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di Renato Strumia
Cos� Mario Deaglio titola la parte dedicata al caso nazionale nel Nono rapporto
sull�economia globale e l�Italia, del Centro Einaudi (1). Per costruire elementi di
comparazione, Deaglio parte dall�esame del Pil dalla met� degli anni �80 ad oggi,
in un confronto a tre tra Italia, Unione Europea e Paesi Ocse a pi� elevato
reddito. L�andamento della grandezza �Pil� procede nelle tre realt� in modo
omogeneo per il primo triennio (1985-1987), poi i Paesi Ocse cominciano a salire di
pi�, mentre Italia ed Unione Europea crescono meno, insieme, fino al 1989. Dopo
quella data l�andamento del Pil italiano comincia a �stare sotto� anche al Pil
europeo, aumentando progressivamente il distacco. Alla fine del 2001 le differenze
sono assai marcate: il Pil dei Paesi Ocse � mediamente cresciuto del 52,7%, quello
dell�Unione Europea del 44,8, mentre quello dell�Italia � cresciuto del solo 36,9.
L�Italia � cresciuta ad una media annua del 1,98%, contro il 2,3 dell�Unione
Europea ed il 2,7 degli altri Paesi Ocse a reddito elevato. L�Italia ha fatto in
totale il 70% di quello che hanno fatto i Paesi Ocse pi� sviluppati e l�82% di ci�
che ha fatto in media l�Unione Europea. L�autore fa notare che se fossimo cresciuti
come i paesi virtuosi dell�Ocse, non avremmo avuto un acuirsi dei problemi n� sul
debito pubblico, n� sulla disoccupazione, n� sullo squilibrio territoriale. E�
rilevante segnalare che in questo trend negativo non ci sono stati particolari
episodi traumatici, ma il ripetersi di basse prestazioni economiche in modo
pressoch� omogeneo nel corso degli anni. Solo nel 1995 e nel 2001 la crescita
italiana supera i due blocchi a confronto: nel 1995 come reazione alla forte
recessione del 1993, nel 2001 come effetto della marcata recessione americana, che
giunge in Europa in forma ritardata e attutita. A confronto delle maggiori economie
del mondo, si segnala infine che l�Italia, i cui tassi di crescita erano gi�
inferiori a Giappone e Usa nel 1985, viene superata nella crescita cumulata dai
diretti concorrenti nel corso degli anni �90: dalla Germania nel 1991, dalla
Francia nel 1993 e dal Regno Unito nel 1994.
Una prima causa della bassa crescita italiana viene isolata da Deaglio attraverso
una rilettura dei dati precedenti, �tagliati� con il dato demografico. Se infatti
esaminiamo non il Pil totale, ma il Pil per abitante, si scopre che tra il 1985 ed
il 1994 l�Italia � riuscita a tenere il passo con i due blocchi concorrenti,
crescendo nella stessa misura (1,95% contro 1,94 della U.E. ed il 2,07 dei Paesi
Ocse). L�evoluzione demografica italiana spiega quindi una parte della bassa
crescita: calo della natalit� assai pi� rapido degli altri paesi avanzati,
mortalit� leggermente superiore, speranza di vita aumentata relativamente rispetto
agli altri paesi e seconda solo al Giappone. Il minore dinamismo demografico ha
fatto s� che nei 17 anni considerati l�Italia abbia visto crescere la propria
popolazione di circa 1 milione di unit�, contro i 14 dell�area Ocse, perdendo cos�
circa il 10% del proprio peso sul totale dell�Ocse. Si assiste ad una rarefazione
delle fasce giovanili e ad un invecchiamento della popolazione, mentre permane un
basso tasso di partecipazione femminile alla forza lavoro ed un�et� di
pensionamento pi� bassa che altrove. La preoccupante deriva demografica dipende
anche dalla cosiddetta �tassa sui figli�, cio� la forte impennata di costi
collegata alla nascita di un figlio, spesso seguita da una riduzione del reddito
disponibile per il parziale o totale ritiro della madre dal mercato del lavoro. La
combinazione di tutti questi elementi finisce per produrre una situazione di forte
squilibrio: in Italia il 18,34% della popolazione � sopra i 65 anni, contro il
16,47 dell�U.E. ed il 14,27 dei Paesi Ocse pi� avanzati. Il volume di risorse
assorbite da questa fascia della popolazione diventa una variabile strategica per
ogni scenario di crescita futura. Conteggiando un salario medio di 3.000 euro lordi
al mese ed una percentuale di contributi previdenziali al 33% come quella attuale,
l�autore arriva a conteggiare in circa 1000 euro i contributi mensili pagati su
ogni stipendio. Allungando di un anno l�et� pensionabile, il sistema pu�
risparmiare 30.000 euro l�anno per ogni testa (12.000 euro l�anno di contributi e
17.000 euro di pensione). Moltiplicando questo risparmio per i 300-500.000
lavoratori che ogni anno mediamente maturano il diritto alla pensione, si arriva
facilmente ad un risparmio potenziale di 10/15 miliardi di euro l�anno, una cifra
non trascurabile per i conti pubblici italiani. L�utilizzo alternativo di queste
risorse risparmiate potrebbe, secondo l�autore, creare le premesse per una
consistente riduzione fiscale o altre manovre espansive di finanza pubblica. In
altre parole, una prima risposta alla forbice dello sviluppo tra Italia e resto del
mondo starebbe nel taglio dei trasferimenti alla componente pi� anziana della
popolazione: le risorse recuperate potrebbero essere spese, cambiando la scala
salariale, per sostenere il reddito delle giovani coppie �depauperate� dalla
nascita dei pargoletti, per ridurre le tasse e rilanciare genericamente i consumi,
oppure finalizzare i risparmi ad impieghi produttivi, con un pi� alto
moltiplicatore di sviluppo.
Il fattore demografico-sociale, tuttavia, spiega solo una parte della pi� bassa
crescita italiana, e precisamente quella riscontrata dal 1985 al 1994. Dopo quella
data, infatti, anche il Pil per abitante comincia a distanziarsi dai due blocchi
concorrenti: il tasso medio di crescita del reddito per abitante � dell�1,4% in
Italia, del 1,74 nella U.E. e del 1,63 nei Paesi Ocse. Evidentemente c��
qualcos�altro che frena. Per capire di cosa si tratta, bisogna guardare alla
produzione industriale ed in particolare alla produzione manifatturiera. Deaglio
prova a costruire una curva che misuri il differenziale italiano di produzione
industriale in percentuale del dato Ocse. Si notano cos� tre diverse fasi di questo
andamento. Nella prima fase (1985-1987) l�Italia accumula addirittura un vantaggio
nella produzione industriale che sfiora l�8%. Nella seconda fase (1988-1997) questo
vantaggio comincia lentamente ad erodersi, fino ad annullarsi completamente alla
fine del periodo. Dal 1997 comincia la terza fase, che porta rapidamente il
differenziale in negativo (1999) e poi lo vede stabilizzarsi ad una percentuale
negativa di -4%. Da quel momento non c�� pi� stata possibilit� di riemergere: �
come se la competitivit� italiana si fosse inabissata. La natura del �malessere�
industriale italiano sta evidentemente nella composizione produttiva del settore
manifatturiero, che infatti viene scandagliata pi� in profondit�. Confrontando la
struttura manifatturiera italiana con quella dei suoi immediati concorrenti
(Francia, Germania, Regno Unito e Spagna) si nota subito lo sbilanciamento della
produzione tricolore nei settori a basso valore aggiunto. Il peso percentuale dei
vari comparti del settore manifatturiero evidenzia la forte concentrazione italiana
nei settori tessile, abbigliamento, cuoio, mobili, gioielli, cio� tutto quello che
siamo abituati a chiamare �made in Italy�: questi settori rappresentano nel 2000 il
16,3% della produzione totale, contro i 5,7 della Francia, il 4,7 della Germania,
il 6,5 della Gran Bretagna ed il 9,2 della Spagna. Un�altra specializzazione in cui
l�Italia � forte, e che ci avvicina alla Germania, � la meccanica, genericamente
intesa (11,6% il peso italiano, contro il 12,1 di quello tedesco e percentuali
molto pi� basse per gli altri tre paesi). Sembrerebbe un dato confortante, ma le
cose cambiano se esaminiamo la presenza italiana in settori a tecnologia
relativamente avanzata, come macchine elettriche, macchine per ufficio, strumenti
di precisione, radio, televisioni, apparati di comunicazione, mezzi di trasporto
(auto, ma anche navi, aerei, materiale ferroviario). Questa divergenza produttiva
rispetto alla media degli altri paesi si � accresciuta nel periodo 1995-2000,
segnalando cos� un accentuarsi del divario ed un approfondimento del problema. Si
potrebbe pensare che questa �specializzazione� produttiva su beni a basso valore
aggiunto rifletta un punto di forza dell�industria italiana, una caratteristica di
nicchia. Questa tesi non trova per� conferme se analizziamo la dimensione
tecnologica dell�industria manifatturiera. I settori ad alta tecnologia hanno
infatti un peso assai basso e la situazione non cambia se svolgiamo un�analisi
congiunta dei settori ad alta e bassa tecnologia. L�high tech pesa per il solo 6,3%
nella produzione italiana, contro il 14,4 della Francia ed il 14,4 del Regno Unito,
mentre la Germania si attesta al 7,2. La Germania per� recupera bene nel medium
tech dove concentra il 71,5% della propria produzione, mentre l�Italia arriva solo
al 63,5. Nel low tech l�Italia supera il 30%, contro il 23,2 della Francia ed il
21,4 della Germania.
Nel campo dell�istruzione i ritardi sono ben noti e probabilmente non sono
peggiorati particolarmente negli ultimi tempi: possono per� rivelarsi assai gravi
per la complessit� che vanno assumendo i processi di produzione e distribuzione. La
risorsa utilizzata nei primi anni del decollo italiano, nei ruggenti anni �50-�60,
era quella di applicare su scala industriale una capacit� artigianale diffusa. Oggi
la distanza tra istruzione formale e mondo del lavoro pone ostacoli assai pi�
rilevanti, e spesso insormontabili. Inoltre anche qui l�andamento demografico non
aiuta: l�Italia ha solo il 15% della popolazione in et� scolare (5/19 anni), contro
una media del 20% dei paesi dell�U.E. Si abbassa il serbatoio da cui attingere e
peggiora la qualit� dell�istruzione impartita. A fronte di un numero di ore di
insegnamento superiore alla media europea, abbiamo insegnanti sottopagati e
stressati, con una femminilizzazione dell�insegnamento assai elevata. La qualit�
del prodotto del sistema scolastico, misurata con i criteri internazionali adottati
dal sistema PISA (Programme for International Student Assessment), evidenzia
risultati abbastanza deludenti. La performance media degli studenti, ossia il loro
grado di alfabetismo letterario, matematico e scientifico, � nettamente inferiore
alla media europea, in particolare per la matematica. Al termine della scuola
dell�obbligo, il 45% degli studenti italiano risulta caratterizzato da una
preparazione inferiore alla media delle conoscenze matematiche di base considerate
necessarie a livello internazionale. A livello di U.E. l�Italia � superata da tutti
i paesi, tranne Portogallo, Grecia e Spagna. L�analoga percentuale in Giappone �
dell�11% ed in Corea del Sud del 9%. La situazione non cambia se �saliamo di grado�
nell�ambito della formazione: anche la scuola secondaria e l�Universit� soffrono
problemi rilevanti, dovuti alla carenza di risorse, allo squilibrio territoriale,
al tasso di abbandono, alla scarsa percentuale di successo. Tutto ci� fa s� che la
percentuale di popolazione dotata di istruzione secondaria o universitaria sia pi�
bassa della media U.E. e della media Ocse, mentre stenta a decollare una cultura
della �formazione permanente�.
La lunga citazione che abbiamo tratto dall�introduzione (�Dei criteri seguiti per
disfare la grande industria senza crearne di nuova�) ci porta al cuore del
problema. Il sistema Italia, inteso come blocco dominante imperniato su politici,
imprenditori, economisti e consulenti, ha progressivamente distrutto qualunque
possibilit� di difendere produzioni industriali importanti radicate nel paese e
spesso posizionate su livelli di eccellenza e di leadership su scala europea o
addirittura mondiale. Viene ripercorsa la vicenda dell�Olivetti e del suo tentativo
fallito di competere con l�Ibm nella progettazione dei grandi calcolatori negli
anni �60, poi la scommessa innovativa dei personal computer, negli anni �80, fino
alla sua totale emarginazione dal mercato mondiale nel corso degli anni �90; infine
la sua definitiva trasformazione in holding telefonica, contenitore di Omnitel e
poi di Telecom, come preludio alla fusione societaria con la sua controllata, che
l�ha portata alla cancellazione dall�albo delle imprese nel 2003. Viene citato il
caso dell�industria aeronautica, uscita dalla prima guerra mondiale con 100.000
addetti, 6500 aeroplani e 15.000 motori prodotti nel 1918, per ridursi agli attuali
3-4.000 addetti, con qualche decina di velivoli prodotti ogni anno, includenti
motori costruiti all�estero. Un fallimento passato anche attraverso la deliberata
scelta politica di non entrare nel consorzio europeo Airbus, un caso di successo
con pochi precedenti, decretato dal mercato ma costruito dalla ferma volont�
politica di paesi capitalisticamente lungimiranti. Si passa poi al caso pi�
clamoroso, la totale cancellazione dell�industria chimica, che negli anni �50
vedeva imprese italiane nelle prime posizioni europee: le operazioni studiate a
tavolino per riversare nella Montecatini l�enorme indennizzo pubblico ottenuto
dalla Edison al momento della nazionalizzazione dell�energia elettrica; le
cattedrali nel deserto concepite al solo scopo di sfruttare gli incentivi
all�industrializzazione del sud e mai entrate in funzione; la disastrosa esperienza
della Enichem e del fallimento Montedison-Ferruzzi; le gigantesche risorse
pubbliche impegnate in progetti faraonici destinati a sicuro fallimento. Si
prosegue con i colpevoli e pruriginosi ritardi politici nell�adozione di sistemi
standard per l�avvio della televisione a colori, negli anni �70 (ai tempi
dell�austerit� targata La Malfa-Berlinguer), che tanta parte hanno avuto
nell�impedire lo sviluppo (o la difesa) di un�elettronica di consumo che pur aveva
contribuito decisamente alla modernizzazione dei consumi nel decennio precedente e
ottenuto buoni successi nella penetrazione commerciale sui mercati europei. Si
esaminano alcuni casi di pessima gestione di emergenze industriali (come Elsag o
Nuovo Pignone), che hanno portato aziende prestigiose in mano a compagnie
straniere. E infine si conclude con l�industria automobilistica, l�unica filiera
manifatturiera sopravvissuta in Italia, concentrata su un unico produttore, la cui
sorte � ancora oggi del tutto imprevedibile e la cui sopravvivenza � pregiudicata
da anni di diversificazione fallita, con scarsa capacit� di tenuta competitiva nel
core business.
La realt� � sotto gli occhi di tutti: nel 2001 l�Italia � in Europa al dodicesimo
posto su quindici nella registrazione di brevetti, con 74 richieste per milione di
abitante, contro 133 del Regno Unito, 145 della Francia, 309 della Germania e
addirittura 337 della Finlandia e 366 della Svezia. L�inferiorit� innovativa non
pu� non essere messa in relazione con la dimensione medio-piccola dell�impresa
italiana, la scarsa quantit� di ricerca finanziata, la qualit� della formazione di
base e cos� via. Non ci sar� svolta, sostiene Gallino, finch� i pubblici poteri e
la politica non avranno fatto proprio un progetto di �reindustrializzazione� del
sistema, perch� solo di l� passa la ripresa alta di un progetto di sviluppo e di
traino, di produzione di conoscenza ad alto potenziale, di impiego di lavoro
qualificato, di crescita economica ad intensit� di lavoro. Un auspicio, verrebbe da
dire un�illusione, che si potrebbe concretizzare e rendere vero solo in presenza di
una classe dirigente molto al di sopra di quella attualmente disponibile.
Licenziare i padroni?
Nel suo libro, Mucchetti addebita ai padroni di aver perso la grande occasione
degli anni �90. Il fiume di soldi che si � scaricato sulle borse in quegli anni non
� stato usato per ampliare in modo stabile la compagine azionaria delle imprese, ma
� stato usato come leva per finanziare processi di fusione e di scalata privi di
motivazione industriale e ricchi di obiettivi speculativi. Non sono state quotate
aziende private sane, ma solo quelle ricche di debiti. I soldi del parco buoi non
sono stati usati per allargare la dimensione del mercato finanziario, ma sono
serviti per rafforzare il potere dei padroni esistenti. La gigantesca ondata di
privatizzazioni del 1992-2000 ha posto, � vero, le premesse per creare anche in
Italia una filiera di public company ad azionariato diffuso, con management
indipendenti, a cui � caro solo il profitto e la soddisfazione degli investitori,
istituzionali e privati. Ma questo processo � passato attraverso il tentativo
(talvolta riuscito) da parte dei padroni privati di comprarsi a poco prezzo delle
redditizie rendite pubbliche, abbandonando i settori industriali a pi� forte
competizione. E� la storia degli Agnelli, che hanno cercato di controllare il
�nocciolino� della Telecom, su insistenza di Ciampi e Prodi. E� la storia di
Colaninno, che scala Telecom in Borsa con il sostegno del governo D�Alema-Bersani,
con ampio ricorso al debito, in tempi fortunati. E� la storia di Pirelli e dei
Benetton, che infine ne entrano in possesso con un progetto industriale pi�
strategico, ma ne approfittano per uscire (in parte o del tutto) da settori pi�
esposti alla concorrenza internazionale. E� la storia dei capitalisti italiani, che
cercano nicchie di profitto, al riparo di tariffe regolamentate e ritorni garantiti
sul (poco) capitale investito.
Nel cinquantennio che separa il miracolo economico degli anni �50 e �60 dalle
difficolt� del presente si sono create le condizioni per un progressivo disastro
(5). Mentre i ritardi italiani del dopoguerra furono sfruttati per costruire il
boom, ora rischiano di compromettere la tenuta del sistema. Allora i bassi salari,
l�ampia disponibilit� di manodopera, il basso livello di organizzazione sindacale
favorirono l�aggancio con le realt� produttivamente pi� avanzate. La scelta
politica fu quella di aprirsi alla concorrenza internazionale, aggredendo la
normativa protezionista che aveva difeso l�industria nazionale nel regime fascista
ed autarchico. Le quote italiane sull�export complessivo crebbero in modo
significativo, cos� come la produttivit� e la competitivit� dell�industria, fino a
quando cominciarono a salire anche salari e consumi. Adesso avviene esattamente
l�inverso: siamo un paese a bassi salari e bassa occupazione, con il motore dei
consumi ingrippato. Tra il 1995 ed il 2003 sono saliti di due milioni i posti di
lavoro, ma si tratta pi� che altro dell�effetto ottico dovuto alla precarizzazione
del lavoro e alla differenza di rilevazione statistica degli occupati. Abbiamo un
basso �tasso di partecipazione� della forza lavoro, cio� sono poco pi� del 50% le
persone tra i 15 e i 65 anni che lavorano o aspirerebbero a farlo. Questa
distribuzione � fortemente squilibrata sul piano territoriale, con un Nord
formalmente vicino alla piena occupazione ed un Sud con percentuali ufficiali di
disoccupati e inoccupati sopra il 20%. La produttivit� oraria del settore
manifatturiero � cresciuta a ritmi molto pi� lenti dei nostri diretti concorrenti:
negli anni �70 la produttivit� cumulata era salita del 67,5% (contro il 57,8 della
Francia ed il 48,5 della Germania; negli anni �80 era gi� scesa al 29,1% (contro 52
e 28,2); negli anni �90 � crollata al 17,9% (contro 51,9 e 28,40 rispettivamente).
Le cause di questo flop sono prevalentemente riconducibili al nanismo delle imprese
italiane, la cui dimensione media � del 50% inferiore a quelle estere concorrenti.
Vengono qui in evidenza anche i limiti della struttura del �distretto�. La piccole
e medie imprese che in forma integrata costituiscono una rete di specializzazione
produttiva radicata in un territorio sono state a vario titolo additate come una
risorsa unica, la vera ossatura della forza produttiva nazionale. In realt� la
�spinta propulsiva� di questo modello � vicina all�esaurirsi. Sempre pi� spesso la
nicchia di mercato dei distretti viene aggredita da produzioni imitative a pi�
basso costo, mentre la quantit� e qualit� di ricerca e sviluppo (e quindi di
innovazione) messe in campo da questo comparto tendono a restare limitate. Al di l�
di una certa dimensione, scattano tutti i vantaggi delle economie di scala della
grande impresa, e la forza competitiva del distretto si affievolisce. Non � dunque
il caso di affidare eccessive speranze al modello produttivo delle PMI, alla
�dorsale adriatica�, all�economia del �distretto� o all�inventiva imprenditoriale
diffusa. L�Italia si trova di fronte ad un veloce deterioramento delle proprie
ragioni competitive che non lascia intravedere alcun inversione di tendenza. A
breve si render� necessario fare i conti con questa caduta del valore aggiunto
prodotto e rimodellare al ribasso il sistema redistributivo del welfare. Se
pensiamo all�aumento della diseguaglianza, al crescere delle sacche di povert�,
all�effetto perverso dell�inflazione reale, scopriamo che questo processo � gi�
iniziato da tempo.
Qualche conclusione
Ora si tenta di imporre nel sistema del welfare quello che � stato gi� applicato,
con esiti infausti, nel settore industriale: il taglio dei costi. I risparmi di
spesa stanno aggredendo le prestazioni sociali: la degradazione del servizio � gi�
ampiamente evidente nella sanit�, nella scuola, nel sistema di trasporto pubblico,
nella struttura dei servizi locali.
Dobbiamo rassegnarci ad una graduale erosione del benessere e del welfare, come
conseguenza del deterioramento competitivo dell�economia italiana nel sistema
mondiale? E� lecito provare a resistere e impegnarsi per soluzioni diverse.
La terapia in atto pu� far morire il paziente, anche se lentamente. Bisogna uscire
dalla logica del puro risparmio, del taglio dei costi e del rispetto dei parametri.
Occorre investire per il futuro, anche facendo nuovi debiti. Magari � anche
necessario ripensare reperimento e distribuzione delle risorse: �scovare� e fare
emergere l�economia sommersa (per alcuni, un terzo dell�economia reale), snidare
finalmente l�evasione fiscale, allargare la platea dei contribuenti, tutto questo
potrebbe finanziare un nuovo modello di welfare. In questo nuovo modello ci
potrebbe stare una forte spesa in formazione (generale e allargata) e dotazioni
infrastrutturali (trasporti, energia, ambiente), cos� come una ripartizione pi�
equilibrata dei trasferimenti (meno soldi ai pensionati ricchi, pi� soldi ai
giovani precari). Ci potrebbe stare un diverso intervento di sostegno alle imprese,
dove prende di pi� chi dimostra di fare ricerca e sviluppo, occupando forza lavoro
qualificata, anzich� ricevere valanghe di contributi a fondo perduto a fronte di
posti di lavoro fittizi in aree disgraziate. Ci potrebbe stare un progetto di
crescita delle competenze professionali e delle eccellenze produttive, che deponga
a favore di un modello di sviluppo fondato sulla qualit� della merce, piuttosto che
sul dumping sociale. Un modello che potrebbe vedere classe e capitale ritornare a
contendersi con il conflitto i profitti, il potere, l�egemonia, pi� che negoziare
la distribuzione delle perdite in modo concertato.
Note: