).
Nel settembre del 1918 era stata frattanto fondata, a coordinamento di
tutti gli organismi cooperativi di matrice cattolica e con il preciso obiet-
tivo di fornire loro una rappresentanza di fronte alle istituzioni, la
“Confederazione cooperativa italiana». Ad essa aderiva anche la Fede-
razione delle casse rurali, che s’era dimostrata particolarmente attiva in
ordine alla omogeneizzazione degli statuti delle singole casse e alla loro
rappresentanza di fronte al Parlamento e al Governo al fine di ottenere
condizioni di operatività più robuste. Ma il clima politico del Paese sta-
va mutando e dopo gli anni per molti versi burrascosi dell’immediato
dopoguerra, si stava proponendo una svolta autoritaria. Con l’avvento
del fascismo e la sua trasformazione in regime il clima nei confronti del-
la cooperazione, ivi compresa quella di credito, che oltretutto stava vi-
vendo il clima di tensione che caratterizzava tutti gli intermediari credi-
tizi, mutò radicalmente. In effetti la politica assunta dal regime nei con-
fronti delle organizzazioni di carattere cooperativo e nello specifico nei
riguardi delle casse rurali, pur formalmente favorevole ad esse, tendeva
a svuotarne completamente la fisionomia mutualistica e solidale. Nei
confronti delle casse rurali venne assunto un atteggiamento dirigistico,
chiaramente finalizzato a trasformarle in intermediari creditizi della me-
desima natura di tutti gli altri, togliendo quel radicamento nel tessuto
sociale delle realtà locali, che costituiva il loro principale punto di for-
za. Già nel 1926 le casse rurali vennero unificate a tutte le aziende che
raccoglievano risparmio e poste sotto il controllo della Banca d’Italia.
Vennero anche inserite in un’organizzazione nazionale denominata
«Associazione nazionale tra casse rurali, agrarie ed enti ausiliari» e sem-
175
Casse rurali
2005, pp. 249-250). Passata comunque la fase più burrascosa della cri-
si, riavviatosi il processo produttivo lungo un percorso lento, ma co-
munque significativo, di carattere espansivo, sanati i guasti più grossi
prodotti dal dissesto di numerose casse rurali, grazie anche ai tempi
lunghi delle procedure di liquidazione, si cominciarono a registrare i
primi segnali di ripresa anche all’interno del credito cooperativo. Un
sintomo concreto della svolta che s’era verificata sul finire degli anni
Trenta e che risultava per certi versi anticipatrice di quanto si sarebbe
consolidato nel clima di riconquistata libertà e di riapertura dei merca-
ti internazionali del dopoguerra, era costituito dalla rinascita di alcune
casse rurali a conclusione delle procedure di liquidazione (Leonardi
2005, pp. 248-256).
Nel dopoguerra non si registrava dunque nelle campagne italiane un
clima ostile al credito cooperativo, anzi, stava piuttosto emergendo in
diverse regioni, specie del settentrione, la volontà di rilanciarlo, ripor-
tandolo alla sua conformazione mutualistica e solidale, nella convinzio-
ne della sua validità per la rinascita economica dell’Italia. Nel 1947 pe-
rò il numero delle casse rurali italiane era ridotto ad appena 783 istitu-
ti, la maggior parte dei quali monosportello. La stessa Banca d’Italia,
dopo aver registrato il punto più basso toccato dal credito cooperativo
con la fine della Seconda guerra mondiale, aveva però rilevato di segui-
to la sua ripresa, sottolineandone il significato per la rinascita economi-
ca delle campagne italiane. Il loro ruolo sarebbe stato destinato a scri-
vere ancora importanti pagine nella storia di tante piccole e medie im-
prese non solo rurali e avrebbe contribuito alla rinascita economica del
Paese a partire dagli anni Cinquanta (Leonardi 2006). Nonostante la
complessità di coordinare in termini unitari l’assetto organizzativo del
credito cooperativo, in un clima in cui, con la riconquistata libertà, era
difficile mantenere in vita gli organismi dirigistici ereditati dal fascismo
come l’ECRA, ma anche affiancarvi o sostituirvi nuovi organi di coor-
dinamento come la Federcasse rinata nel 1950, le casse rurali vennero
comunque ad assumere un crescente rilievo, dapprima nell’opera di ri-
costruzione postbellica e poi soprattutto durante gli anni del “miracolo
economico”. Con la nascita nel 1964 dell’Istituto centrale delle casse
rurali e artigiane, l’ICCREA – e la soppressione nel 1979 dell’ECRA –
poté essere razionalizzata tutta una serie di servizi bancari, mirati ad al-
largare le capacità operative e a rendere più efficienti le singole aziende
di credito cooperativo. Si poté parallelamente avviare a livello locale
una politica di rafforzamento patrimoniale delle singole casse e una va-
sta operazione di fusioni tra piccoli istituti omogenei, già da tempo –
anche se con una certa discontinuità – sollecitata dall’organo di vigilan-
178
Casse rurali
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179
Casse rurali
ANDREA LEONARDI
Cittadinanza
L’istituto della cittadinanza, una categoria centrale per lo studio delle
istituzioni democratiche, è riconducibile a fatica ad una definizione uni-
voca. Con il temine indichiamo la complessa posizione dell’individuo di
fronte alla comunità politica, il suo rapporto con l’ordine politico-giu-
ridico in cui si inserisce e l’insieme delle prerogative e degli oneri che
derivano da questa appartenenza (Costa 2005). È interessante notare
come esso tematizzi un profilo decisivo dell’esperienza umana: il nesso
persona-comunità politica. Si tratta di una nozione solo apparentemen-
te lineare che, nell’attuale dimensione multiculturale, denuncia una se-
rie di nodi irrisolti e si arricchisce del contributo di studiosi di diversi
settori: dagli storici ai politologi, dai giuristi ai sociologi, ai filosofi del-
la politica.
Consideriamo alcuni profili. Negli ordinamenti moderni, la prospettiva
giuridica definisce il termine essenzialmente come uno status, una con-
dizione giuridica: essere cittadini significa acquisire all’interno di un or-
dinamento una identità e una posizione, godere di alcuni benefici pre-
visti ed assolvere ad alcuni obblighi imposti. È lo Stato a determinare
sia le condizioni in base ai quali un individuo può considerarsi cittadi-
no, sia le cause escludenti che identificano coloro che cittadini non so-
no. D’altro canto, considerando le numerose posizioni giuridiche inter-
medie (l’apolide, il rifugiato politico, l’immigrato residente, oltre a nuo-
ve posizioni sovranazionali, che aumentano per la progressiva compe-
netrazione tra gli ordinamenti nazionali), delineare l’insieme delle situa-
zioni giuridiche proprie ed esclusive del cittadino risulta sempre più
difficoltoso.
180
Cittadinanza
È anzitutto la città, dalla polis greca fino alle soglie della modernità, che
troviamo all’origine dei rapporti politici fondamentali; per questo,
quando si tratta del mondo antico e del mondo medievale è necessario
parlare non già di Stato, ma più semplicemente di città e al suo interno,
è la partecipazione il valore comune su cui si costruiscono i vincoli di
appartenenza. Da questa radice si sviluppano tutte le teorie della citta-
dinanza come condizione di appartenenza orizzontale, di identificazio-
ne in una comunità (Costa 2005). Se è possibile definire come cittadi-
nanza – delimitando il termine – anche il vincolo esistente nella polis
greca, nella civitas romana e poi nella società medievale, è solo a parti-
re dalla fondazione dello Stato moderno e dalla prospettiva individua-
listica dei giusnaturalisti che possiamo cominciare a riconoscere il pro-
filo giuridico della cittadinanza che oggi ci è familiare.
Nell’età protomoderna, il processo di articolazione della cittadinanza in
diritti, pur crescendo all’interno delle abbazie, dei centri di irradiazio-
ne della cultura cristiana, della civiltà comunale con i suoi mercati e le
università, resta confinato entro un ordine sociale rigidamente gerarchi-
co, differenziato per ceti, che costituisce la struttura portante anche del
vivere politico. Finché, con i teorici dell’assolutismo monarchico e le ri-
voluzioni borghesi del Seicento e del Settecento, l’elaborazione del con-
cetto si approfondisce e la trasformazione dei sudditi in cittadini divie-
ne costitutiva del progetto politico che sarà una delle principali conqui-
ste della Rivoluzione francese. Sebbene i primi Philosophes avessero
proposto un’idea di cittadinanza universale, astratta, potenzialmente
estendibile a tutti gli individui, quella proposta dalla Rivoluzione fran-
cese è ancora una nozione carica di una forte connotazione ideologica,
che non dipende da una qualificazione dettata dal diritto, ma dal pos-
sesso di una virtù morale e, soprattutto, dall’attitudine che attribuisce
all’uomo non solo il diritto, ma anche di dovere di fare parte della co-
munità. Durante questa fase, l’idea di cittadinanza, contrapposta ad al-
tre identità alternative che fondavano l’Ancien Régime sui ceti e sulla
sudditanza, gode della sua massima espansione. Emblematica in questo
senso è la «Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino» del 1789,
che proclama la sovranità del popolo formato da uomini liberi e ugua-
li. Tale riferimento va preso alla lettera: si tratterà ancora a lungo solo
di uomini e non di donne; ma la coppia uomo e cittadino non sarà più
separabile.
Inoltre, la cittadinanza rivoluzionaria è appartenenza alla nazione so-
vrana: la dimensione emergente dell’identità nazionale comincia a con-
notare tale legame, divenendo uno degli idealtipi del concetto, finché
182
Cittadinanza
DANIELA ROPELATO
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201
Commercio equo e solidale
Communitas
La comunità nasconde una ambivalenza radicale. Unico luogo di vita
pienamente umana e di felicità, ma anche luogo di costante minaccia
per l’individuo, per le sue libertà e i suoi diritti assoluti (Bruni 2009).
La letteratura sociologica, ma anche quella economica, antropologica, o
filosofica, ci mostrano la comunità come la grande protagonista del
mondo antico, pre o para-moderno. La storia del rapporto tra mondo
antico e comunità è complesso, e nasconde molte insidie teoriche. In un
senso più radicale, il mondo antico non conosce la comunità, almeno
nel suo significato di cum-munus. Dobbiamo aspettare la modernità per
l’emergere non solo dell’individuo, come è noto, ma, nel senso che ve-
dremo, anche della comunità. Partiamo da un dato: la comunità antica,
tribale o arcaica è comunità gerarchica, non comunità di persone libe-
re e uguali tra di loro, né, tantomeno, è comunità fraterna. La storia del-
l’Occidente, e la nascita dell’economia politica nella modernità (e, da
un altro punto di vista, la nascita della modernità dall’economia di mer-
cato), è anche la storia del tramonto della comunità gerarchica, e
l’emergere dell’individuo senza comunità. Molta letteratura contempo-
ranea ci racconta, sulla base di una suggestiva etimologia dell’origine
della parola comunità (Esposito 1998), che la communitas, la cum-mu -
nus racchiude la stessa ambivalenza nascosta nella parola latina munus.
L’ambivalenza di un concetto, però non costituisce di per sé una vera
spiegazione del concetto che la parola ambiguamente significa. L’ambi-
valenza diventa culturalmente ricca quando è solo apertura di discorso.
L’ambivalenza semantica del munus (che è insieme dono e obbligo), e
202
Communitas
della parola anglosassone gift (che significa “dono”, nella lingua ingle-
se, e “veleno” in quella tedesca), sarebbero le stesse ambivalenze della
cum-munitas. La base di questa teoria del →dono, e della comunità, è
Marcel Mauss, con il suo Essai sur le don (1924), un sociologo-antropo-
logo che molto ha esplorato le ambivalenze del dono, e che è stato tra
gli autori più influenti nelle teorie del dono che si sono succedute nel
Novecento. Ciò che obbliga chi riceve un dono a contraccambiare è lo
spirito della cosa donata, lo hau. Il donatario si lega alla persona donan-
te per via dello hau che quella le ha passato con la cosa, e non si libera
dal suo influsso “venefico”, dal suo incantesimo, finché non sarà riusci-
ta a contraccambiare, in un modo considerato adeguato dall’altro. Per
questa ragione accettare il dono donato è uno dei momenti fondativi
del processo sociale del dono, e del suo circuito intra- e inter comuni-
tario. Il dono spezza l’equilibrio dei rapporti comunitari, poiché crea
un’asimmetria che le comunità umane non riescono a sostenere a lun-
go. Il dono non ricambiato è elemento di disequilibrio, di disordine. Le
società umane amano le simmetrie: ecco anche spiegata la grande po-
tenza del mercato, basato su uno scambio simmetrico di valori equiva-
lenti (o percepiti come tale). Delle tre classiche forme dell’amore, l’eros,
la philia e l’agape, la vita in comune non è mai messa in crisi dalle due
prime due forme, perché sono sempre simmetriche. È l’agape – che è la
forma del dono-gratuità – che rompe l’equilibrio e le simmetrie dei rap-
porti, che manda in crisi le comunità e i rapporti di status; e anche per
questa ragione le comunità non incoraggiano l’amore agamico, ne te-
mono la sua forza destabilizzante. Ma di questo avremo modo di parla-
re in seguito, quando analizzeremo in particolare la forte analogia tra
eros e contratto: qui basta dire, solo per un accenno introduttivo, che
sono entrambi rapporti simmetrici e senza gratuità. Questa complessa
grammatica del munus, del dono-che-obbliga, sarebbe alla base anche
dell’ambivalenza della communitas, come ha mostrato nell’ultimo de-
cennio, con efficacia e in modo influente, il filosofo Roberto Esposito.
Uno degli scopi delle pagine che seguono è complicare il significato del-
l’ambivalenza del munus e della comunità. Ma procediamo per gradi. Il
dono nelle comunità arcaiche è quindi sempre un fatto sociale che ac-
cade all’interno di comunità che possiamo anche chiamare “sacrali”,
dove il sacro è contesto simbolico nel quale il “fatto tutto sociale” (co-
me lo definisce M. Mauss) del dono si dispiega; in altre parole, il sacro
è il mediatore che accompagna, e rende possibile, lo svolgersi nel tem-
po del dono, nella sua basilare grammatica di dare-accettare-restituire.
La categoria fondativa del circuito del dono non è la gratuità ma la re c i -
procità, come ci ha mostrato nei suoi lavori Karl Polanyi, un autore che è
203
Communitas
ne, che la società anonima del contratto tende a distruggere. In ogni ca-
so, il dualismo status-contratto, e la legge di progresso sono stati il pa-
radigma fondamentale con cui nel Novecento si è analizzato (anche sen-
za far riferimento esplicito a Maine) il tramonto della comunità, un tra-
monto che per alcuni preparava l’alba di un mondo migliore, per altri
l’inizio della decadenza dell’umano, poiché il nuovo legame sociale sa-
rebbe diventato il dismal “cash nexus”, nelle parole dell’inglese Tho-
mas Carlyle. Certamente, per gli amanti dell’individuo la comunità an-
tica non può essere un punto di approdo, perché nella comunità sacra-
le antica non c’è l’individuo. L’individuo, come categoria e come espe-
rienza, nasce con la modernità, al culmine di un processo culturale di
maturazione nell’universo culturale greco-ebraico-cristiano.
La comunità (il cum-munus del dono, non solo dell’obbligo) nasce dun-
que nella modernità; una tesi che qualcuno potrebbe considerare para-
dossale, se non errata, ma può essere sostenuta sulla base dell’evidenza,
teorica e fattuale, che senza individui liberi e su un piano di uguaglianza
(senza libertà e uguaglianza) c’è solo la comunità sacrale, che non è un
incontro tragico di doni ma una costruzione gerarchica di status non
scelti dai non-individui. Quindi è solo l’uomo moderno (erede dell’uma-
nesimo greco-ebraico-cristiano), e occidentale, che riesce a vedere vera -
mente la c u m - m u n u s, e la sua tragedia, perché scopre il “tu”. Ma non ap-
pena l’uomo moderno scopre il “tu” su un piano di uguaglianza avverte
soprattutto paura della ferita che l’altro può procurargli, e quindi intra-
vedere la possibilità della morte associata a questa nuova stagione della
relazionalità umana. La comunità contemporanea porta ancora con sé
tutta l’ambiguità del m u n u s, della libertà e della reciprocità umana.
LUIGINO BRUNI
208
Concorrenza (nella tradizione austriaca)
scarsi, quali cose assurgano al ruolo di beni, quanto questi siano scarsi e
che valore abbiano. Sono questi i problemi economici e a questi proble-
mi si presume che la concorrenza possa dare una risposta. Ne consegue
che il problema economico di una realtà sociale sarà sempre un “viag-
gio esplorativo nell’ignoto”, piuttosto che la soluzione di una pur raffi-
nata funzione matematica. Un viaggio in cui i singoli operatori saranno
impegnati nel tentativo di scoprire nuovi e migliori metodi produttivi,
nella consapevolezza che i problemi economici emergono in forza di
“cambiamenti imprevisti”, dai quali traiamo le informazioni rilevanti
che utilizzeremo per adottare possibili strategie di adattamento: tra le
quali annoveriamo anche i röstowiani “interventi conformi” ovvero i
röpkeiani “interventi di assestamento”. In definitiva, sostiene Hayek:
«…se in qualsiasi momento dovessimo venire a sapere che tutti i cam-
biamenti sono cessati e che le cose continueranno per sempre ad esse-
re esattamente quelle che sono ora, non resterebbe più da risolvere al-
cun problema relativo all’uso delle risorse» (Hayek 1988, p. 303); sa-
remmo di fronte ad una classica conseguenza di “conoscenza perfetta”,
la quale evidenzia il cosiddetto “paradosso dell’effetto paralizzante”:
una conoscenza ed una capacità previsionale perfette avrebbero nei
confronti dell’azione umana un effetto paralizzante.
Ebbene, in base all’estensione del “metodo tautologico”, dall’esame
delle azioni individuali a quello del processo sociale, nel quale le azioni
individuali si condizionano reciprocamente nel procedere del tempo, la
soluzione del problema economico, analizzato a partire dalla “logica
pura della scelta”, consisterebbe nella predisposizione di una classifica-
zione di possibili atteggiamenti umani, intellegibili attraverso una tecni-
ca per la descrizione delle interrelazioni che interessano le singole par-
ti che compongono un piano. Le conclusioni cui giunge tale analisi sa-
rebbero implicite nelle ipotesi di partenza: si suppone che siano simul-
taneamente presenti in un’unica mente e determinino una soluzione
univoca.
Ad ogni modo, è lo stesso Hayek a farci notare che il problema sorge
allorché si dubiti del fatto che un qualsiasi gruppo di persone, nel pro-
cesso di elaborazione dei propri piani individuali, siano in possesso si-
multaneamente degli stessi dati. A questo punto, il problema economi-
co sembrerebbe fuggire dalla ferrea legge della “logica pura della scel-
ta” e, nella prospettiva hayekiana, si tradurrebbe in un processo per
tentativi ed errori al fine di comprendere come i differenti e singoli da -
ti si combinano reciprocamente con i “fatti oggettivi” dell’ambiente
(spazio-temporale) nel quale ciascun soggetto progetta di dar vita al
210
Concorrenza (nella tradizione austriaca)
tà. Egli sostiene che «La concorrenza tra i vari imprenditori li spingerà
a offrirsi di acquistare, da chi generalmente vende a basso prezzo, a un
prezzo maggiore di quanto questi venditori avessero ritenuto possibile;
inoltre, gli imprenditori tra di loro in concorrenza venderanno, a que-
gli acquirenti che in genere acquistano a prezzo alto, a prezzi più bassi
di quanto questi acquirenti avessero ritenuto possibile» (Kirzner 1997).
Il modello concorrenziale all’interno del quale ci stiamo muovendo col-
loca l’azione economica non nell’equilibrio statico dei neoclassici – la
misesiana “economia uniformemente rotante” –, bensì nel processo di
scoperta: un equilibrio dinamico e mai raggiunto definitivamente, il ri-
sultato di un continuo processo di approssimazione a nuovi bisogni,
mediante nuove possibilità per soddisfarli.
La preferenza per il processo competitivo rispetto a quello dirigista e
monopolista (pubblico o privato), dunque, nasce da un’attenta conside-
razione teorica. D’altro canto, l’esperienza ci insegna che, da un lato, a
nessun ente – né allo Stato, né ai partiti – è dato il diritto di eliminare –
anche qualora fossero in grado di farlo – il rischio, il limite e l’ignoran-
za dall’esperienza umana e, d’altro, è sotto gli occhi di tutti la realtà di
un’esistenza umana che accresce il proprio bagaglio di conoscenze pas-
sando attraverso un processo di ricerca e di selezione delle informazio-
ni che falsificano o confermano quelle precedenti, senza alcuna garan-
zia preventiva in ordine ai risultati. Da quanto detto si evince che esi-
sterebbe un ineludibile nesso tra rischio e competizione, dato, da un la-
to, dalla fallibilità e dall’ignoranza che contraddistinguono il dato esi-
stenziale della persona umana, e, dall’altro, dall’altrettanto innata ten-
sione dell’uomo ad allargare i propri confini del sapere.
La concorrenza, dunque, ed il susseguente rischio, sono quegli straor-
dinari ingredienti della reale esperienza umana che ci consentono di
tentare di andare sempre oltre i nostri limiti, in una continua e corag-
giosa ricerca di soluzioni migliori, avendo di fronte un ventaglio di scel-
te molto ampio, una conoscenza limitata ed un irriducibile pluralismo
delle intenzioni. Il processo competitivo che coinvolge le idee, le perso-
ne, le associazioni, le imprese, allora, sia che si tratti della sfera econo-
mica sia che si faccia riferimento alla politica ovvero alla ricerca scien-
tifica, è dato da quello speciale rapporto umano che s’instaura tra per-
sone fallibili ed ignoranti, nella comune, ma variegata tensione ad accre-
scere la propria condizione esistenziale.
Scrive Hayek: «L’utilizzazione della conoscenza, che si trova ampia-
mente dispersa in una società caratterizzata da un’estesa divisione del
lavoro, non può basarsi sul presupposto che gli individui siano a cono-
216
Concorrenza (nella tradizione austriaca)
scenza di tutti gli usi specifici ai quali possono essere destinate le cose
che loro ben conoscono nel loro ambiente naturale. I prezzi dirigono
l’attenzione degli individui verso quello che vale la pena di scoprire su
ciò che il mercato offre per quanto riguarda i vari beni e servizi» (Ha-
yek 1988, p. 312). In tale prospettiva, arrogarsi il diritto di eliminare il
rischio, ossia, l’imprescindibile ignoranza umana, inibendo il processo
competitivo, oltre a rappresentare un inutile spreco di risorse, vorreb-
be dire arrecare un gravissimo danno alla società, paralizzare il flusso
delle informazioni e privare la persona della necessaria spinta alla rela-
zione interpersonale, alla scoperta ed alla responsabilità personale e
sociale.
Un testo classico sulla rilevanza sociale del rischio individuale è dato dal
seguente brano di Luigi Sturzo: «Vexatio dat intellectum; l’uomo per
comprendere, e quindi operare, ha bisogno di una costrizione, sia spi-
rituale che materiale, il rischio contribuisce al benessere sia spirituale
che materiale; il rischio contribuisce alla costrizione, all’allenamento
delle forze, alla speculazione intellettiva, alla preparazione dei piani, al
superamento degli ostacoli» (Sturzo 1995, p. 39). Il punto di vista di
Sturzo ci consente di considerare il rischio come un’opportunità data
all’uomo per andare di volta in volta oltre i limiti della propria cono-
scenza ed educare le proprie facoltà alla conquista dell’abilità necessa-
ria per il perseguimento di quel benessere multidimensionale che ci
consenta di pensare una nozione matura di bene comune che non sia
vuota retorica politica ed utopistica “presunzione fatale” che, dopotut-
to, la storia ha mostrato essere il paravento nobile delle più nefaste al-
chimie d’ingegneria sociale.
Possiamo dunque sostenere che, assumendo la nozione di competizio-
ne come sinonimo di concorrenza, per competizione intendiamo la sa-
na, spontanea e stimolante attitudine di tutti gli uomini a cercare di mi-
gliorare la propria condizione umana; dopotutto il verbo competere de-
riva dal latino cum-petere, ossia, cercare insieme, operare in concorren-
za per porre in essere le condizioni che favoriscano la realizzazione di
una società più libera, solidale e responsabile. La dimensione civile del-
la competizione e del rischio che educa, delineati dal brano di Sturzo, è
confermata ed evidenziata da un altro brano, questa volta di Michael
Novak, il quale afferma che la competizione è tutt’altro che un vizio,
«È, in un certo senso, la forma di ogni virtù e un fattore indispensabile
di crescita umana e spirituale della persona libera. Il battersi è sempre
un misurasi con qualche ideale e un sottoporsi a qualche giudizio» (No-
vak 1987, p. 470).
217
Concorrenza (nella tradizione austriaca)
FLAVIO FELICE
razione deve essere libera significa che nessun agente può esservi co-
stretto con la forza oppure da uno stato di necessità che gli sottrae la li-
bertà di decidere. Pertanto, la persona ridotta in schiavitù, il soggetto
totalmente disinformato oppure il povero in senso assoluto non soddi-
sfano la condizione di volontarietà che è invece richiesta dal meccani-
smo concorrenziale. La qualificazione “persegue razionalmente” postu-
la la capacità di calcolo da parte dei soggetti economici; vale a dire la
capacità sia di valutare costi e benefici delle opzioni in gioco sia di adot-
tare un criterio sulla base del quale fare la scelta. Si badi però che, con-
trariamente a quanto accade di leggere o di ascoltare, questo criterio
non necessariamente deve essere quello del massimo profitto. Non è
dunque vero che la concorrenza di mercato presuppone l’accettazione
della logica del profitto, una logica secondo cui gli utili di esercizio de-
vono essere distribuiti ai portatori del capitale in proporzione dei loro
apporti. Questo ci porta a precisare il senso della terza parola chiave.
L’obiettivo che i partecipanti al gioco competitivo perseguono può es-
sere auto-interessato oppure altruistico; può essere di natura ideale op-
pure materiale; può essere di breve o lungo periodo. Ciò che rileva è
che ciascuno abbia chiaro l’obiettivo che intende perseguire; diversa-
mente il requisito della razionalità resterebbe vanificato. Da ultimo, la
concorrenza esige l’esistenza di regole ben definite, note a tutti i parte-
cipanti, e capaci di essere rese esecutorie da una qualche autorità ester-
na al gioco concorrenziale stesso. Può trattarsi dello Stato, oppure di
un’Agenzia sopranazionale, oppure della stessa società civile che si at-
trezza per l’occasione. Due sono le regole fondamentali. Per un verso,
quella che impedisce la concentrazione di potere nelle mani di uno o
pochi soggetti economici. È questo il compito specifico delle varie legi-
slazioni antitrust. (La prima di tali leggi fu lo Sherman Act americano
approvata nel 1891. Si tratta di una legge che cercò di recuperare, alme-
no in parte, lo spirito dell’insegnamento di A. →Smith (1776) contro le
politiche commerciali dei governi che servivano solo a rafforzare il si-
stema di potere esistente). Per l’altro verso, la regola che vieta l’utilizzo
della frode e dell’inganno. A ciò mirano i provvedimenti (legislativi e
amministrativi) che impongono la trasparenza delle operazioni com-
merciali e che disciplinano la corporate governance delle imprese. Chia-
ramente, non sempre nella realtà le regole vengono rispettate o fatte ri-
spettare. Ciò spiega sia la pluralità di modelli concorrenziali che è dato
riscontrare nella pratica, sia la diversità degli esiti in termini di benesse-
re cui conduce la concorrenza. Rispetto al primo punto, si parla di con-
correnza perfetta quando nessun agente detiene un sia pur minimo po-
tere di mercato, il potere cioè di influenzare direttamente il processo
220
Concorrenza (nella tradizione dell’economia civile)
arrivano due autobus in ciascuno dei quali vi sono dieci persone, tutte
bisognose del siero. Nell’autobus A le persone sono tali che, ricevendo
il siero, avranno senz’altro la vita salvata. Coloro che occupano l’auto-
bus B hanno invece la probabilità del 50% di restare in vita pur dopo
aver ricevuto il siero. Il medico, deve decidere a chi somministrare il sie-
ro salvavita. In termini economici, deve impiegare una risorsa scarsa (le
dieci dosi di siero) in modo efficiente. A chi le somministrerà? Chiara-
mente, agli occupanti dell’autobus A, perché in questo modo salverà
dieci vite umane anziché cinque, come sarebbe se decidesse di allocare
il siero alle persone dell’autobus B. Cambiamo la situazione e assumia-
mo che al medico giunga la seguente informazione: i passeggeri dell’au-
tobus A la cui età media è di ottant’anni hanno una speranza residua di
vita di cinque anni, mentre quelli dell’autobus B sono bambini di cin-
que anni e hanno una speranza residua di vita di ottant’anni. Sulla ba-
se di questa nuova informazione, il medico, se vuole massimizzare l’ef-
ficienza, a chi darà le dosi del siero salvavita? Ovviamente ai pazienti
dell’autobus B, perché in tal modo massimizza il numero degli anni di
vita: 5 x 80 = 400. Se le desse agli occupanti di A gli anni di vita aggiun-
ti sarebbero 50: 5 x 10 = 50. Quindi, se il criterio di scelta è “massimiz-
zare il numero delle vite umane”, saranno favoriti i soggetti di A; se il
criterio è invece “massimizzare gli anni di vita”, la scelta cadrà sulle per-
sone in B. Per completare l’apologo, supponiamo ora che le dieci dosi
non siano di proprietà dell’ospedale, ma di una qualche farmacia priva-
ta che le vende a chi offre il prezzo più alto; in questo caso la scelta sa-
rebbe certamente a favore degli ottantenni, perché essi possono pagare,
mentre non altrettanto possono fare i bambini di cinque anni. Quindi,
se l’obiettivo è quello di massimizzare il ricavo, il medico si comporte-
rà in modo efficiente se assegnerà le dieci dosi ai passeggeri dell’auto-
bus A. Cosa ci dice, in buona sostanza, questa storia? Che il criterio di
efficienza, nonostante quel che si dice spesso, non è un criterio di scel-
ta oggettivo. Si può parlare di efficienza, e sulla base di ciò procedere
all’allocazione delle risorse, solo dopo che si è fissato il fine che si inten-
de raggiungere. L’efficienza è dunque strumento per un certo fine e non
fine in sé. È chiaro quindi che il concetto di efficienza, quando viene
utilizzato per istituire un confronto di performance economica tra im-
prese, di tipo diverso – ad esempio un’impresa capitalistica, un’impre-
sa cooperativa, un’impresa sociale – conduce ad un vizio logico, perché
esso fa implicito riferimento ad un obiettivo che è quello proprio del-
l’impresa capitalistica (la massimizzazione del profitto). Ma l’impresa
cooperativa, per sua natura, non persegue quell’obiettivo. Ecco perché,
nel confronto, essa risulterà meno efficiente. La seconda ragione di cui
222
Concorrenza (nella tradizione dell’economia civile)
225
Consorzi di cooperative
Consorzi di cooperative
Il consorzio, da un punto di vista legislativo, è considerata una forma
associativa inerente agli accordi tra imprese giuridicamente ed econo-
micamente distinte e avente diverse finalità volte a soddisfare i membri
aderenti al consorzio. I principali tipi di consorzi sono: i consorzi am-
ministrativi, i consorzi agricoli e i consorzi industriali. I primi hanno co-
me finalità lo svolgimento di iniziative di pubblica amministrazione,
possono essere costituiti da persone fisiche o tra enti e nascono per
esercizio del potere pubblico (consorzi d’autorità) o per volontà delle
parti interessate (consorzio volontari). A titolo di esempio tra i consor-
zi amministrativi vi sono: consorzi tra enti locali, consorzi tra istituzio-
ni pubbliche di assistenza e di beneficenza; consorzi stradali, idraulici,
consorzi sanitari ed altri ancora.
I consorzi agricoli svolgono finalità legate al settore agricolo e sono ad
esempio consorzi forestali, consorzi tra produttori agricoli, consorzi di
irrigazione, consorzi per la difesa della coltivazione, ecc.
I consorzi industriali riguardano il coordinamento delle produzioni e
degli scambi, essi possono riguardare tutte le fasi dell’attività impren-
ditoriale. Si possono a sua volta classificare, in base alla motivazione
della loro costituzione in: consorzi volontari; consorzi obbligatori; con-
sorzi coattivi. In base all’attività che svolgono, i consorzi industriali si
ripartiscono in: consorzi con attività interna, ovvero svolgono solo re-
lazioni all’interno del consorzio e consorzi con attività esterna, che
hanno anche relazioni esterne con soggetti che non aderiscono al con-
sorzio.
In base all’integrazione dell’attività svolta dalle aziende aderenti al con-
sorzio si parla di: consorzi orizzontali, ovvero tutte le aziende svolgono
la stessa fase del ciclo produttivo o distributivo; consorzi verticali, ov-
vero le aziende svolgono diverse fasi del ciclo produttivo o distributivo;
consorzi misti.
Si parla ancora di: consorzi di servizi, che svolgono un’attività di con-
sulenza ed assistenza alle aziende; consorzi funzionali, che svolgono at-
tività operative inerenti alla pianificazione, programmazione e alla ge-
stione di funzioni comuni alle aziende aderenti consentendo un miglio-
ramento in termini di efficacia ed efficienza.
Quando si parla di consorzi industriali si comprendono anche: i consor-
zi tra imprese artigiane; i consorzi tra società cooperative; i consorzi tra
piccole e medie imprese.
226
Consorzi di cooperative
Sulla base delle funzioni svolte dai consorzi possiamo distinguere (Pa-
volini 2002, pp. 195 e Marocchi 1997, pp. 198): i consorzi “leggeri”,
quando svolgono funzioni formative e amministrative per le consor-
ziate; i consorzi “pesanti”, quando svolgono molteplici funzioni tra
cui l’attività di general contractor fino a svolgere funzioni imprendito-
riali.
Su questo ultimo punto, ovvero la definizione di consorzi “pesanti” e lo
svolgimento di funzioni imprenditoriali, quale l’attività di general con -
tractor, si potrebbero fare delle considerazioni in merito alla possibilità
che la cooperativa, aderendo al consorzio, “deleghi” una parte della sua
imprenditorialità e una parte della sua “autonomia” tanto da poter per-
dere i caratteri di un’azienda.
Possiamo individuare due tipi di modelli di formazione dei consorzi: il
bottom up micro e il bottom up macro (Pavolini 2002, p. 181). Il primo
modello si basa sull’aggregazione di un numero limitato di cooperative
sociali che sulla base di interessi comuni e sulla possibilità di collabora-
zioni future, decidono di costituire un consorzio. Di solito il consorzio
nasce dalla conoscenza antecedente tra i diversi cooperatori e sulla ba-
se di esperienze positive sviluppatesi nel tempo. Il secondo modello di
formazione di consorzi detto bottom up macro, invece, si forma con un
gran numero di cooperative sociali. La formazione del consorzio è pro-
mossa dalle centrali cooperative, queste ultime cercano di facilitare
l’adesione di cooperative sociali, che operano nello stesso territorio, a
volte fungendo anche da garanti sulle cooperative stesse in ordine alla
possibilità di comportamenti scorretti. Entrambi i modelli presentano
dei vantaggi e degli svantaggi. Nel modello “micro” il vantaggio deriva
dalle relazioni di fiducia, che si sono instaurate nel tempo tra i coope-
ratori ma allo stesso tempo, questo aspetto potrebbe limitare la cresci-
ta del numero di adesioni da parte delle cooperative comportando così
un minor peso in termini di rappresentanza “istituzionale”. Nel model-
lo “macro”, al contrario, il numero elevato di cooperative aderenti po-
trebbe generare dei problemi inerenti a comportamenti non sempre
corretti da parte delle cooperative.
CATERINA FERRONE
Consumo (cospicuo/incospicuo)
«Mamma, mormora la bambina, mentre pieni di pianto ha gli occhi, per
la tua piccolina non compri mai balocchi, mamma, tu compri soltanto
profumi per te».
Così una canzone degli anni Cinquanta rappresenta la cattiva madre,
quella che consuma per sé e la sua inutile vanità e non per far felice la
sua bambina.
Il consumo è tra le attività economiche quella che è più vicina alla indi-
vidualità della persona, quella che ne esprime identità, valori, bisogni,
gusti. È un’attività complessa che coinvolge una molteplicità di sfere in-
dividuali: quella etica, sociale, estetica.
Non meraviglia quindi che le analisi del consumo, sia che esse proven-
gano dalla filosofia politica, dalla economia, dalla sociologia, o dalla psi-
cologia tendano spesso a mescolare all’analisi positiva il giudizio di va-
lore: il consumo non come è ma come dovrebbe essere.
Questo accade sin dalle prime riflessioni economiche sul ruolo dello
scambio e del mercato nel favorire il benessere collettivo. Con lo svilup-
po e l’allargamento dei mercati, a partire dal Seicento e i primi del Set-
tecento un intero nuovo mondo di beni appare sulla scena europea spe-
cie in quei grandi centri di scambio che sono le città: nuovi frutti, spe-
zie, fiori, piante, animali, dipinti, ceramiche, tessuti cominciano a dif-
fondersi rapidamente, per poi venire imitati e riprodotti su larga scala e
lentamente raggiungere ogni strato della popolazione. Sono questi beni
233
Consumo (cospicuo/incospicuo)
il primo è diretto a tutte quelle attività stimolanti che, grazie alla loro
interna varietà e complessità, hanno il potere di essere godibili nel tem-
po. Scitovsky ha una visione pessimistica delle sorti del consumo crea-
tivo perché l’assuefazione all’economia del comfort, facile da accedere
ma difficile da abbandonare, avrebbe finito, secondo lui, per distoglie-
re tempo e capacità dalla dimensione creativa del consumo.
La realtà è più aperta anche perché la barriera tra comfort e creatività
è permeabile e relativa. Inoltre, se la tecnologia della riproduzione e an-
cor più quella informatica, ha tolto a molti beni creativi il loro alone di
unicità, al tempo stesso ha aperto nuove opportunità di conoscenza e di
trasferimento di esperienze.
Le nuove tecnologie informatiche hanno infatti fortemente accelerato le
possibilità innovative del consumo. La formazione di network sociali e
di comunità di consumatori consente le scambio di informazioni e di
esperienze e la creazione di nuove. Anche la relativa non visibilità della
creatività del consumo sta cambiando. Attraverso le pratiche di co-de-
sign i consumatori escono dal privato ed entrano in diretto rapporto
con gli altri e con le imprese e contribuiscono alla creazione delle carat-
teristiche del prodotto o alla loro personalizzazione.
Resta comunque il fatto che per esser creativo e generare soddisfazione
il consumo ha bisogno di esperienza e conoscenza. Studi della creativi-
tà hanno messo in rilievo non solo il ruolo della motivazione intrinseca
ma anche l’importanza del talento, della formazione di skills e capacità.
L’idea che la creatività sia un’abilità innata o istintiva non corrisponde
alla realtà. Senza una precedente conoscenza, nuove combinazioni e so-
luzioni non sono possibili. Ed è sorprendente come la conoscenza del-
le attività di consumo sia tutt’oggi lasciata al caso e che l’attuale curri-
culum scolastico includa poco o nulla dell’educazione alla gioia del con-
sumo creativo.
Nella canzone degli anni Cinquanta la madre che ama consumare solo
per sé viene severamente punita: la bimba si ammala e a salvarla non
servono più i giocattoli che la madre, pentita, corre a comprarle.
Forse siamo oramai lontani dal concepire il consumo come una attività
che va premiata o punita, ma c’è ancora molto da scoprire nell’econo-
mia del consumo.
MARINA BIANCHI
Cooperativa (impresa)
Quella cooperativa è una delle forme di impresa più antiche. Già nelle
fasi iniziali della rivoluzione industriale nacquero iniziative imprendito-
riali a carattere cooperativo, anche se la prima impresa riconosciuta co-
me cooperativa è quella tra consumatori fondata dai probi pionieri di
Rochdale, nel Regno Unito, nel 1844. Negli anni successivi le coopera-
tive si sono diffuse, assumendo forme, caratteristiche, dimensioni assai
diverse, praticamente in tutti i settori economici (Hansmann 1996;
Dow, 2003; Mori, 2008). I diversi ordinamenti giuridici e le discipline
che si sono occupate di →cooperazione hanno poi definito, regolato e
interpretato la cooperativa in modi diversi. Diversità dovute anche alla
versatilità della forma cooperativa ed al fatto che essa è apparsa in con-
testi socio-economici molto diversi, svolgendo funzioni che di volta in
volta sono andate dalla creazione di imprese fondate su principi mutua-
listici da parte di gruppi economicamente svantaggiati (disoccupati,
piccoli agricoltori, ecc.) – che hanno spesso scelto la forma di impresa
cooperativa per salvaguardare l’autonomia e la redditività delle loro im-
prese – fino al salvataggio di imprese in crisi da parte dei lavoratori e al
perseguimento esplicito di obiettivi di tipo sociale e comunitario.
Conseguentemente, a seconda delle sensibilità dei fondatori, degli stu-
diosi o dei legislatori si possono trovare citate diverse caratteristiche
delle imprese cooperative: la democraticità, intesa come applicazione
del principio di “una testa, un voto”, la mutualità variamente definita
come mutuo auto-aiuto o servizio ai soci, la solidarietà tra i soci, ma an-
che quella inclusiva dei non soci (la “mutualità allargata” o “esterna”),
239
Cooperativa (impresa)
quali il rispetto dei diritti contrattuali dei lavoratori, la tutela della qua-
lità dei prodotti o del contesto ambientale nel quale opera l’impresa,
entrano solo come vincoli al cui soddisfacimento è condizionata la pos-
sibilità di valorizzare al massimo il capitale investito.
La regola di governo capitaria ed il carattere personale del patto im-
prenditoriale implicano anche la necessità di gestire la cooperativa in
base a criteri organizzativi ispirati all’inclusione e al coinvolgimento di
tutti i soggetti interessati all’attività. Mentre il ricorso a schemi gerarchi-
ci alquanto rigidi e l’utilizzo in via esclusiva o preponderante di incen-
tivi monetari per favorire l’aumento della produttività possono essere
considerati caratteristiche tipiche delle forme imprenditoriali tradizio-
nali, soprattutto di capitali, l’impresa cooperativa non può prescindere
da schemi di gestione di tipo inclusivo nei quali, di nuovo, elementi ge-
rarchici, di controllo e di incentivazione monetaria dovrebbero essere
strumentali e funzionali al perseguimento degli obiettivi organizzativi.
L’impresa cooperativa deve essere cioè in grado di valorizzare e stimo-
lare nei soggetti coinvolti anche motivazioni di tipo più propriamente
intrinseco e pro-sociale.
Gli obiettivi perseguiti dalle cooperative hanno spesso carattere sia in-
dividuale e privato, che collettivo e sociale. Ciò è reso evidente dalla
presenza di un’altra caratteristica tipica delle cooperative: il principio
della “porta aperta”. Esso si traduce nella disponibilità ad accettare, in
qualsiasi momento, salvo evidenti conflitti di interesse e senza mettere
a repentaglio la sopravvivenza dell’impresa, qualsiasi persona che sia
nelle condizioni di beneficiare dell’attività della cooperativa e faccia ri-
chiesta di adesione.
Prevale l’obiettivo collettivo anche nelle cooperative sociali o che opera-
no a favore di una comunità. Esse e il loro recente sviluppo confermano
che i soci di una cooperativa possono decidere di perseguire anche sco-
pi a carattere collettivo, quindi non diretti esclusivamente al soddisfaci-
mento dei propri bisogni, quali la riduzione della →povertà ovvero la tu-
tela dell’ambiente, o del patrimonio storico, architettonico e culturale.
La concezione di cooperativa appena espressa è ben sintetizzata nei set-
te principi definiti dalla dichiarazione internazionale di identità coope-
rativa della International Cooperative Alliance (ICA) che vengono qui di
seguito riportati.
1° Principio: Adesione libera e volontaria.
Le cooperative sono organizzazioni volontarie aperte a tutte le persone
in grado di utilizzarne i servizi offerti e desiderose di accettare le re-
sponsabilità connesse all’adesione, senza alcuna discriminazione.
242
Cooperativa (impresa)
Cooperativa sociale
L’impresa cooperativa sociale rappresenta l’utilizzo della forma coope-
rativa per perseguire finalità di interesse generale interpretando in sen-
so estensivo ed evolutivo la tradizionale finalità mutualistica dell’impre-
sa →cooperativa, aprendola al perseguimento di finalità di interesse ge-
nerale e non solo all’interesse dei soci. La sua sfida è quella di coniuga-
re i caratteri di efficienza economica ed innovazione dell’impresa con i
valori di mutualità e solidarietà tipici del →terzo settore realizzando
una impresa partecipativa e democratica, giuridicamente privata ma
orientata a finalità di ordine generale. Le cooperative sociali, che rap-
presentano un fenomeno tipicamente italiano, anche se diffuso in Eu-
ropa, nascono come esperienze pionieristiche negli anni ’70 e si svilup-
pano negli anni ’80 e ’90 organizzando attività solidaristiche e produ-
zione ed erogazione di servizi sociali per le comunità locali, su esperien-
ze locali e a seguito degli emergenti processi di affidamento all’esterno
di servizi socio-sanitari ed educativi da parte degli enti locali. Altre coo-
perative invece si sviluppano anche come sezioni di cooperative di lavo-
ro più ampie, per permettere a persone disabili di trovare occasioni la-
vorative adatte alla loro diversa abilità con l’aiuto di lavoratori motiva-
ti, enti locali, movimenti cooperativi, volontari (cooperative integrate).
Le cooperative sociali in Italia vengono regolate dalla legge 381 del
1991 che le riconosce come quelle società cooperative che «hanno lo
scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione
246
Cooperativa sociale
CLAUDIO TRAVAGLINI
249
Cooperazione
Cooperazione
La nascita della moderna cooperazione coincide con l’avvento della ri-
voluzione industriale, durante la quale si consolidò l’impresa capitalisti-
ca sotto forma di società per azioni, che vedeva come protagonisti i sog-
getti detentori di capitale, i quali contrattualizzavano tutti gli altri fatto-
ri della produzione, pagando loro il minimo indispensabile per l’eroga-
zione dei loro servizi e distribuendo tutto il sovrappiù come remunera-
zione del capitale. Per contrastare lo strapotere di questo nuovo ceto di
capitalisti, da un lato nacquero le associazioni di lavoratori (trade unions)
in funzione di tutela dei lavoratori all’interno delle fabbriche e dall’altro
lato si fece largo l’idea che gruppi di cittadini si potessero mettere insie-
me per creare imprese da loro stessi amministrate in maniera più parte-
cipata. In queste imprese, erano i soci che contrattualizzavano i fattori
della produzione, compreso il capitale, e li remuneravano al valore mi-
nimo di mercato, mentre gli utili restavano di loro pertinenza.
Il luogo dove emersero i primi esempi di imprese cooperative non po-
teva che essere l’Europa, la culla della rivoluzione industriale. Già nel-
la seconda metà del Settecento si ha notizia di cooperative casearie in
Francia, di cooperative d’assicurazione a Londra e negli Stati Uniti; poi
nella prima metà dell’Ottocento le iniziative si infittirono anche in altri
paesi europei nel settore agricolo, in quello dell’artigianato e della fab-
brica, mentre nacquero le cooperative di consumatori (la prima di cui
si ha notizia sorse in Inghilterra nel 1828). Emersero così quattro mo-
delli di cooperazione che si sarebbero poi ampiamente affermati: la
cooperazione di consumo inglese, la cooperazione di lavoro francese, la
cooperazione di credito tedesca e la cooperazione agricola danese. Ve
n’è poi un quinto, la cooperazione sociale, sorto in Italia più tardi, nel-
la seconda metà del XX secolo.
La cooperazione di consumo trovò la sua formula vincente in Inghilter-
ra. Fu alla fine dell’anno 1843 che a Rochdale, cittadina del Lancashire
inglese, un piccolo gruppo di tessitori poveri guidati da Charles Ho-
wart, con scarso lavoro e scoraggiati da precedenti tentativi infruttuosi,
si riunirono per provare una volta ancora a risollevarsi. Questa volta de-
cisero di lanciare una sottoscrizione per la costituzione di una società
cooperativa di consumo, che in seguito si sarebbe potuta applicare an-
che ad altre finalità, aprendo un negozio a Toad Lane il 21 dicembre
1844. I principi che vennero praticati per l’amministrazione di questo
magazzino cooperativo furono i seguenti: 1) vendita a contanti a prezzi
fissi; 2) ristorno proporzionale agli acquisti; 3) libertà d’acquisto (i soci
250
Cooperazione
(cioè non distribuibile fra i soci); la legge del 1983, che confermava ine-
quivocabilmente la possibilità per le cooperative di costituire, acquisire
o partecipare spa e srl; la legge 381 del 1991, che introdusse una parti-
colare legislazione per le cooperative sociali; la legge 59 del gennaio
1992, che allargò ulteriormente le opportunità di finanziamento delle
cooperative introducendo il socio sovventore e le azioni di partecipazio-
ne cooperativa (una specie di azioni privilegiate), oltre al cosiddetto
fondo mutualistico, un fondo formato dal versamento del 3% degli uti-
li delle cooperative e gestito dalle centrali cooperative a scopi di conso-
lidamento e allargamento del movimento.
Infine, la riforma del diritto societario, predisposta dalla legge delega
366 del 2001 e attuata con il decreto legislativo del 2003 vide un forte
contrasto tra cooperative e governo di centro-destra sulla definizione di
cooperativa e sui benefici fiscali, terminato con la distinzione tra coope-
rative a mutualità prevalente e a mutualità non prevalente (oltre il 90%
delle cooperative esistenti vennero ricomprese nella prima tipologia) e
con una limitazione dell’ammontare di utili destinabili a riserva indivi-
sibile che possono essere detassati. Inoltre, è stata resa possibile la tra-
sformazione di imprese cooperative in imprese capitalistiche, restando
ferma la destinazione a scopi sociali del patrimonio accumulato attra-
verso le riserve indivisibili.
Sulla base di questa legislazione, il movimento cooperativo italiano si è
rafforzato, in particolare negli ultimi trent’anni, arrivando nel 2006 a
contare oltre 70.000 imprese, con un giro d’affari di 120 miliardi di eu-
ro, 12 milioni circa di soci e 1,3 milioni di addetti diretti (inclusi i soci
lavoratori). I settori in cui la cooperazione italiana è più presente sono
sei. Il primo è la distribuzione commerciale, dove il movimento coopera-
tivo è leader di mercato. Oggi in questo settore sono attive due organiz-
zazioni di Legacoop. Ancc organizza 140 cooperative di consumo a
marchio Coop (di cui le prime 9 coprono oltre il 90% del fatturato) e
possiede una potente struttura grossista – Coop Italia – che ha aggrega-
to anche altri gruppi di cooperative di consumo e di cooperative fra det-
taglianti (Sait, Sigma, Despar), oltre che alcune piccole catene di super-
mercati non cooperativi, con la fondazione di “Centrale Italiana”, arri-
vando a un giro d’affari pari a 1/4 della grande distribuzione. Ancd or-
ganizza consorzi di cooperative di dettaglianti (Conad e altri marchi mi-
nori) con un giro d’affari pari al 12% del totale della grande distribu-
zione e 3.000 punti vendita. Conad nel febbraio 2006 ha dato origine al-
la prima cooperativa di diritto europeo – Copernic – insieme con la ca-
tena belga Coruyt (terza nel suo paese), la svizzera Coop (seconda), la
256
Cooperazione
VERA ZAMAGNI
Cultura organizzativa
Secondo Schein (1985) la cultura organizzativa è «insieme coerente di
assunti fondamentali che un dato gruppo ha inventato, scoperto o svi-
luppato imparando ad affrontare i suoi problemi di adattamento ester-
no e di integrazione interna, e che hanno funzionato abbastanza bene
da poter essere considerati validi, e perciò tali da essere insegnati ai
nuovi membri come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in
relazione a quei problemi».
Una definizione alternativa la offrono Siehl e Martin (1984): «la cultu-
ra organizzativa può essere vista come il collante che tiene insieme l’or-
ganizzazione attraverso la condivisione di schemi di significato. La cul-
tura consiste nei valori, nelle credenze e nelle aspettative che i membri
si trovano a condividere».
Quando si parla di cultura organizzativa si fa pertanto riferimento alla
co-presenza di alcuni aspetti: l’esistenza di assunti, norme, valori codi-
ficati o identificati anche informalmente o tacitamente; la loro condivi-
sione – talora inconsapevole – all’interno di un gruppo; la loro espres-
sione/realizzazione nel funzionamento della struttura (azienda, associa-
zione, famiglia…) nella quale il gruppo opera concretamente.
Come tale deriva e si alimenta di processi di delineazione, diffusione
(spaziale) e trasmissione (temporale), in funzione di una continuità in-
dipendente dai singoli membri che appartengono all’organizzazione
stessa, e utile a coniugare diversità e unicità dei singoli con l’adesione
ad uno stile in qualche verso omogeneizzante (Camuffo 1997).
Sembra di fatto costituire un aspetto qualificante nella capacità di esi-
stenza a lungo termine delle organizzazioni stesse: un’esistenza appa-
rentemente indipendente se non trascendente rispetto alle esistenze in-
261
Cultura organizzativa
ve è svolto dalle relazioni, ora formali ora informali, che tessono l’orga-
nizzazione. Più che mai per le imprese dell’economia civile sono le reti
dei rapporti ricorsivi, delle relazioni comunicative, dentro e fuori l’or-
ganizzazione, ad alimentare la codifica e costruzione di un tratto comu-
ne, tipicizzante, uno stile culturale e una visione del mondo costante
veicolata in comunicazioni diverse, verso pubblici diversi, mediante
strategie comunicative diverse. È questa narrazione di sé, questo “auto-
riferimento rappresentativo” (Pievani - Varchetta 1999) a fondare e tra-
smettere valori uguali che rinforzare il profilo di identità nel tempo, e si
confronta inevitabilmente con i meccanismi di governo, sia a livello for-
male che a livello esperienziale e sostanziale.
Non è semplice né scontata allora nemmeno la coerenza interna: spesso
la forma organizzativa, come quella societaria, nelle imprese dell’econo-
mia civile, costituiscono un a-priori alternativo all’esperienza e alla teoria
classica, funzionale alla differenziazione strutturale rispetto all’economia
centrata sul profitto. E se non è infrequente per società cooperative di re-
cente origine scoprire la storia e il valore della cultura delle cooperazione
ex post piuttosto che esprimerla ex ante, altrettanto critica è la ricerca per
società di persone o di capitali di modalità di governante e gestione
espressive della propria identità valoriale (imprese aderenti al progetto di
Economia di Comunione, o emanazione di ordini religiosi…).
Nell’economia civile e nella cultura che le organizzazioni che vi apparten-
gono vanno elaborando e mettendo alla prova, è chiaro quanto la corret-
ta ripartizione dei compiti, delle responsabilità, delle informazione e de-
gli incentivi sia di per sé insufficiente al funzionamento dell’organizzazio-
ne e all’implementazione delle strategie, poiché tende a trascurare l’im-
portanza della dimensione sociale e affettiva del lavoro nella motivazione
delle persone (Airoldi 1980), così come è altrettanto vivace la sperimen-
tazione per dare significato concreto alle parole importanti dell’economia
civile: partecipazione, condivisione, trasparenza, →equità.
Sono le parole di una cultura che, quando si fa azione e prassi, dà sen-
so all’impegno quotidiano e lo orienta a obiettivi comuni, e in qualche
modo porta a rinnovare la “formula imprenditoriale” (Coda 2000), rin-
novando potenzialità ed iniziative strategiche: sono contesti poco gerar-
chizzati e burocratizzati ma molto responsabilizzanti, nei quali le infor-
mazioni sono disponibili a tutta l’organizzazione e i talenti imprendito-
riali vi si distribuiscono in modo indipendente dalla posizione occupa-
ta nella scala gerarchica, contesti che hanno rinunciato a organi di con-
centrazione della responsabilità e a sistemi di controllo penalizzante per
incoraggiare l’autocontrollo, diffondere l’apprendimento comune e la
266
Cultura organizzativa
GIAMPIETRO PAROLIN
267
vocabolo
268
Dilemma del prigioniero
Tabella 1
Cooperare α, α γ, δ
Non Cooperare δ, γ β, β
Tabella 2
pera; infine, 0 indica il payoff del credulone (sucker), ottenuto dal gioca-
tore che, cooperando, viene sfruttato dall’avversario che ne tradisce la
fiducia, decidendo opportunisticamente di defezionare.
In altri termini, per il giocatore di riga, A, la situazione migliore si pre-
senta quando, a fronte della scelta cooperativa di B, egli decide di non
cooperare, ricavandone così un beneficio netto pari a 3; di contro, per
B questo si configura senza dubbio come l’esito meno favorevole, dato
che il suo beneficio netto risulterebbe nullo. Ecco che allora la ragione
fondamentale per cui tale situazione si configura come un vero e pro-
prio “dilemma” agli occhi dei soggetti coinvolti può essere sintetizzata
nei termini seguenti: benché entrambi gli agenti converrebbero sul fat-
to che la mutua cooperazione (esito in corrispondenza del quale en-
trambi ricavano un payoff pari a 2) sia preferibile alla mutua defezione
(che assicurerebbe ad A come a B un beneficio netto pari ad 1), il per-
seguimento dell’interesse personale da parte dei due giocatori li porta
inesorabilmente a convergere proprio sull’inefficiente esito di mutua
defezione. Formalmente, la mutua defezione rappresenta non solo
l’unico equilibrio di Nash in strategie pure del DP, ma anche l’equilibrio
in strategie dominanti dello stesso, dal momento che tanto per A quan-
to per B “non cooperare” costituisce la strategia dominante, per il fat-
to che essa conferisce un beneficio netto superiore alla strategia alter-
nativa indipendentemente dalla scelta strategica dell’avversario.
L’aspetto intrinsecamente paradossale del problema consiste proprio
nell’insorgenza di un conflitto a prima vista irriducibile tra razionalità
individuale e razionalità sociale: in ultima analisi, non cooperare si rive-
la drammaticamente controproducente per tutti, eppure la situazione
di mutua defezione costituisce il punto di approdo “naturale” di un’in-
terazione in cui le scelte individuali rispondano ad un calcolo ottimiz-
zante dei benefici netti. Per questa ragione non a caso il DP è stato fin
dalla sua origine oggetto di grandi attenzioni tra gli scienziati sociali, nel
tentativo di uscire dall’impasse che caratterizza situazioni di interdipen-
denza strategica di questo tipo, in cui l’esito razionale non è né indivi-
dualmente né socialmente soddisfacente.
Dopo avere messo in luce le caratteristiche essenziali del DP, il passo
successivo che diventa naturale tentare di compiere consiste nel porsi
l’interrogativo seguente: in una situazione sociale avente la struttura del
DP, è possibile uscire dal “vicolo cieco” della mutua defezione?
Una prima via d’uscita esplorata in letteratura consiste nel prevedere
una ripetizione del gioco nel tempo. Come osserva Schianchi (1997), in-
fatti, «Nella maggior parte dei giochi concreti gli individui devono con-
272
Dilemma del prigioniero
Tabella 3
Cooperare α, α (1 - w) γ + w δ, (1 - w) δ + w γ
Non
Cooperare (1 - w) δ + w γ, (1 - w) γ + w δ β, β
LUCA ZARRI
276
vocabolo
Dono
Il dono è una categoria universale dello spirito umano, ma esso assume
significati e ruoli diversi nelle varie epoche storiche e nei differenti con-
testi culturali. Fino a poco tempo fa, gran parte del pensiero sociale mo-
derno riteneva che il dono fosse una categoria arcaica e residuale: arcai-
ca perché diffusa nelle società primitive e non più attuale oggi; residua-
le perché confinata alla beneficenza o carità pubblica e privata. Una
consistente letteratura e numerose ricerche empiriche hanno invece di-
mostrato, negli ultimi anni, l’erroneità di questi assunti. Il dono è stato
riscoperto come categoria sociale fondante della società, in tutti i suoi
ambiti, e in special modo come motore delle relazioni sociali che chia-
miamo “civili”, in quanto non sono dettate né dal comando della legge,
né dal motivo del profitto o interesse economico, ma da valori e moti-
vazioni che mettono capo al libero agire delle persone come soggetti di
relazioni umanizzanti.
Si tratta di comprendere come possiamo oggi inquadrare il fenomeno
del dono all’interno di processi che ne mutano profondamente la rile-
vanza societaria. sia in termini di generalizzazione (il dono come “valo-
re” universalistico), sia in termini di diversificazione in forme distinte
(modi concreti di donare).
In via generale, possiamo dire che il dono, dopo essere stato messo ai
margini della società capitalistica, emerge sempre più come elemento
indispensabile dell’azione sociale, sia interpersonale sia generalizzata, in
quella società che chiamiamo postmoderna, o società rischiosa o anco-
ra (come poi si dirà) dopo-moderna. L’agire sociale del “donare” si spe-
cifica e prende forme concrete secondo modalità sempre più diversifi-
cate. A misura che la società si fa più complessa, fare un dono implica
scelte e competenze sempre più articolate (si deve scegliere quale tipo
di dono fare, e poi sapere come farlo in termini di mezzi, scopi, regole).
Le tematiche della differenziazione e integrazione delle diverse eticità e
competenze del dono sono ciò di cui dobbiamo parlare.
Le scienze sociali che si sono sviluppate dentro la modernità, hanno
avuto grandi difficoltà a comprendere l’esistenza, i modi di essere, il
ruolo e il valore del dono perché hanno posto una contrapposizione ra-
dicale fra la →gratuità (inerente al dono) e lo scambio (sociale in senso
lato). Siccome, per i moderni, lo scambio è essenzialmente una catego-
ria di utilità (in particolare come scambio di equivalenti monetari), essi
hanno creato una frattura insanabile fra il dono e lo scambio. Non è sta-
to così in tutte le società precedenti (e, a ben vedere, neppure nelle so-
277
Dono
Chi nega la possibilità e positività del dono finisce per adottare una vi-
sione paranoica e suicida della vita sociale (Teubner 2003). La moder-
nità ha cercato una specie di “dono assoluto” (ab-solutus da ogni inte-
resse), che però essa stessa ha dichiarato impossibile, finendo così in un
atteggiamento paradossale e autodistruttivo verso il valore del dono.
Per una soluzione non paranoica, occorre orientarsi verso una lettura dei
fenomeni che, per dirla con J. Godbout (2007), riesca a vedere che, sot -
to lo scambio, c’è il dono. In altri termini, o c c o r re vedere che il dono fon -
da lo scambio e non viceversa. Non solo perché il dono è il motore dello
scambio, in quanto ne costituisce il momento iniziale, che prevede l’ac-
cettazione e il ritorno, in un circuito indefinito (non ristretto a due) di
donatori e riceventi, ma in un senso più profondo e generalizzato: ossia,
per il fatto che ogni relazione sociale, inclusa quella di scambio, non è
umana se non nasce dal dono. Il dono gratuito è un trasferimento unila-
terale e senza condizioni, ma lo scambio successivo non è escluso.
Resta sempre, comunque, un dubbio circa le vere intenzione remote,
soprattutto quelle inconsce, del donatore e gli effetti sul donatario che
riceve senza meritare. In tutte le società, infatti, così come il dono è ap-
prezzato, esso è anche temuto: le regole della vita sociale non osserva-
no mai di buon occhio questo tipo di trasferimenti, giacché non si sa
che cosa essi celino e dove possano portare. Una interessante illustra-
zione di tale ambivalenza è quella relativa alla curiosità linguistica ri-
scontrabile nel vocabolario indoeuropeo: la parola gift può essere sdop-
piata nel suo contenuto semantico e diventare “dono” nella lingua in-
glese e “veleno” nella lingua tedesca (Mauss 2002).
Ci troviamo oggi in una situazione di profonda ambivalenza perché la
persistenza del dono diventa sempre più latente, enigmatica, parados-
sale. Salvo rilevare che c’è sempre più bisogno del dono, che solo esso
può salvare la società. Vediamo allora comparire anche una letteratura
contraria alla precedente, che assegna al dono un valore salvifico di ca-
rattere utopico. Spesso si tratta di correnti che si rifanno ad una qual-
che forma di socialismo moderno (da Rousseau a Marx), il cui minimo
comune denominatore sta nel proporre una concezione dell’evoluzione
storica in cui l’ultimo stadio consisterebbe in una restaurazione (subli-
mata) dell’età dell’oro, quando la società era dono, entro una visione di
anti-capitalismo umanista. L’eredità di queste tradizioni di pensiero gio-
ca ancor oggi un brutto scherzo quando si tratta comprendere l’impor-
tanza del dono gratuito nella storia umana.
Per chi intende rimanere sul terreno della realtà dei fatti sociali, dei bi-
sogni reali delle persone, dei reali rapporti di vita quotidiana, le visioni
279
Dono
c) Vi sono contesti nei quali il dono viene fatto per dare vita ad una “im-
presa comune” (in senso lato), con un fine di utilità sociale; qui il suo
valore è strumentale, ma è intrinseco alla relazione sociale; ciò avviene
in gran parte delle organizzazioni di terzo settore come la cooperazione
sociale, l’associazionismo sociale, le fondazioni civili, e il volontariato
che agisce per conto di altri enti (pubblici o privati) su obiettivi e pro-
grammi predefiniti e rendicontabili.
d) Vi sono contesti nei quali il dono è fatto per il valore espressivo (me-
ritorio) che porta con sé ed è totalmente intrinseco alla relazione: l’uti-
lità che ha o l’obbligo che può incorporare è del tutto secondario e non
necessario; è l’agire gratuito puro, che si ha laddove il contesto è orga-
nizzato sul principio della produzione di un puro →bene relazionale
primario; si tratta di quell’agire che chiamiamo familiare, di amicizia, di
prossimità, di socialità pura, quando è il valore della vita che è in gioco,
quando ciò che conta è il solo valore umano della relazione.
È anche troppo facile osservare che il dono puramente gratuito è raro.
Esso vive del rapporto con le stesse fonti della vita sociale, è il motore
di quei beni relazionali che sono detti primari in quanto non possiamo
farne a meno per la nostra identità costitutiva. Esso rischia di burocra-
tizzarsi quando deve servire a generare un bene relazionale secondario.
Mentre perde decisamente di valore espressivo e di valore intrinseco
quando viene organizzato per produrre beni strettamente privati o
strettamente pubblico-statuali.
Si è sempre tentati di disprezzare il dono quando non è gratuito. Ma bi-
sogna ammettere che la forma pura del dono ha dei requisiti sociali ol-
tremodo onerosi. In ogni caso, sotto certe condizioni, è possibile distin-
guere il “vero” dono (gratuito) rispetto al dono commerciale, al dono
avvelenato, al falso dono, al “dono che uccide” (the killing gift come lo
chiamano B. Wood e J. Derrida), e così via.
Il dono viene spesso considerato come una manifestazione del sogget-
to-persona, e in questo caso si mette l’accento sulle motivazioni spiri-
tuali, coscienziali, psicologiche dell’individuo. Ciò non è sbagliato, an-
zi, è essenziale. Ma costituisce solo un lato della medaglia. Infatti, poi-
ché l’individuo astratto non esiste, un dono come manifestazione del
soggetto puro è a sua volta una pura astrazione. Il dono gratuito esiste
in una relazione e prende sostanza e significato in e da quella relazione.
Nella relazione bisogna essere almeno in due, e la relazione ha una esi-
stenza propria che non può essere ridotta alle caratteristiche di chi fa e
di chi riceve il dono. Il dono gratuito esiste solo in un contesto e come
espressione di soggetti che lo esprimono inter-soggettivamente.
283
Dono
Il dono autentico come relazione sociale può essere indagato tramite tre
semantiche fra loro connesse (Donati 2000).
Primo, nella semantica del refero, la relazione di dono è un riferimento
simbolico ad uno scopo significativo: il dono sta a significare una rinun-
cia positiva, un trasferimento unilaterale incondizionato, per il puro be-
ne del destinatario; è importante sottolineare che l’affermazione ha un
valore primariamente analitico e non empirico, nel senso che in questa
semantica il dono vale come motivo iniziale (motore) della relazione, in
quanto si entra in relazione accettando il rischio della perdita totale, ma
– empiricamente – non si esclude a priori che l’alter possa a sua volta re-
agire positivamente, e anche dare qualcosa in ritorno, contraccambiare,
reciprocare, e così via, anche se – appunto – l’azione non è né mossa
dallo scopo di un contraccambio per quanto differito e improbabile.
Secondo, nella semantica del religo, la relazione di dono è l’affermazio -
ne di un legame sociale; il legame che si instaura o viene rinforzato non
ha altri mezzi e altre norme che se stesso, non ha costrizioni esterne, né
condizionamenti di altro genere, esso è legame per sé e in sé, per il fat-
to stesso di mettere in relazione, non conosce altre regole di obbligazio-
ne o debito su risorse che la norma del donare (si deve dare perché so-
lamente così si può sentire quanto sia bello essere legati all’altro/agli al-
tri); anche qui l’affermazione è primariamente analitica, il che significa
che, empiricamente, non è escluso l’uso di altri mezzi e regole, che in
ogni caso saranno subordinati a quelli propri del dono.
Terzo, nella semantica della relazione come effetto emergente, la relazio-
ne di dono è il prodotto del “combinato disposto” delle due semanti-
che precedenti, allorché tale prodotto si eccede nella propria distinzio-
ne direttrice: fare dono anziché qualcosa d’altro; in concreto, il dono è
qui la relazione che costituisce l’identità di ego come colui che dona
qualcosa o tutto se stesso ad alter, nella relazione emergente costitutiva
dei soggetti in relazione; il dono è allora la relazione che rende vitale il
nostro essere-insieme, il vivere insieme secondo una certa forma socia-
le (famiglia, associazione, impresa, ecc.).
Il dono come relazione sociale è l’attualizzazione di una azione di cura
(care), di presa in carico, che si costituisce sempre sulla base di questa
triplice semantica (re f e r o, re l i g o, relazione emergente) (Donati 2000).
Nel caso del dono “veramente” gratuito, il destinatario del dono e il
vincolo del dono corrispondono alla affermazione della relazione come
tale, della relazione come espressione della vita sociale in sé e per sé. Il
dono veramente gratuito non ha altro significato che il dono stesso e
non è vincolato ad altro che a se stesso. Ciò che è in gioco è il puro dar-
284
Dono
PIERPAOLO DONATI
289
Dragonetti Giacinto
Dragonetti Giacinto
Giacinto Dragonetti, di origini aquilane, si trasferì per studi prima a Ro-
ma, e poi, dal 1760, a Napoli, dove studiò giurisprudenza e divenne al-
lievo di →Genovesi. Di formazione giuridica, Dragonetti a poca distan-
za dalla pubblicazione del libro di Cesare →Beccaria Dei delitti e delle
pene, pubblicò a Napoli un piccolo libro dal titolo Delle virtù e dei pre -
mi (1766). Così scrive nella sua prefazione alla ristampa modenese
(1768) del libro di Dragonetti lo stampatore Giovanni Montanari:
«L’autore di questo libretto, che io ti presento, o Lettor cortese, è il Sig.
Dragonetti, giovane scolare del Sig. Genovesi, bravo filosofo napoleta-
no». E Genovesi in una lettera privata definisce Delle virtù e dei premi
«opera di un mio amico» (1962 [1767], p. 205). Alfonso Dragonetti,
biografo, nella vita di Giacinto Dragonetti, così scrive: «Nel 1760 ven-
ne ad erudirsi in Napoli alla carriera del foro ed intese alla giurispru-
denza con uno spirito di filosofia… L’illustre Genovesi era in quel tem-
po il principe del pensiero, non solo in Napoli, ma anche nell’Italia e
sotto la disciplina di lui compì il giovane aquilano di educare la sua
mente a mature riflessioni ed esatti raziocini. Come dietro De i delitti e
delle pene del giovane Beccaria c’è la mano di Pietro Verri e del grup-
po del Caffè, così dietro il libro del giovane Dragonetti (era nato nel
1738, come Beccaria), c’è probabilmente la mano di Genovesi e dell’ac-
cademia delle scienze di B. Intieri».
Nell’introduzione di Delle virtù e dei pre m i, si legge: «Gli uomini hanno
fatto milioni di leggi per punire i delitti, e non ne hanno stabilita pur una
per premiare le virtù» (Dragonetti 1768, p. 3). Anche se Dragonetti stes-
so nello scegliere il titolo del libro (Delle virtù e dei premi) voleva presen-
tare la sua teoria in rapporto, e quasi in contrapposizione, ai Dei Delitti
e delle pene di Beccaria, in realtà una lettura attenta di entrambe le ope-
re mostra che, da una parte, Beccaria non aveva del tutto dimenticata
l’importanza del premiare le virtù, anche se il tema restava un po’ sullo
sfondo del suo libro; e, dall’altra, che l’intento di Dragonetti fosse colma-
re una lacuna, più che criticare Beccaria. Genovesi parla addirittura di
«imitazione del libro di Beccarla», riferendosi al libro di Dragonetti
(1962 [1767], p. 205). In realtà questa frase sembra ingiusta, poiché non
si trattava certo di imitazione ma quantomeno di sviluppo e di comple-
tamento. Alfonso Dragonetti così commenta: «Chi affermò che quel trat-
tato fosse composto per contraddire e confutare il Beccaria, certamente
avvisò di avventurare un tal giudizio sul solo apparente contrariarsi dei
titoli» (Dragonetti A. 1847, pp. 113-114). E Benedetto Croce in una sua
290
Dragonetti Giacinto
la. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza
e tranquillità» (1821 [1764], p. 13). Da questo punto di vista (idea di
socialità e natura del contratto sociale), Dragonetti si muoveva invece in
forte continuità con Genovesi.
L’idea centrale di Delle virtù e dei pre m i, consisteva nell’attribuire un
ruolo essenziale al “premio” delle virtù, ad un’etica delle virtù, che quin-
di è anti-hobbesiana e in linea con una visione aristotelico-tomista, e da
questo punto di vista con la tradizione romana del repubblicanismo, di
Cicerone e Plurarco ad esempio, e in parte lockiana (come emerge anche
dall’idea di patti sociali che ritroviamo in Genovesi (L e z i o n i, I, ch. 1), e
poi in →Filangieri (2003 [1780], libro III) – che comunque non fa rife-
rimento a Dragonetti. La virtù, come è nota, nella teoria classica, che par-
te almeno con Socrate, non può essere descritta con una logica puramen-
te strumentale o consequenzialista: l’a re t é, infatti, è praticata dall’uomo
virtuoso perché è buona in sé, e non perché procura piacere o frutti ma-
teriali. In realtà, poi, la vera virtù porta anche piacere e frutti materiali,
ma è un effetto quasi indiretto o non-intezionale. Come possiamo pre-
miarla? Si capisce subito che il “premio” per la virtù non può essere
qualcosa di simile a ciò che oggi chiamiamo “incentivo”: l’incentivo, in-
fatti, è una pena con il segno meno, e ha la stessa natura e funzione estrin-
seca, ottenere qualcosa da chi non lo farebbe spontaneamente o sincera-
mente. Che cos’è allora, almeno nel pensiero di Dragonetti, il premio
della virtù? Ma, ancora prima, che cosa intende Dragonetti per virtù?
Egli l’associa alla ricerca diretta e intenzionale del bene pubblico (come
distinto da quello privato, e non necessariamente allineato con questo).
Dragonetti descrive la società civile, e la sua costruzione, in modo simile
a Locke o a Rousseau: la persona umana per natura è socievole e amore-
vole, ma sono le scarsità delle risorse e il disordine nelle passioni che pro-
duce conflitti: da qui nascono razionalmente il contratto sociale e le rela-
tive leggi. Quando qualcuno agisce per “l’altrui vantaggio” abbiamo a
che fare con le virtù: «si diede il nome di virtù a tutte le azioni, che ri-
guardavano interesse degli altri, o a quella preferenza del bene altrui so-
pra il proprio» (Dragonetti 1768, p. 7). È quindi certo che per Dragonet-
ti la ricerca dell’interesse personale sebbene sia naturale non è azione vir-
tuosa. La virtù richiede sforzo, sacrificio: «Noi chiamiamo Dio buono
più che virtuoso, perché non ha egli bisogno di sforzo per far del bene…
Altro dunque non è la virtù che un generoso sforzo indipendente dalle
leggi, che ci porta a giovare altrui. I suoi estremi sono il sacrificio, o sca-
pito del virtuoso, e l’utile che ne risulta al pubblico» (i b i d.). Ecco dun-
que l’altro elemento o condizione sufficiente per la virtù (la necessaria è
il sacrificio e lo sforzo): l’utilità per il pubblico, o →bene comune. E ag-
292
Dragonetti Giacinto
giunge: «molti con equivoco danno il nome di virtù alle azioni, le quali
sono un puro effetto della legge naturale, divina, o civile, e che dovreb-
bero con più giusto vocabolo chiamarsi doveri» (Dragonetti 1768, p. 8).
Melchiorre Gioia, l’autore che nella prima metà dell’Ottecento riprese –
unico in Italia – il tema di Dragonetti nel suo trattato Dei meriti e delle
ricompense, riconoscendone il primato a Dragonetti, aggiunge altri due
elementi oltre al sacrificio e all’utilità: «il fine disinteressato, e la conve-
nienza sociale» (1848 [1818], p. 27), due elementi che, come vedremo,
erano ben presenti nel testo di Dragonetti.
Ecco quindi chiarita la distinzione tra premio e incentivo: l’incentivo è
mirato all’interesse privato, il premio è legato al bene comune. Da qui la
sua teoria dei premi: «Essendo la virtù un prodotto non del comando
della legge, ma della libera nostra volontà, non ha su di essa la società di-
ritto veruno. La virtù per verun conto non entra nel contratto sociale; e
se si lascia senza premio, la società commette un’ingiustizia simile a quel-
la di chi defrauda l’altrui sudore» (Dragonetti 1768, pp. 11-12). Il “pre-
mio” quindi è una ricompensa per l’azione che va “oltre” i contratti e le
leggi: è una ricompensa ad un atto sostanzialmente di gratuità: «È vero,
che tutti i membri dello Stato gli debbono i servigj comandati dalle leg-
gi, ma è altresì fuor di dubbio, che i Cittadini debbono esser distinti, e
premiati, a proporzione de’ loro servigi gratuiti. Le Virtù sono tanti ser-
vigj considerabili, e arbitrari, che si prestano allo Stato. Sono più che
umane quelle Virtù, che bastano a se stesse» (Dragonetti 1768, p. 12, cor-
sivo mio). Le espressioni “servigi gratuiti” e “bastano a se stesse” sono
due espressioni che ci svelano un ingrediente chiave di una teoria delle
virtù civili: la ricompensa delle virtù è la virtù stessa. Quindi, anche se la
collettività deve ricompensare dall’esterno, in qualche modo, le virtù, la
ricompensa esterna poggia, si appoggia ed è completare alla prima forma
di remunerazione che è intrinseca, interna al soggetto virtuoso. Quindi,
in altre, parole, perché un’etica delle virtù funzioni e si implementi nella
società c’è bisogno di educazione, e di c u l t u r a. Va notato il tema educa-
tivo è centrale nei riformatori illuministi, e in Genovesi in modo tutto
particolare: fu il primo ad insegnare filosofia in Italia in italiano invece
che in latino, proprio per la funzione civile che egli attribuiva alla cultu-
ra e all’università. Ma subito dopo, come era d’aspettarselo, Dragonetti
si pone una questione, che è una domanda cruciale in un discorso sui
premi alle virtù: «non oppongasi, che quando le virtù abbian proposta la
loro mercede, si riguarderanno non più come azioni generose, ma mer-
cenarie» (i b i d.). Come è possibile però che ciò accada? Come poter re-
munerare le virtù civili in modo che il premio “esterno” non trasformi la
gratuità della virtù in scambio commerciale, che comporterebbe la per-
293
Dragonetti Giacinto
Un discorso che a distanza di due secoli e mezzo non ha perso nulla del-
la sua potenza rivoluzionaria. Da questa polemica anti-feudale nasce an-
che la lode per il commercio e per le arti, che però va letta correttamen-
te solo se rapportata all’intero progetto dell’illuminismo napoletano: co-
struire una società post-feudale dove grazie alla ricompensa corretta alle
vere virtù, si avviasse una nuova fase di vita civile. Ecco perché il discor-
so culturale di Dragonetti, come quello di Genovesi o di Filangieri, è di -
rettamente un discorso sul mercato, una teoria di sviluppo economico, e
non un discorso morale o solo giuridico. Come possiamo immaginare al-
lora il premio alle virtù come via allo sviluppo economico e civile? In ge-
nerale, e come nota comune all’intera tradizione dell’economia civile, il
senso dell’intera opera educativa e riformatrice di Genovesi, Dragonetti,
Filangieri e in un certo senso dell’intera scuola napoletana dell’economia
civile, è un tentativo di educare i suoi studenti ad essere “sinceramente”
amanti della virtù, ad attribuirle anche un valore intrinseco, sulla base del
tentativo di mostrare loro che la virtù, soprattutto quando è reciproca
(dirà Genovesi), ha una sua logica, una razionalità. E le argomentazioni
giuridiche e politiche di Dragonetti vanno nella stessa direzione: trovare
dei meccanismi che possano “premiare” la virtù, facendo però in modo
che questi premi “rafforzino” e non “spiazzino” le virtù. Come il merca-
to non si oppone alla società civile, per Dragonetti i premi per le virtù
non si oppongono alle remunerazioni normali di mercato, purché queste
siano giuste, e civili. Il libro di Dragonetti ebbe una buona fortuna nel-
l’Europa del Settecento, tra cui Polonia e Russia: fu pubblicato a Vene-
zia, Modena, Palermo, ma anche in francese (1767) e in inglese (1769).
Fu citato polemicamente (e si capisce) dalla scuola del →Bentham, e con
entusiasmo dal Paine. Ci furono alcune ristampe di entrambi i suoi libri
nella prima metà dell’Ottocento, dopo di che, anche per la ripresa del te-
ma da parte di Melchiorre Gioia, che associò alla sua personalità polie-
drica e dispersiva anche il tema delle virtù e delle ricompense, il tema
cadde nel dimenticatoio. Oggi il tema della ricompensa ai comportamen-
ti virtuosi vede una nuova stagione, soprattutto nell’ambito della lettera-
tura del “crowding-out” motivazionale, quando si ha a che fare con la re-
munerazione delle motivazioni intrinseche (Frey 1997). Dragonetti però
aspetta ancora di essere riscoperto e rivaluto.
BIBL. - Croce B. (1959), Il libro “Delle virtù e dei premi” del Dragonetti,
in Nuove pagine sparse, vol. 2, Ricciardi, Napoli, pp. 235-237.
Dragonetti A. (1847), Le vite degli aquilani illustri, Perchiazzi,
L’Aquila.
295
Dragonetti Giacinto
Dragonetti G. (s.d.), Difesa del Regio Padronato di S. Maria della Valle Por -
canete, Napoli, intorno al 1765-1766.
Dragonetti G. (s.d.), Risposta alle obbiezioni fatte contro il Regio Padronato
di S. Maria della Valle Porcanete (intorno al 1765-1766, Napoli).
Dragonetti G. (1768), Delle virtù e dei premi, Stamperia reale, Modena.
Prima edizione napoletana (anonima), 1766.
Dragonetti G. (1788), Dell’origine dei feudi ne’ regni di Napoli e di Sici -
lia, Stamperia Reale, Napoli.
Frey B. (1997), Non solo per denaro, B. Mondadori, Milano.
LUIGINO BRUNI
296
vocabolo
Ecologia
Nel lungo cammino delle civiltà la persona umana ha sempre avuto con
la natura un rapporto caratteristico in ogni periodo storico, dal paleoli-
tico all’età industriale. Da sempre essa si è sentita parte della natura, ma
una parte speciale, capace di riflettere per conoscerla nei suoi segreti,
capace di contemplarne le bellezze, di trasformarla per soddisfare le
proprie necessità.
Ciò che caratterizza l’oggi delle società industriali è lo sperimentare la
capacità di dominare, grazie allo sviluppo scientifico e tecnologico, su
un numero sempre maggiore di eventi naturali e sentirsi sempre più pa-
droni della natura, sempre più capaci di esercitare su di essa un vero e
proprio dominio.
Nel quadro culturale di una diffusa concezione funzionalista e utilitari-
sta, dominante in queste società, la natura è diventata sempre più un
oggetto nelle mani dell’uomo tecnologico – che con la scienza esplora e
con la tecnologia sottomette – al punto che essa ha perso sempre più la
propria autonomia in quelle relazioni che la legano alla persona umana,
e conseguentemente la pienezza del proprio significato. Si assiste a quel
fenomeno che va sotto il nome di disumanizzazione della natura in cui
vengono prima alterate e poi perdute quelle relazioni originarie che la
legavano costitutivamente alla persona umana.
Allo stesso tempo, vivendo sempre più in un ambiente artificiale, le per-
sone si scoprono ogni giorno più estranee dal contesto naturale, e più
impoverite nella loro identità: sono soggette ad una denaturalizzazione
della persona.
le. Quella terra di cui oggi si sente padrone non la vorrà comprendere
come un campo privato di cui egli è l’unico soggetto che ne può dispor-
re, ma la valorizzerà attraverso il proprio lavoro e la custodirà dovero-
samente nel migliore dei modi come un amministratore responsabile, in
vista della sua consegna alle generazioni future.
In un tale antropocentrismo solidale la persona umana si realizza in ba-
se al grado di solidarietà che riesce nella propria esistenza a stabilire con
gli altri esseri umani e con la Terra. Più l’uomo e la donna si porranno
come un soggetto che che-si-dà, che attualizza il dono-di-sé, più si sco-
priranno autenticamente persona.
Questo rinnovato rapporto tra persona umana e natura sollecita ed esi-
ge un modello antropologico – per gran parte oggi ancora inedito – in
cui la persona umana si autocomprenda né come dominatore, né come
un comune elemento biotico, ma come un soggetto cosciente e respon-
sabile che si pone e si realizza nel suo dar-si ai suoi simili e alla realtà na-
turale di cui anch’egli fa parte. Quindi un modello antropologico in cui
si passi da un’ottica prevalentemente individuale ad un’ottica di comu-
ne-unione, da un’ottica di gruppo limitato ad un’ottica di famiglia uma-
na globale. Ad un tale progetto ogni autentica tradizione culturale è
chiamata a dare il proprio contributo.
304
Economia ambientale
Economia ambientale
Gli aspetti economici dei problemi ambientali acquistano una rilevanza
crescente. Ci si chiede se la crescita economica comporti un peggiora-
mento della qualità ambientale o se sia compatibile con la sua preserva-
zione; se la liberalizzazione crescente degli scambi e la loro globalizza-
zione non porti con sé un aumento del degrado dell’ambiente; se le so-
cietà siano consapevoli non solo dei costi che il degrado ambientale
comporta, ma anche di quelli che è necessario sostenere per preservare
l’ambiente.
Nell’analisi economica l’ambiente è considerato come un insieme di ri-
sorse che forniscono diversi tipi di servizi, tra cui uno in particolare è di
fondamentale importanza, il sostegno alla vita dell’umanità. Le risorse
naturali e ambientali sono limitate e come tali possono deteriorarsi o
possono esaurirsi per un eccessivo sfruttamento. L’esaurimento, ma an-
che un deterioramento eccessivo delle risorse naturali e dell’ambiente
vanno evitati perché finirebbero per compromettere le condizioni di
mantenimento della vita dell’umanità; ma non si tratta di un compito
facile perché l’attività umana non può svolgersi senza una qualche for-
ma di sfruttamento delle risorse naturali e dell’ambiente
Il danno ambientale sotto forma di inquinamento può assumere varie
forme: inquinamento dell’aria, dell’acqua, del suolo. L’inquinamento
produce benefici e comporta dei costi. I benefici sono direttamente lega-
ti all’attività economica dalla quale derivano le emissioni di sostanze in-
quinanti. I costi sono conseguenti ai danni prodotti dall’inquinamento.
Ogni azione di riduzione dell’inquinamento ha di mira la riduzione dei
costi degli inquinanti, ma deve anche tenere conto del costo che la ri-
duzione dell’inquinamento implica.
I costi per la riduzione dell’inquinamento sono facilmente misurabili at-
traverso il →mercato; questi costi preoccupano perché molto spesso si
manifestano in riduzioni delle produzioni inquinanti e dell’occupazio-
ne in queste produzioni.
Molto più difficile per il mercato è valutare i benefici della riduzione
dell’inquinamento, ossia i danni che l’inquinamento produce. Perciò
normalmente chi produce un bene, mentre sa dal mercato quanto deve
pagare per i vari input di produzione, non riceve dal mercato un segna-
le che deve pagare per il danno che deriva da quella produzione. Que-
sto induce a inquinare troppo e non incentiva ad affrontare le spese ne-
cessarie per ridurre l’inquinamento.
305
Economia ambientale
IGNAZIO MUSU
Economia comportamentale
1. Le due “anime” dell’economia comportamentale
Appare difficile negare che la cosiddetta economia comportamentale
rappresenti una delle novità più interessanti nel panorama della scien-
za economica contemporanea, configurandosi come una delle frontiere
della teoria economica in grado di produrre un impatto profondo e ve-
rosimilmente duraturo sull’evoluzione della disciplina a livello interna-
zionale. Benché significative dosi di diffidenza e scetticismo ne abbiano
accompagnato le prime fasi di sviluppo, si può oggi rilevare come i
principali esponenti dell’economia comportamentale stiano ottenendo
riconoscimenti prestigiosi (si pensi ad esempio all’assegnazione della
John Bates Clark Medal, premio annualmente riservato al migliore eco-
nomista statunitense, a Matthew Rabin, o all’attribuzione del Premio
Nobel per l’Economia allo psicologo sociale Daniel Kahneman).
L’ economia comportamentale rappresenta una prospettiva di analisi fi-
nalizzata ad accrescere il potenziale esplicativo e predittivo della teoria
309
Economia comportamentale
sti casi), lo stesso non può dirsi nel caso di un Proponente che decida
di assegnare fette relativamente consistenti della torta disponibile all’al-
tro giocatore.
Nel tentativo di dirimere la questione e isolare le effettive motivazioni
del Proponente nel caso in esame, l’economia sperimentale ha fatto ri-
corso ad un altro protocollo di gioco: il cosiddetto Gioco del Dittatore
(GD; Dictator Game). Il GD non è in realtà un vero e proprio “gioco”,
ma un problema decisionale che coinvolge un unico agente (il Dittato-
re, appunto). La struttura del problema in questo caso è estremamente
semplice: il Dittatore deve stabilire come dividere la “torta” tra sé e un
altro soggetto, sapendo che, a differenza di quanto accade nel GU, que-
st’ultimo non prenderà alcuna decisione e sarà costretto ad accettare
passivamente qualunque somma gli venga offerta. È quindi evidente
che se il Dittatore fosse guidato esclusivamente dal material self-inte -
rest, sceglierebbe di trattenere l’intero ammontare di denaro per sé, la-
sciando l’altro individuo a bocca asciutta. I dati sperimentali mostrano
invece che, anziché l’allocazione (100, 0), a prevalere siano spesso allo-
cazioni del tipo (80, 20): i Dittatori preferiscono quindi non mettere le
mani su tutta la torta, anche se la fetta che assegnano all’altro “giocato-
re” è decisamente inferiore a quella che assegnano a se stessi.
Mettendo a confronto i risultati tipici del GD con quelli del GU, l’eco-
nomia comportamentale è riuscita a gettare luce sulla dimensione mo-
tivazionale dei giocatori chiamati ad agire come Proponenti nel secon-
do contesto di interazione in esame, rispondendo così al quesito prece-
dentemente richiamato e relativo alle ragioni (altruismo/equità versus
egoismo illuminato) che sottendono la scelta di numerosi Proponenti
nel GU di offrire somme relativamente consistenti ai Decisori. In parti-
colare, l’evidenza sperimentale ad oggi disponibile indica che, a parità
di condizioni, le somme assegnate ai Decisori dai Proponenti nel GU ri-
sultano essere nettamente superiori a quelle offerte dai Dittatori agli al-
tri soggetti nel GD (si vedano, ad esempio, i lavori di Forsythe et al.
1994 e Frey - Bohnet 1995). Pertanto, il confronto con quanto avviene
nel GD consente di concludere che l’egoismo illuminato gioca un ruo-
lo-chiave alla base delle scelte comportamentali dei Proponenti nel GU.
Ad una conclusione analoga si approda considerando il solo GU e fo-
calizzando l’attenzione sul livello di offerta che massimizza il valore at-
teso del payoff monetario del Proponente, data la distribuzione di pro-
babilità delle scelte di rifiuto dei Decisori (si veda, su questo, Roth et al.
1991). In termini tecnici, questo livello di offerta costituisce la cosiddet-
ta IMO (income maximizing offer). Sotto il profilo sperimentale, tale
314
Economia comportamentale
3. Prospettive
L’esplosione dell’economia comportamentale rappresenta una novità
decisamente promettente per la scienza economica contemporanea, che
può consentirle, sul piano esplicativo, di sprigionare energie che il pa-
radigma analitico tradizionale rischiava di lasciare inespresse. Come è
stato rilevato in Zarri (2006), infatti, la teoria economica di derivazione
neoclassica, pur essendo formalmente aperta ad accogliere al proprio
interno un ampio spettro di preferenze socialmente condizionate, è ri-
masta vincolata per troppo tempo, di fatto, ad un unico sistema di mo-
tivazioni comportamentali individuali: quelle auto-interessate. A tale ri-
guardo, Fehr et al. (2005) rilevano come «In generale la teoria econo-
mica è stata restia a formulare assunzioni specifiche in merito alle pre-
ferenze umane e si è limitata a richiedere che fossero soddisfatti gli as-
siomi della teoria delle preferenze rivelate. In pratica, tuttavia, gli eco-
nomisti spesso si avvalgono dell’ipotesi forte secondo la quale le prefe-
renze individuali sono esclusivamente auto-interessate». L’economia
comportamentale, invece, grazie soprattutto ad una ricca e crescente
evidenza sperimentale (all’accumulazione della quale negli ultimi anni
stanno contribuendo in misura significativa anche studi di carattere
neuroeconomico, che ricorrono a metodologie di tipo neuroscientifico
per analizzare problemi decisionali economicamente rilevanti), sta get-
tando luce sulla complessità motivazionale che caratterizza gli agenti
economici nei loro processi decisionali, soprattutto in contesti di inte-
razione strategica. Certo, è importante tenere conto del fatto che, per
317
Economia comportamentale
LUCA ZARRI
lamente del lato della domanda. In buona sostanza, l’effetto del prote-
stantesimo sarebbe stato solamente quello di incidere sulle preferenze
degli individui. L’argomento è noto: liberando l’acquisizione della ric-
chezza dalle inibizioni delle etiche precedenti, e vedendo nel guadagno
«l’espressione diretta della volontà di Dio», la Riforma induce a far pre-
ferire il lavoro al tempo libero e il risparmio al consumo. È in partico-
lare la nozione calvinista di ascetismo – a differenza di quanto accade-
va nella vita monastica, l’ascetismo per Calvino significava impegnarsi
nel mondo in modo produttivo controllando razionalmente le pulsioni
passionali – che secondo Weber vale a stabilire la contiguità tra prote-
stantesimo e capitalismo moderno. L’ascesi cattolica extramondana si fa
ascesi intramondana nella spiritualità calvinista.
Tutto ciò non basta, però, per dare conto della genesi e dello sviluppo
del capitalismo moderno. Ekelund, Hebert e Tollison ritengono che sia
indispensabile aggiungere al quadro di analisi la considerazione dei fat-
tori di offerta, e ciò nel senso che la Riforma avrebbe allentato, e non di
poco, i vincoli del problema economico della scelta. Come? Riducendo
i costi della partecipazione religiosa in seguito all’abolizione dei pelle-
grinaggi, alla riduzione dei tempi della preghiera, alla forte diminuzio-
ne del clero, alla rinuncia alla costruzione di costose cattedrali, e così
via. Ma soprattutto dirottando ingenti risorse di capitale e di lavoro dal-
le opere sociali verso impieghi economicamente produttivi, favorendo
in tal modo l’accumulazione del capitale. Invero, il convincimento, tipi-
camente protestante, secondo cui la salvezza è qualcosa di individuale e
non già di comunitario, ha avuto l’effetto di provocare l’eliminazione,
nei paesi toccati dalla Riforma, delle opere sociali del cattolicesimo, con
la conseguenza di cui si è appena detto.
La considerazione dei fattori di offerta sicuramente rende più credibile
la tesi weberiana e getta nuova luce su una vicenda – lo sviluppo del ca-
pitalismo moderno – intorno alla quale i contributi di storici, sociologi,
antropologi ed economisti sono ormai schiera. Eppure, se gli autori
avessero dilatato un poco la loro prospettiva di analisi forse sarebbero
riusciti a vedere nella vicenda della Riforma un caso notevole, anche se
non unico nella Modernità, di eterogenesi dei fini. Lutero e gli altri
esponenti della Riforma erano ostili alle questioni economiche, né co-
noscevano – salvo forse Calvino – il funzionamento delle istituzioni di
→mercato. Come si sa, la loro fu una lotta accesa contro la diffusa pra-
tica, nella Chiesa cattolica, di episodi di corruzione e di compravendita
delle indulgenze. La Riforma non riguardò, se non molto indirettamen-
te, la sfera dell’etica. Il suo oggetto fu piuttosto la teologia e la vita reli-
325
Economia della religione
noto all’estero che in Italia. Duplice la mira del saggio: per un verso, re-
trodatare la nascita dello spirito del capitalismo al tardo medioevo, al
periodo cioè in cui prende forma la moderna economia di mercato; per
l’altro verso, mostrare che tale spirito rappresentò una sorta di deviazio-
ne o comunque un allontanamento dai principi dell’etica cristiana. En-
trambe le tesi contrastano con quella di Weber. Come lo stesso Fanfani
scriverà nel saggio del 1976, espressione della sua piena maturità scien-
tifica: «l’indebolimento dell’influenza esercitata dalla concezione socia-
le avanzata dal cattolicesimo medievale è la circostanza che spiega la
manifestazione e la crescita dello spirito capitalistico nel mondo catto-
lico» (Fanfani 1976, p. 122). A giudizio di Fanfani, la Riforma rafforzò,
ma non iniziò, la degenerazione, rispetto all’alveo del messaggio evan-
gelico, che già da tempo aveva preso a manifestarsi in ambito cattolico.
Cosa c’è all’origine del rafforzamento di cui parla Fanfani? Il convinci-
mento, tipicamente protestante, secondo cui la salvezza è qualcosa di
individuale, e non già di comunitario. Mentre per la teologia cattolica il
peccato è distruttivo dell’unità del genere umano, per la teologia prote-
stante il peccato è la rottura del legame individuale che unisce l’uomo a
Dio: è così che la salvezza diviene un fatto eminentemente individuali-
stico. Come sopra si è ricordato, la conseguenza pratica di tale muta-
mento di prospettiva fu l’eliminazione, nei paesi toccati dalla Riforma,
delle opere sociali del cattolicesimo, vale a dire l’abbandono di una del-
le più alte espressioni della centralità del principio del →bene comune.
Riusciamo ora a comprendere dove risiede l’origine dell’incomprensio-
ne da parte di Fanfani della tesi di Weber. L’economia di mercato non
nasce in antitesi all’etica cattolica; anzi ne costituisce uno dei frutti più
maturi. Il fatto è che, ai suoi albori, l’economia di mercato non è capi-
talistica, ma civile. Il suo fine è il bene comune e non il bene totale. Il
declino delle città italiane, che si registra già a partire dalla fine del Cin-
quecento, è conseguenza di una pluralità di cause e tra queste v’è l’af-
fermazione della centralità del profitto come movente principale del-
l’agire economico. La stagione dell’umanesimo civile, con la sua econo-
mia civile, fu breve. L’esperienza della libertà e della repubblica cedet-
te il passo alle signorie, ai principati e alle monarchie assolute, che pre-
pararono la via ad un’epoca di autoritarismi ben lontani dalla libertas
fiorentina e dal modello della civiltà cittadina. Si spiega così che dopo
tale breve stagione – che aveva visto l’affermazione dell’eguaglianza dei
cittadini e della libertà anche economica – tra Seicento e Settecento tor-
nano con forza opere di teoria politica e sociale che assegnano al Levia-
tano il compito di ricondurre ad unità un civile rivelatosi incapace di
327
Economia della religione
ciascun individuo potrà estrarre dagli scaffali quella proposta che, me-
glio e più delle altre, soddisfa le sue preferenze (date). Significativa a ta-
le riguardo è la citazione del poeta francese Andrè Suarés che Ekelund
et al. accolgono e fanno propria: «L’eresia è la linfa vitale delle religio-
ni. È la fede a generare l’eresia. In una religione morta non esistono ere-
sie» (p. 292).
Dov’è il punto di maggiore debolezza del programma di ricerca del-
l’economia della religione? Nell’assunzione (pre-analitica) che quelli re-
ligiosi siano mercati al pari di tutti gli altri. Il che non è, perché ciò che
in essi viene “scambiato” non è una merce scarsa, ma un →bene rela-
zionale. In quanto anti-rivale – più se ne consuma, più se ne ha, proprio
come accade con la virtù di cui parla Aristotele – il bene relazionale non
può essere categorizzato all’interno del paradigma della scarsità. Per
dirla in termini un poco più ampi, la sfera della razionalità economica
non può essere circoscritta alla sola sfera della scelta razionale, perché
non è vero che l’unica teoria valida dell’azione umana è quella dell’azio-
ne intenzionale. Come gli economisti sanno da lungo tempo, una gran
parte delle decisioni traggono origine, oltre che da intenzioni, anche da
disposizioni, come è appunto la disposizione alla relazionalità e ancor
più al →dono come gratuità. È dunque la pretesa di voler studiare le
scelte religiose degli individui sulla base di una nozione di razionalità
che, per definizione, non intende tener conto del livello disposizionale
dell’agire umano a rendere non credibili le conclusioni cui giunge l’eco-
nomia della religione.
Come la ricerca di questi ultimi ha svelato, non è affatto detto, in via di
principio, che l’orientamento motivazionale auto-interessato – che nel-
la letteratura in argomento è l’unico orientamento che, sulla base di ar-
gomentazioni evoluzionistiche per lo più ingenue, vale la pena di consi-
derare – sia anche quello che viene selezionato all’interno di un deter-
minato contesto di interazione. Se dunque non è più possibile postula-
re un determinato orientamento, ma occorre dimostrare la salienza in
una determinata circostanza, le spiegazioni dei comportamenti religiosi
da parte degli individui come risposta ai canoni della scelta razionale di-
ventano circolari e dunque tautologiche. (Si veda la devastante critica
dell’approccio della scelta razionale alla religione di Bruce 1999).
Quanto sopra ci permette di cogliere la causa del riduzionismo che af-
fligge il programma di ricerca dell’economia della religione e ne mutila
la salienza. Si tratta dell’incapacità di comprendere la distinzione pro-
fonda tra razionalità e ragionevolezza. Un argomento economico può
ben essere razionale, matematicamente ineccepibile, ma se le sue pre-
329
Economia della religione
messe, cioè i suoi assunti, non sono ragionevoli, risulterà di scarso aiu-
to; anzi, può condurre a disastri. Ha scritto il celebre filosofo della
scienza G. von Wright (1987): «I giudizi di ragionevolezza sono orien-
tati verso il valore; essi vertono… su ciò che si ritiene buono o cattivo
per l’uomo. Ciò che è ragionevole è senza dubbio anche razionale, ma
ciò che è meramente razionale non è sempre ragionevole». La ragione-
volezza, infatti, è la razionalità che rende la ragione ragione dell’uomo
e per l’uomo – come gli umanisti civili del XV secolo avevano chiara-
mente compreso.
STEFANO ZAMAGNI
330
vocabolo
Economia di comunione
«L’esperienza dell’Economia di Comunione, con le particolarità che le
derivano dalla spiritualità da cui nasce, si pone a fianco delle iniziative
individuali e collettive che hanno cercato e cercano di “umanizzare
l’economia”» (Lubich 2006, p. 382). Essa costituisce una delle espres-
sioni sociali del Movimento dei Focolari, fondato da Chiara Lubich a
Trento nel 1943. Sotto i bombardamenti che annientano ogni cosa, si
manifestano i grandi e piccoli orrori della Seconda guerra mondiale: fa-
miglie distrutte, case sinistrate, fidanzati che non ritornano dal fronte,
studenti che devono interrompere gli studi. Di fronte a tale desolazio-
ne, al vedersi infrangere gli ideali per i quali avevano sino allora vissu-
to, Chiara Lubich ed un gruppo di giovani amiche scoprono che Dio è
Amore e sperimentano che «tutto crolla, solo Dio resta». Ogni volta che
suonavano le sirene che annunciavano i bombardamenti, si recavano
nei rifugi portando con sé una sola cosa: un Vangelino. Cominciarono
a sfogliarlo. «Dio è amore», ma come fare a ricambiare il suo amore?
Facendo la Sua volontà: «Ama il prossimo tuo come te stesso», vi si leg-
geva. «Ma chi è il nostro prossimo?». Quella vecchietta da assistere,
quella mamma da aiutare perché da sola non riusciva a portare i bam-
bini nel rifugio, quei poveri con i quali si poteva condividere il poco che
si aveva… Dapprima un amore ai più bisognosi, poi si scopre un amo-
re universale, che ama tutti, sino a che diviene reciproco, sino a genera-
re l’unità, la sua presenza: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome
io sono in mezzo a loro» (Mt 18, 20). Un giorno, le giovani ragazze, si
imbatterono nel capitolo 17 del Vangelo di Giovanni. Fu chiarissima la
convinzione che per quella pagina erano nate: per realizzare il deside-
rio di Gesù, il suo testamento, ciò per cui aveva pregato prima di mori-
re: «Padre, che tutti siano una cosa sola» (Gv 17, 21). Dopo pochi me-
si erano oltre 500 le persone che a Trento e nei dintorni condividevano
la spiritualità nascente e che costituivano la prima comunità di quello
che sarebbe stato chiamato il Movimento dei Focolari, fatto di uomini
e donne di ogni età, ceto sociale, vocazione. Lo sperimentare d’essere
una famiglia porta alla realizzazione della “Comunione dei beni” spiri-
tuali e materiali: la Lubich e le prime compagne non pensavano a far
sorgere qualche opera assistenziale, ma con il Vangelo vissuto miravano
a risolvere i problemi sociali della città puntando a trasformarne nel
profondo le relazioni sociali. Per cui, sul modello delle prime comuni-
tà cristiane, si condivideva ciò che si aveva: le proprie esperienze di vi-
ta vissuta alla luce del Vangelo; le proprie capacità; i propri beni (Lu-
331
Economia di comunione
(Lc 6, 38). È, appunto, la cultura del dare o di comunione che porta con
sé una precisa visione antropologica. L’uomo, la donna cui si fa qui ri-
ferimento, infatti, non sono di certo l’individuo auto interessato che,
anche nell’esercizio altruistico, si muove in una logica meramente utili-
taristica: si può dare, inf