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Il Mulino - Rivisteweb

Alessandro Somma
Razzismo economico e società dei consumi
(doi: 10.1436/30760)

Materiali per una storia della cultura giuridica (ISSN 1120-9607)


Fascicolo 2, dicembre 2009

Ente di afferenza:
Università di Torino (unito)

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RAZZISMO ECONOMICO E SOCIETÀ DEI CONSUMI

di Alessandro Somma

1. L’ordoliberalismo come forma di biopotere

È noto che il liberalismo classico credeva nella capacità di auto-


regolamentazione del mercato, indotta dalla convinzione che il sin-
golo fosse manovrato dalla mitica mano invisibile a perseguire l’uti-
lità collettiva. È altresì noto che le caratteristiche assunte dal sistema
economico nella sua evoluzione tra l’ottocento e il novecento misero
in luce l’incapacità dell’ordine naturale di assicurare una dialettica
relativamente ordinata tra le forze del mercato. Giacché era oramai
diffusa la convinzione che ci si trovava di fronte a una svolta epo-
cale: le vicende belliche avevano definitivamente «abbattuto l’indivi-
dualismo», esattamente come la rivoluzione francese aveva «rovescia-
to il feudalesimo»1.
Questa svolta condusse allo sviluppo di una modello radicalmen-
te alternativo a quello liberale classico, la cui realizzazione ricevette
un notevole impulso con la Rivoluzione d’ottobre. I successi del mo-
dello socialista incentivarono a loro volta la ricerca di un terza tra
esso e il modello liberale classico, cui si dedicarono in particolare
alcuni studiosi raccolti nella cosiddetta Scuola di Friburgo. Quest’ul-
tima interessò il potere politico nazionalsocialista con l’idea di attri-
buire allo Stato il compito di attuare l’ordine economico naturale, e
ricondurre così a unità interessi generali e interessi particolari: idea
sviluppata in seno all’ordoliberalismo2 e ampiamente valorizzata nel-
la pianificazione dell’economia nazionalsocialista3.
Gli ordoliberali portarono a compimento un percorso teorico che
prendeva le mosse dall’esaltazione illuminista del nesso tra libertà e
proprietà, peraltro fin da subito mediato dalla ricerca di un ordine

1
N. Stolfi, La rivoluzione francese e la guerra mondiale, in «Rivista di diritto pubblico», 13,
1922, I, pp. 388 e 404 ss.
2
Citazioni in J. Sarbatty, Ordoliberalismus, in O. Issing, a cura di, Geschichte der National-
ökonomie, München, Beck, 20024, pp. 251 ss.
3
D. Haselbach, Autoritärer Liberalismus und soziale Marktwirtschaft, Baden-Baden, Nomos,
1991, part. pp. 94 ss.
MATERIALI PER UNA STORIA DELLA CULTURA GIURIDICA
a. XXXIX, n. 2, dicembre 2009 447
implicito cui conformare i comportamenti individuali attraverso la
disciplina dei rapporti tra capitale e lavoro4.
I richiami ordoliberali alla necessità di completare la rivoluzione
borghese furono espliciti e tutti volti a sostenere l’opportunità di
combinare l’individualismo, inizialmente indispensabile ad abbatte-
re il meccanismo feudale, con strumenti di indirizzo mediato delle
libertà economiche, ora essenziali a produrre «un impegno colletti-
vo ragionevole»5. In ciò sarebbe consistita la tanto attesa alternativa
tra un sistema in balia delle «regole della concorrenza» e un siste-
ma fondato sul «dirigismo statale», finalmente incentrata sull’utilizzo
della «concorrenza come strumento del dirigismo statale»6.
L’ordine cui allude l’ordoliberalismo deve molto alle elaborazio-
ni della fisiocrazia7, dottrina economica e sociale affermatasi in area
francese durante la seconda metà del diciottesimo secolo, con il noto
proposito di accreditare l’economia quale strumento di razionalità
politica, chiamata a rimpiazzare il diritto. Uno strumento che mirava
a ricavare la propria validità dall’effettivo conseguimento degli ob-
biettivi posti, ovvero non dal fondamento giuridico dei mezzi impie-
gati, e che pertanto poneva in essere processi avvertiti come naturali.
Il tutto combinato con l’idea che un sistema di potere informato ai
presupposti indicati doveva essere imposto da uno Stato assoluto,
chiamato a garantire la libertà, la proprietà e la sicurezza8.
Non è un caso se proprio la fisiocrazia viene annoverata tra le
prime manifestazioni di biopotere, considerata com’è una «nuova ra-
gion di stato» fondata sull’«idea di progresso economico illimitato»,
che trovava «nel mercato la sua veridizione fondamentale»9. Giacché
nel biopotere al diritto «di far morire o di lasciar vivere» si affian-
ca «il potere di far vivere o di respingere nella morte», prerogati-
va il primo di un potere che «era innanzitutto diritto di prendere»,
e il secondo di un potere «destinato a produrre delle forze, a far-
le crescere e ad ordinarle piuttosto che a bloccarle, a piegarle o a
distruggerle»10.

4
P. Costa, Civitas, Roma-Bari, Laterza, II, 2000.
5
F. Böhm, Die Ordnung der Wirtschaft als geschichtliche Aufgabe und rechtsschöpferische
Leistung, Stuttgart, Kohlhammer, 1937, p. 4.
6
F. Böhm, Der Wettbewerb als Instrument staatlicher Lenkung, in G. Schmölders, a cura
di, Der Wettbewerb, Berlin, Duncker & Humblot, 1942, pp. 51 ss.
7
Ad es. G. Blümle e N. Goldschmidt, Zur Normativität ordoliberalen Denkens, in B. Külp,
a cura di, Freiheit und wettbewerbliche Ordnung, Freiburg etc., Haufe, 2000, pp. 15 ss.
8
Per tutti F.P. Adorno, Naturalità del mercato e ragione governamentale tra mercantilismo e
fisiocrazia, in G. Borrelli, a cura di, Prudenza civile, bene comune, guerra giusta, Napoli, Archi-
vio della Ragion di Stato, 1999, part. pp. 191 ss.
9
M. Foucault, Nascita della biopolitica (1978-79), Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 56 s.
10
M. Foucault, La volontà di sapere (1976), Milano, Feltrinelli, 1988, pp. 120 ss.

448
Evidentemente la libertà di cui discorrevano i fisiocratici, in
quanto valore compatibile con il dispotismo, non aveva nulla a che
vedere con la libertà avuta in mente dal liberalismo politico. Così
gli ordoliberali, per superare il fatalismo e il relativismo di impronta
storicista e ripensare l’intero ordinamento sotto forma di «costituzio-
ne economica»11, svilupparono riflessioni attorno al tema della libera
iniziativa individuale per molti aspetti indifferenti alla connotazione
del potere politico in senso autoritario o totalitario12.
Di più, l’ordoliberalismo riteneva indispensabile che la politi-
ca assumesse un ruolo trainante dei processi economici. Esso mira-
va a conciliare il mercato con la presenza di uno Stato forte, chia-
mato a intervenire mediatamente, ma pur sempre per «dirigere» in
modo «ragionevole e pianificato» le «forze libere», al fine di incen-
tivare «il senso della collettività presso il popolo dedito alle attività
economiche»13:
Il principale requisito di ogni ordinamento economico degno di questo nome,
è che la dirigenza politica deve dominare l’economia nel suo complesso e in tutte
le sue parti. È necessario che la politica economica statale riesca a governare le vi-
cende economiche, spiritualmente e concretamente. Tuttavia ciò è possibile solo se
l’economia è ordinata in modo rigido e trasparente, e se questo ordine, che è ordi-
ne giuridico e politico, viene maneggiato dallo Stato in modo competente, se viene
spiritualmente compreso e vissuto dalla nazione, e se viene rispettato con dedizio-
ne e disciplina dai membri della comunità di popolo dediti alle attività economiche
(wirtschaftende Volksgenossen)14.

Sono così definite le linee di una politica economica non distante


da quella sponsorizzata dal fascismo italiano. Una politica fondata su
una concezione dell’interventismo statale incompatibile con i mecca-
nismi democratici15, ma perfettamente conciliabile con le costruzioni
ordoliberali chiamate a realizzare la mitica terza via tra liberalismo
classico e socialismo.
A tale costruzione si ispirò il sistema di potere mussoliniano, nel
momento in cui fece propri i propositi maturati in ambienti naziona-
listici: elaborare una «dottrina economica nazionale», capace di supe-
rare l’individualismo della dottrina classica, ma non anche di sottrar-
re agli «intraprenditori» e ai «capitalisti» il ruolo di forze propulsive

11
Il punto viene sviluppato in una sorta di manifesto dell’ordoliberalismo: F. Böhm, W.
Eucken e H. Grossmann-Doerth, Unsere Aufgabe, in F. Böhm, Die Ordnung der Wirtschaft,
cit., pp. vii ss.
12
V. specialmente D. Haselbach, Autoritärer Liberalismus, cit., part. pp. 113 ss.
13
F. Böhm, Die Ordnung der Wirtschaft, cit., pp. 8 s.
14
Ivi, p. 10.
15
Ad es. U. Runge, Antinomien des Freiheitsbegriffs im Recht des Ordoliberalismus, Tübin-
gen, Mohr, 1971, part. pp. 113 ss.

449
del sistema produttivo16. Giacché «l’economia corporativa rispetta il
principio della proprietà privata» e «rispetta l’iniziativa individuale»,
e «soltanto quando l’economia individuale è deficiente, inesistente o
insufficiente, allora interviene lo Stato»17: né più né meno di quanto
affermato dai padri fondatori dell’ordoliberalismo, inteso come com-
pletamento della rivoluzione borghese.
Il capitalismo va dunque riformato e non certo abbattuto. Esso
deve essere conformato da politiche volte a presidiare il meccanismo
concorrenziale, sul lato della domanda come sul lato dell’offerta di
beni e servizi18. E deve svolgere nel merito una funzione comple-
mentare rispetto alle politiche che mirano all’incremento quantitativo
e qualitativo della razza:
Comincia adesso la vera storia del capitalismo, perché il capitalismo non è solo
un sistema di oppressione, ma è anche una selezione di valori, una coordinazione di
gerarchie, un senso più ampiamente sviluppato della responsabilità individuale19.

La vicinanza tra ordoliberalismo e fascismo va dunque oltre la


comune avversione, nel primo caso almeno indifferenza, nei con-
fronti del liberalismo politico. Trova riscontro anche in riflessioni sul
meccanismo della concorrenza combinate con massime razziste, giac-
ché il primo viene considerato «una forma di selezione attraverso la
lotta», capace di «contrastare la tendenza dei singoli entro la società
di massa a evitare il conflitto»20.
In altre parole il fascismo vide nella riforma del liberalismo eco-
nomico uno strumento chiamato a valorizzare il mercato nella sua
essenza di meccanismo selettivo. È dunque corretto rilevare che
il fascismo ha portato a considerare gli individui «nella loro nuda
espressione biologica di forze produttive a servizio della nazione»21.
In tal senso si è osservato che la razionalizzazione economica fasci-
sta fu intimamente razzista, ovvero che il razzismo rappresentò una
forma espressiva del nuovo ordine economico, e non semplicemente

16
A. Rocco, Il congresso nazionalista di Roma (1919), in Id., Scritti e discorsi politici, Mila-
no, Giuffrè, II, 1938, p. 482.
17
B. Mussolini, Sulla legge delle corporazioni (1934), in Id., Sulla legge delle corporazioni,
Firenze, 1936, pp. 33 s.
18
Per tutti G. Masci, Economia finanziaria ed economia corporativa, in «Archivio giuridico
F. Serafini», 40, 1937, p. 105.
19
B. Mussolini, Il primo discorso alla Camera, in Id., Scritti e discorsi, Milano, Hoepli, 1925,
p. 182.
20
J. Jessen, Wettbewerb als grundsätzliche historisch-politische Frage, in G. Schmölders, a
cura di, Der Wettbewerb, cit., p. 9.
21
C. Mantovani, Rigenerare la società, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004, p. 265.

450
una condizione favorevole al perseguimento di interessi espansioni-
stici22.
Il che equivale a dire che «una politica sulla popolazione non fu
concepita come fine a se stessa, bensì come strumento di raziona-
lizzazione dell’economia, in quanto tale naturalmente combinato con
le teorie economiche all’epoca sponsorizzate»23. Tanto da far ritene-
re ad alcuni studiosi che il razzismo rappresentò il nucleo centrale
dell’ideologia fascista24.

2. Le libertà economiche funzionalizzate e l’eugenetica economica

L’intima connessione tra fascismo e razzismo risulta in modo evi-


dente se riferita al colonialismo, che ben può essere visto come una
forma di intervento statale volto a realizzare le condizione per lo svi-
luppo di un mercato interno concorrenziale. Il colonialismo ha in-
fatti tipicamente consentito o agevolato l’approvvigionamento di ma-
terie prime e l’incremento della domanda di beni e servizi25, finalità
che il fascismo contribuì non poco a naturalizzare e con ciò a legitti-
mare26. Soprattutto il colonialismo rese possibile ipotizzare quanto fu
posto alla base del pensiero fisiocratico e dei suoi sviluppi: l’idea di
un arricchimento illimitato dell’area europea, necessariamente fonda-
to sull’impoverimento delle aree extraeuropee27.
Peraltro la valenza razzista della riforma fascista dell’economia
concerneva il modo di concepire l’esercizio delle libertà economiche
nel loro complesso. È nel merito esemplare il dibattito sorto nella
letteratura fascista e nazionalsocialista attorno al diritto soggettivo,
concetto giuridico che nella cultura liberale classica preludeva alla
capacità dell’individuo di plasmare la realtà esercitando le sue libertà
economiche.

22
W. Röhr, Faschismus und Rassismus, in Id., a cura di, Faschismus und Rassismus, Berlin,
Akad.-Verl., 1992, pp. 58 ss.
23
Per tutti G. Aly e S. Heim, Vordenker der Vernichtung, Hamburg, Hoffmann u. Campe,
1991, pp. 481 ss. con riferimento al «sovrapopolamento», da affrontare con politiche eugeneti-
che «quantitative», da affiancare a quelle «qualitative».
24
Cfr. W. Wippermann, Fascismo e antifascismo nel dibattito in Germania, in E. Collotti,
a cura di, Fascismo e antifascismo, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 77 e Id., Faschismustheorien,
Darmstadt, Wiss. Buchges., 19977, p. 111.
25
Per tutti D.K. Fieldhouse, Politica ed economia del capitalismo (1980), Roma-Bari, La-
terza, 1996, pp. 123 ss. e L. Vasapollo et al., Introduzione alla storia e logica dell’imperialismo,
Milano, Jaca book, 2005, pp. 29 ss.
26
Ad es. A. Aruffo, Storia del colonialismo italiano (2003), Roma, Datanews, 2007, pp. 124 ss.
27
Al proposito M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., p. 57.

451
A ben vedere le libertà economiche non sono mai state percepite
in termini di libertà assolute. Esse nascono, non diversamente dalle li-
bertà civili28, come libertà funzionalizzabili, tanto che persino all’epo-
ca della mano invisibile si esaltava l’interesse personale in chiave uti-
litaristica, lo si promuoveva cioè solo se conduceva a un «vantaggio
per la società»: ovvero a incrementare la «ricchezza delle nazioni»29.
In tal senso la letteratura fascista poté ricorrere alla tradizionale
definizione di diritto soggettivo, che non a caso contiene un riferi-
mento all’ordinamento statuale come possibile fonte del potere del-
la volontà dei privati30. A conferma di come fosse illusorio ritenere
che, soprattutto in tema di libertà economiche, si potesse «traspor-
tare dal piano filosofico giusnaturalistico al piano giuridico positivo
l’idea dell’individuo soggetto di diritto con tutti i suoi attributi e
i suoi predicati», e «costruire sulla sua potestà di volere il sistema
giuridico»31.
Era in effetti sufficiente sviluppare il profilo delle finalità per cui
il potere della volontà poteva e doveva essere riconosciuto dall’ordi-
namento32. Bastava cioè ribadire che il diritto soggettivo presuppone-
va un riconoscimento dello Stato, che doveva ora avvenire sulla base
di considerazioni diverse rispetto a quelle funzionali ad alimentare il
sistema economico delineato dalle teorie classiche sul libero mercato.
Più precisamente si disse che il diritto soggettivo «è la facoltà di
agire conformemente alla legge», unita alla precisazione che esso è
«sempre il correlato del dovere»33. Seguì la descrizione dei contorni
di tale dovere, determinati in relazione all’«interesse pubblico»34 o
«nazionale»35, coincidente con «le necessità del sistema produttivo di
cui l’individuo è chiamato a farsi carico»36.

28
Per tutti M. Fioravanti, Appunti di storia delle costituzioni moderne, Torino, Giappichelli,
19952, pp. 99 ss.
29
Come indica il titolo della celeberrima opera di Adam Smith, Recherches sur la nature et
la cause de la richesse des nations (1776), Paris, I-II, 1800.
30
Per tutti B. Windscheid e T. Kipp, Lehrbuch des Pandektenrechts, Frankfurt M., Rütten
u. Loening, 19008, I, p. 131 afferma che il diritto soggettivo «è un potere o una signoria della
volontà accordati dall’ordinamento giuridico». Al proposito P.G. Monateri, Pensare il diritto
civile, Torino, Giappichelli, 1997, pp. 165 ss.
31
R. Orestano, Diritti soggettivi e diritti senza soggetto, in «Jus», 20, 1960, p. 159.
32
Al proposito per tutti L. Raiser, Il diritto soggettivo nella dottrina civilistica tedesca
(1961), in Id., Il compito del diritto privato, Milano, Giuffrè, 1990, pp. 107 ss.
33
S. Panunzio, Principî generali del diritto fascista, in Facoltà di giurisprudenza e Scuola
di perfezionamento nelle discipline corporative della R. Università di Pisa, a cura di, Studi sui
principî generali dell’ordinamento giuridico, Pisa, Arti grafiche Pacini Mariotti, 1943, pp. 28 s.
34
A. Colucci, La concezione fascista della proprietà privata e la riforma del codice civile,
Roma, Ed. del diritto del lavoro, 1939.
35
A. Sermonti, I principi dello stato fascista nel sistema del diritto pubblico generale, in «Ri-
vista di diritto pubblico», 30, 1939, I, pp. 396 ss.
36
A. Asquini, Unificazione del diritto delle obbligazioni, in «Lo Stato», 8, 1938, p. 413.

452
Altrimenti detto, il fascismo italiano e il fascismo tedesco37 non
misero in discussione l’esistenza del diritto soggettivo, bensì attribui-
rono allo Stato, visto come «cointeressato» o «potenzialmente titola-
re dello stesso diritto»38, il compito di ridurlo a «funzione»39:
La base della regolamentazione è sempre l’individuo e il suo diritto subiettivo;
la trasformazione agisce, e radicalmente, sull’estensione e sulla fisionomia dell’inte-
resse tutelato, in quanto tale interesse dalla concezione edonistica si eleva alla con-
cezione corporativa e solo così considerato è esso riconosciuto e tutelato giuridica-
mente. (Così) il principio corporativo e quindi la disciplina corporativa si identifica
nella protezione giuridica concessa all’interesse dell’individuo, quando tale interesse,
attraverso un processo organizzativo, è in grado di enuclearsi non solo come inte-
resse di categoria, ma conciliato con gli interessi delle categorie contrapposte e con
l’interesse superiore della nazione40.

Lo Stato totalitario, portando a compimento propositi impliciti


nelle teorie dell’ordine economico spontaneo, è dunque «dominato
da una considerazione teleologica delle funzioni»41, che prescindono
dalle tensioni dei singoli individui e delle singole generazioni di indi-
vidui. In tal senso è un organismo entro cui individui e generazioni
si sciolgono, un organismo il cui equilibrio e sviluppo devono esse-
re assicurati attraverso interventi in ultima analisi eugenetici: volti a
preservare il sistema oltre le contingenti coordinate di spazio e di
tempo, quindi secondo le forme di disciplinamento individuate dal
biopotere fascista.
Si tratta di interventi che incidono sul piano delle condizioni po-
litiche e su quello delle condizioni economiche di esistenza dell’or-
ganismo statuale: la nazione italiana sciolta nello Stato «è una uni-
tà morale, politica ed economica»42. Interventi che evidentemente
conformano i comportamenti degli individui con misure che, se non
concernono direttamente la loro ritenuta identità razziale, contribui-
scono comunque a determinarla, se non altro in quanto, individuan-
do i comportamenti funzionali o meno all’equilibrio e allo sviluppo

37
Ad es. G. Dahm, Deutsches Recht, Hamburg, Hanseat. Verl.-Anst., 1944, p. 353.
38
U. Fragola, Limiti di diritto pubblico all’attività contrattuale, in «Rivista di diritto pubbli-
co», 28, 1937, I, p. 378.
39
F. Vassalli, Motivi e caratteri della codificazione civile, in «Rivista italiana per le scienze
giuridiche», 61, 1947, p. 93 (il lavoro si fonda su una relazione pronunciata dall’autore nel
1942).
40
A. Colucci, La concezione fascista, cit., pp. 215 s. e 220.
41
C. Costamagna e L. Piccardi, Il giudice e la legge, in Arbeitsgemeinschaft für die
Deutsch-Italienische Rechtsbeziehungen, Zweite Arbeitstagung in Wien, in Bundesarchiv R
61/427, f. 41.
42
Dich. I Carta del lavoro.

453
del sistema, influiscono sui termini dell’appartenenza all’organismo
statuale.
Gli interventi sulle condizioni politiche furono i più evidenti, in
quanto mirarono al graduale superamento delle strutture dello Sta-
to liberale, inizialmente piegate alle esigenze dello Stato totalitario e
poi riformate al fine di corrispondere in modo esplicito al nuovo
credo: si pensi alla trasformazione della rappresentanza politica ge-
nerale a rappresentanza di interessi43. Questo tipo di interventi fu-
rono affiancati a quelli volti a fronteggiare il fallimento della mano
invisibile, e più precisamente di una sua particolare applicazione:
quella ricavata dalla credenza secondo cui «esiste nel popolo un sen-
so misterioso, ma potentissimo, per cui le moltitudini hanno l’intui-
zione giusta, comunque il più delle volte incosciente, dei bisogni
supremi dello Stato»44. Fu questa la credenza alimentata dalla co-
siddetta scuola giuridica del diritto pubblico, accusata di aver pri-
ma prodotto una esagerazione del metodo45, e poi pervertito il di-
ritto costituzionale in senso democratico46. Motivo per cui la scuola
fu combattuta sulla base delle teorie elaborate in senso all’organici-
smo tedesco e riprese in particolare dalla letteratura nazionalista47.
Ma vi furono anche interventi volti a favorire le condizioni eco-
nomiche di esistenza dell’organismo statuale, relativi a misure che
potremmo chiamare di eugenetica economica, in quanto volte a
espandere e purificare il mercato nel senso appena descritto. E per
entrambi i tipi di intervento, quello concernente le condizioni poli-
tiche e quello relativo alle condizioni economiche, sembra possa va-
lere il rilievo che «le leggi sulla difesa della razza» sono un «mezzo
di profilassi e di protezione sociale, tendono decisamente alla poten-
ziazione fisica della stirpe italica», e con ciò a «un sicuro e costante
benessere della nazione»48.

43
Cfr. soprattutto la L. 19 gennaio 1939 n. 129, che sopprime la Camera dei deputati e
istituisce in sua vece la Camera dei fasci e delle corporazioni, formata dal Capo del governo,
dai membri del Gran consiglio del fascismo, del Consiglio nazionale del Partito nazionale fa-
scista e del Consiglio nazionale delle corporazioni.
44
Così Vittorio Emanuele Orlando, cit. da A. Sermonti, I principi dello Stato fascista, cit.,
p. 366. Quest’ultimo mette a raffronto simili affermazioni con la teoria smithiana della mano
invisibile, e conclude: «pare evidente l’interdipendenza delle due formule, che denunciano la
derivazione da un ceppo ideologico comune».
45
E. Crosa, Il principio della sovranità dello Stato nel diritto italiano, in «Archivio giuridico
F. Serafini», 36, 1933, p. 146.
46
P. Chimenti, Diritto, Stato, sovranità nella dottrina costituzionale italiana, in «Archivio
giuridico F. Serafini», 30, 1927, pp. 157 ss.
47
Sul contrasto tra la scuola giuridica del diritto pubblico e la letteratura tedesca, v. per tut-
ti P. Ungari, Alfredo Rocco e l’ideologia giuridica del fascismo, Brescia, Morcelliana, 1963, p. 66.
48
A. Brunetti, La riforma del diritto matrimoniale in Germania, in «Giurisprudenza italia-
na», 22, 1939, IV, cc. 129 ss.

454
Così occorre intendere, tra le misure di eugenetica economica, la
nascita dello Stato sociale, tipica espressione del biopotere disposto
ad assistere, ma non anche a riconoscere posizioni azionabili.
Notoriamente lo Stato sociale ha preso forma in contesti non
caratterizzati dalla diffusione del meccanismo democratico, entro
cui esso fu concepito come «strumento di risoluzione delle crisi
sociali»49. A dimostrazione che nelle società fondate sui mercati con-
correnziali «la politica sociale non ha la funzione di essere una sorta
di meccanismo compensatorio, destinato ad assorbire o annullare gli
effetti distruttori che la libertà economica potrebbe avere sulla socie-
tà». Giacché, se «c’è un interventismo sociale permanente e multi-
forme, esso non viene messo in atto contro l’economia di mercato o
in alternativa ad essa, ma al contrario a titolo di condizione di possi-
bilità storica e sociale per un’economia di mercato»50.
In tal senso occorre anche valutare i richiami fascisti alla «giu-
stizia sociale», che «assolve il suo compito distributivo con riguardo
agli interessi della collettività»51, appalesandosi come per incanto nel
momento in cui «non si lasciano libere le forze della natura, né pe-
raltro si negano utopisticamente, ma si utilizzano, si piegano e si di-
rigono con l’intelligenza verso un fine preordinato, verso uno scopo
supremo di giustizia e di potenza»52.
Si badi che uno schema simile ha palesemente caratterizzato an-
che le esperienze democratiche, in particolare la Svezia53 e soprat-
tutto quegli Stati Uniti che furono la patria dell’eugenetica, rispetto
alla quale l’esperienza nazionalsocialista non rappresenta certo una
deviazione o una patologia54. Anche in questi contesti la cura per la
salute della popolazione fu strumento di «miglioramento della specie
con una valenza immediatamente politica e immediatamente utilizza-
bile sul terreno della selezione e del potenziamento della razza»55.
Fu infatti la Corte suprema statunitense ad affermare, nel corso
degli anni trenta del novecento, che lo sfruttamento dei lavoratori
subordinati «non costituisce solo un danno alla loro salute e al loro
benessere», giacché determina «un onere diretto per il loro sostenta-
mento in capo alla comunità», che le impone di «legiferare per cor-

49
G.A. Ritter, Storia dello Stato sociale (1991), Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 100 ss.
50
M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., pp. 133 s.
51
G. Bottai, Giustizia sociale corporativa, in «Critica fascista», 11, 1934, pp. 382 s.
52
D. Carbone, Intorno ai presupposti generali dell’economia fascista, in «Lo Stato», 8, 1938,
p. 466.
53
Da ultimo L. Dotti, L’utopia eugenetica del welfare state svedese, Soveria Mannelli, Rub-
bettino, 2004, part. p. 45 ss.
54
C. Fuschetto, Fabbricare l’uomo, Roma, Armando, 2004, pp. 126 ss.
55
E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei (2003), Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 24.

455
reggere gli abusi originati dal loro egoistico disprezzo per l’interesse
pubblico»56. E fu la stessa Corte suprema che un paio di decenni
prima aveva accettato il divieto di lavoro notturno per le donne, ma
solo perché in tal modo esse assolvevano meglio al loro dovere ri-
produttivo: quindi non per tutelare «solo la loro salute», bensì per
promuovere «il benessere della razza»57.

3. Il razzismo postmoderno e il ridimensionamento del liberalismo po-


litico

Il binomio modernità e razzismo è un fatto assodato58. È in que-


sta epoca che il protorazzismo diviene razzismo scientifico, ovvero
che si cessa di ritenere l’ambiente responsabile delle differenze raz-
ziali e si sviluppa la credenza secondo cui i caratteri biologici o so-
matici degli appartenenti ai diversi gruppi umani corrispondono a
tratti psicologici e intellettuali innati59.
Assodata è anche l’intima connessione tra il binomio modernità
e razzismo e l’ulteriore binomio libertà e proprietà. Entrambi i bi-
nomi risultano dalla combinazione di due opposte tensioni, l’una e
l’altra relative all’individuazione dell’homo oeconomicus come tipo
umano di riferimento per le costruzioni moderne. Una tensione è
data dall’esaltazione della libertà individuale nella sola misura in cui
il suo esercizio produce ricchezza, e alimenta così l’assetto proprieta-
rio. L’altra tensione si deve alla riconduzione dei comportamenti li-
beri a un ordine implicito, volto a conformarli in funzione dell’equi-
librio e dello sviluppo del sistema dato.
Da ciò una tensione tra individualismo e organicismo, che si
drammatizzò nel momento in cui ci si avvide che la mano invisibile
non consentiva di alimentare l’ordine, che era pertanto indispensabi-
le assicurare attraverso l’intervento di uno Stato forte. Sono questi i
termini della riforma fascista del liberalismo economico, inevitabil-
mente accompagnata dall’affossamento del liberalismo politico, fonte
di una complessa articolazione delle tecniche di razzizzazione, inclu-
se quelle volte al disciplinamento dell’homo oeconomicus. Quest’ulti-
mo restava infatti un punto di riferimento per la costruzione dell’or-
dine, da presidiare tuttavia attraverso strumenti di annientamento so-

56
West Coast Hotel v. Parrish, 300 U.S. 379 (1937).
57
Muller v. State of Oregon, 208 U.S. 412 (1908). �����������������������������������������
In termini generali soprattutto R. Maioc-
chi, Scienza italiana e razzismo fascista, Firenze, La Nuova Italia, 1999, p. 65.
58
Per tutti G.L. Mosse, Il razzismo in Europa (1978), Roma-Bari, Laterza, 2007.
59
M. Wieviorka, Il razzismo (1998), Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 7 e 11.

456
ciale oltre che di annientamento fisico, quindi ricorrendo all’attività
tipica del biopotere oltre che del tradizionale potere sovrano.
Oggi sappiamo che non vi sono apprezzabili differenze genetiche
tra i gruppi umani un tempo descritti in termini di razze: la razza è
concetto privo di fondamenti biologici60. Anche in questo l’epoca at-
tuale si mostra come una reazione alla modernità, è cioè descrivibile
in termini di postmodernità. È tuttavia un’epoca nella quale mutano
le tecniche di disciplinamento cui ricorre il biopotere. Non sembra-
no invece mutare i termini del compromesso di matrice fascista tra
tensioni individualiste e tensioni organiciste.
Quello di postmodernità è indubbiamente un concetto estrema-
mente vago, e tuttavia allude alla riscoperta della diversità come va-
lore da difendere contro la pratiche di omologazione61, e del conflit-
to come strumento idoneo a farla emergere oltre la rappresentazione
della società come insieme funzionale62. Secondo questo approccio
sono stati ripensati i vari ambiti delle scienze sociali, e formulate
narrazioni rispettose del punto di vista di chi era stato finora porta-
tore di una diversità escludente63.
Eppure il razzismo sopravvive, se non altro come pratica istitu-
zionale, volta ad alimentare logiche gerarchiche, e soprattutto come
pratica culturale ed economica, finalizzata a imporre logiche di diffe-
renziazione: le prime più consone a un sistema economico incentra-
to sullo sfruttamento coloniale, le seconde più idonee a disciplinare
l’importazione di forza lavoro. Si assiste cioè al passaggio dall’infe-
riorità biologica all’inferiorità culturale ed economica come criterio
di disciplinamento sociale attraverso il razzismo64. Del resto, se la
modernità produce razzismo e questo si fonda sulla paura del diver-
so, quella postmoderna è una condizione caratterizzata dalla «ubi-
quità delle paure»65.
Molte di queste paure sono legate a trasformazioni planetarie, che
in quanto tali contribuiscono a rendere lo Stato inadatto a produrre
sicurezze. Rispetto a queste paure il circuito della politica ha inoltre
mostrato di voler abdicare a favore di una acritica assunzione e ri-
produzione del metro economico, fonte di interminabili riforme del

60
Ad es. G. Barbujani, L’invenzione delle razze, Milano, Bompiani, 2006.
61
Ai riflessi sul metodo comparativo si è dedicato E. Jayme, Osservazioni per una teoria
postmoderna della comparazione, in «Rivista di diritto civile», 42, 1997, I, pp. 813 ss.
62
In tal senso già J-F. Lyotard, La condizione postmoderna (1979), Milano, Feltrinelli, 1985.
63
Cfr. in particolare i teorici della differenza razziale, su cui ad es. G. Minda, Teorie post-
moderne del diritto (1995), Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 277 ss. e K. Thomas, Legge, razza e
diritti, in «Filosofia politica», 16, 2003, part. pp. 457 ss.
64
Per tutti M. Wieviorka, Il razzismo, cit., p. 20.
65
Z. Bauman, Paura liquida (2006), Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 7.

457
liberalismo economico e strumento volto a naturalizzare la versione
attuale del meccanismo ordoliberale e dei suoi corollari.
Tutto ciò determina la tendenza dello Stato a «spostare l’accen-
to della protezione della paura dai pericoli per la sicurezza sociale a
quelli per l’incolumità personale»66. Da qui il riproporsi di uno sche-
ma per molti aspetti simile a quello da cui hanno tratto fondamento
i fascismi della recente storia europea: il forte ridimensionamento,
se non l’affossamento, del liberalismo politico, a fronte di una inter-
minabile riforma del liberalismo economico. Il tutto combinato con
pratiche razziste e razzizzanti che, se non si presentano nei medesi-
mi panni indossati durante il ventennio, non per questo preludono
a scenari differenti, magari occultati da pratiche discorsive percepite
dai più come innocue67.
Il ridimensionamento del liberalismo politico è sotto gli occhi di
tutti, oggetto delle più disparate analisi e ricostruzioni. Non occor-
re convincere nessuno circa il fatto che ci troviamo in un’epoca di
involuzione del diritto internazionale, sostenuta fra l’altro dal mito
della guerra al terrorismo e dello scontro di civiltà68, a loro volta ali-
mentati da una sorta di imperialismo dei diritti umani69. Un’epoca
in cui si torna al potere politico nazionale, diviso tra la paura per la
crescita incontrollata della popolazione70 e la paura del declino de-
mografico71. Quest’ultima recentemente interpretata dai vertici vati-
cani, con l’allarmata constatazione che il numero dei musulmani ha
per la prima volta superato quello dei cattolici:
I cattolici nel mondo aumentano perché aumenta la popolazione del mondo. Di-
ciamo che nel rapporto tra aumento popolazione e aumento cattolici siamo stabili.
Però, per la prima volta nella storia, non siamo più ai vertici: i musulmani ci hanno
superato (…). I dati provenienti dal mondo islamico si basano su cifre che tengono
conto soprattutto della crescita delle popolazioni musulmane. È anche vero, però,
che mentre le famiglie islamiche, come è noto, continuano a procreare molti figli,
quelle cristiane invece tendono ad averne sempre di meno72.

66
Ibidem.
67
Su cui ad es. la panoramica di G. Faso, Lessico del razzismo democratico, Roma, Derive-
Approdi, 2008.
68
A questi aspetti è dedicato un recente lavoro di Amartya Sen, Identità e violenza, Roma-
Bari, Laterza, 2006.
69
Ad es. A. Gambino, L’imperialismo dei diritti umani, Roma, Editori Riuniti, 2001, part. pp. 96 ss.
70
Per tutti L. Allegra, La dinamica demografica, in P.A. Toninelli, a cura di, Lo sviluppo
economico moderno (1997), Venezia, Marsilio, 2002, pp. 103 ss.
71
Su cui ad es. D. Padovan, Voce Popolazione, in R. Brandimarte et al., a cura di, Lessico
di biopolitica, Roma, Manifestolibri, 2006, pp. 223 s. In precedenza M.S. Teitelbaum e J.M.
Winter, La paura del declino demografico (1985), Bologna, Il Mulino, 1987.
72
Così Monsignor Vittorio Formenti, che si occupa della redazione dell’Annuario, in una
intervista rilasciata all’«Osservatore romano», intitolata Il libro rosso della Chiesa e pubblicata
il 30 marzo 2008.

458
E ciò pone sotto una luce diversa e tristemente conosciuta le nuo-
ve crociate contro l’aborto e la contraccezione da un lato e contro
l’eutanasia dall’altro. Le fa apparire come la componente essenziale
di una biopolitica demografica ed eugenetica, piuttosto che come il
tratto caratterizzante di una dottrina che si pretende incentrata su
valori alti.
È da questo clima che trae fondamento la ridefinizione della lega-
lità culturalmente orientata73 e in particolare l’idea di un diritto pe-
nale del nemico, contrapposta a un diritto penale del cittadino, ela-
borato entro lo spazio teorico dello Stato di eccezione74:
Al delinquente normale vanno riservati tutti i diritti del cittadino, consenten-
dogli la reintegrazione nel patto sociale: egli, infatti, rimane un valido destinatario
della norma, perché la contraddice e non la nega radicalmente […]. Al delinquente
per convinzione, invece, che si collochi al di fuori dell’ordine sociale perché intende
minacciarlo costantemente, diventando per principio un avversario dell’ordinamento
giuridico, non si può applicare un diritto dialogico: egli va trattato come un sogget-
to pericoloso, e quindi la pena non contraddice la violazione di una norma da parte
di un soggetto che riconosce l’ordinamento, ma svolge il mero compito di elimina-
zione di un pericolo75.

È in questo clima che si assiste all’elevazione delle politiche se-


curitarie come principale se non unica risposta ai problemi posti
dalla rivendicazione della differenza culturale ed economica. Il tutto
a conferma della tendenza del biopotere a rimpiazzare il tema della
sicurezza intesa come protezione sociale, con quello della sicurezza
intesa come tutela dell’incolumità personale, fonte la prima di inter-
venti abilitanti e la seconda di misure repressive76. Misure commesse
a una rilettura dei principi del liberalismo politico che vanta un ri-
spetto formale della tradizione, ma che, come in epoca fascista, ha
già determinato un loro deciso e sostanziale stravolgimento.
Sullo sfondo di tutto ciò occorre collocare anche le misure adot-
tate per procedere all’interminabile riforma del liberalismo economi-
co, fonte inesauribile di visioni funzionaliste della convivenza sociale,
e pertanto delle costruzioni direttamente e indirettamente razzizzanti
tipiche del fascismo.

73
A. Bernardi et al., La legalità penale, in Id., Legalità penale e crisi del diritto oggi, Mila-
no, Giuffrè, 2008, p. 6.
74
Nel senso definito da Carl Schmitt e ripreso da G. Agamben, Stato di eccezione, Torino,
Bollati Boringhieri, 2003.
75
Così criticamente M. Donini, Il diritto penale di fronte al nemico, in «Cassazione pena-
le», 24, 2006, pp. 752 s.
76
Citazioni A. Petrillo, Voce Sicurezza, in R. Brandimarte et al., a cura di, Lessico di biopo-
litica, cit., pp. 289 ss.

459
4. L’interminabile riforma del liberalismo economico: l’economia socia-
le di mercato

Le sembianze che attualmente assume l’eugenetica economica


sono in parte palesi e in parte occulte. Tutte però chiamano in causa
lo Stato come efficiente riproduttore di modelli di convivenza socia-
le, da presidiare attraverso una conformazione e funzionalizzazione
dei comportamenti individuali, la cui elaborazione è sottratta al va-
glio di meccanismi democratici.
È palese il ricorso al conflitto armato come strumento attraverso
cui lo Stato assicura ai propri operatori economici l’approvvigiona-
mento di materie prime, l’espansione dei mercati, e persino l’accesso
semplificato a quella «razza dei semischiavi di cui la società in nes-
sun modo può fare a meno»77. Così come è palese l’impegno dello
Stato diretto alla socializzazione delle perdite, a fronte di una pri-
vatizzazione dei profitti: impegno necessario, seppure sempre meno
sufficiente, a fronteggiare l’esito disastroso del processo di finanzia-
rizzazione dell’economia78.
La crisi economica internazionale ha determinato due tendenze
contrastanti: per un verso la rinascita di forme esplicite di naziona-
lismo economico e per un altro la richiesta di consolidare ulterior-
mente i modelli ordoliberali a livello planetario. Peraltro anche nella
seconda ipotesi non si determinerà certo la fine del libero mercato,
come pure si usa dire, bensì la reazione alle mutate esigenze del
mercato, o meglio del suo sviluppo come sistema e come insieme
funzionale: il medesimo insieme cui si è costantemente fatto riferi-
mento nell’affermare il binomio libertà e proprietà.
Sono ora necessari interventi conformativi che si traducono in
pratiche non meno invasive di quelle conosciute negli ultimi decen-
ni79. Non è del resto nuova l’idea di socializzare le perdite e non è
nuovo il ricorso alla forza militare per alimentare il mercato. È forse
nuova l’entità dei fondi necessari a tal fine, anche perché è tornata
a crescere in modo vertiginoso la spesa bellica, e quindi la necessità
di ridimensionare lo Stato sociale. Il che impone di individuare al-
tri strumenti di pacificazione e disciplinamento, magari incentrati su
politiche securitarie, che è facile legittimare come reazione inevitabi-

77
D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 114.
78
Da ultimo per tutti M. Deaglio, L’erosione del sistema finanziario mondiale, in M. Deaglio
et al., La resa dei conti, Milano, Guerini e Associati, 2008, pp. 17 ss. e P.G. Monateri, Verso
un capitalismo non liberale, ivi, pp. 143 ss.
79
Caratterizzati da un formale ritiro dello Stato dall’economia: ad es. J.E. Stiglitz, I ruggen-
ti anni novanta (2003), Torino, Einaudi, 2004, pp. 83 ss. e P.A. Toninelli, Il ruolo dello stato
nell’economia, in Id., a cura di, Lo sviluppo economico, cit., pp. 594 s.

460
le alle nuove forme di conflitto cui dà vita la comunità più o meno
migrante di vecchi e nuovi poveri80.
Ma vi sono anche e soprattutto forme di eugenetica economica
occulta, le situazioni in cui la conformazione dei comportamenti in-
dividuali avviene sulla scorta di schemi naturalizzati, pertanto non
avvertiti nella loro invadenza e capacità di condizionare e plasmare
l’esistenza. È del resto questa la forma attuale di razzismo, che mira
a costruire tipi umani funzionali allo sviluppo del sistema economico
dato, individuando nel merito caratteri percepiti come appartenenti
a una sorta di corredo biologico.
Naturalizzati sono anche i criteri meramente quantitativi utilizza-
ti per misurare la crescita delle società, scelti ad arte per alimentare
forme di disciplinamento economico autoreferenziali e indiscutibili.
In tal senso si parla di una vera e propria dittatura del prodotto in-
terno lordo81, opportunamente rifiutata persino dalle Nazioni Unite,
che valuta invece la crescita delle società ricorrendo al cosiddetto In-
dice di sviluppo umano82.
Le correnti forme di eugenetica economica fanno in massima
parte riferimento a una formula elaborata in area tedesca immedia-
tamente dopo il crollo della dittatura nazionalsocialista: «economia
sociale di mercato».
Questa formula appartiene ai miti fondativi della rinata demo-
crazia tedesca, come a quella italiana appartiene il mito dell’antifa-
scismo unanimistico83. E se l’economia sociale di mercato non viene
occultata nei suoi legami diretti con l’ordoliberalismo, è solo perché
quest’ultimo viene rivisitato come una sorta di prodotto non nazio-
nalsocialista del nazionalsocialismo84: espediente cui non fu estranea

80
Che alcuni descrivono in termini di moltitudine, ovvero di «alternativa vivente che cre-
sce all’interno dell’impero»: M. Hardt e A. Negri, Moltitudine, Milano, Rizzoli, 2004, p. 11. Si
noti che «moltitudine» è lo stesso termine utilizzato dalla letteratura del ventennio per allude-
re alle comunità umane costituite in linea con i dettami dell’individualismo liberale.
81
P. Dacrema, La dittatura del pil, Venezia, Marsilio, 2007. V. anche i teorici della decresci-
ta, e specialmente S. Latouche, Come sopravvivere allo sviluppo (2004), Torino, Bollati Borin-
ghieri, 2005, part. pp. 62 ss.
82
Attraverso cui considerare la crescita un «processo di ampliamento delle possibilità uma-
ne», in cui siano valorizzate vicende come «la durata della vita» e «l’accesso alla conoscenza»:
cfr. UN Development Programme, Human Development Report 1990, New York e Oxford,
Oxford University Press, 1990, pp. 9 ss.
83
Per tutti G. Turi, Fascismo e cultura ieri e oggi, in A. Del Boca et al., a cura di, Il regime
fascista, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 529 s. e A. De Bernardi, Una dittatura moderna, Mila-
no, B. Mondadori, 2001, pp. 1 ss.
84
L’identificazione dell’ordoliberalismo, e con ciò dell’economia sociale di mercato, con il
nazionalsocialismo, costituisce un tabù (abbiamo visto che anche il teorico della biopolitica
non approfondisce questo aspetto): citazioni in R. Ptak, Vom Ordoliberalismus zur Sozialen
Marktwirtschaft, Opladen, Leske u. Budrich, 2004, pp. 212 ss.

461
neppure le scelta della locuzione «economia sociale di mercato», re-
putata un «ordine di pensiero irenico”85.
In Germania il primo articolato riferimento normativo all’econo-
mia sociale di mercato è relativamente recente. È successivo rispetto
alla sua menzione nella Costituzione peruviana del 1979 (art. 115),
poi ripetuta in quella del 1993 (art. 58), la prima emanata all’epo-
ca in cui il generale Francisco Morales Bermúdez era Presidente del
governo rivoluzionario e delle forze armate, la seconda quando era
al potere il dittatore Alberto Fujimori86.
Il riferimento normativo di cui parliamo è un accordo stipulato
tra la Repubblica federale tedesca e la Repubblica democratica tede-
sca a pochi mesi dalla riunificazione, in cui si riassunsero i caratte-
ri del sistema economico posto a fondamento della Germania unita.
Secondo quell’accordo l’economia sociale di mercato «viene in parti-
colare definita dalla proprietà privata, dalla concorrenza fondata sul
rendimento, dalla libera determinazione dei prezzi e dalla sostanziale
piena libertà di lavoro, capitale, beni e servizi». Il che non esclude
«il ricorso ad una abilitazione all’esercizio di determinate forme del
diritto di proprietà per la partecipazione della mano pubblica o di
altri soggetti di diritto al traffico giuridico», tuttavia solo «se in tal
modo i soggetti privati non sono discriminati»87.
Come abbiamo detto, non è questa la prima volta che in area te-
desca si parla di economia sociale di mercato. La formula venne co-
niata nel corso dell’acceso dibattito sulla costituzione economica che
la rinata democrazia tedesca avrebbe dovuto adottare all’indomani
del crollo del nazionalsocialismo. All’epoca due modelli si contende-
vano il campo: quello della cosiddetta democrazia sociale, fondato
su una forma di pianificazione economica e sull’intervento diretto
statale in determinati settori produttivi, e quello definito della demo-
crazia neoliberale, in cui l’intervento in discorso si concepisce come
volto a definire il quadro normativo necessario e sufficiente ad assi-
curare il confronto tra le forze del mercato88.

85
A. Müller-Armack, Das Gesellschaftspolitische Leitbild der Sozialen Marktwirtschaft, in
«Wirtschaftliche Chronik», 1962, 3, p. 13.
86
Significativamente la menzione viene di poco preceduta da un colloquio sull’economia
sociale di mercato, organizzato dalla Cámara de Comercio e Industria Peruano Alemanna:
Economia social de mercado, Lima, 1980.
87
V. il Preambolo e l’art. 3 Staatsvertrag del 18 maggio 1990, su cui H.-J. Thieme, Soziale
Marktwirtschaft und Wirtschaftspolitische Gestaltung, 2. ed., München, Dt. Taschenbuchverl.,
1994 , pp. 122 ss.
2
88
I termini del dibattito tra i fautori dei due modelli si ricavano dal confronto tra il so-
cialdemocratico Adolf Arndt e Franz Böhm, ospitato sulle pagine della Süddeutsche Juristen-
zeitung: cfr. A. Arndt, Planwirtschaft, ivi, 1946, 2, pp. 169 ss. e F. Böhm, Die Bedeutung der
Wirtschaftsordnung für die politiche Verfassung, ivi, pp. 141 ss.

462
Inizialmente il primo modello, sostenuto dai socialdemocratici,
sembrò riscuotere consensi superiori rispetto a quelli raccolti dal
secondo. Venne parzialmente accettato anche dalle forze cristiano
democratiche, tra le cui fila si riteneva che «il sistema economico
capitalista» si fosse «suicidato con le proprie leggi», e che la dispo-
nibilità delle materie prime si dovesse assicurare con la creazione di
un sistema di «produzione collettivistico»89. Il modello ispirò anche
alcune costituzioni regionali o comunque il significato che si volle at-
tribuire ad alcune disposizioni in esse contenute. Così si disse della
costituzione assiana, secondo cui «l’economia della regione deve farsi
carico del benessere di tutto il popolo e deve assicurare il suo fab-
bisogno», motivo per cui «la legge deve predisporre misure necessa-
rie ad indirizzare in modo sensato la produzione e la distribuzione,
assicurare a ciascuno un’equa partecipazione ai risultati del lavoro e
proteggerlo dallo sfruttamento» (art. 38).
Peraltro il modello della democrazia sociale non incontrò il fa-
vore delle forze di occupazione statunitensi, intenzionate a imporre
modelli economici in cui fosse marcato il rifiuto di impostazioni sta-
taliste, che impedirono tra l’altro una sua formalizzazione nella costi-
tuzione bavarese90. Le forze politiche impegnate nella redazione della
Legge fondamentale tedesca decisero nel frattempo di non includervi
espliciti riconoscimenti ad una delle posizioni in campo: l’articolato
doveva mostrarsi sul punto sostanzialmente neutrale. I cristiano de-
mocratici, incalzati dai liberali, si accontentarono di un riferimento
alla Repubblica federale tedesca come «Stato federale democratico e
sociale» (art. 20), soluzione che i socialdemocratici accettarono per-
ché convinti di poter affermare la loro visione una volta conquistata
la guida del paese91.
Peraltro le elezioni non premiarono la socialdemocrazia tedesca,
costretta all’opposizione in un parlamento dominato dai cristiano
democratici di Konrad Adenauer. E questi, su pressione statunitense,
affidò la guida del dicastero economico a Ludwig Erhard, che a sua
volta rimise la definizione delle linee di politica economica ad Alfred
Müller-Armack92.

89
Così il Presidente del Nord Reno-Vestfalia, nel discorso di insediamento riprodotto in G.
Brüggemeier, Entwicklung des Rechts im organisierten Kapitalismus, Frankfurt M., Syndikat, II,
1979, pp. 334 ss.
90
Ivi, p. 273.
91
M. Kittner, Sozialstaatsprinzip, in GG – Alternativkommentar, Neuwied, Luchterhand,
19892, pp. 1402 s.
92
Ad es. M. Görtemaker, Geschichte der Bundesrepublik Deutschland (1999), Frankfurt M.,
Fischer, 2004, pp. 152 ss.

463
Quest’ultimo fu un membro del partito nazionalsocialista dalla
presa del potere sino alla fine degli anni trenta, quando lasciò per
dissensi sulla politica antisemita. Fu Müller-Armack a coniare la lo-
cuzione «economia sociale di mercato» e a definirla come la situa-
zione in cui i principi del libero mercato, in particolare la proprietà
privata e la libertà di contrarre, sono affiancati da interventi statali
volti a condizionare le libertà economiche solo nella misura in cui
ciò sia indispensabile ad evitare i fallimenti del mercato. Alla redi-
stribuzione della ricchezza tendono invece direttamente le sole mi-
sure di solidarietà tra lo Stato e gli individui, che tuttavia operano
fuori dai confini del mercato con interventi finanziati dalla contribu-
zione fiscale93.
Così definita, l’economia sociale di mercato tradisce una vena or-
ganicista, rintracciabile fra l’altro nella sua celebrazione come «for-
mula di integrazione attraverso cui si tenta di indirizzare verso la
cooperazione le forze essenziali della nostra società»94. La medesima
vena organicista esplicitata nei cosiddetti Principi di Düsseldorf, il
programma elettorale dei cristiano democratici e dei cristiano sociali
per le prime elezioni libere tedesche, in cui si presenta l’economia
sociale di mercato come terza via tra l’economia pianificata e l’eco-
nomia libera95.

5. Il patrimonio costituzionale europeo come reazione all’ordoliberalismo

L’imposizione in area tedesca dell’economia sociale di mercato da


parte delle forze di occupazione non fu capace di impedire lo svi-
luppo di modelli politici ed economici incentrati su valori alternativi
rispetto a quelli di matrice ordoliberale. Questi valori interessarono
variamente le esperienze europee che conobbero la dittatura fascista,
e tuttavia determinarono il formarsi di un patrimonio costituzionale
dai caratteri sufficientemente definiti. Infatti, se pure la conclusione
del secondo conflitto mondiale non ha sempre coinciso con la scon-
fitta dei regimi fascisti, la rinata democrazia diede vita a costituzioni
in cui si riconoscono i diritti sociali, considerati al pari dei diritti ci-
vili e politici un argine contro il ritorno di regimi dittatoriali.

93
A. Müller-Armack, Wirtschaftslenkung und Marktwirtschaft (1946), München, Kastell,
1990, pp. 65 ss. e 116 ss.
94
A. Müller-Armack, Das Gesellschaftspolitische Leitbild, cit., p. 13.
95
Christlich-Demokratische Union e Christlich-Soziale Union, Düsseldorfer Leitsätze über
Wirtschaftspolitik, Landwirtschaftspolitik, Sozialpolitik, Wohnungsbau, Hamburg, Ludwig Ap-
pel, 1949, pp. 1 s.

464
Il ritorno della democrazia doveva cioè incidere su entrambe le
vicende riassuntive dell’esperienza fascista: la compressione delle li-
bertà politiche e la riforma delle libertà economiche. A tal fine era
innanzitutto necessario ripristinare i diritti politici, attraverso cui as-
sicurare all’individuo la partecipazione diretta o indiretta al governo
del suo Paese, e i diritti civili: alla vita, alla libertà e alla sicurezza
personale.
Peraltro i diritti civili risentono di un’impostazione liberale tra-
dizionale. Annoverano la proprietà in posizione privilegiata, in linea
con l’idea secondo cui l’individuo è libero in quanto proprietario96.
Sono poi considerati diritti la cui attuazione presuppone semplice-
mente un’astensione dei pubblici poteri. Non si considera cioè che
anche i poteri privati possono minacciare la vita, la libertà e la si-
curezza individuale e che la tutela dei diritti civili presuppone così
un’azione anche incisiva e onerosa dei poteri pubblici97, come del
resto testimoniato dall’imponente sviluppo degli apparati di pubblica
sicurezza indispensabili alle correnti politiche securitarie.
Infine e soprattutto i diritti civili sono volti all’attuazione di
un’uguaglianza concepita in termini formali, secondo lo schema ere-
ditato dalla rivoluzione francese, all’epoca indispensabile per sman-
tellare le strutture feudali. Peraltro la società dei ceti non era stata
sostituita dalla società degli uomini liberi: le differenze sociali conti-
nuavano a esistere e a impedire l’effettiva parità tra individui appar-
tenenti a diverse classi sociali. Era del resto questo il senso dell’or-
dine proprietario prima assicurato dalla mano invisibile e poi dalle
pratiche ordoliberali.
Nel merito il costituzionalismo del dopoguerra si è arricchito di
un divieto di discriminazione, ovvero del riconoscimento dei diritti
civili e politici senza distinzione per caratteristiche quali il sesso, la
razza, la religione, gli orientamenti politici o la condizione sociale.
Questo divieto non venne tuttavia considerato sufficiente a realizzare
l’effettiva parità tra gli individui. Era del resto un divieto sorto alla
conclusione del secondo conflitto mondiale come misura ordolibera-
le volta alla costruzione dell’ordine economico mondiale98.
Al fine di rompere la forza attrattiva di questo ordine era neces-
sario prevedere un obbligo pubblico di intervenire per rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono ciò cui mi-
rano i diritti civili e politici: realizzare il libero sviluppo della perso-

96
Per tutti D. Zolo, Libertà, proprietà ed eguaglianza nella teoria dei diritti fondamentali, in
L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, a cura di E. Vitale, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 59 ss.
97
Ad es. S. Holmes e C.R. Sunstein, Il costo dei diritti (1999), Bologna, Il Mulino, 2000.
98
Citazioni in G. Brüggemeier, Entwicklungen des Rechts, cit., pp. 249 ss.

465
na e assicurarle la partecipazione democratica alla vita pubblica. Fu
questo il senso di un complesso di diritti che caratterizzano il costi-
tuzionalismo del dopoguerra e più in generale il patrimonio costitu-
zionale europeo: i diritti sociali e in particolare il diritto alla salute,
all’istruzione ed alle prestazioni sociali in genere.
Anche le dittature fasciste avevano erogato prestazioni sociali, ma
queste ultime erano state fin da subito concepite come strumenti di
pacificazione e non di emancipazione99. In linea con queste finalità le
prestazioni sociali non si fondavano sui diritti sociali: erano sempli-
cemente misure concernenti la riforma delle libertà economiche, con
modalità volte innanzi tutto a promuovere la funzionalità del mecca-
nismo di mercato, intesa come interesse nazionale primario.
Al contrario il patrimonio costituzionale europeo considera la
prestazione sociale come uno strumento di emancipazione individua-
le, e questa viene ritenuta un valore in sé, non viene cioè promos-
sa per le finalità specifiche di volta in volta sponsorizzate dal potere
politico. Altrimenti detto i diritti sociali alimentano il meccanismo
democratico esattamente come i diritti civili e politici.
Ciò non impedisce evidentemente che si formino un ordine eco-
nomico e un ordine politico naturalmente votati a richiedere la con-
formazione dei comportamenti individuali100. Questi ordini mirano
tuttavia a preservare spazi di conflittualità, indispensabili a impedire
il riproporsi di una conformazione delle libertà economiche intrec-
ciata con la soppressione delle libertà politiche.
Anche per questo l’ordine economico prefigurato dal patrimonio
costituzionale europeo non si fonda sul solo principio di solidarietà
verticale: quella che lo Stato esercita fuori dal mercato, attraverso le
prestazioni sociali direttamente connesse ai diritti sociali. È imposta
anche una solidarietà orizzontale, che informa di sé le relazioni di
mercato: anche chi vi prende parte deve poterlo fare da una posizio-
ne di parità sostanziale, deve cioè poter beneficiare di forza giuridica
nel caso sia portatore di debolezza sociale101.
Insomma, il patrimonio costituzionale europeo, plasmato secondo
i canoni del costituzionalismo del dopoguerra, riconosce un comples-
so di diritti civili, politici e sociali tutti volti ad assicurare l’effettiva
emancipazione individuale, e con ciò l’effettiva partecipazione alla
vita pubblica. E queste finalità interessano il diritto pubblico come il

99
U. Romagnoli, Il lavoro in Italia, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 99 ss.
100
Soprattutto P. Costa, Cittadinanza sociale e diritto del lavoro nell’Italia repubblicana, in
G. Balandi e G. Cazzetta, a cura di, Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana, Milano, Giuf-
frè, 2009, pp. 1 ss.
101
Cfr. A. Somma, Fare cose con la solidarietà, in «Rechtsgeschichte», 5, 2004, pp. 35 ss.

466
diritto privato, da concepire come strumenti attraverso cui la politica
e l’economia sono entrambe chiamate ad attuare ideali democratici.

6. Quando l’individuo incontra l’ordine: il cittadino lavoratore

Si diceva che anche l’ordine disegnato dal patrimonio costituzio-


nale europeo possiede naturalmente una forza conformativa dei com-
portamenti individuali. Ciò è particolarmente evidente nella formula
utilizzata in apertura della costituzione della Repubblica italiana, de-
finita come «fondata sul lavoro» (art. 1).
La formula allude fra l’altro alla circostanza che il lavoro è un
punto di connessione tra l’individuo e la collettività, è cioè un di-
ritto ricondotto a un dovere102. Questo chiarisce un padre di quel-
la formula, che sottolinea essere il lavoro un’attività dal «carattere
doveroso», destinata a promuovere una «nuova unità spirituale» e a
contrassegnare con ciò «i lineamenti funzionali ed organizzativi che
caratterizzano il tipo di democrazia voluta»103. Il tutto presidiato dal-
la disposizione costituzionale che menziona espressamente il dovere
di svolgere «un’attività o una funzione che concorra al progresso
materiale o spirituale della società» (art. 4).
Più precisamente il dovere di lavorare costituisce una sorta di
contropartita per il riconoscimento dei diritti sociali, secondo uno
schema che ben può combinarsi con modelli di matrice ordoliberale.
Certo le differenze dalle visioni che hanno ispirato l’ordoliberalismo
sono notevoli: per i fisiocratici il binomio proprietà e libertà si in-
trecciava con l’idea che la proprietà, in quanto misura della libertà,
era solo quella cui si accedeva con il lavoro nell’ambito di relazioni
industriali libere. Al crollo del fascismo la libertà è invece intesa an-
che come libertà dal bisogno, indipendente dal volume proprietario
acquisito tramite il lavoro.
E tuttavia la ricostruzione del patto di cittadinanza a partire dal
diritto e dovere al lavoro si colloca nel solco dei propositi ordoli-
berali di rendere esplicito l’ordine inespresso di matrice smithiana.
È invero un ordine edificato a partire dalla constatazione che la di-
visione del lavoro tipico delle società industriali, per non intaccare
l’equilibrio del sistema, deve combinarsi con espedienti volti a creare
«uno stato di dipendenza reciproca»104. E tra essi ben può essere an-

102
P. Costa, Cittadinanza sociale, cit.
103
C. Mortati, Sub Art. 1, in Id. et al., Principi fondamentali, in AA.VV., Commentario della
Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna e Roma, Zanichelli e Foro italiano, 1975, p. 14.
104
E. Durkheim, La divisione del lavoro sociale (1893), Milano, Comunità, 1971, p. 358.

467
noverata l’idea che l’esercizio dei diritti sociali costituisce una con-
tropartita per l’esecuzione della prestazione lavorativa. Idea da ri-
comprendere tra le condizioni storiche di esistenza per un’economia
di mercato, esattamente come il patto di epoca illuminista per cui la
concentrazione dell’impero nelle mani del sovrano era bilanciata dal-
la concentrazione della proprietà nelle mani dell’individuo.
Altrimenti detto, la transizione dal binomio illuministico libertà
e proprietà al binomio repubblicano cittadino e lavoratore, modello
antropologico di riferimento per una sorta di cittadinanza industria-
le o almeno industriosa105, non costituisce un radicale mutamento
di paradigma. È infatti possibile ritenere che la transizione realizzi
l’adeguamento dell’ordine entro una società prima fondata sull’accu-
mulazione della ricchezza e poi sulla sua circolazione: si può inten-
dere in tal senso la provocazione di chi definisce il secolo trascorso
come l’epoca dell’homo faber, ridotto alla sua funzione produttiva106.
Ma non è tutto. Viviamo una fase storica che sempre meno si
presta a elevare il lavoro a punto di incontro tra l’individuo e l’ordi-
ne. Nelle esperienze in cui si condivide il patrimonio costituzionale
europeo il lavoro è sempre più una variabile dipendente da scelte
sottratte al circuito della politica e affidate al circuito dell’economia.
Deriva da questo processo la tendenza a delocalizzare il lavoro o in
alternativa a renderlo precario e flessibile. Il tutto mentre alcuni par-
lano di fine del lavoro come ultima tappa di un percorso che ha vi-
sto prima la sua trasformazione entro i tradizionali processi produt-
tivi e poi la sua espulsione da essi107.
È poi il lavoro il perno attorno a cui ruotano molte tra le attuali
pratiche di razzismo economico, per cui di aperture delle frontiere si
parla solo con riferimento a individui valorizzati per il loro apporto
al sistema produttivo: a conferma di come al razzismo economico si
informino ora i meccanismi di inclusione o esclusione del diverso e
a monte la costruzione sociale delle identità e delle diversità.
È insomma evidente che il nesso tra cittadinanza e lavoro costitu-
isce uno strumento di disciplinamento dei comportamenti individuali
che si presta ad alimentare un ordine naturalmente votato all’euge-
netica economica. Esso deve pertanto cedere il passo a nessi costru-
iti su vicende capaci di intralciare la forza conformante dell’ordine o
comunque di sottrarla all’imperare del metro economico e della di-
mensione produttiva.

105
U. Romagnoli, L’uomo flessibile e la metamorfosi del lavoro, in «il Mulino», 53, 2004,
pp. 427 ss.
106
M. Revelli, Oltre il Novecento, Torino, Einaudi, 2001.
107
J. Rifkin, La fine del lavoro (2004), Milano, A. Mondadori, 2005.

468
Questo intende affermare chi discorre ora di un reddito di citta-
dinanza108, ovvero di un modo di concepire l’incontro tra l’individuo
e l’ordine in linea con un proposito da cui pure trae fondamento il
patrimonio costituzionale europeo: conformare i comportamenti de-
gli individui avendo come finalità prima la loro emancipazione.

7. Segue: dal cittadino lavoratore al cittadino consumatore

Se tutto ciò non appartiene all’attuale agenda politica degli Sta-


ti, è anche a causa dei processi di internazionalizzazione dell’ordine
economico, variamente incentrati sul modello ordoliberale dell’eco-
nomia sociale di mercato e quindi dotati della forza disciplinante ti-
pica di quel modello.
Questa forza deriva essenzialmente dall’esplicita riconduzione
dell’economia sociale di mercato alle pratiche statuali volte a evitare
la messa in discussione del sistema, ovvero a impedire la restituzione
della scelta di sistema al meccanismo democratico. Il tutto in linea
con la matrice cattolica dell’economia sociale di mercato109, rintrac-
ciabile fra l’altro nella sua celebrazione come «formula di integrazio-
ne attraverso cui si tenta di indirizzare verso la cooperazione le forze
essenziali della nostra società»110.
Questa formula ben descrive il modello di società cui fin dal-
la sua nascita guarda l’Europa comunitaria111. E non potrebbe es-
sere altrimenti, dal momento che il diritto comunitario si riferisce
esplicitamente all’economia sociale di mercato112, così come al cor-
relato modello dello sviluppo sostenibile113. Anche con questo mo-
dello si intende sancire il primato del fenomeno economico rispetto
ai restanti fenomeni sociali: esso implica l’erezione del meccanismo
mercantile, ovvero dell’incontro di domanda e offerta in situazione
di concorrenza, a principale strumento di allocazione delle risor-
se114. Questo si ricava chiaramente dalla volontà di concepire la lotta

108
Già Dahrendorf, Per un nuovo liberalismo, Roma-Bari, Laterza, 1988.
109
Per tutti A. Wagner e S. Klinger, Art. Katholische Soziallehre, in R.H. Hasse et al., a
cura di, Lexicon Soziale Marktwirtschaft, Paderborn etc., UTB, 2002, pp. 279 ss.
110
A. Müllrer-Armack, Das gesellschaftspolitische Leitbild, cit., p. 13.
111
Per tutti D.J. Gerber, Law and Competition in Twentieth-century Europe, Oxford, Ox-
ford University Press, 2001, pp. 334 ss.
112
Di «economia sociale di mercato fortemente competitiva» si parla in particolare nelle
disposizioni di apertura del Trattato sull’Unione europea, così come modificato dal Trattato di
Lisbona del 13 dicembre 2007 (art. 3 del testo consolidato).
113
Ibidem.
114
Cfr. A. Somma, Introduzione critica al diritto europeo dei contratti, Milano, Giuffrè,
2007, pp. 101 ss.

469
all’esclusione sociale come azione edonistica, volta cioè a creare le
condizioni economiche necessarie per una maggiore prosperità, ov-
viamente misurata ricorrendo al prodotto interno lordo115.
Si noti la valenza disciplinante del linguaggio utilizzato dalla ver-
sione attuale del biopotere ordoliberale, fatto di espressioni capaci di
confinare in un orizzonte offuscato la reale portata di quel pensiero,
occultato dal ricorso a ossimori: tali essendo l’accostamento dell’eco-
nomia di mercato al tema della socialità e dello sviluppo all’idea di
sostenibilità116. Il tutto sulla scia di una tradizionale preoccupazione
dell’ordoliberalismo: rendere accettabile l’identificazione dei conso-
ciati con il mitico homo oeconomicus, che resta il punto di riferimen-
to per le costruzioni proposte, anche per la sua capacità di farle per-
cepire come efficienti e inevitabili.
Del resto il mercato cui il diritto comunitario affida i compiti in-
dicati è attrezzato per divenire il punto di riferimento per la disci-
plina della convivenza sociale in tutti i suoi aspetti. Da ciò la pro-
mozione di un sistema di libertà funzionalizzate, incentivate se pro-
muovono la concorrenza, ma combattute se invece la distruggono117.
Il tutto in linea con la teoria della società del diritto privato (Pri-
vatrechtsgesellschaft), termine sviluppato da un pioniere del pensiero
ordoliberale118, ovvero la società in cui «allo Stato si assicurano po-
teri nella misura in cui sono necessari a difendere la funzionalità del
meccanismo privatistico», e in particolare «la libertà di azione e la
libertà contrattuale dei soggetti privati»119.
Come l’economia sociale di mercato, anche la società del diritto
privato alimenta evidentemente una visione cooperativa delle relazio-
ni economiche, per cui il comportamento di chi le pone in essere
viene conformato in funzione di obbiettivi che non considerano il
suo specifico punto di osservazione, o che eventualmente lo conside-
rano, ma solo se coincide con il punto di osservazione del sistema.
In altre parole, consumatori e produttori sono visti, rispettivamente,
come selezionatori e come moltiplicatori efficienti dell’offerta di beni
e servizi, destinatari entrambi di misure biopolitiche direttamente
volte a evitare i cosiddetti fallimenti del mercato120. I quali, è appe-

115
COM/2001/264 def.
116
Sulle molteplici aggettivazioni di «sviluppo», tutte funzionali all’esito in discorso, v. S.
Latouche, Come sopravvivere allo sviluppo, cit., pp. 30 ss.
117
W. Eucken, Die Wettbewerbsordnung und ihre Verwirklichung, in «Ordo», 2, 1949, pp.
52 ss.
118
F. Böhm, Privatrechtsgesellschaft und Marktwirtschaft, in «Ordo», 17, 1966, pp. 75 ss.
119
K. Mayer e J. Scheinpflug, Privatrechtsgesellschaft und die Europäische Union, Tübingen,
Mohr Siebeck, 1996, p. 75.
120
Vera e propria ossessione dell’ordoliberalismo: al proposito per tutti H. Eidenmüller,
Effizienz als Rechtsprinzip (1995), Tübingen, Mohr Siebeck, 1998, pp. 79 ss.

470
na il caso di avvertire, sono tali se intralciano il funzionamento del
meccanismo concorrenziale e non anche se producono esclusione
sociale: se costituiscono una patologia nel sistema e non anche una
patologia del sistema.
Evidentemente il modello di consumatore cui si fa riferimento
non è quello che valorizza la sua condizione di debolezza tipica e
strutturale, in particolare il modello tradizionalmente utilizzato dal-
la sociologia e riassunto nel termine di homo sociologicus. Del resto
la sociologia studia le interazioni tra il singolo e la società, e queste
sono esattamente le vicende che il biopotere intende occultare nei
loro termini reali.
Per questo il consumatore non viene visto come individuo inca-
pace di autodeterminarsi sul mercato, in quanto irrimediabilmen-
te condizionato dallo schema comportamentale cui deve attenersi
per evitare di essere considerato deviante, così come dal sistema di
aspettative e sanzioni che lo presidia121. Come abbiamo detto, il mo-
dello utilizzato dal livello comunitario resta il mitico homo oeconomi-
cus, «che prima di ogni acquisto soppesa con cura bisogno e prezzo
e confronta centinaia di prezzi prima di decidere», «l’uomo profon-
damente informato e razionale da capo a piedi»122.
Certo, l’homo oeconomicus ha fatto il suo tempo persino presso
alcuni fautori del mercato concorrenziale123. Tuttavia continua a es-
sere un punto di riferimento per le politiche comunitarie di matrice
ordoliberale, volte a concepire la tutela del consumatore come tutela
del suo diritto a essere informato, ed eventualmente a riconsiderare
le scelte operate mentre era incapace di valutarle razionalmente124,
condizione necessaria e sufficiente a preservare la sua capacità di au-
todeterminazione e con ciò la sua efficienza di sistema125.
Nessuno stupore, quindi, se si ricorda come il consumerismo
sia stato una creatura biopolitica di quell’esperienza che più di al-
tre, pur senza affossare il liberalismo politico, alimentò il binomio

121
V. R. Dahrendorf, Homo sociologicus (1958), Roma, Armando, 19893, pp. 32 ss. e 55 ss.
Altre citazioni in A. Somma, Diritto comunitario vs. diritto comune europeo, Torino, Giappi-
chelli, 2003, pp. 42 ss.
122
R. Dahrendorf, Homo sociologicus, cit., pp. 32 ss. Lo stesso schema vale evidentemente
per il produttore, considerato come colui che «riunisce nella sua testa tutti i mercati e le borse
ed orienta tutte le sue decisioni secondo questo sapere» (p. 33).
123
Cfr. ad es. le rilfessioni dei cosiddetti comportamentalisti: per tutti J.D. Hanson e D.A.
Kysar, Taking behaviouralism seriously, in «Harward Law Review», 112, 1998, pp. 1420 ss.
124
E’ il cosiddetto diritto di recesso, previsto ad esempio nelle vendite fuori dai locali com-
merciali (Direttiva 85/577/CEE) e nelle vendite a distanza (Direttiva 97/7/CE), sulla cui valen-
za ordoliberale v. ad es. A. Somma, Diritto comunitario, cit., p. 76.
125
Ad es. M. Gambaro, Consumo e difesa dei consumatori, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp.
18 ss. e V. Codeluppi, I consumatori, Milano, Franco Angeli, 19953, pp. 87 ss. con rilievi critici.

471
modernità razzismo: nacque in area statunitense all’inizio del nove-
cento, come misura di eugenetica economica contro il capitalismo
oligopolistico e monopolistico126. E nessuno stupore se le primissime
forme di tutela dei consumatori interessarono l’industria alimentare,
le cui precarie condizioni igieniche furono denunciate in un famoso
romanzo, scritto tuttavia per sensibilizzare circa le ben più precarie
condizioni in cui versavano i lavoratori di allora127.
Da tutto ciò si ricava che il consumerismo mira in ultima anali-
si a ridefinire in termini biopolitici il concetto di cittadinanza, ov-
vero sulla scia di quanto è stato dichiarato dai pionieri del pensiero
ordoliberale. Questi ultimi avevano inteso completare la rivoluzione
borghese mediante tecniche di indirizzo mediato dei comportamen-
ti individuali, finalmente liberati dai vincoli di matrice feudale. Il
proposito aveva condotto il fascismo a ridisegnare gli attributi del-
la cittadinanza, stabilendo una sorta di equazione tra il cittadino e
il produttore128. Si assiste ora a un mutamento di paradigma129, che
tuttavia non intacca la sostanza ordoliberale di una costruzione fun-
zionalizzante, tutta volta a occultare i conflitti di sistema, e in parti-
colare la circostanza che «vi sono consumatori lavoratori e consuma-
tori capitalisti»130.
Se ricostruire la storia della cittadinanza conduce a ricostruire
la storia del «costituirsi dell’ordine sociale dal basso verso l’alto»,
valorizzando l’individuo e le «strategie di riconoscimento della sua
identità»131, valutare l’impatto dell’ordoliberalismo significa eviden-
ziarne la capacità di invertire i termini della recente evoluzione stori-
ca della cittadinanza132. Quest’ultima, dopo aver visto lo sviluppo dei
diritti civili prima e dei diritti sociali poi, si prepara ora ad assistere
all’affossamento dei diritti sociali, possibile se non probabile prelu-
dio di un affossamento dei diritti civili.
L’enfasi comunitaria sul consumerismo mira infatti a interrompe-
re il processo di ampliamento delle posizioni tutelate nell’ambito del

126
V. soprattutto G. Alpa, Il diritto dei consumatori, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 3 ss.
127
U. Sinclair, La giungla (1906), Milano, Coop. del libro popolare, 1954. Da ultimo la
vicenda è stata richiamata da A. Testi, Il secolo degli Stati Uniti, Bologna, Il Mulino, 2008, pp.
65 e 83.
128
Sponsorizzata ad es. da G. Bottai, Stato corporativo e democrazia, in «Lo Stato», 1, 1930,
p. 127.
129
Comprendente anche il trasferimento in capo ai consumatori di compiti prima assunti
dall’impresa: per tutti V. Codeluppi, Il biocapitalismo, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pp. 27 ss.
130
E. Roppo, Protezione del consumatore e teorie delle classi, in «Politica del diritto», 5,
1975, p. 715.
131
P. Costa, Civitas, Roma-Bari, Laterza, I, 1999, p. viii.
132
V. fin d’ora T.H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale (1949), Roma-Bari, Laterza,
2002.

472
conflitto sociale. Essa conduce a pacificarlo attraverso la conforma-
zione della domanda di beni e servizi in forme che tendono diretta-
mente ad assicurare il funzionamento del meccanismo concorrenzia-
le. Non a caso il diritto comunitario, nel momento in cui alimenta
la costruzione della società del diritto privato, ricorre a costruzioni
elaborate ispirandosi all’analisi economica del diritto, e con ciò a un
approccio esplicitamente funzionalista ed esplicitamente in linea con
una visione mercantile dei diritti di cittadinanza133.
È bene sottolineare questo profilo e approfondire il motivo per
cui il diritto dei consumatori, insieme con la disciplina dell’impresa,
alimenta logiche astratte di sistema che non coincidono affatto con
le logiche perseguite dai singoli. Giacché questi ultimi sono osservati
nella loro essenza di operatori economici rappresentanti il complesso
dell’offerta e della domanda di beni e servizi. Perdono cioè la loro
individualità sotto l’azione di forze che, se non mirano a sciogliere
i singoli nello Stato, come in epoca fascista, puntano a smembrarli
direttamente nel mercato.
Costituisce infatti un’astrazione affermare che il consumatore ha
interesse a compiere scelte informate, e quindi a investire le sue
energie e il suo tempo nel confronto tra i diversi beni e servizi pre-
senti sul mercato. Questa è un’attività necessaria a determinare una
domanda efficiente, a sua volta necessaria a selezionare l’offerta en-
tro il complesso meccanismo concorrenziale. Un’attività che, come i
luoghi in cui si esercita134, diviene il cardine attorno a cui far ruotare
i molteplici aspetti dell’esistenza, il filo conduttore per una riorganiz-
zazione funzionalizzante dei tempi di vita.
Allo stesso modo costituisce un’astrazione l’immagine del singolo
produttore come operatore economico interessato ad alimentare la
concorrenza, e non invece a prevenire un impegnativo confronto con
altri produttori: come del resto assunto in modo esplicito dai più ca-
ratteristici interventi di conformazione ordoliberale del mercato135.
Peraltro le istanze dei singoli consumatori e produttori sono viste
come fallimenti del mercato. Costituiscono deviazioni rispetto a un
modello comportamentale dato, dalle quali si vuole preservare il si-
stema economico, delegando agli stessi consumatori e produttori una
funzione che potremmo chiamare di polizia economica: esattamente

133
Citazioni in A. Somma, Tecniche e valori nella ricerca comparatistica, Torino, Giappichel-
li, 2005, pp. 29 ss.
134
Cfr. i contributi raccolti in G. Triani, a cura di, Casa e supermercato, Milano, Elèuthera,
1996 e R. Sassatelli, Consumo, cultura e società, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 199 ss.
135
Si può dire che la disciplina antitrust è la più risalente tra le moderne forme di discipli-
namento ordoliberale. Sulla sua nascita in area statunitense sul finire dell’ottocento, da ultimo
A. Testi, Il secolo degli Stati Uniti, cit., pp. 38 ss.

473
come accadeva durante il ventennio in ordine alla visione totalizzan-
te del cittadino come produttore.

8. A mo’ di conclusione: Europa sociale e razzismo economico

Diciamo subito che l’impianto ordoliberale della costruzione co-


munitaria si rispecchia fedelmente nell’unico documento organico
finora dedicato all’edificazione della cosiddetta Europa sociale: la
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea136. Lo valuteremo
avendo come punto di riferimento il modello di solidarietà disegnato
dalla Costituzione italiana.
Come è noto, quest’ultima afferma un principio di solidarietà ver-
ticale, strumento per rendere sostanziale l’uguaglianza tra i cittadini,
finalmente affrancata dall’affermazione della formale parità di fronte
alle legge. In tal senso lo Stato è chiamato a «rimuovere gli ostacoli
di ordine economico e sociale» che «impediscono il pieno sviluppo
della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavorato-
ri all’organizzazione politica, economica e sociale del paese» (art. 3).
La Costituzione italiana prevede poi, accanto alla solidarietà dello
Stato nei confronti dei cittadini, anche una forma di solidarietà tra
cittadini, descritta in termini di solidarietà orizzontale, ricavata dalla
massima secondo cui «a maggiori affermazioni di libertà debba ne-
cessariamente corrispondere una maggiore dose di solidarietà»137. Da
ciò la proclamazione dei «doveri inderogabili di solidarietà politica
economica e sociale» (art. 2), tra cui il dovere di esercitare l’inizia-
tiva economica con modalità idonee ad indirizzarla «a fini sociali»
(art. 41) o di amministrare la proprietà in forme compatibili con la
sua «funzione sociale» (art. 42).
Dal principio di solidarietà verticale e orizzontale discende che
l’ordinamento italiano deve ricorrere alle strutture dello Stato sociale
per far fronte alle diseguaglianze prodotte dal meccanismo di mer-
cato. E tuttavia discende anche che il mercato non è un territorio al
riparo da interventi eteronomi, che devono essere volti a far fronte
alla debolezza sociale e non anche trasformare i consociati in opera-
tori economici, e questi ultimi in strumenti per realizzare finalità di
tipo ordoliberale. Finalità che pretendono di riportare il sistema dei

136
Nella versione del 12 dicembre 2007, pubblicata in G.U.U.E. del 14 dicembre 2007, C
303/1. Ad essa il Trattato sull’Unione europea, così come modificato dal Trattato di Lisbona
del 13 dicembre 2007, attribuisce finalmente «lo stesso valore giuridico dei trattati» (art. 6 del
testo consolidato).
137
A. Barbera, Sub Art. 2, in AA.VV., Principi fondamentali, in G. Branca, a cura di, Com-
mentario della Costituzione, cit., p. 97.

474
diritti fondamentali all’epoca della rivoluzione francese, per poi cor-
reggerne la matrice individualista secondo dettami non distanti da
quelli elaborati dal ventennio per riformare il liberalismo economico.
Dello schema disegnato dalla Costituzione italiana si trovano ben
deboli tracce nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Consideriamo innanzitutto il tema della solidarietà tra lo Stato e
i cittadini, alla cui definitiva svalutazione mira l’esplicita codificazio-
ne del principio di uguaglianza in senso solo formale. Si dice infatti
semplicemente che «tutte le persone sono uguali davanti alla legge»
(art. 20), omettendo qualsiasi riferimento al dovere pubblico di ri-
muovere la cause che di fatto limitano l’uguaglianza138.
Il ridimensionamento comunitario della solidarietà tra lo Stato e
i cittadini si deve indubbiamente al suo essere strutturalmente coor-
dinata con il meccanismo fiscale, che si vuole tenere il più possibile
al riparo dalle ingerenze del livello europeo. Tanto che l’unica di-
sposizione idonea secondo alcuni ad alimentare l’aspettativa di una
attenuazione del principio di concorrenza attraverso il principio di
solidarietà139, la disposizione in cui si discorre del «diritto di acces-
so alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali» (art. 34),
viene accompagnata da una precisazione capace di frustrare qualsiasi
aspirazione: «il riferimento ai servizi sociali riguarda i casi in cui sif-
fatti servizi sono stati istituiti per garantire determinate prestazioni,
ma non implica in alcun modo che essi debbano essere creati laddo-
ve non esistono»140.
La verità è che si vuole riconsiderare il tema della solidarietà ver-
ticale, e con ciò un contenuto essenziale della cittadinanza, alla luce
della volontà di ridurre la spesa pubblica e di rivalutare nel contem-
po il mercato come dispensatore dei beni e dei servizi indispensabili
a soddisfare i bisogni contemplati dai diritti sociali. Bisogni che in
tal modo sono valutati da un punto di vista meramente edonistico,
in linea con le finalità disciplinanti del biopotere ordoliberale, indi-
sponibile a realizzare forme di redistribuzione della ricchezza idonee
a espandere i diritti di cittadinanza.
Questi propositi si riflettono evidentemente nei meccanismi di
solidarietà orizzontale, che il sistema comunitario dei diritti fonda-
mentali piega alle esigenze di sistema interpretate dal biopotere or-
doliberale. Possiamo esemplificare tutto ciò considerando il divieto
di discriminazione, trattato immediatamente dopo l’enunciazione del

138
Ad es. Y. Salesse, Manifeste pour une autre Europe, Paris, Le Félin, 2004, p. 71.
139
S. Giubboni, Solidarietà e concorrenza, in «Mercato concorrenza e regole», 5, 2004, pp.
75 ss.
140
Così le «spiegazioni relative al testo completo della Carta», Charte 4473/00 Convent 49.

475
principio di uguaglianza formale dei cittadini, come a voler eviden-
ziare l’intento di privatizzare il dovere pubblico di creare le condi-
zioni per l’uguaglianza sostanziale.
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea stabilisce
un divieto di «qualsiasi forma di discriminazione fondata in partico-
lare sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o socia-
le, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni
personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’apparte-
nenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disa-
bilità, l’età o l’orientamento sessuale» (art. 21).
Come si vede, il divieto di discriminazione è formulato in modo
tale che, se anche fosse combinato con un dovere pubblico di ren-
derlo effettivo, preluderebbe a interventi volti a tutelare posizioni
che per lo più hanno la struttura dei diritti civili. Del resto l’Europa
comunitaria viene concepita come una società del diritto privato, in
cui la lotta all’esclusione sociale si esaurisce tendenzialmente in azio-
ni che fanno leva sulla conformazione del meccanismo mercantile e
non anche sul riconoscimento dei diritti sociali.
Quest’ultimo aspetto ci porta a riflettere sui caratteri del divie-
to di discriminazione valutato dal punto di vista della solidarietà tra
cittadini. È innegabile che il divieto sia idoneo a incidere anche pro-
fondamente su di essa, che sia cioè uno strumento al limite efficace
di conformazione del mercato. Si tratta tuttavia di un esito frustrato
dalla mancata formulazione di un contestuale esplicito invito a ema-
nare provvedimenti antidiscriminatori141.
Solo parzialmente diversa è la posizione delineata attraverso l’af-
fermazione che la «parità tra donne e uomini deve essere assicurata
in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di
retribuzione» (art. 23). Tuttavia si tratta di una posizione che, pur
concernendo materie fondamentali con effetti anche dirompenti, è
definita in linea con una sensibilità ordoliberale per la creazione del-
le condizioni ottimali di funzionamento del meccanismo concorren-
ziale: finalità ostacolata dalla condotta dell’operatore economico che
seleziona i propri collaboratori sulla base di criteri diversi da quelli
dell’efficienza, e che realizza in tal modo un’ipotesi di fallimento del
mercato. Si comprendono in tal senso i riferimenti alla discriminazio-
ne come condotta in contrasto con l’interesse pubblico allo sviluppo

141
Invito solo in parte ricavabile dal Trattato istitutivo della Comunità europea, laddove af-
ferma che si possono, ma non anche che si devono, «prendere i provvedimenti opportuni per
combattere le discriminazioni» (art. 13). La disposizione omette tuttavia qualsiasi riferimento a
vicende attinenti al tema dei diritti sociali.

476
di «una società meritocratica che possa perseguire gli obbiettivi del
progresso e del benessere»142.
E la conclusione resta valida anche valutando le direttive comu-
nitarie in tema di divieto di discriminazione che non considerano la
sola materia lavorativa143, per concentrarsi su altri profili rilevanti per
il funzionamento del mercato: come in particolare l’accesso a beni e
servizi e alla loro fornitura, che deve essere assicurato senza distin-
zioni fondate sulla razza o l’origine etnica144 o sul sesso145.
È sicuramente vero, come abbiamo detto, che simili direttive con-
sentono forme non trascurabili di conformazione dell’attività privata.
E tuttavia le misure previste mirano in prima battuta a evitare che il
fronte dell’offerta dei beni circoscriva arbitrariamente la cerchia di
chi è chiamato a selezionarli in base al meccanismo concorrenziale.
Il divieto di discriminazione consente inoltre di incidere sulla sola
scelta delle parti di una relazione economica, ma non anche sul con-
tenuto della relazione. È cioè una misura che intende favorire la sola
parità di chances utile al funzionamento del mercato146, e che pertan-
to non concerne il proposito di attribuire alla cittadinanza connotati
in linea con la sua evoluzione storica. Il tutto nel solco del modo
di essere dell’uguaglianza comunitaria, cui si è voluto riconoscere la
funzione prevalente di favorire l’integrazione economica più che l’in-
clusione sociale147.

142
D. Maffeis, Offerta al pubblico e divieto di discriminazione, Milano, Giuffrè, 2007, p.
367.
143
Come invece, dopo la pionieristica Direttiva 76/207/CEE, le Direttive 2000/78/CE,
2002/73/CE e 2006/54/CE.
144
Direttiva 2000/43/CE.
145
Direttiva 2004/113/CE.
146
P. Ridola, Diritti di libertà e mercato nella «Costituzione europea», in Associazione italia-
na dei costituzionalisti, a cura di, La costituzione europea, Padova, Cedam, 2000, pp. 329 ss. e
352 ss.
147
Così M. Barbera, Eguaglianza e differenza nella nuova stagione del diritto antidiscrimi-
natorio comunitario, in «Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali», 24, 2003, p.
407.

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