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PSICOLOGIA DI COMUNITA’

Breve introduzione contenente gli scopi dell’intero corso

Argomenti del corso:


• I principi teorici: quali sono, come si è evoluta la disciplina, qual è la sua identità, i suoi
obiettivi, quali sono gli autori che hanno contribuito a formare ed elaborare le teorie più significative
della psicologia di comunità. Ma anche un po’ di storia: dov’è nata, perché è nata e dove si è
sviluppata.
• Metodi e strategie di intervento: verranno illustrate, nel corso delle videolezioni, alcune
delle metodologie che sono state il frutto del lavoro dei colleghi di Psic.di comunità sia negli USA che
in Europa, ma anche il contributo più specifico dato dagli autori italiani (ad es. i profili di comunità,
oppure l’organizzazione e l’analisi multiorganizzativa, l’educazione socio-affettiva, i gruppi di auto e
mutuo aiuto, il lavoro di rete etc.).
• I contesti di intervento: in particolare ci riferiremo ad alcuni contesti di tipo più classico
quale la scuola, l’ambito della formazione, i servizi socio-sanitari, ma anche ad alcuni settori di
applicazione più innovativi.

LEZIONE N° 1 Æ La Psicologia di Comunità: obiettivi e identità della disciplina


( Prof.ssa Zani)

Gli argomenti della lezione sono i seguenti:


• Origini e caratteristiche della tipologia di comunità
• Definizione e obiettivi che sono stati dati nel corso degli anni da alcuni autori
• Il concetto di “comunità”, ovvero cosa significa
• La psicologia di comunità nel contesto italiano: come si è sviluppato il concetto di Welfare
dagli anni ’60 ad oggi

Quando nasce la psicologia di comunità?


Nasce negli USA nel 1965, una data che noi consideriamo convenzionale ma che ha un significato
preciso perché è legata ad un avvenimento: una conferenza di psicologi clinici e psichiatri che si
tenne in un paesino vicino a Boston proprio in quell’ anno e che fu caratterizzata fondamentalmente
da un’ottica “contro”.
Contro cosa?
Contro il modo tradizionale con cui venivano erogati i servizi di cura e di trattamenti clinici nei
confronti, in particolare, dei pazienti psichiatrici.
C’era un clima di insoddisfazione per quello che si stava facendo e che veniva condotto in quel
momento caratterizzato da una serie di ricerche che avevano mostrato chiaramente, con dei dati
molto precisi e scientificamente fondati, la non terapeuticità delle istituzioni cosiddette di cura nei
confronti dei malati mentali, in particolare degli Ospedali psichiatrici e dei manicomi.
C’era quindi tutta un’atmosfera contro l’istituzionalizzazione, contro il metodo
dell’istituzionalizzazione che aveva creato questo malcontento, questo disagio nei confronti dei
metodi tradizionali e c’era, quindi, la necessità di rivolgersi all’individuazione di metodi alternativi.
Metodi alternativi che ponevano al centro un interesse rivolto alle persone, considerate nel contesto
dei loro ambienti e sistemi di vita; quindi non più persone sradicate dal proprio contesto e portate
altrove, come appunto nelle grandi istituzioni (siano essi ospedali psichiatrici, brefarotrofi, istituti per
minori o carceri), quanto piuttosto analizzare le persone nel loro contesto di vita, nel loro ambiente
naturale.

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Ancora, un altro punto intorno a cui si stava coagulando in quell’ epoca (siamo a metà degli anni ’60)
l’interesse di questi autori, era quello di utilizzare le conoscenze acquisite attraverso l’analisi e le
ricerche non semplicemente per fare diagnosi, ma per attuare degli interventi, quindi in funzione di
un cambiamento.
L’orientamento generale era, quindi, quello rivolto a migliorare la qualità della vita e il benessere
della popolazione: questi saranno concetti centrali degli interessi degli studiosi, che da quel
momento, si autodefinirono Psicologi di comunità intendendo proprio con questo spostare il focus
dell’attenzione e dell’interesse dall’istituzione alla comunità locale e territoriale come contesto di vita
della popolazione.
In che cosa consiste la specificità di questa che si è proposta, fin dagli inizi, come una nuova
disciplina? Perché la psicologia di comunità e qual è la sua carta d’identità?
Prendiamo la definizione di Rappaport (1977) Æ egli è un autore nord-americano che, con il
volume pubblicato nel 1977 e intitolato “Community psychology velius research and action”, ha
costituito un punto di riferimento fondamentale e continua ad essere ancora adesso presente sulla
scena scrivendo dei testi, l’ultimo dei quali è un hand-book del 2000.
Possiamo dunque dire che egli ha attraversato tutti gli anni degli ultimi decenni, e già nel ’77 con il
suo testo più famoso aveva contribuito ad una definizione dell’ambito della disciplina molto
importante che costituirà, da quel momento in poi, un punto di riferimento essenziale.
Rappaport dice: ”La psicologia di comunità è un’ideologia “ e già con questo, diciamo, si poneva
in una posizione di rottura nei confronti dell’establishment accademico; è un’ideologia che si basa
sull’adozione di un orientamento sistemico-ecologico con un focus sulla prevenzione.
Quindi l’interesse di questa nuova disciplina è fondamentalmente quello della prevenzione; se ne
deduce che non interviene quando i problemi sono già esplosi, ma interviene sulle cause di questi
ultimi, perché fare prevenzione vuol dire proprio questo.
E ancora: è un insieme di valori.
Questo dei valori è un tema forte della disciplina, che costituisce un po’ il suo punto di forza perché è
l’esplicitazione di prese di posizione precise, insieme di valori che mira a sviluppare le competenze
dei soggetti, quindi non parla di soggetti con deficit, ma parla di soggetti che, comunque sia la loro
situazione, hanno sempre un residuo, un fondo di competenze e di abilità, ed è su queste che
bisogna lavorare Æ quindi promozione delle diversità culturali.
Anche questo concetto, se si pensa all’epoca in cui è stato proposto, è di grande innovazione e,
proprio in quanto tale, viene tuttora mantenuto e coltivato dai vari autori.
Infine, dice sempre Rappaport, è un atteggiamento che comporta un impegno preciso
dell’operatore, dello psicologo in questo caso, verso il cambiamento sociale.
Dunque uno studioso, un ricercatore che pero’ non vive nella sua torre d’avorio isolata, ma che si
impegna attivamente a far parte della vita “politica” (nel senso di impegno civile e sociale) verso il
cambiamento sociale.
Una decina di anni dopo, a metà degli anni ’80, troviamo un’altra definizione data da Heller e
collaboratori che definiscono la disciplina come un orientamento rivolto più alla prevenzione
che al trattamento.
Viene quindi ripresa e mantenuta quella che è un’idea-base della disciplina, sottolineando come
l’interesse degli psicologi di comunità sia quello di essere centrati più sulla prevenzione che non al
trattamento; cio’ non vuol dire, ovviamente, escludere l’interesse per il trattamento e per la cura
(quella che verrà poi chiamata prevenzione secondaria e prevenzione terziaria), ma significa che l’
interesse-base è senz’altro per la prevenzione, e nello specifico per la prevenzione primaria.
Un orientamento, continuano gli autori, che enfatizza più il rafforzamento delle
competenze che non l’eliminazione del deficit (in questo senso è una continuazione del
pensiero di Rappaport: lavorare per rafforzare le competenze che ogni soggetto ha, anche quello più
disastrato) e che si focalizza sull’interazione tra persone e ambiente.
Questo è un punto che la psic. Di comunità deve in qualche modo all’opera di un grande autore quale
Kurt Lewin, che ci ha lasciato in eredità proprio questo concetto dell’importanza dell’interdipendenza

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fra le parti e in particolare dell’interazione tra persona e ambiente, concetto questo che ritroviamo
anche nelle altre definizioni.
A metà degli anni ’90 Orford, autore inglese, in un suo testo tradotto anche in italiano nel 1995 e
intitolato, appunto, “psicologia di comunità”, dice: “La psicologia di comunità è un’area di
ricerca, una disciplina accademica, ed è un patrimonio conoscitivo e tecnico che forma una
professione d’aiuto.
Quindi qui l’elemento aggiuntivo che fornisce Orford rispetto a questa definizione, consiste nel
sottolineare come, sì, parliamo di una disciplina accademica con una sua area di ricerca, ma che
costituisce anche una base di conoscenze e di strumenti per quelle che vengono chiamate le
professioni di aiuto, le helping profession, e fare lo psicologo è sicuramente una delle professioni di
aiuto.
È una disciplina, un’area di ricerca che si colloca in una posizione di ponte tra ambito psicologico e
sociale, tra sfera privata e pubblica dell’esperienza umana.
Quindi quello che è il focus del lavoro, dell’interesse della psicologia di comunità è proprio
sull’interazione tra persona e ambiente; qui si parla di ponte.
Viene richiamato percio’ il concetto fra ambito psicologico e ambito sociale e vedremo che questo
concetto viene anche ripreso Amerio che, nel suo testo del 2000 intitolato (che fantasia!!!)
“Psicologia di comunità”, ha definito in questo modo la disciplina: area di ricerca e di intervento
sui problemi umani e sociali, che si rivolge all’interfaccia tra sfera individuale e sfera
collettiva, tra sfera psicologica e sfera sociale.
Ecco che qui viene ripreso quello stesso concetto di interazione, di ponte, di interfaccia, dice Amerio,
proprio fra la sfera individuale e quella collettiva, tra la sfera psicologica e quella sociale per dire che
quello che interessa, specificatamente, alla psicologia di comunità è il non cadere nel riduzionismo
psicologico (quindi il solo interesse per la persona come se vivesse in un vuoto sociale) e tantomeno
solo sulle strutture sociali, quella che viene chiamata società, giacchè questa è interesse di altre
discipline.
Quello che a noi interessa è proprio cercare di cogliere, di analizzare, di intervenire sull’interazione
fra l’aspetto psicologico e quello sociale.
Amerio continua la sua definizione dicendo che è una disciplina che intende coniugare la ricerca con
un intervento capace di unire il senso di cura della clinica con l’apertura “politica” (intesa come
interesse nel civile e nel sociale) propria del lavoro sociale.
Quindi viene ripreso, ribadito e declinato in un modo ancora più specifico e più chiaro quella che è la
posizione dei primi autori, cioè questo interesse proprio più sulla prevenzione che sul trattamento,
l’interesse per questa interfaccia, per coniugare gli ambiti di ricerca e di intervento.
Ricerca ed intervento, le parole-chiave del pensiero di Kurt Lewin: una ricerca che non è fine a sé
stessa, ma che si traduce poi in un intervento pratico, concreto, volto appunto a modificare ed
introdurre cambiamenti nel sociale.
Passiamo ora ad un brevissimo escursus di tipo storico su quella che è stata l’evoluzione di questa
ottica alternativa della disciplina.

Come si è evoluta quest’ottica alternativa “contro”?


Si possono individuare delle fasi:

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I Fase In questa fase c’è stata un’attenzione rivolta all’origine sociale del disagio e
dei disturbi psichici contro la concezione individualistica dominante che
vedeva il problema solo nella persona.

È quella che vede l’interesse spostarsi dall’ambito dell’igiene mentale (in


II Fase realtà menthal health Æ salute mentale) legato ai disturbi psichici, alle
problematiche della comunità organizzata (quindi a un sociale organizzato e
alle sue organizzazioni).

Vede la costruzione di un quadro concettuale metodologico specifico, che


III Fase costituisce la base dell’azione nel sociale, in quanto cio’ che contraddistingue
la psicologia di comunità è proprio l’interesse per la ricerca che si traduce
poi in azione.

Quali sono dunque gli obiettivi della psicologia di comunità?


• Analizzare le transazioni, le interazioni e i legami tra diversi livelli

RETI

• Migliorare la qualità della vita:che si traduce operativamente in un’azione trasformativa delle


condizioni di vita di una comunità

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• Sviluppare la competenza di una comunità: ovvero accrescere la partecipazione dei cittadini al
fine di incrementare la solidarietà ( Æ altro concetto importante)

Ma di quale comunità parliamo?


Ecco, forse dovremmo porci prima un’altra domanda che possa coinvolgere l’interesse di tutti: ha
senso parlare di comunità oggi in un mondo che si va sempre più globalizzandosi ed omologandosi?
La risposta è sicuramente positiva: ha senso parlare di comunità perché è la nostra vita.
Ciascuno di noi nasce e viene socializzato all’interno di una comunità specifica e quindi deve la sua
socializzazione a tutto un lavoro di interscambio, di socializzazione appunto, che avviene dentro un
contesto, un contesto territoriale geografico che ha dei limiti precisi e una determinata cultura.
Ora, proviamo a capire quali sono i significati che sono dentro a questo concetto di comunità.
Quando parliamo di comunità intendiamo riferirci ad una entità sociale globale fatta di
persone con legami stretti tra di loro, che hanno un forte senso di appartenenza e che
sono radicati in tradizioni profonde.
Inoltre facciamo riferimento ad un’entità sovra-individuale depositaria di un bene comune
che trascende quello individuale, di cui comunque è garanzia e tutela.
Quindi, se vogliamo guardare più da vicino all’etimologia della parola “Comunità” possiamo notare
che ci sono diverse opinioni in merito.

1) communis Cioè bene comune.


Il valore sottostante a questo bene comune è l’equità.
Cioè avere “mura comuni”. Le mura hanno la funzione di delimitare un
territorio e di definire chi è dentro e chi è fuori.
2) cum- Dunque una doppia funzione: protettiva con chi sta dentro e difensiva per
moenia chi sta fuori.
Tuttavia questa definizione rimanda anche ad un’altra idea, che è quella di
identità: le mura comuni, i confini, definiscono chi siamo noi e chi sono loro,
quindi l’ingroup rispetto all’outgroup.
È dunque la base dell’identità sociale.
3) cum-munia Cioè doveri comuni, ma anche diritti comuni.
In questo caso i valori sottostanti sono quelli di reciprocità e di fiducia

Quando ci riferiamo alla comunità, intendiamo anche isolarne le dimensioni, dimensioni che sono tra
di loro interrelate e che si possono raggruppare in 5 dimensioni principali:

Luogo (nel tempo e nello spazio)

Civitas Persone (in relazione tra di loro)


(con insieme di diritti/doveri)

Sistema Sentimento di appartenenza


(come sistemi interdipendenti Æ v.di
concetto di campi di forze di Lewin)

vediamo adesso come tutto questo quadro, che in gran parte si è evoluto nel corso di questi anni, sia
calato nel contesto italiano, caratterizzato da un insieme di politiche detto Welfare State in cui il

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termine welfare è inteso come benessere (anche se da noi sarebbe meglio parlare di stato dei
servizi).
Gli anni ’60 sono caratterizzati da un modello di tipo settoriale e centralistico.
Questo vuol dire che i servizi avevano delle collocazioni a livello anche territoriale, ma con una
direzione di tipo centralistico; settoriale perché ogni servizio si occupava di un settore specifico con
un’ottica molto limitata e riduttiva e senza dei collegamenti tra un’area e l’altra.
Gli interventi che venivano messi in atto erano interventi di tipo riparativo, con una separazione
netta fra ambito sanitario e sociale e con due prestazioni molto settorializzate.
C’era un pluralismo del sistema assistenziale caratterizzato da una dinamica tra intervento pubblico e
privato con una modalità che da allora in poi caratterizzerà la nostra storia, la nostra situazione, per
cui alcuni modi, che oggi sono anche stereotipati, di vedere il problema del rapporto tra pubblico e
privato (pubblico/gratuito = scarsa qualità - privato/a pagamento = alta qualità) hanno la radice
esattamente in questo periodo.
I modelli di comportamento e di pensiero dominanti in questo periodo sono quelli tipici del mondo
cattolico che improntavano tutto il sistema di stato dei servizi ancora sotto una modalità cattolica,
quindi secondo la modalità della beneficenza che poi evolverà in previdenza.
Anche le figure professionali esistenti erano in gran parte legate al mondo del cattolicesimo e,
accanto a questi, nella seconda metà degli anni ’60, cominciano ad emergere nuove figure
professionali: assistenti sociali, sociologi, psicologi.
Ci sono anche iniziative esemplari alternative a questo sistema: cominciano a diffondersi, sulla spinta
di singole persone, elementi di cambiamento.
Negli anni ’70 ci sono dei segnali di mutamento: c’è una vasta produzione legislativa che riformula un
po’ tutte le modalità dell’ intervento pubblico e che identifica nuovi soggetti istituzionali (asili nido,
organi collegiali, consultori).
Iniziano anche le prime lotte guidate da idee che costituiscono un po’ la guida dei cambiamenti
strutturali, come cominciare a ragionare con un’ottica di tipo preventivo, far partecipare gli utenti
alla gestione; cominciano a moltiplicarsi gli organi collegiali con funzione di programmazione.
È fondamentale programmare; c’è un carattere di movimento nella programmazione, ci sono delle
lotte portate avanti da gruppi particolari (v.di femminismo e movimento per la psichiatria
democratica), quindi movimento proprio nel senso di forze attive da parte di persone che si
impegnano per apportare dei cambiamenti nella situazione tradizionale.
Alla fine degli anni ’70 – inizi anni ’80 vi è un fatto particolare nel contesto italiano: viene istituita la
Legge 833 del 1978 Æ la riforma sanitaria ter con la quale viene istituito il SSN articolato in USL (a
loro volta articolate in distretti).
La L.833/78 segna anche la partecipazione attiva da parte dei cittadini ad una pubblica
amministrazione che prima era chiusa e il controllo sociale centralizzato.
Tuttavia, questa nuova modalità creerà delle differenze inter-regionali in quanto si trattava di una
legge-quadro che demandava, cioè, alle Regioni la realizzazione dei programmi e, di conseguenza, si
assisterà ad un dualismo tra alcune finalità generali e modelli di funzionamento che le singole regioni
metteranno in atto in quanto specifici per il loro territorio.
Emergono gruppi professionali che cominciano a porsi dei problemi di identità sul proprio ruolo e si
assiste all’estinzione del “movimento” in favore dell’istituzionalizzazione.
Negli anni ’90 assistiamo, invece, a quella che viene chiamata la “crisi del welfare state”.
Cambiano le premesse socio-economiche di base e i dati sociali importanti: c’è un invecchiamento
progressivo della popolazione, l’ingresso di nuovi soggetti (per es.il fenomeno dell’immigrazione).
Crescono le aspettative perché ormai siamo usciti dalla fase del dopoguerra , siamo in una fase di
boom economico e soprattutto non viene realizzato quello che doveva essere un principio della
Welfare State e cioè la ridistribuzione delle ricchezza (v.di evasione fiscale e relativi problemi).
La situazione di crisi che si verifica è data dallo squilibrio tra bisogni e risorse disponibili, tra
domanda e offerta di prestazioni e dall’incapacità del sistema di adattarsi alle nuove richieste.
In che modo si puo’ pensare a riprogettare il welfare State?
Non ci sono soluzioni, ma solo indicazioni:

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• Collaborazione tra pubblico, privato mercantile e privato sociale
• Costruire un nuovo equilibrio tra servizi per tutti (universalismo) e selettività delle prestazioni
• Nuovo ruolo per il pubblico che si traduce nell’equazione: - gestione e + programmazione,
verifica e controllo della gestione.
• Questo ci porta a passare dal concetto di Welfare State a quelli di welfare Community e
welfare Society.

LEZIONE N° 2 Æ Origini storiche della Psicologia di Comunità


(Prof.ssa Francescato)

Argomenti della lezione


• Nascita e sviluppo (1965-2003)
• Evoluzione della disciplina a livello internazionale (1971-2003)
• Sviluppo di una prospettiva europea (1976-2003)

Gli obiettivi della lezione sono:


• Panoramica evoluzione della psicologia di comunità negli USA e sviluppi teorici e metodologici
più salienti.
• Dove e perché si è diffusa la Psicologia di comunità?
• Sviluppo di una prospettiva europea

Gli anni ’60 sono stati anni di contestazione: quella studentesca, quella dei neri d’america, il
movimento femminista, quello per i diritti civili etc.

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Si puo’ dire che gli anni ’60, dal Maggio europeo fino alla contestazione statunitense, sono stati anni
di grande fermento sociale, di lotte per i diritti sociali e civili.
Che differenza c’è fra diritti sociali e diritti civili?
I diritti civili sono quelli tipo il diritto di voto (negli USA i neri non potevano votare), mentre i diritti
sociali sono dei diritti che alcuni non hanno ancora oggi quali il diritto allo studio, quello alla Sanità,
il diritto a un lavoro, a una casa.
Questi sono diritti che non sono dati alla nascita, ma che vengono conquistati con la lotta da gruppi
che usano proprio questo mezzo per ottenerli.
Dunque gli anni ’60 sono stati degli anni particolari negli USA perché hanno cominciato a criticare
l’idea americana che “si nasce tutti uguali”: non era vero.
Non c’erano uguali opportunità per le donne, per i neri ed è proprio in questo contesto, nel 1963,
che nasce grazie al presidente Kennedy il “Community Mental Act” : è un fatto molto importante
perché , per la prima volta nella storia, una Legge indica che i malati mentali non vanno rinchiusi nei
manicomi, ma vanno trattati nel community, cioè nella loro comunità e nel loro ambiente, senza
isolarli.
Questa, che al giorno d’oggi sembra una cosa normale, per l’epoca fu una svolta di pensiero.
La psicologia di comunità, come disciplina, nasce formalmente nel 1965 con il Convegno di
Fondazione: è un convegno che avviene nel Massachussetts al quale partecipano psicologi clinici,
psichiatri e studiosi che hanno detto “FORSE occorre cambiare il modo in cui noi trattiamo la malattia
mentale e il disagio mentale. Dobbiamo passare da un’enfasi posta sull’individuo (la psicoanalisi, la
psicologia individuale) ad un’enfasi posta sulla comunità”.
E allora si sono chiesti “ come possiamo chiamare questa nuova psicologia che non si occupa più solo
degli individui, ma dell’interazione tra mente, corpo, comportamenti e azioni in contesti sociali quali
la scuola, la famiglia, il lavoro e la comunità locale?
Hanno avuto l’idea di chiamarla Community Psychology….. pero’: non ci arrivavo da sola!!!
Perché si è sentito il bisogno di creare una nuova disciplina?
La psicologia esisteva negli USA da decenni, come anche la psicoterapia e la psicodiagnostica (cioè
l’uso dei test); tuttavia si è sentito il bisogno di creare una nuova disciplina perché non si era più
soddisfatti dei progressi della psicologia clinica materia che si occupa delle persone che
soffrono, che hanno un disagio e le tratta attraverso la diagnosi e la psicoterapia.
Questo metodo di trattamento individuale richiedeva molto tempo, molte energie e molti fondi e
pero’ lasciava irrisolti gli aspetti sociali dei problemi individuali..
È per questa ragione, per teorizzare nuovi metodi di affrontare la malattia mentale, nuovi modi di
affrontare il disagio mentale che nasce la disciplina.
Le prime ipotesi avanzate sul perché creare una nuova disciplina sono le seguenti:

Per promuovere Promuovere non vuol dire solo intervenire dopo che il disagio è
interventi avvenuto, ma vuol dire anche promuovere la qualità della vita, cioè agire
preventivi a livello prima Æ prevenire.
di comunità locali Questo non vuol dire prevenire solo il disagio mentale, ma promuovere il
positivo, il benessere e intervenire prima che il malessere avvenga a
livello di comunità.
Si interviene sull’interazione tra disagio del singolo e contesto sociale e
territoriale in cui l’individuo è inserito.
Per sviluppare La maggior parte dei problemi che abbiamo ha più versanti e non
approcci soltanto psicologici, ma anche economici Æ ad es. la disoccupazione è un
interdisciplinari al problema psicologico perché puo’ dare depressione e causare problemi
disagio mentale e sessuali, ma ha una componente economica e sociale, per cui non
sociale diciamo che la maggior parte dei problemi sociali o mentali hanno
bisogno di un approccio pluridisciplinare.

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La visione della psicologia di comunità integra l’aspetto individuale e quello collettivo in quanto ogni
problema ha una dimensione personale soggettiva, una oggettiva e una sociale (v.di il fenomeno
della dispersione scolastica).
Tornando alla storia, nel 1966 viene fondata in America la Prima Divisione di Psicologia di Comunità.
Che vuol dire?
Che un gruppo di psicologi abbastanza grande, forma una divisione professionale per cercare di dare
le basi attraverso un giornale, una rivista specifica e attraverso un’associazione professionale che in
qualche modo aiuta gli psicologi di comunità a sviluppare teorie e tecniche.
Il 1970 è una data importante: (Head Start Æ punto di partenza) perché sono stati creati degli
strumenti alternativi a quelli che usavano tradizionalmente gli psicologi clinici.

Quali sono questi strumenti alternativi?

La crisi è un momento importante in cui una persona puo’ dare una

svolta alla propria vita, sia in senso positivo che negativo.

Gli psicologi di comunità intervengono sulla crisi in due modi:


INTERVENTO SULLA
¾ Su quelle prevedibili, che sono quelle che affrontiamo
CRISI
durante il percorso di vita, preparando le persone a queste crisi
(se sono preparata ad un evento lo affronto meglio)
¾ Su quelle non prevedibili (tipo calamità naturali)
mobilitando le risorse sociali attorno alla persona colpita e
fornendo sostegno sociale.
Questo secondo tipo di intervento è molto intenso e dura poche

settimane in quanto , in questo caso, il momento di crisi è un

momento breve, per cui diventa importante intervenire proprio nel

momento di crisi.

Infatti in questo momento siamo più flessibili, più in grado di


cambiare rispetto ad altri momenti della nostra esistenza.
In America si sono accorti che ci sono molte persone che non si
rivolgono allo psicologo, ma al prete, alla vicina di casa, al bar-man
raccontandogli i propri problemi e allora hanno pensato che sarebbe
stato interessante fare una consulenza a queste persone (bar-man,
prete, vicina di casa) per fare in modo che riconoscessero meglio
CONSULENZA DI quando c’era un disagio grave e sapessero a chi demandare la
IGIENE MENTALE questione.
Da questa idea di consulenza di igiene mentale è poi venuta fuori
quella che gli psicologi dovessero fare una consulenza agli insegnati,
agli avvocati che si occupano di separazione, agli infermieri, ai
medici, a quelle persone cioè che nel loro lavoro hanno spesso a che
fare con persone in crisi e con disagio mentale.
Dunque non si agisce più sulla singola persona, ma si stimola
l’ambiente che la circonda per far si che le cose cambino.
Perché intervento pianificato? Il cambiamento avviene tutti i giorni, e
CAMBIAMENTO pianificato vuol dire pensato, studiato.

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PIANIFICATO NELLE Cio’ vuol dire che anche le istituzioni possono progettare un
COMUNITA’ LOCALI cambiamento, e lo fanno attraverso la ricerca/intervento che prevede
l’individuazione di un obiettivo, il coinvolgimento delle persone e la
valutazione dell’efficacia del cambiamento… ecco perché “pianificato”.

Negli anni ’70 e ’80 la psicologia di comunità si sviluppa molto rapidamente e


comincia a differenziarsi in due ali:

ALA RADICALE ALA MODERATA


Il suo principio chiave è “non biasimare la I principi e gli strumenti dell’area moderata
vittima”. sono:
L’idea che hanno questi psicologi radicali è • Empowerment , cioè rendere
quella che la sfortuna o fortuna di un individuo possibile, potenziare.
non dipenda solo dalla persona in sé, ma A livello individuale vuol dire poter sognare di
anche dall’ambiente/contesto in cui vive e in cambiare e pensare che ci si riuscirà, mentre a
cui è cresciuto. livello di gruppo lo identifica come un gruppo
Non biasimare la vittima è anche il titolo di un competente che sa raggiungere i propri
libro scritto da Ryan. obiettivi.
Altro principio importante è “NO Inoltre a livello organizzativo sta a significare
all’istituzionalizzazione della community che l’organizzazione funziona correttamente e
organizing e SI alla creazione di setting che le persone agiscono in squadra per
alternativi”. raggiungere gli obiettivi comuni.
E quindi l’empowerment è anche lo scopo di
quest’ala della psicologia di comunità: creare
persone che si responsabilizzino e che siano
anche pronte a cambiare Æ si viene a
costruire, in questo modo, il capitale
sociale.

Come si costruisce il capitale sociale?


Tramite il mutuo aiuto (io mi sviluppo e cresco se gli altri mi aiutano e se io aiuto loro) , attraverso
forme di sostegno sociale (l’aiuto che io presto agli altri nei momenti di difficoltà e che mi viene
restituito quando sono io ad essere in crisi).
Il sostegno sociale si divide in:
¾ Sostegno emotivo: è l’aiuto che io do alle persone in difficoltà e che ricevo nei momenti di
difficoltà.
¾ Sostegno pratico
¾ Sostegno informativo
Questi tre tipi di sostegno creano il famoso capitale sociale, ossia quel senso di fiducia negli altri e di
reciprocità per cui siamo tutti interconnessi.

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L’altro punto importante è la valorizzazione delle diversità culturali, etniche e sessuali.
Andiamo ora a vedere dove e come si è sviluppata nei vari paesi questa disciplina

Paese
Argomento centrale Motivo sviluppo argomento
Stessa lingua Usa e situazione Questi paesi tengono molto alla
socio-economica simile. bellezza paesaggistica e alla
Interesse centrato sull’ambiente particolare fauna delle loro
e sull’ecologia. terre, quindi era ovvio che si
Australia, Canada e Nuova alleassero con gli psicologi
• Australia: alleanza
Zelanda ambientalisti e con le minoranze
psic.dell’ambiente e
ecologiste per sensibilizzare
minoranze ecologiste.
(sviluppo quasi quanta più gente possibile.
• Nuova Zelanda:
contemporaneo a quello
minoranze aborigene e
USA)
sviluppo rurale.
• Canada: si sono occupati
dei problemi di salute
mentale e si pubblica il
Canadian journal of
Mental Health.
Interesse centrato sullo Paese perennemente in guerra.
stress da guerra. C’è quindi la necessità di
Dal 1985 ci si occupa anche progettare interventi per
Israele e Sudafrica degli effetti della violenza riappacificare i rapporti tra
razziale sui bambini e di Arabi ed Ebrei.
quelli relativi all’Apartheid

Si è sviluppata maggiormente Sono paesi in via di sviluppo


America latina l’ala radicale. dove le condizioni materiali di
vita sono spesso precarie,
dunque si fa più attenzione alla
persona inserita nel contesto
ambientale.

A questo punto, la domanda che dobbiamo porci è: cosa accomuna i diversi sviluppi della Psicologia
di comunità nei diversi paesi?
RISP. : il desiderio di andare oltre la psicologia individuale, di mettere insieme il contesto,
l’ambiente, la persona e di guardare le loro interazioni.
Nel 1992 c’è il Primo Convegno Internazionale organizzato da Ornelas in Portogallo, al quale
parteciparono alcuni tra i più importanti esponenti della disciplina: Ornelas (ovviamente), Stark
(Germania) e Francescato (Italia).
Essi decisero di promuovere il confronto tra gli psicologi di comunità europei rispetto a quanto
sviluppato negli USA e , a Roma nel 1995, nasce l’ENPC che, praticamente è la rete europea degli
psicologi di comunità, con lo scopo di diffondere la disciplina nei contesti universitari e professionali.
Da quel momento, ogni anno sono stati fatti dei convegni in posti diversi e i più importanti a livello
internazionale sono:
• Roma, 1995
• Lisbona, 1998

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• Bergen, 2000
• Barcellona, 2002
• Berlino, 2004

Da questi convegni è venuto fuori che ci sono dei limiti notevoli nell’apporto teorico degli USA; ora,
bisogna sapere che una disciplina psicologica si sviluppa sempre in interazione con l’ambiente socio-
politico in cui si trova, quindi negli USA si è sviluppata in un certo modo, e le carenze principali
stanno nella sua troppa pragmaticità (cio’ a svantaggio della teoria: in USA si teorizza poco), nel
fatto che gli strumenti di intervento sono troppo centrati sui singoli e poco connessi ad una teoria
della pratica ( in America, se si esclude il periodo degli anni ‘60/’70 in cui ci furono le famose lotte
per i diritti civili e sociali, si tende ad essere statici , a mantenere cioè le diverse stratificazioni sociali
e di conseguenza non c’è nemmeno un interessamento per i gruppi – se non di piccolissime
dimensioni – ma tutto ruota intorno al singolo Æ ottica individualista con forte competizione tra i
singoli individui).
Che cosa hanno fatto allora gli psicologi di comunità europei?
Hanno cercato di darsi degli obiettivi europei: rafforzare le basi teoriche, sviluppare tecniche per dei
mutamenti organizzativi e di rete, dare importanza al ruolo sociale a livello eziologico.
Dato che ogni disciplina si sviluppa in un determinato contesto, a questo punto è molto importante il
confronto con gli USA, soprattutto alla luce del fenomeno della globalizzazione che tende ad
appiattire le differenze rendendoci tutti un po’ americani (globalizzazione = americanizzazione…..
devo dire che i Mc Donald’s vanno alla grande!!!)
Gli europei non pensano che “gli uomini nascono tutti uguali” ma in un contesto sociale gerarchico
creato storicamente (dunque non naturale e immodificabile, mentre per gli psicologi di comunità
europei le cose non stanno affatto così, altrimenti non potremmo intervenire per promuovere un

Ed io non starei qui a


studiare psic.di
comunità, ma
spaparanzata su un
lettino a crogiolarmi al IRENE-PENSIERO
sole!

qualsivoglia cambiamento…)
La psicologia di comunità va oltre l’ottica naturalistica che vede i processi psicologici interni
all’individuo e che vede l’essere umano e la società come processi naturali e immutabili (Amerio,
2000), perché noi crediamo che lo sviluppo avvenga si su base genetica, ma che sia in
interazione con l’ambiente e il sistema in cui viviamo.
Un’altra differenza fondamentale rispetto agli USA è l’importanza che noi diamo alla storia,
cioè al fatto che le diverse ideologie politiche legittimizzino delle stratificazioni gerarchiche facendole
sembrare naturali: noi ci proponiamo di screditare questa visione della storia.
La storia ha creato delle differenze, ma queste non sono ne’ legittime, ne’ naturali e
tantomeno giuste e immutabili.
Altra concezione importante “made in USA” è quella secondo la quale “l’uomo si fa da dè (tipo
“ognuno è artefice del proprio destino”): un uomo non si fa totalmente da sé (anche perché
comunque lo genera una donna…. Te lo immagini un uomo “incinto” alle prese con le nausee e con le
doglie?) e noi europei non crediamo a questo mito perché implica che la persona abbia sempre la
piena responsabilità della propria vita, cosa che non sempre si verifica.

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Da sottolineare il fatto che negli Usa c’è anche il fattore “autobiasimo dei perdenti” (cioè
l’autocolpevolizzazione) che genera una sorta di circolo vizioso, portando a delle profezie che si
autoavverano e che non fanno altro che alimentare la visione della storia che hanno gli americani
(v.di sopra riguardo alle stratificazioni sociali).
In Europa c’è una sorta di cultura per le lotte collettive per i diritti civili umani e sociali; allora cos’è
che è molto importante per noi?
Ognuno di noi ha una storia individuale, in stretta relazione con i valori di famiglia, che ci spinge ad
essere quello che siamo o a ribellarci a quello che siamo, ma noi partiamo da un evento che in
qualche modo ci condiziona, ci dà opportunità e ci pone dei rischi.
Questo perché il problema centrale è che le storie individuali sono sempre in, parte, storie
collettive, anche se noi non ce ne accorgiamo; noi siamo convinti di “fare da soli” , in realtà noi
siamo parte di questa collettività.
Altro elemento importante per noi europei riguarda le connessioni tra comunità locali, globali e
virtuali che si traduce in una gamma più vasta di scelte che, a loro volta, possono creare benefici, ma
anche confusione.
Cosa hanno fatto, dunque, gli europei?
Hanno dato più importanza alla teoria, alla storia e al bisogno di creare degli strumenti che non
fossero incentrati sull’individuo soltanto, ma sul gruppo, sull’organizzazione, sul lavoro di rete e
soprattutto sulle comunità locali.

LEZIONE N° 3 Æ Le basi teoriche della Psicologia di Comunità


(Prof.ssa Zani)

Argomenti della lezione:


• Il contributo di Kurt Lewin
• I Principi dell’approccio ecologico
• La psicologia ecologica di Roger Barker
• L’ecologia dello sviluppo di Bronfenbrenner
• La sintesi di Murrel
• La teoria della crisi di Barbara Dohrenwend (vero e proprio modello teorico con alcune
direttive pratiche che costituiscono i punti di riferimento significativi per lo sviluppo della
disciplina).

Il principio fondamentale che è alla base di tutta l’elaborazione della costruzione teorica della
psicologia di comunità, è sicuramente quello riassumibile nella formula “ La persona nel
contesto” : la psicologia di comunità infatti considera le persone all’interno del contesto e dei
sistemi sociali di cui fanno parte (non è un approccio di tipo individualista).
Il contesto di cui parliamo è un contesto che ha diverse dimensioni multiple e differenti, più o meno
connesse tra di loro.
Partiamo con Kurt Lewin (1890-1947): egli è considerato unanimemente il fondatore della
psicologia sociale, si colloca in un periodo storico particolare che, pur precedendo la nascita della
psicologia di comunità, non impedisce ad alcune sue intuizioni, ad alcune elaborazioni, di essere
comunque molto importanti per la psicologia di comunità.

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In particolare ne analizzeremo tre.
1) La teoria di campo: (1951, lavoro pubblicato postumo, come la maggior parte dei suoi
lavori).
Dice Lewin, che più che una teoria, deve essere considerata come un metodo di analisi dei
rapporti causali e di elaborazione dei costrutti scientifici che viene poi formalizzato in asserzioni
generali sulle condizioni di mutamento.
Questo mutamento si specifica in tre aree:
• Spazio di vita: si intende la persona e l’ambiente percepito dalla persona (quindi non
oggettivo).
Contiene tutti i fatti, gli oggetti, gli elementi significativi dal punto di vista psicologico che
determinano il comportamento, dunque un ambiente psicologico rilevante per il soggetto.
¾ Processi e fatti che accadono nel mondo fisico e sociale, quindi al di fuori dello spazio di
vita del soggetto e che non influenzano momentaneamente tale spazio.
¾ La zona di confine, cioè quello spazio di vita del mondo fisico e sociale che influisce sullo
stato di vita in quel dato momento (es: la percezione).

La teoria di campo si puo’ riassumere in questa formula

C = comportamento
C = f (PA) f = è funzione di
P = persone
A = ambiente

Ossia il comportamento è funzione della persona, dell’ambiente e della loro interazione.


La formula serve a dare una sorta di scientificità alla sua teoria (ricordiamo che Lewin visse in un
periodo in cui si matematicizzava tutto allo scopo di rendere la psicologia una disciplina scientifica,
per questo nascevano i test e la psicometria).
Si tratta di un campo psicologico ( da notare che il concetto di campo è proprio della fisica) inteso
come l’insieme, la totalità dei fatti coesistenti concepiti come mutuamente interdipendenti per
l’individuo in un dato momento.
Quindi l’analisi deve riguardare il momento dato, il “qui ed ora”, un qui ed ora che pero’ tiene conto
anche di una dimensione temporale.
Dunque la causa di un atto è da ricondurre ai rapporti tra le diverse forme presenti nel campo
psicologico e non in una tendenza dell’individuo.
Anche qui ritorna il concetto di campo, con le sue valenze positive e negative (forze di attrazione e
forze di repulsione) per spiegare appunto la dinamicità dell’interazione uomo-ambiente.
Il campo, dunque, costituisce l’unità di analisi che lega costruttivamente il comportamento (o
qualsiasi avvenimento mentale), la persone e l’ambiente.
La persona forma con l’ambiente una totalità interagente unitaria; l’ambiente è un ambiente
psicologico rilevante per l’individuo, cioè un insieme di oggetti, persone, attività e situazioni con cui
l’individuo è in rapporto in modo più o meno consapevole.
Va ricordato che il soggetto è analizzato in una situazione che è “qui ed ora” , ma è un momento che
tiene presente anche la dimensione storica in cui rientrano alcuni elementi che non fanno parte del
presente e che considerano anche la dimensione di realtà/irrealtà relativa agli eventi possibili ed
eventuali.
La struttura dell’ambiente e le forze che sono presenti nel campo variano anche con i bisogni e con i
desideri dell’individuo Æ teoria dei bisogni di Lewin.
Sono bisogni intesi non necessariamente come vuoti da colmare, ma sono intesi come tensione,
come raggiungimento di un desiderio.

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Volendo riassumere brevemente quella che è la lezione di questo grande maestro, possiamo ritenere
questi elementi: l’importanza di un’ottica fenomenologica e il primato della realtà percepita su quella
fisico-oggettiva come prospettiva irrinunciabile dell’indagine psicologica.
La prima analisi di campo, dice Lewin, viene compiuta dal punto di vista dell’Ecologia psicologica:
occorre studiare prima i dati non psicologici, che condizionano la vita degli individui, quindi si puo’
procedere nell’esame dei dati psicologici.
2) dinamica di gruppo: (1948) Gruppo = totalità dinamica basata sull’interdipendenza
piuttosto che sulla somiglianza dei suoi membri (il gruppo come qualcosa che è più della
somma dei suoi membri).
Questo è importante per capire cosa è un gruppo e quando un semplice aggregato di persone puo’
definirsi tale, nel senso che non basta avere degli obiettivi comuni, ma anche avere dei legami di
interdipendenza.
Il gruppo è un riferimento essenziale per capire il comportamento individuale, è in grado di
esprimere valori e atteggiamenti diversi da quelli dei suoi membri (in virtù del fatto che il gruppo è
una totalità dinamica diversa dalla semplice somma delle sue parti) e ricopre un ruolo di mediazione
tra l’individuo e il sistema sociale.
Attraverso l’analisi di gruppo si possono anche indagare i meccanismi alla base di aggregazioni più
ampie.
3) metodo dell’action/research: è il metodo di ricerca per eccellenza in psicologia di
comunità.
Vediamo ora quali sono i principi dell’approccio ecologico.
L’approccio ecologico è un approccio nato anch’esso al di fuori dell’ambito della psicologia di
comunità e, come dice il termine stesso (ecologia), vuol dire studio sull’ambiente.
A noi questo approccio interessa come metafora, dicono Levine e Perkins, nel momento in cui ci aiuta
a prendere in considerazione delle unità più ampie rispetto al singolo individuo nel momento in cui
sposta l’attenzione da un setting sperimentale di laboratorio (quello del contesto clinico) a un setting
invece di tipo naturalistico sul campo, e nel momento in cui considera il comportamento umano come
il risultato di un adattamento che non è da considerarsi in senso passivo, ma in senso attivo come
cambiamento reciproco.
Questo approccio è stato articolato da autori, come ad es. Kelly, in principi che ne costituiscono la
base; essi sono:
• interdipendenza dei membri all’interno di una realtà sociale
• ciclicità delle risorse (creazione, definizione e distribuzione delle risorse)
• adattamento tra individuo e ambiente (v.di nicchia ecologica = habitat con risorse che
favoriscono oppure ostacolano lo sviluppo del soggetto)
• successione (proprietà dinamiche dell’ambiente inerenti ai cambiamenti e alle trasformazioni).

Il tema dell’approccio ecologico è stato sviluppato in particolare da Roger Barker.


Barker è stato un allievo di Lewin che ha approfondito in particolare la seconda componente del
modello lewiniano ( C=f (PA) ), cioè il concetto di ambiente, rompendo con il metodo sperimentale di
laboratorio a favore dell’osservazione sul campo del comportamento umano.
Lui parla di “comportamento pre-percettivo” e parte con una stazione di osservazione in un
piccolo paesino del Kansas (Oskaloosa, 1947) con l’obiettivo di comprendere come l’ambiente
influenza il comportamento; essendo uno psicologo dell’evoluzione, era interessato a capire come
avveniva lo sviluppo dei bambini e come vivere in un determinato ambiente potesse influenzare tale
sviluppo.
E lo fece attraverso un metodo innovativo per l’epoca: l’osservazione naturalistica minuziosa volta a
cogliere il flusso del comportamento e ad individuare gli episodi comportamentali.
In questo caso il ruolo dello psicologo è quello di semplice trasduttore dei fenomeni osservati (questo
oggi è oggetto di critica perché sappiamo che non ci sono mai osservazioni imparziali, dato che la
presenza di un osservatore risulta essere sempre, più o meno, intrusiva).

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Barker ci lascia il concetto di Behaviour Setting intendendo con questo un pattern stabile di
comportamenti e ambienti, una unità sovraindividuale che dà stabilità e omogeneità ai
comportamenti individuali al di là della varietà degli individui che partecipano al setting.
In alcuni ambiti tutti mettono in atto gli stessi comportamenti (es.Chiesa, cinema, negozio, scuola).
Barker introduce anche altri concetti:
• programma di setting: è l’insieme delle sequenze prescritte, ordinate nel tempo, per le attività
e gli scambi tra persone e oggetti nel setting. Nel setting c’è un grado di penetrazione
diverso, a seconda del ruolo che uno ha.
• Teoria del dimensionamento relativo: questo è un contributo interessante, Barker negli anni
’60 studia quanto gli ambienti grandi, in particolare le scuole, rispetto a quelli piccoli, si
differenziano nel consentire agli individui che ne fanno parte di esercitare un maggiore o
minore numero di ruoli (nelle grandi scuole i ruoli erano limitati, mentre in quelle piccole le
persone sentono di avere una maggiore importanza).
Questo darà luogo a quei movimenti, a quelle teorie che sostenevano “piccolo è bello” per cui la
preferenza per le piccole strutture rispetto alle grandi istituzioni.
Quali sono i limiti della prospettiva di Barker?
• Manca un punto di vista fenomenologico soggettivo
• Per Barker l’unica realtà di indagine è quella osservata e osservabile nel contesto immediato.
Occorre, invece, recuperare i processi di interpretazione e attribuzione di significati al setting, occorre
una prospettiva più dinamica e contestualizzata.
Queste critiche gli vennero rivolte da Ulrie Bronfenbrenner.
Anche lui è un autore che si inserisce fra gli allievi di Lewin e, partendo da una posizione di critica a
Barker, nel suo lavoro intitolato “Ecologia dello sviluppo umano” (1979, tradotto in italiano nel 1986),
presenta il suo concetto di ecologia dello sviluppo umano, intendendo con cio’ lo studio
scientifico del progressivo adattamento reciproco fra un essere umano attivo e le proprietà
mutevoli delle situazioni ambientali immediate.
Questa è una definizione complessa che tiene presenti alcuni concetti fondamentali: lo studio
scientifico di un adattamento progressivo (qui c’è una dimensione temporale), reciproco tra un tra un
soggetto attivo (l’essere umano considerato non più come un soggetto passivo, ma agente) e
l’ambiente.
Qui parliamo di un adattamento reciproco in cui le relazioni non sono stabili, ma hanno delle
proprietà mutevoli.
L’ambiente ecologico di cui parla Bronfenbrenner è una serie ordinata di strutture concentriche (il suo
maggior contributo sta proprio nell’aver individuato quattro diversi livelli contestuali ) che vanno dal
più piccolo al più grande.

Microsistema

Esosistema

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MIROSISTEMAÆ schema di attività, ruoli e relazioni interpersonali di cui l’individuo ha esperienza
diretta (famiglia, scuola, gruppo di pari).

MESOSISTEMAÆ è un sistema di microsistemi che comprende le interconnessioni tra due o più


situazioni ambientali (inter-relazione casa/scuola, ospedale/famiglia).

ESOSISTEMAÆ comprende i sistemi di dui la persona non ha esperienza diretta, ma che


influenzano i suoi sistemi micro e meso (organi collegiali della scuola, posto di lavoro dei genitori).

MACROSISTEMAÆ comprende i sistemi di ambito più ampio che determinano l’ideologia e la


struttura sociale in cui operano la persona e i suoi sistemi di complessità minore (mercato del lavoro;
ruoli sessuali).

Bronfenbrenner lavora su quel concetto di nicchia ecologica, nicchia intesa per precisare proprio
come determinate zone ambientali particolarmente favorevoli, o sfavorevoli, e determinati sistemi
possono avere delle caratteristiche favorevoli/sfavorevoli per lo sviluppo umano.
Dunque lo sviluppo umano non è predeterminato, ma ci sono degli elementi nell’ambiente e nel
sistema che possono favorirlo o meno (no alla concezione deterministica).
L’altro approccio, che insieme a quello ecologico verrà poi utilizzato in psicologia di comunità, è
l’approccio sistemico.
Secondo l’approccio sistemico i sistemi sociali sono di fondamentale importanza nello spiegare il
comportamento degli individui, e per sistema aperto si intende un’unità complessa e organizzata,
caratterizzata dall’interdipendenza delle parti e dalla relazione con l’esterno.
Le proprietà di questi sistemi sono:
• La totalità (intesa come globalità e non come sommatività)
• La retroazione (circolarità, non unilinearità)
• Equifinalità-multifinalità (i risultati dipendono dalla natura del processo e dai parametri del
sistema).

Murrel compie, nel 1973, un tentativo di sintesi, fa un po’ il punto della situazione delle elaborazioni
fatte fino a quel momento e dice che è importante studiare le transazioni tra reti, quindi:
Æ sviluppare dei metodi di intervento per migliorare il “fit” persona / ambiente (lui si centra molto
sui metodi di intervento)
Æ aumentare le opportunità psico-sociali dell’individuo.
Scopo dell’analisi è cogliere gli aspetti di congruenza/conflitto nelle transazioni tra livelli sociali:
individuoÆpiccolo gruppoÆsistemaÆreti di sistemi.
Il benessere, secondo l’autore, è conseguenza dell’accomodamento intersistemico, inteso come il
grado di compatibilità tra i diversi sistemi sociali nell’interagire con l’individuo, quindi i sistemi sociali
di cui l’individuo fa parte devono essere compatibili fra di loro, altrimenti si crea una situazione di
malessere (il benessere dipende infatti dal loro grado di accomodamento).
Ancora, l’accordo psico-sociale, altro importante concetto di Murrel, è inteso come la congruenza tra
la capacità del soggetto e le richieste/risorse dei sistemi di appartenenza.
Se le richieste dei sistemi di appartenenza sono superiori alle capacità del soggetto c’è una situazione
di squilibrio.
Murrrel individua anche, e questo è il suo contributo più interessante, una serie di tipologie di
intervento

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RICOLLOCAMENTO
INDIVIDUALE
(es.affido) Interventi centrati sulla persona
INTERVENTO
SULL’INDIVIDUO
(es.psicoterapia)

INTERVENTI SULLA
POPOLAZIONE

INTERVENTI SUL Interventi centrati sulla comunità


SISTEMA SOCIALE

INTERVENTO
INTERSISTEMICO
Questa classificazione è importante perché amplia i campi d’azione
INTERVENTO dello psicologo; ora non ci si limita più all’individuo, ma si guarda
SULL’INTERA RETE anche alla popolazione, al sistema sociale, alle relazioni tra sistemi
SOCIALE sociali e tra sistemi sociali e individuo.
Veniamo adesso a un altro filone di elaborazione teorica che è interessante per quanto riguarda i tipi
di analisi e di intervento che possono essere specifici dello psicologo di comunità, che è tutto il
filone dello studio sullo strss e il coping.
Lo stress, secondo il modello di Lazarus e Folkman (1984) è inteso come un insieme di processi
che comportano transazioni tra persona e ambiente.
In questo vengono considerati anche dei processi di valutazione cognitiva, quindi si sta parlando di
un modello transazionale cognitivo, perché l’interesse dei due autori è centrato sui processi cognitivi
di valutazione, che per loro è: primaria, secondaria e terziaria.
Ecco,che cos’è il coping? In italiano si traduce “fronteggiamento”.
Secondo Lazarus e Folkman sono gli sforzi cognitivi e comportamentali messi in atto per affrontare
richieste valutate come al di sopra delle risorse di una persona.
I due autori individuano gli stili di coping, quindi stili comportamentali, centrati sul problema oppure
centrati sulle emozioni e le risorse di coping, che possono essere personali o socio-ecologiche.
Il loro modello prevede una sorta di diagramma di flusso che parte dal verificarsi di un
evento/difficoltà, che viene sottoposto ad una valutazione primaria la quale fa in modo che questo
evento venga considerato come evento stressante oppure irrilevante o positivo.
MODELLO DI LAZARUS / FOLKMAN

EVENTO /
DIFFICOLTA’
EVENTO VALUTAZ.
STRESSANTE SECONDARIA COPING
VALUTAZIONE
PRIMARIA EVENTO
IRRILEVANTE Centrato sul Centrato sulle
problema emozioni
EVENTO
POSITIVO

Messa in atto di un
comportamento

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VALUTAZ.
TERZIARIA

Esito positivo del Esito negativo del


Quando un evento viene valutato come stressante (un evento di per sé non è mai
comportamento stressante,
comportamento
affinché lo sia deve essere percepito come tale dal soggetto), interviene una seconda valutazione
(valutaz.secondaria) che definisce qual’ è la risposta che bisogna dare a questo evento e, in base a
cio’, il soggetto mette in atto degli stili di coping che possono essere centrati sul problema o sulle
emozioni; l’esito finale è, appunto, il comportamento che il soggetto mette in atto e viene sottoposto
ad un ulteriore valutazione per capire se questo suo esito è stato positivo o negativo.
Esiste anche un altro modello che parte dalla considerazione di un evento di vita stressante a cui
puo’ seguire una reazione transitoria allo stress che puo’ portare a tre possibili esiti: 1) crescita
psicologica
2) nessun cambiamento psicologico
3) psicopatologia
che cosa fa sì che avvenga l’uno piuttosto che l’altro esito?
L’intervento di quelli che la Dohrenwend chiama mediatori situazionali, cioè dei processi che
intervengono sia come componenti della persona (stili di coping, valori, risorse) che come
componenti dell’ambiente (sostegno sociale).
I punti di forza del modello di barbara Dohrenwend sono:
• La psicopatologia pensata come uno degli esiti possibili degli eventi stressanti
• Il ruolo dei mediatori psicologici
• Il ruolo dei mediatori situazionali
• La possibilità di intervenire in diversi punti del processo (concetto di Timing of Help)
• Importanza delle strategie preventive.

MODELLO DELLA CRISI DI BARBARA DOHRENWEND

MEDIATORI SITUAZIONALI

CRESCITA PSICOLOGICA

REAZIONI TRANSITORIE
ALLO STRESS NESSUN CAMBIAMENTO
PSICOLOGICO

PSICOPATOLOGIA

LEZIONE N° 4 Æ Verso una teoria tecnica in Psicologia di Comunità


(Prof.ssa Francescato)
MEDIATORI PSICOLOGICI

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Argomenti della lezione:
• Apporti teorici europei
• Premesse teoriche degli interventi e principi guida

Obiettivi della lezione:


• Discutere i contributi di studiosi europei e statunitensi all’elaborazione di una teoria della
tecnica
• Analizzare le premesse teoriche su cui poggiano le strategie di intervento di psicologia di
comunità
• Delineare i principi guida per una tecnica in psicologia di comunità

Cominciamo con i contributi teorici europei (I concetti chiave che facilitano il collegamento nei campi
persona e ambiente Æ Orford).
Orford propone tre costrutti importanti che sono: identità, status e autostima tutti
condizionabili dai contesti sociali di appartenenza.
Secondo l’autore ci sono quattro modalità ambientali che ostacolano o facilitano lo sviluppo dei
tre costrutti sopraindicati:

È il motivo per cui, ad es. reputiamo importante trovare un


lavoro. Infatti avere un ruolo che ci sappia valorizzare
Ricoprire un ruolo valorizzato aumenta l’autostima e accresce il nostro senso di identità (sia
personale che con la comunità)
È un concetto molto importante: nella vita noi abbiamo degli
eventi che non possiamo controllare (es.calamità naturali) e
altri su cui abbiamo un certo margine di controllo (v.di tumore
ai polmoni e vizio del fumo) che distinguiamo in Locus Of
Sviluppare senso di controllo Control interno ed esterno.
Questo senso di controllo, che nella nostra vita ha un ruolo
importantissimo, viene sviluppato dai contesti in cui viviamo.

Usufruire di sostegno v.di mutuo aiuto


sociale

È un fattore molto importante perché è legato alla speranza.


Avere opportunità di vita Le persone possono anche sottostare a condizioni di vita
future durissime se pensano di avere delle opportunità migliori per il
futuro.

Ci sono poi dei concetti ponte, così chiamati perché mediano tra il personale e il sociale:
Francescato ne individua 4 : crisi (cioè il momento in cui l’individuo è disposto a cambiare perché
non reagisce più come prima, perché ha davanti a sé uno stress ambientale o esterno che lo spinge
a fare qualcos’altro), racconto (che è la modalità con cui racconto cosa mi succede, che spiegazione
do a quello che mi succede (v.di Locus Of Control interno ed esterno), sostegno sociale ed
empowerment.

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Questi quattro concetti si chiamano ponte perché mediano tra la vita personale e quella sociale.
Vi faccio un esempio: quando due persone si separano di solito hanno una crisi personale, ma il
modo in cui raccontano la loro storia agli amici più intimi, il sostegno che ricevono dagli amici, dai
parenti e dagli avvocati possono poi portare a una svolta di empowerment, cioè dopo una
separazione le persone possono essere migliori di prima, oppure depresse o infelici.
Tutto dipende da come noi raccontiamo la crisi, dal sostegno sociale che riceviamo e dal fatto che il
risultato porti o meno ad un empowerment, inteso come crescita e cambiamento in questo caso.
Perché questo è così importante?
Perché praticamente il problema è che uno stesso evento, in questo caso la separazione e la post-
separazione, ha risultati molto differenti: infatti ci sono separati a rischio che stanno molto male e
quelli che stanno molto meglio perché a seconda del contesto sociale lo stesso evento puo’ essere
vissuto in maniera positiva o negativa.
L’altro aspetto importante è il contributo di Amerio alla teoria della tecnica in psicologia di comunità,
secondo il quale occorre fare un’integrazione tra aspetti della psicologia clinica, atteggiamenti d’aiuto
e dimensioni politiche e storiche, contesto sociale e aspetti materiali e simbolici.
Che vuol dire questa frase complessa?
Vuol dire che, secondo Amerio, lo psicologo di comunità integra degli aspetti della psicologia clinica e
più precisamente gli atteggiamenti d’aiuto, perché anche noi vogliamo aiutare chi soffre, che sta
male, chi vuole crescere, svilupparsi, e allo stesso tempo noi, a differenza degli psicologi clinici,
teniamo conto anche della dimensione politica e storica del contesto sociale, per cui sia degli aspetti
materiali che di quelli simbolici, e dunque integrare sfera individuale e sfera sociale.
Qual è un altro principio importante della psicologia di comunità su cui noi lavoriamo?
L’ individuo come principio e valore grazie alla sua dimensione sociale.
Cosa vuol dire?
Che non è detto che l’individuo, in quanto tale, in tutte le società sia considerato allo stesso modo; in
alcune società l’individuo non è importante, è trascurato o addirittura oppresso (come nelle società
totalitaristiche).
Qui vogliamo dire che è la società che permette l’ “individuazione” , che protegge gli individui, per
cui l’individuo è tale non perché nasce libero, ma perché la società gli permette dei diritti , per
esempio i diritti universali come quello allo studio, il diritto di voto o quello alla salute: questi
possono essere tolti, se il regime cambia e subentra una dittatura, per cui l’individuo è principio-
valore, perché i nostri sforzi sono fatti per il suo miglioramento, ma anche perché l’individuo è tale
grazie alla sua dimensione sociale.
L’altro corollario di questo problema è l’ aspetto “partecipazione”: noi crediamo che la
partecipazione sia la costruzione di un bene comune che è alla base della comunità di valori, cioè
quando parliamo di comunità intendiamo infatti una comunità ideale, non tanto quella che esiste,
quanto quella che potrebbe essere.
Questo per tendere a uno scopo l’intero lavoro dello psicologo di comunità.
L’altro principio importante è il senso costruttivo dell’azione: questo processo articola attività
mentale e pratica, sfera individuale e sociale, aspetti positivi e negativi e ideali comunitari.
L’azione è molto importante perché è così che l’essere umano articola, cioè svolge, l’attività mentale
e pratica insieme; l’azione poi collega la sfera individuale e quella sociale perché una piccola azione
che io compio si riverbera sull’intera comunità.
Pero’ attenzione: l’azione puo’ avere anche effetti negativi.
Se io rubo un motorino o tratto male un anziano, io diminuisco il capitale sociale della mia comunità,
per cui l’individuo puo’ sia aumentare che diminuire il capitale sociale.
Qual è l’importanza della teoria sociale in psicologia di comunità?
È che tenta di integrare due paradigmi molto importanti: quello della psicologia
tradizionale e quello del costruttivismo sociale (Francescato).
Praticamente, la psicologia tradizionale, si fonda sul paradigma positivista e cerca
soprattutto le regolarità e i mutamenti intenzionali per predirre e controllare il
comportamento umano, mentre l’approccio del costruttivismo sociale si occupa di capire

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quando cambiamo, non tanto quanto è regolare, ma quanto quando il cambiamento
intenzionale viene messo in atto e perché.
I costruzionisti sono dei contestualisti, cioè riconoscono che il cambiamento avviene in un contesto
che puo’ favorirlo oppure ostacolarloÆ noi non siamo soli nel costruire la realtà che ci circonda, ma la
costruiamo con gli altri, con i significati che attribuiamo a quello che facciamo.
La teoria positivista, al contrario, cerca l’invarianza, decontestualizza l’individuo e la sua azione,
cerca quello che è comune, nella media.
Quello che è molto importante in psicologia di comunità è capire il ruolo delle narrative.
Le narrative possono mantenere lo status-quo o possono favorire il cambiamento: se io racconto una
storia in cui la morale è “chi lascia la strada vecchia per quella nuova, sa quel che lascia e non sa
quel che trova”, se, cioè, racconto storie in cui la persona ha fatto un cambiamento e questo
cambiamento è fallito, è chiaro che il messaggio mi influenzerà in una data direzione.
Se mio nonno mi racconta di parenti andati in America a cercar fortuna, io mi sentiro’ ispirata al
cambiamento….sempre che il viaggio abbia dato buon esito.
Le narrative, cioè, possono influenzare le persone e, di conseguenza, mantenere o alterare lo status-
quo delle cose (es. “la narrativa dello zio Tom” vs quella del “nero è bello”: se io ho come stile di vita
il primo tipo di narrativa, va da sé che mi porro’ degli obiettivi di vita assai limitati, mentre se credo
che “nero è bello” non mi sentiro’ inferiore ai bianchi perché pensero’ che la mia etnia abbia dei punti
di forza importanti).
Per capire quanto finora spiegato, possiamo prendere ad esempio il problema del drop out scolastico
ed esaminarlo in un’ottica multidisciplinare (v.di anche il progetto Chance, Napoli, 1985):
sicuramente un ragazzo che abbandona la scuola ha delle caratteristiche personali ed un background
familiare, ha delle relazioni conflittuali con i pari e con gli insegnanti e dunque una parte del suo
rendimento ha a che fare con queste variabili.
Un’altra parte del disagio, pero’, dipende anche dall’organizzazione scolastica inadeguata, dalla
mancanza di rapporti di rete con il territorio (tipo scarsità di mezzi pubblici), per questo la psicologia
di comunità fa riferimento ad interventi pluridisciplinari volti ad intervenire simultaneamente su tutti
gli aspetti che fanno parte della relazione tra individuo e comunità.

Vediamo ora più in dettaglio le premesse teoriche.

La prima premessa teorica importante è quella di vedere sempre i problemi sul versante
individuale e su quello sociale.
Il secondo concetto teorico è che l’individuo è un soggetto attivo, storicamente situato, che
costruisce significati nelle sue interazioni.
Anche il concetto di ambiente è molto importante: noi crediamo che esso non sia una cosa naturale,
ma un contesto gerarchico che crea disuguaglianze non naturali, storiche e modificabili, per cui noi
possiamo intervenire sull’ambiente proprio perché non è un ambiente naturale.
Un’altra importante premessa teorica è la relazione individuo-ambiente con la sua
reciprocità di influenza: limiti della posizione dell’individuo e interpretazioni vigenti.
Qui ipotizziamo che ci sia una relazione tra depressione ambientale esercitata sull’individuo e reazioni
dell’individuo stesso; il termine limite delle interpretazioni vigenti si riferisce al fatto che c’è sempre
una nuova prospettiva da cui guardare, non ci devono essere limiti perché il modo in cui vediamo il
problema già influenza il modo in cui tentiamo di risolverlo.
La psicologia di comunità si occupa di complessità del sistema sociale, cioè del fatto che vede
transazioni a livelli multipli e multidimensionali (individui, gruppi, organizzazioni, comunità).
Quando noi parliamo di complessità, intendiamo che la persona che mi sta seguendo adesso da casa
è un individuo, maschio o femmina ( o “X” se preferisci…), puo’ avere una certa età e sicuramente
puo’ essere interessato ad imparare, altrimenti non si sarebbe iscritto , spero (e Pino? E
Roberto?....misteri che la disciplina deve ancora svelare!!!), poi puo’ avere gruppi di riferimento (il
gruppo familiare, quello di volontariato, il gruppo degli amici); il modo in cui è trattato in quel

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gruppo, la considerazione che ha in quel gruppo, quello che fa nei gruppi, costituiscono interazioni
che creano malessere o benessere nella persona che mi sta ascoltando.
Stessa cosa si dirà delle organizzazioni Æ praticamente vuol dire che le organizzazioni in cui un
individuo è inserito (la scuola, l’azienda, il lavoro) influenzano il modo in cui noi agiamo e le comunità
locali anche.
Quindi quando la psicologia di comunità lavora, lo fa su questi quattro livelli.
Allora, guardiamo adesso meglio le premesse teoriche generali.
Abbiamo visto che i nostri livelli di intervento richiedono sempre che ci sia un problema in cui
chiediamo: che reazione ha la persona che porta questo problema?
Ma chiediamo anche: in che contesto oggettivo e sociale nasce questo problema?
E cerchiamo di agire su due fronti: rafforzando le capacità della persona per affrontare il suo
problema e guardando quello che l’ambiente contribuisce a creare, a risolvere o a peggiorare il
problema.
Un’altra premessa importante ci dice che esiste un legame tra empowerment individuale e
lotte sociali Æ io divento più potente quando la mia categoria diventa più potente.
Altra premessa fondamentale è quella del ruolo delle narrative, da cui deriva l’interpretazione che noi
diamo della nostra vita, i sogni che abbiamo e persino le nostre storie culturali.
Per cui , in psicologia di comunità, si fa un’integrazione dal modello positivista utilizzando il modello
paradigmatico e quello narrativo.
Altra premessa teorica importante della psicologia di comunità è che noi, a differenza della psicologia
tradizionale, non parliamo solo di problemi, disagi, ma poniamo anche l’accento in modo forte sulle
risorse, sui meliors oltre che sugli stressors.
Questo vuol dire che noi cerchiamo di aumentare i meliors e, soprattutto, diminuire gli stressors, ma
l’accento non è posto sul diminuire gli elementi negativi della persona, quanto piuttosto sui lati
positivi della persona e dell’ambiente e, se possibile, di migliorarli e potenziarli.
Allora, guardiamo finalmente le strategie di intervento.
Praticamente noi diciamo che l’intervento è un’azione in cui c’è un ruolo costruttivo
importante dell’azione stessa Æ l’azione integra attività mentale e pratica, permette
l’adattamento e il cambiamento.
È attraverso l’azione che gli esseri umani, sia singolarmente che come gruppo, arrivano a cambiare,
a modificare in meglio le cose che desiderano cambiare.
Le diverse strategie di intervento, di cui si parlerà nelle prossime lezioni, hanno delle caratteristiche
in comune:
• Incoraggiano le interpretazioni pluralistiche del problema sociale.
• Esaminano le origini storiche del problema sociale e la diseguale distribuzione dell’accesso alle
risorse del contesto sociale.
• Danno voce a narrative minoritarie esistenti, a nuove metafore, nuovi copioni e nuovi ruoli di
empowerment
• Promuovono progetti di empowerment che creino legami che, a loro volta, aumentino il
capitale sociale

Che vuol dire promuovere progetti di empowerment?


Se, per esempio, troviamo un gruppo di ragazzi che si annoiano dopo la scuola, noi cerchiamo di
sviluppare con loro dei progetti in cui abbiano dei ruoli da protagonisti, in cui aumentino l’autostima,
il loro senso di poter fare qualcosa, il loro locus of control (cioè la capacità di sentirsi responsabili di
qualcosa) e che, soprattutto, creino legami fra di loro.
A noi interessa far capire che i cambiamenti sociali, che poi influenzano il tuo benessere personale, si
fanno se crei un legame con gli altri: da solo non sempre puoi influenzare gli eventi, ma con un
gruppo si.
Tuttavia, non tutti i legami tra persone sono positivi (v.di gang di delinquenti); non è che il gruppo in
sé è positivo, quindi si cerca di favorire atteggiamenti e si cerca di creare comportamenti che
aumentino il capitale sociale.

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Cos’è questo capitale sociale?
È l’insieme di relazioni, di reciprocità tra le persone che, pero’, fanno da ponte; cioè il capitale sociale
è di due tipi: quello familiare e quello empatico verso chi non conosci ma che fa parte come te della
tua comunità.
Cosa fanno gli psicologi di comunità?
Prima di tutto identificano e fanno leva sui punti-forza per ottenere i cambiamenti auspicati, inoltre, e
questo è il punto più importante, identificano chi ha il potere di risolvere i problemi prioritari e a che
livello.
Spesso la gente non cambia perché si pone degli obiettivi troppo elevati, in cui non ha nessun potere
contrattuale.
Dunque in questa lezione abbiamo visto come i principali apporti degli autori europei sono stati
incentrati per fondare una teoria tecnica della psicologia di comunità (Amerio, Francescato) e
abbiamo visto come la disciplina tenta di integrare due approcci, due tipi di pensiero: la teoria
positivista e quella costruzionista e come cerca di interpretare questi approcci tentando di capire sia
la continuità che il cambiamento.
Abbiamo visto quali sono le premesse teoriche e i principi-guida degli interventi; abbiamo visto come
la psicologia di comunità concepisce l’individuo, l’ambiente, il rapporto tra lotte sociali e sviluppo
individuale e abbiamo visto che i principi-guida puntano sui punti-forza, su un’interpretazione
multidisciplinare, sulla creazione di legami di empowerment, sulla creazione di progetti che
favoriscano l’aumento del capitale sociale.

LEZIONE N° 5 Æ I profili di comunità (Prof.ssa Francescato)

Argomenti della lezione:


• Conoscere la comunità locale
• Obiettivi dell’analisi di comunità
• I profili di comunità (è una metodologia della disciplina)

Obiettivi della lezione:


• Illustrare per quali committenti e con quali obiettivi si possono fare analisi di comunità locali
• Presentare una metodologia di analisi e di intervento a livello di comunità locale

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Cosa vuol dire conoscere una comunità locale?
Vuol dire esaminare le caratteristiche del territorio, delle reti e degli ambienti sociali, delle
problematiche e delle risorse.
Le caratteristiche del territorio influenzano il modo in cui le persone vivono in quella zona, e questa è
la caratteristica fisica del territorio; ma noi parliamo di territorio in senso sociale, cioè l’insieme delle
reti e degli ambienti sociali: le reti di rapporti che le persone possono avere, le opportunità
ambientali e sociali che possono avere.
L’insieme di queste caratteristiche del territorio, fanno di noi una persona e il fatto di abitare in una
zona con tante risorse o con tante problematiche ( vedremo che in genere il territorio possiede
entrambe queste caratteristiche, con prevalenza dell’una o dell’altra), ci condiziona.
Noi cerchiamo di conoscere la comunità locale per identificare le problematiche e cercare di risolverle
e per far leva sulle risorse al fine di favorire processi si empowerment.
Seguiremo vari approcci in psicologia di comunità per studiare una comunità locale.
L’approccio ecologico Î come dice la parola stessa, studia le interazioni tra persona e ambiente
per aumentare l’empowerment.
L’idea è quella che noi non studiamo mai solo le persone o l’ambiente isolatamente, ma sempre le
interazioni, i rapporti tra questi due fattori.
Noi studiamo l’ empowerment, inteso come varietà di opportunità che un territorio puo’ offrire ai
residenti.
Una disciplina che studia molto quest’interazione è la psicologia ambientale che, appunto, focalizza
la sua attenzione sulle relazioni tra comportamenti ed esperienze e tra ambienti costruiti e naturali.
Ci sono infatti dei settino comportamentali e delle pressioni ambientali ( cioè una tendenza che porta
a far sì che le persone, in quel setting, si comportino in un certo modo) che influenzano i
comportamenti degli individui (chiese, università, stadi).
Ci sono varie metodologie per conoscere una comunità, di quello che è l’assestment di una comunità.
Assestment di comunità, come dice la parola stessa, vuol dire valutazione dei punti forza della
comunità e le metodologie per fare questo sono molto diverse, soprattutto per il grado di contatto tra
ricercatori e cittadini.

Grado di contatto Vantaggi /


Metodologia Consiste in… ricercatori / cittadini svantaggi
Intervistare personalmente gli Vantaggiosa se si ha
abitanti di un quartiere, ad es., ALTO molto tempo e molto
Intervista face to chiedendogli opinioni in merito denaro da investire
face o focus group al territorio in cui risiedono. È anche alto il rischio di nella ricerca.
Nel focus group l’intervista biases da parte di Permette di adattare
viene fatta ad un gruppo di entrambe le parti l’intervista
soggetti all’intervistato
Vantaggiosa se si
Sondaggio Intervistare telefonicamente il vuole raggiungere un
telefonico soggetto con domande BASSO alto numero di
predefinite opinioni con poche
risorse a disposizione.
Garantisce un buon
margine di anonimato
Consiste nello spedire a casa Vantaggioso per le
Questionario dei cittadini un questionario NULLO stesse ragioni del
spedito a casa da con domande predefinite che, sondaggio telefonico.
compilare (self- una volta compilato, dovrebbe Pericolo che comunque Alto grado di
report) poi tornare al mittente. il questionario non anonimato.
I soggetti possono solo venga compilato Semplicemente si

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rispondere in un modo correttamente raccolgono le opinioni
predefinito e standardizzato degli individui
Consiste nell’esaminare diversi Ci permette di
Indicatori sociali indicatori che ci danno la valutare più fattori
percentuale di abbandono NULLO contemporaneamente
scolastico, per es., oppure di permettendoci di
smog in un quartiere ecc. valutare se in quel
quartiere prevale il
disagio o il benessere.
È una metodologia che NULLO / BASSO (se Permettono di
Osservazione consente di osservare le l’osservazione avviene rendersi conto sul
interazioni tra gli individui e gli con il consenso campo delle
spazi in cui essi vivono dell’individuo) interazioni tra
individui e spazi di
vita.

Quando e per quali obiettivi è giusto utilizzare strumenti di assestment ad alto contatto tra
ricercatore e cittadini?
Quando si ha molto tempo, si ha molto denaro e quando vogliamo avere della informazioni e delle
opinioni esplorative, nel senso che possiamo anche non sapere esattamente su cosa focalizzare la
nostra attenzione, e allora facciamo delle ricerche esplorative che ci consentano di capire quali sono i
fattori, gli argomenti più adatti ad essere inseriti, per esempio, in un questionario.
Ma anche quando vogliamo coinvolgere, far partecipare le persone anche a un livello emotivo e, in
qualche modo, aiutarle a progettare il cambiamento.
Passiamo ora ad un altro argomento: quali sono gli obiettivi dell’analisi di comunità?
Bisogna distinguere tra obiettivi a lungo termine e obiettivi a breve termine.

Sviluppare comunità empowering, cioè una comunità


Obiettivi a lungo termine competente che ora ai residenti opportunità di esercitare
controllo, sviluppare competenze, partecipare alle politiche
decisionali
Si propone semplicemente di misurare il livello di
Obiettivi a breve termine empowerment tramite l’analisi dei punti-forza e delle aree
problematiche

Chi è interessato a sapere come sta una comunità?


Prima di tutto i sindaci e gli assessori all’ambiente e alle politiche sociali per i processi di sviluppo
territoriale, in quanto hanno bisogno di conoscere le idee dei cittadini per sapere poi come
intervenire a livello territoriale.
L’altro grande committente sono i gruppi ambientalisti, per aumentare la partecipazione dei cittadini
alla costruzione di un’agenda dello sviluppo sostenibile, cioè compatibile con l’ambiente.
Un altro committente sono i servizi socio-sanitari che vogliono progettare interventi che tengano
conto delle esigenze dei residenti.
Tra i committenti più importanti ci sono anche le cooperative sociali o altri enti partner di progetti
europei o nazionali di recupero della qualità della vita in alcune zone.
Ancora, le scuole, perché devono tener conto, nei loro processi formativi, di quelli che sono i rapporti
e le reti di comunicazione, al fine di diminuire l’isolamento.
La scuola , oramai, deve inserirsi nel territorio in cui opera, questo perché bisogna comunque cercare
di fermare il fenomeno del drop-out scolastico che in Italia è ancora molto alto, circa il 25%.

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A tal fine è importante che la scuola agisca in rapporto con altri enti formativi per avvicinare i ragazzi
al mondo del lavoro futuro.
Aumentare i rapporti con altri istituti per l’educazione Æ dunque una comunità che educa.
Questi sono i committenti; passiamo ora all’ultimo argomento della lezione, ovvero il metodo degli
8 profili.
Il metodo degli otto profili è stato ideato da martini e Sergi e perfezionato da Francescato
ed Ehmayer
È una metodologia specifica in psicologia di comunità e si tratta di un metodo di ricerca partecipata,
molto utile per studiare il territorio e fare lavoro di rete.
Cosa prevede il metodo degli otto profili?
Prima di tutto prevede che io debba formare un gruppo di ricerca interdisciplinare con esperti interni
ed esterni alla comunità-target.
Questo vuol dire che il committente mi deve indicare in quella zona persone di diversa esperienza e
background tecnico, in modo che io abbia un gruppo formato da esperti interni e uno/due esterni
(molto utili proprio perché guardano con occhi diversi il “materiale” a disposizione).
Questo gruppo di esperti compie un’analisi preliminare tramite braimstorming, in cui si individuano i
punti di forza e le problematiche della comunità.
Lo psicologo di comunità chiede agli esperti di dire quali sono secondo loro i punti di forza e i
problemi della comunità, e loro liberamente dicono quello che pensano e , praticamente, già si
comincia a classificare con gli otto profili quelli che emergono come punti di forza e problemi
dall’analisi di questo gruppo iniziale.
Questo gruppo ha anche un secondo compito durante l’analisi preliminare: individuare esperti da
intervistare e focus group da riunire , focus group che sono sempre diversi, a seconda della realtà;
l’importante è intervistare sempre i gruppi dominanti e sempre le minoranze (perché la psicologia di
comunità vuole dar voce anche a chi voce non ha).
L’analisi preliminare fatta con ogni esperto e ogni focus group fornisce un primo quadro di
percezione; pero’ se facessimo solo questo, ci limiteremmo a delle percezioni, mentre ora iniziamo
l’analisi comparativa di ogni profilo, con cui si cerca di scoprire quali sono i punti di forza reali con
metodologie adeguate (concetto-chiave), cioè con esperti preparati proprio in quel profilo, per
confrontare l’opinione dei cittadini con quello reale dell’occhio esperto, ovvero dei dati obiettivi che
possono essere confrontati con quelli delle analisi preliminari.
Questo è molto importante perché ci dice se certi problemi sono sopravvalutati o sottovalutati.
Alla fine dell’analisi noi confrontiamo, con questo metodo, le percezioni dei cittadini e le opinioni degli
esperti in un dibattito pubblico e formuliamo dei progetti di sviluppo desiderati e fattibili (cio’ che si
vorrebbe e cio’ che si puo’ effettivamente fare).

I profili sono otto e cominciamo a guardarli uno per uno.

GLI OTTO PROFILI DI COMUNITA’

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Comprende l’ambiente naturale e costruito, e prevede
che noi intervistiamo sia gli esperti che i membri esterni.
A questi ultimi si chiede di annotare le impressioni che
hanno passeggiando nel quartiere e di fare una specie di
fototour, ovvero di fotografare quello che maggiormente
li colpisce (metodo introdotto dalla viennese Ehmayer).
Alla fine noi vediamo come il territorio appare agli occhi
di chi non lo conosce e facciamo un confronto dei punti
forza e di quelli deboli che emergono dalle fotografie
Profilo fatte da persone non esperte del territorio con quanto
Tdetto dagli abitanti del quartiere.
eQuesto perché la psicologia di comunità integra diversi
r punti di vista.
r Alla fine di un profilo abbiamo un cartellone con i punti
i forza e quelli deboli di quel profilo.
t
o
r
i
a
l
e

Si consultano l’anagrafe, gli annuari e gli esperti sui dati


Profilo ambigui (tipo i dati sugli immigrati senza dimora, ossia
Dnon censiti)
e Profili hard
m (basati su dati oggettivi)
o
g
r
a
f
i
c
o
Di solito ha a che fare con il funzionamento delle
Profilo istituzioni e, in genere, facciamo interviste ad esperti
Istituzionale delle diverse istituzioni.
Un altro aspetto importante da studiare è il rapporto di
rete tra comuni, provincia, regione, comunità europea
per quanto riguarda i progetti di sviluppo (alcuni comuni
non ne conoscono neanche l’esistenza).
Qui cerchiamo i dati reali come il tasso di occupazione,
quello di disoccupazione, il reddito pro-capite, ma anche
Profilo delle chiediamo agli esperti, oltre ai dati statistici, l’impatto
Attività della globalizzazione sul problema, quindi ci interessa
produttive sapere quanto questa zona ha delle attività produttive
competitive e quanto produce beni producibili anche
altrove a condizioni migliori, quindi quanto è alto il
rischio di disoccupazione in questa zona.
Profilo dei Si riferisce ai servizi sanitari, sociali, educativi, ricreativi;
Servizi noi vogliamo sapere se ci sono dei servizi in quella zona Profili soft
e se funzionano, tramite domande ad esperti e focus
group. (basati su
Ogni quartiere, ogni città ha una storia, dei valori, dei
Profilo riti, delle feste, dei cibi, delle usanze e dei costumi che
dati
Antropologic influenzano gli abitanti di quel quartiere.
o Noi intervistiamo gli anziani, cioè la memoria storica di
quel quartiere, leggiamo libri, opuscoli e intervistiamo gli
esperti; inoltre creiamo dei focus group per rilevare i
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punti forza e quelli deboli.
Usiamo
Appunti d’esame, statino unforum
on line, insieme di variabili
di discussione, chat,quali le scale
simulazione di sostegno
d’esame, valutaprof, minisiti web di facoltà, servizi di
sociale (per capire i tipi di
orientamento legame
e tutoring che altro
e molto creano capitale
ancora…
sociale) e senso di appartenenza alla comunità e lo
Profilo facciamo attraverso http://www.opsonline.it
le tecniche proiettive (tramite
P disegni e racconto di sceneggiati sulla loro comunità).
s
soggettivi)

Dunque questo metodo integra conoscenze soggettive e conoscenze oggettive, saperi locali e

saperi disciplinari diversi e attiva forme di collaborazione e partecipazione al lavoro di rete facendo

emergere le narrative minoritarie.

Quello che è importante per noi, quando facciamo queste interviste, non è solo prendere dei dati,

fare un assestment (cioè una valutazione), creare dei legami, ovvero far emergere come le

persone in quella comunità possono progettare dei cambiamenti che rendono più forte il loro

empowerment, cioè il legame tra empowerment individuale e lotte sociali per ottenere i propri

obiettivi.

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LEZIONE N° 6 Æ I metodi di ricerca in Psicologia di Comunità
(Prof.ssa Zani)

Argomenti della lezione

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¾ La ricerca-azione
¾ I disegni quasi-sperimentali
¾ I metodi qualitativi
¾ La ricerca valutativa

La ricerca azione (detta anche ricerca intervento) è la metodologia per eccellenza in psicologia di
comunità.
Questo termine traduce l’inglese “action research” che Kurt Lewin, nel 1946, uso’ per definire una
ricerca comparata sulle condizioni e sugli effetti delle varie forme di azione sociale, che a loro volta
tendono a promuovere l’azione sociale stessa.
È una definizione complessa che ci dice come Lewin avesse puntato l’attenzione su un metodo di
ricerca che fosse strettamente collegato all’azione, quindi non una ricerca di tipo conoscitivo fine a sé
stessa, ma una ricerca improntata sull’azione che serve a promuovere il cambiamento della realtà
esistente.
Infatti, secondo Lewin, teoria e pratica sono strettamente collegati tra di loro in un rapporto di
circolarità a livelli di complessità sempre maggiori (dunque una spirale).
Un rapporto di circolarità ci indica la volontà dell’autore di uscire dalla visione di una logica di tipo
lineare, deterministica, causalistica e meccanicistica a favore di una concezione circolare in cui ci
fosse un legame stretto tra aspetti teorici aspetti pratici (legati all’azione e all’intervento) che, a loro
volta, tornavano come una sorta di feedback, ad integrare, modificare, confermare o meno le
puntualizzazioni teoriche da cui l’azione era partita.
È una circolarità che va a livelli sempre maggiori perché non torna mai sui suoi passi, ma porta degli
elementi e dei contributi nuovi e sempre diversi.
La ricerca-azione è, quindi, una ricerca-azione orientata al cambiamento; questo perché risponde ad
un a duplice esigenza, che è quella di conoscere la realtà esistente e trasformarla per rispondere ai
bisogni di:
- dare una risposta, un contributo di soluzione ai problemi pratici pressanti
- procedere nella comprensione scientifica dei sistemi sociali

Questa teoria quando venne proposta nel ’46 (ma ancora oggi), rappresentava una novità assoluta
nel panorama delle metodologie in campo psicologico in quanto queste erano centrate in maniera
esclusiva sulla ricerca di laboratorio e sulla sperimentazione in laboratorio, in contesti di settino
sperimentali, per cui una ricerca-azione con queste caratteristiche era, chiaramente, un segnale di
rottura con un certo establishment di tipo accademico.
Cerchiamo di capire meglio come si realizza questa ricerca-azione; altra puntualizzazione di Lewin Æ
la ricerca-azione è sempre realizzata in gruppo perché occorre la cooperazione tra ricercatori e
membri della comunità, col compito comune di:
• identificare il problema
• pianificare l’azione
• attuare l’intervento
• valutare le conseguenze dell’intervento
• specificare l’apprendimento (in ogni attività di ricerca-azione c’è sempre anche un processo di
apprendimento)

i che modo avviene il processo della ricerca-azione che, come abbiamo visto, è sempre circolare?
Inizia con una prima fase di diagnosi che consiste nell’individuazione del problema, delle ipotesi e
degli obiettivi.
A questa segue una seconda fase che è quella conoscitiva, che consiste in una raccolta dati
prima dell’intervento, per avere il quadro della situazione.
Poi c’è la fase dell’intervento e, in seguito, una valutativa con la raccolta dati dopo
l’intervento.

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Quest’ultima fase è molto importante perché serve a capire e a dare delle indicazioni per sapere se
l’intervento è servito, altrimenti occorre continuare nell’opera di raccolta dati al fine di specificare
meglio il problema, e questo puo’ portare all’apertura di un nuovo ciclo.

Schema della ricerca-azione

I Fase:
diagnosi

II Fase: conoscitiva
(raccolta dati prima
dell’intervento)
V Fase: apertura
nuovo ciclo

III Fase:
intervento

IV Fase: valutativa
(raccolta dati dopo
l’intervento)

Quali sono dunque gli elementi di novità della ricerca-azione?


Sono molteplici, tra cui il fatto che i dati di ricerca vanno a incidere sulla teoria indirizzando i lavori
successivi (non è un processo unilineare); in ogni fase del processo si promuove la partecipazione più
ampia possibile di tutti i soggetti interessati, la ricerca viene fatta in gruppo.
Un autore, di nome Cunningham, ha proposto nel 1976 un modello procedurale che ha dato
delle indicazioni su come si puo’ confezionare una ricerca-azione in tre fasi:
1) costituzione di un gruppo di lavoro
(definire il problema e capire come risolverlo)
2) attuazione della ricerca
3) realizzazione dell’intervento

alla fine di ogni sequenza è prevista la valutazione che ci dà un momento di riflessione e ci aiuta a
capire se quella fase è conclusa o meno.
Dunque si evidenzia, in questo modo, la circolarità e la ciclicità del processo.
La ricerca.azione è stata sviluppata anche da Billion e Jacks con gli approfondimenti legati al concetto
di “action science”.
Passiamo ora ad illustrare i disegni quasi sperimentali .
Che cosa sono?
Sono dei disegni sperimentali con una caratteristica specifica: in questi gruppi l’appartenenza di un
soggetto ad un gruppo, gruppo sperimentale vs gruppo di controllo, non è casuale, ma si rifà a reali
appartenenze di gruppo Æ Cook e Campbell, 1979.

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Nei disegni veramente sperimentali l’attribuzione di un soggetto ad un gruppo è randomizzata,
avviene casualmente, mentre in quelli quasi sperimentali questa appartenenza è legata
all’appartenenza specifica di un gruppo.
Questo è ben visibile in una tipologia di disegni quasi sperimentali, che si chiama proprio “disegno
quasi sperimentale con gruppo di controllo non equivalente” .
Il termine non equivalente significa, appunto, che i soggetti non vengono assegnati a caso ma che il
gruppo di controllo scelto e formato è simile a quello sperimentale per alcune caratteristiche (variabili
anagrafiche, setting di appartenenza o altre caratteristiche).
Se noi, ad esempio, vogliamo fare una ricerca nelle scuole per capire se gli interventi di educazione
alla salute, di educazione sessuale o di prevenzione dell’AIDS hanno avuto successo oppure no cosa
dobbiamo fare?
Ovviamente, l’intervento viene fatto in alcune classi; se io voglio capire quanto una modifica del
comportamento si deve all’intervento che ho fatto , quindi se l’intervento è stato efficace, posso
procedere con un disegno quasi sperimentale prendendo le classi in cui è stato fatto l’intervento
come classi del gruppo sperimentale e prendendo altre classi di quello stesso istituto come gruppo di
controllo.
Come si puo’ notare, sono gruppi che esistono già, non sono scelti a caso, pero’ sono simili per
alcune caratteristiche.
Cosa si deve fare in questo caso?
Occorre un pre-test in entrambi i gruppi, per capire se effettivamente le conoscenze su un dato
argomento sono effettivamente simili nel gruppo sperimentale e in quello di controllo.
Poi nel gruppo sperimentale effettuero’ il mio intervento (nel gruppo di controllo no) e alla fine faro
un post-test per vedere se le eventuali modifiche del comportamento che io ritrovo nel gruppo
sperimentale sono imputabili all’intervento che ho compiuto.
Un’altra tipologia di disegno quasi sperimentale si chiama “serie temporali interrotte” e
consiste in una sequenza di osservazioni e misurazioni prima e dopo il trattamento/intervista su un
gruppo unico, come se fosse una variabile continua (v.di creazione e messa in atto di un servizio per
la crisi, aperto per verificare se c’è una diminuzione di ricoveri in un ospedale per disagi mentali
proprio in seguito alla sua apertura).
È chiaro che, in valutazioni di questo genere, bisogna tener conto del fatto che non sempre si hanno
effetti immediati, ma che ci possono essere anche effetti ritardati, che avvengono nel tempo (v.di
interventi di tipo preventivo).
Un altro tipo di disegno quasi sperimentale è quella che si chiama “coorti” in cui la
valutazione dei gruppi avviene in tempi diversi con una interruzione e ripetizione dell’intervento.
Questi disegni quasi sperimentali sono degli strumenti importanti per il ricercatore per identificare
una modalità di ricerca che sia il più adeguata possibile agli obiettivi.
E questo va sottolineato: non esiste una metodologia che in assoluto è la migliore, ma la scelta del
metodo da utilizzare dipende sempre dall’obiettivo che il ricercatore si pone.

La ricerca Qualitativa

I metodi qualitativi nascono dall’insoddisfazione verso i metodi quantitativi che talvolta riducono in
maniera eccessiva la complessità degli avvenimenti, eliminando o attenuando l’effetto di molte
variabili.
I metodi qualitativi ci aiutano a studiare argomenti che non si potrebbero studiare adottando dei
metodi quantitativi (ad es.lo studio dei singoli casi).
Qual è la differenza tra queste due metodologie?
I metodi quantitativi vengono utilizzati per lo più per verificare ipotesi e teorie, mentre
quelli qualitativi vengono utilizzati per generare nuove ipotesi o per scoprire nuove
possibilità di interpretazione (v.di paradigma costruttivista).
In realtà queste due metodologie andrebbero usate in sinergia e non singolarmente .

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Soffermiamoci su quello che è l’oggetto di studio nella ricerca qualitativa: l’oggetto di studio è un
oggetto che viene visto nella sua particolarità e unicità, per questo si parte dallo studio di casi singoli
e non dalle statistiche, a noi interessa analizzare il singolo caso.
Questo oggetto di studio è visto nella sua globalità e complessità, non escludendo a priori delle
variabili ritenute irrilevanti o marginali, perché tutte le variabili hanno, o possono avere, un
significato.
Ancora, l’oggetto è studiato nel suo contesto naturale e non in una situazione artificiale come puo’
essere il settino di un laboratorio, e c’è un’attenzione particolare che viene data al significato che i
partecipanti alla ricerca danno a questo avvenimento.
Se dobbiamo riassumere quelli che sono gli strumenti di ricerca a disposizione del ricercatore
abbiamo:

METODOLOGIA

Metodi quantitativi (questionari e Metodi qualitativi (osservazioni, interviste)


sondaggi) Æ le risposte possono sempre Æ si tratta di un materiale di tipo discorsivo
essere quantificabili, ricondotte a numeri e decisamente più soggettivo
soggetti a trattamenti statistici

Nella ricerca è sempre auspicabile l’integrazione dei due metodi

Per analizzare i metodi qualitativi esistono diverse modalità, da quella classica dell’analisi del
contenuto a quelle più sofisticate come i software dei pc.
Un metodo che ci sembra particolarmente interessante è quello introdotto nel 1967 da Glaser &
Strass e che va sotto il nome di “Grounded Theory (teoria che parte dal basso, basata sui dati).
In che cosa consiste questo metodo?
Consiste nella costruzione di una teoria tramite induzione a partire dai dati e non da ipotesi
preesistenti a partire dai quali si cerca, appunto, di costruire una teoria.
In questo senso la ricerca è intesa come un progetto circolare con stretta e continua interazione tra
raccolta e analisi dei dati, formulazione di ipotesi e verifica attraverso i dati.
Cio’ che è importante qui è l’interpretazione Æ gli autori parlano di sensibilità del ricercatore.

Raccolta dati Analisi dati Teoria

Gli autori hanno anche cercato di precisare come avviene questa analisi dei dati e hanno identificato
tre modalità di codifica dei dati:

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Codifica aperta Si cerca di capire quali sono le possibili categorie, i possibili concetti
che si formano nelle interviste.
Codifica assiale Si cercano le possibili connessioni tra le categorie emerse con la
codifica aperta
Codifica selettiva Si seleziona la categoria centrale e si cerca di capire la sua
integrazione con le altre categorie via via individuate.

È un processo guidato dai dati e no n impostato su griglie predefinite.

La ricerca valutativa

Perché trattarla come un argomento a sé stante quando essa è parte integrante della ricerca?
Perché è importante capire che c’è anche un modo do fare ricerca, la ricerca valutativa appunto, che
è una procedura a sé stante e che serve a sottolineare quella che è l’importanza della valutazione
nell’ambito della ricerca.
La valutazione serva a:
• evitare gli sprechi
• correggere degli interventi inutili o male impostati
• scegliere tra più alternative
• controllare le proposte esistenti

ecco, la verifica di u progetto di intervento si basa sull’individuazione di standard oggettivi di


valutazione; l’assenza di questi standard di valutazione oggettiva puo’ portare a:
• minore soddisfazione degli operatori per il lavoro compiuto
• limitare od ostacolare l’apprendimento di nuove informazioni utili (già sottolineato da Lewin)

quali sono le tappe di un progetto di valutazione?


È importante sapere che ci sono tappe prima, durante e dopo.

Fase 1° Tappa 2° Tappa 3° Tappa


Prima (ex ante) Ideazione progetto Attivazione progettazione
Implementazione, • avvio • attività
Durante (in itinere) che comprendeÆ • contatti con la
popolazione
Dopo (ex post) Verifica degli esiti

Dunque, come si puo’ ben notare, la valutazione è sempre presente, inoltre ci sono diversi tipi di
valutazione:
Consiste nel chiarire gli scopi dell’intervento e

Valutazione del progetto


Valutazione del processo

stimare la relazione con i bisogni


Analizza la realizzazione e l’andamento del

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Programma

Valutazione di output
Valutazione del
risultato

Valutazione di outcome Æ in che modo l’intervento


ha avuto un peso nel ridurre i bisogni di partenza

Si intende, quindi, considerare due indicatori:


Æ l’efficacia dell’intervento ( è il rapporto con gli obiettivi)
Æ l’efficienza (il rapporto costi/benefici)
se non c’è valutazione non si riesce effettivamente a capire quanto il lavoro che è stato compiuto a
livello di ricerca e a livello di intervento, abbia avuto un riscontro, quindi sia effettivamente servito a
qualcosa per chi l’ha messo in atto e nei confronti dei soggetti che vi hanno preso parte.

LEZIONE N° 7 Æ I Gruppi di lavoro e i Lavori di gruppo


(Prof.ssa Francescato)

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Argomenti della lezione:
¾ i piccoli gruppi in psicologia di comunità
¾ formazione empowering al lavoro di gruppo

Obiettivi della lezione:


¾ chiarire la differenza tra gruppi di terapia e gruppi di lavoro
¾ chiarire la differenza tra gruppi di lavoro e lavori di gruppo

Andiamo a parlare della prima differenza tra gruppi di terapia e T-groups.


I gruppi di terapia sono dei gruppi in cui dei pazienti si rivolgono a un terapeuta, esperto in un
certo ramo della psicoterapia, per risolvere i loro problemi e per migliorare alcuni aspetti negativi
della propria esistenza che causano disagio.
I T-Groups (training groups) si sono sviluppati negli USA dagli anni ’40, come gruppi di riflessione
sulle dinamiche di gruppo, per cui si partecipa a questo gruppo quando si vuole imparare qualcosa
sulle dinamiche di gruppo.
I gruppi di formazione sono, invece, quelli che si fanno quando si va, ad es., per imparare
qualcosa (tipo classe scolastica) e hanno come obiettivo l’apprendimento.
Un’altra distinzione importante è quella tra Gruppi primari e Gruppi secondari: i primi sono quelli
in cui noi nasciamo (la famiglia) in cui ci sono rapporti molto forti, le persone si conoscono tutte e la
mancanza di un membro del gruppo viene notata.
C’è un riconoscimento reciproco, emozioni molto forti e sono fondamentali per l’essere umano in
quanto l’assenza ne impedisce la sopravvivenza.
I gruppi secondari sono chiamati così perché sono, di solito, dei gruppi a cui apparteniamo perché
abbiamo un ruolo (il gruppo-classe); sono gruppi cui si aderisce, a cui ci si iscrive, mentre i gruppi
primari di solito non sono scelti.
Questa lezione si occuperà di gruppi particolari: gruppi di lavoro nei contesti gerarchici, e cioè i
gruppi di lavoro nei quali noi scegliamo di andare, ma fino a un certo punto.
Perché?
È vero che sono gruppi di organizzazioni produttive e strutture educative pero’ riguardo alle strutture
produttive noi decidiamo dove andare, ma non scegliamo il gruppo di lavoro in cui ci troviamo; noi
scegliamo di andare a scuola, ma non ci scegliamo i compagni di classe.
Per cui questi sono due tipi di gruppi caratterizzati dal fatto che non si scelgono i compagni di
lavoro e sono entrambi gruppi in contesti gerarchici e piramidali.
Ci sono poi i piccoli gruppi di auto aiuto (alcolisti anonimi è il più famoso) : in questi gruppi le
persone vanno per scelta, aderiscono ad un gruppo e non sono in un contesto gerarchico, ma
paritario.
Le persone che sono là hanno avuto la stessa esperienza, sono lì per fornirsi aiuto sulla base della
loro scelta.
Gli altri sono tutti gruppi in cui ci si trova.
Stessa cosa per i piccoli gruppi di cittadinanza attiva (WWF): sono piccoli gruppi in cui scelgo di
andare se voglio, e qui eleggo i miei capi.
Noi, in psicologia di comunità, diamo molta importanza ai gruppi extra-familiari (v.di tutti i
precedenti) perché in questi gruppi si sviluppano legami deboli, proprio perché io posso scegliere di
andare via, noi diciamo che questi gruppi sono adatti a sviluppare una mentalità plurale, e cioè a
renderci capaci di vedere che ci sono vari punti di vista (cittadini empowered).
Stare meglio nei gruppi è una cosa che si impara nei gruppi extra-familiari perché, appunto, qui si
puo’ far pratica anche di lasciare un gruppo, di partecipare a un gruppo, e si puo’ imparare a stare
bene in gruppo, a crescere e a collaborare con gli altri che non sono i nostri familiari.
Per questo si comincia a diventare cittadini, si comincia ad avere rapporti di fiducia con persone che
non ci sono care (e questo è molto importante).
Perché sono importanti?
Ogni gruppo, ogni persona ha un bisogno di appartenenza e uno di individuazione:

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• l’appartenenza è il bisogno di sentirsi parte di qualcosa
• l’individuazione la molla che ci spinge a raggiungere gli obiettivi, a distinguermi in qualche
modo dagli altri.

Di solito per distinguerci dagli altri sviluppiamo delle competenze, delle capacità o delle attitudini,
mentre per appartenere cerchiamo di vedere cio’ che ci rende simili, cosa non ci distingue.
Questi due bisogni sono molto forti e sono soddisfatti insieme nel piccolo gruppo.
Perché , in generale, sono così importanti i piccoli gruppi?
Perché noi viviamo in una società in cui il liberismo ha privilegiato la libertà del singolo a scapito del
capitale sociale; noi siamo diffidenti verso certe forme di socialità e di rapporti in comunità perché
abbiamo avuto, in Europa, un passato di totalitarismo (v.di nazismo, comunismo) che sacrificava
l’individuo in nome di un benessere sociale che poi non c’era.
In realtà occorre invece capire che i piccoli gruppi sono delle strutture intermedie tra individuo e
comunità che permettono di sperimentare una cosa importante, che si chiama interdipendenza.
L’interdipendenza è la caratteristica che mi permette di riconoscere che io sono utile agli altri come
loro lo sono per me e che insieme possiamo fare delle cose che da soli non si potrebbero fare.
Allora, il gruppo è un setting ambientale e la comunità competente offre occasioni di frequentare
gruppi diversi, in modo che io diventi un cittadino più responsabile.
Noi crediamo, in psicologia di comunità, che i gruppi di lavoro possono essere dei setting
empowering o disempowering, cioè il gruppo di lavoro puo’ accrescere o ledere la mia autostima e la
mia identità.
I gruppi di lavoro centrati sul compito hanno un obiettivo comune e l’interdipendenza fa sì che esso
possa essere raggiunto; dunque l’interdipendenza è il tratto che caratterizza i gruppi di lavoro.
Qui il contributo relativo di ognuno si integra con quello altrui per raggiungere uno scopo.
Tuttavia, non sempre occorre fare dei gruppi di lavoro.
Un gruppo di lavoro sono ad esempio, i Medici e gli Infermieri che possono lavorare in gruppo, ma
solo quando operano; non è sempre detto, cioè, che un gruppo di lavoro, che le persone di un
gruppo di lavoro, lavorino sempre in gruppo.
Il gruppo di lavoro è l’insieme di componenti di un’unità lavorativa, il lavoro di gruppo avviene
quando questi fanno qualcosa insieme.
Il lavoro di gruppo è un metodo per raggiungere gli scopi non ottenibili singolarmente.
Allora cosa distingue un gruppo di lavoro da un lavoro di gruppo?
Il lavoro di gruppo è il metodo che si usa per raggiungere gli obiettivi mentre il gruppo di
lavoro è un insieme di persone che lavorano nella stessa situazione.
Passiamo adesso ad un secondo argomento molto importante che è: la formazione empowering al
gruppo di lavoro.
Noi cerchiamo di promuovere nuovi gruppi, più piccoli gruppi, perché una comunità di questo tipo
offre agli individui la capacità di imparare a stare con gli altri e a starci bene.
Il secondo obiettivo che ci poniamo è quello di migliorare i gruppi esistenti, noi cerchiamo soprattutto
di facilitare la formazione dei gruppi di auto aiuto su tutte le problematiche esistenti in quella
comunità, e promuoviamo queste reti tra gruppi cercando di facilitare il lavoro di rete tra associazioni
e istituzioni nel territorio, per far nascere progetti comuni.
Noi, soprattutto, lavoriamo anche per formare le persone al lavoro di gruppo: gruppi si diventa e il
lavoro di gruppo si impara.
Allora, il lavoro di gruppo è un metodo che si applica con i membri di un gruppo di lavoro, tenendo
conto del contesto organizzativo e territoriale.
Quando noi lavoriamo in un gruppo ci poniamo l’obiettivo di promuovere il senso di appartenenza e
di interdipendenza; se gruppi si diventa, vuol dire che un gruppo è tale quando le persone che lo
frequentano sentono di appartenere a questo gruppo e hanno dei legami di interdipendenza con gli
altri, cioè sentono di poter contare sugli altri e sentono di contare per gli altri.
Cosa facciamo per aiutare questo processo?

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Cerchiamo di promuovere la condivisione di vissuti emotivi; è molto importante capire che nei gruppi
noi abbiamo delle emozioni, che possono essere di noia, di frustrazione, di gioia, di entusiasmo, di
piacere, che comunque condivido/provo con altri membri, altre persone.
Questo poi è strettamente legato al modo in cui apprendo, al modo in cui lavoro: se, per esempio, in
un gruppo ci sono rapporti molto tesi, sarà difficile che sussista interdipendenza, per cui si andrà
incontro ad azioni di sabotaggio e a situazioni di burn-out.
Questo non vuol dire che non ci sono conflitti nei gruppi che noi creiamo, ma vuol dire che nei gruppi
di lavoro che funzionano bene, prevale un atteggiamento positivo per sé stessi e per gli altri, una
stima per il lavoro che io faccio e per quello che fanno gli altri.
Perché?
Solo se c’è un clima emotivo positivo io posso ascoltare il confronto delle opinioni, e questo in un
contesto di lavoro è fondamentale; confronto vuol dire che io sono disponibile ad ascoltare, a far
parlare le persone senza prevaricarle in alcun modo.
In psicologia di comunità si mira alla creazione di nuove sintesi tramite dialogo e ascolto: dialogare è
fondamentale!
È così che nasce la creatività di gruppo, ovvero di quel fattore che rende l’intera squadra potente.
Per fare in modo che si esprima questa diversità e questo confronto io devo avere rispetto e tutela
della diversità dei singoli.
Gli obiettivi che ci poniamo quando facciamo questa formazione empowering, sono quelli di aiutare
ogni partecipante a diventare un membro migliore del gruppo di lavoro in cui è inserito.
Un altro obiettivo ambizioso è quello di aiutare i partecipanti a divenire migliori facilitatori dei gruppi
che coordinano; questo non è semplicissimo.
Un conto è partecipare a un gruppo in modo efficace, un conto è coordinare, facilitare il lavoro degli
altri, perché per fare cio’ bisogna essere generosi, bisogna permettere che qualcuno diventi più bravo
di noi.
Le persone che hanno un gran bisogno di potere e di controllo, di solito non riescono a facilitare il
lavoro degli altri perché sono convinti di sapere tutto loro e vogliono che gli altri li seguano, vogliono
dei seguaci e non dei collaboratori, il collaboratore è colui che puo’ fare insieme e i facilitatori, nel
nostro linguaggio, sono coloro che permettono a queste persone di emergere creando un clima di
gruppo in cui il potere è distribuito (almeno quello di proporre).
Facilitatore è colui che aiuta ogni membro del gruppo a esprimere il meglio di sé, per cui è qualcuno
che fa da tutor al gruppo.
Quello che facciamo in questi corsi di formazione empowering al lavoro di gruppo è aiutare ogni
partecipante a capire quali sono le aree problema e i punti di forza dei loro gruppi di lavoro.
Quando facciamo questo gruppo di formazione empowering al lavoro di gruppo, prevediamo vari
nuclei di formazione con dei sotto obiettivi specifici e diversi.
C’è un primo nucleo che fornisce schemi teorici e strutturali per osservare i punti forza e le aree
problematiche rispetto a:
• variabili strutturali (n° di persone del gruppo, zona in cui si riunisce, la gerarchia che c’è in
questo gruppo, il tempo a disposizione per le riunioni…)
• variabili di compito (sono diverse da gruppo a gruppo)
Le prime due variabili hanno a che fare con la partecipazione e con e con gli aspetti hard più
materiali.
• Variabili individuali (caratteristiche particolari degli individui, che poi condizionano il
gruppo)
L’insieme di queste variabili ci dà i punti forza e le aree problematiche del gruppo.
Un secondo nucleo individua le diverse funzioni che un facilitatore puo’ svolgere per migliorare le
aree problematiche.
Altri nuclei formativi affrontano varie tematiche come pregi e limiti di diverse modalità decisionali.
Questo è un argomento interessante perché quando noi chiediamo a un gruppo come decide, quelli
formali di solito hanno delle regole (tipo decide la maggioranza), pero’ nei gruppi di volontariato, nei
sindacati, nei piccoli gruppi di auto aiuto, certe volte si decide per consenso.

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Noi spieghiamo che non c’è un metodo giusto, ma che questo dipende dal compito e dal tempo che si
ha in quel momento.
Allora, noi cerchiamo in questa formazione di dare indicazioni su come mandare feedback negativi in
modo costruttivo, come risolvere i conflitti e, soprattutto, come stimolare la creatività di gruppo.
Quali sono i pregi e i limiti di questo strumento?
→ identifica i punti forza e favorisce i progetti di empowerment
→ un problema con i piccoli gruppi è che a volte le persone si isolano dal contesto sociale (si sta così
bene nel gruppo che non ne esco).

LEZIONE N° 8 Æ I Gruppi di auto e mutuo aiuto


(Prof.ssa Zani)

Argomenti della lezione:


• Nascita dei gruppi di self-help
• Alcune definizioni e tipologie
• Caratteristiche e funzioni
• Dinamiche intragruppo
• Alcuni esempi di questi gruppi
• Rapporti con le Istituzioni formali di cura

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Perché nascono i gruppi di self-help, quali sono le origini della loro nascita?
Ci sono una serie di fattori socio demografici ed economici che ne favoriscono la nascita, in
particolare l’allungamento della vita della popolazione, la crisi economica, l’aumento di patologie
relative al comportamento e soprattutto un diffuso senso di sfiducia verso le Istituzioni (v.di il tipo di
assistenza erogata e il rapporto tra costi e qualità delle prestazioni).
In sostanza, possiamo parlare di crisi dei modelli tradizionali di cura.
Questo sentimento di sfiducia, questo sentimento di crisi porta, dalla metà degli anni ’30, alla ricerca
di modalità alternative basate su:
• Coinvolgimento delle persone nella gestione della propria salute
• Impegno a cambiare abitudini e comportamenti (proprio perché, come abbiamo detto prima,
sono cambiate le patologie che non sono più legate a delle forme tradizionali come in passato,
ma si definiscono sempre più come dipendenti dallo stile di vita e dalle abitudini delle
persone, e quindi occorre impegnarsi per cambiare i propri comportamenti).

C’è un’accentuazione posta sul fatto che sono le persone ad essere responsabili del proprio
benessere, quindi occorre che ci si assuma la responsabilità per il proprio benessere.
Emergono anche dei valori nuovi che vengono condivisi e che sono: la solidarietà, la democrazia, la
partecipazione.
Questo costituisce un po’ la base della nascita del primo gruppo di auto aiuto, la cui nascita ufficiale
avviene nel 1935 nel contesto nordamericano e che è quello degli alcolisti anonimi.
Questo gruppo nasce grazie all’interesse di due persone, alcolizzate, che sfiduciate e senza interesse
per le modalità con cui la dipendenza, dall’alcool in questo caso, veniva affrontata, decisero di riunirsi
insieme per cominciare a discutere un po’ di quella che era la situazione particolare del loro caso e
questo fece sì che questa esigenza incontrasse l’interesse di altre persone nella stessa situazione e
che a poco a poco, questa nuova modalità prendesse piede fino a definirsi come “modalità
alternativa” di prestare aiuto.
In Italia la realizzazione dei primi gruppi di auto aiuto comincia a prendere piede negli anni ’70 e si
tratta ancora di alcolisti anonimi che, dal loro contesto originale degli Stati uniti, ben presto ebbero
delle affiliazioni in tutte le parti del mondo.
Fortunatamente questo dei gruppi di auto aiuto è un fenomeno in continua espansione (in Italia si
contano circa 1.500 gruppi di auto aiuto).
Come si possono definire i gruppi di auto aiuto?
La definizione più autorevole è sicuramente quella di Katz e Bender del ’76: sono piccoli
gruppi a base volontaria finalizzati al mutuo aiuto.
Ecco, qui vediamo che non si parla solo di auto aiuto, ma di mutuo aiuto perché l’aiuto è rivolto a sé,
ma è rivolto anche agli altri.
Sono gruppi formati da pari (novità assoluta che contraddistingue questo intervento di tipo
terapeutico da quello di tipo tradizionale, composto da un professionista che non ha il problema, ma
che conosce le modalità per uscirne, e da una persona che richiede il suo aiuto; dunque i due
soggetti si trovano in una posizione asimmetrica) che si uniscono per assicurarsi reciproca assistenza
nel soddisfare bisogni comuni, per superare un problema comune o per impegnarsi in cambiamenti
personali e sociali.
Le principali caratteristiche dei gruppi di auto aiuto sono le seguenti:
• Sono gruppi che nascono spontaneamente, che non dipendono da autorità o da Istituzioni
esterne
• L’obiettivo è l’aiuto reciproco per fronteggiare problemi comuni
• I membri del gruppo sono fonte d’aiuto e, allo stesso tempo, fruitori di sostegno (dunque
il principio base è quello del reciproco aiuto)
• Il potere è condiviso: ogni decisione, ogni cambiamento o regola viene discussa e accettata
democraticamente
• Il coinvolgimento è personale: ogni persona decide autonomamente se e come prendere
parte al gruppo

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• La responsabilità è personale: ogni persona è protagonista del cambiamento che vuole
ottenere, ognuno è la prima risorsa per sé e per il gruppo.
• L’orientamento è all’azione: le persone imparano e cambiano facendo.

Uno degli scopi dei gruppi di auto aiuto è quello di sperimentare nuovi stili di vita e di
comportamento, nuovi modi di sentire e di trasmettere i propri vissuti (learning by doing, changing
by doing) → principio fondamentale.
A cosa servono questi gruppi? Quali sono le loro funzioni?
• Sostegno emotivo: le persone, proprio perché condividono tutte lo stesso problema, si
sostengono emotivamente poichè si comprendono meglio e quindi si sentono meno isolati
• Sostegno di tipo informativo: ci si scambia delle informazioni che sono molto importanti per
capire come fare e che cosa fare.
• Vengono offerti dei modelli di ruolo: il trovarsi insieme, da parte di persone che condividono lo
stesso problema, non significa esattamente che sono tutti sulla stessa posizione perché ci
possono essere persone che, ad esempio, hanno smesso di bere da un giorno, da un anno
ecc.quindi ci sono persone che, pur condividendo gli stessi problemi, sono a livelli diversi di
situazioni personali e lo scambiarsi dei vissuti rispetto alle proprie situazioni e rispetto alle
proprie opinioni, consente anche di avere di fronte degli esempi che sono molto più
significativi e incidenti perché sono forniti da pari.
• Danno la possibilità di sperimentare modalità di self-empowerment: cioè la capacità che ha
l’individuo di acquisire la competenza di mantenere una certa padronanza sulla propria vita
(cioè “molto dipende da me”)
• Possibilità di nuove relazioni sociali: soprattutto consente di uscire dall’isolamento. Se io ho
un problema e mi ritrovo con altre persone che hanno il mio stesso problema, anziché sentire
che il mondo mi crolla addosso, posso condividere con loro una serie di relazioni, ma anche
stabilirne di nuove con possibilità di dialogo.
• Confronto sulle strategie di coping: le strategie di coping sono quelle strategie che vengono
messe in atto per affrontare un problema e questo confronto è importante per impararne di
nuove, soprattutto strategie adatte al proprio problema, proprio per via del fatto che ci si
ritrova tra pari.

TIPOLOGIA DEI GRUPPI


Questo tema è stato trattato da Levy (1979) alla fine degli anni ’70 e ha considerato come criterio
classificatorio quello delle finalità da raggiungere, consentendo di distinguere in:
• Gruppi di controllo del comportamento deviante o a rischio (es.alcolisti anonimi)
• Gruppi di sostegno e di difesa dallo stress (es.genitori di bambini e adulti schizofrenici)
• Gruppi di azione sociale e civile (es. contro la discriminazione omosessuale)
• Gruppi di crescita e di autorealizzazione (es. gruppi di single)

Un’altra classificazione è stata proposta da Kats nel 1981 usando come criterio il tipo di sostegno
fornito:
• Gruppi focalizzati sull’autorealizzazione e crescita personale (es.professionisti)
• Gruppi centrati sulla difesa sociale (es.advocacy, disabili)
• Gruppi impegnati nella difesa di diritti e modelli alternativi di vita (es.donne)
• Gruppi creati per offrire rifugio a emarginati (es.immigrati)
• Gruppi misti
Quali sono i fattori chiave del cambiamento?
Il fatto che questi gruppi siano oggetto di studio dipende dal fatto che funzionano, che promuovono il
cambiamento.
Qual è la molla di tale cambiamento?

• Funzioni socio emotive del gruppo fra pari

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• Carica ideologica del gruppo nella modifica di atteggiamenti e comportamenti
• Il valore terapeutico del ruolo di HELPER
Riessman nel 1965 aveva formulato delle ipotesi su quella che lui aveva chiamato la Helper
Therapy; l’helper è colui che aiuta, ma in che senso ha un ruolo importante?
Riessman è molto chiaro in questo: chi aiuta riceve egli stesso un aiuto, quindi non è solo l’atto di
ascoltare un altro con un rapporto unilineare.
Questo punto viene specificato ulteriormente da Martini e Sequi nel 1988: l’intento comune di tutti i
gruppi è quello di trasformare coloro che domandano aiuto in persone in grado di fornirlo,
aumentando la padronanza e il controllo sui problemi.
Il fattore di efficacia della Helper Therapy è che la persona che aiuta:
• Aumenta il senso di controllo, autostima e competenza personale
• Riceve un riconoscimento sociale
• Si sente meno dipendente, per via dell’equilibrio che si crea tra il “dare” e il “ricevere”
• Ha l’opportinità di osservarsi dall’esterno e di apprendere strategie di cambiamento

ORGANIZZAZIONE DEGLI INCONTRI


• Gruppo chiuso oppure aperto
• Incontri a tema strutturati oppure non strutturati
• Durante le riunioni di gruppo ci puo’ essere lo svelamento di una storia personale, oppure la
condivisione di tutti
• I rinforzi sono formalizzati oppure informali del gruppo rispetto agli obiettivi personali
raggiunti

Analizziamo adesso alcuni esempi di questi gruppi:

→ A.A. (alcolisti anonimi)


E’ il prototipo di questi gruppi e ha alcuni elementi che lo caratterizzano e che si ripetono anche in
altri gruppi, che sono:
• L’anonimato (contro la schedatura dei sistemi tradizionali): il membro se lo desidera puo’ non
rivelare la propria identità o avvalersi di un nome fittizio, ma deve soprattutto impegnarsi a
non rivelare l’identità degli altri e a non ripetere all’esterno i loro discorsi e le loro storie
personali. L’unico requisito di questi membri è il desiderio di smettere di bere.
• Gli incontri, di solito con frequenza bi o trisettimanale, avvengono sui “dodici passi”, che
rappresentano l’itinerario di una progressiva presa della realtà e della propria personalità e
riconducono all’integrazione morale e sociale
• Non si fa dibattito, non si esprimono giudizi o critiche: ognuno, a turno, porta la sua
testimonianza, basata sulla propria esperienza di cammino in A.A. ed espone, se e nella
misura in cui lo ritiene necessario, i propri problemi personali.

Esempio dei “dodici passi” (sono alcune affermazioni su cui si centra il dibattito dell’incontro):
1. noi abbiamo ammesso di essere impotenti di fronte all’alcool o cibo, e di non poter più
controllare la nostra vita.
2. siamo giunti a credere che un Potere più grande di noi avrebbe potuto riportarci alla
ragione
3. abbiamo deciso di affidare la nostra volontà e la nostra vita a Dio così come noi
potevamo concepirlo
4. abbiamo fatto un inventario morale profondo e coraggioso di noi stessi
12. avendo ottenuto, così come risultato da questi passi, un risveglio spirituale , abbiamo
cercato di trasmettere questo messaggio ai mangiatori compulsivi e di mettere in pratica questi
principi in tutti i campi della nostra vita.
Gli incontri terminano con questa affermazione:

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Dio mio donami la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le
cose che posso e la saggezza di conoscerne la differenza.

Æ A.GIT.A. (associazione degli ex giocatori d’azzardo e delle loro famiglie) di Campoformio (UD).
I partecipanti sono, appunto, ex giocatori d’azzardo, giocatori e familiari e i temi affrontati sono quelli
collegati al gioco d’azzardo dal punto di vista personale e sociale.

Æ CAT (club degli alcolisti in trattamento).


Sono gruppi di trattamento con il coinvolgimento della famiglia e sono molto diffusi in Italia.
Altri esempi di questi gruppi sono:

Æ persone che vivono con un tumore: questo è un gruppo condotto da uno psicologo, è aperto e
prevede incontri non strutturati.
Gli obiettivi sono:
• promuovere un esame di realtà
• aiutare ad affrontare i problemi correnti
• incoraggiare la speranza
• diminuire l’isolamento
• favorire la condivisione di modalità efficaci di affrontare il problema (strategie di coping)
• fornire informazioni sulla malattia, sul decorso, sul ruolo dei farmaci e sugli effetti collaterali.

Æ Genitori insieme: si pone come obiettivo quello del sostegno pratico ed emotivo a genitori per
rafforzare la capacità di presa di decisione in campo educativo.
La discussione verte su quelli che sono i piccoli e grandi problemi della vita quotidiana con i propri
figli (la nanna, il pasto, i capricci, il gioco).

Passiamo all’ultima parte della lezione: il rapporto con le Istituzioni formali di cura.
Un primo punto da sottolineare è che i gruppi di self-help rappresentano il superamento della
“delega” ai professionisti per la cura e la prevenzione e la salute è in relazione a cio’ che l’individuo fa
per mantenerla e per prevenire le condizioni di malattia.
Che tipo di rapporti si sono creati nel tempo tra professionisti del servizio e gruppi di auto e mutuo
aiuto?
Rapporti all’inizio conflittuali, in quanto i gruppi di auto e mutuo aiuto erano visti con molto sospetto
e con qualche critica da parte dei professionisti, poi con il tempo si sono evoluti e si sono trasformati
in rapporti di collaborazione
Nello specifico: uno psicologo cosa puo’ fare?
Puo’ operare come iniziatore di gruppi, cioè puo’ essere la persona che individua la necessità di
costruire questi gruppi e, quindi, collaborare affinché si formino questi gruppi.
Ancora, puo’ operare come facilitatore di gruppi, puo’ funzionare da consulente esterno e inviare
nuovi partecipanti al gruppo.
Questo rapporto di collaborazione ha fatto sì che le strutture rivedessero un po’ le loro posizioni e le
loro strategie fino a diventare un elemento di affiancamento, completamento, integrazione e non di
competizione né di sostituzione dei gruppi di auto e mutuo aiuto.
Ancora, c’è una conoscenza di tipo personale contro una conoscenza di tipo professionale,
un’autonomia e non una gestione controllata delle Istituzioni; c’è una sperimentazione di relazioni di
aiuto diversi dal modello medico tradizionale, che è quello asimmetrico, perché il principio base è
quello di reciprocità (che poi è quelli che sta alla base dell’economia civile) che è all’opposto del
principio di autorità (che regola l’economia dello Stato) e del principio dello scambio (che regola,
invece, l’economia privata).
Possiamo concludere con questa affermazione di Riessman che, nel 1990, ci ha aiutato a capire in
che modo i gruppi di auto e mutuo aiuto sono una risorsa per la comunità: “E’ trasformando coloro
che sono aiutati in persone che aiutano che vengono allargate le risorse, in quanto il fatto di avere il

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problema diventa una componente della soluzione (rovesciamento di ruoli Æ persone che hanno quel
problema non sono da considerare, in modo restrittivo, come persone che hanno un problema, ma
come persone che, proprio perché hanno quel problema, sono una risorsa per la sua soluzione).
Invece di pensare a dieci milioni di alcolisti che hanno bisogno d’aiuto, il nuovo paradigma li
concepisce come persone in grado di offrirne: cio’ ha come effetto quello di accrescere le risorse di
aiuto non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente.

LEZIONE N° 9 Æ L’Analisi Organizzativa Multidimensionale (Prof.ssa


Francescato)

Argomenti della lezione:


• l’evoluzione dei paradigmi interpretativi
• la necessità di approcci multidimensionali
• l’analisi organizzativa multidimensionale: uno schema guida per capire e intervenire nelle
organizzazioni

Obiettivi della lezione:


• breve panoramica dell’evoluzione dei paradigmi interpretativi delle organizzazioni
• illustrare l’analisi organizzativa multidimensionale e gli scopi per cui puo’ essere usata in vari
contesti.

Cominciamo con l’evoluzione dei paradigmi.


Il Prof. De Masi distingue fra due scuole di pensiero:
Æ la scuola manageriale
Æ la scuola strutturale
entrambe queste scuole hanno studiato l’Organizzazione, ma con importanti differenze, vediamo
quali.

Scuola Manageriale Scuola Strutturale


È di stampo anglosassone, cioè la maggior È composta prevalentemente da studiosi
parte degli studiosi di questa scuola proviene europei, quindi da Professori universitari, è
da paesi anglosassoni, sono consulenti attenta:
aziendali e si occupano di: • interdisciplinearità
• efficienza • contesto socio-politico
• reclutamento • alienazione
• selezione del personale • relazioni di reti industriali
• sviluppo organizzativo • benessere dei lavoratori

Perché è importante la differenza tra queste due scuole?


Perché il modo in cui guardano l’organizzazione dipende dalla disciplina che hanno studiato e dagli
obiettivi che hanno e, parimenti, anche dal committente che hanno, per cui abbiamo visto che gli
argomenti degli europei (che per la maggior parte sono professori universitari) hanno guardato di più

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i contesti socio-politici, le organizzazioni sindacali, mentre gli studiosi che sono stati pagati dai
manager, ovviamente, hanno studiato di più come far funzionare l’organizzazione al suo interno.
Il punto interessante è che ora, nell’era post-industriale, le sfide organizzative richiedono
l’integrazione di queste due scuole; la novità è che, mentre prima questi mondi erano divisi, adesso
la loro integrazione è molto importante perché ci troviamo di fronte a delle sfide molto interessanti
che, necessariamente, richiedono sia i contributi degli studiosi europei che quelli dei manager
anglosassoni.
Uno studioso italiano, Massimo Bruscaglioni, individua 4 approcci allo studio delle organizzazioni e
sottolinea che ogni paradigma vede un solo aspetto organizzativo:
1. Approccio sociologico – strutturale: distribuzione del potere, divisione delle qualità del lavoro,
conflittualità tra le classi presenti nell’organizzazione (conflittualità).
2. Approccio sistemico – funzionale: unitarietà, cooperazione, organizzazione intesa come
sistema complesso e integrato (cooperazione e funzioni dell’organizzazione)
3. Approccio socio – analitico: le componenti latenti, inconsce, individuali e collettive e l’uso
difensivo dell’Istituzione da parte dei suoi membri (gli studiosi di questa corrente sono tutti
psicologi e psicoanalisti)
4. Approccio psico – sociale: il fattore umano e lo sviluppo delle risorse umane in rapporto con
l’efficienza organizzativa.

Allora, abbiamo visto che nel primo approccio strutturale le persone che studiavano le organizzazioni
erano cronisti esperti di diritto, esperti di relazioni industriali; nel secondo approccio erano ingegneri
del sistema e sociologi o psicologi del lavoro.
Nel terzo approccio sono psicologi e psicoanalisti che, pero’, studiavano in modo particolare gli
aspetti inconsci; che vuol dire?
Ognuno di noi ha degli atteggiamenti di cui è consapevole verso la struttura in cui lavora e altri
atteggiamenti che emergono quando ci si riflette un po’ su.
Per esempio: se uno sta male in un’organizzazione puo’ ammalarsi più spesso e questo è, in realtà,
un atteggiamento di difesa come non andare al lavoro in un posto sgradito.
Oppure puo’ avere un rapporto buono / cattivo col suo capo e puo’ proiettare in lui i rapporti di
autorità che ha avuto nella sua infanzia con altre figure di autorità come il padre o l’insegnante.
Dunque in questo approccio, gli psicologi e gli psicoanalisti studiano le componenti, anche latenti,
delle emozioni, dei pensieri, degli atteggiamenti che legano l’individuo all’organizzazione e di cui non
sempre si è consapevoli.
Bruscaglioni sostiene che per molti anni ogni approccio ha operato indipendentemente perché,
appunto, gli studiosi che ne facevano parte venivano da discipline, da lauree diverse, usavano
strumenti diversi e avevano obiettivi diversi.
Negli ultimi venti anni c’è stato un tentativo di mettere insieme alcuni approcci, per esempio di fare
una consulenza organizzativa basata in parte sull’approccio psicosociale e in parte su quello
socioanalitico, e l’autore insiste sostenendo che occorre andare verso un’integrazione dei vari
approcci, perché ogni approccio vede soltanto un lato dell’organizzazione e non vede gli altri, mentre
tutti gli approcci sono necessari per capire l’organizzazione nel suo complesso.
Anche Morgan (consulente organizzativo che vive in Canada) ha proposto un modo per integrare i
vari approcci; dice “perché non usiamo varie metafore organizzative, cioè pensiamo all’azienda come
se fosse una macchina, un cervello, un organismo, una prigione in modo da aumentare i punti di
vista con cui noi guardiamo l’organizzazione”?
Possiamo avere degli insight e capire meglio l’organizzazione e chi ne fa parte.
L’altro passaggio interessante verso l’integrazione di approcci lo hanno fatto Flood e Jackson (sono
due studiosi inglesi) che hanno proprio integrato le scuole manageriali e quelle strutturali in una
filosofia che si chiama Pensiero dei sistemi totali.

Cosa hanno fatto?

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Hanno cercato di integrare gli apporti più originali delle due scuole in un sistema, diciamo, coerente
di interpretazione della realtà organizzativa.
Allora, fino ad ora abbiamo visto che è emersa l’esigenza di integrare i vari approcci dell’analisi
dell’organizzazione, ma perché?
In questo momento storico le organizzazioni, grazie alla globalizzazione, stanno affrontando due
grandi sfide:
• Competere sul mercato internazionale
• Avere lavoratori attenti e motivati

Perché?
Se io, un tempo, producevo un prodotto tipo il gesso, colui che lavorava alla catena di montaggio
poteva essere arrabbiato, ma a meno che non facesse errori gravi che riducevano la qualità del
prodotto, non c’era rapporto tra chi produceva il gesso e chi lo usava.
Invece quello che è cambiato è che la società (vi ricordo che un tempo la società agricola e quella
industriale occupavano la maggior parte dei lavoratori, per cui tutti producevano dei prodotti che non
venivano visti dal consumatore: c’era lontananza, non si conoscevano neanche), negli ultimi trenta /
quaranta anni si è assistito alla rivoluzione post-industriale, cioè abbiamo creato più servizi.
I servizi, specie quelli che coinvolgono le persone, hanno bisogno di un’organizzazione del lavoro
diversa, perché?
Mentre io posso costringere una persona a venire a lavorare in una catena di montaggio e posso
sorvegliare che non sbagli perché il prodotto lo controllo prima che vada sul mercato, quando faccio
un servizio a una persona, invece, la qualità la posso controllare soltanto a posteriori.
Per questo le aziende di servizi devono avere persone molto motivate, perché io posso dire ad un
bancario di essere gentile con la clientela, pero’ non lo posso obbligare ad essere veramente
amichevole perché magari mi fa un sorriso falso, allora adesso per l’organizzazione al lavoro dei
servizi, non posso semplicemente ordinare al lavoratore di fare qualcosa, perché è cambiato, come
vedremo, anche il modo di chiamarle, queste persone: invece di personale dipendente ora si parla di
collaboratori.
Perché?
Perché in realtà, nella nuova organizzazione aziendale, la sfida è avere lavoratori motivati, contenti,
soddisfatti, in quanto molte delle prestazioni di servizio e delle prestazioni creative non possono
essere ottenute se le persone non sono motivate.
È questa la grande differenza rispetto al passato, per questo c’è stata l’esigenza di integrare
l’approccio giuridico, quello economico, l’approccio funzionale e quello che sta più attento al fattore
umano, perché il fattore umano ormai è cruciale nelle organizzazioni di servizio alle persone che in
quelli di produzione di conoscenza.
Perché, appunto, è avvenuto un cambiamento importante per cui, da squadra tipo il baseball in cui
ognuno gioca un suo ruolo, si è passati alla concezione di squadra di jazz, per cui si lavora in gruppo
e ogni strumento/individuo rende armonica, ed è indispensabile, la melodia/organizzazione.
Questi cambiamenti cruciali hanno portato le organizzazioni a rivedere il loro metodo di
organizzazione del lavoro, e per questo motivo hanno bisogno di ri-motivare sempre i propri
collaboratori, di scegliere quelli migliori e, contemporaneamente, di competere sul mercato
internazionale.
Allora, in questa seconda parte della lezione volevo parlare di uno strumento che io elaborato nel
1982, proprio tenendo conto di queste problematiche nuove e che si chiama ANALISI
ORGANIZZATIVA MULTIDIMENSIONALE Æ A.O.M.
Si tratta di una modalità di ceck-up organizzativo utilizzata, finora, in aziende pubbliche, private e
del terzo settore e, vedremo, è uno strumento (utilizzato dagli psicologi di comunità) che si presta
meglio in alcune organizzazioni che in altre.
Allora, prima di tutto: che cos’è l’A.O.M.?
È un approccio sistemico che pensa che le aree-problema dipendano da vari fattori e creino disagi in
ambiti diversi.

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Le premesse base dell’A.O.M. sono:
• Diverse teorie si occupano di differenti fenomeni organizzativi
• Ogni teoria ha degli strumenti e delle tecniche che permettono una lettura del funzionamento
dell’organizzazione (non la sola o la più giusta, ma una sola lettura), invece noi diciamo che
ogni dimensione è correlata con le altre (una crisi economica porta a possibili licenziamenti,
che incidono sulla motivazione del lavoratore portando, così, ad una diversa qualità del
lavoro) e sono sistemicamente unite, cioè connesse: quello che accade in un aspetto
dell’organizzazione si riverbera su tutti gli altri aspetti.
• Nessuna di queste letture è più vera delle altre, in quanto si tratta di visioni diverse della
stessa realtà; questo è importante, perché di solito ogni professionista tende a pensare che
l’aspetto importante dell’organizzazione è quello di cui si occupa lui stesso, e vedremo che
non è affatto così

Quali sono gli scopi che l’A.O.M. vuole raggiungere?


Vuole aumentare la capacità di formulare diagnosi multiple, la consapevolezza delle interconnessioni
tra le diverse dimensioni, insomma dare una visione globale.
Allora, cosa fa questo strumento?
Mi permette di capire un’organizzazione dai punti di vista soggettivi ed oggettivi, esamina questi due
aspetti e individua il grado di accordo psico-sociale.
Con questo strumento si capiscono sia gli aspetti soggettivi, che hanno a che fare con gli
atteggiamenti e le motivazioni delle persone (grado di soddisfazione), che quelli oggettivi, cioè il lato
economico, quello produttivo, quello competitivo; soprattutto, a noi psicologi di comunità, interessa
capire il grado di accordo psicosociale (rapporto tra aspettative e realtà).
Come funziona questo metodo, in pratica?
Prima di tutto, richiede la partecipazione di persone aventi ruoli diversi perché questo è un metodo
partecipativo; nelle scuole coinvolgero’ i docenti, i dirigenti, gli alunni, i genitori degli alunni, i bidelli,
mentre nelle organizzazioni faremo quest’analisi con i rappresentanti di ogni componente perché il
nostro scopo è vedere l’organizzazione da vari punti di vista.
Noi psicologi di comunità pensiamo che l’organizzazione sia una comunità che deve essere compresa
da ogni singolo componente, al fine di lavorare meglio e non solo: noi vogliamo dare importanza a
quelle voci che di solito non sono ascoltate.
Normalmente prendiamo piccoli gruppi di max 30 persone che siano, pero’, rappresentanti di tutte le
componenti dell’organizzazione; oltre a questo gruppo interno all’organizzazione, l’analisi
organizzativa multidimensionale viene fatta con un consulente esterno (tipo profili di comunità)
perché puo’ fare formazione di intervento, consulenza organizzava, oppure autodiagnosi.
Il consulente esterno, di solito, è qualcuno che viene chiamato dall’organizzazione per fare un
intervento in quanto l’organizzazione ha dei problemi; allora questo intervento puo’ essere fatto sotto
forma di formazione, di consulenza organizzativa o di intervento o di autodiagnosi organizzativa (chi
usa questa tecnica l’ha imparata e la usa al suo interno.
Dimensioni A.O.M.

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Dimensione
Psicodinamica

Dimensione
Psicoambientale

Dimensione
Strategico-
strutturale
Dimensione
Funzionale

• La dimensione strategico-strutturale è una dimensione che ha a che fare con gli obiettivi
dell’organizzazione, cioè con il potere (chi decide gli obiettivi)
• La dimensione funzionale, invece, parla delle attività che devono essere svolte per
raggiungere questi obiettivi
• La dimensione psicoambientale parla del rapporto tra persone e organizzazioni
• La dimensione psicodinamica parla del rapporto individuale e, in qualche modo, inconscio dei
gruppi rispetto all’organizzazione, che possono essere dei sentimenti anche inconsapevoli.
Allora, qual è il percorso che si fa nell’A.O.M.?
Si comincia con l’analisi preliminare (già vista nei profili di comunità): il gruppo parla dei punti forza
e delle aree problema della propria organizzazione.
Questi punti forza e aree problema vengono suddivisi nelle quattro dimensioni (v.di torta sopra) e
alla fine dell’analisi abbiamo cinque grandi cartelloni in cui figura l’intera analisi preliminare.
A questo punto il gruppo ragiona sulle interconnessioni tra queste dimensioni e si passa alla
progettazione dei mutamenti desiderati, da parte dell’intero gruppo.adesso vediamo, dimensione per
dimensione, che cosa si fa.
La dimensione strategico-strutturale riguarda la storia strategica dell’organizzazione, il
posizionamento e i suoi aspetti giuridici, economici, politici, architettonici e gli obiettivi.
Che cos’è la storia strategica?
È la storia degli obiettivi che si è data l’organizzazione e, mano a mano che questi cambiano, cambia
anche la strategia; di solito questa dimensione ha a che fare con gli aspetti giuridici, economici e
politici.
Solitamente un’organizzazione “viva” cambia obiettivi strategici perché si adegua e, anzi, precede il
mercato, precede i bisogni per cui la storia strategica ci dice come si è mossa, come si è evoluta nel
tempo l’organizzazione.
È importante condividere la storia strategica dell’organizzazione, soprattutto con i nuovi arrivati.
Tornando a noi, i membri del gruppo tirano fuori i punti forza e le aree problema e si confrontano tra
di loro.
La dimensione funzionale, come dicevo prima, parla delle funzioni necessarie al raggiungimento
degli obiettivi: chi fa che cosa, quando e con chi e questo ha a che fare con i ruoli, per cui si tratta di
fare delle attività dei sistemi:
• Controllo di gestione (qualcuno controlla la qualità del processo, del prodotto o del servizio
fatto)
• Controllo operativo il cattivo o inadeguato funzionamento
• Controllo del sistema informativo di uno dei tre si ripercuote sugli altri due

Adesso arriviamo a una dimensione molto interessante, che è la dimensione psicodinamica.


Qui si parla di vissuti e dei sentimenti nei confronti del proprio lavoro, delle persone e del contesto
lavorativo: questa è una dimensione che ha a che fare con il soggettivo.

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Mentre nelle altre dimensioni c’è un giusto o uno sbagliato, un prodotto bene o un prodotto male, qui
è semplicemente un vissuto, pero’ è importantissimo.
Gli strumenti che utilizziamo per capire questi vissuti sono:
• Il romanzo lavorativo: facciamo raccontare alle persone come hanno cambiato lavoro,
perché lo hanno fatto, perché hanno scelto quel lavoro dalla propria adolescenza fino al giorno
attuale.
Quindi si confrontano le persone che parlano di diversi lavori e aumenta, in questo modo,
l’integrazione e la comprensione tra persone che svolgono competenze diverse all’interno della stessa
organizzazione.
• Facciamo uso di metafore: qui cogliamo il sentimento ( se uno, ad esempio, dice “Finchè la
barca va, lasciala andare” non è uguale al soggetto che dice “Tutti insieme
appassionatamente”), il modo in cui vivono l’organizzazione.
• Tramite i disegni chiediamo alle persone di disegnare la loro organizzazione e poi facciamo
dei confronti
• Sceneggiati: noi chiediamo alle persone, divise in sottogruppi, di fare uno sceneggiato sulla
loro organizzazione, in cui devono inventarsi un titolo, un genere, una trama e, qualche volta,
recitare (v.di profili di comunità).
Questi sceneggiati hanno lo scopo di condividere con gli altri come stanno i vari sottogruppi e di
comprendere meglio gli aspetti psicodinamici e anche qui, da questi strumenti, emergono punti
forza e aree problema.
Infine c’è la componente conclusiva di questo lavoro che è la dimensione psicoambientale in
cui si guardano gli stili di leadership e la comunicazione: quali sono le motivazioni, gli
atteggiamenti, il grado di accordo psicosociale fra pressioni ambientali e aspettative individuali.
Alla fine di queste quattro dimensioni noi analizziamo le associazioni, le connessioni fra le
dimensioni ed elaboriamo progetti di cambiamento partecipati.

Pregi del metodo:


• Promuove una visione pluralistica dei problemi organizzativi
• Valorizza la diversità
Limiti del metodo:
• Richiede dei contesti (è uno strumento che non puo’ essere usato dappertutto)
• Richiede dei contesti democratici e partecipativi.

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LEZIONE N° 10 Æ L’educazione socio-affettiva
(Prof.ssa Francescato)

Argomenti della lezione:


• le origini teoriche di questo metodo
• gli obiettivi e i destinatari a cui si rivolge questa metodologia
• il metodo integrato (metodo Gordon e Cirle time)

Obiettivi della lezione:


• presentare obiettivi, strumenti e destinatari dell’educazione socio-affettiva.

Cos’è l’ educazione socio-affettiva, vi starete chiedendo?


È una metodologia finalizzata al potenziamento delle risorse personali e all’acquisizione
delle competenze sociali. (Francescato/Putton).
Questa definizione è stata presa da un libro che ho scritto con Anna Putton nel 1995.
Un’altra definizione è la seguente: l’educazione socio-affettiva è quella parte del processo educativo
che si occupa di atteggiamenti, sentimenti, credenze ed emozioni degli studenti (Lang).
Questo Lang è uno studioso inglese che ha scritto u libro, che io adotto così come è adottato in
diverse università europee, sull’educazione socio-affettiva.
Quali sono i fondamenti teorici di questo approccio all’educazione?
La psicologia umanistica, specialmente con i lavori di Maslow e Rogers, che dà importanza, come
vedremo, allo sviluppo del potenziale umano e che non guarda, a differenza della psicoanalisi e del
behaviorismo, a cosa non funziona negli esseri umani, ma guarda soprattutto alle tendenze più
positive dell’essere umano.
Dalla psicologia di comunità prende le definizioni e l’importanza del concetto di empowerment del
gruppo, perché come vedremo l’educazione socio-affettiva è fatta in gruppo.
Quali sono gli obiettivi?
• Riconoscere i propri sentimenti e le proprie emozioni, cioè saperli capire.
• accrescere l’autostima e l’autoefficacia sociale, cioè la mia capacità di capire bene me e
di agire con competenza nei contesti in cui mi trovo.
• Soprattutto, il più importante per noi psicologi di comunità, è che tramite l’educazione socio-
affettiva, come vedrete, noi insegniamo ai bambini, ai genitori, agli insegnanti, alle persone in
generale, ad aumentare i comportamenti prosociali, cioè di aiuto agli altri, e quindi a
saper accettare l’aiuto e a saperlo anche dare.
Chi sono i destinatari privilegiati, cioè quelli a cui noi tentiamo di fare educazione socio-affettiva?
Sono gli studenti di ogni scuola: pensate iniziamo già dalle scuole materne perché non è mai troppo
presto per iniziare l’educazione affettiva che dà importanza alla componente emotiva
dell’apprendimento; gli insegnanti a cui insegniamo, ovviamente, il metodo; i genitori, perché a
casa continuamente hanno che fare con le emozioni dei loro figli, affinché li aiutino a capire e a
gestire le loro emozioni, gli educatori in generale; i coordinatori di gruppi del terzo settore e tutti
coloro che sono in associazioni che si rivolgono ai giovani.

Allora: cos’è il metodo integrato?


È un metodo che abbiamo voluto io e Anna Putton per poter ottenere in qualche modo tutti questi
vari obiettivi e ha tre componenti:

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• Il primo si occupa soprattutto di migliorare il rapporto insegnante / classe, e lo facciamo
attraverso il metodo Gordon.
• Il secondo vuole migliorare il rapporto tra i compagni in classe attraverso il cirle time.
• Il terzo obiettivo, cioè la terza componente del metodo integrato, vuol promuovere
l’autoconsapevolezza emotiva dei ragazzi, per cui si fanno degli esercizi psicomotori per
aiutarli a capire le emozioni, specialmente quelle negative: la rabbia, l’ira e le altre emozioni
che possono dar luogo a comportamenti distruttivi per sé e per gli altri. Noi vogliamo
aumentare i comportamenti prosociali, vogliamo diminuire i litigi tra compagni e , soprattutto
, le violenze.

Allora, cos’è il metodo Gordon?


Si chiama così dal nome di uno psicologo americano che ha elaborato delle strategie di
comunicazione efficaci per risolvere i conflitti interpersonali.
La sua idea è che, quando litighiamo con i nostri partners, con i nostri fidanzati, con i nostri figli o
con i nostri datori di lavoro, insegnanti o allievi, spesso abbiamo un aumento del conflitto
interpersonale perché comunichiamo male, comunichiamo in modo inefficace, e vedremo a tal
proposito quali sono gli errori più frequenti.
Gordon pensa che una buona relazione insegnante / allievo sia imprescindibile per poter insegnare e
apprendere; se c’è un cattivo rapporto tra insegnanti e allievi non si puo’ imparare, perché siamo
occupati a litigare e non ad imparare.
Senza un buon rapporto non si creano le basi giuste per poter imparare e un buon rapporto è basato
sul riconoscimento reciproco, sull’empatia, sull’accettazione e sulla valorizzazione.
Come si arriva a questo tipo di rapporto? Tramite:
• Ascolto attivo
• Messaggio io
• Risoluzione dei conflitti con il problem solving

Le domande chiave da porsi sono:


• Questo comportamento chi danneggia?
• A chi impedisce di lavorare?
• A chi appartiene il problema?

Riconoscere l’appartenenza del problema significa individuare limiti e confini tra sé e l’altro, significa
chiedersi “chi sta a disagio in questa situazione?”.
E un buon rapporto è basato sul riconoscimento reciproco, sull’empatia, sull’accettazione, sulla
valorizzazione.
Quali sono queste tecniche di Gordon, come si arriva ad avere questo tipo di rapporto?
Un insegnante, secondo l’autore, puo’ misurare o migliorare, in ogni modo capire il suo rapporto con
gli studenti se usa queste tecniche: l’ascolto attivo, il messaggio io, la risoluzione dei conflitti con il
problem solving.
Ora, Gordon dice che per capire quando si ha un problema, occorre capire chi danneggia questo
comportamento, poi bisogna chiedersi a chi impedisce di lavorare tale comportamento e , infine, a
chi appartiene il problema (se a me, all’alunno o ad entrambi).
Che vuol dire?
Se il ragazzo sta picchiando un altro ragazzo il problema è dell’insegnante, che deve intervenire e
interrompere la lezione, per occuparsi di un problema di disciplina.
Per cui, in realtà, quando un ragazzo disturba un suo compagno sta dando fastidio al lavoro
dell’insegnante.

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Se un ragazzo tranquillo nel suo banco non ascolta, il problema è del ragazzo perché in questo caso
l’insegnante puo’ continuare a lavorare, ma il ragazzo non sta apprendendo, quindi il problema
appartiene a lui.
Se, ad esempio, si litiga tra due compagni su dove sedersi, il problema appartiene sia all’insegnante
che ai due ragazzi, per cui useremo delle tecniche diverse.
L’importante è chiedersi, quando si litiga con qualcuno, a chi appartiene il problema, chi è
danneggiato da questa cosa.
Riconoscere l’appartenenza del problema significa individuare i limiti e i confini tra sé e un altro,
significa chiedersi chi è a disagio in questa condizione; è così che io riconosco il problema.

Come scegliere quali tecniche usare?

Problema Metodologia
Messaggio io
Insegnante
Alunno Ascolto attivo
Entrambi Problem solving

Abbiamo messo docente, ma avremmo potuto mettere anche marito, moglie ecc.; cioè se il problema
è di uno in funzione dell’autorità, in questo caso il docente, si manda il messaggio io, se appartiene
allo studente l’ascolto attivo.

Cos’è l’ascolto attivo, perché si chiama così?


Perché, appunto, non è un ascolto indifferente e passivo, ma è un ascolto che fa sì che la persona
ascolta si senta in comunicazione empatica, cioè si sente in qualche modo che l’altro fa attenzione a
quello che diciamo.
Ad esempio al telefono, quando l’altra persona con cui parlate non dice più niente, voi chiedete se è
ancora lì, se è ancora in linea, cioè avete bisogno di segnali tipo “hm,hm”, cioè di segnali che spesso
sono verbali, ma che molte altre volte non lo sono , come uno sguardo, un segno di assenso che fa sì
che io so che tu stai comunicando con me in questo momento.
Se tu leggi il giornale, o guardi da un’altea parte, non abbiamo la comunicazione empatica, anche se
parlo.
Dunque l’ascolto attivo è soprattutto ascoltare lasciando capire a chi parla che tu lo stai a sentire.
È molto importante ascoltare senza giudicare, cioè non prepararsi a contrattaccare mentre si sta
ascoltando, cosa che facciamo quasi tutti, perché l’ascolto attivo è “io ascolto senza giudicare” e si
compone di varie fasi: c’è un primo momento di silenzio, cioè non posso parlare mentre lo fa l’altro.
L’ascolto attivo prevede varie fasi:
• Ascolto passivo (silenzio): permette di esporre, senza essere interrotti, i propri problemi
• Messaggi di accoglimento: non verbali (un cenno della testa, un sorriso, ecc.) o verbali (ti
ascolto) in modo che l’altro sappia che lo stiamo veramente ascoltando
• Feedback (ascolto attivo): che non è cosa penso io del tuo problema, ma una rilettura di
cosa mi hai detto per verificare se ho capito.
Questo è già molto importante, le discussioni si interrompono continuamente: io devo ascoltare, cioè
permettere a chi sta parlando di esporre senza essere interrotto i propri problemi Æ ascolto passivo.
L’altra parte importante è invece, quello che dicevo prima, fare quei messaggi verbali e non, in modo
che l’altro capisca che lo sto ascoltando e percepisca la mia attenzione.
L’ascolto attivo ha questa parte, che poi è la più importante, di feedback: se non sei stato attento
non puoi dare un feedback, che comunque non è quello che penso io del tuo problema (cioè un
giudizio, fondamentalmente), bensì una rilettura di cosa mi hai detto per verificare se ho capito, per
cui l’ascolto attivo è il modo in cui faccio capire all’altro che l’ho ascoltato e che ho sentito quello che
mi stava dicendo.

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Attenzione, adesso arriva cio’ che noi facciamo normalmente, ovvero gli errori che commettiamo ogni
volta che una persona parla.
Gli errori da evitare sono i seguenti (Gordon ne individua 12):
1) Ordinare la soluzione: uno dice qual è il suo problema e io ordino la soluzione.
Se un bambino dice “non so cosa fare” e io gli rispondo “vai a pulire la tua stanza”, cioè quando io
ordino ad un ragazzino, sia io docente o genitore, quello che il ragazzo sente è che non vengono
prese in considerazione le sue emozioni e i suoi sentimenti, non si sente capito.
Se io ordino, in modo autoritario, certe volte posso essere obbedito, ma suscitero’ sicuramente del
risentimento.
2) Minacciare o avvertire quando uno si confida presentandoci un problema personale: quando
avverto o minaccio, vuol dire che in realtà induco nel ragazzo una difesa o un contrattacco, oppure
una sottomissione.
Provate a pensare all’ultimo litigio che avete avuto con un vostro fidanzato o un vostro amico; di
solito, quando qualcuno minaccia di fare qualcosa noi tendiamo a difenderci negando di aver fatto
quello che l’altra persona dice, oppure cerchiamo di contrattaccarlo; infatti nelle coppie che si
separano c’è questo tipo di litigio.
Le persone, invece di ascoltarsi reciprocamente, si accusano e si minacciano e addirittura ricordano e
rivangano i torti subiti, per cui questi errori di comunicazione sono importantissimi nella vita di
coppia in generale, ma anche quando parliamo con i nostri figli e, ovviamente, a scuola.
3) Fare la morale: allora, se io sono un insegnante e il ragazzo ha fatto qualcosa che non va, se io
gli faccio la morale colpevolizzo il ragazzo, che si sente praticamente il responsabile, cercherà di
dimostrarmi che non lo è.
4) L’altro errore frequente è il consigliare.
Uno dice “come, gli do un buon consiglio….”. se io suggerisco la soluzione a mio figlio è come se gli
dicessi “non ho fiducia che tu ci arrivi da solo, non credo nelle tue capacità”.
Questo è importantissimo, perché se io ti do il messaggio che devo sempre consigliarti cosa fare
(questo, in realtà, risolve il problema per il genitore, che se ne libera , ma dà al figlio il messaggio “io
ragiono per te”) tu non avrai mai fiducia nelle tue capacità.
5) Persuadere con argomentazioni logiche: quest’altro errore è meno frequente, ma vi è
abbastanza spesso nei docenti che hanno la logica come strumento, cioè tento di persuadere con
argomentazioni logiche il ragazzo affinché faccia qualcosa di diverso.
Il risultato, dice Gordon, è che si umilia il ragazzo facendolo sentire incapace e inferiore.
In qualche modo è come dirgli “vedi, non hai pensato a queste cose perché non sai ragionare, tu…”.
6) Fra gli errori più frequenti che commettiamo tutti con i nostri allievi o con i nostri figli, è quello di
giudicare e criticare; questo danneggia l’immagine del giovane e distrugge la sua sicurezza e
fiducia in sé.
Questo è importantissimo per i genitori e per gli insegnanti, perché abbiamo visto che la fiducia in sé,
l’autostima e il senso di sicurezza, predicono i buoni risultati nella vita e anche quelli scolastici.
L’autostima, l’autoefficacia sono una grossa fonte di motivazione per le persone a fare qualcosa.
Perché i bambini diventano incapaci di autostimarsi?
Spesso perché, di fronte ai loro problemi, i genitori invece di criticare il comportamento,
generalizzano e giudicano, per esempio dicono “sei un buono a niente, sei incapace di fare le cose,
sei sempre il solito disordinato”, cioè etichettano un comportamento in senso negativo, in tal modo il
ragazzo si sente veramente distrutto nella sua stima.
7) Proseguendo, Gordon dice che anche il complimentare è, qualche volta, negativo.
Come mai?
Quando i complimenti non sono meritati, non sono sinceri, possono ferire.
Un complimento immeritato che il ragazzo percepisce come falso puo’ ferire come una critica, perché
è sempre una valutazione in accurata.
La critica è una valutazione troppo malevola, il complimento (quando non è sincero) è un modo per
sfuggire all’ascolto attivo.

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8) Umiliare o ridicolizzare: l’altro errore che purtroppo i genitori e gli insegnanti commettono
spesso è umiliare e ridicolizzare: quando il ragazzo è preso in giro davanti ai compagni e si usa
l’arma del ridicolo per farlo sentir male, per farlo sentire sminuito.
Anche l’ironia del messaggio fa sì che si senta offeso, infatti le persone prese in giro quando sono
piccole si arrabbiano, quando sono grandi fanno finta di niente ma rimangono umiliati dentro,
restano delusi.
Umiliare in pubblico a scuola, ma anche in famiglia davanti ai fratelli, rende molto difficile per i
ragazzi avere una buona autostima, comunicare in modo efficace.
9) Quest’altro errore è un errore di interpretazione, cioè vuol dire che se io interpreto il
comportamento di un bambino, per es.”fai così perché sei stanco”, se è giusto, il bambino si sentirà
offeso perché non ha capito lui stesso di essere stanco, se è errato si sentirà incompreso.
Quindi è molto importante non interpretare il comportamento degli altri.
10) Infine quest’errore sembra un po’ strano: perché simpatizzare, rassicurare è un errore di
comunicazione?
Il bambino puo’ pensare che io non capisca il suo problema, che non gli dia importanza.
Per es. un errore che fanno spesso i genitori è quello di dire “eh, quando crescerai il problema andrà
via” perché in qualche modo la comunicazione che diamo è “non voglio darti l’attenzione per questo
problema, non lo ritengo abbastanza importante, sei tu che sei ridicolo a pensare che sia un
problema”.
Ecco, di nuovo rassicurare, dire che non è un problema quando un bambino per es. ha paura del buio
è sbagliato perché così non si coglie il problema.
11) anche questo sembra un po’ strano, perché in alcune circostanze va bene informarsi, ma se un
bambino o un ragazzo a scuola ha un problema e io mi informo troppo e gli faccio un interrogatorio,
vedrete che la persona si chiuderà in sé stessa e mi parlerà ancora meno del suo problema.
12) un altro errore di comunicazione è schivare il problema, far finta di niente, deviare, beffarsi.
In questo modo si comunica di nuovo al bambino che il problema non è importante, che ci sono cose
o persone che meritano un maggiore interesse rispetto a lui.
Quando un papà, o un insegnante, fa finta che il problema non esiste, il messaggio che dà a suo
figlio, o al suo allievo, è: “sei un po’ matto ad avere questo problema” e così il bambino sente di aver
sbagliato ad esporlo.
Allora, cos’è l’ascolto attivo e quando è meglio usarlo (che poi è la prima parte del metodo Gordon)?
Vi ricordo che l’ascolto attivo è il metodo usato per migliorare il rapporto adulto/ragazzo, che sia
genitore, che sia un bambino, che sia suo figlio, che sia un suo allievo.
L’ascolto attivo è appropriato quando è il ragazzo che ha il problema, quando io devo semplicemente
ascoltare e aiutare il bambino ad arrivare ad una soluzione da solo, perché così si favorisce la sua
autonomia.
Quando invece sono io che ho il problema, come adulto, mandero’ un messaggio io, che è il contrario
dell’ascolto attivo, perché sono io che dico “ Quando tu fai così io mi sento in questo modo e vorrei
che tu facessi…”; in questo caso sono io a dire che cosa dovrei fare.
Quando c’è invece il problem solving, useremo delle tecniche di creatività per risolvere il problema
insieme.
Ho enfatizzato particolarmente l’ascolto attivo in questa lezione, perché è la cosa più difficile da fare
per noi; tuttavia se riuscissimo a fare l’ascolto attivo, noteremmo subito un cambiamento anche
nell’altra persona, un cambiamento più positivo perché l’ascolto provoca altro ascolto.
L’ascolto attivo comunica due cose:
• Sono interessato a te
• Ho fiducia in te
entrambe molto importanti.
Gli insegnanti che creano un buon rapporto con i ragazzi a scuola sono capaci di ascolto attivo, così
come i genitori che hanno un buon rapporto con i propri figli.

Passiamo ora all’argomento che riguarda come promuovere buoni rapporti tra i ragazzi a scuola.

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Voi sapete che è un problema importantissimo perché a scuola ci sono episodi di bullismo e la
violenza sta aumentando a livelli impensabili: in america alcuni ragazzi hanno ucciso i loro compagni
e i propri insegnanti.
Ma anche da noi in Italia le cose cominciano a mettersi male: c’è chi taglia le ruote all’auto
dell’insegnante, chi ruba, chi insulta o picchia i compagni, per cui ci sono dei comportamenti
antisociali; noi, attraverso la tecnica del circle time, cerchiamo di promuovere dei comportamenti
prosociali.
La tecnica si riferisce al fatto che il cerchio del tempo (letteralmente) è il tempo in cui i ragazzi sono
riuniti in cerchio per discutere un argomento scelto da loro.
L’insegnante, in quel momento, non fa l’insegnante, ma fa il facilitatore.
Vediamo cosa vuol dire.
Il cerchio del tempo è un momento che promuove una conoscenza reciproca più approfondita,
promuove il senso di appartenenza e la coesione di gruppo, sviluppa rapporti interpersonali positivi e
, infine, permette lo scambio di opinioni su argomenti diversi da quelli scolastici.
Perché il circe time si è sviluppato?
Nasce in Inghilterra e negli Stati Uniti per promuovere una comunicazione efficace tra i ragazzi su
aspetti non cognitivi e non scolastici.
Si è scoperto che il gruppo classe è importantissimo, tanto che i genitori cercano sempre di inserire i
propri figli nella sezione giusta, perché è importante cercare un gruppo classe in cui il figlio stara’
bene; questo per noi italiani è cruciale poichè i nostri ragazzi rimangono 5 anni alle elementari con lo
stesso gruppo, 3 alle medie e 5 alle superiori.
Negli altri paesi si gira di classe in classe, noi restiamo con la stessa classe-tana.
Io sono un po’ contraria a questa cosa, comunque è importantissimo che la classe funzioni, perché se
mio figlio si trova in una classe dove è emarginato e sbeffeggiato per tre anni, diventerà un
ragazzino problematico molto probabilmente, perché è difficile che si resista ad una pressione di
gruppo quando si è piccoli.
Allora, questo circle time ha vari scopi, tra cui
• Promuovere l’amicizia tra ragazzi.
Se voi chiedete ai ragazzi perché vanno a scuola, vi sentirete rispondere nella maggioranza dei casi
che lo fanno per stare con i loro compagni.
L’amicizia ha un ruolo fondamentale nella vita dei ragazzi e la scuola è per loro un posto importante
in questo senso, perché conoscono gli altri; se sono sempre occupati a studiare, a fare cose, non
riescono a parlare tra di loro degli altri interessi che hanno.
Invece, in questi gruppi noi facciamo scegliere ai bambini, dalle materne alle elementari , dalle media
fino all’università, di cosa vorrebbero parlare per conoscersi meglio.
La cosa importante è che l’argomento venga scelto dai ragazzi perché noi tentiamo, in questo modo,
di farli parlare tutti in cerchio (dove si vedono e si sentono), di sviluppare rapporti interpersonali
positivi (e cioè di far aumentare i comportamenti di aiuto e di amichevolezza fra i ragazzi),
soprattutto ci importa anche sviluppare il senso di appartenenza e di coesione del gruppo, perché in
un gruppo dove c’è forte coesione e appartenenza, le persone si sentono tranquille e sicure e, di
conseguenza, si aiutano.
• Aiutare i ragazzi a confrontarsi con le diversità.
Noi vogliamo che loro possano avere un tempo per riflettere sulle loro emozioni e per dire come si
sentono, cosa pensano dei vari argomenti., e infatti vedrete come questo metodo puo’ essere
applicato in vari settori: dall’educazione alimentare alla salute, e così via perché è un metodo che
aiuta i ragazzi a discutere e ad ascoltarsi…. Qui devono fare l’ascolto attivo in gruppo!!!
Quali sono degli ulteriori obiettivi?
Finora vi ho illustrato quelli dell’educazione socio-affettiva come è nata in Inghilterra e negli USA.
Vedendo la situazione negli USA, dove peraltro ho studiato, ho deciso che occorreva integrare questo
metodo, per cui ho posto ulteriori obiettivi:
• acquisire alcune conoscenze rispetto ai fenomeni di gruppo

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• acquisire determinate competenze nella conduzione e nell’osservazione di gruppi di
discussione.
Perché?
Perché se ci pensate, quando i nostri bambini iniziano ad andare a scuola, cominciano ad essere
influenzati dal gruppo dei pari e questa influenza diventerà determinante durante l’adolescenza,
tanto che se un ragazzo va con ragazzi che fumano e che devono, molto spesso avrà comportamenti
devianti anche lui, e spesso finirà con il drogarsi….. BUM!!! Per me l’ha sparata grossa.
Se va con il gruppo dei boy-scout si comporterà in modo diverso…. Per cui è molto importante, per i
ragazzi, capire i fenomeni di gruppo: cos’è la pressione del gruppo, cosa avviene che fa sì che io mi
comporti in modo diverso da come mi comporterei se fossi solo.
Vi ricordate, vi parlavo l’altra volta della violenza negli stadi.
• L’altro obiettivo che ci poniamo nel circle time è quello di promuovere un comportamento
di mutuo aiuto, cioè che i ragazzi si aiutino a scuola non copiando i compiti, ma aiutandosi e
insegnandosi l’un l’altro.
C’è un argomento molto interessante, chiamato “the peer education” che mostra come per molti
argomenti scolastici e non, si apprenda anche meglio fra pari o, comunque, ugualmente bene che
con un professore.
• L’altra fase è il sostegno reciproco: ogni persona, inclusi i bambini, nei momenti di crisi è
importante che anziché prendersi in giro e svilirsi imparino a sostenersi reciprocamente.
Allora, che succede nel circle time?
L’insegnante, una volta a settimana, dispone le sedie in circolo, perché?
Perché nella classe con la disposizione classica dei banchi, tutti gli sguardi sono centrati sul
professore, per cui la comunicazione di solito è discendente, cioè il Prof. parla e lo studente ascolta,
forse.
Noi vogliamo rompere questa comunicazione e farla diventare circolare, vogliamo che essa si estenda
e vogliamo che i ragazzi comunichino tra di loro guardandosi in faccia.
La frequenza è uni o bi-settimanale: in genere si inizia con una seduta a settimana affinché la classe
, alunni e insegnanti, acquisisca il metodo, poi se i ragazzi lo richiedono si puo’ anche aumentare la
frequenza di queste sedute.
Questo metodo è molto conosciuto e usato in Italia e io, dall’86 a oggi, ho venduto venti edizioni del
libro che lo illustra, dunque funziona.
Perché funziona?
Noi abbiamo introdotto anche 10 min.di feedback degli osservatori (negli USA la durata è di 50
min.mentre in Italia è di 50+10 min di feedback degli osservatori): questo è un punto molto
importante, basta pensare che nel circle time inglese finiti i 50 min di seduta, i ragazzi tornavano ai
propri posti.
Io ho introdotto l’elemento gruppo.
Che succede in un gruppo?
Ad esempio il fenomeno del sovrapporsi delle voci: quando uno è in gruppo e parla, generalmente,
parla anche un’altra persona e non ci si ascolta.
In un gruppo puo’ accadere che ci sia anche un capro espiatorio: tutti si coalizzano contro quella
persona.

Sono dei fenomeni che avvengono in tanti gruppi, come faccio a capire che è un fenomeno di quel
gruppo specifico?
Tramite l’osservazione; se io ho una classe di 25 ragazzini, a turno 3 non partecipano alla seduta del
circle time e osservano da fuori i comportamenti dei compagni, chi interrompe, chi partecipa, chi non
lo fa (e gli schemi di osservazione sono più facili o più difficili a seconda di chi osserva).
Tutti imparano ad osservare.
Osservare vuol dire anche imparare a controllarsi perché devo stare fuori e guardare gli altri, devo
scrivere cio’ che vedo.

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Poi ho i miei 10 minuti e, quando gli altri smettono di parlare, si ha il momento in cui riflettere su
come si è lavorato in quel giorno: cosa è avvenuto nel gruppo? E allora gli osservatori danno un
feedback e riferiscono cio’ che hanno osservato; a questo punto il docente, lo psicologo (insomma chi
conduce il circe) time rifletterà sui fenomeni che sono avvenuti nel gruppo.
Perché questo è così importante e cruciale?
Perché, praticamente, si dimostra che osservare un fenomeno di gruppo e poi rifletterci su fa sì che
l’apprendimento rimanga molto più impresso che su gruppi in cui si fa solo la lezione teorica.
Perché se io ho appena vissuto nel gruppo l’esperienza di non parlare, perché nessuno mi dava mai
la parola, capiro’ di più l’importanza nel gruppo di un facilitatore che deve dare a turno la parola, per
cui facciamo in modo che i ragazzi imparino sia a partecipare meglio sia a osservare che a facilitare
un gruppo di lavoro.
Svariate ricerche confermano l’efficacia del metodo, paragonando bambini e ragazzi dalle elementari
all’università e insegnando questo metodo a docenti e genitori (lo abbiamo fatto tramite gruppi di
controllo e li abbiamo confrontati con i gruppi sperimentali).
Il metodo funziona perché c’è apprendimento sociale.
Come si puo’ usare questo circle time?

Il circle time puo’ essere usato per vari tipi di educazione empowering, oltre che per quella socio-
affettiva, al fine di rendere le persone più competenti, più potenti, e soprattutto è stato usato in due
grandi settori:
• Educazione ambientale: per far capire ai bambini il loro rapporto con l’ambiente, cosa si puo’
fare per migliorarlo
• Educazione interculturale: nelle nostre scuole c’è il 10-15% di ragazzi immigrati che hanno
problemi di inserimento e il circle time favorisce la conoscenza e l’integrazione di culture
diverse

Abbiamo parlato del metodo integrato, che è composto da 3 grandi componenti:

Metodo Gordon
(serve per migliorare
i rapporti insegnante
/ alunni

Circle Time
(serve a migliorare il METODO INTEGRATO
rapporto tra ragazzi)

Componente socio- Questa terza componente del metodo integrato ha a che


affettiva e motoria fare con degli esercizi in cui le persone diventano
consapevoli delle loro emozioni, di come le esprimono,
dunque è una conoscenza di sé stessi

mentre gli altri metodi si centrano sul rapporto insegnante / classe e fra i ragazzi, questa terza
componente, invece, si centra sul sé.
Il metodo Gordon è quello dei 12 errori di comunicazione, è quello che parla del messaggio io,
dell’ascolto attivo, Gordon è quello che individua a chi appartiene il problema e come bisogna
comportarsi a seconda del caso.

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Il circle time è stato creato come metodologia per l’educazione socio-affettiva e, soprattutto, è stato
usato da noi per comprendere i rapporti interpersonali e i fenomeni di gruppo.

LEZIONE N° 11 Æ Empowering psicologico e sviluppo di comunità


(Prof.ssa Zani)

Argomenti della lezione:


• Empowerment: un concetto multilivello
• L’empowerment psicologico
• Il processo di empowerment
• Lo sviluppo di comunità (empowerment sociale)
• Strategie ed interventi orientati all’empowerment
• Il senso di comunità

Quali sono i presupposti teorici di base?


Questa teorizzazione la dobbiamo principalmente a due autori, Rappaport e Zimmerman, che in
tempi diversi a partire dagli anni ’70 ad oggi, hanno contribuito ad articolare e a chiarire sempre di
più questo concetto.

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Dice Zimmerman, siamo nel 1999, che l’empowerment deve essere considerato una variabile
continua (quindi non dicotomica: che c’è o non c’è) e progressiva; puo’ mutare nel tempo e non è
detto che ci sia sempre, dunque non è una condizione stabile; si specifica in relazione al contesto e
alla popolazione, cioè è diversa a seconda del tipo di popolazione (bambini, adolescenti, adulti), in
relazione al contesto specifico (è difficile parlare di empowering agli immigrati piuttosto che ai
cittadini); infine è un costrutto articolato su diversi livelli.
Rappaport, nel 1981, dice che l’empowering è un processo che mira a favorire l’acquisizione di
potere, cioè ad accrescere la possibilità delle persone (a livello di singoli, di gruppi, di organizzazioni
e di comunità) di controllare la propria vita.
Quindi è questo il potere che sta nel cuore del concetto di empowering.
Un altro modo per capire come si articola questo concetto multilivello è quello proposto nel 1988 da
questi due autori, che avevano chiarito come si parla di empowering a livello psicologico, quindi
chiamando in causa delle variabili di tipo individuale e interpersonale; empowering a livello
organizzativo, chiamando in causa la mobilitazione delle risorse sociali e l’opportinità di
partecipazione ad un’organizzazione; empowering sociale e di comunità, in cui vengono chiamate
in causa delle variabili di livello socio-politico.
E quindi in questo senso si chiarisce subito come empowering faccia riferimento sia alla dimensione
di processo (movimento attraverso cui si acquisisce empowering) che a quella si stato (il risultato
finale di situazione / soggetto empowered).
Zimmerman nel 1998, in uno dei suoi contributi, enuncia quelli che sono i tre pilastri della teoria
dell’empowering:
• Controllo: la capacità, sia essa percepita o reale, di influenzare le decisioni
• Consapevolezza critica: comprensione del funzionamento delle strutture di potere, dei
processi decisionali, della gestione delle risorse
• Partecipazione: attuare delle azioni per ottenere i risultati desiderati; non semplicemente
prendere parte a, ma partecipare per decidere Æ azione operativa.

Cominciamo con il parlare dell’ empowerment psicologico.


Bruscaglioni nel 1994 dice che è un processo di ampliamento, attraverso il miglior uso delle proprie
risorse attuali e potenziali acquisibili, delle possibilità che il soggetto praticare e rendere operative.
In questa definizione noi troviamo l’accento posto su quello che è l’ampliamento, attraverso le risorse
che già possediamo e attraverso la possibilità di acquisirne di nuove.
Mechanic nel 1991 lo definisce come il processo attraverso il quale l’individuo comprende che gli
obiettivi e i risultati che persegue dipendono dalle strategie che attiva per raggiungerli.
È un richiamo ad un altro concetto importante: quello di responsabilità del soggetto.
In cosa consiste il processo di empowering?
Ecco, qui volendo analizzare in modo specifico, dettagliato il processo dell’empowering,
un’indicazione che viene data è quella di considerare un punto di partenza, che è quello che è stato
chiamato di impotenza appresa (learned helpleness) per arrivare a uno stato di speranza
appresa (learned hopefullness).
Dunque parliamo di empowering come di un processo, no di uno status finale, che parte da una
situazione di impotenza appresa, intendendo con questo termine il sentirsi “in scacco” cioè sfiduciati
e senza prospettive future e avere la sensazione di non poter far nulla per cambiare la realtà, ad una
situazione finale di speranza appresa attraverso una serie di processi che possono articolarsi in tre
livelli:

Processi di
IMPOTENZA attribuzione di
APPRESA cause

Processi di

PROCESSO DI
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SPERANZA
APPRESA
valutazione

Processi di
prefigurazione
del futuro

(mod.Mechanic, 1991)

• Processi di attribuzione di cause Æ è importante lavorare su come il soggetto attribuisce


significato a cio’ che gli sta accadendo. Qui la teoria dell’attribuzione aveva già individuato
due grandi linee (cause interne e cause esterne): dipende dal soggetto e dipende
dall’ambiente, così come anche le cause possono essere variabili nel tempo oppure stabili,
così come possono essere considerate totali. Ecco, allora lavorare sul modo in cui il soggetto
dà le spiegazioni di quello che gli succede, che è il processo attributivo delle cause, puo’
aiutare il soggetto in questa operazione di non considerare più quello che gli capita, o che gli
è capitato, come dovuto a cause interne, immutabili e stabili, ma a poter trovare degli spiragli
per intervenire.
• Processo di valutazione Æ riguarda le capacità del soggetto, quella che Bandura ha
chiamato autoefficacia, quindi la percezione che posso fare qualcosa, che ho le capacità per
intervenire, che posso agire per modificare cio’ che mi succede.
• Processi di prefigurazione del futuro Æ progetto e obiettivi attraverso cui muoversi.

Ecco, attraverso degli interventi a questi livelli si puo’ passare da una situazione di impotenza
appresa ad una situazione di speranza appresa.
Sempre Bruscaglioni ci aiuta a capire quali sono le componenti dell’empowering psicologico, e
ne indica 6 in particolare, che sono :

1) Attribuzione interna al
sé della causa

2) Motivazione all’azione
e alla partecipazione

3) Speranza appresa EMPOWERING


4) Ideologia PSICOLOGICO
dell’influenza possibile

5) Percezione di
competenza

6) Percezione di
autoefficacia

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Si tratta di componenti che rimandano a caratteristiche di personalità (1), a delle dimensioni
cognitive (5; 6) e a componenti di tipo motivazionale (2; 3; 4).
Kieffer nel 1981 precisa quali sono i requisiti dell’empowerment che consiste nell’acquisire abilità,
conoscenze e potere sufficiente da influenzare la propria vita attraverso:
• Lo sviluppo di un potente senso del sé (sense of self) che promuove in noi il coinvolgimento
sociale affettivo.
• La capacità di fare un’analisi critica dei sistemi sociali e politici che definiscono il proprio
ambiente
• L’abilità di sviluppare strategie di azione e coltivare risorse per raggiungere i propri scopi
• La capacità di agire in modo efficace in collaborazione con altri per definire e raggiungere
degli scopi collettivi

Quali sono le componenti chiave del processo di empowering?


Cox e Parsons, nel 1994, sviluppano in modo molto interessante questa idea, analizzando come
avviene il processo di empowering in situazioni particolari (loro nello specifico hanno studiato
l’empowering in un Istituti di ricovero per anziani), dove sembra che parlare di empowering abbia un
significato molto relativo, mostrarono come non fosse vero.
Occorrono delle componenti chiave: atteggiamenti, valori, credenze (richiamo alle concezioni già
viste di autoefficacia di Bandura e di Locus of control interno/esterno):
• Validazione delle esperienze collettive (riduzione dell’autobiasimo, cioè autocolpevolizzazione,
e validazione reciproca)
• Conoscenze e capacità critica (ricollocazione del problema nel contesto Æ v.di Zimmerman)

Per poter intervenire, Cox e Parsone individuano anche diversi tipi di intervento di empowering che
possono avvenire:
Æ a livello personale: lavorando sul gruppo, quindi sui suoi bisogni e sulle sue risorse
Æ a livello interpersonale: lavorando sul gruppo, quindi sulle reti di relazione
Æ a livello organizzativo: cambiando il contesto di riferimento
quest’analisi viene fatta dagli autori in un contesto particolare, che è quello degli anziani nelle
strutture assistenziali di ricovero, mostrando come si possa fare un tipo di lavoro centrato
sull’empowering e a livello dei singoli (in questo caso degli anziani e degli operatori che ci lavorano a
contatto), e a livello di gruppo (perché anche gli anziani sono all’interno di un gruppo, così come gli
operatori) che a livello organizzativo (perché essere all’interno di una casa di riposo ha comunque
una sua dimensione organizzativa che incide sui comportamenti messi in atto dalle persone al suo
interno).
A cosa serve un intervento orientato all’empowerment?
• Aiutare le persone ad utilizzare le proprie forze, abilità e competenze verso la conquista di
maggior autonomia decisionale
• Aiutare le persone ad ampliare le proprie possibilità di scelta
• Rafforzare il potere di scelta dei singoli, migliorarne le competenze e conoscenze in un’ottica
non solo terapeutica e riabilitativa, ma politico-emancipatoria (Francescato, Tomai, Ghinelli,
2003)

Empowerment sociale

Cosa si intende per empowerment sociale?


Un processo intenzionale e continuo attraverso il quale le persone di una comunità locale possono
accedere più facilmente alle risorse e accrescere il controllo su di esse (Cornell University
Empowerment Group)
Qual è allora il fine dell’empowerment sociale?
È quello di favorire lo sviluppo di una comunità competente.

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Qui il focus, l’attenzione, non è più il singolo, la persona, ma è la comunità; parliamo di comunità
competente, intendendo cosa con questo termine?
Quando una comunità puo’ definirsi competente?
L’indicazione ci viene da Isco che, nel 1984, scrive un articolo intitolato “The competent community”
in cui ci regala questa definizione: una comunità puo’ dirsi competente se ha potere, inteso come
repertorio di possibilità e di alternative, se ha conoscenza, ossia se sa dove e come ottenere le
risorse per risolvere i problemi (v.di analisi dei bisogni della comunità fatta tramite il metodo dei
profili di comunità) e, infine, l’elemento di motivazione e autostima applicata alla comunità (cioè la
comunità chiede di essere autonoma perché soltanto se c’è una comunità che si basa su questi
sentimenti di autostima ed è autonoma nel prendere le decisioni trova in sé una spinta motivazionale
per poter agire e per poter intervenire).
In tutto questo lavoro di empowering sociale che cosa ci sta a fare uno psicologo di comunità?
Il compito dello psicologo di comunità è quello di sostenere il processo di empowering sociale
favorendo l’assunzione di responsabilità da parte della comunità attraverso:
• L’azione sociale
• Lo sviluppo sociale

Queste due strategie hanno una loro storia all’interno della psicologia di comunità europea e
statunitense, e hanno trovato modalità di espressione attraverso varie strategie e varie modalità di
intervento.
L’azione sociale è una strategia potenzialmente conflittuale, in quanto richiama la possibilità di
azioni che richiedono anche un impegno politico di presa di posizioni molto precise, infatti si sviluppa
attraverso interventi che accrescono la consapevolezza dei gruppi minoritari svantaggiati, è una
strategia che mira alla ridistribuzione delle risorse perché si rende conto che c’è una situazione di
disuguaglianza sociale, e che vuole modificare gli equilibri di potere senza l’uso della violenza.
L’altra strategia, che viene utilizzata con delle modalità di tipo più cooperativo, è quella dello
sviluppo di comunità, che mira a sviluppare il senso di coesione sociale, a sensibilizzare i cittadini,
a promuovere i leader locali.
Quindi è un’azione che viene fatta e che riguarda in specifico l’intervento nella comunità locale a
favore di un’azione che porta a sensibilizzare i cittadini, a far emergere dei leader locali (ogni
comunità ha dei personaggi che meglio la rappresentano e che non sono necessariamente
istituzionalizzati) che possono essere anche informali; bisogna promuovere sempre questa leadership
locale perché porta all’assunzione di responsabilità.
In particolare, poi, usare le competenze dei professionisti per favorire le esperienze di auto
organizzazione sociale; una competenza tipica dello psicologo di comunità è quella di favorire reti di
collaborazione tra servizi formali (istituzionali) e informali (privato sociale e altre associazioni) e,
infine, accrescere il senso di comunità.
Questo è un punto chiave: una strategia per lo sviluppo di comunità è il rafforzamento del senso di
comunità.
Che cos’è il senso di comunità?
Sarason nel 1974 lo ha definito in questo modo: E’ la percezione (quindi un sentimento soggettivo)
di similarità con gli altri, una riconosciuta interdipendenza, una disponibilità a mantenere questa
interdipendenza offrendo o facendo per altri cio’ che ci si aspetta da loro, la sensazione di
appartenere ad una struttura pienamente affidabile e stabile”.
Ritroviamo qui i concetti chiave che sono alla base anche del concetto di comunità e che sono:
equità, responsabilità, senso di appartenenza, identità e fiducia.
Dalla prima definizione di Sarason, negli anni successivi sono intervenute molte altre definizioni,
perché questo concetto si è rivelato subito un concetto potente, importante, che quindi ha suscitato
l’interesse e l’attenzione di diversi autori che hanno apportato i loro contributi.
Fra questi Mc Millan e Chavis che, nel 1986, dissero: “E’ la certezza soggettiva che i membri hanno
di appartenere e di essere importanti gli uni per gli altri e per il gruppo, è una fiducia condivisa nella
possibilità di soddisfare i propri bisogni come conseguenza del loro essere insieme”.

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Questa è una definizione molto ricca che comprende una serie di elementi di questo senso di
comunità importanti, perché sulla base di questa definizione teorica gli autori sono giunti ad
un’operazionalizzazione del concetto.
Che cosa vuol dire operazionalizzazione?
Distinguere, dal punto di vista analitico, le componenti e cercare di tradurle operativamente, cercare
di misurarle, e la forza di questa definizione sta proprio nel fatto che Mc Millan e Chavis hanno
elaborato uno strumento di misura del senso di comunità che si è poi rivelato utile e importante.
Quali sono queste componenti?
• Il sentimento di appartenenza
• L’influenza del potere
• L’integrazione e la soddisfazione dei bisogni
• La connessione emotiva condivisa

Queste sono le quattro componenti del senso di comunità operazionalizzate e misurate.


Uno strumento di misura del senso di comunità, che misura gli atteggiamenti e le componenti, è
stato messo a punto in italiano e si chiama “Scala italiana del senso di comunità (Prezza, Costantini,
Chiarolanza, Di Marco, 1999) ed è l’adattamento della Sense of community scale di Davidson e
Catter, 1986, ma costruita avendo come riferimento proprio la teoria di Mc Millan e Chavis.
Questa scala misura il senso di comunità su base territoriale, con riferimento alla città e non alla
metropoli, anche come contesto politico e amministrativo ed è composta da 18 item (4= fortemente
d’accordo; 3= d’accordo; 2= in disaccordo; 1= fortemente in disaccordo) e ha portato a questi
fattori:
• Senso di appartenenza e connessione emotiva, cioè l’aspetto di sentimento di appartenenza
• Soddisfazione dei bisogni e influenza
• Clima sociale
• Piacevolezza della casa e della zona

Accrescere il senso di comunità porta i membri a saper affrontare eventi importanti, sviluppando
solidarietà di fronte ai pericoli e alle difficoltà.
Diventa evidente, in quest’ottica, che i problemi di salute non sono più considerati di pertinenza
esclusiva dei professionisti o degli esperti, ma vengono ridefiniti come responsabilità dell’intera
comunità.

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LEZIONE N° 12 Æ Il lavoro di rete e il sostegno sociale
(Prof.ssa Zani)

Argomenti della lezione:


• Definizione di rete sociale
• Come si costruisce una rete sociale
• Le funzioni del sostegno sociale
• Relazioni tra rete, sostegno sociale benessere
• Le misure del sostegno sociale
• Il lavoro di rete: obiettivi e strategie operative

Cosa intendiamo per rete sociale?


È un insieme specifico di legami tra un insieme definito di persone (punti + linee Æ i punti sono le
persone, le organizzazioni e le linee rappresentano i legami che ci sonop tra queste entità) Æ
Mitchell, 1969.
Le caratteristiche dei legami aiutano a comprendere e ad interpretare il comportamento sociale delle
persone coinvolte in tali legami, quindi lo studio della rete è lo studio dei legami che uniscono le
persone tra di loro.
Da dove ci viene questo concetto di rete sociale?
Una primissima idea del concetto di rete viene formulata da Moreno nel 1934, in quella elaborazione
teorica che l’autore chiamo’ “Sociometria” per riferirsi, in particolare, allo studio e all’analisi delle
relazioni spontanee tra individui, mettendo a punto uno strumento che misurasse l’essere sociale,
l’essere socius, che era centrato sulla considerazione di due criteri:
• Il criterio socioaffettivo
• Il criterio sociofunzionale
In pratica questo metodo, utilizzato ancora oggi per analizzare, ad esempio, i legami che esistono
all’interno di una classe scolastica, chiede agli alunni di indicare il nome di un compagno con cui
sarebbero lieti di svolgere una ricerca (aspetto funzionale, legato al compito) e di indicare il nome di
un compagno con cui andrebbero a fare una passeggiata o al cinema (aspetto socioaffettivo);
mettendo insieme tutte le scelte dell’uno nei confronti dell’altro si fa una specie di mappa, cioè la
mappa sociometrica della classe, che ci indica quali sono le persone più scelte, quali sono le scelte
reciproche, quelle unidirezionali, quali sono le persone marginali, cioè non scelte.

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Quindi questo è uno strumento molto utile che ci indica, sulla base dei dati acquisiti, cosa fare e
come intervenire, in quanto ci indica il tipo di legame esistente tra le persone all’interno di questa
realtà.
L’uso del concetto di rete sociale, nell’accezione che ci è più vicina, ci proviene da Barnes un
antropologo che a metà degli anni ’50 (1954) condusse una serie di studi su una piccola comunità di
pescatori in Norvegia e , analizzando la vita di questa comunità, comincio’ ad annotare tutta una
serie di rapporti che esistevano fra queste persone (legami affettivi legati alle parentele, legami di
tipo lavorativo, legami che univano queste persone nel tempo libero), quindi inizio’ ad identificare
una tipologia di legami che univano in modo diverso i diversi tipi di persone, e a chiedersi quanto
questo poi influenzasse la vita particolare, la vita quotidiana che si conduceva all’interno della
comunità.
Di questo concetto poi si sono impadroniti i sociologi, in particolare la sociologia strutturale
americana e, in un esperimento durato quasi venticinque anni (Alameda Study, di Beckman e Syme,
1979), dalla metà degli anni ’70 fino ai nostri giorni, alcuni ricercatori (un epidemiologo, uno
psicologo a cui si aggiunsero poi altre figure professionali) cominciarono a studiare la vita di questa
piccola comunità, appunto Alameda, evidenziando una serie di indicatori per seguire tutta la
popolazione adulta, a cui fecero una serie di test, di analisi, di interviste di osservazioni e,
monitorando questo gruppo di popolazione nel tempo (a distanza di 5 anni per esempio).
Questa ricerca fatta sul luogo ha dato vita a una mole consistente di dati, che sono stati sottoposti ad
analisi e a letture di vario tipo, anche incrociate, che hanno portato all’individuazione di una serie di
indicatori molto utili, che si sono centrati in particolare sul tipo di legame che esisteva tra le persone,
perché uno dei risultati più significativi di una prima tappa di questa analisi di Beckamn e Syme del
’79 porto’ a capire come i soggetti più integrati, quelli che avevano dei legami più stretti e che
partecipavano di più alla vita di comunità, erano anche quelli che, a distanza di tempo, presentavano
una percentuale del tasso di mortalità e di vulnerabilità alle malattie decisamente minore (morivano
più tardi e si ammalavano meno).
Quindi venne identificata l’importanza dei legami sociali sul benessere della popolazione.
Ancora, Cohen e Wills nel 1985 dimostrarono che essere inserito in una rete sociale permette di
vivere esperienze positive, di ricoprire all’interno della comunità un insieme di ruoli stabili
socialmente utili e gratificanti, di sviluppare dei legami e dei rapporti supportivi.
Gli autori evidenziarono anche le caratteristiche di una rete sociale:
• Struttura
• Interazione tra le persone
• Qualità delle relazioni
• Funzione, ovvero il tipo di sostegno fornito
Ora, per capire cosa significano nello specifico questi termini, cerchiamo di analizzarli uno ad uno

RETE SOCIALE
Comprende delle variabili di tipo morfologico quali:
• Ampiezza (numero di persone nella rete)
• Densità (grado di interconnessione fra i membri
Struttura della rete)
• Frequenza delle interazioni (frequenza, forza e
intensità dei contatti con le persone)
• Clusters (sottoinsieme della rete dove i rapporti tra
i membri sono molto fitti)
Comprende delle variabili che descrivono il tipo di
Interazione fra le persone relazione:
• Reciprocità (o simmetricità)
• Molteplicità (o complessità)

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Non è importante solo il tipo di relazione, ma anche la
Qualità delle relazioni qualità affettiva dei legami, cioè se sono legami
superficiali, amicali o intimi

Indica la specifica funzione svolta dai membri della rete


Funzione (sostegno emotivo, aiuto pratico o informazionale)

Una rete sociale puo’ essere descritta come:


• A-centrata: rete senza un centro dove tutti i nodi hanno pari importanza
• Ego-centrata: è quella che ci interessa maggiormente ed è costruita ponendo al centro una
persona per descriverne e studiarne le relazioni.

Vediamo graficamente come puo’ essere rappresentata una rete sociale:

Andrea
Paolo
Le linee uniscono le persone Marco
che si conoscono e la loro
lunghezza è proporzionale alla
vicinanza emotiva Luca

se noi dovessimo costruire una rete sociale, potremmo partire ponendo al centro EGO e poi
costruendo attorno a questo soggetto una serie di cerchi concentrici che ci indicano la maggiore o
minore vicinanza delle persone che io colloco all’interno di questa rete e i rapporti che queste
persone hanno con il soggetto centrale, che è appunto ego.

VICINI PARENTI

Marco

AMICI
Luisa
EG
Fabio
COLLEGHI O
Sofia

Spicchi
Conoscenze tra persone che non Conoscenze dirette di Ego
sono Ego
Mario OPERATORI
Luca

La rete è composta da cerchi concentrici, ma anche da linee che dal centro vanno verso l’esterno
formando degli spicchi (se ne possono individuare 5: vicini, parenti, amici, collaboratori, colleghi).

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Che tipo di legami ci sono tra queste persone?
Ecco, unendo queste persone con Ego si comincia qual è il tipo di legame, perché ogni persona è
posta non solo nello spicchio, ma anche in un cerchio concentrico.
Ma non solo: le persone sono anche unite tra di loro, quindi sono persone che si conoscono anche fra
di loro ed è possibile descrivere il legame che ogni persona ha con Ego, ma anche il tipo di legame
che le persone hanno tra di loro.
Abbiamo detto che le reti hanno una funzione supportava, di sostegno sociale.
Cosa si intende per sostegno sociale?
Si intende l’insieme delle risorse accessibili all’individuo attraverso i contatti con altri individui, gruppi
e / o comunità.
Quali sono le funzioni del sostegno sociale?
• Sostegno emotivo: è la manifestazione d’affetto, interesse e amore per l’altra persona; tende
a soddisfare i bisogni socioemotivi di base.
• Sostegno strumentale: è una forma di assistenza o aiuto che consiste in un intervento pratico
(prestito di denaro, offerta di servizi).
• Sostegno informativo: aiuto psicologico volto ad arricchire le conoscenze della persona
(es.informazioni su nuove opportunità di lavoro, su altri metodi per risolvere un problema)
• Sostegno affiliativi: deriva dall’appartenenza a gruppi formali o informali (possibilità di
contatti sociali, di trascorrere tempo libero in attività ricreative con altre persone).

Che tipi di relazione puo’ esserci tra reti sociali, sostegno sociale e benessere?
Questo è un interrogativo che gli studiosi, i ricercatori si erano posti proprio per cercare di capire in
che modo la rete sociale, che fornisce un tipo diversificato di sostegno sociale, influenzi il benessere
di una persona.
Ci sono varie prospettive teoriche a confronto:
• Modello diretto sostiene che c’è un effetto diretto sul benessere, anche in assenza di stress,
e vede la rete e il sociale come fattori protettivi
• Modello indiretto la relazione fra stress e malattia viene mediata da una serie di fattori
individuali e / o ambientali; il sostegno sociale viene visto come un buffer (cuscinetto,
tampone)

il sostegno sociale puo’ aiutare o inibire le risposte


disadattive e / o favorire quelle positive

salute risposte fisiologiche di


adattamento comportamentale
Modello indiretto perché si sostiene che il sostegno sociale è una variabile che media il percorso,
Evento valutato come
quindi che aiuta il soggetto con questa azionemalattia
di cuscinetto.
stressante
I concetti di sostegno sociale e rete sociale hanno avuto molta fortuna nell’ambito scientifico, anche
perché è stato possibile, ci sono stati dei tentativi, delle proposte di misurazione sia della rete sociale
e del sostegno sociale.
I diversi strumenti esistenti per la misura del sostegno sociale spesso misurano aspetti diversi,
risultando così debolmente correlati fra loro.
Il sostegno sociale infatti puo’ essere:
• Oggettivo (affetto/ricevuto)
• Soggettivo percepito

Soddisfazione

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Ora, proprio rispetto a queste diverse dimensioni, sono state individuate diverse misure del sostegno
sociale, ad esempio quella di Zimet del 1988 (versione italiana di Prezza e Principato, 2002) che si
chiama Multidimensional Scale of Percived Social Support -MSPSS - (12 item) che misura
l’adeguatezza del sostegno percepito secondo tre fonti:
• famiglia
• amici
• altri significati

un’altra misura del sostegno sociale è quella messa a punto da Sarason et al.nel 1983. il Social
Support Questionnaire, che misura:
• numero delle persone percepite come fonte di sostegno
• soddisfazione nei confronti del sostegno percepito come disponibile

ancora, un’ altra misura del sostegno sociale è il Social Support Rescue di Vaux e
Athanassopulou del 1987 (validazione italiana di Prezza e Principato, 2002); si tratta di
un’intervista strutturata che permette di rilevare la capacità supportava della rete sociale, chiedendo
quali persone svolgono le varie funzioni della rete.
Mentre i precedenti sono metodi quantitativi, questo è un metodo qualitativo.

Veniamo ora al LAVORO DI RETE.


Abbiamo visto la rete sociale che ha determinate caratteristiche, ha delle funzioni di tipo supportivo,
abbiamo visto cos’è il sostegno sociale e quali sono le sue funzioni.
Adesso cerchiamo di capire cosa significa fare un lavoro di rete.
Cosa vuol dire fare un lavoro di rete?
Prima di tutto occorre individuare la rete sociale e, a tale scopo, vengono studiati alcuni elementi
della rete (per capirne i punti forza e le aree problema e per individuare ipotesi di intervento e
strategie operative) che sono:
• la dimensione della rete
• il tipo di legame (qualità, forza, interazioni)
• la frequenza dei contatti
• la reciprocità dei legami e la loro durata
• la possibilità della rete di suddividersi in unità più piccole
• le eventuali conflittualità tra le persone

Questo ci permette di identificare alcune caratteristiche della rete e allo stesso tempo le possibilità di
sostegno che questa offre.
Esistono diversi tipi di rete, vediamo quali.
• RETE COESA ED OMOGENEA: ci sono buone possibilità e disponibilità di sostegno, ma
spesso c’è anche un forte controllo normativo (l’individuo per far parte di questa rete deve
seguire determinate regole).
La sua rappresentazione grafica è la seguente:

Nuovo individuo

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• RETE FRAMMENTATA: è costituita da piccoli gruppi quasi indipendenti tra di loro: offre
maggiori possibilità di ricevere sostegno, ma è meno stabile e diffuso rispetto alla rete coesa

• RETE DISPERSA: rete di persone che per lo più non si conoscono, caratterizzata da relazioni
sporadiche e di breve durata e in cui le possibilità di ricevere sostegno sono minime.

Quali sono gli obiettivi del lavoro di rete?


Una volta individuata e rappresentata la rete sociale, è possibile lavorare per raggiungere
determinati obiettivi:
• Aumentare la consapevolezza delle reti presenti
• Valorizzare gli elementi positivi delle relazioni
• Minimizzare la dispersione delle risorse della rete
• Rinforzare e sostenere i legami e crearne di nuovi
• Riorganizzare i sistemi di supporto (es:famiglia, amici)
• Reperire risorse nuove
• Ricostruire la rete con nuovi legami
• Contattare gli irraggiungibili
• Peer education (lavoro orizzontale di scambi tra persone che sono sullo stesso livello)

Lavorare in un’ottica di rete allora significa riconoscere il ruolo delle “solidarietà naturali”, sviluppare
pratiche innovative, utilizzare in modo più efficiente le risorse professionali della comunità.
Il lavoro di rete puo’ promuovere progetti di empowerment che creino legami tra le persone e tra i
servizi coinvolti, contribuendo allo sviluppo del capitale sociale (insieme delle risorse di cui una
comunità dispone) di una comunità.
Il lavoro di rete puo’ essere centrato sul singolo (rete modello ego) o sulla comunità, tra servizi e
organizzazione.

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LEZIONE N° 13 Æ Scuola e formazione (Prof.ssa
Francescato)

Argomenti della lezione:


• Punti forza e aree problema della scuola italiana oggi
• Strategie di intervento di psicologia di comunità per la scuola
• Evoluzione e sviluppo dei contesti formativi
• La formazione empowering

Obiettivi della lezione:


• Descrivere alcuni punti forza e aree problema delle scuole italiane
• Illustrare alcune strategie d’intervento in ambito scolastico
• Descrivere alcuni punti forza e aree problema dei contesti formativi e strategici di formazione
empowering

Cominciamo con una domanda importante: come sta la scuola italiana oggi?
Vorrei fare un breve elenco di quelli che sono alcuni punti forza che ha la nostra scuola:
Æ nuove leggi: la legge sull’autonomia scolastica del ’92, infatti, richiede a insegnanti e dirigenti di
stabilire dei progetti educativi che tengano conto del contesto territoriale in cui è inserita la scuola.
Per cui non è più lo stesso programma centralizzato che viene fatto in tutte le scuole italiane, ma
adesso con l’autonomia le scuole possono decidere di fare anche dei progetti formativi che godono di
una certa autonomia, che tengono conto della specificità del territorio in cui si trova la scuola.
Cosa puo’ fare la psicologia di comunità per favorire questo?
Avete visto che la Legge richiede che si conosca il contesto e, a tal fine, esistono:
• L’analisi del contesto tramite i profili di comunità: la psicologia di comunità puo’ aiutare
i componenti della scuola a conoscere e comprendere il territorio facendo un lavoro di
rilevazione dei punti forza e delle aree problema che offre il territorio in cui è inserita la scuola
e anche le strutture con cui la scuola puo’ fare rete, perché queste sono molto importanti per
la formazione delle persone.
• Carta dei servizi (1995): si tratta di un decreto legislativo che prevede che i genitori e gli
allievi possano chiedere che l’organizzazione scuola funzioni, cioè che la scuola sia in grado di
fornire ai suoi “clienti” il miglior servizio possibile.

Fra le cose che la Legge’92 richiede, c’è anche la capacità di fare diagnosi organizzativa: abbiamo
appena parlato del fatto che gli psicologi di comunità possono fare un’autovalutazione di istituto.
Devono cioè aiutare insegnanti, genitori e allievi a fare l’autovalutazione d’istituto e, per fare cio’,
utilizziamo:
• A.O.M.

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Æ Presenza dei CIC (centri di consulenza psicologica per ragazzi/e in difficoltà)
Æ Numerose sperimentazioni: in molte scuole italiane si fanno dei progetti innovativi, programmi
innovativi e si tenta di fare una didattica migliore
Æ Insegnanti molto motivati

Allora, vediamo adesso i problemi che ha la scuola italiana e vediamo se sono problemi su cui la
psicologia di comunità puo’ intervenire con i suoi strumenti, oppure no.
Problemi su cui la psicologia di comunità puo’ intervenire:
• Isolamento sociale e territoriale: io ho visto delle scuole in cui la maggior parte dei
ragazzi che le frequentavano non venivano da quel territorio, per cui non lo conoscevano.
Non solo: anche molti docenti venivano da altri territori, per cui in realtà arrivavano lì la mattina in
un contesto che entrambi non conoscono.
Come fanno a rispondere alla Legge obiettivo di progettare un lavoro di rete con il territorio, se il
territorio non lo conoscono affatto?
In questo caso noi possiamo aiutarli con i profili di comunità, facilitandoli a trovare delle risorse nella
comunità che possano , a loro volta, facilitarli nel loro compito di insegnamento.
• Sovraccarico delle istanze educative: educazione ambientale, educazione alla salute,
educazione motoria, educazione alla viabilità stradale, educazione di tutti i tipi, e i Professori
non sanno più cosa fare perché vengono buttati nella scuola, diciamo, tutte le problematiche
che il sociale vuole risolvere.

Come possiamo aiutare gli insegnanti?

La psicologia di comunità interviene aiutandoli a scegliere delle priorità, perché non si puo’
fare tutto quello che la Legge prevede, pero’ se si conosce bene il territorio si possono fare
le cose più adatte al contesto specifico e, ovviamente, se ci si organizza meglio, si riesce a
far fronte a più istanze.
• Il lavoro di rete: è lo strumento principe della psicologia di comunità per aiutare gli
insegnanti a delegare, o ad essere aiutati in alcune istanze educative, da altre associazioni
non necessariamente educanti, in modo che la comunità stessa diventi educante.Æ comunità
che educa.
• Burn out degli insegnanti: è un altro problema grave della nostra scuola ed è il contrario
del punto forza “insegnanti motivati”.
Letteralmente burn out significa “bruciati” e si riferisce a quel gruppo di insegnanti, fortunatamente
una minoranza, che fanno male il proprio lavoro perché sono demotivati, stanchi, stressati, arrabbiati
per il basso stipendio, per la mancanza di possibilità di carriera, magari perché non vanno d’accordo
con i colleghi o con il Preside.
Ma burn out vuol dire che l’insegnante va a scuola malvolentieri, fa il suo lavoro malvolentieri e i
ragazzi percepiscono questa noia, per cui noi possiamo intervenire su questo problema con
l’educazione socio-affettiva, cioè dando un sostegno emotivo per creare il gruppo fra insegnanti.
• Aspetti emotivi negletti: un problema della scuola italiana, come sappiamo, è quello della
votazione sulla materia.
Quindi l’aspetto emotivo non viene guardato, soprattutto nelle medie e nelle superiori; noi ci
occupiamo, attraverso l’educazione socio-affettiva, di riportare le emozioni, il linguaggio emotivo e
la sua comprensione a scuola.
Questo attraverso l’educazione socio-affettiva e i gruppi di auto aiuto, perché il livello
motivazionale degli insegnanti puo’ essere diminuito e allora, mettendosi in un gruppo con altri
insegnanti che hanno lo stesso problema, è più facile che ci si aiuti a recuperare l’entusiasmo
perduto.
• Problemi organizzativi interni ai singoli istituti: orari, disposizione del planing
giornaliero (a volte le materie più dure sono collocate nelle ultime ore dell’orario scolastico e

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quindi gli insegnanti hanno degli alunni stanchi e demotivati); attraverso l’analisi
organizzativa multidimensionale noi possiamo aiutare gli insegnanti, il personale direttivo e
non, i genitori e gli studenti ad organizzare meglio la propria scuola, in modo che si possa
lavorare meglio.
E, soprattutto, possiamo produrre progetti di empowerment, cioè progetti realizzabili.
• Disagio degli studenti: ecco, questo è un problema molto grosso.
Come sapete, in Italia c’è un’altissima dispersione scolastica: il 25% dei ragazzi non finiscono o sono
in ritardo.
Questo perché i ragazzi stanno male a scuola, hanno un disagio emotivo, oppure il disagio dello
studente si manifesta attraverso il bullismo e la violenza.
Come dicevo prima, l’abbandono scolastico è molto alto e ci sono anche dei genitori che si sentono
impotenti di fronte al problema.
Per aiutarli a risolvere i loro problemi si possono usare sia i profili di comunità (per capire la rete e il
territorio), sia la A.O.M. per far funzionare la scuola e, soprattutto, i gruppi socio-affettivi affinché
possano fare gruppo e, quindi, rete.
Purtroppo ci sono dei problemi su cui la psicologia di comunità non puo’ intervenire:
• Carenze strutturali: come sapete, qualche volta crolla un tetto a scuola (ma non sono
solo quelli che crollano); l’Italia ha un grosso numero di istituti carenti, disfunzionali, privi di
palestre, di laboratori e, certe volte, sono precarie.
Su queste carenze noi non possiamo intervenire, ma possiamo solo protestare.
• Aspetti economici e giuridici della professione: gli insegnanti hanno degli stipendi molto
bassi e sono soggetti a dei contratti che ne permettono l’arruolamento in un certo modo, non
hanno possibilità di fare carriera,e su questi aspetti qua (reclutamento, valutazione e sistemi
premianti) noi non possiamo intervenire, anche se sono fattori che vanno ad incidere molto
sulla loro motivazione.
• Mestiere femminile: questo è un problema su cui io insisto molto perché mi sta a cuore.
È una tragedia, perché?
L scuola materna e quella elementare sono già totalmente femminili (il 98% degli insegnanti sono
donne), le medie inferiori lo sono un po’ meno (75%) e nelle scuole superiori le donne superano
gli uomini.
Il problema è che, quando una professione diventa tutta femminile, si valorizza.
Gli uomini tendono a venirci sempre meno e ai ragazzi manca la figura maschile nell’educazione,
con conseguenze di aumento del drop out scolastico maschile (gli altri paesi stanno correndo ai
ripari), aumento del bullismo e dei casi di violenza.
Questo perché mancando una figura autorevole maschile a scuola, molti ragazzi pur di non
assomigliare alle donne nel periodo dell’adolescenza, fanno di tutto per non studiare, per non
comportarsi bene, cioè per comportarsi in modo diverso da quello che considerano un aspetto
femminile.
Allora, di fronte a tutta questa massa di problemi e di fronte all’impossibilità positiva che le nuove
Leggi danno, la psicologia di comunità cerca di fare due cose:
• Risolvere i problemi esistenti
• Intervenire attraverso delle tecniche che promuovano il benessere a scuola

Le strategie di intervento sono quelle viste in precedenza:


• Educazione socio-affettiva: con insegnanti, genitori ed allievi, dalle materne all’università
(v.di lez.10)
• Profili di comunità: si usa sia per l’isolamento che per promuovere lavoro di rete e,
soprattutto, per trovare dei partners a scuola (v.di lez.5)
• Lavoro di rete: lo facciamo sia all’interno della scuola tra le varie componenti, che all’esterno
fra la scuola e le altre associazioni, perché?

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Negli istituti tecnici e professionali serve molto avere questo aggancio al mondo del lavoro,
ma serve anche per dare esperienze di crescita personale e professionale, ma anche politica e
sociale (in qualità di cittadini) ai ragazzi.
• A.O.M. : è importante ed efficace per ridurre le disfunzioni interne alla scuola e per dare a
insegnanti, studenti, genitori e personale non docente una visione globale e completa del
funzionamento della loro scuola, e per far sì che si possa intervenire per cambiare cio’ che si
puo’ cambiare.

Naturalmente ognuna di queste tecniche puo’ essere utilizzata da sola, per un determinato problema
specifico o, ancora meglio, integrandole tutte.
Adesso vi parlero’ di alcune strategie di intervento usate per avvicinare la scuola al mondo del
lavoro.
Abbiamo fatto un esperimento, grazie all’UE che lo ha finanziato, in 204 istituti (licei, scuole
professionali, istituti tecnici) con le IV e le V superiori, cioè con ragazzi che si preparavano ad entrare
nel mondo del lavoro o in quello universitario e abbiamo fatto un gruppo di controllo, coinvolgendo in
totale circa 6.000 studenti (4.000 gruppo sperimentale + 2.000 gruppo di controllo).
Nelle classi abbiamo usato quella che si chiama formazione empowering, cioè abbiamo usato con
questi 4.000 studenti un insieme di tecniche che li aiutasse.
Abbiamo fatto dei circle time coi ragazzi sul significato che per loro aveva lo stare a scuola (quali
erano gli aspetti positivi dello stare a scuola e dell’apprendimento) e cosa significava per loro il
lavoro (che tipi di lavoro avevano conosciuto nella loro famiglia, gli abbiamo fatto fare anche il
romanzo lavorativo) e abbiamo cercato di capire quali erano gli atteggiamenti che avevano ereditato
dalla loro famiglia e dal loro contesto riguardo agli argomenti scuola e lavoro.
Per esempio: perché lavoravano? Qual’era la loro motivazione al lavoro?
Abbiamo insegnato a tutti questi ragazzi i profili di comunità, perché la commissione della UE in quel
periodo prevedeva che ci fossero, diciamo, dei corsi speciali per ragazzi che avevano avuto una
buona idea su cosa fare, un’idea innovativa per creare impresa.
Come fare a trovare queste idee?
Noi abbiamo fatto in modo che conoscessero i punti forza e le aree problema del loro territorio,
perché un’idea di lavoro, una nuova impresa si puo’ fare se io so qual è il punto debole, cosa manca
nel territorio, oppure qualcosa che si desidera avere e che non c’è.
E devo dire che questi ragazzi hanno fatto un lavoro straordinario in queste 240 scuole; vi ricordo
(ma non lo avevi proprio detto!!!) che queste erano scuole in Sicilia, Sardegna e Calabria, territori
molto disagiati in cui i ragazzi, nel corso di una settimana, hanno fatto questi profili di comunità
intervistando i Sindaci e le varie persone, come da metodologia, e hanno tirato fuori delle idee
innovative, tanto che per alcuni ragazzi poi è diventata veramente un’impresa.
L’altra cosa richiesta ai ragazzi era capire la propria scuola.
Come fare?
Attraverso l’analisi organizzativa multidimensionale.
Abbiamo fatto intervistare a questi ragazzi i Presidi, i compagni e il personale non docente, così
hanno potuto trovare i punti forza e le aree problema della loro scuola.
In un istituto particolare, in cui la dispersione scolastica era del 40%, abbiamo fatto un intervento
integrato con una serie di tecniche che ha coinvolto i genitori, gli allievi e il personale docente e non.
Perché?
Perché la dispersione scolastica è un problema di tutti; di solito ha delle componenti che riguardano i
genitori (che magari hanno avuto delle esperienze negative a scuola e che trasmettono ai figli i
propri retaggi oppure non si interessano del comportamento scolastico dei ragazzi), qualche volta
dipende da docenti, perché i ragazzi che lasciano la scuola qualche volta hanno con loro dei cattivi
rapporti.
E i non docenti perché sono importanti?
Voi sapete che i bidelli a scuola hanno una notevole importanza, perché sanno bene che atmosfera si
respira in quella scuola e offrono, così, un punto di vista molto utile che solo loro possono darci.

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E, infine, gli allievi, perché sono loro che vanno a scuola e la abbandonano precocemente.
Per cui il nostro obiettivo qui era ridurre la dispersione scolastica; cosa abbiamo fatto?
Abbiamo applicato una serie di tecniche.
La prima è stata l’A.O.M. per 9 gruppi: abbiamo composto dei gruppi di studenti (I; II; III; IV; V
superiore), due gruppi di genitori, uno di insegnanti e uno di non docenti e poi abbiamo fatto, oltre a
questi gruppi categoriali, dei gruppi misti perché volevamo mettere a confronto i diversi punti di
vista.
Questi gruppi hanno analizzato i punti forza e le aree problema della scuola e hanno costruito un
questionario per la loro categoria.
Da questo questionario generale è emerso che c’era bisogno di avere rapporti migliori tra insegnanti
e allievi e tra ragazzi stessi; per questo un primo progetto che è nato dall’A.O.M. è quello di puntare
sull’educazione socio-affettiva.
Pensate che abbiamo coinvolto 70 insegnanti su 70 classi, e questi insegnanti hanno parlato
dell’educazione socio-affettiva e hanno fatto il circle time con i loro allievi.
Nel circle time gli allievi hanno proposto dei gruppi di cambiamento, cioè hanno proposto cosa poteva
essere cambiato nella loro scuola e, da queste idee, sono nati27 gruppi di progetto misti
(insegnanti+allievi+genitori+non docenti) che hanno elaborato delle proposte concrete su cosa
poteva essere cambiato nella loro scuola per migliorarla e per diminuire la dispersione scolastica.
Questi gruppi si sono riuniti per 6 mesi e 18 su 27 hanno avuto degli effetti positivi: l’anno
successivo la dispersione scolastica era diminuita del 10%.
Questo esempio è molto importante perché mette in luce il fatto che un mix di tecniche puo’ risolvere
un problema multiplo, ovvero in situazioni che ci sembrano catastrofiche.
Questa parte della lezione parlava del campo di lavoro scolastico, tra poco uscirà anche in Italia la
Legge che fissa l’obbligo per le scuole di avere uno psicologo di comunità, che oltre all’orientamento
e alla formazione svolgerà altre attività.
Passiamo adesso ad un altro campo: quello della formazione.
Allora, prima di parlare di quello che fa la psicologia di comunità nel campo della formazione, vorrei
accennare brevemente all’evoluzione del modello formativo.
Partiamo con il modello formativo degli antichi Greci.
Vi ricordate Socrate?
Girava, camminava, e parlava con qualcuno, dialogava con qualcuno.
Gli antichi avevano come metodo di apprendimento il dialogo, il confronto di opinioni per cui era un
apprendimento che teneva molto conto dell’esperienza dell’altro.
Questo modello è stato completamente abbandonato nel Medioevo, come mai?
Perché la Chiesa ha creato le prime scuole per uno scopo molto preciso: insegnare la dottrina del
Cristianesimo a dei giovani che dovevano poi far parte della classe ecclesiastica, e hanno cominciato
a fare le prime scuole per bambini con l’idea questo fosse una sorte di contenitore vuoto da riempire
di nozioni (v.di anche comportamentismo nell’educazione e nella scuola Æ lezione frontale).
Dunque è nato il metodo pedagogico che mira all’insegnamento e non all’apprendimento e che, pur
presentando dei grossi limiti, si è diffuso in quasi tutte le scuole del mondo.
Fino alla rivoluzione industriale.
Negli ultimi anni, infatti, c’è un modello emergente formativo che cerca di recuperare alcuni elementi
del modello greco, come fare attenzione al dicente, valorizzare la sua esperienza, e questo modello è
molto vicino alle idee degli psicologi di comunità.
Che dice questo modello emergente?
Dice che l’insegnamento e l’apprendimento hanno una funzione emancipatoria, cioè devono aiutare le
persone a capire in che contesto sociale sono collocate, perché sono in una determinata posizione
gerarchica (alta o bassa); la storia mi deve insegnare che cosa io posso fare, per cui emancipatorio
come sinonimo di facilitatore, perché deve aiutare la persona a capire il mondo che la circonda.
Infatti, la formazione epowering punta a far emergere i desideri e ad affrontare i nodi
problematici, perché?

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Perché noi crediamo che la motivazione sia importantissima per l’apprendimento, allora occorre
suscitare il desiderio per un apprendimento, e per fare questo bisogna capire bene dove sta la
persona.
La formazione empowering:
• Integra gli aspetti cognitivi e affettivi, valorizza i diversi tipi di intelligenza e le esperienze
diverse.
• È centrata sia sull’empowering individuale che su quello grippale
• Importanza cruciale del ruolo dell’azione: infatti alterna moduli formativi e supervisione di
esperienze pratiche guidate (teoria + pratica)
• Sviluppa un clima che favorisca l’auto aiuto e il lavoro di rete anche on line (guarda noi del
Nettuno)
• Esamina le interfacce storie individuali, racconti gruppali e narrative dominanti (cioè quello
che ci impongono i mass-media)
• Potenzia le capacità di lettura dei contesti gruppali, organizzativi e sociali: la persona non
deve apprendere solo dei saperi, ma anche come muoversi nei contesti in cui vive

Perché? Qual è l’obiettivo della formazione empowering?


È quello di individuare gli spazi potenziali che esistono tra aspirazioni individuali e opportunità e
vincoli ambientali.
La formazione empowering è orientamento.
Questa formazione empowering, normalmente, è fatta in contesti faccia a faccia, ma di recente
abbiamo fatto degli esperimenti all’Università “la Sapienza” usando la formazione empowering on
line.
I risultati sono stati sbalorditivi: in piccoli gruppi on line (max 25 soggetti) c’è stato un
apprendimento più veloce e delle tesi finali migliori.
Non solo, ma contrariamente alle nostre previsioni, nei gruppi on line si è sviluppato prima un certo
rapporto amicale tra i membri, perché non c’erano i condizionamenti sociali.

LEZIONE N° 14 Æ Servizi socio-sanitari territoriali e strutture ospedaliere


(Prof.ssa Zani)

Argomenti della lezione:


• Il lavoro dello psicologo nei servizi
• Le strategie preventive
• La riduzione del danno
• Modelli di promozione della salute
• Cause del burn out degli operatori e strategie di intervento

Il lavoro dello psicologo nei servizi ha una storia che passa attraverso le varie riforme sanitarie: la
L.833/78 (riforma sanitaria ter) con la quale si istituisce il SSN e si intende la salute non più come
assenza di malattia, ma come buono stato psicofisico della persona; la riforma del ’92 con la quale si

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passa da USL ad Aziende USL; quella che è attualmente in vigore e quella che si sta discutendo
oggigiorno.
Dunque il lavoro dello psicologo è inserito in un contesto che è regolato da un quadro normativo ben
preciso; in questo contesto quali sono gli obiettivi di intervento dello psicologo?
Non solo cura e riabilitazione, ma anche e soprattutto prevenzione del disagio psicofisico e
promozione della salute e del benessere della popolazione.
In questo c’è una sorta di escalation per quanto riguarda il focus dell’attenzione e dell’interesse dello
psicologo di comunità, per via dello spostamento dell’interesse dal modello tradizionale di trattamenti
e cure per il disagio mentale, all’interesse per la prevenzione come elemento specifico della
professionalità di uno psicologo di comunità, con un passaggio ulteriore: se prevenzione, in fondo,
richiama e rimanda ancora ai concetti di patologia, di malattia (perché si previene la malattia, la
patologia e il disagio); lo spostamento ulteriore è il passaggio successivo, a livello anche di
elaborazione culturale e teorica, ossia quello della promozione della salute.
Quindi sull’aspetto positivo si promuove la salute e si promuove anche il benessere.
I livelli di intervento in cui si puo’ collocare il lavoro dello psicologo di comunità nei servizi sono
diversi:
• Individuale
• Interpersonale
• Organizzativo
• Di comunità (si rifà al principio chiave della disciplina Æ persona nell’ambiente e a quello dei
sistemi di Bronfenbrenner Æ micro/meso/eso/macro)

Quali sono i destinatari dell’intervento dello psicologo?


• La persona singola
• Gruppi di utenti (es.educatori, genitori, adolescenti, operatori sanitari)
• Organizzazioni
• Istituzioni

Centriamoci sulle strategie preventive; quando si parla di prevenzione, una delle prime formulazioni
del concetto e una delle prime applicazioni di questa idea di prevenzione, la dobbiamo al settore della
Public Health (salute pubblica) in cui l’interesse era quello di prevenire la diffusione delle malattie.
In questo senso va compresa l’importanza, in campo medico, della scoperta delle vaccinazioni: non
centrarsi sulla scoperta di strumenti per combattere le malattie, ma agire a un livello precedente
intervenendo sulle cause delle malattie; quindi quello della vaccinazione si è rivelato proprio uno
strumento preventivo.
Questo modello venne ripreso da Caplan nel 1964 e applicato al campo della psichiatria; c’è un libro
di Caplan che si intitola, appunto, “Psichiatria preventiva” in cui l’autore ha costruito una tipologia di
prevenzione che poi è rimasta e che, nonostante sia un po’ grossolana, continuiamo ad utilizzare
ancora oggi.
Caplan distingue tra:

MODELLO DELLA PSICHIATRIA PREVENTIVA DI CAPLAN

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E’ quella prevenzione caratterizzata da interventi volti ad
impedire l’insorgere di patologie o di situazioni di disagio a
livello individuale e/o sociale.
Prevenzione Primaria Quindi il target di individui coinvolti in questi interventi è quello
degli individui “sani” (tra virgolette), in quanto la prevenzione
primaria si centra su tutta la popolazione e va a monte del
problema, cerca di intervenire sulle cause del problema Æ evitare
che il problema si manifesti.

Consiste in interventi tesi ad ostacolare il decorso di una


Prevenzione Secondaria situazione di disagio già verificatasi Æ diagnosi e cura precoce.
Target: persone “a rischio” (es. donne tumori: screenong
mammografico)

Coincide con la cura e la riabilitazione, e si riferisce a quegli


Prevenzione Terziaria interventi volti a contrastare un disagio, o una patologia,
conclamato e a ridurre la disabilità.
Target: persone con problemi

Ora, questa tripartizione messa a punto da Caplan per i problemi psichiatrici, di fatto è stata una
teorizazione che ha preso piede e che noi, in un modo o nell’altro, continuiamo ad utilizzare perché
rappresenta una modalità di semplificazione di un’area che è molto vasta, per cui ci aiuta ad
individuare diversi momenti in cui si puo’ intervenire per contrastare un problema.
Un altro modello, quello di Catalano e Dooley del 1980, parla invece di due tipologie di
prevenzione, prendendo un altro punto di vista:

Prevenzione Proattiva: Prevenzione Reattiva:


comprende gli interventi tesi ad comprende gli interventi volti
eliminare i fattori ambientali ad incrementare la capacità
di stress delle persone di affrontare le
situazioni di stress

In che cosa consistono gli interventi di tipo preventivo che uno psicologo di comunità puo’ realizzare
nei servizi?
• Fornire un supporto al funzionamento dei gruppi spontanei o informali (es.gruppi di
adolescenti per prevenire il disagio giovanile)
• Partecipare alla programmazione generale del servizio ed elaborare soluzioni operative
• Progettare e realizzare interventi e strutture alternative a quelle assistenziali (lavorare perché
si realizzi un’ottica diversa da quella assistenziale classica, biondi lavorare con un’ottica di

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empowering Æ non solo assistere le persone,ma lavorare anche per aiutarle ad essere
autonome)
• Dare un contributo specifico alla formazione degli operatori (questo è sicuramente un compito
molto importante dello psicologo, in quanto egli conosce le dinamiche e puo’ dare un
contributo alla formazione degli operatori)
• Promuovere e svolgere ricerche (non solo interventi di tipo pratico, ma anche dati di ricerca
che avvalorino questi interventi tecnici)
• Impegnarsi nel funzionamento del lavoro d’équipe, analizzando la dinamica dei processi
decisionali.

Un altro modo, un altro approccio di affrontare il tema della prevenzione, consiste nel renderla da un
lato come quella che è stata chiamata “la riduzione del danno” e un’altra prospettiva non alternativa
ma complementare, che viene chiamata “la promozione della salute e del benessere”.

Vediamo di spiegarci meglio.

La prevenzione puo’ essere intesa come

Riduzione del danno Promozione della salute e del


benessere
La riduzione del danno è la strategia sanitaria e sociale che si propone di diminuire gli effetti
negativi o i rischi correlati al consumo di droghe o di sostanze stupefacenti (Newcombe, 1992).
Quali sono i rischi che si cerca di diminuire?
I rischi possono essere sanitari (infezioni), sociali (marginalità, devianza), legali (legati alle misure
repressive).
Ora, qui ci sono anche delle implicazioni di tipo etico piuttosto delicate: si parte, ad esempio,
dall’assunzione che un tossicodipendente non smetterà mai di assumere sostanze stupefacenti di sua
spontanea volontà, ma ricerca comunque di aiutare la persona a non farsi più male di quello che già
si sta facendo.
È per questo che, come interventi di riduzione del danno, sono nati i servizi accessibili; questo è un
tema molto importante perché le persone a cui ci si rivolge non sono i tradizionali utenti dei servizi
sociali sanitari come esistono, ma sono persone ai margini della società, quindi sono persone che non
andranno mai ai servizi sociali così come impostati tradizionalmente, allora è necessario costruirli in
modo per loro più accessibile.
A questo scopo sono stati creati i centri di accoglienza notturni e diurni a “bassa soglia”, nel senso
che, per accedere a questi servizi, ci sono delle richieste minime: ad esempio non si richiede
l’astinenza totale e si dà a queste persone l’opportunità di essere accolte, si fornisce loro un pasto
caldo e un tetto per la notte o per il giorno in modo da fornire un aggancio per poter procedere poi,
eventualmente, con cure di tipo terapeutico.
Altri servizi sono:
• Il lavoro di strada (sono le cosiddette unità mobili): équipe di intervento che prendono la
strada, e non l’ambulatorio o il centro di accoglienza, come setting di intervento (dunque si è
passati dal concetto di “curare” a quello di “prendersi cura di “ per cui dalla prevenzione alla
promozione della salute)
La promozione della salute è il processo che mette in grado le persone di aumentare il controllo
sulla propria salute e di migliorarla.

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E salute è intesa come “benessere complessivo della persona nel suo contesto socio-ecologico” ( Æ
non solo assenza di malattia).
Per raggiungere uno stato di benessere fisico, mentale e sociale, un individuo (o un gruppo) deve
essere capace di identificare e realizzare le proprie aspirazioni, soddisfare i propri bisogni, cambiare
l’ambiente circostante o farvi fronte (OMS carta di Ottawa, 1986).
Partendo da questa definizione, alcuni autori hanno cercato di elaborare dei concetti di benessere e
hanno colto come le relazioni sociali e quelle di comunità siano centrali per la valutazione della
qualità della vita delle persone (Prezza, 2001; Felce e Perry, 1995).
Sono stati individuati tre punti focali:
1. sostegno sociale (famiglia, amici, persona speciale)
2. senso di comunità
3. benessere sociale: inteso come il fatto che le persone sono inserite in strutture sociali e
comunità e devono affrontare innumerevoli compiti e sfide sociali; le sfide della loro vita
sono i criteri con cui le persone valutano la propria qualità della vita (Keyes, 1998)

SOSTEGNO SOCIALE

SENSO DI COMUNITA’ BENESSERE SOCIALE

Dunque il benessere sociale è la valutazione delle proprie condizioni di vita e del proprio
funzionamento nella società.
C’è un nuovo approccio alla salute, appunto, che non la considera più come un qualcosa che c’è o
non c’è, e che ha segnato il passaggio:
• da stato a processo
• dal modello biomedico a quello bio-psico-sociale
• dall’individuo alla comunità
• dalla prevenzione alla visione multidicsciplinare
• dall’assistenza sanitaria alla politica per la salute

si è cominciato ad analizzare quali sono le diverse variabili antecedenti:

Variabili disposizionali: Variabili socioculturali: età, sesso,


caratteristiche di personalità, pattern di classe sociale
comportamento

Benessere bio-
psico-sociale

Fattori cognitivi: rappresentazioni Variabili ambientali: caratteristiche del


mentali, valutazione dei sintomi contesto,laureandi
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Questo bagaglio di elaborazioni teoriche ha consentito di mettere a punto dei modelli di promozione
della salute, che possiamo individuare in queste modalità:
• fornire informazioni: è un intervento centrato sulla modifica del comportamento mediante
cambiamento di cognizioni; l’assunto di base è una sequenza unilineare Æ se io trasmetto a
queste persone delle conoscenze, loro in base a quanto appreso modificheranno il proprio
comportamento e miglioreranno la loro salute (v.di scritte sui pacchetti di sigarette)
• self empowerment: è centrato sullo sviluppo personale mediante tecniche di apprendimento
partecipante, tecniche di role playing o training sull’assertività, e portano ad un miglioramento
delle abilità sociali (life skillsì)
• group empowerment: sono interventi rivolti a piccoli gruppi e si basano su dei processi più di
carattere psicologico quali l’influenza sociale, il confronto e il sostegno sociale. Le tecniche
usate sono quelle della peer education e l’educazione socio-affettiva.
• L’azione collettiva: il focus è centrato sullo sviluppo della comunità attraverso il
coinvolgimento delle persone nelle progettazione e nelle realizzazione degli interventi,
interventi che vengono fatti nei contesti ambientali (scuola, luogo di lavoro, servizi)

Un esempio di promozione della salute sono i Piani per la Salute dell’Emilia Romagna.
Di che si tratta?
È un modo nuovo di programmare ed attuare le politiche socio-sanitarie nel territorio, in quanto
favorisce lo sviluppo della comunità e tende a migliorare il rapporto di fiducia tra istituzioni e
cittadini.
Infatti si tratta di piani triennali elaborati e realizzati da una pluralità di attori, coordinati dal governo
locale, che impegnano risorse umane e materiali allo scopo di migliorare la salute della popolazione,
anche attraverso il miglioramento dell’assistenza sanitaria.
I piani per la salute avvengono attraverso varie fasi:
1. rilevazione dei bisogni di salute della comunità
2. selezione delle priorità
3. elaborazione del piano
4. attuazione dei programmi
5. monitoraggio e verifica

che cosa è stato fatto nel progetto Esse-Pi – salute partecipata, nello specifico nei piani di salute a
Cesena?
• Analisi dei bisogni di salute (tramite opinioni, focus group e dati epidemiologici)
• Criteri per la scelta delle priorità (rilevanza, riduzione delle disuguaglianze, urgenza e
risolvibilità)
• Sono stati individuati 3 bisogni (cultura della salute e stili di vita sani, sicurezza stradale,
sostegno a chi deve sostenere)
• Progetto “valutazione partecipata” (tecnica interna degli operatori e tecnica esterna dei
cittadini)

Quali sono le altre aree di intervento nei servizi e nelle strutture ospedaliere?
• L’accesso ai servizi
• Le relazioni interpersonali (operatore sanitario/paziente; il lavoro d’ équipe)
• La salute degli operatori

L’accesso ai servizi riguarda: l’organizzazione dei sistemi e servizi di cura, che è strettamente
collegata alle concezioni di salute condivise in una data popolazione e cultura, per cui occorrono
servizi in grado di rispondere ai bisogni di salute: centralità dell’ospedale contro altri servizi.
Il tema dell’accessibilità riguarda il timing of help (v.di Barbara Dohrenwend e l’importanza di
analizzare i momenti specifici in cui vengono forniti gli aiuti); bisogna tenere presente l’equità,

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l’efficienza e l’efficacia, cioè quella che viene chiamata la “triade incongruente” perché molto difficile
da realizzare.
Le relazioni interpersonali riguardano: il rapporto operatore-utente /paziente; la compliance
(obbedienza) e soddisfazione dell’utente; la comunicazione; il problema del team e dei rapporti tra
colleghi; la gerarchia, cioè i rapporti con i superiori; le relazioni con i familiari dell’utente/paziente.
La salute degli operatori (stress e burn out) è un punto molto importante.
Il burn out è caratterizzato da sentimenti di esaurimento fisico, impotenza, disperazione,
svuotamento emotivo e dallo svilupparsi di un concetto di sé negativo e di atteggiamenti negativi
verso il lavoro, la vita e gli altri.
Il burn out costituisce un possibile esito dello stress, in presenza di particolari condizioni e passa
attraverso varie fasi (Edelwick e Brosdsky, 1980):
1. fase di entusiasmo: sentimenti di idealizzazione, aspettative e finalità irrealizzabili
2. fase di stagnazione: l’entusiasmo iniziale viene meno di fronte all’impossibilità di superare
certi ostacoli o certi vincoli
3. fase di frustrazione: dubbi sull’utilità del proprio lavoro, sull’efficacia delle proprie azioni
4. fase di apatia: distacco dal proprio lavoro e insorgenza del burn out

Le cause del burn out sono:


• fattori soggettivi (caratteristiche di personalità)
• fattori lavorativi (e relativi possibili percorsi di intervento per ridurre il burn out)

FATTORI LAVORATIVI (Maslach e PERCORSI DI INTERVENTO


Le iter, 1997)
• sovraccarico lavorativo • carico di lavoro sostenibile
• mancanza di controllo • sentimenti di scelta e di
controllo
• assenza di ricompense • riconoscimenti e ricompense
• crollo del senso di appartenenza • senso di appartenenza ad una
comunitaria comunità
• assenza di equità • equità, rispetto e giustizia
• valori contrastanti • lavoro ricco di significati e valori

Per concludere: quali sono le buone pratiche nella promozione della salute (Freudenberg, 1995)?
Gli interventi efficaci devono:
• essere confezionati per un target specifico in un dato contesto
• coinvolgere i partecipanti nella pianificazione, implementazione e valutazione
• integrare sforzi per modificare individui, ambienti sociali e fisici, comunità
• usare le risorse dell’ambiente e chiederne altre, se necessarie, per raggiungere gli obiettivi
desiderati
• costruire sui punti forza dei partecipanti e delle comunità
• sostenere la diffusione delle innovazioni

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LEZIONE N° 15 Æ Settori di applicazione innovativi (Prof.ssa Francescato)

Argomenti della lezione:


• aree di intervento emergenti e potenzialità occupazionali; le aree sono tre
Æ contesti lavorativi
Æ volontariato e privato sociale
Æ pubblica amministrazione

Obiettivi della lezione:


• fornire una panoramica dei settori di intervento in cui aumentano le opportunità di lavoro per
gli psicologi di comunità

Cominciamo dal primo argomento: mondo del lavoro.


Abbiamo visto, in altre lezioni, che in questo momento il mondo del lavoro sta attraversando un
periodo di grande evoluzione, perché richiede lavoratori motivati ed empowered.
Che vuol dire?
Che, con la globalizzazione, alcune aziende e alcune associazioni si trovano a competere con
lavoratori che abitano in altre parti del mondo, ma soprattutto con le innovazioni tecnologiche che
cambiano continuamente, molte aziende devono tenere il passo e hanno bisogno di collaboratori che
siano motivati ed empowered.
Perché?
Quando io produco un prodotto, posso anche permettermi di avere un lavoratore demotivato, tanto il
controllo di qualità lo faccio prima che il prodotto finito vada sul mercato, ma se io lavoro come

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psicologo con dei bambini a scuola, con dei disabili oppure facendo formazione, io devo avere degli
psicologi motivati, cioè pronti, volenterosi, desiderosi di fare il proprio lavoro.
Ed empowered sottolinea la capacità di essere autonomi, di prendere decisioni in fretta, di non
aspettare sempre che arrivi il capo per fare qualcosa, per cui l’evoluzione del mercato richiede che le
persone lavorino con molta intensità e motiva le persone affinché si appassionino al proprio lavoro, in
quanto no n devono più solo eseguire degli ordini, ma essere creativi e rispondere ai bisogni della
clientela.
L’era della globalizzazione pone delle sfide complesse a un’azienda, e cioè chiede che
l’organizzazione crei un alto impegno e partecipazione da parte dei lavoratori, e al tempo stesso
abbiamo una polarizzazione del lavoro: c’è chi lavora troppo e chi è disoccupato o non ha mai
neanche trovato il primo impiego.
Perché accade questo?
Abbiamo visto che, nel sistema attuale, con la globalizzazione e con i mass-media alcune persone,
che ad esempio, producono beni nel campo dell’intrattenimento, sono persone che diventano
conosciute, diventano delle star nel loro campo e hanno sempre più lavoro perché tutti vogliono i più
bravi.
In più si lavora troppo perché nei gradini più bassi della scala sociale i lavori sono pagati molto poco,
per cui una persona per sbarcare il lunario deve fare più lavori contemporaneamente.
Senza contare che abbiamo anche il contrario: persone che sono disoccupate, e dunque non riescono
trovare un secondo lavoro dopo aver perso il primo, e persone che non riescono a trovare nemmeno
quello.
Come vedremo, in psicologia di comunità quello che spesso è un problema sociale, per noi diventa un
lavoro; naturalmente noi non lavoriamo per chi lavora troppo, ma lavoriamo in interventi che
reinseriscano dei disoccupati, dei cassaintegrati, e per dare una mano a chi non ha mai lavorato
(Youthstart).
Che vuol dire?
Lo psicologo viene chiamato a fare dei progetti di formazione, questo è un campo innovativo molto
forte, per reinserire i disoccupati; vuol dire, praticamente, fare un nuovo training professionale a
queste persone.
Perché lo psicologo?
Perché le persone che perdono il lavoro possono essere arrabbiate, deluse, demotivate e lo psicologo
lavora per ri-motivarle, o per aiutarli in qualche modo a scegliere una seconda occupazione e per
fare pace con i sentimenti negativi che hanno avuto con il primo lavoro.
Certe volte anche per scoprire i desideri segreti: cos’è che gli piacerebbe fare e non hanno mai fatto;
allora è soddisfacente fare questo tipo di lavoro perché si vedono delle persone che magari arrivano
alla formazione depresse e arrabbiate e vanno via con un nuovo lavoro e una nuova socialità.
Questo vale, ovviamente, anche per i cassaintegrati; voi sapete che la cassa integrazione è una
Legge che favorisce il fatto che le persone che rimangono senza lavoro abbiano un salario, anche se
minimo.
I cassaintegrati devono essere anche loro re-inseriti, e qui lavoriamo con persone che hanno perso
un lavoro e che quindi lavoravano già.
Youthstart, che letteralmente vuol dire partenza dei giovani, è un progetto europeo pensato per chi,
invece, non ha mai trovato lavoro e per coloro che hanno lasciato la scuola presto e che hanno
difficoltà a trovare un impiego.
Questo, come tanti altri, è un progetto dell’UE per aiutare quelli che vengono chiamati i “soggetti
deboli”: donne, giovani, ragazzi che hanno avuto problemi con la droga, emarginati ad entrare nel
mondo del lavoro.
Che altro puo’ fare uno psicologo?
Puo’ fare interventi con i sindacati per migliorarne l’organizzazione (tramite A.O.M.).
Allora, abbiamo visto che l’analisi organizzativa multidimensionale è uno degli strumenti importanti in
psicologia di comunità; i sindacati, in questo periodo, hanno molto bisogno di essere rafforzati
perché, come sapete, negli ultimo vent’anni hanno perso un po’ del loro potere e devono, quindi,

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adattarsi anche loro ai cambiamenti del mercato del lavoro e devono migliorare la loro
organizzazione.
L’A.O.M. aiuta i sindacati, a livello locale e regionale, a funzionare meglio, in modo che possano
rispondere meglio ai bisogni attuali dei lavoratori, perché i sindacati, adesso, a volte hanno delle
difficoltà ad affrontare il mondo del lavoro cambiato, per cui hanno bisogno dell’A.O.M. per
organizzarsi al meglio,in modo partecipativo, alle sfide che hanno oggi.
Anche in azienda lo psicologo di comunità puo’ intervenire per attuare strategie di empowerment
individuali e grippali, cioè per migliorare le competenze psicosociali e per fare lo stress management.
Cosa vuol dire?
Abbiamo visto in passato che l’empowermern significa rendere più potenti; qui diciamo individuali e
grippali, perché in azienda si puo’ intervenire come psicologi facendo un consultino individuale,
oppure aumentando tutte quelle capacità di resistenza che provocano malattie psicosomatiche.
In molte aziende c’è uno psicologo del lavoro o di comunità che fa in modo che l’azienda sia
organizzata in modo da non ledere la salute del lavoratore, ma anzi per promuovere il benessere.
Inoltre, abbiamo visto che il nuovo lavoro richiede competenze trasversali, e queste sono tutte
competenze che uno psicologo di comunità puo’ sviluppare nei lavoratori.
Altri interventi in azienda, invece, hanno a che fare con strategie di empowerment organizzativo, cioè
col creare ambienti di lavoro ad alta partecipazione (anche qui con l’A.O.M.).
Praticamente, qui si tratta di fare cambiamenti più rilevanti: non più soltanto di aumentare le
competenze dei singoli, come prima, ma di influenzare la struttura organizzativa.
Che vuol dire?
Vuol dire, per esempio, che in una struttura gerarchica, dove ci sono operai, capi operai e sempre più
su fino ai vertici, si puo’ cercare di organizzare il lavoro per squadre dove i singoli operai, impiegati
etc. hanno molto più potere decisionale di prima perché sono loro che hanno a che fare direttamente
col prodotto o col cliente.
Si chiamano, infatti, ambienti di lavoro ad alta partecipazione, perché si ritiene che soltanto
coinvolgendo i lavoratori e facendoli partecipare ai processi decisionali che riguardano il loro lavoro,
si possa veramente rispondere alle nuove sfide del mercato, in quanto ottengo una motivazione
maggiore a lavorare di più.
Qual è lo strumento che noi utilizziamo?
L’A.O.M. , perché permette di trovare i punti forza e le aree problema e di elaborare insieme un
progetto di cambiamenti desiderati e fattibili.
Un’ altra strategia importante si chiama “Strategie di empowerment di rete/rapporti
aziende/territorio”: qui lo psicologo di comunità cura i rapporti tra azienda e territorio.
L’idea è che un’azienda che opera in una comunità deve avere dei buoni rapporti con la comunità
locale, anche perché così ne ha un ricavo d’immagine aziendale.
Infatti molte aziende fanno degli interventi tipo mentoring e pensionati volontari: sono due esempi di
cio’ che puo’ fare un’azienda per farsi voler bene, per dare un contributo alla comunità in cui vive.
Il contributo più grosso è quello di non inquinare, ovviamente, ma qui ci riferiamo a due contributi
specifici:
• Mentoring: attività di volontariato sui ragazzi che hanno dei problemi a scuola. Le aziende
cedono alcune ore (pagate dall’azienda stessa) ad alcuni dipendenti per promuovere questo
tipo di attività
• Pensionati volontari: si tratta dei pre-pensionandi che prestano aiuto. Le aziende vogliono
così favorire, oltre al territorio, le persone stesse, in quanto preparano i futuri pensionati a
quella che sarà la loro vita una volta finito il lavoro. Ovviamente non si tratta di una
costrizione: il soggetto decide di fare questo tipo di volontariato solo se vuole.

Altre opportunità di lavoro per lo psicologo di comunità si trovano all’interno del terzo settore e si
tratta di interventi nelle associazioni di volontariato (sia gratuito che retribuito) e nel privato sociale.

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I punti forza e le aree problema del terzo settore risiedono nella motivazione dei volontari , nel burn
out (espressione di stanchezza emotiva rispetto al proprio lavoro) e nel turn over (i volontari
cambiano spesso).
In questo caso lo psicologo di comunità è chiamato a fare formazione psicosociale attraverso le
tecniche di:
• Team building di volontari (lo psicologo cerca di fare formazione in modo da stimolare lo
spirito di gruppo e costruirne così uno coeso e motivato)
• Lavoro di rete (v.di lezione 12)
• A.O.M. (v.di lezione 9)

Le cooperative di servizi forniscono assistenza domiciliare agli anziani, ai minori, forniscono sostegno
agli immigrati, costituendo, di fatto, un pronto intervento sociale per favorire l’inserimento di queste
persone e di questi gruppi “svantaggiati” nella comunità; dunque queste cooperative devono
integrare cultura d’impresa e cultura sociale, che non è affatto facile.
Ecco perché è cruciale, per queste cooperative, sviluppare le capacità di auto valutazione e diagnosi
partecipata, oltre ad una buona conoscenza del territorio (tramite i profili di comunità, v.di lez. 5;
lavoro di rete, v.di lez.12).
Passiamo ora all’ultimo settore di interesse per quel che riguarda i nuovi settori di applicazione per la
psicologia di comunità.
Si tratta della Pubblica Amministrazione; la politica sociale dell’UE puo’ creare occupazione,
soprattutto nei progetti contro l’esclusione sociale.
Il fondo europeo finanzia dei progetti come quello youthstart, di progetto leader (punta a scoprire,
nei territori ad alto rischio, coloro che abbiano capacità di leader), di employ per i giovani, per le
donne, ecc.
Oltre all’Unione europea, abbiamo anche un livello di progettazione a carattere nazionale (es.
L.285/97 per promuovere lo sviluppo di reti territoriali).
Il cambiamento dei ministeri degli enti regionali, volto non solo all’adempimento giuridico, ma anche
al soddisfacimento dei bisogni del cittadino, serve quindi a favorire una nuova formazione che metta
in grado tutti (Dirigenti, quadri, ecc.,) di svolgere questo nuovo mestiere.
È possibile lavorare anche a livello locale, ossia con i Sindaci e i comuni, per poter rivitalizzare il
capitale sociale (ricordiamo che per capitale sociale si intende la rete di conoscenze che possono dare
assistenza, aiuto e sostegno).

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