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12 | 2022
Annali XII
Edizione digitale
URL: https://journals.openedition.org/tp/2775
ISSN: 1972-5477
Editore
Marcial Pons
Edizione cartacea
Data di pubblicazione: 1 décembre 2022
Paginazione: 421-431
ISSN: 0394-1248
Michele Garau*
*
Università di Torino, michele.garau@unito.it.
1
Bertho, 2009.
2
Kokoreff, 2008.
3
Il contrinuto compare sulle pagine di una rivista italo-francese, che aveva dedicato un numero
monografico alle rivolte metropolitane, con particolare riferimento al caso delle banlieues: Pouvoir
destituant/Potere destituente. Les révoltes métropolitaines/Le rivolte metropolitane: cfr. Tronti, 2008.
4
Clover, 2016.
5
Si tratta della mobilitazione del 2016 contro il progetto di legge «El Kohmri» per la riforma del
mercato del lavoro, ribattezzato dai contestatori «Loi travail!». In seno a questa mobilitazione, che per
certi aspetti ha tutti gli elementi del classico «movimento sociale» alla francese —contenuti rivendi-
cativi, rapporto con il mondo del lavoro e massiccia presenza delle strutture sindacali— si sviluppano
stili di protesta inediti come quello del «cortège de tête», raggruppamento spontaneo e conflittuale che
si situa in apertura delle manifestazioni di piazza, per sottrarne il controllo alle organizzazioni ufficiali.
6
Lazarus, 2013.
7
Thompson, 1969.
8
Farge, Revel, 1988.
LA POLITICA DELLE RIVOLTE URBANE 423
9
Jeanpierre, 2019: 54.
10
A proposito dei gilets jaunes ritorna infatti la qualifica di fenomeno «protopolitico», tradizional-
mente usata per le rivolte e impiegato nello specifico rispetto agli avvenimenti del 2005: Mauger, 2006.
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politico che esistono nella società francese e nelle diverse classi sociali. Secondo la
maggioranza dei gilets jaunes la politica non trova consistenza nel discorso e non è
innanzitutto affare di opinione, di rivendicazioni, di programma. 11
11
Jeanpierre, 2019: 27.
12
Lianos, 2019.
13
Citton, 2019.
14
Colectivo Situaciones, 2003.
15
Hüet, 2019.
LA POLITICA DELLE RIVOLTE URBANE 425
in relazione a quella «sociologia della carne» di cui parla Loïc Wacquant 16, come
forma di conoscenza attraverso il corpo e la partecipazione diretta: lungo il libro,
infatti, l’analisi teorica è interpolata da pagine diaristiche di resoconto su cortei e
giornate di protesta. Spiega Hüet:
Una sociologia della carne riposa su questa idea semplice: l’ingresso sul cam-
po —la sua quasi-necessità— corrisponde a un inserimento nel mondo che apre
a un’intuizione pratica del fenomeno e aiuta a uscire dalle dimensioni talvolta
astratte delle discipline. Il campo fa nascere i pensieri. Non è sufficiente osservare
le sommosse, nel senso di registrarle, di consegnarle per iscritto su un diario del
campo o di prendere nota del reale. Occorre piuttosto vivere un’esperienza, pro-
vare, essere sensorialmente affetti, sentire fisicamente. 17
Anche la scelta della violenza come mezzo politico sarebbe quindi un conden-
sato di intensità, un accesso a sensazioni e tensioni che non si possono compren-
dere dall’esterno. Nel momento del «riot» si cercherebbe, in particolare, una
tonalità affettiva e un senso di comunione che la vita quotidiana delle società
industriali sviluppate rende abitualmente impossibile. Le finalità politiche di-
chiarate passerebbero in subordine: prova ne sia che, salvo eccezioni rare come
quella dei «gilets jaunes», gli scopi prefissati non risultano realisticamente perse-
guibili e sono sproporzionati rispetto alle forze messe in campo.
A questo proposito Hüet evoca riferimenti teorici contemporanei molto va-
riegati, dal concetto di «assurdo» in Albert Camus 18 alle analisi di Erich Fromm 19
sulla passione umana per la distruttività, passando per le tesi di Georges Di-
di-Huberman 20 sull’espulsione della sensibilità dal campo della conoscenza. L’is-
pirazione chiave della sua ricerca è però il lascito del «Collège de Sociologie»,
in particolare di Georges Bataille e Roger Caillois. Questi ultimi guardano ai
fenomeni della guerra e della festa come dispendio funzionale di una carica en-
ergetica eccedente, di un surplus di potenziamento del vissuto soggettivo che
finisce per saturarsi e si trova bloccato, non conosce sfogo in nessuno degli ambi-
ti del vivere sociale organizzato. La guerra come «esperienza totale» nel caso di
Bataille 21 (un altro autore citato, non a caso, è Ernst Jünger) e la festa come in-
frazione consentita dei freni convenzionali, per quanto riguarda Caillois 22, sono
analizzate in base al presupposto di fondo secondo cui soltanto una piccola parte
della potenza vitale degli individui è catturata nelle attività quotidiane di sopra-
vvivenza e riproduzione. Il resto di questo fondo istintivo rimarrebbe inespresso
e, in assenza di canali adeguatamente predisposti, pronto a far saltare il tappo.
Questo tipo di quadro «ontologico» sulla natura della violenza sociale è preso
dall’autore come una suggestione e, mi pare, non interrogato adeguatamente nei
suoi titoli di verità. Nel libro è tuttavia ammesso che trasporre un modello des-
crittivo modellato soprattutto sulla guerra al fenomeno delle rivolte urbane sia
16
Wacquant, 2015: 245.
17
Hüet, 2019: 55.
18
Camus, 2013.
19
Fromm, 1975.
20
Didi-Huberman, 2011.
21
Bataille, 2014.
22
Caillois, 2019.
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23
Cfr. l’opera postuma di Furio Jesi, 2000.
24
Bertho, 2020.
25
Il libro attinge al lavoro quotidiano di raccolta dati che l’autore svolge attraverso il blog «An-
thropologie su présent», in rete: https://berthoalain.com/, [consultato il 30/11/2022].
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segue la reazione della gioventù libanese, che protesta contro nuove tasse sulle
comunicazioni telematiche, ma si verificano sommosse anche a Baghdad, contro
penuria e corruzione della classe politica; in Ecuador è il rincaro del carburante
ad incendiare le strade, mentre in Cile quello dei biglietti della metro; ci sono poi
disordini in Honduras, Indonesia e Guatemala, la Catalogna in ottobre, contro la
condanna dei dirigenti indipendentisti, e l’Iran. L’elenco è lungo ma non ancora
esauriente.
L’approccio di Bertho segue alcuni assi teorici di fondo, su cui si staglia la
sistematizzazione delle informazioni. Una tra queste chiavi di lettura è l’emergere
della sensibilità ecologica e delle problematiche ambientali come motivo che si
intreccia alla genesi delle rivolte, parallelamente al diffondersi di teorie del crollo
e visioni «collassologiche» nel dibattito pubblico 26. Le sommosse che dipendo-
no da fattori di tipo ambientale sono di diversa natura. In primo luogo ci sono
mobilitazioni che si focalizzano esplicitamente sui temi ecologici, ad esempio
difendendo l’integrità di un territorio contro la costruzione di infrastrutture ad
alto impatto distruttivo: la ribellione, nel 2016, di molte città cinesi contro i tassi
di inquinamento, la resistenza delle popolazioni indiane contro l’installazione di
nuove centrali nucleari, la lotta contro il TAV in Valsusa o perfino il movimento
di piazza Taksim, a Istanbul, inizialmente scatenato dalla difesa di un parco pu-
bblico. Ci sono poi conflitti contro gli impianti di estrazione del gas di scisto, in
Québec e Algeria, contro inceneritori o strutture per il trattamento dei rifiuti. È
poi esemplare il caso della «Zad» (Zone à défendre) di Notre-Dame-des-Landes,
per bloccare il progetto di un enorme aeroporto internazionale al posto di am-
pie distese di boscaglia e terre coltivate. La convinzione centrale dell’autore su
questo insieme di battaglie è che la contrapposizione consolidata tra lotte sociali
ed ecologiche, in cui queste ultime sono derubricate a preoccupazione civica
di strati sociali privilegiati, interessati alla «fine del mondo» perché dispensati
dall’urgenza della fine del mese, è semplicemente fuorviante. In molti dei contes-
ti evocati sono proprio le popolazioni povere e sfruttate, infatti, ad osteggiare i
contraccolpi della devastazione ambientale.
Tale osservazione si dimostra ancor più fondata se si allarga lo sguardo a
proteste e rivolte di natura sociale che derivano dai risvolti della crisi climatica.
I disordini per il rincaro dei prezzi, la penuria e la speculazione cerealicola, in
Senegal, Indonesia, Egitto, Tailandia o Burkina Faso —per citarne solo alcuni—
dipendono dall’aggravarsi delle siccità ricorrenti. Lo stesso vale per le «rivolte
dell’acqua» in Algeria, Colombia e Iran. Bertho usa, in proposito, l’espressione
di «violenze climatiche». Un ulteriore aspetto ravvisabile è legato alla percezione
del tempo, poiché i conflitti che si scatenano in un «tempo della fine» ormai im-
mune da illusioni progressiste e poco incline alla fiducia nel futuro, mostrano un
atipico carattere «presentista». Questo termine introdotto da François Hartog 27,
26
Le teorie del collasso e dell’«effondrement», connesse all’emergenza climatica, sono anche le-
gate al successo dei libri di Pablo Servigne e Raphaël Stevens, soprattutto in Francia. Si vedano ad
esempio: Servigne, Stevens, 2015; Servigne, Stevens, Chapelle, 2018. Bertho contesta la pregnanza del
discorso «survivalista» ma ne riconosce la valenza di sintomo epocale.
27
Hartog, 2007.
428 MICHELE GARAU
A ciò si ricollega il fatto che Bertho pensi il tempo delle sollevazioni come
epoca che segue, lo si è accennato in precedenza, le forme classiche della tradi-
zione rivoluzionaria e del movimento operaio. Nel percorrere tale pista non si
limita a evocare le tesi di Lazarus, ma anche le riflessioni sul concetto di «desti-
tuzione» avanzate, ad esempio, dal «Comitato Invisibile» e da Marcello Tarì 30.
Tuttavia il modo in cui è pensato il superamento della politica rappresentativa,
nelle rispettive visioni, appare divergente se non incompatibile: per il «Comitato
Invisibile» si tratta interrompere l’«apocalisse permanente» della forma di vita
capitalistica tagliando in due l’idea di rivoluzione, epurandola di quanto ha ere-
ditato dalla modernità e dal modello del potere sovrano; in Bertho invece non
esiste alcun tipo di tendenza «insurrezionale» o rivoluzionaria, ma l’idea che le
rivolte siano l’avvisaglia di una politica che viene, essenzialmente umanista ed
estranea ad ipotesi di rottura violenta. I lineamenti generali della sua proposta
rimangono però indefiniti e quindi alquanto confusi.
A chiudere la rassegna c’è una pubblicazione italiana: Il tempo della rivolta,
di Donatella Di Cesare 31. Si tratta dell’abbozzo di una teoria filosofica che vuole
spiegare la rivolta come figura dell’agire etico, custodendo il suo potenziale senza
per questo fornirne un’interpretazione definitiva o globale. Il lavoro della filosofa
parte dagli avvenimenti accesi dall’uccisione di George Floyd a Minneapolis, poi
propagatisi come una fiammata per tutti gli USA. A questo proposito scrive di
un «diritto al respiro» come cuore delle sollevazioni, che consisterebbe nell’in-
crinare un’architettura «poliziesca» in cui le frange della popolazione margina-
lizzate o sottoposte a uno stigma razziale sono relegate in un relativo «fuori».
Quando si allude ad un principio «poliziesco», in questo caso, non ci si riferisce
naturalmente alle semplici manifestazioni di brutalità delle forze dell’ordine che,
a molte latitudini, portano a pestaggi ed omicidi, ma all’accezione del concetto di
«polizia» proposta da Jacques Rancière 32: un’organizzazione chiusa dello spazio
28
Baschet, 2018.
29
Bertho, 2009: 148.
30
Comitato Invisibile, 2019; Tarì, 2017.
31
Di Cesare, 2020.
32
Rancière, 2007.
LA POLITICA DELLE RIVOLTE URBANE 429
33
Di Cesare, 2020: 21-22.
34
Tarì, 2021.
35
Di Cesare, 2017.
36
Lowy, 1992.
37
Di Cesare, 2020: 25.
430 MICHELE GARAU
isolate l’una dall’altra, poiché questo significa considerarle ogni volta il prodotto
di una situazione anomala ed eccezionale, non come un rivelatore concreto della
realtà del potere nelle società contemporanee. Si tratta di un elemento non tras-
curabile, per l’analisi esposta, in quanto Di Cesare colloca le rivolte in seno al
processo storico di superamento dell’epoca della rivoluzione, le rapporta al lutto
e alla «melanconia» verso questo passato e i suoi riferimenti simbolici.
In esse compare, infatti, una temporalità diversa, legata all’arresto ed ai mar-
gini. La rivolta non è progressista, insomma, e non si inserisce in una «filosofia
della storia» dalle pretese universali, ma allo stesso tempo dispiega, a partire da
un mosaico di contesti singolari, una vocazione che sarebbe puramente umana.
Scostandosi dall’alternativa tra ideologia rivoluzionaria e riformismo istituzio-
nale, ma anche da quella tra particolare ed universale, le rivolte incarnerebbero
il fallimento di un progetto di chiusura e «territorializzazione» definitiva del-
la società. Qui starebbe anche la loro carica messianica, radicata in un «qui e
ora», senza progetto e senza generalizzazione, ma allo stesso tempo capace di
mostrare una superiore e più radicale generalità che perturba e destabilizza l’or-
dine politico, fa accedere al visibile ciò che ne rimane fuori. La spinta etica e il
grido di protesta che si infrangono contro il limite del legale, sono in tal senso
più e meno ampi del campo della politica e del diritto, poiché non riconoscono
una trascendenza rispetto ai propri moventi particolari, ma allo stesso tempo si
richiamano a esigenze più alte ed incondizionate. Come diceva Jesi, insomma,
i rivoltosi sono indifferenti al domani ma sensibili all’immediatezza dell’oggi e
all’«epifania del dopodomani». 38
Se Il tempo della rivolta contiene accenni a una certa letteratura politica sui
«riots» che è uscita negli ultimi vent’anni, dal «Comitato invisibile» al «Colectivo
Situaciones», indulge però in un’ambivalenza di fondo, sovrapponendo la fisio-
nomia della rivolta come pratica del conflitto politico a quella, più generica ma
comunque differente, della disobbedienza civile. In nome di una spiegazione
poco convincente, basata sul raffronto oppositivo e il distinguo rispetto a stagio-
ni passate del conflitto sociale, dunque, il gesto di Carola Rackete o di Mimmo
Lucano —per fare due esempi noti— viene equiparato a quello dei saccheggi,
degli scontri con le forze di polizia e degli incendi che sono divampati a Min-
neapolis nel 2020. L’opposizione rispetto al regime passato dello sciopero, delle
rivendicazioni e del movimento operaio, basta ad avvalorare questa identità? Mi
pare che, al di là dei giudizi di merito, si tratti di linguaggi, affetti e profili politici
che si muovono su piani differenti e che devono essere spiegati con concetti dis-
tinti, pena cadere in categorie troppo confuse ed ambigue.
Bibliografia
Baschet, J. (2018). Défaire la tyrannie du présent. Temporalités émergentes et futurs inédits,
Paris, La Découverte.
Bataille, G. (2014). La Part maudite (1949), Paris, Minuit.
Bertho, A. (2009). Le temps des émeutes, Paris, Bayard.
38
Jesi, 2000: 84.
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