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APPUNTI SUL DECLINO INDUSTRIALE ITALIANO

di Renato Strumia

L�avvio di un dibattito sulla questione del �presunto� declino industriale italiano


� vicenda ormai datata. Gi� nell�autunno del 1999 tre autorevoli esponenti
dell�establishment pongono la questione in modo diretto. Il 4 settembre di
quell�anno l�Avvocato Agnelli denuncia in un convegno la perdita di competitivit�
dell�industria italiana. Pochi giorni dopo il presidente Ciampi, parlando
all�Aquila il 23 settembre, dichiara che l�Italia sta perdendo terreno in modo
preoccupante rispetto agli altri paesi europei. Il 6 ottobre il Ministro del Tesoro
Giuliano Amato, illustrando in Senato la legge finanziaria, usa per la prima volta
il termine �declino�.

Da allora il dibattito non ha conosciuto soste, pur conoscendo passaggi decisamente


contraddittori. Ancora oggi autorevoli personaggi politici negano l�esistenza di un
simile fenomeno. Antonio Marzano, Ministro per le Attivit� Produttive, ha di
recente smentito l�esistenza di un problema �italiano� di declino industriale,
sostenendo che si deve piuttosto parlare della presenza di alcuni problemi
competitivi in singoli settori. Il dimissionato Ministro dell�Economia del governo
Berlusconi, Giulio Tremonti, ha sempre negato la gravit� della situazione: ancora
all�inizio dell�estate 2003 parla di �momento difficile�, ma rifiuta l�idea di un
declino, un �fenomeno complesso che sviluppa nell�arco di decenni�.

L�esistenza di un progressivo deterioramento della posizione competitiva italiana


nella divisione internazione del lavoro � invece ben presente nell�elaborazione
dell�Ufficio Studi della Banca d�Italia. Gi� nelle Considerazioni Finali del
Governatore del 31 maggio 2001 c�� un�analisi sistematica del ritardo italiano.
Fazio sostiene che �la perdita di competitivit� dell�Italia � riconducibile alla
tipologia e qualit� dei prodotti, pi� in generale alla inadeguata rispondenza
dell�offerta alla composizione della domanda�. Questa situazione � riconducibile,
nella sua analisi, a tre cause: �la limitata presenza del nostro sistema nella
produzione di beni ad alta tecnologia�; l�indebolimento della �correlazione tra
grado di istruzione e mansioni offerte dalle imprese�; la riduzione della
�possibilit� di sviluppare il capitale umano nello svolgimento dell�attivit�
lavorativa�. Tradotto in italiano corrente, il Governatore addebita alle imprese di
investire poco in tecnologia, in innovazione, in ricerca e sviluppo e di restare
confinate nell�ambito di produzioni tradizionali a basso valore aggiunto, anche
quando il forte livello di profitti consentirebbe di fare scelte pi� aggressive e,
soprattutto, pi� lungimiranti.

Seppure chiamata in causa in modo diretto, la risposta della Confindustria a questo


stato di cose �, almeno fino alla presidenza di Montezemolo, a dir poco latitante.
Anzich� aprire il dossier e fare una sana autocritica, la Confindustria di Antonio
D�Amato cerca di scaricare altrove le proprie responsabilit� e di attribuire a
cause esterne le difficolt� del sistema produttivo nazionale. Nel convegno di Parma
dell�aprile 2002, la Confindustria attribuisce le cause del ritardo italiano alle
carenze del �sistema paese�, in particolare il sistema pubblico, la rigidit� del
mercato del lavoro, l�insufficienza di infrastrutture (trasporti, comunicazioni,
istruzione, ricerca e cos� via). Nella sua analisi, l�organizzazione dei padroni
colloca al di fuori del proprio ambito le scelte necessarie per riprendere
velocit�, chiedendo al sistema politico liberalizzazione e riduzione fiscale, al
sindacato la rinuncia alle tutele presenti sul mercato del lavoro e nel welfare.
Una scelta di totale autoassolvimento, che demanda ad altre competenze le scelte
necessarie per cambiare.
Perch� accada qualcosa � necessaria la crisi della Fiat. Tra maggio e giugno di
quello stesso anno (il 2002) accade finalmente qualcosa di molto preoccupante e non
si pu� pi� fare finta che tutto vada bene. Il debito consolidato della Fiat
raggiunge livelli insostenibili, a fronte di una crescita inarrestabile delle
perdite operative. La stampa economica internazionale attacca il gruppo, minandone
la credibilit� finanziaria. Il Financial Times sostiene che gli Agnelli dovranno
vendere alla GM prima del previsto, pur di uscire dal settore auto e chiudere le
falle. Paolo Cantarella si dimette dalla carica di Amministratore Delegato e le
banche intervengono con un prestito straordinario convertibile in azione se alla
scadenza, dopo tre anni, la societ� non avr� raggiunto determinati parametri di
risanamento. Si tratta della seria minaccia di �esautorare i padroni�: esercitando
la conversione del prestito in azioni (evento molto probabile nel settembre 2005)
le banche salirebbero al 27% del capitale Fiat, contro una quota del 22% a cui
sarebbe costretta a scendere la famiglia. Cambierebbe l�azionista di maggioranza
del principale gruppo industriale italiano e un po� anche la natura del capitalismo
nazionale, con la sostanziale capitolazione del primo gruppo privato, a favore di
un sistema bancario sostanzialmente pubblico, essendo di fatto controllato non pi�
dallo stato, ma dalle fondazioni. La crisi della Fiat attraversa una fase acuta,
lunga un anno, ed entra poi (con numerose sostituzioni al vertice ed il varo infine
del piano Morchio/Marchionne) in una fase che potremmo definire di �convalescenza�
con esiti al momento assolutamente imprevedibili.

Quel che di certo lascia dietro di s� � la consapevolezza diffusa che il


capitalismo italiano �non � messo bene� e che molte incognite pesano sul suo
futuro. Una cosa � ormai innegabile agli occhi di tutti: il declino c�� e si vede.

Cercheremo di esaminare attraverso il materiale disponibile le analisi che si vanno


sviluppando sul caso italiano: diagnosi, prognosi, terapie per tentare trattamenti
curativi di un malato scarsamente collaborativo.

L�Italia, il paese con una marcia in meno

Cos� Mario Deaglio titola la parte dedicata al caso nazionale nel Nono rapporto
sull�economia globale e l�Italia, del Centro Einaudi (1). Per costruire elementi di
comparazione, Deaglio parte dall�esame del Pil dalla met� degli anni �80 ad oggi,
in un confronto a tre tra Italia, Unione Europea e Paesi Ocse a pi� elevato
reddito. L�andamento della grandezza �Pil� procede nelle tre realt� in modo
omogeneo per il primo triennio (1985-1987), poi i Paesi Ocse cominciano a salire di
pi�, mentre Italia ed Unione Europea crescono meno, insieme, fino al 1989. Dopo
quella data l�andamento del Pil italiano comincia a �stare sotto� anche al Pil
europeo, aumentando progressivamente il distacco. Alla fine del 2001 le differenze
sono assai marcate: il Pil dei Paesi Ocse � mediamente cresciuto del 52,7%, quello
dell�Unione Europea del 44,8, mentre quello dell�Italia � cresciuto del solo 36,9.
L�Italia � cresciuta ad una media annua del 1,98%, contro il 2,3 dell�Unione
Europea ed il 2,7 degli altri Paesi Ocse a reddito elevato. L�Italia ha fatto in
totale il 70% di quello che hanno fatto i Paesi Ocse pi� sviluppati e l�82% di ci�
che ha fatto in media l�Unione Europea. L�autore fa notare che se fossimo cresciuti
come i paesi virtuosi dell�Ocse, non avremmo avuto un acuirsi dei problemi n� sul
debito pubblico, n� sulla disoccupazione, n� sullo squilibrio territoriale. E�
rilevante segnalare che in questo trend negativo non ci sono stati particolari
episodi traumatici, ma il ripetersi di basse prestazioni economiche in modo
pressoch� omogeneo nel corso degli anni. Solo nel 1995 e nel 2001 la crescita
italiana supera i due blocchi a confronto: nel 1995 come reazione alla forte
recessione del 1993, nel 2001 come effetto della marcata recessione americana, che
giunge in Europa in forma ritardata e attutita. A confronto delle maggiori economie
del mondo, si segnala infine che l�Italia, i cui tassi di crescita erano gi�
inferiori a Giappone e Usa nel 1985, viene superata nella crescita cumulata dai
diretti concorrenti nel corso degli anni �90: dalla Germania nel 1991, dalla
Francia nel 1993 e dal Regno Unito nel 1994.

Una prima causa della bassa crescita italiana viene isolata da Deaglio attraverso
una rilettura dei dati precedenti, �tagliati� con il dato demografico. Se infatti
esaminiamo non il Pil totale, ma il Pil per abitante, si scopre che tra il 1985 ed
il 1994 l�Italia � riuscita a tenere il passo con i due blocchi concorrenti,
crescendo nella stessa misura (1,95% contro 1,94 della U.E. ed il 2,07 dei Paesi
Ocse). L�evoluzione demografica italiana spiega quindi una parte della bassa
crescita: calo della natalit� assai pi� rapido degli altri paesi avanzati,
mortalit� leggermente superiore, speranza di vita aumentata relativamente rispetto
agli altri paesi e seconda solo al Giappone. Il minore dinamismo demografico ha
fatto s� che nei 17 anni considerati l�Italia abbia visto crescere la propria
popolazione di circa 1 milione di unit�, contro i 14 dell�area Ocse, perdendo cos�
circa il 10% del proprio peso sul totale dell�Ocse. Si assiste ad una rarefazione
delle fasce giovanili e ad un invecchiamento della popolazione, mentre permane un
basso tasso di partecipazione femminile alla forza lavoro ed un�et� di
pensionamento pi� bassa che altrove. La preoccupante deriva demografica dipende
anche dalla cosiddetta �tassa sui figli�, cio� la forte impennata di costi
collegata alla nascita di un figlio, spesso seguita da una riduzione del reddito
disponibile per il parziale o totale ritiro della madre dal mercato del lavoro. La
combinazione di tutti questi elementi finisce per produrre una situazione di forte
squilibrio: in Italia il 18,34% della popolazione � sopra i 65 anni, contro il
16,47 dell�U.E. ed il 14,27 dei Paesi Ocse pi� avanzati. Il volume di risorse
assorbite da questa fascia della popolazione diventa una variabile strategica per
ogni scenario di crescita futura. Conteggiando un salario medio di 3.000 euro lordi
al mese ed una percentuale di contributi previdenziali al 33% come quella attuale,
l�autore arriva a conteggiare in circa 1000 euro i contributi mensili pagati su
ogni stipendio. Allungando di un anno l�et� pensionabile, il sistema pu�
risparmiare 30.000 euro l�anno per ogni testa (12.000 euro l�anno di contributi e
17.000 euro di pensione). Moltiplicando questo risparmio per i 300-500.000
lavoratori che ogni anno mediamente maturano il diritto alla pensione, si arriva
facilmente ad un risparmio potenziale di 10/15 miliardi di euro l�anno, una cifra
non trascurabile per i conti pubblici italiani. L�utilizzo alternativo di queste
risorse risparmiate potrebbe, secondo l�autore, creare le premesse per una
consistente riduzione fiscale o altre manovre espansive di finanza pubblica. In
altre parole, una prima risposta alla forbice dello sviluppo tra Italia e resto del
mondo starebbe nel taglio dei trasferimenti alla componente pi� anziana della
popolazione: le risorse recuperate potrebbero essere spese, cambiando la scala
salariale, per sostenere il reddito delle giovani coppie �depauperate� dalla
nascita dei pargoletti, per ridurre le tasse e rilanciare genericamente i consumi,
oppure finalizzare i risparmi ad impieghi produttivi, con un pi� alto
moltiplicatore di sviluppo.

Il fattore demografico-sociale, tuttavia, spiega solo una parte della pi� bassa
crescita italiana, e precisamente quella riscontrata dal 1985 al 1994. Dopo quella
data, infatti, anche il Pil per abitante comincia a distanziarsi dai due blocchi
concorrenti: il tasso medio di crescita del reddito per abitante � dell�1,4% in
Italia, del 1,74 nella U.E. e del 1,63 nei Paesi Ocse. Evidentemente c��
qualcos�altro che frena. Per capire di cosa si tratta, bisogna guardare alla
produzione industriale ed in particolare alla produzione manifatturiera. Deaglio
prova a costruire una curva che misuri il differenziale italiano di produzione
industriale in percentuale del dato Ocse. Si notano cos� tre diverse fasi di questo
andamento. Nella prima fase (1985-1987) l�Italia accumula addirittura un vantaggio
nella produzione industriale che sfiora l�8%. Nella seconda fase (1988-1997) questo
vantaggio comincia lentamente ad erodersi, fino ad annullarsi completamente alla
fine del periodo. Dal 1997 comincia la terza fase, che porta rapidamente il
differenziale in negativo (1999) e poi lo vede stabilizzarsi ad una percentuale
negativa di -4%. Da quel momento non c�� pi� stata possibilit� di riemergere: �
come se la competitivit� italiana si fosse inabissata. La natura del �malessere�
industriale italiano sta evidentemente nella composizione produttiva del settore
manifatturiero, che infatti viene scandagliata pi� in profondit�. Confrontando la
struttura manifatturiera italiana con quella dei suoi immediati concorrenti
(Francia, Germania, Regno Unito e Spagna) si nota subito lo sbilanciamento della
produzione tricolore nei settori a basso valore aggiunto. Il peso percentuale dei
vari comparti del settore manifatturiero evidenzia la forte concentrazione italiana
nei settori tessile, abbigliamento, cuoio, mobili, gioielli, cio� tutto quello che
siamo abituati a chiamare �made in Italy�: questi settori rappresentano nel 2000 il
16,3% della produzione totale, contro i 5,7 della Francia, il 4,7 della Germania,
il 6,5 della Gran Bretagna ed il 9,2 della Spagna. Un�altra specializzazione in cui
l�Italia � forte, e che ci avvicina alla Germania, � la meccanica, genericamente
intesa (11,6% il peso italiano, contro il 12,1 di quello tedesco e percentuali
molto pi� basse per gli altri tre paesi). Sembrerebbe un dato confortante, ma le
cose cambiano se esaminiamo la presenza italiana in settori a tecnologia
relativamente avanzata, come macchine elettriche, macchine per ufficio, strumenti
di precisione, radio, televisioni, apparati di comunicazione, mezzi di trasporto
(auto, ma anche navi, aerei, materiale ferroviario). Questa divergenza produttiva
rispetto alla media degli altri paesi si � accresciuta nel periodo 1995-2000,
segnalando cos� un accentuarsi del divario ed un approfondimento del problema. Si
potrebbe pensare che questa �specializzazione� produttiva su beni a basso valore
aggiunto rifletta un punto di forza dell�industria italiana, una caratteristica di
nicchia. Questa tesi non trova per� conferme se analizziamo la dimensione
tecnologica dell�industria manifatturiera. I settori ad alta tecnologia hanno
infatti un peso assai basso e la situazione non cambia se svolgiamo un�analisi
congiunta dei settori ad alta e bassa tecnologia. L�high tech pesa per il solo 6,3%
nella produzione italiana, contro il 14,4 della Francia ed il 14,4 del Regno Unito,
mentre la Germania si attesta al 7,2. La Germania per� recupera bene nel medium
tech dove concentra il 71,5% della propria produzione, mentre l�Italia arriva solo
al 63,5. Nel low tech l�Italia supera il 30%, contro il 23,2 della Francia ed il
21,4 della Germania.

Il posizionamento strutturale dell�Italia nella produzione manifatturiera mondiale


� dunque debole e fragile: le merci prodotte hanno un basso contenuto tecnologico,
sono facilmente imitabile e sostituibili. A questa debolezza strutturale si �
sommata una politica commerciale particolarmente avventata, che ha affidato troppa
responsabilit� e troppo potere a reti esterne di vendita. La scelta
dell�outsourcing e del franchising ha permesso immediati risparmi sui costi fissi e
fornito alle imprese tutti i vantaggi della flessibilit�, ma ha anche impedito di
capitalizzarne i profitti. Sul lungo periodo non si pu� reggere senza una forte
ossatura commerciale, che sia fortemente integrata nel progetto di sviluppo
strategico della singola azienda. Per aggredire la Cina ed il suo mercato, molte
aziende (anche italiane) hanno cominciato a capirlo.

Al di l� di queste debolezze strutturali che affondano le proprie radici nella


storia dell�Italia industriale (come vedremo in seguito), esistono altre carenze
�di sistema� che attengono alla dotazione di capitale umano (istruzione e ricerca
scientifica) e alla dotazione di capitale fisico (infrastrutture nei trasporti e
nell�energia).

Nel campo dell�istruzione i ritardi sono ben noti e probabilmente non sono
peggiorati particolarmente negli ultimi tempi: possono per� rivelarsi assai gravi
per la complessit� che vanno assumendo i processi di produzione e distribuzione. La
risorsa utilizzata nei primi anni del decollo italiano, nei ruggenti anni �50-�60,
era quella di applicare su scala industriale una capacit� artigianale diffusa. Oggi
la distanza tra istruzione formale e mondo del lavoro pone ostacoli assai pi�
rilevanti, e spesso insormontabili. Inoltre anche qui l�andamento demografico non
aiuta: l�Italia ha solo il 15% della popolazione in et� scolare (5/19 anni), contro
una media del 20% dei paesi dell�U.E. Si abbassa il serbatoio da cui attingere e
peggiora la qualit� dell�istruzione impartita. A fronte di un numero di ore di
insegnamento superiore alla media europea, abbiamo insegnanti sottopagati e
stressati, con una femminilizzazione dell�insegnamento assai elevata. La qualit�
del prodotto del sistema scolastico, misurata con i criteri internazionali adottati
dal sistema PISA (Programme for International Student Assessment), evidenzia
risultati abbastanza deludenti. La performance media degli studenti, ossia il loro
grado di alfabetismo letterario, matematico e scientifico, � nettamente inferiore
alla media europea, in particolare per la matematica. Al termine della scuola
dell�obbligo, il 45% degli studenti italiano risulta caratterizzato da una
preparazione inferiore alla media delle conoscenze matematiche di base considerate
necessarie a livello internazionale. A livello di U.E. l�Italia � superata da tutti
i paesi, tranne Portogallo, Grecia e Spagna. L�analoga percentuale in Giappone �
dell�11% ed in Corea del Sud del 9%. La situazione non cambia se �saliamo di grado�
nell�ambito della formazione: anche la scuola secondaria e l�Universit� soffrono
problemi rilevanti, dovuti alla carenza di risorse, allo squilibrio territoriale,
al tasso di abbandono, alla scarsa percentuale di successo. Tutto ci� fa s� che la
percentuale di popolazione dotata di istruzione secondaria o universitaria sia pi�
bassa della media U.E. e della media Ocse, mentre stenta a decollare una cultura
della �formazione permanente�.

Il discorso non migliora, naturalmente, se parliamo della ricerca scientifica.


L�Italia ha tra i principali paesi una delle pi� basse percentuali del Pil dedicate
alla ricerca: circa l�1%, contro il 3 del Giappone, il 2,5 degli Usa e della
Germania, il 2 di Francia, Olanda e Gran Bretagna. Inoltre sul totale della ricerca
fatta dagli otto paesi principali, la quota italiana � scesa dal 3,46% del 1985 al
2,86% del 1999. Inoltre in Italia sono proprio le imprese a fare poca ricerca: il
52,8% del totale, contro il 75 degli Usa ed il 70 di Germania e Giappone, mentre
Francia e Regno Unito sono comunque oltre il 65%. La dimensione medio-piccola delle
imprese italiane rappresenta in questo campo un evidente fattore di debolezza.

Per quanto riguarda le �strozzature fisiche� di capitale fisso, si deve porre


l�attenzione prima di tutto al sistema dei trasporti. La scelta del dopoguerra di
puntare tutto sul trasporto su gomma ha portato ad un forte investimento sul
settore autostradale, riducendo il trasporto ferroviario a piccola cosa. La
dissennatezza di questa politica � emersa a pieno solo negli anni �90, quando il
grande volume di merci trasportate ha finito per intasare tutto il sistema. La
risposta, per evitare il collasso, � stata quella di riprendere gli investimenti in
modo articolato, puntando su pi� arterie: la costruzione di nuove autostrade e
l�allargamento di quelle esistenti, la costruzione di linee ferroviarie ad alta
velocit� (ed alta capacit�), l�individuazione delle �vie del mare� (un sistema di
rotte marittime e fluviali supportate da terminali di scambio attrezzati). I tempi
e i costi di queste opere sono assai rilevanti, anche a prescindere dall�impatto
socio-ambientale che esse comportano, mentre progetti insensati come il Ponte sullo
Stretto rischiano di assorbire gran parte del volume di risorse disponibili.
Ritardi e contraddizioni simili riguardano anche la politica energetica: bloccata
dal referendum popolare la possibilit� di sviluppare il nucleare, si � tardato di
almeno un decennio la programmazione di nuove centrali da costruire, certamente per
evitare movimenti di protesta sociale, ma presumibilmente anche per difendere gli
interessi del monopolista Enel. Durante l�ondata di privatizzazione degli anni �90,
i permessi di costruzione ai privati sono aumentati rapidamente, cos� come il ruolo
delle municipalizzate quotate in Borsa. Dopo il black out energetico del 29
settembre 2003 si � scoperto che il 20% della produzione nazionale viene importata
dall�estero ed � stato aperto un dibattito sul gap tra produzione e consumo,
tenendo conto anche della nuova struttura dei bisogni e della loro irregolarit� ed
imprevedibilit�. Il mercato della borsa elettrica sta decollando faticosamente ed
il sistema si sta orientando verso un modello dove viene premiato (con tariffe pi�
basse) chi sa programmare scientificamente i propri prelievi di energia. Soltanto
le aziende dotate di un buon controllo sul proprio ciclo potranno quindi
avvantaggiarsi delle nuove opportunit� offerte dal mercato. Ancora una volta, il
sistema produttivo deve fare i conti con risorse limitate, offerte da un sistema
infrastrutturale insufficiente.

L�Italia: un paese industriale in via d�estinzione

Luciano Gallino intitola �La scomparsa dell�Italia industriale� una minuziosa


ricostruzione della nostra storia economica, vista attraverso la successione
inarrestabile di scelte strategiche sistematicamente sbagliate (2). La storia
industriale italiana viene ripercorsa attraverso i suoi innumerevoli fallimenti,
partendo dalla tesi che solo una grande ed autonoma industria manifatturiera possa
rappresentare un solido baricentro per un sistema economico sviluppato. �Nel XXI
secolo, non meno che nei due secoli precedenti, un paese che non possegga una
grande industria manifatturiera, l�industria in senso stretto, rischia di diventare
una sorta di colonia, subordinata alle esigenze economiche, sociali e politiche di
altri paesi che tale industria posseggono. Ci� vale in modo particolare per quei
settori industriali che pur essendo nati decenni addietro, come l�informatica o
l�elettromeccanica, o addirittura secoli, come la chimica e poi l�auto e
l�aeronautica civile, sono oggi pi� che mai da considerare essenziali per
l�economia del terzo millennio. E� ovviamente possibile che in quel paese, in quei
particolari settori, operino unit� produttive controllate da imprese straniere,
capaci di assicurare localmente occupazione e reddito. Ma una tale situazione
implica che tutte le decisioni in merito ai livelli di occupazione, alle condizioni
di lavoro, alle retribuzioni, a che cosa si produce e a quali prezzi, ai prodotti
che entrano nelle case e strutturano la vita delle persone, saranno prese altrove.
Con il presupposto che i relativi costi economici, sociali e umani ricadranno sul
paese ospitante. Per paesi in via di sviluppo, che l�industria non l�avevano,
potrebbe essere � in molti casi di fatto � stata � una soluzione accettabile,
almeno per un certo periodo. Per uno che sia stato tra i primi paesi industriali
del mondo si tratterebbe invece di una rovinosa caduta. L�Italia sta correndo
precisamente questo rischio�.

La lunga citazione che abbiamo tratto dall�introduzione (�Dei criteri seguiti per
disfare la grande industria senza crearne di nuova�) ci porta al cuore del
problema. Il sistema Italia, inteso come blocco dominante imperniato su politici,
imprenditori, economisti e consulenti, ha progressivamente distrutto qualunque
possibilit� di difendere produzioni industriali importanti radicate nel paese e
spesso posizionate su livelli di eccellenza e di leadership su scala europea o
addirittura mondiale. Viene ripercorsa la vicenda dell�Olivetti e del suo tentativo
fallito di competere con l�Ibm nella progettazione dei grandi calcolatori negli
anni �60, poi la scommessa innovativa dei personal computer, negli anni �80, fino
alla sua totale emarginazione dal mercato mondiale nel corso degli anni �90; infine
la sua definitiva trasformazione in holding telefonica, contenitore di Omnitel e
poi di Telecom, come preludio alla fusione societaria con la sua controllata, che
l�ha portata alla cancellazione dall�albo delle imprese nel 2003. Viene citato il
caso dell�industria aeronautica, uscita dalla prima guerra mondiale con 100.000
addetti, 6500 aeroplani e 15.000 motori prodotti nel 1918, per ridursi agli attuali
3-4.000 addetti, con qualche decina di velivoli prodotti ogni anno, includenti
motori costruiti all�estero. Un fallimento passato anche attraverso la deliberata
scelta politica di non entrare nel consorzio europeo Airbus, un caso di successo
con pochi precedenti, decretato dal mercato ma costruito dalla ferma volont�
politica di paesi capitalisticamente lungimiranti. Si passa poi al caso pi�
clamoroso, la totale cancellazione dell�industria chimica, che negli anni �50
vedeva imprese italiane nelle prime posizioni europee: le operazioni studiate a
tavolino per riversare nella Montecatini l�enorme indennizzo pubblico ottenuto
dalla Edison al momento della nazionalizzazione dell�energia elettrica; le
cattedrali nel deserto concepite al solo scopo di sfruttare gli incentivi
all�industrializzazione del sud e mai entrate in funzione; la disastrosa esperienza
della Enichem e del fallimento Montedison-Ferruzzi; le gigantesche risorse
pubbliche impegnate in progetti faraonici destinati a sicuro fallimento. Si
prosegue con i colpevoli e pruriginosi ritardi politici nell�adozione di sistemi
standard per l�avvio della televisione a colori, negli anni �70 (ai tempi
dell�austerit� targata La Malfa-Berlinguer), che tanta parte hanno avuto
nell�impedire lo sviluppo (o la difesa) di un�elettronica di consumo che pur aveva
contribuito decisamente alla modernizzazione dei consumi nel decennio precedente e
ottenuto buoni successi nella penetrazione commerciale sui mercati europei. Si
esaminano alcuni casi di pessima gestione di emergenze industriali (come Elsag o
Nuovo Pignone), che hanno portato aziende prestigiose in mano a compagnie
straniere. E infine si conclude con l�industria automobilistica, l�unica filiera
manifatturiera sopravvissuta in Italia, concentrata su un unico produttore, la cui
sorte � ancora oggi del tutto imprevedibile e la cui sopravvivenza � pregiudicata
da anni di diversificazione fallita, con scarsa capacit� di tenuta competitiva nel
core business.

La conclusione, sostiene Gallino, � che anche la pi� promettente legge industriale


mai emanata in Italia, la 675/77, � fallita alla prova dei fatti, non riuscendo ad
impedire nessuno dei disastri che sono stati elencati. E questo fallimento non �
imputabile tanto alla qualit� tecnica della legge, ma allo spirito politico che ne
ha informato la gestione, la convinzione cio� che non fosse importante difendere
l�insediamento industriale del sistema produttivo italiano, ma semmai gestire le
conseguenze sociali del suo ridimensionamento, favorire l�arrivo di capitali esteri
che ne garantissero momentaneamente la continuit� produttiva, sfruttare
diversamente le aree industriali liberate e cos� via. La convinzione diffusa
dell�irrilevanza dell�industria e la discutibile soddisfazione di vedere decollare
la societ� dei servizi hanno cos� accecato chiunque fosse chiamato a prendere
decisioni. Non si � neanche cercato di salvare il salvabile, attraverso un qualche
criterio di selezione e di scelta: per esempio si poteva consapevolmente accettare
il ridimensionamento dei settori pi� obsoleti, con tutti i sacrifici conseguenti,
ma difendere fino al fondo alcune realt� da considerare irrinunciabili.

La realt� � sotto gli occhi di tutti: nel 2001 l�Italia � in Europa al dodicesimo
posto su quindici nella registrazione di brevetti, con 74 richieste per milione di
abitante, contro 133 del Regno Unito, 145 della Francia, 309 della Germania e
addirittura 337 della Finlandia e 366 della Svezia. L�inferiorit� innovativa non
pu� non essere messa in relazione con la dimensione medio-piccola dell�impresa
italiana, la scarsa quantit� di ricerca finanziata, la qualit� della formazione di
base e cos� via. Non ci sar� svolta, sostiene Gallino, finch� i pubblici poteri e
la politica non avranno fatto proprio un progetto di �reindustrializzazione� del
sistema, perch� solo di l� passa la ripresa alta di un progetto di sviluppo e di
traino, di produzione di conoscenza ad alto potenziale, di impiego di lavoro
qualificato, di crescita economica ad intensit� di lavoro. Un auspicio, verrebbe da
dire un�illusione, che si potrebbe concretizzare e rendere vero solo in presenza di
una classe dirigente molto al di sopra di quella attualmente disponibile.

Licenziare i padroni?

E� stato il giornalista dell�Espresso Massimo Mucchetti a titolare cos� uno dei


libri pi� documentati sulle vicende economiche italiane degli ultimi anni (3). A
dire il vero, Mucchetti parte da un incipit assai pi� indietro nel tempo, risalente
agli anni �30. Nel disastro industriale di quegli anni, il presidente dell�Iri
Beneduce arriv� ad offrire ad una cordata di industriali privati le societ�
telefoniche, privatizzate nel 1924, fallite nel 1931 e rinazionalizzate tramite le
tre banche dell�Iri, appunto. I �capitani coraggiosi� di quel tempo, guidati da
Giovanni Agnelli I, chiesero allo stato una dote di almeno 700 milioni di lire per
le aziende da assorbire, unica condizione sufficiente a garantire all�investimento
privato un rendimento minimo dell�8%. Pare fosse convinzione di Agnelli che il
telefono non avesse un futuro, essendo �roba da ricchi�. E� merito di questa
lungimiranza imprenditoriale se le compagnie telefoniche, riunite dallo Stato nella
Stet, rimasero pubbliche fino al 1997, facendo dire a Mussolini (secondo la
testimonianza di Cuccia, genero di Beneduce): �Non diamogli niente; questi grandi
industriali non se la meritano: sono solo dei gran coglioni�. Il senso del business
degli industriali privati italiani � ben sintetizzato da Mucchetti nel risvolto di
copertina, quando parla del risultato economico complessivamente conseguito dai
grandi gruppi. �Tra il 1986 e il 2001, la Fiat ha distrutto ricchezza per 27 mila
miliardi di lire, la Montedison per 9 mila, Olivetti per 14 mila, Pirelli per 4
mila. Contrariamente ai pregiudizi, lo stato imprenditore pu� vantare ottimi
risultati: l�Eni ha creato ricchezza per 66 mila miliardi, l�Enel per 13 mila,
Telecom, addirittura, per 94 mila miliardi di lire�. Naturalmente occorre
considerare la natura monopolistica (e poi, dalla met� degli anni �90, post-
monopolistica) delle aziende di stato. Ancora oggi, in uno stato dove oltre cento
operatori hanno conquistato il diritto ad avere una licenza telefonica, Telecom
controlla il 70% del mercato e viene descritta come �incumbent� dai suoi
concorrenti. Evidentemente questo riflette una tale solidit� di marchio e di
business che neanche la concorrenza imposta dall�alto sposta gli equilibri di
mercato, se non vischiosamente e nel lungo periodo. In entrambi i campi ci sono
eccezioni, naturalmente, che confermano la regola. Finmeccanica, un�azienda statale
che opera in un settore ad alta tecnologia, a forte competizione mondiale, ha perso
nello stesso periodo di tempo 6.500 miliardi di lire. Luxottica, un�azienda privata
che vende in tutto il mondo montature per occhiali, ha creato valore per 15.000
miliardi, basando il suo successo, oltre che sulla qualit� ed il design del
prodotto, su una propria rete di vendita, con struttura capillare. Anche nel
settore privato esistono del resto settori protetti: basti pensare a Mediaset
(11.000 miliardi di lire di ricchezza prodotta), un business saldamente controllato
da una sola famiglia, cintato da quella che Mucchetti definisce una tripla cerchia
di mura (la lingua italiana, la comoda situazione di duopolio con la Rai, il
controllo del governo Berlusconi sulla produzione legislativa in materia).

La fragilit� della struttura finanziaria e reddituale dell�industria italiana


risulta del resto ben chiara, se guardiamo il rapporto R & S di Mediobanca, che ha
analizzato anche nel 2003 i primi 43 gruppi del paese (4). Viene fuori un quadro
impietoso: l�industria pubblica ha accresciuto il suo fatturato del 4,9% (a 105
miliardi di euro), quella privata l�ha visto ridursi del 4,9% (a 152 miliardi). In
ambito pubblico, la redditivit� raggiunge mediamente il 36% del fatturato; in
ambito privato arriva a malapena all�1%. La solidit� finanziaria viene misurata da
un indice che raffronta un numeratore costituito dal �capitale netto tangibile�
(cio� capitale netto meno attivi immateriali, difficilmente quantificabili, come
l�avviamento), ad un denominatore costituito dal totale dei debiti finanziari.
Emerge una situazione vagamente preoccupante. Solo 12 raggruppamenti hanno un
indice di solidit� finanziaria superiore alla media delle multinazionali europee e
delle PMI italiane. Ben otto gruppi non sono classificabili, perch� hanno un
capitale netto tangibile negativo. Tra i pi� fragili troviamo tutti i principali
gruppi privati: Edizioni Holding (Benetton), Pirelli-Telecom, Ifi-Fiat, Aurelia
(gruppo Gavio). I gruppi privati sono la vera anomalia: hanno un rapporto tra
capitale netto tangibile e debito di appena lo 0,7%, contro il 74% dei gruppi
pubblici e contro una media delle multinazionali europee pari al 77%. Anche tenendo
conto della natura fortemente artificiale di alcuni bilanci, pensati pi� per il
fisco che per amore della realt�, c�� da restare sbalorditi.
Il senso comune di una presenza di �capitalisti senza capitali� ne esce rafforzata.
Ritornando al testo di Mucchetti, capiamo anche il perch�. A fronte di un
Berlusconi che controlla il suo gruppo con una forte presa societaria, senza grossi
debiti, ci sono situazioni in cui il sistema delle scatole cinesi assicura il
massimo beneficio con il minimo rischio. Tronchetti-Provera controlla con 153
milioni di euro un gruppo che ne fattura 55 miliardi: con 28 centesimi controlla
100 euro. Lo stesso vale per gli altri padroni: a Ligresti bastano 5,2 euro per
governarne 100, a De Benedetti 9,1, alla famiglia Agnelli 12,4, ai Benetton 18. E�
pi� facile digerire le perdite quando si rischiano i soldi degli altri.

Nel suo libro, Mucchetti addebita ai padroni di aver perso la grande occasione
degli anni �90. Il fiume di soldi che si � scaricato sulle borse in quegli anni non
� stato usato per ampliare in modo stabile la compagine azionaria delle imprese, ma
� stato usato come leva per finanziare processi di fusione e di scalata privi di
motivazione industriale e ricchi di obiettivi speculativi. Non sono state quotate
aziende private sane, ma solo quelle ricche di debiti. I soldi del parco buoi non
sono stati usati per allargare la dimensione del mercato finanziario, ma sono
serviti per rafforzare il potere dei padroni esistenti. La gigantesca ondata di
privatizzazioni del 1992-2000 ha posto, � vero, le premesse per creare anche in
Italia una filiera di public company ad azionariato diffuso, con management
indipendenti, a cui � caro solo il profitto e la soddisfazione degli investitori,
istituzionali e privati. Ma questo processo � passato attraverso il tentativo
(talvolta riuscito) da parte dei padroni privati di comprarsi a poco prezzo delle
redditizie rendite pubbliche, abbandonando i settori industriali a pi� forte
competizione. E� la storia degli Agnelli, che hanno cercato di controllare il
�nocciolino� della Telecom, su insistenza di Ciampi e Prodi. E� la storia di
Colaninno, che scala Telecom in Borsa con il sostegno del governo D�Alema-Bersani,
con ampio ricorso al debito, in tempi fortunati. E� la storia di Pirelli e dei
Benetton, che infine ne entrano in possesso con un progetto industriale pi�
strategico, ma ne approfittano per uscire (in parte o del tutto) da settori pi�
esposti alla concorrenza internazionale. E� la storia dei capitalisti italiani, che
cercano nicchie di profitto, al riparo di tariffe regolamentate e ritorni garantiti
sul (poco) capitale investito.

Dal miracolo al declino

Nel cinquantennio che separa il miracolo economico degli anni �50 e �60 dalle
difficolt� del presente si sono create le condizioni per un progressivo disastro
(5). Mentre i ritardi italiani del dopoguerra furono sfruttati per costruire il
boom, ora rischiano di compromettere la tenuta del sistema. Allora i bassi salari,
l�ampia disponibilit� di manodopera, il basso livello di organizzazione sindacale
favorirono l�aggancio con le realt� produttivamente pi� avanzate. La scelta
politica fu quella di aprirsi alla concorrenza internazionale, aggredendo la
normativa protezionista che aveva difeso l�industria nazionale nel regime fascista
ed autarchico. Le quote italiane sull�export complessivo crebbero in modo
significativo, cos� come la produttivit� e la competitivit� dell�industria, fino a
quando cominciarono a salire anche salari e consumi. Adesso avviene esattamente
l�inverso: siamo un paese a bassi salari e bassa occupazione, con il motore dei
consumi ingrippato. Tra il 1995 ed il 2003 sono saliti di due milioni i posti di
lavoro, ma si tratta pi� che altro dell�effetto ottico dovuto alla precarizzazione
del lavoro e alla differenza di rilevazione statistica degli occupati. Abbiamo un
basso �tasso di partecipazione� della forza lavoro, cio� sono poco pi� del 50% le
persone tra i 15 e i 65 anni che lavorano o aspirerebbero a farlo. Questa
distribuzione � fortemente squilibrata sul piano territoriale, con un Nord
formalmente vicino alla piena occupazione ed un Sud con percentuali ufficiali di
disoccupati e inoccupati sopra il 20%. La produttivit� oraria del settore
manifatturiero � cresciuta a ritmi molto pi� lenti dei nostri diretti concorrenti:
negli anni �70 la produttivit� cumulata era salita del 67,5% (contro il 57,8 della
Francia ed il 48,5 della Germania; negli anni �80 era gi� scesa al 29,1% (contro 52
e 28,2); negli anni �90 � crollata al 17,9% (contro 51,9 e 28,40 rispettivamente).
Le cause di questo flop sono prevalentemente riconducibili al nanismo delle imprese
italiane, la cui dimensione media � del 50% inferiore a quelle estere concorrenti.
Vengono qui in evidenza anche i limiti della struttura del �distretto�. La piccole
e medie imprese che in forma integrata costituiscono una rete di specializzazione
produttiva radicata in un territorio sono state a vario titolo additate come una
risorsa unica, la vera ossatura della forza produttiva nazionale. In realt� la
�spinta propulsiva� di questo modello � vicina all�esaurirsi. Sempre pi� spesso la
nicchia di mercato dei distretti viene aggredita da produzioni imitative a pi�
basso costo, mentre la quantit� e qualit� di ricerca e sviluppo (e quindi di
innovazione) messe in campo da questo comparto tendono a restare limitate. Al di l�
di una certa dimensione, scattano tutti i vantaggi delle economie di scala della
grande impresa, e la forza competitiva del distretto si affievolisce. Non � dunque
il caso di affidare eccessive speranze al modello produttivo delle PMI, alla
�dorsale adriatica�, all�economia del �distretto� o all�inventiva imprenditoriale
diffusa. L�Italia si trova di fronte ad un veloce deterioramento delle proprie
ragioni competitive che non lascia intravedere alcun inversione di tendenza. A
breve si render� necessario fare i conti con questa caduta del valore aggiunto
prodotto e rimodellare al ribasso il sistema redistributivo del welfare. Se
pensiamo all�aumento della diseguaglianza, al crescere delle sacche di povert�,
all�effetto perverso dell�inflazione reale, scopriamo che questo processo � gi�
iniziato da tempo.

Qualche conclusione

Il declino industriale italiano � una realt� innegabile. Abbiamo visto come il


processo di deterioramento delle ragioni competitive dipenda da una composizione
obsoleta del mix produttivo italiano: un �capitale umano� vecchio e dequalificato,
meno addestrato, istruito e formato degli altri paesi avanzati; una struttura
produttiva attestata su produzioni a basso valore aggiunto, facilmente
sostituibili; un know-how scientifico-tecnologico di secondo livello, impoverito
nel corso del tempo da bassi investimenti in ricerca e sviluppo; una dotazione
infrastrutturale scadente, in particolare nel campo dell�energia e dei trasporti,
tale da costituire un vero blocco di strozzature fisiche.

Il percorso scelto in passato per tenere a galla l�economia italiana � il


responsabile primo di questo stato di fatto. La principale preoccupazione del
sistema di governo � stata quella di abbassare i costi: il costo del lavoro e il
costo del denaro prima di ogni altro. La concertazione sociale dopo il 1984 (taglio
della scala mobile) e dopo il 1993 (riforma della contrattazione) ha inchiodato la
dinamica salariale a tassi d�inflazione irrealistici, eliminando il problema del
costo del lavoro come emergenza prioritaria. La ripresa di controllo
sull�inflazione e la spesa pubblica hanno permesso di abbassare i tassi e
agganciarsi all�euro, riducendo i costi finanziari delle imprese, tutte, come
abbiamo visto, altamente indebitate. Questi due elementi, insieme alla svalutazione
competitiva seguita alla crisi del �92, hanno permesso momentaneamente alle imprese
una forte ricostituzione dei profitti, che non si � evidentemente tradotta in
investimenti innovativi, sul piano tecnologico, organizzativo, commerciale. E�
bastato il ritorno ai cambi fissi, dopo il 1995, per fare riemergere i problemi:
industria che non innova, capitalisti senza capitali che cercano rifugio nei
settori protetti della rendita pubblica, produttivit� che non cresce. Vengono in
mente le tesi di Sylos-Labini di 50 anni fa su lotte operaie, produttivit�,
progresso tecnico e innovazione.

Ora si tenta di imporre nel sistema del welfare quello che � stato gi� applicato,
con esiti infausti, nel settore industriale: il taglio dei costi. I risparmi di
spesa stanno aggredendo le prestazioni sociali: la degradazione del servizio � gi�
ampiamente evidente nella sanit�, nella scuola, nel sistema di trasporto pubblico,
nella struttura dei servizi locali.

Dobbiamo rassegnarci ad una graduale erosione del benessere e del welfare, come
conseguenza del deterioramento competitivo dell�economia italiana nel sistema
mondiale? E� lecito provare a resistere e impegnarsi per soluzioni diverse.

La terapia in atto pu� far morire il paziente, anche se lentamente. Bisogna uscire
dalla logica del puro risparmio, del taglio dei costi e del rispetto dei parametri.
Occorre investire per il futuro, anche facendo nuovi debiti. Magari � anche
necessario ripensare reperimento e distribuzione delle risorse: �scovare� e fare
emergere l�economia sommersa (per alcuni, un terzo dell�economia reale), snidare
finalmente l�evasione fiscale, allargare la platea dei contribuenti, tutto questo
potrebbe finanziare un nuovo modello di welfare. In questo nuovo modello ci
potrebbe stare una forte spesa in formazione (generale e allargata) e dotazioni
infrastrutturali (trasporti, energia, ambiente), cos� come una ripartizione pi�
equilibrata dei trasferimenti (meno soldi ai pensionati ricchi, pi� soldi ai
giovani precari). Ci potrebbe stare un diverso intervento di sostegno alle imprese,
dove prende di pi� chi dimostra di fare ricerca e sviluppo, occupando forza lavoro
qualificata, anzich� ricevere valanghe di contributi a fondo perduto a fronte di
posti di lavoro fittizi in aree disgraziate. Ci potrebbe stare un progetto di
crescita delle competenze professionali e delle eccellenze produttive, che deponga
a favore di un modello di sviluppo fondato sulla qualit� della merce, piuttosto che
sul dumping sociale. Un modello che potrebbe vedere classe e capitale ritornare a
contendersi con il conflitto i profitti, il potere, l�egemonia, pi� che negoziare
la distribuzione delle perdite in modo concertato.

Note:

(1) M. Deaglio, P.G. Monateri, A. Caffarena, �La globalizzazione dimezzata�,


nono rapporto sull�economia globale e l�Italia, a cura del Centro di Ricerca e
Documentazione Luigi Einaudi e Lazard, ed. Guerini e Associati, 2004.

(2) L. Gallino, �La scomparsa dell�Italia industriale�, ed. Einaudi, 2003.

(3) M .Mucchetti, �Licenziare i padroni?�, ed. Feltrinelli, 2003.

(4) A. Olivieri, �Cresce il pubblico, pi� utili per i privati�, in Il Sole 24


Ore, 29 luglio 2004.

(5) G. Nardozzi, �Miracolo e declino�, ed. Laterza, 2004.

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