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Teoria politica

12 | 2022
Annali XII

La politica delle rivolte urbane


Michele Garau

Edizione digitale
URL: https://journals.openedition.org/tp/2775
ISSN: 1972-5477

Editore
Marcial Pons

Edizione cartacea
Data di pubblicazione: 1 décembre 2022
Paginazione: 421-431
ISSN: 0394-1248

Notizia bibliografica digitale


Michele Garau, «La politica delle rivolte urbane», Teoria politica [Online], 12 | 2022, online dal 01 juin
2023, consultato il 19 juin 2023. URL: http://journals.openedition.org/tp/2775

All rights reserved


La politica delle rivolte urbane

Michele Garau*

Il tema delle rivolte urbane è oggetto di un interesse teorico intermittente,


in parziale sincronia con le ondate effettive di disordini sociali e sommosse che
si impongono nella scena pubblica. Non può certo essere un caso, infatti, che
alcuni degli studi e dei dibattiti più stimolanti intorno al significato politico dei
«riots», tra l’Italia e la Francia, abbiano seguito il fatidico 2005, in cui le banlieues
di tutto il territorio francese si sono incendiate per quasi un intero mese a partire
dall’epicentro di Clichy-sous-Bois. Tra le ricerche seminali uscite negli anni suc-
cessivi basti citare due titoli emblematici: Le temps des émeutes 1, dell’antropolo-
go Alain Bertho, che copre un arco temporale tra il 2005 e il 2009; Sociologie des
émeutes 2, di Michel Kokoreff, che comincia anch’esso col descrivere dettagliata-
mente i fatti del 2005. Tenendo conto di altri sguardi disciplinari, inoltre, anche
la prima formulazione del prolifico concetto di «potere destituente», da parte di
Mario Tronti 3, emerge nella riflessione sul caso delle banlieues.
Riot, Strike, Riot. The New Era of Uprisings 4, un altro libro centrale a firma
di Joshua Clover, esce invece nel 2016, dopo un ulteriore decennio di scosse
periodiche e «rivolte sovrannumerarie» su scala mondiale. Per lo stesso ordine
di ragioni, non è fortuito che alcuni lavori di notevole interesse siano tornati su
questo nodo spinoso negli ultimi anni, tra il 2019 e il 2021. In Francia lo stimolo
principale che ha ravvivato l’attenzione verso l’argomento è stato il fenomeno
dei «gilets jaunes», culmine di una sequenza iniziata nel 2016 con il movimento
contro la «loi travail» 5, ma anche capace di immettere tratti completamente ine-
diti nel repertorio abituale della contestazione. Tale singolarità politica è spes-
so tematizzata nelle pubblicazioni recenti di maggiore respiro concettuale. Un
interrogativo ineludibile riguarda infatti il rapporto tra la moltiplicazione delle
sollevazioni di strada e il declino dei registri della conflittualità sociale che hanno
accompagnato la lunga egemonia del movimento operaio —e dei suoi canali di
regolazione dell’antagonismo— nel campo delle politiche di emancipazione.
La riviviscenza della rivolta come tipologia di mobilitazione collettiva si in-
serisce nel solco di quella che Alain Bertho e Sylvain Lazarus 6 hanno nominato,

*
Università di Torino, michele.garau@unito.it.
1
Bertho, 2009.
2
Kokoreff, 2008.
3
Il contrinuto compare sulle pagine di una rivista italo-francese, che aveva dedicato un numero
monografico alle rivolte metropolitane, con particolare riferimento al caso delle banlieues: Pouvoir
destituant/Potere destituente. Les révoltes métropolitaines/Le rivolte metropolitane: cfr. Tronti, 2008.
4
Clover, 2016.
5
Si tratta della mobilitazione del 2016 contro il progetto di legge «El Kohmri» per la riforma del
mercato del lavoro, ribattezzato dai contestatori «Loi travail!». In seno a questa mobilitazione, che per
certi aspetti ha tutti gli elementi del classico «movimento sociale» alla francese —contenuti rivendi-
cativi, rapporto con il mondo del lavoro e massiccia presenza delle strutture sindacali— si sviluppano
stili di protesta inediti come quello del «cortège de tête», raggruppamento spontaneo e conflittuale che
si situa in apertura delle manifestazioni di piazza, per sottrarne il controllo alle organizzazioni ufficiali.
6
Lazarus, 2013.

TEORIA POLITICA. NUOVA SERIE, ANNALI XII


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con una definizione puntuale, politica di emancipazione «post-classista». Se-


condo questa lente il tracollo dell’identità di classe, quale vettore di una «to-
talizzazione» storica delle singole e particolari esperienze di lotta, rende queste
ultime incapaci di raccogliersi attorno ad una cornice unitaria. In questo modo
tramontano però, ancor prima che le cristallizzazioni politico-organizzative della
tradizione socialista in tutte le sue varianti classiche, i lemmi che formavano un
vocabolario stabile e riconosciuto: partito, classe, transizione, rivoluzione, solo
per citarne alcuni. Parafrasando ancora Lazarus si può dire che questi termini,
insieme ai «modi storici» e sequenziali di cui sono espressione, non sono can-
cellati ma giungono piuttosto ad un punto di «saturazione» e si trasformano in
qualcosa d’altro.
Già nel succitato libro di Clover, d’altronde, è avanzata una periodizzazione
storica del movimento operaio moderno che pone la rivolta in un intreccio indis-
tricabile con la forma dello sciopero: c’è una fase di gestazione in cui sono pra-
tiche coestensive e difficilmente distinguibili —dalle distruzioni luddiste inglesi
iniziate nel 1811 ai moti di Birmingham del 1839, nel quartiere commerciale
chiamato Bull Ring 7— e un lungo processo di avvicendamento che, secondo
i ritmi alterni dei cicli di accumulazione economica, vede gli episodi di rabbia
sociale esplodere, rispettivamente, nello spazio della produzione o in quello della
circolazione di merci. Mi pare rilevante che gli studi più avveduti tendano, al di
là degli innumerevoli contrasti, a rompere con l’immagine della rivolta quale
polarità esclusivamente negativa ed irrazionale. Il significato di tale fenomeno
viene invece ricondotto ad un bagaglio di fattori ricorrenti, a costanti che si ar-
ticolano nella situazione sociale ed economica del presente. Non una semplice
sospensione o cesura della ragione storica, insomma, ma uno specifico tipo di
«sapere sociale» che può essere spiegato e classificato se lo si dispone all’interno
di «serie», come scrivevano Arlette Farge e Jacques Revel, nel 1988, in Logiques
de la foule 8.
Un primo titolo che risponde senza dubbio a questo requisito è In girum. Le
leçons politiques des rond-points, di Laurent Jeanpierre, uscito nel 2019 per i tipi
di «La Découverte». Si tratta di uno studio «di sorvolo», come scrive l’autore,
che affianca una prima ricostruzione del movimento dei «gilets jaunes», ancora
in pieno svolgimento durante la stesura del libro, ad un’analisi dei suoi aspetti di
novità. L’evento politico dei «gilets jaunes» non può essere inteso, sostiene Jean-
pierre, in sola antitesi all’inefficienza della rappresentanza istituzionale o all’im-
patto delle sperequazioni economiche che stritolano la «Francia periferica», ma
anche come messa in discussione radicale di un’intera «grammatica dell’azione
collettiva». Tale grammatica è appunto connessa alla dinamica complessiva del
«movimento sociale» per come si è sviluppato, in Francia e non solo, nel quadro
del compromesso fordista, con i suoi margini di contrattazione del reddito, del
potere d’acquisto e degli interessi di parte dentro lo spazio dello Stato nazionale.
Il peso concertativo delle grandi strutture di massa a trazione verticistica, partiti
di sinistra o sindacati, il gioco delle regole della protesta e le sue forme di appa-

7
Thompson, 1969.
8
Farge, Revel, 1988.
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rizione nello spazio pubblico, sono investite da un processo definitivo di «des-


tituzione». Ad essere invalidati sono innanzitutto, per l’autore, i protocolli che
reggevano la dialettica tra le classi sociali e i canoni che scandivano l’espressione
del conflitto secondo uno svolgimento fisso: le sfilate di massa, gli scioperi, i pro-
grammi rivendicativi ben definiti e difesi da portavoce legittimi, la battaglia tra
governo e manifestanti sui numeri delle adesioni. Questo prisma dipendeva da
una fase determinata dell’accumulazione economica e della distribuzione delle
ricchezze. L’esperienza dei «gilets jaunes» consegnerebbe quindi al passato un
«regime fordista di regolazione del conflitto» che stava perdendo solidità già da
qualche decennio:
Il movimento dei gilets jaunes ha in effetti operato una rottura con la logica
del numero che prevaleva al fine di ottenere attraverso la manifestazione di strada
delle concessioni governative in materia economica e sociale. Esisteva una cor-
relazione forte tra questo tipo di protesta, nazionale, controllata dagli apparati
sindacali e i partiti, e il modo di regolazione detto «fordista» del capitalismo. 9
Un indicatore del passaggio di soglia consumatosi è la sproporzione tra le
cifre dei manifestanti scesi in piazza, tutto sommato modeste, e l’entità delle
concessioni rapidamente strappate al governo: con 280.000 partecipanti nel suo
picco, durante il settembre 2018, sparsi per 50.000 manifestazioni in tutto il ter-
ritorio francese, si ottengono risultati più immediati e significativi rispetto a quel-
li conseguiti dalle centrali sindacali nei sei anni precedenti. Non da ultimo viene
ritirato il decreto sul rincaro del carburante che aveva suscitato la mobilitazione.
L’alterità rispetto al meccanismo ordinario dei movimenti sociali tocca però
anche livelli più profondi. Un aspetto fondamentale è il venir meno di una
«consistenza prevalentemente discorsiva» associata al movimento, che si riflette
proprio nella confusione progettuale e nell’oscurarsi dei profili ideologici ben
perimetrati in partenza. La domanda di coerenza ideologica e di richieste chiare
farebbe infatti parte di quell’intelaiatura che si trova ad essere destituita, ovvero
la lente «intellettualistica» secondo cui la politica è una questione di programmi
e rivendicazioni, ma più in generale subordinata alla parola. Questo venir meno
del discorso come dimensione filtrante dell’aggregazione «politica» è un punto
che accomuna il momento dei gilets jaunes al bacino complessivo delle rivolte,
e che rende anzi oggetto di dibattito proprio il loro carattere politico in senso
stretto 10. Lo stesso Jeanpierre, evidenziando l’impulso primariamente oppositivo
della protesta e la mancanza di «sbocchi» concreti stigmatizzata da più parti,
ammette che la si possa definire, al contempo, «politica» ed «anti-politica», se
non come sintomo di una rimessa in questione del confine tra i due campi. Ques-
ta delimitazione perderebbe infatti di presa descrittiva rispetto alla specificità
dell’oggetto, alla sua particolare visione dell’azione collettiva:
In realtà la domanda di coerenza ideologica che si indirizza ai gilets jaunes non
è che una delle modalità del pregiudizio intellettualistico che impedisce di coglie-
re la particolarità dell’evento, in particolare la diversità effettiva dei rapporti col

9
Jeanpierre, 2019: 54.
10
A proposito dei gilets jaunes ritorna infatti la qualifica di fenomeno «protopolitico», tradizional-
mente usata per le rivolte e impiegato nello specifico rispetto agli avvenimenti del 2005: Mauger, 2006.
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politico che esistono nella società francese e nelle diverse classi sociali. Secondo la
maggioranza dei gilets jaunes la politica non trova consistenza nel discorso e non è
innanzitutto affare di opinione, di rivendicazioni, di programma. 11

Anche la coesistenza, nelle fasi iniziali della contestazione, di motivi contrad-


dittori, di elementi dalla matrice ideologica inconciliabile secondo il tradizionale
scacchiere politico, di accenti apparentemente reazionari o «poujadisti», avreb-
be a che vedere con la reticenza a porre identità o posizionamenti in modo aprio-
ristico rispetto al vissuto della rivolta medesima. Seppure l’aspetto propositivo,
di formulazione esplicita, rimanga frammentario e incongruente lungo tutta la
parabola del movimento —dal «referendum di iniziativa cittadina» all’invoca-
zione di un immaginario rivoluzionario e «dégagiste» tra i più intransigenti— la
soggettività e il senso di appartenenza si definiscono nell’esperienza comune, in
divenire. Sulla stessa linea si muovono due contributi più brevi sul tema: quello
del sociologo Michalis Lianos 12, che usa il concetto di «politica esperienziale»,
basata su relazioni di prossimità, amicali e familiari, rafforzate dall’incontro nei
«rond points» occupati e incentrate sulla percezione di appartenere a una realtà
diversa rispetto a quella della politica istituzionale e delle classi dominanti; il
saggio di Yves Citton 13, il quale insiste sulla refrattarietà dei gilets jaunes a ri-
solvere la politica nella sfera del discorso e ne sottolinea la natura in prevalenza
«destituente».
In simili tesi riecheggia peraltro un’ipotesi di lettura che era stata formulata
rispetto alla sollevazione argentina del 2001, che parte dai blocchi organizzati
dai «piqueteros» e culmina nelle giornate di sommossa, a Buenos Aires, del 19 e
20 dicembre. Nel libro Piqueteros. La rivolta argentina contro il neoliberismo 14, il
«Colectivo Siutaciones» opponeva al modello del movimento sociale quello della
rivolta come «operazione etica». I tratti peculiari più qualificanti del nuovo pa-
radigma erano indicati proprio nella mancanza di un «Soggetto» ben definito,
nell’indeterminatezza di cause ed istanze, nel privilegiare le forme di socializza-
zione alternativa rispetto a qualsiasi presupposto progettuale.
Per tornare all’attualità, un altro importante lavoro di indagine sul tema delle
sommosse, che si sofferma sulla politicizzazione di domini non verbali dell’espe-
rienza, è il libro La vertige de l’émeute: De la Zad aux gilets jaunes, scritto da Ro-
main Hüet 15. Uscito anch’esso nel 2019, è uno studio di taglio prevalentemente
sociologico, capace però di spaziare nel campo della teoria politica e del pensiero
filosofico. Al crocevia tra le ibridazioni disciplinari c’è una domanda metodolo-
gica su come sia possibile leggere la tipicità delle rivolte, il loro coagulo di gesti
e percezioni irriducibili ad una mera categorizzazione razionale. A tal fine viene
proposta una «svolta emozionale» nelle scienze sociali, capace anche di restituire
la «carica sensibile» di comportamenti che non rientrano perfettamente in sche-
mi di spiegazione causale. L’approccio allo studio di campo viene quindi definito

11
Jeanpierre, 2019: 27.
12
Lianos, 2019.
13
Citton, 2019.
14
Colectivo Situaciones, 2003.
15
Hüet, 2019.
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in relazione a quella «sociologia della carne» di cui parla Loïc Wacquant 16, come
forma di conoscenza attraverso il corpo e la partecipazione diretta: lungo il libro,
infatti, l’analisi teorica è interpolata da pagine diaristiche di resoconto su cortei e
giornate di protesta. Spiega Hüet:
Una sociologia della carne riposa su questa idea semplice: l’ingresso sul cam-
po —la sua quasi-necessità— corrisponde a un inserimento nel mondo che apre
a un’intuizione pratica del fenomeno e aiuta a uscire dalle dimensioni talvolta
astratte delle discipline. Il campo fa nascere i pensieri. Non è sufficiente osservare
le sommosse, nel senso di registrarle, di consegnarle per iscritto su un diario del
campo o di prendere nota del reale. Occorre piuttosto vivere un’esperienza, pro-
vare, essere sensorialmente affetti, sentire fisicamente. 17
Anche la scelta della violenza come mezzo politico sarebbe quindi un conden-
sato di intensità, un accesso a sensazioni e tensioni che non si possono compren-
dere dall’esterno. Nel momento del «riot» si cercherebbe, in particolare, una
tonalità affettiva e un senso di comunione che la vita quotidiana delle società
industriali sviluppate rende abitualmente impossibile. Le finalità politiche di-
chiarate passerebbero in subordine: prova ne sia che, salvo eccezioni rare come
quella dei «gilets jaunes», gli scopi prefissati non risultano realisticamente perse-
guibili e sono sproporzionati rispetto alle forze messe in campo.
A questo proposito Hüet evoca riferimenti teorici contemporanei molto va-
riegati, dal concetto di «assurdo» in Albert Camus 18 alle analisi di Erich Fromm 19
sulla passione umana per la distruttività, passando per le tesi di Georges Di-
di-Huberman 20 sull’espulsione della sensibilità dal campo della conoscenza. L’is-
pirazione chiave della sua ricerca è però il lascito del «Collège de Sociologie»,
in particolare di Georges Bataille e Roger Caillois. Questi ultimi guardano ai
fenomeni della guerra e della festa come dispendio funzionale di una carica en-
ergetica eccedente, di un surplus di potenziamento del vissuto soggettivo che
finisce per saturarsi e si trova bloccato, non conosce sfogo in nessuno degli ambi-
ti del vivere sociale organizzato. La guerra come «esperienza totale» nel caso di
Bataille 21 (un altro autore citato, non a caso, è Ernst Jünger) e la festa come in-
frazione consentita dei freni convenzionali, per quanto riguarda Caillois 22, sono
analizzate in base al presupposto di fondo secondo cui soltanto una piccola parte
della potenza vitale degli individui è catturata nelle attività quotidiane di sopra-
vvivenza e riproduzione. Il resto di questo fondo istintivo rimarrebbe inespresso
e, in assenza di canali adeguatamente predisposti, pronto a far saltare il tappo.
Questo tipo di quadro «ontologico» sulla natura della violenza sociale è preso
dall’autore come una suggestione e, mi pare, non interrogato adeguatamente nei
suoi titoli di verità. Nel libro è tuttavia ammesso che trasporre un modello des-
crittivo modellato soprattutto sulla guerra al fenomeno delle rivolte urbane sia

16
Wacquant, 2015: 245.
17
Hüet, 2019: 55.
18
Camus, 2013.
19
Fromm, 1975.
20
Didi-Huberman, 2011.
21
Bataille, 2014.
22
Caillois, 2019.
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problematico, per la sproporzione assoluta nei livelli di intensità della violenza,


del rischio e del coinvolgimento soggettivi, e quindi anche di un supposto scate-
namento distruttivo.
La pertinenza alquanto sottile dell’analogia sarebbe nel fatto che, in un ca-
pitalismo avanzato che non lascia loro molto spazio, le sommosse consumano
queste energie. Se però il fenomeno della festa rientra nel quadro, mi pare che
le sfere del consumo ludico, dello spettacolo e dell’industria dell’intrattenimen-
to siano difficilmente trascurabili. Le rivolte funzionerebbero, nello specifico,
quali esercizi di simulazione di una violenza «addomesticata», regolata spon-
taneamente in un’imitazione del caos dalle scarse capacità offensive. Il fatto che
gli scontri di strada, nel contesto di cortei e manifestazioni pubbliche, mirino
prevalentemente alla distruzione di oggetti o a fronteggiamenti trascurabili con
le forze di polizia sarebbe, secondo l’autore, un segnalatore del loro carattere
rituale e autoriferito. Il problema insito in una tesi del genere è a mio avviso du-
plice. Se le rivolte corrispondono a una valvola di sfogo preordinata per le tensio-
ni sociali rimosse, seppure su infima scala rispetto alla distruzione bellica, si può
difendere davvero il loro carattere di «soggettivazione» alternativa, come sembra
dire Hüet? Si potrebbe invece dedurne, in accordo con le riflessioni di Furio
Jesi 23, che siano eterodirette e alimentino la «macchina» del potere, proprio nella
misura in cui rimangono sospensioni effimere che si accontentano di sé stesse.
La secondarietà degli obbiettivi e il gioco spettacolare del conflitto, però, si ade-
guano difficilmente anche alle mobilitazioni ordinarie, che coinvolgono ben altri
fattori rispetto a quello ludico o simbolico, e a maggior ragione non si adattano
affatto alle esplosioni periodiche dei «ghetti» razziali a seguito, ad esempio, di
un omicidio di polizia. Nei disordini del 2005 in Francia o in quelli statunitensi
del 2020, dopo l’uccisione di George Floyd a Minneapolis, appare evidente che
le ragioni della rabbia diffusa siano tutt’altro che accessorie e che la violenza sia
ben poco mediata da gesti di simulazione estetica.
Il titolo successivo è Time over? Le temps des soulèvements, di Alain Bertho 24.
Si tratta di una continuazione del precedente libro, Le temps des émeutes, che si
fermava all’anno 2009. Lo scritto è una ricostruzione generale, molto sintetica,
delle sollevazioni e rivolte avvenute tra il 2009 e il 2019, alle più diverse latitu-
dini. Nel libro è contenuta in primo luogo una doviziosa raccolta di dati ed in-
formazioni 25, con un’attenzione di riguardo per il 2019, che è descritto quale un
vero e proprio «anno delle sollevazioni». Conviene tratteggiare sinteticamente
uno scorcio degli accadimenti per dare un’idea della loro portata: l’anno si apre,
in Francia, con i centri cittadini presi d’assalto dai «gilets jaunes» e le imma-
gini degli Champs Élysées in fiamme; a giugno Hong Kong insorge contro la
legge d’estradizione dettata dal governo cinese; in Africa si solleva, nello stesso
periodo, prima il popolo sudanese, contro il carovita, poi quelle algerino, ed
entrambi ottengono il rovesciamento dei rispettivi governi; all’esempio algerino

23
Cfr. l’opera postuma di Furio Jesi, 2000.
24
Bertho, 2020.
25
Il libro attinge al lavoro quotidiano di raccolta dati che l’autore svolge attraverso il blog «An-
thropologie su présent», in rete: https://berthoalain.com/, [consultato il 30/11/2022].
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segue la reazione della gioventù libanese, che protesta contro nuove tasse sulle
comunicazioni telematiche, ma si verificano sommosse anche a Baghdad, contro
penuria e corruzione della classe politica; in Ecuador è il rincaro del carburante
ad incendiare le strade, mentre in Cile quello dei biglietti della metro; ci sono poi
disordini in Honduras, Indonesia e Guatemala, la Catalogna in ottobre, contro la
condanna dei dirigenti indipendentisti, e l’Iran. L’elenco è lungo ma non ancora
esauriente.
L’approccio di Bertho segue alcuni assi teorici di fondo, su cui si staglia la
sistematizzazione delle informazioni. Una tra queste chiavi di lettura è l’emergere
della sensibilità ecologica e delle problematiche ambientali come motivo che si
intreccia alla genesi delle rivolte, parallelamente al diffondersi di teorie del crollo
e visioni «collassologiche» nel dibattito pubblico 26. Le sommosse che dipendo-
no da fattori di tipo ambientale sono di diversa natura. In primo luogo ci sono
mobilitazioni che si focalizzano esplicitamente sui temi ecologici, ad esempio
difendendo l’integrità di un territorio contro la costruzione di infrastrutture ad
alto impatto distruttivo: la ribellione, nel 2016, di molte città cinesi contro i tassi
di inquinamento, la resistenza delle popolazioni indiane contro l’installazione di
nuove centrali nucleari, la lotta contro il TAV in Valsusa o perfino il movimento
di piazza Taksim, a Istanbul, inizialmente scatenato dalla difesa di un parco pu-
bblico. Ci sono poi conflitti contro gli impianti di estrazione del gas di scisto, in
Québec e Algeria, contro inceneritori o strutture per il trattamento dei rifiuti. È
poi esemplare il caso della «Zad» (Zone à défendre) di Notre-Dame-des-Landes,
per bloccare il progetto di un enorme aeroporto internazionale al posto di am-
pie distese di boscaglia e terre coltivate. La convinzione centrale dell’autore su
questo insieme di battaglie è che la contrapposizione consolidata tra lotte sociali
ed ecologiche, in cui queste ultime sono derubricate a preoccupazione civica
di strati sociali privilegiati, interessati alla «fine del mondo» perché dispensati
dall’urgenza della fine del mese, è semplicemente fuorviante. In molti dei contes-
ti evocati sono proprio le popolazioni povere e sfruttate, infatti, ad osteggiare i
contraccolpi della devastazione ambientale.
Tale osservazione si dimostra ancor più fondata se si allarga lo sguardo a
proteste e rivolte di natura sociale che derivano dai risvolti della crisi climatica.
I disordini per il rincaro dei prezzi, la penuria e la speculazione cerealicola, in
Senegal, Indonesia, Egitto, Tailandia o Burkina Faso —per citarne solo alcuni—
dipendono dall’aggravarsi delle siccità ricorrenti. Lo stesso vale per le «rivolte
dell’acqua» in Algeria, Colombia e Iran. Bertho usa, in proposito, l’espressione
di «violenze climatiche». Un ulteriore aspetto ravvisabile è legato alla percezione
del tempo, poiché i conflitti che si scatenano in un «tempo della fine» ormai im-
mune da illusioni progressiste e poco incline alla fiducia nel futuro, mostrano un
atipico carattere «presentista». Questo termine introdotto da François Hartog 27,

26
Le teorie del collasso e dell’«effondrement», connesse all’emergenza climatica, sono anche le-
gate al successo dei libri di Pablo Servigne e Raphaël Stevens, soprattutto in Francia. Si vedano ad
esempio: Servigne, Stevens, 2015; Servigne, Stevens, Chapelle, 2018. Bertho contesta la pregnanza del
discorso «survivalista» ma ne riconosce la valenza di sintomo epocale.
27
Hartog, 2007.
428 MICHELE GARAU

è usato da Jerôme Baschet 28 per indicare l’imporsi di un «eterno presente», e


di un’incapacità di pensare il futuro, che domina tanto le società capitalistiche
quanto gli odierni percorsi dell’anticapitalismo. Bertho individua nella tendenza
presentista delle rivolte la ragione della loro indisponibilità alla mediazione come
della radicalità dei loro gesti, plasmati da una polverizzazione generale del tempo
e della profondità storica, che sembra ripiegarsi sulla minaccia di una catastrofe
incombente:
Il nostro pensiero politico era un pensiero della Storia e del tempo storico,
quello della lunga maturazione dei cambiamenti, quello delle strategie di una vita
o di una generazione, quello della costruzione di un mondo moderno. Ma i «do-
mani che cantano» hanno cessato di essere una necessità storica. Il passato non è
più che memoria dei crimini e delle catastrofi […]. Il futuro non è più nient’altro
che minacce da evitare. Eccoci rinchiusi in un presente senza uscita. 29

A ciò si ricollega il fatto che Bertho pensi il tempo delle sollevazioni come
epoca che segue, lo si è accennato in precedenza, le forme classiche della tradi-
zione rivoluzionaria e del movimento operaio. Nel percorrere tale pista non si
limita a evocare le tesi di Lazarus, ma anche le riflessioni sul concetto di «desti-
tuzione» avanzate, ad esempio, dal «Comitato Invisibile» e da Marcello Tarì 30.
Tuttavia il modo in cui è pensato il superamento della politica rappresentativa,
nelle rispettive visioni, appare divergente se non incompatibile: per il «Comitato
Invisibile» si tratta interrompere l’«apocalisse permanente» della forma di vita
capitalistica tagliando in due l’idea di rivoluzione, epurandola di quanto ha ere-
ditato dalla modernità e dal modello del potere sovrano; in Bertho invece non
esiste alcun tipo di tendenza «insurrezionale» o rivoluzionaria, ma l’idea che le
rivolte siano l’avvisaglia di una politica che viene, essenzialmente umanista ed
estranea ad ipotesi di rottura violenta. I lineamenti generali della sua proposta
rimangono però indefiniti e quindi alquanto confusi.
A chiudere la rassegna c’è una pubblicazione italiana: Il tempo della rivolta,
di Donatella Di Cesare 31. Si tratta dell’abbozzo di una teoria filosofica che vuole
spiegare la rivolta come figura dell’agire etico, custodendo il suo potenziale senza
per questo fornirne un’interpretazione definitiva o globale. Il lavoro della filosofa
parte dagli avvenimenti accesi dall’uccisione di George Floyd a Minneapolis, poi
propagatisi come una fiammata per tutti gli USA. A questo proposito scrive di
un «diritto al respiro» come cuore delle sollevazioni, che consisterebbe nell’in-
crinare un’architettura «poliziesca» in cui le frange della popolazione margina-
lizzate o sottoposte a uno stigma razziale sono relegate in un relativo «fuori».
Quando si allude ad un principio «poliziesco», in questo caso, non ci si riferisce
naturalmente alle semplici manifestazioni di brutalità delle forze dell’ordine che,
a molte latitudini, portano a pestaggi ed omicidi, ma all’accezione del concetto di
«polizia» proposta da Jacques Rancière 32: un’organizzazione chiusa dello spazio

28
Baschet, 2018.
29
Bertho, 2009: 148.
30
Comitato Invisibile, 2019; Tarì, 2017.
31
Di Cesare, 2020.
32
Rancière, 2007.
LA POLITICA DELLE RIVOLTE URBANE 429

totale della comunità che viene completamente saturato, disposto secondo un


archē in cui a ciascuno compete una sola posizione, delle competenze e delle
attività esclusive. Scrive Di Cesare in merito:
Non si tratta semplicemente di manganelli, blindati, interrogatori; ma nep-
pure solo di apparati repressivi dello Stato. È ormai ben più ampio il cosiddetto
«ordine pubblico» gestito dalla polizia il cui ruolo, non sempre palese, è perciò
determinante. Oltre a disciplinare i corpi, consentendone il riunirsi o vietandone
l’assemblarsi, la polizia struttura lo spazio, assegna le parti, stabilisce titoli e com-
petenze nell’avere, nel fare, nel dire. Fissa i posti da occupare e regola la facoltà
di apparire. Ma soprattutto governa l’ordine, quello del visibile e del dicibile,
fissando i limiti della partecipazione. Include ed esclude, discriminando chi ha
parte e chi non ha parte. 33
Le rivolte contestano quindi la recinzione della pólis, il suo perimetro, ovvero
la riduzione della politica alla funzione di polizia ed esclusione. Non ha torto
Marcello Tarì, nella sua recensione al libro 34, a rimarcare i legami, sebbene non
espliciti, tra questo scritto e i precedenti lavori filosofici dell’autrice. Ad esem-
pio lo spunto sull’«aperto» e il «fuori» declinato sia come dimensione ulteriore
rispetto al ripiegamento dello spazio pubblico su sé stesso, sia in merito al nodo
dell’immigrazione e degli «stranieri residenti» 35, può essere ricondotto alla ques-
tione del rapporto con l’alterità e all’ascendenza levinasiana dell’autrice. Allo
stesso tempo è ravvisabile, nell’intera atmosfera del libro, l’influsso di una certa
costellazione tra messianismo ebraico e pensiero utopico libertario, di matrice
anarchica, che passa per autori come Gustav Landauer, Martin Buber, lo stesso
Walter Benjamin, alle cui radici storiche Michael Löwy ha dedicato un’impor-
tante monografia 36. Per questi autori la forza della rivolta è innanzitutto etica e
spirituale, ma soprattutto —come Di Cesare ribadisce a più riprese— ancorata a
un orizzonte comunitario aperto, slegato da presupposti filtranti ed esclusivi. In
questo si potrebbe trovare un’analogia con le esperienze delle piazze occupate,
da Place de la République a Taksim e Puerta del Sol, in cui lo spazio indetermi-
nato e generico, qualunque, della città, subentra al riconoscimento soggettivo nel
luogo di lavoro o nel profilo di classe:
La comunità non può più essere presupposta, ma solo ambita, cercata fatico-
samente, inscenata fuori dai luoghi di lavoro, radiati ormai dalla topografia della
visibilità e rappresentata lontano dai palazzi della rappresentanza. Di qui il ruolo
dell’assemblea, dove dovrebbe trovare posto l’altro popolo, quello appunto non
rappresentato. Le nuove assemblee sono tentativi di comunità dove, però, l’aspi-
razione che le guida sembra inibirsi nell’appagamento dell’essere-insieme. 37
A Benjamin e alla temperie in questione si può riportare il concetto stesso di
«costellazione», usato in questo caso per qualificare il nesso tra le rivolte più di-
verse e distanti: queste ultime sono infatti caratterizzate da una congenita fram-
mentarietà, non si possono ridurre ad uno, ma al contempo non devono essere

33
Di Cesare, 2020: 21-22.
34
Tarì, 2021.
35
Di Cesare, 2017.
36
Lowy, 1992.
37
Di Cesare, 2020: 25.
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isolate l’una dall’altra, poiché questo significa considerarle ogni volta il prodotto
di una situazione anomala ed eccezionale, non come un rivelatore concreto della
realtà del potere nelle società contemporanee. Si tratta di un elemento non tras-
curabile, per l’analisi esposta, in quanto Di Cesare colloca le rivolte in seno al
processo storico di superamento dell’epoca della rivoluzione, le rapporta al lutto
e alla «melanconia» verso questo passato e i suoi riferimenti simbolici.
In esse compare, infatti, una temporalità diversa, legata all’arresto ed ai mar-
gini. La rivolta non è progressista, insomma, e non si inserisce in una «filosofia
della storia» dalle pretese universali, ma allo stesso tempo dispiega, a partire da
un mosaico di contesti singolari, una vocazione che sarebbe puramente umana.
Scostandosi dall’alternativa tra ideologia rivoluzionaria e riformismo istituzio-
nale, ma anche da quella tra particolare ed universale, le rivolte incarnerebbero
il fallimento di un progetto di chiusura e «territorializzazione» definitiva del-
la società. Qui starebbe anche la loro carica messianica, radicata in un «qui e
ora», senza progetto e senza generalizzazione, ma allo stesso tempo capace di
mostrare una superiore e più radicale generalità che perturba e destabilizza l’or-
dine politico, fa accedere al visibile ciò che ne rimane fuori. La spinta etica e il
grido di protesta che si infrangono contro il limite del legale, sono in tal senso
più e meno ampi del campo della politica e del diritto, poiché non riconoscono
una trascendenza rispetto ai propri moventi particolari, ma allo stesso tempo si
richiamano a esigenze più alte ed incondizionate. Come diceva Jesi, insomma,
i rivoltosi sono indifferenti al domani ma sensibili all’immediatezza dell’oggi e
all’«epifania del dopodomani». 38
Se Il tempo della rivolta contiene accenni a una certa letteratura politica sui
«riots» che è uscita negli ultimi vent’anni, dal «Comitato invisibile» al «Colectivo
Situaciones», indulge però in un’ambivalenza di fondo, sovrapponendo la fisio-
nomia della rivolta come pratica del conflitto politico a quella, più generica ma
comunque differente, della disobbedienza civile. In nome di una spiegazione
poco convincente, basata sul raffronto oppositivo e il distinguo rispetto a stagio-
ni passate del conflitto sociale, dunque, il gesto di Carola Rackete o di Mimmo
Lucano —per fare due esempi noti— viene equiparato a quello dei saccheggi,
degli scontri con le forze di polizia e degli incendi che sono divampati a Min-
neapolis nel 2020. L’opposizione rispetto al regime passato dello sciopero, delle
rivendicazioni e del movimento operaio, basta ad avvalorare questa identità? Mi
pare che, al di là dei giudizi di merito, si tratti di linguaggi, affetti e profili politici
che si muovono su piani differenti e che devono essere spiegati con concetti dis-
tinti, pena cadere in categorie troppo confuse ed ambigue.

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38
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