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L'ECONOMIA ITALIANA DAL DOPOGUERRA AD OGGI

Author(s): Francesco Farina


Source: Quaderni storici , settembre / dicembre 1973, Vol. 8, No. 24 (3), Archeologia e
geografia popolamento (settembre / dicembre 1973), pp. 1062-1071
Published by: Società editrice Il Mulino S.p.A.

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l'economia italiana dal dopoguerra ad oggi

Nel panorama degli studi sull'economia italiana le analisi di


maggiore respiro sono ancor oggi i modelli degli economisti «ri-
formisti», e solo negli ultimi tempi è giunto a maturazione un
approccio di tipo marxista, rivolto ad interpretare l'accumula-
zione in base ai movimenti dell'esercito industriale di riserva e
alla funzione del Mezzogiorno nel processo di sviluppo capitali-
stico squilibrato. Il prolungarsi della crisi economica ha senza
dubbio avuto una parte di rilievo nello stimolare gli economisti
italiani a risalire alle cause d'origine dell'interruzione del mecca-
nismo di sviluppo. Per articolare allora un discorso a più voci
sui caratteri strutturali dell'economia italiana sarà bene anzi-
tutto inquadrare l'Italia nel contesto internazionale.
Secondo De Cecco1, la liberalizzazione dell'economia attuata
nel dopoguerra fu una decisione di enorme importanza, rappre-
sentando un brusco salto dalla prima alla terza fase dello svi-
luppo industriale. Ma, una volta accettate le regole della compe-
titività internazionale, l'Italia si è collocata nell'economia inter-
nazionale secondo uno schema non tanto lontano da quello dei
paesi sottosviluppati, specializzando la propria produzione pre-
valentemente nel settore dei beni di consumo moderni, e au-
mentando produttività e profitti non tramite impianti e tecno-
logie avanzati - che si scelse invece di importare dall'estero -
ma comprimendo i salari di una manodopera largamente dispo-
nibile e ricambiabile. Di una tale scelta di sviluppo De Cecco dà
un giudizio severo, intonato alla sua personalissima, ma non
priva di stimoli intellettuali, ispirazione popolar-nazionale: es-
sendo stata modellata unicamente sugli interessi e sulle esigenze
di una borghesia imprenditoriale per metà «stracciona» per metà
di apertura internazionale, questa scelta significò abdicare a ogni
possibilità di un'autonoma politica di sviluppo italiana. Con una
crescita economica affidata alla espansione della domanda estera,
solo l'arrivo di maggior liquidità attraverso il saldo attivo della
bilancia dei pagamenti - «secondo il più stantio modello di gold
standard», per dirla con De Cecco - poteva dunque permettere il
raggiungimento di più alti livelli di attività economica (come è

1 M. De Cecco, Lo sviluppo dell'economia italiana e la sua collocazione inter-


nazionale, in «Riv. int. di scienze econ. e comm.», 1971.

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Storia del capitalismo nel Novecento 1063

infatti avvenuto nella seconda metà degli anni '50).


I recenti lavori di Graziarli e di Sylos Labini2 costituiscon
invece l'approfondimento della realtà italiana sulla base
rispettivi modelli dell'economia italiana3, con i quali hanno f
ad oggi interpretato le vicende congiunturali. Graziani e Syl
Labini concordano nel ritenere il 1963 come l'anno in cui il mec-
canismo di sviluppo si è inceppato: quest'anno ha infatti segnato
il passaggio da un periodo di forte crescita basata sulle esporta-
zioni e i bassi salari ad una fase di prolungata depressione in
cui i problemi strutturali si sono ripresentati in tutta la loro
gravità.
II sistema produttivo italiano viene da questi autori schema-
tizzato in maniera abbastanza simile. Secondo Graziani, la cui
analisi è centrata sul carattere dualistico dello sviluppo econo-
mico italiano, coesistono nella nostra economia un settore avan-
zato, costituito dalle grandi imprese rivolte verso i mercati in-
ternazionali (le quali, anche grazie a tale apertura, hanno rag-
giunto un elevato sviluppo tecnologico, e i cui alti incrementi
di produttività hanno assicurato l'autofinanziamento degli inve-
stimenti «trainando» la rapida espansione degli anni '50), e un
settore arretrato, quello delle piccole imprese meno efficienti,
operanti per il mercato interno, dell'agricoltura e del terziario.
Sylos Labini, che ritiene invece determinante nel meccanismo
dell'economia italiana il rapporto tra forme di mercato e dina-
mica dei prezzi, distingue tra un settore avanzato (l'intera in-
dustria) in cui prevale un meccanismo oligopolistico di forma-
zione dei prezzi, e un settore arretrato, dove sono presenti l'a-
gricoltura, caratterizzata da un mercato di concorrenza perfetta,
le aree della rendita (i fitti e le abitazioni), e quelle parassitarie
come il terziario (nel quale occupa un posto di preminenza la
Pubblica amministrazione).
Analoga è anche la loro posizione rispetto al problema dell'in-
flazione: entrambi ritengono che in Italia l'inflazione si presenti

2 Cfr. il lungo saggio introduttivo che A. Graziani ha anteposto alla raccolta


di saggi da lui curata su L'economia italiana: 1945-1970, Bologna 1972; e P. Sylos
Labini, Sindacati, inflazione, e produttività, Bari, 1972.
3 Intendo riferirmi al modello sviluppato da Graziani nel volume di A.A.V.V.,
Lo sviluppo di un'economia aperta, Napoli 1969, e a quello di Sylos Labini,
Prezzi, distribuzione e investimenti in Italia, 1951-1966 : uno schema interpretativo ,
in «Moneta e Credito», 1967.

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dal lato dei costi, di norma come trasferime


incrementi salariali maggiori degli incrementi
volta come inflazione importata dai mercati in
tavia, il propagarsi del fenomeno inflazionisti
ziarli attribuito o al settore industriale «arretrato», che aumenta
i prezzi non appena riesce a sottrarsi alla price leadership della
grande industria, oppure al presentarsi di una spinta dal lato
della domanda in seguito alla rigidità nel breve periodo dell'of-
ferta di alcuni beni - come i prodotti agricoli o le case - a fronte
di una domanda in espansione. Sylos Labini vede invece il feno-
meno di propagazione come frutto di una «pressione inflazioni-
stica strutturale», e cioè del costante aumento del costo della
vita di cui vanno ritenuti responsabili i settori improduttivi,
quello distributivo e quello della rendita. Provocando continui
balzi airinsù dei salari - attraverso la scala mobile prima, e
richieste di nuovi aumenti contrattuali poi - tali settori manten-
gono in vita una spirale prezzi-salari.
C'è tuttavia una differenza da sottolineare, che rivela la
diversa matrice intellettuale dei due autori. L'interpretazione di
Graziani, le cui analisi non si distaccano mai da una linea di
stretta coerenza con la teoria, non vedendo nell'ambito dei prin-
cipi neoclassici la possibilità di collegare la rendita - allo stesso
modo delle remunerazioni dei fattori produttivi capitale e lavoro -
a una propria produttività marginale, attribuisce il propagarsi
dell'inflazione a imperfezioni del mercato di concorrenza per-
fetta. Queste imperfezioni possono appunto consistere in squilibri
tra domanda e offerta, ad esempio a causa della scarsità di abi-
tazioni e di suoli urbani, o nella presenza nel mercato di imprese
marginali, che avendo per la minore efficienza margini di profitto
più bassi cercano di approfittare di una situazione di prezzi
crescenti. Quella di Sylos Labini, la cui «filosofia» economica è
un felice ibrido tra tradizione marginalista e scuola classica
(Ricardo), introduce invece la rendita tra le principali responsa-
bili dell'inflazione. Partendo da questa teoria - che è oggi, come
vedremo, oggetto di crescente interesse tra gli economisti - è facile
capire contro quali strati della borghesia Sylos Labini punti
l'indice se si va a leggere un suo recente studio sul sistema
sociale italiano4.

4 L'ultima versione di questo studio è apparsa sotto il titolo Sviluppo eco-


nomico e classi sociali in Italia nel volume a cura di P. Farneti, Il sistema politico
italiano, Bologna 1973.

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L'orientamento politico di questi riformisti illuminati -


non si sono lasciati coinvolgere nell'ondata di restaurazione
guita alla rinascita della combattività e all'accresciuta forza
movimento operaio - non è certo estraneo alla posizione assun
nei confronti di coloro che hanno in questi ultimi anni ripro-
posto la adozione della politica dei redditi come unico strumento
per combattere l'ascesa dei prezzi. I due autori, infatti, non solo
giustificano sul piano politico l'ostilità dei sindacati nei con-
fronti di un blocco salariale quali che siano le contropartite
offerte, ma sostanziano il loro dissenso con precise considera-
zioni economiche. Sylos Labini, oltre a notare come le cause del-
l'inflazione vadano anzitutto ricercate nel carattere strutturale
del continuo aumento del costo della vita, sottolinea l'impossi-
bilità, una volta legata la crescita media dei salari alla crescita
media della produttività, di assicurare la stabilità dei prezzi al-
l'ingrosso, essendo palesemente assurdo, in un'economia di mer-
cato, sperare che i prezzi industriali diminuiscano nei settori in
cui la produttività cresce più della media. Dal canto suo, Gra-
ziani sembra aderire alla tesi che la politica dei redditi espli-
cherebbe il suo controllo soltanto su una parte della domanda
globale, quella per consumi, mentre le decisioni di investimento,
da cui dipende il tipo di sviluppo economico, resterebbero e-
sclusivamente nelle mani degli imprenditori.
Concordemente negativo è anche il giudizio sulla politica eco-
nomica, e cioè in pratica sul suo unico strumento, la manovra
monetaria. Per timore che la necessità di finanziare il crescente
indebitamento del Tesoro provocasse spinte inflazionistiche, dal
1965 in poi Carli ha ritenuto inevitabile espandere la base mone-
taria ad un basso tasso costante annuo, come vuole la scuola
neo-quantitativa di Chicago di Friedman. Secondo Sylos Labini,
questa eccessiva restrizione di liquidità ha finito per mettere in
contrapposizione il finanziamento al settore pubblico con quello
al settore privato, con grave detrimento per l'attività d'investi-
mento. E a chi si occupa di cose economiche è poi ben nota la
decennale polemica di Graziarli con il Governatore: Graziani ha
più volte criticato l'interpretazione della depressione data dalla
Banca d'Italia secondo la quale gli imprenditori sono portati a
finanziare gli investimenti essenzialmente attraverso il risparmio
d'impresa e che, di conseguenza, una volta caduti i margini di
profitto, il ristagno degli investimenti è stato provocato sia dal
venir meno delle fonti interne di finanziamento sia dalle scarse
aspettative di profitto. Graziani nota infatti che una maggior

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liquidità fornita alle banche favorirebbe un più largo ricorso


delle imprese alle fonti «esterne» di finanziamento, mentre la
caduta dei margini di profitto - essendo mutata di poco la distri-
buzione del reddito - va probabilmente attribuita al ripartirsi
dei costi su una capacità produttiva che staziona a bassi livelli
di utilizzazione a causa del ristagno della domanda.
Non si può quindi dire che gli economisti dell'area riformista
manifestino comprensione verso le scelte governative in campo
economico. Dimostratasi incongrua agli equilibri su cui si regge
la società italiana, all'interno della stessa borghesia, ogni idea
di programmazione economica, gli economisti hanno perciò, col
passare degli anni, avuto come obiettivo quello di imporre al
potere politico almeno una politica monetaria più dinamica. Vo-
lendo rifarci al quadro tratteggiato da De Cecco, potremmo dire
che, abbandonati i sogni di razionalizzazione, essi hanno accet-
tato il modello tradizionale di questo dopoguerra, cercando di
indurre i responsabili della politica economica ad allentare certi
vincoli come quello di una stretta adesione alla politica di gold
standard.
Nella seconda metà degli anni '60 questi economisti hanno
espresso dissenso verso una politica a loro avviso troppo defla-
zionistica, rivolta a salvaguardare solo l'equilibrio esterno, e
cioè ad evitare che eccessivi aumenti dei prezzi, e una conse-
guente perdita di competitività delle nostre merci, provocassero
un deficit nella bilancia dei pagamenti. Si sono perciò limitati
ad auspicare una politica monetaria che favorisse anche lo svi-
luppo interno, dotata cioè di quegli strumenti - come una maggior
selettività del credito e una flessibilità differenziata dei tassi d'in-
teresse - che rendono la manovra monetaria efficace anche in
fase espansiva. Sembra evidente, in ogni caso, che queste due
analisi mettono chiaramente in luce come una nuova espansione
economica non potrà basarsi sugli stessi fattori che hanno per-
messo la crescita accelerata degli anni '50, il più importante dei
quali, i bassi salari, è venuto da tempo meno. A questo propo-
tito, nel capitolo 23° del libro I del Capitale, Marx sostiene che,
pur essendo l'accumulazione la variabile indipendente, vi sono
dei periodi in cui una forte crescita salariale rende necessario
per i capitalisti bloccare il processo di accumulazione in modo
da permettere la ricostituzione di quella sovrappopolazione rela-
tiva di cui il capitale possa liberamente disporre. Sembra che
per il momento questa manovra non sia riuscita al capitalismo
italiano; vediamo perché.

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Storia del capitalismo nel Novecento 1067

Meldolesi5, dimostrando sulla scia di altri studi preceden


che la caduta del saggio di attività (rapporto tra forza-lavoro
popolazione) non è stata dovuta, come vorebbe l'interpretazio
ufficiale, all'aumento del tenore di vita, bensì alla uscita dal
mercato di lavoratori «scoraggiati» dalla bassa domanda di lavoro,
ha ristimato le cifre sulla disoccupazione fornite dall'ISTAT, in-
cludendovi tutti coloro che non hanno «garanzia di stabilità di
occupazione e di un certo reddito», e cioè i disoccupati precari
e gli «inoccupati» (donne, vecchi espulsi anzitempo dal mercato
del lavoro, e i giovani che non riuscendo ad entrarvi proseguono
gli studi). Anche se quest'esercito industriale di riserva dispo-
nibile per un nuovo sviluppo è a mio parere sovrastimato, aven-
dolo Meldolesi calcolato come se tutte le regioni italiane si
trovassero allo stesso livello di potenzialità produttiva della
Lombardia, è interessante il suo tentativo di collegamento tra
esercito industriale di riserva e accumulazione. Il capitale indu-
striale, restringendo la domanda di lavoro verso la componente
«forte» della forza-lavoro (i lavoratori maschi delle classi centrali
d'età) allo scopo di aumentare la produttività attraverso l'inten-
sificazione dello sfruttamento operaio invece che con rinnova-
menti tecnologici, ha infatti creato al suo interno - a parere
di Meldolesi - una grave contraddizione: «esso ha bisogno di più
operai nel pieno della loro capacità produttiva rispetto a quelli
che vi sono sul mercato, e di meno invece per gli altri settori
della forza-lavoro» 6 col risultato di ritrovarsi di fronte ad un'ac-
cresciuta combattività in fabbrica e alla possibilità per gli operai
«forti», indispensabili al tipo di organizzazione produttiva adot-
tato, di spuntare rilevanti aumenti salariali.

Anche De Cecco, attraverso un'indagine statistica, è giunto


alle stesse conclusioni7: a suo parere, in seguito al persistere
della depressione gli industriali hanno via via espulso i lavoratori
marginali per concentrare l'occupazione prevalentemente intorno
agli uomini tra i 25 e i 45 anni, che per la loro integrità fìsica

5 L. Meldolesi, Disoccupazione ed esercito industriale di riserva in Italia, Bari


1972.

6 Cfr. Accumulazione capitalistica e lotta di classe, a cura del Centro Stampa


Comunista di Roma, p. 110, pubblicato su «Vento dell'Est», Edizioni Oriente,
n. 25, 1972, che si deve appunto a Meldolesi.
7 M. De Cecco, Un'interpretazione ricardiana della dinamica della forza-lavoro
in Italia nel decennio 1959-69, in «Note economiche», 1972.

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e il loro equilibrio intellettuale risu


mansioni operaie che oggi consiston
tizione di alcune attività semplici»;
un «mercato chiuso» della forza-lavoro «nel fiore dell'età», la
cui piena occupazione porta a più alti salari per tutti. La sola
ipotesi riformista che regga è allora, per De Cecco, l'allargamento
della base industriale del paese e la diversificazione della stessa
verso la produzione di beni d'investimento.

Questi utilmi due studi si inseriscono in un filone di ricerche


sul mercato del lavoro che l'aggravarsi del problema della
disoccupazione palese e nascosta ha posto all'attenzione soprat-
tutto degli studiosi di formazione marxista. Questi appaiono
infatti impegnati ad approfondire un modello che vede il salario
come variabile indipendente, esogenamente determinata dai rap-
porti di forza tra le classi, dopo che lo sviluppo basato sul
drenaggio nel triangolo industriale della manodopera meridionale
si è interrotto, nel '62 in seguito al raggiungimento di una mo-
mentanea piena occupazione in loco e nel '69 come conseguenza
dell'utilizzazione «intensiva» della forza-lavoro. Anche se non è
ancora possibile dire che questi studi abbiano raggiunto risultati
soddisfacenti quanto all'analisi economica e alle conclusioni
politiche da trarne, è al lavoro degli economisti marxisti che
si devono, come abbiamo visto, le prime indicazioni sulle ragioni
economiche e sociali che hanno permesso al salario di assurgere
a variabile con la quale la classe padronale deve oggi fare i
conti prima di decidere su quale binario far ripartire l'economia
italiana.

Del resto lo stesso campo riformista sta traendo giovamento


dall'innesto più o meno esplìcito nel proprio impianto analitico
delle prospettive e dei risultati innovatori apportati dalle analisi
marxiste, che hanno reso il modello «tradizionale» più adeguato
alla realtà economica della depressione. E va aggiunto che le
linee lungo le quali si sta indirizzando il dibattito sull'economia
italiana - pensiamo qui alla recente ipotesi neodualista - aprono
senza dubbio più ampie prospettive alla applicazione degli stru-
menti di analisi marxista. Si va oggi forse concretizzando, a
distanza di molti anni - si chiedono infatti gli economisti - la
tesi della Lutz, secondo la quale i troppo elevati salari di cui
godevano per lo «strapotere» dei sindacati i lavoratori del settore
avanzato, erano la causa della divisione tra grandi imprese ad

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Storia del capitalismo nel Novecento 1069

alto sviluppo tecnologico e piccole imprese che utilizzavano tec-


niche a più alta intensità di lavoro?
A riportare il dibattito alla problematica del dualismo
- riproposto stavolta in un'ottica «di sinistra», dove la respon-
sabilità del dualismo è più spesso attribuita alla classe padro-
nale che non ai sindacati8 - sono stati i dati sullo scarso assor-
bimento di manodopera da parte della grande industria durante
gli anni '60 e sul crescente ricorso da parte delle piccole
imprese al lavoro a domicilio e alla adozione di processi par-
cellizzati. Il ritorno a interpretazioni in termini dualistica rappre-
senta quindi in un certo senso la prova che è giunto il momento
per l'ideologia riformista non solo di riconoscere il fallimento
del disegno accarezzato all'inizio degli anni '60 di integrazione
della classe operaia (in cui la programmazione incarnava il
mito della razionalizzazione del neocapitalismo italiano), cosa
che in parte ha già fatto, ma anche di prendere atto che l'intero
quadro economico-sociale è andato nel frattempo mutando. Una
volta infatti saltato il meccanismo di sviluppo proprio nel suo
ingranaggio più vitale ma al tempo stesso più delicato, il
mercato del lavoro, la lunga depressione economica che ha
assunto in molti anni la forma di stagflation (fenomeno sul quale
purtroppo alcuni esponenti della «nuova sinistra» non sono
stati in grado di elaborare altro che libresche ripetizioni di
formule sull'imminenza della crisi finale del capitale), e la nuova
recessione del 1970-72, sono andate progressivamente allentando
i legami dell'Italia con l'economia comunitaria.

L'attuale momento «di transizione» dell'Italia, ai margini


dell'area sviluppata ma dotata di una struttura economico-sociale
ben diversa da quella dei Paesi sottosviluppati, è rispecchiata
oggi più che mai dalla situazione del Mezzogiorno. La crisi
economica ha fatto sentire il suo peso in misura certamente
maggiore nel Sud, dove il processo di «terziarizzazione», conse-
guenza della rigidità della domanda di lavoro industriale, si è
presentato con caratteri notevolmente più gravi che nelle regioni
settentrionali provocando un ulteriore deteriorarsi del tessuto
sociale, e una situazione di tensione che non ha mancato di

8 Una tale ipotesi sul futuro sviluppo italiano è formulata in A.A.V.V., Verso
l'economia del neodualismo? (stesura a cura di A. Graziani), su «Nord e Sud»,
genn. 1973.

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esplodere più volte. Nella sua introduzion


rilevanza vitale che ha ormai assunto la spesa pubblica per il
Mezzogiorno, realizzando un precario equilibrio in cui al van-
taggio per l'industria del Nord di allargare i propri mercati
corrisponde il proliferare del clientelismo e del parassitismo
gestito dai ceti di borghesia arretrata meridionale, strettamente
legati al potere politico centrale9.
Gli anni '60, oltre a seppellire l'ideologia tecnocratica, hanno
perciò decretato la fine di un altro mito, quello della politica
meridionalistica. E' noto come gli interventi dell'industria pub-
blica nel Mezzogiorno, non solo non siano stati in grado di dar
vita a fenomeni di industrializzazione indotta ma abbiamo anzi
notevolmente aggravato la situazione dell'occupazione. I grossi
insediamenti pubblici, e anche gli stabilimenti di montaggio
impiantati daJIe industrie del Nord, hanno finito, soprattutto
attraverso la diffusione di salari più alti, per sottrarre mano-
dopera alle piccole e medie industrie locali, accelerando la crisi
dei settori tradizionali. Inoltre, la decisione di concentrare gli
interventi solo nelle aree maggiormente suscettibili di sviluppo
va accentuando l'emarginazione delle «zone abbandonate» ren-
dendo sempre più precaria la piccola proprietà contadina e acco-
munando perciò nel processo di pauperizzazione contadini poveri
e braccianti10.

Nonostante ciò, non sembra che una eventuale ripresa pro-


duttiva si sobbarcherà i costi e i rischi di un allargamento
verso il Sud del tessuto industriale, vista la tendenza della
classe capitalistica, finora portata avanti con successo, a risol-
vere al suo interno in senso efficientistico - come recupero cioè
della produttività la grande industria, come riduzione del costo
del lavoro la piccola - quei problemi che il modello di sviluppo
squilibrato adottato le ha di volta in volta creato. In questo
senso sembra vada interpretato anche il proposito espresso dal-

9 Sul blocco sociale dominante nel Mezzogiorno, vedi C. Donolo, Sviluppo


ineguale e disgregazione sociale. Note per l'analisi delle classi nel Meridione, in
«Quaderni piacentini», n. 47, luglio 1972.
10 Le conseguenze dell'intervento pubblico e le condizioni sociali del Mezzo-
giorno sono state oggetto di numerosi studi di G. Mottura e E. Pugliese, pubbli-
cati soprattutto su «Inchiesta». Vedi, ad esempio, G. Mottura, Problemi dell'oc-
cupazione e contraddizioni del proletariato nel Mezzogiorno, ivi, estate 1972, e
G. Mottura - E. Pugliese, Agricoltura capitalistica e funzione dell'inchiesta, ivi,
estate 1971.

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l'ala imprenditoriale progressista di garantirsi l'alleanza d


classe operaia del Nord contro la rendita.
Il ruolo delle rendite nella nostra economia - un altro filone
lungo il quale è probabile si svilupperanno le analisi degli
economisti - è certamente una questione che può proficuamente
essere studiata nell'ambito dell'apparato teorico marxista, o
anche secondo le categorie dell'economia classica in generale.
Va comunque dato atto a Sylos Labini di avere per primo sotto-
lineato l'importanza che nel funzionamento dell'economia italiana
rivestono i settori improduttivi, come ad esempio quello dei
fitti e delle abitazioni e la Pubblica amministrazione, in quanto
responsabili dell'inflazione «strutturale» e della spirale prezzi-
salari.
All'interpretazione che vede il settore industriale e il parti-
colare tipo di sviluppo labour-saving da esso attuato come causa
del processo di «terziarizzazione» dell'economia italiana, se ne
va quindi contrapponendo oggi una sotto certi aspetti opposta,
perché pone al centro del problema proprio il «terziario», e
cioè i settori parassitari e di rendita. Si tratta dell'ipotesi - in
definitiva non inconciliabile con la suddetta interpretazione -
secondo cui la classe operaia, stanca del continuo crescere del
costo della vita (in special modo, le spese per la casa e quelle
dovute all'inefficienza delle infrastrutture sociali), è riuscita ad
ottenere dall'industria, attraverso più alti salari, la «monetizza-
zione» di questi fattori di abbassamento del salario reale. In
termini ricardiani si potrebbe dire che l'industria italiana vede
aumentare i propri costi in quanto è costretta a scambiare merci
contro del grano (il salario «anticipato» per la sussistenza dei
lavoratori) che le viene fatto pagare - indirettamente, per la
rendita lucrata dai rentiers , e direttamente perché lo Stato
preleva con le tasse senza dare in infrastrutture - sempre più
caro.

Seguendo invece la teoria marxiana, si deve piuttosto


di un crescente valore della forza-lavoro, dovuto alla scarsa
efficienza dei settori produttori di beni-salario, che è causa di
riduzione del saggio di sfruttamento. E' allora sperabile che in
questa direzione gli economisti marxisti riescano a compiere il
passo decisivo verso la costruzione di un modello d'interpreta-
zione alternativo dell'economia italiana e che, in virtù del carattere
globale del metodo d'analisi marxista, ne vengano indicazioni
utili anche alla pratica politica.
Francesco Farina

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