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INTERVENTI

Intervento di REMO CAPONI, ordinario dell’Università di Firenze

1. – Nella economia di mercato capitalistica che giunse


a maturazione in Occidente nell’evo moderno e si diffuse
poi nelle altre regioni del mondo che ne seguirono (o, più
frequentemente, ne subirono) il modello di sviluppo, la ca-
ratteristica essenziale della produzione – sarebbe davvero su-
perfluo il ricordarlo – è il conflitto di interessi tra chi detiene
la proprietà (e/o la gestione) dei mezzi di produzione e chi
mette sul mercato le proprie energie vitali, fisiche e mentali
(la «forza lavoro» di cui parlava Marx). Il conflitto tra capi-
tale e lavoro fu una delle salienti conseguenze della prima
rivoluzione industriale e della combinazione di fattori che
la promossero negli ultimi decenni del XVIII secolo in In-
ghilterra. Fu un conflitto conformativo di assetti istituzionali
della modernità, che interpellarono i giuristi nei loro diversi
ruoli professionali, come testimoniano le memorabili pagine
di Marx sulle lotte operaie per la riduzione legislativa della
durata della giornata lavorativa.
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Tale contrapposizione attraversò le successive fasi di svi-


luppo dei paesi occidentali, contrassegnando l’avvento delle
società industriali di produzione di massa e informando di sé
le altre strutture sociali. Questo classico «conflitto economi-
co» dell’epoca moderna non ha sostanzialmente attirato l’at-
tenzione – pur di alto livello tecnico giuridico – con la quale
noi studiosi del processo civile italiani, nel nostro Convegno
nazionale del 2022, abbiamo esplorato gli orizzonti contem-
poranei dei Conflitti economici e giurisdizione, discorrendo
di governo dei conflitti, di autorità amministrative indipen-
denti e tutela dei diritti, di regole della concorrenza tra en-
forcement privato e pubblico, nonché di autorità di vigilanza
e giudizi di responsabilità.

2. – Che il conflitto fra capitale e lavoro sia scomparso, ri-


assorbito entro i raffinati dispositivi giuridici, molti dei quali
sono stati finemente indagati nel nostro Convegno? Che il
classico dispositivo di composizione dei conflitti sociali ed
economici della forma Stato moderna (cioè l’amministrazio-
ne statale della giustizia civile) non ne sia più interessato?
Alla prima delle due domande si può agevolmente risponde-
re in senso negativo, mentre alla seconda temo che si debba
dare – almeno provvisoriamente – una risposta positiva.
Più che di conflitto, si dovrebbe parlare di guerra, negli
ultimi decenni (dalla fine degli anni settanta del XX secolo,
con periodiche accelerazioni come quelle dovute alla crisi
economico-finanziaria scoppiata nel 2008 e poi alla pande-
mia iniziata nel 2020). Guerra senza quartiere del capitale
(cioè soprattutto dei grandi aggregati economici, industriali
e finanziari, prevalentemente transnazionali) contro i lavora-
tori, con continue e ripetute sconfitte di questi ultimi. Basti
ricordare l’aumento rapido, profondo e impietoso delle di-
suguaglianze sociali ed economiche in Occidente, tra Nord
e Sud del mondo, nonché gli infortuni mortali sui luoghi di
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lavoro. Come gli sforzi politici in direzione della uguaglianza


sostanziale erano stati uno degli assi portanti dell’età dello
Stato sociale di diritto, così l’orientamento verso le disugua-
glianze è un tratto caratteristico dell’età attuale, sebbene il
fenomeno abbia cause complesse che s’intrecciano tra di
loro e non possono essere ridotte a una considerazione mec-
canicistica.
Al giorno d’oggi, il conflitto tra capitale e lavoro è vivo e
vegeto, periodicamente riconfigurato dalle grandi trasforma-
zioni che procedettero a un ritmo sempre più serrato da un
rivoluzione industriale all’altra e conobbero un volano im-
ponente nell’impiego e la diffusione di elaboratori elettronici
negli ultimi decenni del XX secolo, fino all’odierna quarta
rivoluzione industriale, che viviamo attraverso una serie di
innumerevoli cambiamenti che si svolgono a ritmo continuo
nella nostra quotidianità, propiziati dalla rapida convergenza
e interazione tra le varie tecnologie.

3. – L’accento posto sul permanente sfruttamento del la-


voro da parte del capitale non distoglie dal ricordo del balzo
storico che fu provocato dall’avvento della struttura di un
lavoro umano come merce ceduta ai titolari dei mezzi di pro-
duzione sulla base di un accordo: il fatto che l’erogazione del
lavoro non fosse più veicolata da un vincolo di dipendenza
stabilmente ancorato ad una differenza di status, ad una infe-
riorità di condizione soggettiva immodificabile e discrimina-
ta, come quella della schiavitù (A. Schiavone), ma potesse al
contrario condurre a preconizzare che «ogni aspirazione alla
libertà» fosse «possibile soltanto finché essa è un’aspirazione
al lavoro» (E. Jünger).
È difficile evitare di cogliere in quel balzo storico, nella
partecipazione pur solo formalmente libera ed egualitaria
dei lavoratori allo strumento giuridico per eccellenza della
moderna società borghese (il contratto), una delle scaturigini
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della maturazione di ideali di lotta per la conquista di spazi


di libertà ed eguaglianza sostanziali, che dettero impulso –
accanto all’analisi della condizione delle classi lavoratrici nei
paesi proto-capitalistici – a quei processi di trasformazione
economica, sociale e infine politica, avviatisi nei decenni fina-
li del secolo XIX, con i quali le masse popolari, contadine e
operaie, fecero irruzione nel teatro della storia. Determinan-
te per il cambiamento del paesaggio sociale e politico fu la
nascita del movimento operaio con il suo seguito di associa-
zioni e organizzazioni dirette alla conquista di miglioramenti
nelle condizioni di lavoro. Emerse un nuovo cervello sociale,
che generò una cultura alternativa rispetto a quella borghese
(U. Cerroni).
Questi sviluppi costituirono lo stadio di partenza della
società pluralistica, contraddistinta dal conflitto tra grup-
pi di interesse organizzati, che progressivamente innervò il
sistema politico, con l’allargarsi del suffragio elettorale. Si
delineò quel tratto di fondo del mondo occidentale che si
esprime nella permanente instabilità dei quadri sociali e po-
litici, poiché questi ultimi non possono più assestarsi sulla
base di un ethos, preferenze ideali e convinzioni politiche
fondamentalmente comuni.
Un potente fattore di accelerazione di questi fenomeni fu
la crescita della «società industriale di produzione di massa,
nella quale il progresso tecnologico accelerato e la crescente
concentrazione dei capitali produttivi conferirono allo svi-
luppo sociale il carattere di un processo continuo di disinte-
grazione e reintegrazione delle strutture socio-economiche,
che sfuggiva ad ogni nozione di equilibrio spontaneo» (L.
Mengoni).
Se si volesse risalire a talune delle radici politiche (e giuri-
diche) più profonde di questi sviluppi, non si potrebbe evi-
tare di ritornare con il pensiero alla nuova era aperta in Eu-
ropa dalla rivoluzione francese, pur se nel lungo periodo le
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manifestazioni di autocoscienza politica di individui e classi


sociali emergenti rimarranno esposte a profondi andirivieni:
di avanzamenti, repressioni e abissi di disumanità, inaugurati
dalla restaurazione postnapoleonica e – per limitarsi al pano-
rama europeo – segnati dai moti del 1830-31, dalle rivoluzio-
ni del 1848-49, dalla rivoluzione d’ottobre, dalla Repubblica
di Weimar, dalle costituzioni della seconda democratizzazio-
ne, successive alla seconda guerra mondiale, fino alle ultime
ondate costituzionali, tra cui quella conseguente alla caduta
dei regimi del socialismo reale.
Infine, un ultimo balzo ci attenderebbe, all’indietro nel tem-
po, se volessimo indicare, con attenzione rivolta ai risvolti giu-
ridici, l’anello iniziale della catena di eventi sotto i nostri occhi.
Dovremmo ripensare per un istante al clima generato dal pro-
cesso di secolarizzazione e dal conseguente ingresso incisivo del
diritto nella sfera di influenza di un sottosistema della società al-
lora in piena crescita, permanentemente attivo nella produzione
di decisioni collettivamente vincolanti: la politica (D. Grimm).
L’impianto ideologico giusnaturalista, teso ad esaltare gli attri-
buti dell’individuo, trovò allora un alleato nel potere politico, in
una figura idealizzata di Principe, chiamato a leggere la natura
delle cose e a tradurla in regole per la nuova società composta di
soggetti formalmente liberi ed uguali (Paolo Grossi).
Questo movimento culminò appunto alla fine del Sette-
cento con la rivoluzione francese e la realizzazione di un mo-
nopolio del diritto da parte dei nuovi detentori del potere
politico. Il monopolio delle fonti del diritto basate sull’au-
torità politica dello Stato nazionale, fondato «sull’idea che il
legislatore crei il diritto, partendo da un programma politico
che con esso ci si propone di attuare e di imporre» condusse
a una corrispondente svalutazione delle fonti culturali, ba-
sate «sull’idea che il giudice (o il giurista in genere) trovi il
diritto, mediante una ricerca svolta essenzialmente con l’uso
della ragione» (A. Pizzorusso).
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4. – Si ambientò perfettamente in quell’atmosfera il pro-


cesso civile, come dispositivo che rinveniva il proprio bari-
centro nella notevole astrattezza «legalistico-formalistica»
(come Salvatore Satta qualificò in Italia l’indirizzo di studi di
cui Luigi Mattirolo fu il principale esponente). Tale carattere
altro non era che il risvolto processuale dell’astrattezza in-
nervata dall’eguaglianza formale che costituì – in Italia alme-
no fino all’approvazione dell’art. 3, comma 2o Cost. – il tratto
fondamentale del diritto moderno, giunto a maturazione con
la rivoluzione francese e l’era di Napoleone, con il suo segui-
to di discrasie tra il pathos universalistico delle dichiarazioni
dei diritti e il particolarismo infarcito di eccezioni (di genere,
di censo, ecc.) delle attuazioni concrete.
Nobili sono le radici del diritto processuale di matrice le-
galistico-formalistica, giacché i lineamenti del processo ordi-
nario – dalla legittimazione ad agire in giudizio fino ai limiti
del giudicato – recavano tracce profonde della fase di fonda-
zione ideale del processo e della giustizia, negli ordinamenti
statali dell’Europa continentale. Per assistere a tale fonda-
zione non occorse certo attendere fino alla seconda metà del
secolo XIX (come si suole ancora ripetere), quando il diritto
processuale conquistò in Germania la propria autonomia ri-
spetto alle altre branche del diritto. Essa originò almeno due
secoli prima.
È infatti con le indagini del pensiero giusnaturalista nel
secolo XVII che la giustificazione del processo civile venne
colta nella prospettiva del superamento dello status natu-
ralis nello status civilis, come lo strumento che prendeva
il posto dell’autotutela (K.W. Nörr). Nello stato di natura
immaginato dai giusnaturalisti non esistevano giudici do-
tati di potere coercitivo al fine di comporre le controver-
sie: iudex non datur, qui lites exortas pro imperio definiat
et componat (S. Pufendorf). In tale condizione si doveva
far ricorso all’autotutela, cosicché la controversia poteva
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sfociare nel bellum privatum (U. Grozio). Dopo la stipula


del contratto sociale e l’istituzione dello Stato, l’esercizio
della giurisdizione veniva assegnato da Hobbes al summum
imperium e collocato da Pufendorf accanto al potere le-
gislativo, nonché alla potestà punitiva. Nonostante le sfu-
mature di diversità dei percorsi argomentativi seguiti dai
pensatori giusnaturalisti, il punto d’arrivo era, su questo
punto, comune: la giurisdizione nelle controversie civili ve-
niva affidata alla potestà dello Stato; essa sostituiva in via
di principio l’autotutela; il giudice prendeva il posto della
parte che si faceva giustizia da sé; la disciplina del processo
civile veniva essenzialmente e fondamentalmente ancorata
all’interno dello ius publicum (J.H. Boehmer).
Si individuò uno dei pilastri su cui si erse l’attuale espe-
rienza europeo-continentale: la giustificazione del processo
civile risiede nel divieto di farsi ragione da sé, nel divieto di
autotutela privata. Da allora il rapporto tra divieto di auto-
tutela e la predisposizione da parte dello Stato del processo
civile ricevette un progressivo affinamento, ma non un ra-
dicale mutamento di prospettiva nell’esperienza giuridica
continentale. Si posero altresì le premesse concettuali per la
costruzione di un processo civile che fu idoneo a proteggere
il nuovo individuo borghese e la sua libertà economica, in
una prospettiva individualistica e frammentata dei rapporti
sociali ed economici, che entravano nel processo come uno o
più rapporti interindividuali.
Sul piano generale, il quadro si completò con lo spegni-
mento dei moti rivoluzionari del 1848. Si eresse un argine
politico alla maggiore modificabilità decisionistica del di-
ritto rispetto agli evi precedenti, che era stata determinata
dal processo di secolarizzazione. Si recuperò così un provvi-
sorio quadro di stabilità, attraverso il fiorire di un ethos, di
preferenze etiche e di un indirizzo politico tendenzialmente
uniformi, cagionato dal trionfo politico e sociale della classe
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borghese nei suoi valori meno radicali, e nei suoi dispositivi


di potere irreggimentante.

5. – Le trasformazioni sociali degli ultimi decenni del se-


colo XIX non tardarono a fare sentire il loro impatto su tale
assetto. La perenne dialettica tra le forme e la vita si delineò
come un confronto tra le scintillanti forme giuridiche che la
classe sociale uscita vincitrice dalla rivoluzione francese ave-
va forgiato e che avevano trovato una magnifica espressione
nei codici napoleonici e gli ambiti della vita emergenti che in
quelle forme non si rispecchiavano, pur essendo stati solleci-
tati dai rivoluzionari processi storici che la stessa borghesia
aveva scatenato.
Quando gli storici del diritto ricostruiscono l’influen-
za di quelle trasformazioni in termini di «frammentazione
del diritto comune civilistico» (G. Cazzetta), discorrono di
nuove forme giuridiche che si fecero largo faticosamente tra
le crepe e lacerazioni delle forme precedenti. Aprendo una
parentesi con una istantanea fuga in avanti, si rinvengono in
quella influenza le scaturigini delle riflessioni che in epoca
successiva saranno etichettate come di impianto giuridico-
pluralista, quand’anche si debba osservare – a beneficio di
approfondimenti da svolgere in altra sede – che taluni canto-
ri del pluralismo giuridico rimangono frequentemente abba-
cinati dal mito dell’unità della scienza del diritto e mancano
di tematizzare un aspetto centrale: la frammentazione delle
identità sociali, culturali e politiche dei giuristi.
Tornando sugli ultimi decenni del secolo XIX e alla bran-
ca del sapere specialistico a noi più vicina, le trasformazioni
sociali di quel periodo ebbero fra le molte conseguenze che
le controversie in materia di lavoro, dai risvolti tipicamen-
te collettivi, si presentarono significativamente alla ribalta
del processo civile. Come avrebbe potuto la classe operaia
riconoscersi nelle forme processuali tradizionali? L’ammini-
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strazione della giustizia civile non poteva ambientarli al suo


interno senza adottare modificazioni incisive nella propria
struttura.
In modo corrispondente al discorso sulla frammentazione
del diritto comune civilistico, si potrebbe parlare di fram-
mentazione del diritto comune processualistico per le novità
introdotte dalla legge 15 giugno 1893, n. 295 sui probiviri
industriali, ove si attribuirono tra l’altro ampi poteri istrut-
tori alla nuova magistratura del lavoro. Il subitaneo allon-
tanarsi dall’idea che solo le parti possano dedurre le prove
in giudizio segnò una svolta nel destino di una materia che
rinveniva il proprio asse portante nell’astrattezza legalistico-
formalistica.
Il dissidio dialogico tra regola ed eccezione – che consente
all’ordinamento giuridico di registrare i mutamenti della re-
altà sociale e di imparare dagli ambiti della vita (dei singoli e
dei gruppi sociali) – nell’ambiente della giustizia civile si era
già da secoli articolato nell’alternativa tra processo ordinario
e processi speciali. Non sorprende pertanto che tale alterna-
tiva sia riuscita nell’arco del tempo a mediare e ad assorbire
al suo interno anche il conflitto tra capitale e lavoro. Quel
conflitto centrale della matura epoca moderna, che informa-
va di sé e conformava pressoché tutte altre strutture sociali,
trovava una corrispondenza – per quanto esso si convertisse
in controversie giudiziarie tra lavoratori e imprenditori – nel-
la contrapposizione tra parti in un processo civile «speciale».
Una denominazione di specialità che, se non è il riflesso di
una esplicita definizione adottata dal codice di procedura ci-
vile (soffermando l’attenzione sul codice del 1942), certo è lo
specchio fedele del suo impianto sistematico, in particolare
nel secondo libro. Colà campeggia un tipo di processo di
cognizione, che è tale per eccellenza ed è perciò il processo
«ordinario».
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6. – Inserita nel quadro delle sue origini storiche, la diade


«ordinario/speciale», come matrice dell’attribuzione di spe-
cialità al processo per le controversie in materia di lavoro,
entrava in tensione con l’assetto fondamentale che la Costi-
tuzione del 1948 assegnò alla Repubblica democratica. Infat-
ti, se quest’ultima è «fondata sul lavoro» (art. 1), si potrebbe
finanche dubitare della correttezza giuridico-costituzionale
dell’impianto sistematico del codice di procedura civile,
che continua a confinare il processo del lavoro nel novero
di quelli «speciali» ed a relegarlo in fondo al secondo libro,
quasi al modo di appendice.
Infatti, «il nuovo contesto aveva al suo centro la costru-
zione istituzionale, sociale e culturale di un nesso stretto fra
politica, democrazia e lavoro, fondato su un’idea di quest’ul-
timo come esperienza antropologica unificante e intrinseca-
mente egualitaria, come carattere distintivo dell’umano (si
potrebbe dire: come categoria fondante l’unità trascenden-
tale e storica della specie). Non il rovesciamento comunista
dell’universo borghese per liberare il lavoro dai vincoli ca-
pitalistici, ma la sua integrazione all’interno di una politica
democratica che fosse in grado di attribuirgli un ampio ven-
taglio di riconoscimenti, e di favorire un migliore rapporto
distributivo fra redditi da lavoro e redditi da capitale, con
la conseguente sovraimpressione – fino a un’identificazione
quasi totale – della figura del lavoratore su quella del cittadi-
no» (A. Schiavone).
Alla base di questo disegno si rinveniva il compromesso
tra culture politiche liberale (laico-risorgimentale), cristiano
sociale e socialcomunista, che aveva dato vita alla Costitu-
zione italiana del 1948. In quel compromesso era inscritta la
promessa di un modello sociale in cui i valori politici della
cultura liberale classica, specialmente la libertà di manifesta-
zione del pensiero, la concorrenza delle idee e delle iniziative
economiche, potessero conciliarsi dinamicamente, nei limiti
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di ciò che era oggetto possibile di conflitto e di conquista da


parte delle forze sociali e politiche nella cornice di una forma
di Stato democratico-costituzionale, con i valori politici della
persona, della solidarietà e sussidiarietà, propri soprattutto
della cultura politica cristiano-sociale, e i valori politici della
piena occupazione, della dignità del lavoro e della redistri-
buzione del reddito, propri soprattutto della cultura politica
socialcomunista.
Sul versante della cultura generale, a tali svolgimenti poli-
tici si abbinava l’affermazione egemonica, nella società italia-
na dopo la seconda guerra mondiale, di un impianto avente
radici risalenti ai primi decenni del secolo, di indirizzo so-
stanzialmente storicistico, di stampo immanentistico-attuali-
stico, che mediava elementi del pensiero di Benedetto Croce
con aspetti del pensiero di Giovanni Gentile (A. Asor Rosa).
Era una cultura dominata dall’idea che la verità è figlia del
tempo, che la verità non è, ma diviene e si dimostra realizzan-
dosi nel corso del processo storico. Essa presentava caratteri
indigeni, che la differenziavano notevolmente dalle maggiori
correnti culturali circolanti in Europa, ma esibiva fondata-
mente una pari dignità e spessore teorico. Inoltre, essa era
la cultura egemone nell’ambito di tutte le forze politiche e
sociali dell’arco costituzionale democratico e antifascista
italiano. Le stesse opere di Marx, dentro e fuori dal partito
comunista italiano, erano lette attraverso gli occhiali offerti
dalla mediazione tra posizioni crociane e posizioni gentiliane
(N. Badaloni).
Da quell’orientamento scaturiva una determinata idea del
nazional-popolare, cioè l’esigenza, culturale prima che poli-
tica, di rintracciare una unitaria tradizione nazional-popola-
re che, in quanto tale, dovesse energicamente mediare tra le
istanze sociali contrastanti. Lo stesso concetto gramsciano di
egemonia poteva essere letto in quest’orizzonte teorico. Esso
esprimeva l’idea che una forza politica determinata poteva
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giungere a sviluppare un’effettiva funzione di governo, nel


senso più ampio del termine, nella misura in cui sapesse in-
terpretare le tendenze, i destini comuni, nazional-popolari
appunto, all’intero paese. Si trattava, in fondo, di una con-
cezione non distante dall’interpretazione del Risorgimento
da parte di Giovanni Gentile (ma più in generale da parte
di tutta la storia della filosofia e della cultura italiana), come
base per una rinnovata cultura nazional-popolare. Dopo la
disfatta della seconda guerra mondiale, arrivò in effetti un
altro «risorgimento».

7. – A partire dalla seconda metà degli anni cinquanta, l’I-


talia cominciò ad essere uno dei protagonisti del periodo di
espansione economica globale che si era avviato poco dopo
la fine della guerra. Le ragioni di ciò sono molteplici e fra
gli economisti non vi è accordo sull’ordine di importanza
in cui dovrebbero essere indicate (P. Ginsborg). La crescita
economica che si ebbe dopo la seconda guerra mondiale in
Occidente dischiuse anche in Italia una fase di crescita cul-
turale, di apertura sociale e di svolta politica (con l’avvento
dei governi di centro-sinistra a partire dal 1962): «La società
italiana conosce in un brevissimo volger d’anni una rottura
davvero grande con il passato: nel modo di produrre e di
consumare, di pensare e di sognare, di vivere il presente e di
progettare il futuro. È messa in movimento in ogni sua parte:
esprime energie e potenzialità economiche diffuse, capacità
progettuali, ansie di emancipazione differenti, e di diverso
segno. Sprigiona, anche, un ventaglio ampio di fermenti in-
tellettuali: basti pensare al cinema e alla letteratura di quegli
anni, al giornalismo, alla vivacità di riviste e gruppi culturali»
(G. Crainz).
In questo clima di rinnovamento radicale, a partire dai
primi anni sessanta, l’impostazione storicistica della cultura
egemone, che faceva leva sull’idea di tradizione come uni-
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tà nella diversità, cominciò a subire una serie di attacchi da


nuovi approcci, che ci riporteranno a riflettere di nuovo, in
prospettiva conclusiva, sul conflitto tra capitale e lavoro nella
sua mediazione giurisdizionale. Protagonisti di tali attacchi
furono studiosi con differenti temperamenti e propensioni,
attivi in diversi campi del sapere, ma accomunati dalla deter-
minazione ad avviare una stagione di studi che riprendesse e
sviluppasse temi di Marx in prospettiva antistoricistica e an-
tinazional-popolare, pur senza dimenticare un assunto fon-
damentale appartenente alla tradizione di pensiero italiana.
Era l’idea, di ascendenza machiavelliana, che dovesse essere
il conflitto, l’aspetto negativo della contraddizione – non la
mediazione – il momento sorgivo di critica radicale dell’as-
setto esistente, nonché il motore propulsore della produzio-
ne di nuovi assetti sociali, politici e giuridici.
Una concezione del conflitto come condizione essenzia-
le di vitalità della repubblica non poteva che porre al cen-
tro della propria attenzione il conflitto tra capitale e lavoro.
Sulla base degli eventi generati dall’«indimenticabile 1956»,
cominciò a fare i primi passi una ricerca teorica che si collo-
cava fuori dalle politiche culturali dei partiti; che indagava
in modo diverso gli sviluppi capitalistici in Italia, cogliendo
le tracce delle fratture sociali più che i segni di un progresso
lineare; che mirava a creare un rapporto diretto tra intellet-
tuali e classe operaia. Sono queste le origini dell’operaismo,
che – dopo la prematura scomparsa di R. Panzieri – trovò un
veicolo di espressione in particolare nell’opera di M. Tronti.
Si fece strada l’idea della classe operaia, da un lato come
motore del sistema sociale di produzione capitalistico,
dall’altro come fattore di contraddizione del sistema, fomite
di nuovi ordinamenti e non come veicolo della tradizione.
Si elaborò un punto di vista della classe operaia alternativo
alla imprenditorialità come soggetto dell’accumulazione. Era
l’idea (e la prassi) di un cervello sociale alternativo rispetto a
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quello capitalistico, un cervello sociale al quale si riconosce-


va la capacità di prendere le redini del processo politico, di
creare istituzioni e di passare alla guida del paese.
In contrasto con la tradizione nazional-popolare, Tronti
e altri facevano valere appunto l’importanza del conflitto
tra capitale e lavoro come condizione di forza di una re-
pubblica, che tiene aperta la prospettiva di un «oltre». Si
trattò infine – ma non è certo la tessera minore in questo
mosaico fugacemente tratteggiato – di un punto di vista
in grado di raccogliere la sfida del grande pensiero con-
servatore borghese, collocandosi alla stessa altezza. Non a
caso, la valorizzazione del pensiero negativo articolata non
in prospettiva decadente e irrazionalistica, bensì come mo-
mento di fondazione di nuove razionalità in diversi settori
del sapere e dell’esperienza (M. Cacciari) fu uno dei tratti
fondamentali che accomunava le opere di diversi autori,
pur nella diversità di materie trattate (tra cui spiccava la
storia della letteratura italiana, attraverso l’opera di A. Asor
Rosa), oltre che di raggio di trasformazione politica cui co-
storo aspiravano.

8. – L’impostazione o, meglio, la matrice di concezioni de-


lineate nel paragrafo precedente ebbe vita breve, non tanto
per i conflitti tra le strategie che si delinearono al suo interno,
quanto per il cambiamento di clima che si verificò in conse-
guenza della reazione istituzionale che si manifestò di fronte
alle minacce rappresentate dai movimenti sociali della fine
degli anni sessanta.
Il movimento fallì politicamente, ma lasciò tracce dure-
voli nella vita culturale italiana, anche sul piano del pensiero
e delle istituzioni giuridiche. Se infatti si avesse la pazienza
di sondare le interconnessioni tra cultura generale e cultura
giuridica, non si tarderebbe a scorgere il simmetrico ripro-
dursi all’interno di quest’ultima, in quella stessa epoca, di
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una contrapposizione di orientamenti omologa all’antitesi


tra tradizione nazionalpopolare e correnti ideali alternative.
In questa sede mettiamo tra parentesi le corrispondenze
(del resto facilmente intuibili) tra orientamento nazional-po-
polare e cultura giuridica tradizionale. Negli anni sessanta, in
sintonia con i già ricordati mutamenti profondi della società
italiana e le significative innovazioni legislative, in modo sim-
metrico rispetto alle concezioni alternative che si manifesta-
vano nell’ambito della cultura filosofica, letteraria e politica
nello stesso arco di tempo, cominciarono a prodursi variazio-
ni di notevole spessore nell’ambito della cultura giuridica. Al
di là delle diversità dei settori del diritto, dei temperamen-
ti, delle culture e delle esperienze dei giuristi che ne furono
protagonisti, le variazioni presentavano un tratto di fondo
comune e corrispondente a quello delle omologhe variazioni
nella cultura filosofica, letteraria e politica.
Diversità di posizioni (anche notevoli) all’interno della
cultura giuridica vi erano sempre state, ma le nuove conce-
zioni che si affacciarono negli anni sessanta e settanta esibi-
vano una differenza qualitativa rispetto a tutte le altre: per
così dire, avevano un piede dentro e l’altro fuori dal sistema
giuridico. Pertanto erano capaci di osservarlo anche dall’e-
sterno del sapere giuridico. Inoltre, di conseguenza, nel mo-
mento sorgivo della loro critica, facevano leva sulla «potenza
del negativo», sulla forza della contraddizione (e non della
mediazione), non come base di eversione politica, ma certa-
mente come motore propulsore di assetti radicalmente nuovi
della cultura giuridica.
Mi riferisco alle correnti che – valendosi sul piano della
politica del diritto della potenza del conflitto sociale, special-
mente della seconda metà degli anni sessanta – cercarono di
calare il conflitto all’interno delle forme giuridiche, rivelando
la falsa neutralità di queste ultime, dirompendone l’unità e
promuovendone un uso «alternativo» o «differenziato». «Le
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categorie giuridiche – scrisse P. Barcellona nella introduzione


agli Atti del convegno sull’Uso alternativo del diritto (di cui
nel 2022 si è celebrato il cinquantesimo anniversario) – pre-
sentate come elaborazioni concettuali indipendenti dai con-
dizionamenti storici, finiscono con l’essere uno strumento per
la “valorizzazione” dei rapporti di potere esistenti, finiscono
cioè con il valorizzare la realtà così com’è, impedendo di fare
qualsiasi critica del modello di sviluppo sociale. Astrazione e
sussunzione sono i procedimenti per mezzo dei quali i modelli
prodotti dalla base materiale, dalla prassi sociale continuano a
ordinare la realtà del presente: il nostro passato governa così il
presente e il futuro». In anni recenti, alcuni studiosi del diritto
civile hanno dedicato a questa stagione rinnovate riflessioni,
che ben potrebbero integrare la narrazione a questo punto.

9. – Negli anni di quell’avanzamento sociale, politico e giu-


ridico, si poté ambientare in modo incisivo anche un nuovo
modo di concepire l’amministrazione statale della giustizia e
il ruolo del giudice, che, nell’ambito della giurisdizione civile,
trovò uno dei veicoli principali di espressione nell’applicazio-
ne sempre più diffusa del procedimento cautelare ex art. 700
c.p.c. per soddisfare bisogni di tutela urgente. Uno dei mo-
menti salienti che segnarono la presa di coscienza del proprio
nuovo ruolo da parte dei giudici fu il XII congresso nazionale
dell’Associazione nazionale magistrati, che si tenne a Gardone
nel settembre del 1965. La mozione finale rifiutò la «conce-
zione che pretende di ridurre l’interpretazione a una attività
puramente formalistica indifferente al contenuto e all’inciden-
za concreta della norma nella vita del Paese» e affermò che
«il giudice, all’opposto, deve essere consapevole della portata
politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così
da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordi-
nazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle
finalità fondamentali volute dalla Costituzione».
INTERVENTI 235

Evidente è il riconoscimento che, nel nuovo quadro costi-


tuzionale, il ruolo del giudice richiedeva un’applicazione del
diritto teleologicamente orientata, intessuta di opzioni di va-
lore, maturate anche in considerazione delle evoluzioni della
costituzione materiale, nonché degli orientamenti di fondo
della società, e bilanciata dall’assoggettamento a un rigoroso
controllo che i suoi risultati siano persuasivamente argomen-
tabili sulla base del sistema giuridico.
A ridosso di quegli anni si svilupparono anche approcci
innovativi allo studio del diritto processuale e della giustizia
civile. L’accesso alla giustizia e l’effettività della tutela giuri-
sdizionale dei diritti poterono essere considerati come ulte-
riori tappe dello Stato sociale. In questo clima di apertura ad
innovazioni, alcuni studiosi del processo civile di tempera-
mento e formazione culturale assai diversi, nel breve volgere
di pochi anni l’uno dall’altro, avevano potuto intraprendere
svolte metodologiche di notevole portata e lanciare innovati-
vi progetti di ricerca che, se da un lato riflettevano in modo
paradigmatico tali differenze di temperamento, dall’altro
lato traevano alimento in modo identico da questa temperie
politico-sociale: l’abbandono da parte di V. Denti dell’impo-
stazione dogmatica in favore di un approccio comparatistico
e multidisciplinare e l’apertura verso la dimensione sociale
della giustizia; il progetto mondiale sull’accesso alla giustizia
di M. Cappelletti; il ripensamento integrale dei rapporti tra
diritto sostanziale e processo di A. Proto Pisani.
Rinviamo ad altra sede il parallelo tra il pensiero dei tre
autori (che pur andrà svolto), per ritornare in chiusura al
tema dei Conflitti economici e giurisdizione. In quegli anni, la
riforma del processo del lavoro del 1973, insieme alla teoria
della «tutela giurisdizionale differenziata» (A. Proto Pisani),
che ne argomentò il fondamento costituzionale sulla base del
principio di uguaglianza sostanziale, rientrano fra i risultati
che ebbero il maggior impatto teorico e pratico nella pras-
236 INTERVENTI

si giuridica riformatrice dell’epoca dello Stato sociale. Essi


sono da annoverare tra i frutti più incisivi della cultura d’in-
novazione in quel periodo. Di quest’ultima, la teoria della
tutela giurisdizionale differenziata riprendeva l’elemento di
fondo: fare leva sull’energia costruttiva della contraddizione,
come fonte di nuovi assetti razionali della realtà. Attaccava
un punto centrale sul quale si concentrava il consenso diffu-
so della linea nazional-popolare della dottrina di diritto pro-
cessuale civile: l’idea che un’unica forma di processo potesse
rispondere effettivamente ai variegati bisogni di tutela dei di-
ritti sostanziali. Dimostrava che l’idea non reggeva a una cri-
tica radicale. Infine ricostruiva un qualcosa di «architettante
e armonico», sulla base del capovolgimento del pilastro delle
forme giuridiche della modernità: il principio di uguaglianza
formale. Sosteneva la superiore razionalità della scelta del le-
gislatore che aveva introdotto nuove forme di processo, con-
cretizzando il principio rivoluzionario di cui all’art. 3, comma
2o della Costituzione. Nel ritornare a riflettere sul tema a di-
stanza di una quarantina di anni, A. Proto Pisani svolgerà un
profilo di autocritica per non aver evidenziato chiaramente
che, se la differenziazione dei procedimenti giurisdizionali di
tutela si profila rispetto al processo ordinario di cognizione,
l’espressione «tutela giurisdizionale differenziata», nella sua
genericità, era idonea a ricomprendere sia processi speciali a
cognizione piena, sia procedimenti sommari non cautelari:
due categorie che a loro volta dovevano essere tenute netta-
mente distinte. L’osservazione è ineccepibile, ma scaturisce
da un punto di vista interno alla dottrina del diritto proces-
suale civile e pertanto non intacca il valore della operazione
culturale, colto da un angolo di visuale esterno.
La riforma del processo del lavoro del 1973, insieme con
l’approvazione dello Statuto dei lavoratori nel 1970, si collo-
ca sullo stesso piano d’importanza delle riforme in altri set-
tori, politicamente sorrette dal cambiamento dei rapporti di
INTERVENTI 237

forza nella società che si verificò in Italia negli anni sessanta


e nei primi anni settanta. A livello istituzionale esse sono tra
i frutti migliori dello Stato democratico «pluriclasse», affer-
matosi sulla base della Costituzione del 1948: uno Stato nel
quale «tutte le classi sociali concorrono al governo politico, e
cercano di introdurre istituzioni a tutela dei propri interessi»
(M.S. Giannini). Su quello stesso piano, in forza dei valori
che la ispirarono e dell’impatto creativo che la contraddistin-
se, si colloca la teoria e la prassi della tutela giurisdizionale
differenziata.
La riforma del processo del lavoro differenziò la tutela
giurisdizionale, la riforma della scuola nel 1962 unificò la
scuola media, ma gli itinerari contrapposti (dall’uno al mol-
teplice; dal molteplice all’uno) erano riuniti entro le forme
giuridiche complesse dettate dal principio di uguaglianza
sostanziale.
In quell’epoca, ove l’Associazione italiana fra gli studiosi
del processo civile avesse deliberato di dedicare uno dei
propri convegni nazionali al tema dei Conflitti economici
e giurisdizione, esso non avrebbe potuto avere al centro
della propria attenzione altro oggetto che i conflitti tra ca-
pitale e lavoro, per come potevano tradursi in controver-
sie giuridiche. L’ambiente in cui si svolgeva la controver-
sia era frequentemente la fabbrica fordista, un luogo ove
la produzione di beni materiali destinate allo scambio sul
mercato non era solo fattore d’incremento della ricchezza
(in termini di profitti imprenditoriali e di salari operai), ma
anche occasione di crescita personale, di costruzione di le-
gami sociali, di irradiamento culturale, di elaborazione di
progetti politici. Si forniva così origine alla maturazione di
contrapposte intelligenze collettive, che trovavano modo di
dispiegarsi anche in specifiche forme giuridico-processuali
(cfr. art. 425 c.p.c.).
238 INTERVENTI

10. – A partire dalla fine degli anni settanta del secolo XX,
la disparità di distribuzione di potere nei processi produttivi
si è accentuata per diverse cause, tra le quali campeggia il
progressivo trionfo dell’ideologia neoliberale in connessio-
ne con le rapidissime evoluzioni tecnologiche. Tali sviluppi
convergono nel comprimere l’importanza (anche cognitiva)
del rapporto di lavoro subordinato in fabbrica, a vantaggio
di altre forme di lavoro, atomizzato e atomizzante, tanto da
far apparire una parentesi storica i trenta anni «gloriosi» suc-
cessivi alla seconda guerra mondiale.
A tratti, sembra che la diseguale distribuzione di potere
nei processi produttivi, parificata solo in modo formalistico
dall’impiego dello strumento del contratto, sia diventata in-
visibile, coperta dalla communis opinio neoliberale che si erge
ancora spavalda – a petto delle ricorrenti (e sempre più fre-
quenti) smentite – sul seguente postulato: se si rende più effi-
ciente il quadro istituzionale in cui si esercita la libertà d’im-
presa, calibrando la densità della regolazione sulle esigenze
di quest’ultima e invocando una disciplina giuridica docile
nell’assecondare la ricerca di profitto degli imprenditori e la
tendenza atomizzatrice e anarchizzante del mercato, si incede
verso un futuro radioso, cosicché alla fine si incrementa il be-
nessere di ciascuno dei membri della compagine sociale.
Insomma, si reputa che così si generi la mitica «crescente
marea che solleva tutte le barche», dagli yacht dei miliardari
ai pescherecci, secondo il proverbiale slogan che fu portato a
larga diffusione da Ronald Reagan, che tanto piacque anche
a Deng Xiaoping, che non è stato certo abbandonato da Xi
Jinping (nonostante lo spostamento di focus sulla «sicurez-
za» nella sua relazione introduttiva all’ultimo congresso del
partito comunista cinese, nell’autunno del 2022) e che – a
quanto mi consta – è stato fatto proprio tendenzialmente da
ogni relatore di questo Convegno, pur con sfumature diverse
dall’uno all’altro.
INTERVENTI 239

Nonostante ciò, i conflitti tra lavoratori e imprenditori,


indipendentemente dal fatto che si prestino ad essere com-
posti in via di autonomia collettiva nel circuito intersindacale
(o anche attraverso l’autonomia privata individuale), oppure
si traducano in controversie giudiziarie, offrirebbero tuttora
molti spunti per discorrere del ruolo della giurisdizione. Si
potrebbe discutere di un’attività professionale politicamente
orientata dell’avvocato, e così di un suo ruolo «istituente»,
come costruttore di azioni (giudiziarie e/o politiche), come
uno dei protagonisti della «lotta per il diritto» (R. v. Jhering).
Si potrebbe parlare di un ruolo attivo del giudice (per pro-
muoverlo alacremente o anche per negarlo fieramente). E via
discorrendo.
Tuttavia, le energie di studiosi ed operatori della giustizia
civile si sono rivolte piuttosto – in questi anni – alla riflessio-
ne sul ruolo promozionale e le iniziative ufficiose del giudice
in altri settori del contenzioso, in particolare in materia di
tutela dei consumatori, della concorrenza e del mercato, che
sono il terreno elettivo di indicazioni pressanti, quasi passio-
nali, in diverse forme, ad opera delle istituzioni politiche e
giudiziarie dell’Unione europea: da ultimo – proprio in que-
sti mesi – in materia di procedimenti sommari, giudicato e
tutela del consumatore.
Beninteso: ci mancherebbe altro che non ce ne occu-
passimo; i soldi sono una cosa importante in questo nostro
mondo. Tuttavia: la sicurezza nei luoghi di lavoro non è for-
se almeno così importante come la sicurezza nei luoghi del
mercato? Non è ancora l’Italia una Repubblica democratica
fondata sul lavoro, piuttosto che sul mercato?
Ciò che inquieta di più nel suddetto orientamento di
fondo mercato-centrico è la circostanza che esso si presenta
come un dato di natura, inevitabile ed ineludibile, anziché
come l’esito dello scontro di potenze attive sul piano storico
e geopolitico. Il «dato» penetra capillarmente, appiattendo,
240 INTERVENTI

riassorbendo e neutralizzando un universo di altri mondi


possibili. Alcuni tratti della ideologia pescano nel profon-
do non cristallino della condizione umana (homo duplex!).
Nuova è stata in questi decenni la forza di penetrazione nel-
la forma mentis e nei sentimenti, specialmente dei giovani
cresciuti sotto il suo primato, negli ambiti della vita, nelle
strutture sociali e nei saperi specialistici (nel sapere giuridico
in modo del tutto spiccato). Al massimo del suo fulgore – che
è ormai ampiamente alle nostre spalle, come la storia degli
ultimi quindici anni ci ha rivelato – tale impianto sollecitò
addirittura l’impressione che si fosse calati nel migliore dei
mondi possibili.
Accattivanti erano – e in massima parte ancora oggi sono
– le parole d’ordine nella loro semplicità. Stare meglio nel
presente, arricchendosi per quanto è possibile; se si è giuristi,
arricchirsi come professionisti al servizio di piccoli e grandi
attori del mercato, che è globale sia in senso geografico, che
in senso contenutistico (cioè della sua idoneità a trasformare
ogni ente in una merce). Infatti, il denaro è unità di misura
universale del valore: delle cose, così come degli esseri uma-
ni. Basta solo sprigionare le energie di un individuo tenden-
zialmente libero da vincoli di solidarietà sociale e da radica-
menti territoriali e nazionali. L’individuo è imprenditore di
se stesso, si giova della disintermediazione progressivamente
generata dalle nuove tecnologie dell’informazione e della
globalizzazione dei mercati.
Si esalta in modo parossistico una idea forza della moder-
nità, cioè l’immagine di un individuo orgoglioso della pro-
pria autonomia e libertà, alla quale si congiunge (almeno da
parte degli estremisti) la riesumazione di miti vetero-liberali,
come quello di un homo oeconomicus in grado di prendere
sempre decisioni razionali per il proprio benessere indivi-
duale e quindi di realizzare indirettamente anche il benessere
sociale e ambientale. Più in generale, il maggiore elemento di
INTERVENTI 241

forza è l’assunzione di paradigmi esplicativi brillantemente


semplificatori, in grado di intercettare fenomeni ed assetti
che hanno radici più o meno risalenti nell’epoca moderna, ri-
marcandone taluni tratti, mettendone in secondo piano altri
e assoggettandoli così a spiegazioni che mettono in ombra la
complessità e tortuosità dei fattori storici, nonché l’incertez-
za degli esiti. In questo modo, il modello esplicativo si colora
anche di un’accattivante tonalità normativa che si risolve in
un’espropriazione di ciò che è accaduto e in un’ipoteca su
ciò che accadrà, in cui entrambe le dimensioni del tempo si
ripiegano su un presente totalitario che, assunte le fattezze
di un Giano bifronte, dice al passato: «fosti così perché io lo
volli» e al futuro: «sarai così perché io lo voglio».

11. – Né certamente questa riflessione ha potuto rompere


l’attuale silenzio sul tema del conflitto fra capitale e lavoro e
sui riflessi sulla giustizia civile. Al massimo ha potuto farlo
risuonare, tale silenzio: non come operazione di «sedenta-
ria erudizione» o di laudatio temporis acti, bensì come ten-
tativo di «accendere nel passato la scintilla della speranza»
(W. Benjamin), facendo emergere da un tempo trascorso di
sconfitte qualcosa che abbia ancora senso per il presente e
il futuro; come modo di determinarsi entro un orizzonte di
possibilità di azione per il futuro.
In un passo memorabile de L’uomo senza qualità, Robert
Musil osserva: «Chi voglia varcare senza inconvenienti una
porta aperta deve tener presente il fatto che gli stipiti sono
duri: questa massima […] è semplicemente un postulato del
senso della realtà. Ma se il senso della realtà esiste, e nessuno
può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata,
allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso
della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui
è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma im-
magina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o talaltra
242 INTERVENTI

cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa:


be’, probabilmente potrebbe anche esser diversa. Cosicché
il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la
capacità di pensare tutto quello che potrebbe egualmente es-
sere, e di non dar maggiore importanza a quello che è, che a
quello che non è».
Mi piace pensare che il pensiero di Musil possa valere
come sollecitazione rivolta alle nuove leve di giovani studiosi
che – dopo la sospensione delle attività in presenza cagiona-
ta dalla pandemia – si sono foltamente riunite a Milano nel
2022 intorno ad una iniziativa dell’Associazione italiana fra
gli studiosi del processo civile.
I giovani hanno diritto di ricevere indicazioni di ricerca
che li avviino alla comprensione seria del mondo circostante
e li mettano in condizione di aderire consapevolmente agli
assetti dominanti, limitandosi a governare le contingenze
(come eccellenti tecnici nelle loro diverse specializzazioni),
ovvero di coltivare una speranza e una prassi di cambia-
mento politico, sottraendosi all’incantesimo sortito dall’idea
di vivere nell’unico – se non addirittura nel migliore – fra i
mondi possibili.

Intervento di MARCELLA NEGRI, associato dell’Università di Padova

Le relazioni di questa mattina hanno offerto moltissimi


spunti di riflessione sul tema dei rapporti tra versante am-
ministrativo e civile della tutela della concorrenza e del mer-
cato e segnatamente intorno al centrale profilo dell’efficacia
da riconoscersi alla decisione amministrativa in sede civile.
Nonostante i diversi approcci, mi pare di cogliere la comune
tendenza a sottolineare la singolarità, se non proprio l’ecce-
zionalità del vincolo sancito dall’art. 7.1 d.lgs., n. 3/2017,
almeno là dove questo vincolo viene fatto discendere (non

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