Sei sulla pagina 1di 73

Esercitazione lezione n. 2.

1) Quali furono i fattori che determinarono la crescita industriale che avvenne a partire da metà
Ottocento
La crescita più intensa nell’industria si registrò tra il 1850-1870 (1 Rivoluzione Industriale), quando tutta
l’economia europea conobbe una fase di forte espansione e di cambiamento, caratterizzata dalla crescita
dei salari, dei prezzi e dei profitti. Interessò soprattutto la Francia del II Impero e la Germania sulla strada
dell’unificazione (“nuove potenze industriali”). In questi anni si diffusero nell’Europa continentale le
innovazioni che mezzo secolo prima avevano reso possibile la Rivoluzione Industriale in Inghilterra:
 Macchina a vapore al posto della ruota idraulica, i filatoi e i telai meccanici sostituirono quelli
manuali, il combustibile minerale, carbone-coke si sostitui al carbone di legna, aumentando la
potenza in cavalli vapore delle macchine fisse per l ‘industria.
 Dopo il 1849 furono aboliti gli ordinamenti corporativi che regolavano l’esercizio dei mestieri e
riducevano la mobilità del lavoro
 Furono cancellate leggi che riducevano il prestito a interesse, ridotte le penne per chi contraeva
debiti o realizzava fallimenti
 Fu perfezionata la disciplina dei brevetti e si diffuse l’uso della carta moneta e degli assegni.
 Tutte le potenze europee, Russia inclusa, conclusero una serie di trattati commerciali che
prevedevano una forte riduzione delle tasse doganali, avviando il libero scambio.
 Dopo il 1850, con la scoperta di giacimenti minerari in Francia e Germania, c’era più disponibilità di
materie prime e fonti energetiche (minerali ferrosi e carbone).
 Lo sviluppo dei mezzi di trasporto (ferrovie e navi a vapore) consentì un trasporto rapido delle
merci e una libera dislocazione dei centri di produzione
 Sviluppo dei mezzi di comunicazione con la diffusione del telegrafo elettrico, velocizzando scambio
di comunicazioni diplomatiche, di ordini militari; rivoluzionando anche il settore del giornalismo
 La scoperta di giacimenti d’oro in California provocò un aumento della circolazione monetaria,
abbassamento dei tassi d’interesse. Nacquero le “banche d’affari” / ”banche d’investimento”
2) Quali furono le cause che determinarono l’avvio della II Rivoluzione industriale? Quando ebbe
luogo? In quali nazioni?
Fra il 1870 e la I Guerra Mondiale l’industrializzazione subì una profonda trasformazione, tanto che molti
storici la definiscono come la II Rivoluzione Industriale (età dell’acciaio con la Torre Eiffel come simbolo). In
questo periodo si stabilì un’alleanza strettissima tra scienza, tecnica e industria. Le scoperte scientifiche di
questi anni (la dinamo, il motore a scoppio, la lampadina, procedimenti per il trasporto dell’energia
elettrica, ricerche di chimica sintetica, fabbricazione di acciai speciali) aprirono possibilità illimitate alla
produzione industriale. Cambiarono anche le gerarchie delle potenze industriali: La Gran Bretagna venne
superata dalla Germania e dagli Stati Uniti. Lo stretto legame di interdipendenza tra banche e imprese,
quindi tra industria e finanza, divenne il fulcro vitale del sistema economico di questo periodo (le banche
detenevano quote cospicue di azioni delle industrie e gli industriali erano spesso presenti nei consigli di
amministrazione delle banche). Le classi dirigenti e governative si allontanarono dai principi del libero
scambio per “proteggere” la produzione interna, quindi per far crescere le proprie industrie nazionali
(soprattutto attraverso l’introduzione di più alte tariffe doganali).
3) Cosa si intende per capitalismo finanziario?
Lo stretto legame di interdipendenza tra banche e imprese, quindi tra industria e finanza, divenne il fulcro
vitale del sistema economico di questo periodo (le banche detenevano quote cospicue di azioni delle
industrie e gli industriali erano spesso presenti nei consigli di amministrazione delle banche). Gli economisti
marxisti definirono questo intreccio come capitalismo finanziario.
Esercitazione lezione n. 3
1)In cosa consistette il fenomeno dell’urbanesimo?
Nell’Europa dell’Ottocento, di pari passi al processo dell’industrializzazione si avviò quello dell’urbanesimo,
spopolando le campagne e sovraffollando le città. Tra il 1850 E 1880 il numero delle “grandi città” (un
centro con almeno 100.00 abitanti) era doppio. Le persone si spostavano più facilmente grazie alla
rivoluzione dei trasporti ed erano mossi dalle molteplici occasioni di lavoro nelle città. Il risultato fu
l’espansione delle malattie infettive (il colera), quindi alti livelli di mortalità.
2)Che cosa si intende con l’espressione “città moderna”? Descrivere quale fu la nuova fisionomia
acquisita dalle città in Europa nel corso del 1800 mano a mano che il processo di
industrializzazione avanzava.
A causa dei vari disaggi negli anni 50 e 60 dell’Ottocento si registrò in quasi tutte le grandi città europee la
messa in atto dei primi interventi di politica pubblica. Le prime iniziative erano rivolte a risolvere il
problema dell’igiene, si intervenne per facilitare le comunicazioni e gli spostamenti nelle aree urbane,
quindi furono ricostruite reti fognarie e per l’approvvigionamento idrico, strade in gran parte lastricate e
quartieri della periferia illuminati e furono organizzate le prime reti di trasporto pubblico. Comunque con la
“città moderna” i ceti popolari furono allontanati dai centri storici (costruiti intorno alle stazioni ferroviarie,
la borsa, i centri commerciali, il tribunale, la cattedrale, il municipio, la piazza del mercato) che erano abitati
dalla classe borghese. Nella città moderna la distinzione sociale si traduceva in separazione fisica, di luogo
(periferie operaie sovraffollate, malsane, mancanti di servizi e quartieri residenziali dei borghesi, in zone
verdi e dotate dei primi servizi: acqua corrente e riscaldamento centralizzato).
3)Cosa si intende con l’espressione “coscienza di classe”?
La precarietà, che caratterizzava la vita dei lavoratori, risultava in forte contrasto con la prosperità e il
benessere dei ceti borghesi. Questa condizione fa sì che i lavoratori si trovassero a parlare, discutere e
condividere preoccupazioni comuni (orari lunghi e duri di lavoro, disagiate condizioni di vita ecc) all’interno
e all’esterno dei luoghi di lavoro, maturando cosi “una coscienza di classe” (= consapevolezza di vivere una
condizione di vita e di lavoro comune insieme ad una volontà di riscatto, di unirsi per cambiare la propria
misera condizione di sfruttamento, di subordinazione). Nacquero movimenti operai e organizzazioni
sindacali in tutta l’Europa.
Esercitazione lezione n. 4
1) Cosa si intende per concezione materialistica della storia?
Il materialismo storico, che fu caratteristico di Marx, secondo il quale i rapporti di produzione sono la base
della struttura sociale, delle forme politiche e degli orientamenti culturali: “non è la coscienza che
determina la vita – affermava Marx – ma la vita che determina la coscienza”, e la vita reale era quella
dell’uomo nella società civile, cioè nel quadro “delle relazioni materiali fra gli individui all’interno di un
determinato grado di sviluppo delle forze produttive”. La storia, dunque, - secondo Marx- non è che la
storia dei rapporti di produzione, e le idee dominanti sono sempre le idee della classe dominante, cioè della
classe che ha a propria disposizione i mezzi della produzione materiale. Nel 1847, “La Lega dei comunisti”
conferìa Marx ed Engels il compito di scrivere il “Manifesto”, nel quale Marx giunse ad elaborare la sua
dottrina (il materialismo storico). Il motivo base del materialismo storico consisteva, come abbiamo visto,
nel fatto che la storia era governata da fattori materiali e che questi fattori erano di carattere economico
cosicché la storia era basata sull’economia e il resto (relazioni politiche, giuridiche, arte, religione ecc.)
costituiva la “sovrastruttura”.
2) Cosa è la Lega dei Giusti?
Lega dei Giusti è la prima organizzazione internazionale comunista (che aveva sezioni in Germania, Francia,
Svizzera, Ungheria, Scandinavia). Marx ci aderì nel 1846, che poi nel 1847 divenne La Lega dei comunisti
3) Quali furono i riferimenti ideali di Marx?
Marx giunse ad elaborare la sua dottrina (il materialismo storico) attraverso lo studio e la critica delle
elaborazioni teoriche più avanzate della cultura del suo tempo: il pensiero di Hegel (Marx da Hegel riprese
la concezione per cui la storia era guidata da un principio razionale e che il procedere della storia nei suoi
mutamenti continui avveniva secondo conflitti dialettici), gli economisti classici inglesi (da Smith e Ricardo
Marx riprese l’analisi e la descrizione dei meccanismi di funzionamento dell’allora nascente capitalismo
moderno), e il socialismo francese (approvò gli elementi di critica espressi verso l’ordinamento sociale
esistente ma evidenziò che nessuno di loro era riuscito a individuare nello sviluppo capitalistico stesso il
motivo, la radice del suo superamento.).
4) Quali erano le contraddizioni del capitalismo secondo Marx?
Marx individuava la principale contraddizione del sistema capitalistico-borghese nel fatto di aver creato, da
un lato, nuovi e potenti mezzi di produzione e di aver fatto emergere una nuova classe di produttori (il
proletariato industriale) dall’altro, di ostacolare la piena utilizzazione di questi mezzi, il loro sviluppo
ulteriore ed il loro utilizzo a favore di tutta la società. Il meccanismo del profitto capitalistico che arricchiva
una parte a scapito dell’altra, si rivelava contrario agli interessi della maggioranza dei produttori. In base a
questa logica di funzionamento del sistema capitalistico che la borghesia aveva creato, essa stessa aveva
fatto emergere le forze sociali che le si sarebbero rivolte contro, determinando la fine della sua posizione di
predominio. La borghesia perseverando nel suo compito di diffondere l’industria, mantenendo il suo ritmo
incessante nel rivoluzionare gli strumenti della produzione, dava vita ad un mercato internazionale sempre
più vasto, creando così essa stessa i presupposti per il socialismo stesso; con le catastrofi create dalla
concorrenza, dal succedersi delle crisi economiche e sociali, con i conflitti tra gli stati, con il crescente
sfruttamento del proletariato denunciava il carattere sempre più antisociale del proprio dominio sulla
società e faceva emergere non solo l’aspirazione ad una nuova società, ma anche una crescente
opposizione di classe degli operai, una loro coscienza internazionalistica e la loro solidarietà in tutti i paesi
del mondo.
Esercitazione lezione n. 5
1)A chi si riferiva Marx con l’espressione “classe proletaria”? Quale funzione aveva la classe
proletaria nel suo pensiero?
Con l’espressione “classe proletaria” identificava la classe che era sorta dall’affermarsi del sistema di
produzione industriale e che dunque era interessata all’ulteriore sviluppo delle forme moderne di
produzione e non ad un regresso, ad un ritorno indietro. L’interesse e la causa dei proletari erano gli stessi
in tutto il mondo, risultanti dalla medesima condizione lavorativa e quindi potevano essere condivisi e
perseguiti su scala mondiale; questo dato oggettivo rappresentava, secondo Marx, anche la condizione
indispensabile del successo della lotta rivoluzionaria che il proletariato avrebbe dovuto intraprendere, di
qui l’invito e l’esortazione che concludeva Il Manifesto “proletari di tutti i paesi unitevi!”. Marx aveva così
tracciato per il proletariato europeo un programma rivoluzionario da concretizzarsi nel breve periodo,
teorizzando le prime linee di una nuova concezione di socialismo. Nel Manifesto Marx proponeva e
impostava infatti anche un programma politico per il proletariato, soggetto protagonista della rivoluzione,
che decretando l’abolizione della proprietà privata, cioè borghese, avrebbe portato ad un nuovo e diverso
assetto delle forme della produzione e ad un nuovo, diverso e corrispondente ordinamento sociale.
2)Quali erano i contenuti della Critica al Programma di Gotha sviluppata da Marx?
Nella Critica al programma di Gotha (1875) Marx tornò ad indicare più chiaramente come intendeva il
processo di costruzione della società comunista: il proletariato doveva fare la rivoluzione e abbattere
violentemente l’ordinamento sociale borghese esistente “tra la società capitalista e la società comunista vi
è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad essa corrisponde anche un periodo
politico di transizione, il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato” o
dittatura del proletariato, cioè una fase di transizione in cui il potere politico era nelle mani dei lavoratori
impegnati nella costruzione della società senza classi e senza Stato (comunismo). Detenendo il potere
avrebbe avuto la possibilità di agire liberamente nella riorganizzazione dei rapporti di proprietà e di
produzione della società capitalistica e avrebbe potuto mettere in atto interventi dispotici nel caso la
situazione lo avesse richiesto (espropriazione della proprietà fondiaria, sequestro di aree produttive ecc) .
Questa fase transitoria di poteri straordinari del proletariato sarebbe terminata quando si sarebbero create
le condizioni necessarie per la gestione comunista della società. Con la dittatura del proletariato si sarebbe
esaurita anche la funzione principale dello Stato concepito nella prospettiva marxista, cioè quella del
dominio di una classe sull’altra. Infatti il proletariato, riuscendo ad impadronirsi del controllo dello Stato,
per la prima volta nella storia avrebbe realizzato un’oppressione della maggioranza popolare sulla
minoranza (borghesia) continuando a servirsi dello Stato come strumento di oppressione di classe. Una
volta dissolte le condizioni che determinavano la divisione in classi della società (cioè il modo di produzione
capitalista) la dittatura del proletariato come dittatura di classe avrebbe cessato la sua ragione di essere,
come lo Stato (in quanto strumento di dominio di classe). Questo processo avrebbe portato alla fase del
“superamento dello Stato” ed alla sua estinzione, condizione essenziale per il comunismo.
3) Perché alla concezione di socialismo elaborata da Marx si attribuisce la qualifica di “scientifico”?
Cosa si intende con l’espressione “socialismo scientifico”?
Dopo il fallimento dei moti rivoluzionari del ‘48 Marx, in esilio a Londra, riformula le sue teorizzazioni,
riconsidera il problema della rivoluzione in senso più problematico e complesso. A Londra Marx, grazie
anche al sostegno finanziario di Engels, si dedicò agli studi di economia politica e proprio l’analisi
economica caratterizzò la sua concezione di socialismo cosiddetto “scientifico” perché risultante da uno
studio scientifico, da un’analisi economica condotta sul sistema di produzione e distribuzione capitalistico.
La pubblicazione del “Capitale” segnò una svolta fondamentale nella storia del movimento operaio e in
generale nella cultura occidentale. Per la prima volta si prospettava l’avvento del socialismo non come un
sogno utopico di un mondo migliore, il cui concretizzarsi si collegava al buon esito di un’azione
insurrezionale ma come il risultato di leggi scientifiche attraverso le quali si svolgeva lo sviluppo economico
e come il frutto dell’azione cosciente della classe proletaria organizzata. Il socialismo per la prima volta
acquisiva le sembianze di “necessità storica” diveniva una previsione ricavata da un’analisi scientifica.
Marx appariva come colui che aveva indicato nella classe proletaria la protagonista sociale del processo
rivoluzionario in atto, ma anche come lo studioso di economia che, attraverso un’analisi scientifica delle
leggi e dei meccanismi propri dell’economia capitalistica, era riuscito a rivelarne le contraddizioni, si
presentava cioè come lo studioso che nel settore delle scienze sociali aveva portato una nuova verità. Di
tutta l’articolata e complessa analisi svolta da Marx proprio questo aspetto di scientificità riuscì a permeare
più profondamente la cultura del movimento operaio. Proprio questo carattere scientifico consentì al
marxismo di affermarsi, accordandosi progressivamente e fondendosi con le altre teorie socialiste che
avevano ispirato il movimento operaio, sino ad imporsi come la dottrina ufficiale del movimento operaio.
Esercitazione lezione n. 6
1) Cosa erano le società operaie di mutuo soccorso? Da chi erano formate?
Fino ai primi anni ‘70 dell’Ottocento il solo tipo di organizzazione operaia con una certa diffusione in Italia
era quella rappresentata dalle società operaie di mutuo soccorso in parte controllate dai mazziniani (che
rifiutavano la lotta di classe, auspicando una solidale collaborazione fra i “ceti produttori” – industriali e
lavoratori- che Mazzini contrapponeva ai “ceti oziosi” – aristocratici, monarchici, burocrati e esponenti del
clero) in parte gestite da esponenti moderati. Esse erano state concepite come strumenti di educazione
politica del popolo, con scopi anche di mutuo aiuto e solidarietà fra i lavoratori, che rigettavano però la
lotta di classe ed escludevano quindi il ricorso allo sciopero, ritenuto strumento dannoso.
2) Quando venne costituita la I Associazione Internazionale dei Lavoratori? Da chi era composta?
A quali esigenze rispondeva?
La I Associazione Internazionale dei Lavoratori (o I Internazionale) avvenne nel 1864 a Londra, diretta da un
Comitato composto da inglesi, francesi, tedeschi (fra i quali Marx), polacchi e svizzeri. La I Internazionale
riunì quindi diverse componenti tra loro (riformista, mazziniana, marxista, anarchico-libertaria legata alle
figure di Proudhon e di Bakunin), rispondendo anzitutto all’esigenza di stabilire una forma di raccordo
internazionale tra il movimento operaio che andava formandosi nei vari paesi, assumendo diverse forme
organizzative e indirizzi ideali. Le delegazioni più numerose presenti a Londra erano quella inglese,
costituita dai dirigenti delle Trade Unions, di tendenza riformista, e quella francese dove predominavano i
proudhoniani, che si riconoscevano in un indirizzo anarchico-mutualistico, ma all’interno della quale erano
presenti anche i blanquisti (che si richiamavano a Louis Blanqui fautore di una linea di comunismo
insurrezionista). Le società operaie italiane erano rappresentate da un delegato di Mazzini, sostenitore
dunque di un indirizzo di radicalismo democratico non socialista. Alla riunione erano presenti poi seguaci
del russo Bakunin, anarchico e rivoluzionario, e sostenitori del “socialismo scientifico” di Marx ed Engels.
L’Indirizzo Inaugurale della I Internazionale (elaborato da Marx) affermava così, già la necessità
dell’autonomia del movimento operaio internazionale dalla democrazia borghese e metteva in primo piano
la lotta contro lo sfruttamento di classe. Nella seconda metà dell’Ottocento lo sviluppo
dell’industrializzazione aveva determinato sul piano europeo un rafforzamento della classe operaia,
quantitativo, cioè sul piano numerico, e qualitativo, cioè relativo alla forza e compattezza della classe
lavoratrice.
In quasi tutti i paesi europei più importanti la classe operaia avvertiva l’esigenza di poter esprimere la
propria voce in merito ai principali avvenimenti politici e sociali, di poter far valere una posizione autonoma
e distinta anche da quella delle borghesie democratiche.
3) Quale era il programma dell’Associazione Generale degli Operai Tedeschi? Da chi venne
fondata e quando?
In Germania nel 1863 era stata fondata da Ferdinand Lassalle l’Associazione Generale degli Operai Tedeschi,
sulla base di un programma che, diversamente da quanto indicato da Marx (il quale proponeva che il
proletariato in una prima fase della sua lotta rivoluzionaria potesse collaborare con la borghesia a fini
antireazionari) rivendicava l’autonomia dei lavoratori dalle formazioni politiche borghesi, considerate
espressione di una classe, la borghesia, che si riteneva costituire un unico e indistinto blocco reazionario.
Lassalle concepiva lo Stato (ancora in contrasto con Marx) come l’istituzione che rappresentava gli interessi
generali sovrapponendosi alla società civile e in opposizione alla borghesia liberale propugnava il suffragio
universale.
4) Quali furono le motivazioni che spinsero Andrea Costa ad adottare una nuova strategia
espressa poi nella lettera “Ai miei amici di Romagna” del 1879?
Nel 1879 indirizzò una lettera “Ai miei amici di Romagna” , cioè ai suoi compagni internazionalisti anarchici,
con la quale annunciava di sposare una nuova via e una nuova strategia per continuare a perseguire il mito
della nuova società. Nella lettera, ribadì immutata la fede negli obiettivi del comunismo anarchico e quindi
nell’irrinunciabile rivoluzione, ma indicava la necessità di individuare nuovi strumenti e diverse modalità
d’azione per realizzarla. Il ripensamento di Costa traeva origine, non solo dalla considerazione del
susseguirsi fallimentare dei tentativi insurrezionali registratisi in Italia, ma anche dalla presa d’atto dei
crescenti successi conseguiti da vari soggetti e realtà del socialismo evoluzionista europeo sul piano politico
elettorale. Una certa attenzione era indirizzata ad esempio alla socialdemocrazia tedesca, che anche negli
anni seguenti sarà un riferimento per il nascente Partito Socialista Italiano.
5) Quando nacque il Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna? Da chi era composto? Qual era
il suo programma?
Nel 1881 durante un congresso clandestino svoltosi a Rimini, a cui parteciparono circa 40 delegati
romagnoli, dette vita al Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna.
Nel programma si confermava l’ipotesi finale della rivoluzione, ma al tempo stesso si proponeva una
strategia evoluzionista orientando di fatto l’attività del partito sulla propaganda popolare, sulla
promozione dell’organizzazione sindacale e cooperativa dei lavoratori sulla partecipazione alla lotta
amministrativa e politica. La composizione sociale del partito era di ceti artigiani, piccola borghesia
e lavoratori manuali. La vicenda del Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna rappresentò una
svolta perché per la prima volta si ammetteva la partecipazione a competizioni politico elettorali.
Andrea Costa divenne il primo deputato socialista nella storia del Parlamento Italiano.
Il Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna rimase sostanzialmente una formazione a carattere
regionale, sprovvista di legami con i gruppi operai più consapevoli e maturi che andavano
costituendosi per lo più in Lombardia.
Esercitazione lezione n. 7
1)Quali caratteri ebbe la I Internazionale dei lavoratori?
La I Internazionale dei Lavoratori (Londra,1864) ebbe una vita molto tormentata soprattutto per la
diversità delle sue varie componenti. L’Associazione dispiegò un’attività che consistette soprattutto nel
dare vita a forme diverse di sostegno alle battaglie dei lavoratori (solidarietà politica, organizzazione di
collette a sostegno degli scioperi, appoggio nella creazione di nuove organizzazioni) tanto da venire
presto percepita dai governi e dalle classi dirigenti di tutta Europa come una minaccia pericolosa. Il
contrasto fra le sue diverse componenti oppose dapprima (tra il 1866 e il 1869) proudhoniani e marxisti;
Marx riuscì infine ad affermare le sue tesi, secondo le quali i lavoratori per difendere i loro diritti
dovevano fare ricorso alla lotta di classe e servirsi dello strumento dello sciopero, far valere la propria
forza per conquistare miglioramenti della propria condizione di vita e di lavoro, intervenire sulla scena
politica, perseguire il fine della conquista del potere politico quale premessa per concretizzare la
socializzazione dei mezzi di produzione. Una volta superato il proudhonismo, la corrente marxista si
scontrò con la corrente di Bakunin; il contrasto tra le due correnti si consumò fra il Congresso di Basilea
dell’Associazione, nel 1869, e il Congresso dell’Aja, nel 1872, con una durezza tale da portare alla fine di
fatto della I Internazionale che fu sciolta formalmente però solo nel 1876. La durata effettiva
dell’Associazione fu quindi di 12 anni; nonostante potesse vantare una larga adesione in tutta Europa la
sua azione pratica non riuscì ad avere grande incisività.
2)Quali caratteri ebbe la II Internazionale dei lavoratori?
Oltre le differenti forme organizzative, gli orientamenti ideologici e i differenti contesti nazionali in cui si
trovarono ad operare, tutti i partiti operai europei si muovevano su una piattaforma comune: 1) il loro
obiettivo era il superamento del sistema capitalistico e il governo sociale dell’economia; 2) avevano un
orientamento internazionalista e pacifista; 3) tutti erano favorevoli alla partecipazione alla lotta politica nei
rispettivi paesi e operavano per dotarsi di una base di massa fra i lavoratori; 4) il loro comune riferimento
era un’organizzazione socialista internazionale erede di quella che aveva cessato di vivere negli anni ‘70
dell’Ottocento. L’occasione per la creazione della II Internazionale fu data dal contemporaneo svolgimento
a Parigi di due Congressi organizzati per celebrare il centenario della presa della Bastiglia il 14 luglio 1889
(uno indetto dalle Trade Unions inglesi e l’altro dai socialisti marxisti francesi, all’interno di quest’ultimo si
proclamò 1 maggio come “festa dei lavoratoti” grazie alla conquista negli stati uniti delle 8 ore lavorative,
diventato obiettivo di tutte le organizzazioni socialiste). A differenza della I Internazionale, che aveva
ambito ad essere una sorta di centrale dirigente della classe lavoratrice di tutto il mondo, la II
Internazionale appariva assai di più come una federazione di partiti nazionali autonomi e sovrani. fra i quali
il Partito socialdemocratico tedesco, che per la sua forza assunse una posizione di grande rilievo. Nel 1900
la II Internazionale si dotò di propri organi: si costituì allora una Segreteria Internazionale e un Comitato
Interparlamentare. All’interno della II Internazionale fu la tendenza marxista a prevalere e negli incontri
successivi a quelli di fondazione (al Congresso di Londra del 1896) fu decisa l’espulsione di quelle correnti
anarchiche, fino ad allora tollerate, che rifiutavano a priori la partecipazione all’attività politico-
parlamentare, per cui si può dire che essa risultò composta di due principali correnti: una marxista
rivoluzionaria e una riformista.
3)Quale fu il modello di partito socialdemocratico? Quando si affermò e dove?
Alla fine dell’Ottocento, nei principali paesi europei si formarono partiti socialisti che si organizzavano sul
piano nazionale e che affiancavano alla propaganda rivoluzionaria anche un’azione legale, che si
proponevano di svolgere all’interno delle istituzioni nazionali, con la partecipazione alle elezioni e l’invio di
rappresentanti in Parlamento, e anche attraverso la promozione di un’attività d’organizzazione e di
propaganda sindacale svolta fra i lavoratori. In tal modo furono i partiti socialisti che per primi proposero e
dettero forma al modello del “partito di massa” che si sarebbe imposto come forma di organizzazione
politica più diffusa nelle democrazie europee. Il modello per tutti fu quello socialdemocratico tedesco nato
nel 1875 che adottò il marxismo come dottrina ufficiale.
Esercitazione lezione n. 8
1)Illustrare la distinzione tra interpreti ortodossi e revisionisti del pensiero di Marx
In seguito al forte sviluppo dell’industria, avvenuto dopo il 1895 -96, che nei paesi più progrediti condusse
ad un marcato miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, specialmente i più qualificati, il
movimento operaio e socialista venne dividendosi fra revisionisti e marxisti ortodossi. I “revisionisti”
erano coloro che promuovevano una revisione della concezione rivoluzionaria marxista alla luce dei
mutamenti verificatisi nella situazione politica e sociale. Essi ritenevano che l’essenza della battaglia
socialista consistesse nella mobilitazione e nell’azione operaia per ottenere riforme, mutamenti graduali,
spazi crescenti per i lavoratori nelle istituzioni esistenti che servissero a realizzare una democratizzazione di
esse, rimandavano la realizzazione del socialismo in un tempo futuro e indeterminato; i “marxisti
ortodossi” invece consideravano pericolose queste derive legalitarie e parlamentaristiche rivelate da una
parte del movimento operaio; volevano mantenersi fedeli all’ortodossia marxista che ritenevano l’originaria
ispirazione rivoluzionaria del marxismo. Consideravano quindi le riforme e le lotte nelle istituzioni esistenti
solo come mezzi preparatori all’azione rivoluzionaria vera e propria.
2)Chi era Eduard Bernstein? Quali erano le sue tesi riguardo all’interpretazione del marxismo?
Come Marx, Bernstein partiva dall’osservazione diretta della condizione operaia, che, nella Germania del
suo tempo, si rivelava in netto miglioramento.
L’essenza del revisionismo di Bernstein può essere individuata nella sua considerazione che una parte
importante della dottrina di Marx non avesse carattere scientifico, cioè non si basasse sulla constatazione
di fatti, ma configurasse in realtà un’imponente costruzione teorica nel quale Marx aveva piegato i fatti alle
proprie esigenze dottrinarie. Secondo Bernstein i fattori economici non erano determinanti per la storia e
per la società, dando importanza ai fattori morali ed etici; respingeva il concetto di plusvalore (il valore
consisteva nell’utilità del prodotto e non nella quantità di lavoro); il proletariato non si impoveriva, ma
migliorava lentamente la sua condizione, quindi la lotta di classe non peggiorava ma si stava attenuando e
comunque non rappresentava il mezzo per trasformare la società; il capitalismo non crollava, ma era
capace di modificarsi e superare le crisi; lo Stato borghese diventava sempre più Stato democratico; il
proletariato non doveva perseguire il fine di uno scontro violento e risolutivo con la borghesia, ma doveva
incentivare e assecondare le tendenze progressiste. La società socialista non sarebbe sorta da una rottura
rivoluzionaria, ma da una trasformazione graduale realizzata grazie all’impegno quotidiano dei lavoratori
nelle organizzazioni operaie, soprattutto del movimento sindacale, e nella lotta legalitaria condotta dai
partiti operai, all’interno delle istituzioni liberali e parlamentari, per ottenere quei provvedimenti di
legislazione sociale e di riforma che avrebbero democratizzato lo Stato e le istituzioni esistenti e garantito i
diritti politici e sociali ai lavoratori che fino ad allora ne erano stati privi. In questo lavoro, e non nel mito
della “dittatura del proletariato”, stava, per Bernstein, la sostanza del socialismo: ovvero "tutto è nel
movimento, niente è nel fine“. Il socialismo, secondo Bernstein, non configurava la negazione e la
distruzione del liberalismo, ma di esso era piuttosto il legittimo erede, il legittimo e più compiuto interprete
delle istanze di progresso, di giustizia e di libertà delle quali il liberalismo e la borghesia, in una precedente
fase storica si erano fatti portatori.
L’opera di revisionismo di Bernstein fu importantissima e le sue tesi suscitarono un acceso dibattito in seno
al movimento socialista internazionale e furono sostanzialmente respinte da tutti i maggiori esponenti del
marxismo "ortodosso. Tuttavia il suo revisionismo identificò la fonte dalla quale trassero ispirazione sul
piano teorico e pratico tutti i movimenti, che pur affermando di mantenere il nucleo centrale delle teorie di
Marx, si caratterizzarono per il collegamento indissolubile che stabilirono fra socialismo e democrazia
liberale, finendo per considerare di fatto utopistico e impraticabile il metodo di assicurare la libertà a tutti e
di giungere al socialismo attraverso la dittatura, anche se transitoria, di una classe (quella proletaria). In tal
modo nei fatti, la dottrina rivoluzionaria di Marx si declinava in una teoria di semplice riforma sociale. Fu
infatti Bernstein a formulare la celebre espressione che sintetizzava le sue teorie: “lo scopo finale (cioè la
società comunista) è nulla, il movimento (cioè l’azione di riforma e l’opera concreta e quotidiana svolta nei
sindacati e nei partiti del movimento operaio) è tutto “. Questa formula indicava che il movimento operaio
doveva sostituire la prospettiva rivoluzionaria di Marx con quella non dell’abbattimento ma del confronto e
della gestione efficiente dello Stato borghese nell’interesse generale, che avrebbe portato al socialismo
senza violente rotture. I revisionisti, pur continuando a proclamarsi, a parole, seguaci delle dottrine di Marx
ne erano i più incisivi demolitori.
3)Chi era Karl Kautsky? Quali erano le sue tesi riguardo all’interpretazione del marxismo?
Dopo la morte di Engels, fu Karl Kautsky ad elevarsi al ruolo di massimo teorico del Partito
Socialdemocratico tedesco. Engels e Kautsky non contestavano i fondamenti teorici del Capitale e neppure
mettevano in discussione gli obiettivi individuati da Marx per la lotta del movimento operaio, ma
concentravano una maggiore attenzione sui momenti intermedi del processo rivoluzionario, sulla
partecipazione alle elezioni, sulle lotte per la democrazia e per le riforme.
Esercitazione lezione n. 9
1)Cosa erano le Camere del Lavoro? Quali funzioni svolgevano?
Sul finire dell’Ottocento si formarono anche le prime Camere del Lavoro, le organizzazioni sindacali
territoriali, strutture orizzontali, che compresero via, via le diverse federazioni sindacali di una determinata
zona geografica. Inizialmente le Camere del lavoro si presentarono come organismi sostanzialmente
“apolitici”, proprio per cercare di offrire un rimedio ai problemi della disoccupazione e dello sfruttamento a
cui erano soggetti i lavoratori, in un periodo tra l’altro particolare come quello della depressione economica
della fase 1887 – 1897: si orientarono infatti verso il servizio di collocamento gratuito e gestito dagli stessi
lavoratori, in palese alternativa agli uffici privati che generalmente si configuravano come strumenti di
sfruttamento della classe lavoratrice. L’altra funzione assunta dalle Camere del lavoro furono quelle di
informazione statistica e di arbitrato, cioè di arbitro dei contrasti sociali, esercitata attraverso la
costituzione di commissioni arbitrali con la presenza di soggetti terzi e sopra le parti con le quali le camere
del lavoro intervenivano per la composizione dei conflitti di lavoro.
Successivamente se ne aggiunsero altre collaterali, prevalentemente di natura assistenziale e previdenziale,
ricreative e culturali, di indagine statistica sulle condizioni dei lavoratori. Gradualmente le Camere del
lavoro vennero politicizzandosi, orientandosi sempre più verso l’assunzione di finalità di classe, volgendo il
loro interesse in maniera crescente verso la tutela degli interessi generali dei lavoratori, assumendo la
funzione esplicita di coordinare e organizzare l’attività di resistenza dei lavoratori stessi, per un po’ più di
paga e meno ore di lavoro.
2)Quali furono le caratteristiche che accomunarono i partiti socialisti formatisi in Europa tra la fine
dell’Ottocento e l’inizio del Novecento?
Alla fine dell’Ottocento nei principali paesi europei e anche fuori dall’Europa si costituirono partiti socialisti
che cercavano di organizzarsi sul piano nazionale e che affiancavano e gradualmente sostituivano alla
propaganda rivoluzionaria anche un’azione legale, svolta all’interno delle istituzioni, consistente nella
partecipazione alle elezioni e nell’invio di propri rappresentanti nei Parlamenti, oltre che nella promozione
dell’attività di organizzazione e di propaganda sindacale. L’esempio più significativo per tutti i partiti
socialisti che vennero emergendo fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del 900 fu la SPD sorta nel 1875.
Oltre le divergenze ideologiche e le peculiarità nazionali tutte queste formazioni all’inizio del Novecento si
muovevano su una piattaforma comune: 1 )il fine era per tutti il superamento del capitalismo e la gestione
sociale del sistema economico 2)tutti si ispiravano a ideali internazionalisti e pacifisti; 3) tutti cercavano di
dotarsi di una base di massa fra i lavoratori e di partecipare attivamente alla lotta politica nei rispettivi
paesi; 4) tutti erano parte e avevano come riferimento la II Organizzazione Internazionale dei Lavoratori
erede della I Internazionale dissoltasi negli primi anni ‘70 dell’Ottocento.
3)Come e quando venne costituito il Partito dei Lavoratori Italiani?
Turati aveva maturato il convincimento che fosse giunto il momento di unire le componenti socialiste
esistenti organizzandole in un grande partito nazionale distinto dalle altre forze.
Attraverso vari passaggi si giunse all’appuntamento di Genova, dove nel 1892 si riunirono i rappresentanti
di circa trecento tra leghe contadine, società operaie, circoli politici e organizzazioni di altra natura.
Immediatamente emerse una frattura insanabile fra una maggioranza favorevole alla costituzione di un
partito politico socialista e una minoranza, composta di anarchici e di una parte di aderenti al POI attestati
su posizioni intransigenti, che invece si opponevano, rifiutando l’esigenza dell’azione politica, che fosse
condotta da un partito politico a fini legislativi, seppure ispirata ai principi di classe. Data l’impossibilità di
trovare un’intesa, la maggioranza dei delegati con alla testa Turati e altri esponenti, lasciarono il luogo del
Congresso dandosi appuntamento in un altro luogo, dove Turati e i compagni dichiararono costituito Il
Partito dei Lavoratori Italiani, approvandone il Programma e lo Statuto. Il programma riportava una netta
affermazione del principio della lotta di classe; come meta finale la socializzazione dei mezzi di lavoro
(terra, miniere, fabbriche, mezzi di trasporto ecc. ) e la gestione sociale della produzione da raggiungersi
attraverso la duplice strategia della lotta sindacale, economica, affidata alle associazioni di arte e mestiere,
per conseguire i miglioramenti immediati della vita operaia; e la lotta politico elettorale, per conseguire la
conquista dei pubblici poteri (Stato, Comuni, Amministrazioni Pubbliche), appannaggio del Partito di classe,
distinto dagli altri partiti. A far parte del Partito erano ammesse società, federazioni, consociazioni, società
indipendenti con l'unico vincolo dell'accettazione del Programma. La lotta sindacale ed economica era
affidata solo alle camere del lavoro e alle associazioni di categoria le quali potevano essere composte e
dirette solo da operai. Nel 1893 il partito modificò il nome in Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, per
giungere poi a quello definitivo di Partito Socialista Italiano nel 1895.
Esercitazione lezione n. 10
1) Quali furono le cause della caduta del ministero di Crispi nel 1892?
Nel 1887 Crispi decise di inviare un nuovo corpo di spedizione a Massaua e nel 1890 i possedimenti italiani
furono riorganizzati col nome di Colonia Eritrea, mentre si profilava la possibilità di una nuova impresa
espansionistica in Somalia. Proprio tali progetti attirarono su Crispi l’opposizione di settori conservatori e
reazionari che giudicarono troppo costosa tale politica, determinando la caduta del suo ministero nel 1892.
2) Come reagì Giolitti alle manifestazioni di protesta e di rivendicazione popolare mosse dai Fasci
Siciliani?
La prima esperienza di Governo di Giovanni Giolitti risale agli anni 1892 – 1893, durante i quali non solo si
costituì il Partito dei Lavoratori Italiani ma si svolse anche l’agitazione dei Fasci Siciliani e i moti dei
lavoratori del marmo della Lunigiana. Le modalità con le quali Giolitti affrontò queste manifestazioni di
protesta e di rivendicazione popolare distinsero la sua linea politica come più avanzata e progressista.
Giolitti sin da subito assunse un atteggiamento contrario al ricorso della forza pubblica per sedare le
manifestazioni rivoltose, e ben determinato in ogni caso a resistere alle pressioni dei settori più
conservatori della classe dirigente liberale, che invece invocavano un atteggiamento deciso e di tipo
repressivo da parte del Governo per ristabilire l’ordine pubblico. Egli faceva soprattutto affidamento sul
fatto che sia i proprietari terrieri, sia i proprietari delle miniere, che ricoprivano ruoli chiave anche nelle
amministrazioni locali, fossero alla fine indotti ad approvare provvedimenti che servissero in qualche modo
a migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori delle campagne e degli operai. Tale tipo di
condotta valse sin da subito al Presidente del Consiglio aspre critiche da parte dei conservatori.
gli ambienti politici e giornalistici e la speculazione edilizia e bancaria, coinvolgendo numerose personalità
della politica. In seguito all’inchiesta ministeriale avviata, i sospetti furono confermati. Giolitti decide di
tenere segreto l’esito e Crispi insieme ad altri conservatori fa cadere Giolitti, che dà le dimissioni a fine nov
1893 e a metà dicembre Crispi tornò al potere.
2) Quali conseguenze ebbe lo scandalo della Banca Romana?
Non fu tuttavia solo la questione della gestione dell’ordine pubblico che determinò la caduta del I Governo
Giolitti, bensì il noto “scandalo della Banca Romana” che fece emergere il torbido intreccio di relazioni tra
gli ambienti politici e giornalistici e la speculazione edilizia e bancaria, coinvolgendo numerose personalità
della politica. In seguito all’inchiesta ministeriale avviata, i sospetti furono confermati. Giolitti decide di
tenere segreto l’esito e Crispi insieme ad altri conservatori fa cadere Giolitti, che dà le dimissioni a fine nov
1893 e a metà dicembre Crispi tornò al potere.
4) Qual è l’importanza dell’articolo “Torniamo allo statuto” pubblicato da Sidney Sonnino sulla
rivista “Nuova antologia”?
Sidney Sonnino, autorevole esponente del liberalismo conservatore, espresse le proprie posizioni in un
articolo pubblicato sulla rivista “Nuova Antologia” (1897) dal titolo “Torniamo allo Statuto”,
secolo: nell’articolo Sonnino chiedeva sostanzialmente al Re di riappropriarsi delle prerogative regie che Lo
Statuto Albertino prevedeva. Due erano i pericoli che minacciavo “la nostra civiltà”, secondo lui: “il
clericalismo, un movimento conservatore, quasi reazionario che piega sempre più verso la gerarchia
ecclesiastica, come rappresentante e portatrice di una legge divina di moralità sociale da contrapporsi
all’utilitarismo individuale” e il socialismo che “traendo forza dal malcontento, dall’attrito nascente per la
intensa concorrenza individuale, e dai sentimenti di simpatia umana quanto di desiderio di eguaglianza
oppure di invidia democratica” si faceva fautore di uno stato collettivista e negatore di libertà. Il rimedio
per contrastare questi pericoli, secondo Sonnino, era quello di arginare “l’esorbitare della Camera elettiva
dalle sue funzioni”, cioè di tornare ad un’interpretazione letterale del testo statutario che non prevedeva la
dipendenza del potere esecutivo (il Governo) da quello legislativo (il Parlamento). Sonnino indicava cioè la
necessità di procedere ad un rafforzamento dei poteri dell’esecutivo e del Senato, e allo svincolamento del
Governo dalla maggioranza della Camera. L’articolo di Sonnino divenne una sorta di manifesto delle
posizioni della destra conservatrice italiana.
Esercitazione lezione n. 11
1)Quali erano le tesi espresse da Sidney Sonnino nel 1897 con l’articolo “Torniamo allo Statuto”?
Dove venne pubblicato l’articolo?
Di fronte alla minaccia rappresentata dal consolidarsi del movimento sindacale e politico socialista, buona
parte della classe dirigente liberale avvertì incombere la minaccia della sovversione sull’istituzione
monarchica e l’ordine costituito. Di tali posizioni conservatrici si fece soprattutto interprete Sidney Sonnino,
autorevole esponente del liberalismo conservatore, che espresse le proprie posizioni in un articolo
pubblicato sulla rivista “Nuova Antologia” (il 1 gennaio 1897) dal titolo “Torniamo allo Statuto”.
Nell’articolo Sonnino chiedeva sostanzialmente al Re di riappropriarsi delle prerogative regie che Lo Statuto
Albertino prevedeva. Due erano i pericoli che minacciavo “la nostra civiltà” : “il clericalismo, un movimento
conservatore, quasi reazionario che piega sempre più verso la gerarchia ecclesiastica, come rappresentante
e portatrice di una legge divina di moralità sociale da contrapporsi all’utilitarismo individuale” e il
socialismo che “traendo forza dal malcontento, dall’attrito nascente per la intensa concorrenza individuale,
e dai sentimenti di simpatia umana quanto di desiderio di eguaglianza oppure di invidia democratica” si
faceva fautore di uno stato collettivista e negatore di libertà. Per risolvere la situazione c’era la necessità di
procedere ad un rafforzamento dei poteri dell’esecutivo e del Senato, e allo svincolamento del Governo
dalla maggioranza della Camera.
2)Chi animò la battaglia ostruzionistica di fine secolo in Italia? Illustrare il significato della
“battaglia ostruzionistica” svoltasi in Parlamento.
Le “leggi liberticide” di Pelloux (divieto di sciopero nei servizi pubblici, la proibizione di manifestazioni
politiche, sancivano la facoltà dell’autorità giudiziaria di sospendere la pubblicazione di giornali e periodici,
istituivano il reato di turbamento dell’ordine pubblico a mezzo stampa e la possibilità di sciogliere
organizzazioni giudicate sovversive). A contrastare l’approvazione di queste leggi si opposero sui banchi del
Parlamento i gruppi dell’Estrema Sinistra (i socialisti, i radicali e i repubblicani) animando una coraggiosa
battaglia parlamentare finalizzata a difendere “le libertà liberali. La tattica messa in atto dall’opposizione
socialista, radicale e repubblicana fu quella dell’ostruzionismo parlamentare, consistente nel cercare di
prolungare all’infinito le discussioni in aula, valendosi di tutti gli appigli legali e procedurali offerti dai
regolamenti parlamentari, per cercare di non arrivare mai alle votazioni dei provvedimenti in oggetto. Tra i
socialisti si segnalò soprattutto per consapevolezza democratica il deputato reggiano Camillo Prampolini,
che pubblicò dettagliatamente la battaglia che si svolse all’interno del Parlamento e che vedeva come
protagonisti i socialisti. La lotta ostruzionistica durò 2 anni e ci furono momenti epici di lotta per la libertà di
cui furono protagonisti gli esponenti dell’opposizione: famoso l’episodio avvenuto il 30 giugno 1899 del
cosiddetto “rovesciamento delle urne”, di cui furono autori tra gli altri i deputati socialisti, Camillo
Prampolini, Andrea Costa, Leonida Bissolati e Giuseppe De Felice Giuffrida, che nell’estremo tentativo di
impedire la votazione della modifica del regolamento parlamentare, buttarono a terra le urne predisposte
per le operazioni di voto, causando la sospensione dei lavori. Alle forze di opposizione socialiste, radicali e
repubblicane si aggiunsero infine anche settori consistenti di forze liberali, guidate da Giuseppe Zanardelli e
da Giovanni Giolitti, determinati a contrastare i procedimenti apertamente anticostituzionali avallati dalla
maggioranza conservatrice. Pelloux perde le elezioni del 1900 e si dimette.
3)In cosa consistette la “svolta liberale” di inizio ‘900 in Italia?
Il 29 luglio 1900, re Umberto I viene ucciso da Gaetano Bresci, un anarchico che volle vendicare le vittime
delle repressioni del’98 a Milano. Il nuovo re, Vittorio Emanuele III evitò il pericolo autoritario,
confermando gli esiti della lotta parlamentare di fine secolo, inaugurando una svolta liberale nominando
Giuseppe Zanardelli come Presidente del Consiglio, che a sua volta chiamò al ministero degli Interni
Giovanni Giolitti. Questi ultimi, avviarono il nuovo corso politico liberale di inizio 900 in Italia.
Esercitazione lezione n. 12
1)In che senso si può affermare che in età giolittiana si avviò la modernizzazione in Italia?
Dopo la fase di grave crisi economica della fine dell’800, in Italia sin dal 1896, limitatamente al settore
industriale, fu possibile scorgere i segnali della ripresa dell’economia che poi sarebbe sfociata nella grande
espansione dei primi 15 anni del 900. L’intenzione di Giolitti era di favorire lo sviluppo economico e
industriale. Capì che era necessario promuovere una corrispettiva evoluzione della vita economica e
politica del paese secondo modelli più vicini a quelli delle liberali democrazie occidentali, dove il confronto
tra le diverse forze politiche e gli opposti interessi avveniva in forme organizzate e nel rispetto della legalità
e delle garanzie istituzionali, secondo modalità atte a garantire una relativa pace e stabilità sociale che si
configurava come necessario presupposto della crescita economica stessa.
Nelle organizzazioni dei lavoratori, portatrici dei legittimi interessi e delle aspirazioni di miglioramento delle
classi operaie, individuava infatti la conseguenza di un processo di crescita della società italiana in direzione
della modernità, un sintomo del progresso “poggiato sul principio di uguaglianza fra gli uomini”. Apre una
nuova stagione nei rapporti fra lo Stato e i lavoratori, fra la classe dirigente e il movimento operaio. Giolitti
si impegnò a costruire un quadro di relazioni politico-istituzionali imperniato sulla costante ricerca di un
confronto istituzionale, organizzato con le forze sociali emergenti, operaie e contadine, di cui fu una chiara
dimostrazione la creazione nel 1902 del Consiglio Superiore e dell’Ufficio del Lavoro, organo che avevano il
compito di svolgere indagini statistiche propedeutiche all’elaborazione dei primi provvedimenti di
legislazione sociale, e al quale furono chiamati a partecipare stabilmente, accanto a funzionari governativi e
ad esponenti politici, i rappresentanti delle varie categorie economiche e del mondo del lavoro, compresi
gli esponenti delle organizzazioni sindacali socialiste.
2)All’inizio del 1900 quale fu l’atteggiamento di Giovanni Giolitti verso il movimento operaio e le
sue organizzazioni?
Nei tre anni di durata del Ministero Zanardelli-Giolitti si avviò un nuovo corso di rapporti tra classe dirigente
e movimento operaio con immediate ripercussioni, innanzitutto nella rapida crescita delle organizzazioni
contadine e operaie, che sciolte o ridotte in clandestinità durante la repressione del 1898, a partire
dall'inizio del secolo ebbero uno sviluppo impetuoso.
Con Giolitti il Governo mantenne una linea di rigorosa neutralità nelle vertenze economico sindacali che
riguardavano il settore privato, intuì perfettamente la funzione promotrice dello sciopero nella moderna
società industriale e ritenne che lo Stato non dovesse intervenire nelle vertenze tra lavoratori e datori di
lavoro (lavoro e capitale) per appoggiare una delle parti: egli pensava che il compito dello Stato fosse quello
di garantire l’ordine pubblico e la libertà di poter lavorare (la libertà di lavoro) per quanti non volessero
scioperare.
Lo sciopero politico che turbava l’ordine pubblico era invece da combattere come lo sciopero generale e
quello nei servizi pubblici. Diverso fu quindi il suo atteggiamento nei confronti delle agitazioni che
riguardavano i servizi pubblici, riteneva infatti che tali scioperi avessero un carattere politico che non
approvava. Giolitti pensava che esistesse un antagonismo di interessi insopprimibile fra lavoratori e
padroni, che non si poteva eliminare, ma si poteva fare in modo che il confronto fra questi interessi opposti
avvenisse in forme civili e organizzate che escludessero il ricorso alla violenza negatrice di ogni progresso e
di ogni ragione di umanità.
3) Quali progressi furono compiuti dal settore industriale in età giolittiana? Quali furono gli
elementi che resero possibile lo sviluppo del settore industriale?
L'Italia conobbe all'inizio del 900 la sua vera e propria fase di decollo industriale. Ciò fu possibile, in virtù
degli avanzamenti che l'Italia fecce in trenta-quaranta anni di vita unitaria sul piano delle infrastrutture
economiche e delle strutture produttive (la costruzione della rete ferroviaria portata a termine dalla Destra
Storica, la svolta protezionistica operata dalla Sinistra Storica aveva poi permesso la nascita e la crescita di
un'industria siderurgica moderna). Il riordinamento del sistema bancario, successivo alla crisi provocata
dallo scandalo della Banca Romana, aveva dotato il paese di una struttura finanziaria più solida e affidabile.
Tra i settori industriali che fecero registrare maggiori progressi in questa fase ci fu quello della siderurgia,
questa branca giunse a possedere degli impianti la cui capacità produttiva superava largamente la
possibilità di assorbimento del mercato nazionale. Nel settore dell'industria tessile, che contava ancora la
maggiore quantità di stabilimenti e di addetti, gli avanzamenti più importanti interessarono l'industria
cotoniera che giunse ad essere altamente meccanizzata e molto protetta dalle tariffe doganali.
Nel settore agro-alimentare l'industria zuccheriera largamente protetta. Nel settore chimico pure protetto,
nel quale si sviluppò l’industria della gomma. Anche il settore meccanico, svantaggiato dalle tariffe
doganali, cresce grazie alla richiesta di materiale per le ferrovie, navi e armamenti da parte dello Stato. La
nascita dell’industria automobilistica con la costituzione della Fiat di Giovanni Agnelli. L’industria elettrica,
con la prima centrale elettrica del mondo a Milano.
Esercitazione lezione n. 13
1)Quali furono le peculiarità del processo di industrializzazione in Italia secondo lo storico Rosario
Romeo?
Rosario Romeo, studioso, ha indicato uno dei caratteri specifici della rivoluzione industriale italiana proprio
nel fatto che essa si realizzò grazie ad un intervento della collettività e dello Stato molto più ampio di
quanto non prevedesse la teoria economica liberale alla quale peraltro continuava a richiamarsi la classe
dirigente italiana. Secondo Romeo, la classe dirigente italiana fu spinta ad intraprendere la via
protezionistica allo sviluppo economico dalle condizioni storiche date (l’arretratezza storica dell’economia
italiana, la deficienza dei capitali, la povertà del mercato). Tutti quei caratteri dello sviluppo industriale
italiano che sono stati indicati come patologici dagli osservatori liberisti, nella misura in cui si allontanano
dal modello liberista di sviluppo economico, quindi il ricorso al protezionismo, l’impiego delle banche nello
sviluppo industriale, l’intervento dello Stato, sono da considerarsi come i tratti propri e specifici che
individuano lo sviluppo storico italiano, cioè di un paese arretrato che, per i suoi presupposti di partenza,
non poteva affatto svolgersi secondo il modello classico dello sviluppo industriale inglese.
2)Quali furono le principali realizzazioni del Ministero di Giovanni Giolitti tra il 1903 e il 1905?
Dopo le dimissioni di Zanardelli, nel 1903 Giolitti inaugurò il suo primo Ministero, (1903 – 1905) cercando di
proseguire l'esperienza liberal-progressista del precedente Ministero, e anzi cercò di allargarne le basi,
offrendo a Filippo Turati (leader riformista del partito socialista) un posto nella compagine governativa.
L’iniziativa di Giolitti si configurò significativa per le sue intenzioni di democratizzazione della vita politica,
dal momento che solo qualche anno prima Turati era stato incarcerato come sovversivo. Turati rifiutò
l’offerta ritenendola troppo affrettata per il timore giustificato di non essere seguito dal Partito ancora
lontano dall’essere un partito di governo. Turati e i riformisti, che mantennero il controllo del Partito fino al
1904, sostennero però sul piano parlamentare la politica giolittiana sin dalla svolta di inizio secolo, non solo
per negoziare e ottenere l’approvazione di una serie di provvedimenti di legislazione sociale, che comunque
servirono a fornire le prime tutele e garanzie ai lavoratori, non solo per ottenere una serie di importanti
concessioni economiche a favore delle organizzazioni sindacali e cooperative soprattutto del Nord, che
consentirono loro di ricevere in appalto lavori di pubblica utilità, ma anche per evitare rigurgiti di reazione e
per mantenere quei margini di relativa libertà che erano necessari al movimento operaio, quindi alle
organizzazioni sindacali e a quelle partitiche, per crescere e svilupparsi.
3)Quando avvenne il primo sciopero generale in Italia? Quali erano le correnti interne al PSI che
intorno a questo avvenimento si contrapposero e perche?
Nel 1904, i sindacalisti rivoluzionari di Arturo Labriola (con Enrico Ferri e la componente intransigente-
rivoluzionaria del Partito, di Lazzari) riuscirono a conquistare la maggioranza al Congresso del Partito
Socialista di Bologna. Il Partito socialista, non più sotto il controllo dei riformisti, traendo spunto da alcuni
incidenti tra forze dell’ordine e scioperanti avvenuti a Castelluzzo, in Sicilia, e a Buggerru, in Sardegna,
appoggiarono l’iniziativa del primo sciopero generale che si verificò in Italia nel 1904. Tale episodio si
ritorse in realtà contro i socialisti stessi, grazie anche all’abilità di Giolitti, che lasciò che lo sciopero si
svolgesse senza turbamenti da parte delle forze dell’ordine, poi fece in modo che venissero indette nuove
elezioni e sfruttò l’enorme impressione nata nell’opinione pubblica moderata dallo sciopero e dagli scenari
minacciosi che esso evocava. Le elezioni, che videro per la prima volta l’intervento dei cattolici in funzione
antisocialista, si risolsero in un successo per Giolitti che ritornò ad avere un solido controllo delle Camere.
Esercitazione lezione n. 14
1)Quali furono gli esiti del processo di centralizzazione organizzativa che in età giolittiana interessò le
istituti di rappresentanza degli interessi?
Nel 1906 le organizzazioni sindacali si unirono nella Confederazione Generale del Lavoro (CGdL), che fu
guidata da esponenti riformisti, Rinaldo Rigola fu infatti il I Segretario della CGdL, a cui si contrappose, in
campo imprenditoriale, la formazione della Confederazione Italiana dell’Industria che avvenne nel 1910,
dopo che da qualche anno gli industriali avevano preso ad unirsi in associazioni padronali, per far fronte
contro i lavoratori.
2)Quali furono le principali realizzazioni e i principali avvenimenti che caratterizzarono il Ministero
di Giovanni Giolitti tra il 1911 e il 1914?
Si distinse per i provvedimenti di riforma più significativi: l’introduzione del suffragio universale maschile,
ormai in vigore in tutti i paesi europei, approvato nel 1912 con una legge che attribuiva il diritto di voto a
tutti i cittadini maschi che avessero compiuto i trenta anni, a prescindere dal loro grado di istruzione, e a
tutti i maggiorenni alfabetizzati che avessero compiuto il servizio militare; e poi la realizzazione del
monopolio statale delle assicurazioni sulla vita. La portata democratica di queste misure, che servirono a
Giolitti per allargare il consenso a sinistra, venne offuscata dalla sua stessa intenzione di impegnarsi
nell’impresa coloniale in Libia, che da molti venne letta in una prospettiva di politica interna, come una
concessione fatta ai gruppi conservatori, per controbilanciare le conseguenze del suffragio e del monopolio
delle assicurazioni. Il Partito Socialista, a parte qualche eccezione, manifestò comunque la sua netta
contrarietà all’intervento in Libia.
Nel settembre 1911 l’Italia iniziò quindi la guerra contro la Turchia, sotto la cui sovranità si trovava la Libia,
e nel novembre la Libia venne formalmente annessa all’Italia. Solo nell’ottobre 1912 i Turchi accettarono di
firmare la Pace di Losanna, che riconobbe la sovranità politica all’Italia, ma mantenne per il sultano
un’autorità religiosa sulle popolazioni musulmane.
La guerra ebbe però un contraccolpo importante sugli equilibri politici generali sui quali si reggeva il
sistema giolittiano. Giolitti, introducendo il suffragio, non aveva inteso soltanto corrispondere ad
un'esigenza di democrazia ma anche predisporre un elemento di difesa del suo sistema, in quanto, se con il
suffragio, i socialisti, nel Nord del paese, risultavano certamente favoriti, nel Sud invece, il voto dei
contadini, che erano per lo più analfabeti, risultava più soggetto alle influenze dell'autorità governativa e
dei proprietari. Inoltre, a ulteriore garanzia di successo, Giolitti giunse a concludere un accordo con
l'Unione Elettorale Cattolica presieduta dal Conte Ottorino Gentiloni, accordo che fu detto Patto Gentiloni.
3)Quali istanze furono alla base dell’emergere del fenomeno e del movimento nazionalista in
Italia all’inizio del 1900? Chi furono i principali interpreti e intellettuali della nuova corrente di idee
nazionalista?
I successi crescenti ottenuti dalla pressione rivendicativa socialista, il moltiplicarsi delle cooperative
operaie, l’importanza e il riconoscimento sempre maggiori acquisiti dalle organizzazioni sindacali nella vita
economica e politica, nel loro insieme costituirono tutti fenomeni che valsero a suscitare una reazione di
rifiuto e insieme di rivalsa in una parte della media borghesia intellettuale. Alcuni intellettuali come Enrico
Corradini, Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini emersero in questo periodo tra gli animatori di movimento
di idee che intendeva innanzitutto esprimere un moto di ribellione contro uno stato di fatto, un insieme di
condizioni deplorevoli che sembravano loro caratterizzanti i tempi che stavano vivendo e che essi
indicavano con il ricorso ad un’espressione nella “la viltà dell’ora presente” , una viltà che ai loro occhi
pareva animare la classe dirigente, ormai rassegnata a capitolare di fronte all’avanzata di operai e
contadini, una viltà che era della Nazione, che sembrava incapace di perseguire una politica estera di
grande respiro, degna di una grande potenza; una viltà, che ancora secondo la loro analisi, pareva
caratterizzare tutta la società italiana, ormai priva di grandi idealità e asservita ad una concezione meschina
e utilitaristica dell’esistenza. Essi esprimevano orientamenti non soltanto ostili al socialismo, ma anche al
liberalismo borghese e critiche radicali nei confronti della democrazia stessa.
Corradini in particolare aveva come riferimento la realtà dell’imperialismo, e indicava la necessità
dell’espansionismo coloniale; egli sosteneva che alla realtà della lotta di classe, che indeboliva la Nazione,
doveva sostituirsi la lotta tra nazioni proletarie – povere- (quelle dotate di una popolazione esuberante
rispetto alla disponibilità di risorse economiche) e nazioni plutocratiche- ricche - e che trovava il suo
principale strumento nella guerra vittoriosa. L’ideologia nazionalista voleva eliminare la lotta di classe
trasformandola in lotta tra nazioni, reprimere l’iniziativa operaia e contadina per trovare la soluzione dei
problemi che affliggevano la società italiana in un’attività espansionistica mirata alla conquista di colonie
che costituissero aree verso le quali indirizzare le correnti dell’emigrazione italiana e mercati da sfruttare da
parte dell’industria nazionale. Il movimento nazionalista nel 1910 si dette una struttura organizzativa con la
fondazione dell’Associazione Nazionalistica Italiana.
Esercitazione lezione n. 15
1)Illustrare luci e ombre dell’Età giolittiana.

Giolitti presentò e di fatto perseguì un programma diverso dai suoi predecessori, sicuramente dai caratteri
più aperti e relativamente riformatori. La linea politica di Giolitti fu caratterizzata da alcuni tratti specifici:
dalla volontà di accordare il sostegno assiduo alle forze più moderne della società italiana (soprattutto i ceti
di borghesia industriale e le classi lavoratrici organizzate); dal tentativo costante di integrare nel sistema
istituzionale-liberale movimenti che solo qualche tempo prima erano considerati e si consideravano nemici
delle istituzioni; dalla tendenza a potenziare l'interventismo statale per sanare gli squilibri sociali. Il limite di
questa linea politica, dai caratteri decisamente più avanzati rispetto al passato, è stato indicato dagli storici
nella dimensione liberale-parlamentare di stampo per lo più ottocentesco e ancora in gran parte notabilare
nell'ambito della quale si esplicava. Giolitti infatti, per realizzare il suo programma, aveva bisogno di poter
contare su forti e solide maggioranze parlamentari che gli permettessero di governare per tempi lunghi e in
condizioni di relativa tranquillità, senza il rischio di crisi di governo ricorrenti. Il controllo del Parlamento era
quindi l'esigenza vitale del sistema politico giolittiano, tale necessità, sul piano delle tecniche politiche, lo
portò a perfezionare con abilità consumata i sistemi del trasformismo già inaugurati da Depretis, e ad
esercitare ingerenze e pressioni governative dirette nelle lotte elettorali e soprattutto al Sud, dove alcune
prassi finirono col compromettere i caratteri progressisti e innovativi dell'esperienza di governo giolittiana,
per smentire nei fatti alcuni dei presupposti più avanzati sui quali si fondava. Per questi stessi motivi Giolitti
fu oggetto di critiche da parte di una schiera di oppositori che progressivamente venne crescendo: i cattolici
democratici ad esempio, con Don Romolo Murri e Luigi Sturzo, che erano antigiolittiani perchè
consideravano Giolitti un continuatore del “trasformismo”, così come i sindacalisti rivoluzionari, uniti ai
cattolici democratici nel denunciare l'opera di corruzione che Giolitti perseguiva nell'ambito dei rispettivi
movimenti per alimentarne le divisioni interne e quindi poterne associare le componenti moderate a
sostegno del suo sistema di potere. La condotta malavitosa tenuta dalle autorità governative in occasione
delle scadenze elettorali, specialmente al Sud, venne poi più volte denunciata dai Meridionalisti, come
Gaetano Salvemini, che coniò per lui il famoso epiteto “Il Ministro della malavita”.

2)Quali furono i limiti del sistema giolittiano?


In generale rimaneva il dato di una generale arretratezza della società meridionale, caratterizzata da un
tasso di analfabetismo ancora alto (nel 1911 al Sud il tasso era ancora del 60% mentre al Nord del 15%),
dalla mancanza di un ceto dirigente moderno e dalla soggezione delle classi di media e piccola borghesia
agli interessi della grande proprietà terriera, dal carattere ancora notabilare e clientelare della vita politica
3)Quali furono i meriti del sistema giolittiano?
Si può riconoscere a Giolitti il merito di aver dato un contributo determinante all'evoluzione dello Stato in
senso democratico. Il dialogo aperto da Giolitti con la componente riformista del Partito Socialista infatti
rese entrambi i soggetti interpreti di un’opera fondamentale di integrazione nazionale, di integrazione delle
masse lavoratrici nello Stato che venne progressivamente allargando le sue basi politiche e sociali.
Contribuì ad instaurare un quadro di più moderne relazioni di lavoro in Italia: Giolitti infatti non solo impose
lo Stato in un ruolo nuovo di rigorosa neutralità nei conflitti del lavoro che riguardavano il settore privato;
ma avviò un nuovo corso di rapporti con i partiti e le organizzazioni sindacali delle classi lavoratrici che
riconobbe implicitamente la legittimità delle istanze di cui si facevano portatori, legittimando quindi partiti
e sindacati come soggetti operanti della vita democratica; in tal senso inaugurò e consolidò prassi di
confronto istituzionalizzato con le rappresentanze del mondo del lavoro, di cui un esempio fu appunto la
creazione de Consiglio Superiore del Lavoro nel 1902, affiancato dall'istituzione di un Ufficio del Lavoro che
ebbe un obiettivo particolarmente significativo (in entrambe queste istituzioni era prevista la presenza di
rappresentanti delle organizzazioni dei lavoratori accanto a quelli dei proprietari e degli imprenditori del
settore industriale, che proprio in questo contesto iniziarono a confrontarsi su un piano formalmente di
parità ): lo sviluppo dei primi provvedimenti di legislazione sociale in Italia (fondamentale in tal senso fu la
legge sulla risicoltura del 1907 elaborata da Giolitti, questa legge prevedeva una forma di regolamentazione
dei contratti di lavoro che implicava il riconoscimento dell'efficacia dei contratti collettivi e quindi del
potere di rappresentanza collettiva delle organizzazioni sindacali).
Importante fu poi la politica di riforme espressa da Giolitti: a partire dall'approvazione delle prime “leggi
speciali” per il Mezzogiorno, dalla legge che statalizzava le ferrovie per migliorarne la gestione e renderne
più efficace il funzionamento, fino alla legge per il suffragio universale maschile, che, sebbene concesso
anche per calcolo elettorale, sicuramente agì nella direzione di una progressiva maturazione della società
italiana.
Esercitazione lezione n. 16
1)Quale fu l’episodio che costituì il pretesto dello scoppio della I guerra mondiale?
Il 28 giugno 1914 a Sarajevo, capitale della Bosnia, Gavrilo Princip, uno studente bosniaco uccise a colpi di
pistola l’erede al trono d’Austria, l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie che a bordo di un’auto
scoperta stavano attraversando le vie della città, in visita ufficiale. Princip era militante di un’organizzazione
irredentista che aveva la sua centrale operativa in Serbia. Tale organizzazione (La Mano Nera) si batteva per
l’unificazione degli slavi della Serbia con quelli che abitavano nel sud dell’Impero austro ungarico. Oltre
l’episodio in sé, tale incidente fornì all’Austria un valido pretesto per intraprendere un’iniziativa contro la
Serbia e liberarsi di questa minaccia separatista.
Fu principalmente per effetto di decisioni prese dalle autorità politiche e militari dei vari paesi coinvolti che
si giunse a risolvere con un conflitto europeo un episodio di crisi locale. Fu l’Austria a compiere il primo
passo inviando il 23 luglio un ultimatum molto duro alla Serbia; quello successivo fu fatto dalla Russia che
non esitò a dimostrare alla Serbia, il paese che rappresentava il suo partner nei Balcani, il proprio appoggio.
Sentendosi tutelata da questo importante sostegno, la Serbia accettò solo alcune clausole dell’ultimatum,
rifiutandosi di accettarne soprattutto una, quella che prevedeva la presenza di funzionari austriaci negli
organismi incaricati di svolgere indagini sui mandanti dell’attentato a Francesco Ferdinando. L’Austria
ritenne insufficiente la risposta data e il 28 luglio dichiarò guerra alla Serbia. Fu allora, a stretto giro, la
Russia a ordinare la mobilitazione delle forze armate estesa all’intero confine occidentale (non limitata solo
al confine con l’Austria Ungheria), in funzione cioè anche preventiva nei confronti di un eventuale attacco
da parte della Germania. Ciò fu interpretato dalla Germania come un atto di sfida, così il 31 luglio la
Germania inviò a sua volta alla Russia un ultimatum con la richiesta di una pronta sospensione dei
preparativi alla guerra. La Russia rispose dopo 24 ore con una dichiarazione di guerra. Quello stesso giorno
(1 agosto) la Francia, militarmente alleata alla Russia, iniziò la mobilitazione delle proprie forze armate. La
Germania rispose con l’invio di un nuovo ultimatum, questa volta diretto contro la Francia, seguito da una
nuova dichiarazione di guerra alla Francia stessa (3 agosto). Da uno sguardo complessivo del succedersi dei
fatti fu dunque il ruolo svolto dalla Germania a determinare l’esito drammatico della crisi e l’avvio del
conflitto.
2)Quale fu l’atteggiamento dei partiti socialisti europei di fronte allo scoppio del primo conflitto
mondiale? E quale fu l’atteggiamento espresso dal Partito Socialista Italiano nella medesima
circostanza?
Tutti i partiti socialisti europei avevano proclamato il rifiuto della guerra, si erano impegnati a portare
avanti un’azione comune, ricorrendo ad ogni mezzo per impedirla. Nonostante tutte queste dichiarazioni di
principio, quasi tutti i partiti socialisti dei paesi belligeranti, anziché tradurre concretamente la tanto
conclamata solidarietà internazionale in una direttiva unitaria di azione politica, seguirono ognuno le scelte
di politica nazionale del proprio paese.
I socialdemocratici tedeschi votarono in Parlamento a favore della guerra contro la Russia zarista. Anche i
socialisti francesi, i socialdemocratici austriaci così come i laburisti inglesi. Fra i paesi belligeranti solo in
Russia e in Serbia, paesi nei quali il movimento operaio ricopriva una posizione marginale nella vita politica,
i socialisti confermarono la loro opposizione alla guerra in maniera intransigente.
3) Perchè in occasione dello scoppio della I guerra mondiale si parla di “crisi dell’internazionalismo
socialista”?
La II Internazionale, nata nel 1889 come espressione della solidarietà fra i lavoratori di tutto il mondo,
cadde di fronte allo scoppio del conflitto, mentre i governi di tutti i paesi, fino ad allora coinvolti, si
trovarono ad esercitare interventi di disciplina sulla produzione industriale, sulla distribuzione dei beni
alimentari e di gestione dell’opinione pubblica. Nei paesi di entrambi gli schieramenti in lotta le classi
dirigenti alimentarono interventi di propaganda orchestrata in maniera sapiente per persuadere i rispettivi
popoli che esse combattevano per difendere i loro diritti, agitando motivi e finalità di ordine ideale che
servissero a giustificare i veri obiettivi economici e politici della guerra e contemporaneamente che
servissero a sollecitare i vari popoli verso un sostegno compatto verso la stessa. In linea con i governi si
mostrarono anche i ceti intellettuali dei vari paesi che configurarono lo scontro tra i due gruppi di potenze
come uno scontro di civiltà; come una lotta di civiltà contro la barbarie.
Esercitazione lezione n. 17
1) Per quale motivo l’Italia potè dichiararsi neutrale allo scoppio della I Guerra Mondiale?
Il 2 agosto 1914, a guerra appena iniziata, il governo italiano, allora guidato dal liberale Antonio Salandra
con il marchese Antonino di San Giuliano agli Esteri, dichiarò la propria neutralità. Proclamando la propria
neutralità l’Italia si era attenuta letteralmente a quanto previsto dal Trattato della Triplice Alleanza, il quale
non aveva carattere offensivo ma difensivo e prevedeva che, in caso di guerra, le potenze alleate si
informassero reciprocamente sui propri obiettivi, discutendo dei compensi. L’Austria non solo aveva
dichiarato la guerra alla Serbia, ma aveva lasciato l’Italia all’oscuro di tutto, dimostrando in quale scarsa
considerazione tenesse l’Italia. Di fronte alla scelta di entrare in guerra e in quale schieramento, le forze
politiche italiane si divisero in due gruppi contrapposti.
2) Come si divise l’opinione pubblica italiana allo scoppio della I Guerra Mondiale?
Lo schieramento “neutralista” risultava maggioritario in Parlamento e nell’ambito della società
ma risultava costituito da componenti molto differenziate tra loro e incapaci di allearsi in
maniera compatta, in modo da far valere la loro posizione di forza. Anche lo schieramento
“interventista” era a sua volta molto variegato, tuttavia le diverse forze che lo componevano
risultavano ispirate da obiettivi comuni: vi era innanzitutto l’esigenza di contrapporsi in guerra
contro l’Austria; e poi la speranza condivisa da molti interventisti era che la partecipazione alla
guerra avrebbe comunque portato alla fine dell’età giolittiana, determinando l’avvio di una
nuova fase della politica italiana.
3) Chi era a favore dell’intervento dell’Italia nel conflitto? Chi invece sosteneva una posizione di
neutralità?
Nell’opinione pubblica italiana, peraltro quasi unanimemente animata da sentimenti antiaustriaci, andò
progressivamente affermandosi l’idea di un intervento a fianco delle potenze dell’Intesa e ciò per due
motivi: la guerra contro l’Austria avrebbe consentito di riunire Trento e Trieste, le cosiddette “terre
irredente”, alla patria e di portare a compimento il processo risorgimentale; inoltre così l’Italia si sarebbe
fatta interprete delle cosiddette nazionalità oppresse e della causa della democrazia, che sarebbe stata
messa in pericolo da una eventuale vittoria dei due Imperi autoritari e conservatori del centro Europa
(Austria-Ungheria e Germania).
A farsi portavoce di questo indirizzo fu una corrente detta dell’”interventismo democratico” cui
appartennero figure diverse ma animate quasi tutte da spirito mazziniano che manifestarono apertamente
il loro favore per l’Intesa e la loro ostilità verso l’Austria. A sostenere un interventismo più graduale era
anche un settore dello schieramento liberale che potremmo definire “di destra”, quello cioè più
conservatore e antigiolittiano. Questa corrente liberale era sostenuto da una testata giornalistica milanese
autorevole e influente “Il Corriere della Sera” e dal suo direttore, il senatore Luigi Albertini. I liberali
conservatori temevano che una mancata partecipazione dell’Italia a un conflitto che avrebbe deciso i futuri
equilibri europei, avrebbe indebolito in maniera decisiva la sua posizione internazionale e anche la
credibilità della monarchia, mentre una vittoria nella guerra avrebbe rafforzato non solo l’istituzione
monarchica ma anche consolidato il governo guidato dall’ala liberale antigiolittiana e conservatrice.
Sull’opposto versante, a sostegno del mantenimento della neutralità, vi era Giovanni Giolitti e la
maggioranza dei liberali che si riconoscevano nelle sue posizioni, che potremmo definire di un liberalismo
più “progressista”. Giolitti non si era schierato pregiudizialmente contro l’intervento, sosteneva piuttosto
che l’Italia non fosse pronta per affrontare una guerra che prevedeva lunga e logorante; era inoltre
convinto che l’Italia avrebbe potuto ottenere molti di quei territori cui aspirava anche semplicemente
patteggiando il mantenimento della neutralità con gli Imperi Centrali. Sul fronte del neutralismo si
schierava poi il mondo cattolico con il nuovo Papa Benedetto XV in testa. Il Partito Socialista Italiano (PSI) e
la Confederazione Generale del Lavoro, a guida socialista riformista, assunsero una posizione di netta e
ferma condanna della guerra, diversamente da quanto avevano fatto i maggiori partiti socialisti europei
schieratisi a sostegno dei rispettivi governi.
4)Quale era la posizione del PSI nei confronti della I Guerra?
I motivi del neutralismo socialista erano riconducibili innanzitutto a ragioni di natura ideologica e di
principio: le guerre, secondo le teorie marxiste e socialiste, erano il portato del sistema capitalistico, il
risultato dei contrasti tra le borghesie nazionali in lotta tra loro per il predominio sul mondo, la
celebrazione del militarismo, l’occasione di lauti guadagni per le industrie legate alla produzione di armi ma
rappresentavano la tragedia per le classi lavoratrici e proletarie chiamate a sopportarne tutte le
conseguenze negative, in termini materiali e di sacrificio di vite umane. I socialisti italiani inoltre
sottolineavano che per quanto riguardava l’Italia la guerra rappresentava un lusso che avrebbe richiesto lo
sperpero inutile di ricchezze e di energie che avrebbero potuto essere utilizzate più proficuamente per
sanare e rimediare agli squilibri e alle piaghe sociali dalle quali era afflitta. Dal punto di vista ideale tale
posizione di neutralità assoluta e di condanna di principio della guerra era assolutamente coerente ma
politicamente si rivelò sterile; si scontrò in quella circostanza con condizioni di fatto, in primis con la scelta
patriottica compiuta dai maggiori partiti socialisti europei (soprattutto i socialdemocratici tedeschi e i
socialisti francesi) che di fatto portò alla dissoluzione della II Internazionale dei lavoratori e
all’annientamento del proletariato come forza internazionale. Un’eccezione significativa nell’ambito dello
schieramento socialista fu quella di Benito Mussolini, il direttore dell’“Avanti!”, l’organo di stampa del
Partito Socialista Italiano, che dopo aver guidato una campagna di stampa a favore della neutralità,
improvvisamente si schierò per l’intervento a fianco delle potenze dell’Intesa. Mussolini fu privato
immediatamente del suo incarico e anche espulso dal Partito Socialista, tuttavia, nel 1914, fondò una
nuova testata, “Il Popolo d’Italia” dalle cui pagine condusse la sua vivace propaganda a favore
dell’intervento.
5) Quando e da chi venne firmato il Patto di Londra? Cosa prevedeva?
In seguito al fallimento del piano di guerra tedesco, nel 1914, Salandra e Sonnino
avviarono delle trattative segrete con le potenze dell’Intesa, mentre contemporaneamente
continuarono a confrontarsi con gli Imperi Centrali (Austria-Ungheria, Germania, Bulgaria e l’Impero
Ottomano) per cercare di ottenere riconoscimenti di territori in cambio del mantenimento della neutralità.
Alla fine decisero di schierarsi con l’Intesa (Francia, Inghilterra e Russia) firmando il Patto di Londra il 26
aprile del 1915, senza né avvertire il Parlamento né gli altri membri del Governo. Il Patto di Londra
prevedeva che all’Italia, in caso di vittoria, sarebbero andati i territori del Trentino, del Sud Tirolo fino al
Brennero, la Venezia Giulia, l’Istria esclusa la città di Fiume, una parte della Dalmazia, il protettorato
sull’Albania, alcune isole del Dodecanneso. Il Patto di Londra, sebbene concluso all’insaputa del Parlamento
e di gran parte del Governo, doveva tuttavia ricevere la ratifica da parte del Parlamento, dove la
maggioranza era schierata su posizioni neutraliste. Una serie di rumorose e imponenti manifestazioni di
piazza a favore dell’Intervento (“le radiose giornate di maggio”) ebbero un peso rilevante nell’orientare il
corso degli eventi. Alla fine di maggio l’Italia dichiarò guerra all’Austria e presero avvio le operazioni
militari.
6) Quale atteggiamento adottarono i socialisti italiani di fronte all’entrata in guerra dell’Italia?
I socialisti, sostanzialmente isolati, assunsero di fronte alla guerra un atteggiamento che riassunsero
nell’espressione “né aderire, né sabotare”. Gli organizzatori socialisti si impegnarono in un'azione di
vigilanza sul rispetto delle norme sindacali, di denuncia e di lotta ai fenomeni di sfruttamento della
manodopera femminile e minorile che le circostanze eccezionali incoraggiavano. Turati, parlando alla
Camera nei giorni della concessione dei pieni poteri al Governo, aveva indicato il dovere per i socialisti
di impegnarsi in un “opera di Croce Rossa civile”. Gli amministratori dei comuni socialisti si attivarono per
provvedere le popolazioni di rifornimenti, di viveri e alimenti, per allestire servizi di prima accoglienza per i
profughi, preoccupandosi anche di tutelare per quanto possibile le attività economiche e produttive del
paese.
Esercitazione lezione n. 18
1) Illustrare le caratteristiche della guerra di trincea.
Una caratteristica della prima guerra mondiale fu la guerra di trincea, una tattica di guerra che vide gli
eserciti nemici scontrarsi per lunghi periodi di tempo. La trincea era una elementare fortificazione
difensiva: erano fossati scavati nel terreno per proteggere e riparare dal fuoco nemico i soldati. Pensate
come provvisori ripari per i militi in attesa di sferrare l’attacco, le trincee divennero, in seguito al
cristallizzarsi della situazione di sostanziale immobilismo dei fronti che caratterizzò i primi anni di guerra, la
vera e propria sede permanente della I guerra mondiale. La linea sulla quale gli eserciti combattevano si
chiamava fronte; rapidamente tutta l’area del fronte venne ricoprendosi di una fitta rete di trincee, cioè
fosse collocate su più linee, collegate tra loro da camminamenti e corridoi sotterranei che
progressivamente vennero protette col filo spinato e accorgimenti vari, così da renderle inespugnabili. Le
trincee avevano anche postazioni di tiro, cioè luoghi dai quali i soldati potevano sparare. Il fronte era quindi
composto da molte trincee: la prima trincea era posta di fronte al nemico; dietro la prima vi erano tutte le
altre collegate tra loro da passaggi sotterranei. Dietro tutte le trincee si collocavano le retrovie con centri di
comando, servizi medici, punti di ristoro, depositi.
2) Cosa si intende per “fronte interno”?
In tutti i paesi coinvolti nella I guerra mondiale emerse un nuovo concetto con il quale si intendeva
promuovere la mobilitazione dell’intera nazione nella guerra: “il fronte interno”. L’obiettivo delle autorità
era convogliare tutte le energie dei rispettivi paesi nello sforzo bellico al fine della vittoria. Per far questo
occorreva rendere partecipi del clima bellico, non solo i soldati o le popolazioni che risiedevano vicino al
fronte ma tutta la popolazione civile per impedire che si diffondessero idee neutraliste, pacifiste o
antinazionali (“disfattiste”). Per la prima volta nella storia, infatti i combattimenti e la vita che si svolgeva al
fronte venivano raccontati e divulgati attraverso lettere (sebbene agisse la censura militare), giornali,
racconti, finendo inevitabilmente per coinvolgere la società civile non combattente.
3) Quali ripercussioni ebbe sull’economia il prolungarsi del conflitto bellico?
Il prolungarsi degli eventi bellici indusse un cambiamento anche nell’economia: nei vari paesi belligeranti si
verificò una vera e propria riorganizzazione interna dell’apparato produttivo finalizzata a sostenere lo
sforzo bellico che prevedeva una presenza sempre più forte dell’intervento statale. Si dilatarono a
dismisura alcuni settori industriali più interessati alla produzione delle armi e delle forniture militari
(siderurgico, meccanico e chimico) e furono posti sotto il diretto controllo dello Stato, che distribuiva le
materie prime e dettava ritmi e priorità della produzione. Anche ai lavoratori impiegati nella produzione
industriale fu imposta una sorta di disciplina militare nel lavoro, che venne organizzato secondo tempi rigidi
e serrati. La distribuzione e i prezzi dei prodotti agricoli furono regolati e in alcuni casi razionati. Questa
forma di pianificazione dell’economia e della società ebbe una traduzione più ampia in Germania, tanto che
in merito a questa esperienza si parlò di “socialismo di guerra”.
Le modifiche intervenute nelle forme di gestione dell’economia trovarono corrispondenza nei mutamenti
realizzati nell’organizzazione dell’apparato statale e quindi della burocrazia statale, che complessivamente
venne ampliata per rispondere ai compiti crescenti di cui venivano investiti i governi. In generale il potere
degli organi esecutivi si rafforzò a danno di quelli rappresentativi, anche per rispondere alle necessità dei
tempi di guerra che richiedevano decisioni veloci e che dovevano rimanere quanto più riservate, comunque
conosciute da pochi. Inoltre in tutti gli Stati coinvolti nel conflitto il potere dei militari risultò indubbiamente
accresciuto: sebbene essi fossero comunque dipendenti e subordinati al potere e al controllo degli organi
costituzionali, nei fatti, durante il tempo di guerra, gli stati maggiori, cioè i vertici militari, ai quali spettava
la definizione delle politiche degli eserciti, acquisirono un potere illimitato, non solo per quanto riguardava
l’andamento della guerra, ma giunsero ad esercitare condizionamenti importanti anche sulle scelte
politiche in generale delle classi dirigenti. Questa situazione alterata negli equilibri di potere interni agli
assetti istituzionali dei singoli paesi si venne a creare praticamente in tutti gli stati coinvolti nel conflitto: in
Germania dove a detenere il maggiore potere, in questa fase, fu il maresciallo Hindenburg, che esercitò il
comando supremo dell’esercito tedesco e il suo collaboratore il generale Ludendorff, così come Francia,
dove il governo di unione nazionale fu guidato da Georges Clemanceau, e in Gran Bretagna, dove invece il
governo di guerra fu presieduto da David Lloyd George.
L’obiettivo principale di questi governi fu la mobilitazione compatta di tutta la nazione e quindi di tutti i
cittadini, e non solo degli eserciti, verso l’obiettivo della vittoria. Questo implicava anche l’instaurarsi di
forme di controllo e sorveglianza serrata sulla popolazione per combattere l’influenza dei cosidetti “nemici
interni” portatori di messaggi “disfattisti”, che avrebbero potuto fiaccare le capacità di resistenza dei vari
paesi. Tutti i governi, per la prima volta, ricorsero quindi ampiamente a forme di propaganda sistematica
per raggiungere l’obiettivo della compatta saldatura di tutte le fasce di popolazione in un unico fronte a
sostegno dello sforzo bellico: l’affissione di manifesti murari, l’organizzazione di iniziative di solidarietà
verso i combattenti, la creazione di comitati e associazioni per la resistenza interna.
4) Quali furono le tesi proposte da Lenin alla conferenza di Zimmerwald?
Alla Conferenza di Zimmerwald (1915) Lenin, leader dei bolscevichi russi, già si era segnalato per la sua
idea, secondo la quale i partiti socialisti europei avrebbe dovuto sfruttare l’occasione della guerra e
dell’esasperazione provocata da essa negli animi della popolazione per provocare più rapidamente il crollo
del capitalismo. Queste tesi furono riproposte e confermate da Lenin nella sua celebre opera
L’imperialismo fase suprema del capitalismo (1917) e trovarono il sostegno da parte di molte delle
minoranze di sinistra estrema attive all’interno dei partiti socialisti europei. In tal modo si ricreava la
spaccatura tra riformisti (portatrici di una posizione pacifista che individuava il suo fine nel raggiungimento
di una pace negoziata e del ritorno ad una vita politica organizzata) e rivoluzionari. L’evoluzione della
Rivoluzione Russa del 1917 in concomitanza con quella degli avvenimenti bellici avrebbe ampliato e reso
questa frattura così significativa da rivelarsi non più sanabile.
Esercitazione lezione n. 19
1) Perché il 1917 può essere considerato l’anno di svolta del I conflitto mondiale?
Il 1917 si caratterizzò come l’anno di svolta del conflitto. Soprattutto due accadimenti impressero una
direzione decisiva al corso della guerra: All’inizio di marzo 1917 uno sciopero a Pietrogrado (la capitale
russa si chiamò così solo dal 1914) si allargò divenendo generale, assumendo il significato di una
manifestazione diretta contro il regime zarista. I soldati all’ordine di sparare sui dimostranti si unirono ad
essi e ciò decretò la fine del regime zarista: lo zar abdicò il 15 marzo e fu in seguito arrestato con la famiglia.
Questi accadimenti furono la premessa al crollo militare della Russia. Intanto la Germania aveva ripreso in
pieno la guerra sottomarina per mettere in ginocchio le economie dei paesi nemici. Questa mossa della
Germania condusse alla rottura diplomatica con gli Stati Uniti che all’inizio di aprile entrarono in guerra a
fianco dell’Intesa. L’aiuto degli Stati Uniti all’Intesa risultò decisivo, oltre all’ausilio di 1.700.000 uomini agli
eserciti alleati, gli Stati Uniti misero a disposizione dell’Intesa il loro enorme potenziale industriale. Dopo il
crollo del regime zarista in Russia si verifico la dissoluzione dell’esercito.
2) Quali furono le conseguenze della disfatta di Caporetto? Quando avvenne?
Nell’agosto del 1917 Benedetto XV intervenne, rivolgendosi ai vari governi, invitandoli a porre fine
“all’inutile strage” e a pensare alla conclusione di una pace senza annessioni. Tale appello cadde nel vuoto e
fu accolto con irritazione dai destinatari per le assonanze di tale richiamo con la propaganda pacifista
socialista e con le parole provenienti dal Soviet di Pietrogrado per una pace “senza annessioni” e per
un’azione comune e decisiva verso la pace. Anche in Italia il 1917 si rivelò come l’anno più duro della
guerra. Cadorna, tra maggio e agosto riprese l’attacco alle postazioni austriache con due battaglie che si
conclusero con perdite umane molto gravi e in seguito alle quali un senso di stanchezza molto profonda si
diffuse tra i combattenti, fra i quali la propaganda pacifista socialista faceva sempre più presa anche se
tutto ciò non si tradusse in episodi di insubordinazione collettiva. Anche fra i civili si verificarono spontanee
proteste causate dai disagi alimentari e dal caroviveri. Solo a Torino nell’agosto 1917 ebbero luogo dei
tumulti popolari scoppiati per la mancanza del pane, che registrarono grande partecipazione operaia.
Qualche settimana prima, durante una seduta pubblica alla Camera, il deputato socialista Claudio Treves
aveva riassunto l’atteggiamento del Partito Socialista con una frase che ebbe vasta eco, “ il prossimo
inverno non più in trincea “, perché dette voce alle aspirazioni di pace diffuse fra le masse popolari . Il 24
ottobre del 1917 gli Austro- Tedeschi, consapevoli del momento delicato del nemico, sferrarono un attacco
alle linee italiane sull’alto Isonzo, sfondandole vicino al villaggio di Caporetto. L’offensiva nemica fu
imponente, congegnata secondo un’efficace strategia e preceduta da un violento fuoco di artiglieria.
L’attacco colse l’esercito italiano di sorpresa, rivelandone l’inadeguatezza a reggere un urto di così ampie
dimensioni. Gli Austriaci entrarono in Friuli mentre gli Italiani persero rapidamente molte posizioni sulle
quali erano attestati dall’inizio del conflitto. Alcuni reparti dell’esercito riuscirono a ritirarsi con ordine, altri
si disgregarono; molti soldati, insieme ai profughi civili si diressero verso il Veneto. Solo dopo due settimane
l’esercito dimezzato riuscì ad attestarsi sulla nuova linea difensiva del Piave e davanti al massiccio del
Monte Grappa, mentre il nemico aveva guadagnato circa 10.000 chilometri quadrati di territorio italiano.
L’invasione del territorio nazionale trasformò improvvisamente il volto della guerra per L’Italia che divenne
da allora una guerra difensiva, una lotta per la salvezza del paese che ebbe il potere di creare un clima di
coalizione patriottica che coinvolse l’esercito ma anche la popolazione civile. Le forze politiche, in questo
momento di pericolo per il paese ritrovarono unità; non solo proseguirono nel paese l’azione di aiuto alla
popolazione civile, ma ancor più sostennero e incoraggiarono anche dalla tribuna parlamentare lo sforzo di
resistenza del paese contro l’aggressore. Si cercò di motivare i soldati delineando la concreta possibilità di
ottenere miglioramenti materiali in caso di vittoria; in queste circostanze iniziò a diffondersi lo slogan della
terra ai contadini.
3) Cosa stabilivano i 14 punti di Wilson?
In seguito alla sfida lanciata da Lenin, per le potenze dell’Intesa divenne necessario contrapporre alle
dichiarazioni dei bolscevichi una dichiarazione altrettanto forte di principio del mondo liberaldemocratico.
Si doveva rimarcare il carattere ideologico della guerra, presentandola come una lotta per la democrazia
contro l’autoritarismo, come una difesa della libertà dei popoli contro le ambizioni egemoniche degli Imperi
Centrali. Si fece interprete di questa esigenza il Presidente americano Wilson che già a partire dal 1917,
quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, rimarcò che gli Stati Uniti non sarebbero entrati in guerra per
realizzare allargamenti territoriali, ma al fine di riaffermare la libertà dei mari violata dai tedeschi, di
difendere i diritti delle nazioni e per porre le basi di un nuovo ordine internazionale fondato sulla pace e
“sull’accordo fra popoli liberi”. Nel gennaio 1918, prima ancora della fine del conflitto, Wilson presentò un
documento programmatico, i famosi “quattordici punti” ,nel quale indicò i principi che dalla fine del
conflitto in avanti avrebbero dovuto ispirare la politica di pace e le nuove prospettive della politica
internazionale. Fra i punti più importanti vi erano: il principio di autodeterminazione o autodecisione dei
popoli, l’abolizione della diplomazia segreta, il ripristino della libertà di navigazione dei mari, la riduzione
delle barriere doganali, la riduzione degli armamenti , la creazione di una sorta di sistema di sicurezza
collettivo con la creazione della Società delle Nazioni (un nuovo organismo internazionale, al quale
avrebbero dovuto aderire tutte le nazioni e che avrebbe dovuto risolvere con l’arbitrato le controversie fra
le nazioni, evitando il ricorso alla guerra). Wilson forniva anche alcune indicazioni concrete sul nuovo
assetto territoriale che avrebbe dovuto determinarsi alla fine del conflitto: il pieno ripristino dei territori di
Belgio, Serbia e Romania, l’evacuazione dei territori russi occupati dai Tedeschi, l’opportunità di “sviluppo
autonomo” per le popolazioni soggette all’Impero austro – ungarico e a quello turco, una rettifica delle
frontiere italiane secondo linee individuate dalla nazionalità. I capi di stato dell’Intesa non approvavano
tutte le parti del programma di Wilson, ed erano sicuramente più preoccupati di ottenere quelle
ricompense territoriali ed economiche che valessero a ripagare lo sforzo delle rispettive nazioni impegnate
nel conflitto, tuttavia furono indotti ad appoggiare , almeno a parole, l’impostazione wilsoniana, da un lato
perché dominati dalla preoccupazione di porre un argine al possibile contagio rivoluzionario dell’Europa
che poteva derivare dalla Russia bolscevica , dall’altro perché avevano necessità del concreto aiuto
americano per terminare vittoriosamente la guerra.
4) Perché Lenin decise di rendere pubblici i trattati segreti stipulati tra le nazioni partecipanti alla
guerra?
Intanto i primi di novembre del 1917 il Partito bolscevico, guidato da Lenin, prese il potere rovesciando il
governo provvisorio. Il potere fu assunto da un Governo rivoluzionario bolscevico che dichiarò il suo favore
e la disponibilità per una pace “senza annessioni e senza indennità”, decise di mettere fine alla guerra,
firmando l’armistizio con gli Imperi centrali. Lenin fece anche pubblicare i trattati segreti, tra i quali anche il
Patto di Londra concluso con l’Italia, stipulato anche dalla diplomazia zarista, per dimostrare che il conflitto,
come egli aveva sempre sostenuto, si fosse originato da motivi imperialistici. Firmando la pace Lenin riuscì a
salvare il nuovo Stato socialista e soprattutto a dimostrare che la guerra scatenata da motivi imperialistici
poteva essere certamente mutata in rivoluzione. Con la pubblicazione dei trattati segreti Lenin aveva
lanciato una sfida alle potenze occidentali (dell’Intesa), rivelando come, oltre al conclamato imperialismo
tedesco e austriaco, esistesse un altrettanto interessato imperialismo delle potenze dell’Intesa, e come la
caratteristica di guerra per la democrazia e per la libertà che esse avevano voluto dare alla loro lotta fosse
in larga parte fittizia: dietro alle libere istituzioni di questi paesi agiva una volontà di dominio non meno
concreta di quella tedesca.
4) Cosa stabilì il Trattato di Versailles?
La guerra, che avviatasi da un episodio locale, si era convertita in uno scontro tra due schieramenti di
potenze che si contendevano il primato sulla scena europea e mondiale, si chiudeva con un gravissimo
bilancio di vite umane: circa 8 milioni e mezzo di morti e 20 milioni di feriti gravi e mutilati. La conferenza di
Pace si aprì nel gennaio 1919 nella Reggia di Versailles, vicino a Parigi, protraendosi per circa un anno e
mezzo. Le potenze che vi presero parte dovevano ridefinire i confini d’Europa, dopo il crollo di ben quattro
imperi (tedesco, austro- ungarico, russo e turco) e stabilire i criteri per la pace. I lavori esclusero dalla
conferenza i paesi vinti (I partecipanti alla Conferenza furono quindi il presidente degli Stati Uniti Wilson, il
primo ministro francese, il capo del Governo inglese, il presidente del Consiglio italiano Vittorio Emanuele
Orlando con il ministro degli esteri Sidney Sonnino). Si venne a creare una contrapposizione di fatto tra due
concezioni opposte della pace: tra una pace democratica alla quale pensava Wilson e una pace punitiva alla
quale puntavano le potenze europee. Con il Trattato di Versailles (giugno 1919) la Germania doveva
restituire l’Alsazia-Lorena alla Francia, la cessione alla ricostituita Polonia indipendente di alcune zone ad
est, abitate solo in parte da Tedeschi. Alla Germania furono tolte le colonie che vennero spartite tra
Francia, Gran Bretagna e Giappone. La parte economica e militare del trattato stabilì per la Germania una
punizione ancora più severa, ritenuta responsabile della guerra, essa avrebbe dovuto versare a titolo di
riparazione ai paesi vincitori somme adeguate a pagare le distruzioni e le perdite subite durante il conflitto
(la cifra non venne immediatamente quantificata ma era evidente che avrebbe ostacolato una ripresa
economica in tempi brevi). Alla Germania venne imposta la smilitarizzazione (l’abolizione del servizio di
leva, la rinuncia alla marina da guerra, la riduzione al minimo indispensabile del suo esercito, non oltre i
100.000 uomini), la “smilitarizzazione” della Valle del Reno, che si prevedeva che per 15 anni venisse
controllata da truppe francesi, inglesi e belghe. Queste condizioni valsero a imprimere un duro colpo alla
Germania non solo materiale ma anche morale, furono vissute dalla Germania come un’offesa al proprio
orgoglio nazionale, alimentando all’interno una decisa volontà di rivalsa. I vincitori e specialmente i Francesi
avevano invece inteso queste misure come l’unica via per colpire la Germania, ostacolandole un recupero
che l’avrebbe ricollocata naturalmente e rapidamente, data la sua ricchezza e la sua potenza industriale, tra
le grandi potenze.
5) Cosa stabilì il Trattato di Saint German?
Il trattato di Saint- Germain (settembre 1919) stabilì lo smembramento del vecchio Impero Austro-
Ungarico con il riconoscimento delle nuove nazionalità. Ad essere penalizzati furono i gruppi etnici prima
dominanti, cioè Tedeschi e Ungheresi, che furono considerati come popoli vinti. La nuova Repubblica di
Austria fu estremamente ridotta a livello territoriale (più o meno il territorio attuale) ma con una capitale,
Vienna, che era ormai spropositata rispetto alle dimensioni del nuovo Stato. L’Austria fu costretta a cedere
all’Italia le regioni del Trentino, dell’Alto-Adige e della Venezia Giulia; alla Serbia cedette invece i territori
della Croazia, della Slovenia, della Bosnia e dell’Erzegovina che si unirono a costituire il nuovo Stato della
Jugoslavia. Nel trattato si stabiliva inoltre che l’indipendenza dell’Austria sarebbe stata garantita dalla
Società delle Nazioni, in via di costituzione, in modo tale da scongiurare la possibilità di una sua unificazione
con la Germania (ipotesi invece ben accolta dai paesi interessati).
6) Quando nacque la Società delle Nazioni? Quali furono le sue contraddizioni?
Come indicato da Wilson nei 14 punti, a garantire il rispetto del nuovo ordine territoriale e ad assicurare
l’avvio di una nuova stagione di pace avrebbe dovuto provvedere la Società delle Nazioni, un nuovo
organismo internazionale che venne istituito soprattutto per volere degli Stati Uniti alla Conferenza di
Versailles. Questa istituzione, in quanto sovranazionale e rappresentativa di tutti gli Stati, prevedeva nel
suo Statuto la rinuncia alla guerra come strumento di soluzione dei contrasti, il ricorso all’arbitrato per
dirimere le controversie internazionali, l’adozione di sanzioni economiche a quegli Stati che,
contravvenendo a queste regole avessero messo in atto politiche di aggressione verso altri Stati. La reale
efficacia dell’azione della Società delle Nazioni fu sin dall’inizio compromessa da alcune contraddizioni di
fondo che ne minavano la reale efficacia: la più grave era l’esclusione iniziale delle potenze sconfitte e della
Russia. Inaspettatamente inoltre, proprio il paese che era stato il principale fautore della nascita di questo
organismo, gli Stati Uniti, non aderirono ad esso. Intercettando i principali sentimenti diffusi nell’opinione
pubblica americana, che era contraria ad un coinvolgimento eccessivo degli Stati Uniti nello scenario
europeo dal quale era nato il conflitto mondiale, il Senato degli Stati Uniti rifiutò l’adesione del paese alla
Società delle Nazioni e venne meno anche l’impegno preso da Wilson sulla funzione di garanzia che gli Stati
Uniti avevano promesso sui nuovi confini franco-tedeschi. Alle successive elezioni presidenziali americane,
Wilson, colpito da una grave malattia, non si presentò e la vittoria andò ai repubblicani che aprirono una
fase di cosidetto “isolazionismo” per gli Stati Uniti, consistente nel venir meno da parte del paese alle
proprie responsabilità di maggiore potenza mondiale, e nel ripiegamento ad un’area di influenza definita
sul piano continentale. La Società delle Nazioni finì per essere controllata da Gran Bretagna e Francia e non
si dimostrò all’altezza della funzione di prevenzione dei conflitti che le era stata assegnata.
Esercitazione lezione n. 20
1) Quali furono le cause che portarono allo scoppio della Rivoluzione Russa?
Il malcontento sociale arrivò all’estremo con la partecipazione alla Grande Guerra. L’Impero Zarista non
aveva conosciuto processi di modernizzazione di nessun tipo. Sul piano politico i sudditi non sono diventati
cittadini elettori. L’abolizione della servitù della gleba fu tardiva e con scarsi risultati.
Segnali importanti del malcontento sociale e del dissenso politico diffuso nell’Impero zarista in realtà si
erano già manifestati in più occasioni: tra il 1902 e il 1904 si erano verificati in Russia una serie di scioperi,
sempre più animati. Ad aggravare ulteriormente il disagio politico e sociale era intervenuta la guerra russo-
giapponese del 1904. La guerra era scoppiata per motivi imperialistici. Il motivo era stata la preoccupazione
del Giappone per l’espansione russa in zone come la Manciuria e la Corea che riteneva appartenere alla sua
sfera di influenza (anche il Giappone era interessato ad imporre la propria influenza in Cina e nella zona
dell’Estremo Oriente). Il Giappone vinse ripetutamente la Russia con riflessi gravi sulla politica interna.
Gennaio 1905 ebbe luogo una manifestazione pacifista guidata da un prete ortodosso per chiedere alcune
riforme (una limitazione dei prezzi dei beni di consumo alimentari, un'amnistia per i prigionieri politici e la
concessione di un Parlamento, cioè di un’istituzione di tipo rappresentativo). La manifestazione fu repressa
nel sangue con un massacro noto come la "domenica di sangue". Questa reazione da parte dello Zar
produsse una frattura definitiva tra il regime zarista e il suo popolo. Le agitazioni e gli scioperi si estesero
ovunque, generando un clima di insurrezione che portò alla formazione a San Pietroburgo di un organismo
nuovo, il Soviet, un consiglio di rappresentati degli operai (il cosiddetto Soviet, cioè consiglio, organismo di
rappresentanza diretta dei lavoratori, di operai e contadini).
2) Cosa si intende per paradosso della Rivoluzione russa?
Lenin dopo la deposizione dello Zar, voleva che la Russia uscisse dal conflitto perché pensava che la
popolazione, già provata duramente dalla dominazione assolutista dello Zar, fosse esasperata dai duri anni
di guerra e che ciò creasse le condizioni più favorevoli alla Rivoluzione. Il paradosso del caso russo
consistette nel fatto per cui l’avvenimento rivoluzionario fu avviato in contrasto con le stesse teorie
marxiste che avevano previsto che la rivoluzione sociale, la rivoluzione comunista, dovesse avvenire in un
paese a capitalismo avanzato, dove cioè lo sviluppo capitalistico, giunto al culmine del suo sviluppo,
sarebbe crollato sotto il peso delle sue contraddizioni, evidenziando limiti e difetti non solo del modello di
sviluppo economico capitalista, ma anche del modello di organizzazione sociale corrispondente. La
rivoluzione invece, avvenne e i bolscevichi avevano voluto che si avviasse in Russia, paese dove lo sviluppo
del capitalismo industriale stava compiendo i primi timidi passi. La tesi di Lenin era che, nonostante questo
ritardo russo nello sviluppo dell’economia capitalista, in Russia, proprio l’esperienza della guerra
consentisse di bruciare i tempi, permettendo di saltare di netto la fase dello sviluppo economico
capitalistico, prevista dalle teorie di Marx, per arrivare alla rivoluzione.
3) Cosa prevedeva la riforma agraria promossa da Stolypin tra il 1907 e il 1910? Quali erano gli
intenti del primo ministro?
Il I ministro Stolypin, tra il 1907 e il 1910, intraprese una riforma agraria che modificò enormemente la
società russa: decise infatti di eliminare le tipiche comunità di villaggio (mir) alle quali
appartenevano le proprietà agricole, per incrementare la piccola e media proprietà contadina. Si trattò di
una riforma importante perché introduceva in Russia (dove si era passati dalla servitù della gleba al mir) un
concetto nuovo e insolito, quello di libera proprietà contadina. Stolypin aveva comunque intrapreso questa
riforma in chiave conservatrice e reazionaria: sperava di creare così un ceto di piccoli proprietari agrari, i
kulaki, che sarebbe stato certamente conservatore e filogovernativo, perché interessato a mantenere il
beneficio recentemente acquisito. Ci si attendeva inoltre che i contadini non provvisti di mezzi economici
per divenire kulaki, avrebbero lasciato le terre, preferendo impiegarsi nell’industria in formazione,
divenendo quindi manodopera poco costosa per la stessa industria. Gli effetti della riforma tuttavia non
furono quelli attesi, il clima politico andò infatti sempre più esasperandosi fino all’assassinio dello stesso
Stolypin, compiuto da un socialista rivoluzionario (1911).
4) Cosa sono le “tesi di aprile”?
Lenin, guida dei Bolscevichi, giunse dalla Svizzera a Pietrogrado a metà dell’aprile del 1917.
Lenin precisò subito quella che avrebbe dovuto essere la linea politica rivoluzionaria del proletariato russo,
diffondendo un documento in dieci punti, le famose “tesi di aprile”. In esse egli affermava l’immediata
necessità di uscire dalla guerra; in contrasto con la teoria marxista ortodossa, secondo la quale la
rivoluzione comunista sarebbe dovuta scoppiare nei paesi più evoluti sul piano dell’economia capitalistica,
come esito delle contraddizioni del sistema capitalistico stesso giunto alla sua ultima fase di sviluppo,
sosteneva invece che fosse proprio la Russia, in quanto “anello più debole” della catena imperialista a
presentare le condizioni oggettive più favorevoli per provocare il crollo del sistema. Secondo Lenin spettava
dunque al proletariato e ai contadini poveri assumere tutto il potere e non si doveva instaurare una
repubblica parlamentare ma una repubblica di soviet di operai e contadini. Il primo passo da compiere era
quello di conquistare la maggioranza nei soviet e di perseguire gli obiettivi della pace, della terra ai
contadini e del controllo sociale della produzione da parte dei consigli operai. Questo programma aveva
tratti estremisti ed utopici ma il grande pregio di interpretare il sentire prevalente fra le masse popolari; tali
caratteristiche consentirono ai Bolscevichi di guadagnare crescente consenso fra operai e contadini anche
se al tempo stesso valsero ad approfondire le distanze tra i Bolscevichi e le altre forze rivoluzionarie che
sostenevano il governo e anche la decisione di proseguire la guerra.
Esercitazione lezione n. 21
1) Cosa si intende per comunismo di guerra?
Quando i Bolscevichi presero il potere l’economia russa era in uno stato di caos e di grave crisi che gli anni
della rivoluzione e della guerra civile avevano contribuito ad approfondire: il decreto sulla terra aveva avuto
l’effetto di far sorgere tante piccole aziende che producevano per il proprio autoconsumo e non
contribuivano a rifornire le città di generi alimentari; nel settore industriale alcune fabbriche furono lasciate
ai vecchi padroni e condotte sotto la supervisione dei consigli operai; altre furono amministrate
direttamente dai lavoratori, altre ancora direttamente dallo Stato. In ambito finanziario le banche furono
nazionalizzate e i debiti con l’estero vennero cancellati. Lo Stato era impossibilitato a riscuotere le tasse e
per far fronte alle urgenze ricorreva alla stampa di carta moneta che tuttavia non aveva alcun valore. In
breve si giunse ad una situazione prossima al collasso generale per cui tornò in essere il sistema del baratto
e il pagamento delle retribuzioni in natura. Fu a partire dall’estate del 1918 che i Bolscevichi, che fino ad
allora avevano agito senza seguire una precisa linea di intervento, decisero di introdurre un sistema
attraverso il quale mobilitare la produzione, dirigendola centralmente. Tra il 1918 e il 1920 fu realizzato un
sistema di organizzazione economica che prese il nome di “comunismo di guerra” e che si modellò sul
“socialismo di guerra” instaurato in Germania durante il conflitto mondiale. La prima esigenza al quale i
Bolscevichi si proponevano di far fronte era quella dei rifornimenti alimentari alle città, dove si era creata
una situazione di carestia vera e propria. Per far questo si ricorse all’instaurazione di un sistema economico
improntato ad un rigoroso razionamento. Nelle campagne furono formate squadre armate di operai e
contadini che requisivano i generi alimentari dai contadini facoltosi, depositandoli presso comitati, costituiti
nei principali centri rurali, col compito della raccolta e della redistribuzione. Si cercò di promuovere la
formazione di comuni agricole collettive (i kolchoz) e vennero create “fattorie sovietiche” ( sovchoz)
amministrate dallo Stato o dai soviet locali. In ambito industriale un decreto del giugno 1918 nazionalizzò
tutti i settori chiave della produzione: si introdussero funzionari di partito accanto alle classi dirigenti delle
imprese, si procedette ad una riorganizzazione delle fabbriche in base a principi di efficienza (fu
reintrodotto il sistema del salario calcolato in base al rendimento) superando quindi i principi di
egualitarismo salariale. Il comunismo di guerra consentì al regime il corretto funzionamento di alcune
attività fondamentali dello Stato e di alcuni aspetti centrali della vita organizzata, permise inoltre ai
Bolscevichi di nutrire e di assicurare armamenti all’esercito;
I risultati di questo nuovo corso dal punto di vista economico furono invece fallimentari: nel 1920 la
produzione industriale risultò diminuita di ben sette volte rispetto a quella del 1913, le città più grandi
erano afflitte dalla disoccupazione e dalla mancanza di cibo e merci, mentre nelle campagne i raccolti
cerealicoli risultavano ridotti di più della metà, se confrontati con il periodo precedente la guerra. Il regime
di rigido razionamento dei generi alimentari che era stato introdotto colpì le vecchie classi possidenti ma
anche le masse operaie e soprattutto contadine, suscitando, da parte di queste ultime, reazioni
apertamente ostili: i contadini infatti vedendosi confiscata larga parte del raccolto, nascondevano le scorte,
riducevano le semine e macellavano anche gli animali da lavoro. Anche il tentativo da parte del governo di
controllare gli scambi, abolendo il commercio privato, non ebbe l’esito sperato: gli scambi avvenivano in
maniera illegale e proliferava “la borsa nera”. Per rispondere alle necessità più pressanti le autorità
ordinavano spesso azioni di requisizione indiscriminata che esasperavano il disagio largamente diffuso nelle
campagne dove, tra il 1920 – 21 si moltiplicarono gli episodi di rivolta violenta. La situazione raggiunse il
suo punto più critico nella primavera – estate del 1921, quando, ad aggravare lo stato di guerra civile,
intervenne un periodo di siccità e una carestia che si manifestò soprattutto nelle campagne della Russia e
dell’Ucraina, sterminando più di tre milioni di vittime. Questo evento rappresentò un significativo
fallimento per il regime sovietico che infatti si impegnò in ogni modo per cercare di nascondere la realtà
all’opinione pubblica internazionale. Voci critiche verso il governo bolscevico emersero anche fra il ceto
operaio, sempre più provato dagli stenti, e soprattutto deluso dal naufragio di ogni ideale di “democrazia
operaia”: per assicurare l’efficienza produttiva il governo bolscevico impose un controllo sempre più rigido
e autoritario sull’economia e anche sulle fabbriche, alle quali venne imposto un regime di militarizzazione e
all’interno delle quali i sindacati vennero privati di ogni autentica funzione di rappresentanza sindacale (ai
sindacati venne tolta ogni funzione di difesa e di rivendicazione delle istanze operaie, divennero “organi
della società socialista”, con il compito primario di garantire la produttività del lavoro) , si limitò la libertà di
cambiare occupazione, i Comitati operai di gestione vennero privati dell’autorità e la direzione venne
affidata ai singoli direttori di fabbrica che furono investiti di poteri assoluti. Il comunismo di guerra ebbe dei
riflessi di natura politica che investirono direttamente i problemi della struttura organizzativa del Partito
comunista e dei suoi rapporti con la classe operaia
2) Cosa venne stabilito durante il II Congresso dell’Internazionale Comunista? Quali furono le
conseguenze?
Il II Congresso dell’Internazionale Comunista (III Internazionale/Comitern) che si svolse a Mosca nel luglio
del 1920, in coincidenza con la vittoria sui “bianchi” e l’avanzata in Polonia. A questo secondo
appuntamento parteciparono 69 delegati da tutte le parti del mondo; durante lo svolgimento dell’incontro
fu Lenin a fissare i cosiddetti 21 punti, cioè le condizioni alle quali i partiti europei dovevano adeguarsi per
essere ammessi a far parte dell’Internazionale: i partiti aderenti al Comintern avrebbero dovuto
organizzarsi secondo l’esempio del Partito Bolscevico, cambiare il nome in quello di Partito Comunista,
adoperarsi in ogni circostanza per difendere la Russia bolscevica, separarsi dalle correnti riformiste,
espellendo dai vari partiti i suoi esponenti. Gli obiettivi perseguiti da Lenin con la fondazione della III
Internazionale e con le deliberazioni del II Congresso della III Internazionale erano essenzialmente due: il
primo era stato quello di costituire una rete di partiti operai che avrebbero dovuto riconoscere nel Partito
bolscevico il partito guida di tutto il movimento operaio e quindi conformarsi ad esso sia per quanto
riguardava l’organizzazione interna di partito, sia per quanto riguardava le direttive di azione, che
naturalmente erano quelle rivoluzionarie tracciate dal II Congresso del Comintern. Con questo intento,
sostanzialmente raggiunto, Lenin faceva della Russia la centrale del comunismo mondiale, vincolava le
formazioni operaie e rivoluzionarie di tutto il mondo all’impegno di proteggere la “patria del socialismo” e a
promuovere la strategia di azione rivoluzionaria a suo giudizio ancora praticabile; non riuscì invece a
raggiungere il secondo dei suoi obiettivi, ovvero a fare in modo che la maggioranza della classe operaia dei
paesi più sviluppati dal punto di vista capitalistico e industriale convergesse nei vari partiti comunisti legati
alla Russia.
3) Illustrare il Nuovo Corso di Politica Economica (NEP).
Nel 1921 si svolse a Mosca il X Congresso del Partito Comunista che decide sul piano economico di
abbandonare il comunismo di guerra, intollerato dalla popolazione, e di avviare un nuovo corso di politica
economica, la Nep, che introduceva elementi di liberismo per quanto concerneva la produzione e gli
scambi commerciali. I contadini erano sempre tenuti a consegnare ai comitati statali una quota fissa dei
loro raccolti ma era permesso loro di vendere, cioè commerciare le eccedenze. La Nep aveva innanzitutto il
fine di incentivare la produzione agricola in modo che fosse assicurata una maggiore disponibilità di beni
alimentari anche nelle città. L’iniziativa privata venne incoraggiata anche nel settore della piccola industria
produttrice di beni di consumo anche se lo Stato mantenne il controllo sui settori chiave della produzione
industriale (siderurgico, meccanico, elettrico ecc.) oltre che sulle banche. La Nep ebbe effetti positivi e
complessivamente rivitalizzanti sull’economia russa, depressa dal periodo del comunismo di guerra, ma
produsse conseguenze sociali impreviste. Nelle campagne i Kulaki, i contadini proprietari, tornarono a
giocare un ruolo dominante nel controllo del mercato agricolo; la liberalizzazione introdotta nel settore del
commercio, se rese disponibili maggiori quantità di beni di consumo, provocò tuttavia il formarsi di una
classe di commercianti (i cosiddetti nepmen ) che si arricchirono rapidamente, rispetto alla maggioranza
della popolazione delle città costretta a vivere con salari molto bassi e afflitta da un fenomeno di
disoccupazione crescente. Inoltre le piccole imprese fecero registrare progressi maggiori rispetto alle
industrie di Stato, dove non c’era lavoro per tutti e dove i lavoratori ricevevano salari bassi che non erano
suscettibili di essere migliorati per il fatto che lo svolgersi della contrattazione era ostacolata dalla
scomparsa del sindacalismo libero che potesse far valere le proprie istanze di rivendicazione. Proprio su
quella classe operaia che più direttamente aveva animato la rivoluzione ricadevano in tal modo gli effetti
più negativi della Nep.
Esercitazione lezione n. 22
1) Quali furono i principali mutamenti sociali che si poterono riscontrare al termine della I Guerra
Mondiale?
La I Guerra Mondiale si configurò come la più grande esperienza collettiva nella storia dell’umanità, agì
come un potentissimo catalizzatore di trasformazioni in tutti i settori della vita associata. Più di 65 milioni di
uomini erano stati strappati alle loro vite quotidiane, ritrovati ad agire in comunità organizzate rigidamente
gerarchiche, si erano dovuti abituare alla vita in gruppo, così come ad obbedire agli ordini e in certi casi ad
esercitare il potere nei confronti di altri; erano stati inoltre costretti a cimentarsi quotidianamente con
l’esperienza della guerra e quindi della violenza per diversi anni, finendo per assuefarsi ai molteplici casi di
morti violente e alla non considerazione della vita umana, all’uso delle armi.
I combattenti di ritorno dalla guerra ebbero difficoltà di adattamento alla vita civile e si trovarono
impreparati al confronto con una realtà che nel frattempo la guerra aveva decisamente cambiato. Era
cambiato il mondo del lavoro: l’espansione dell’industria in tempo di guerra, con gli uomini al fronte, aveva
comportato l’utilizzo di manodopera non qualificata, in gran parte affluita dalle campagne alle città,
costituita per lo più da donne e da ragazzi molto giovani. Ciò aveva innescato cambiamenti nelle strutture
sociali tradizionali, nel costume e nella mentalità comune: era cambiata la famiglia nella suo tipico carattere
patriarcale, sia per l’assenza prolungata delle figure maschili, dei capi famiglia impegnati al fronte; i giovani
tendevano ad essere più indipendenti dai padri così come le donne, immesse per la prima volta nel mondo
del lavoro, tendevano ad esserlo dagli uomini. Il cinema e la musica portata dai soldati degli Stati Uniti in
Europa si configuravano come potenti attrattive per i giovani e per tutti coloro che erano alla ricerca di
qualche esperienza nuova che servisse in parte a risarcire del tempo perduto, dei disagi e delle sofferenze
patite per colpa della guerra. Tra i problemi più grandi che si trovarono ad affrontare le classi dirigenti di
tutti i paesi ci fu senza dubbio quello dei reduci e del loro reinserimento nella vita quotidiana. I soldati, che
per anni avevano messo a repentaglio la propria vita sulle trincee, tornarono dalla guerra con una nuova
consapevolezza dei propri diritti e con la convinzione di aver maturato una sorta di diritto alla ricompensa
da parte della società. Coloro che avevano occupato ruoli di direzione nell’esercito avevano sviluppato una
certa attitudine caratteriale al comando e faticavano a tornare alle loro occupazioni in posizioni di
subordinazione. Venne a delinearsi ben presto una nuova figura sociale, quella del reduce di guerra, con
una mentalità di tipo “combattentistico”, ispirata da valori di coraggio, di rispetto verso la memoria dei
caduti in guerra, di spirito di corpo con i compagni con i quali avevano condiviso l’esperienza di guerra, di
ripugnanza verso la politica e le contrapposizioni partitiche viste come prive di senso.
2) Cosa si intende per massificazione della politica?
Ad incidere e a rendere acuto il fermento sociale dei primi anni del dopoguerra fu anche la nascita di grandi
associazioni di ex-combattenti che si comportavano come gruppi di pressione in difesa dei propri interessi e
del loro ideali e principi, soprattutto perché, a fronte delle grandi promesse fatte dalle classi dirigenti di
tutti i paesi durante la guerra (assicurazioni sociali, pensioni di invalidità di guerra, sussidi per gli orfani e
per le vedove di guerra, ecc), poche furono effettivamente mantenute, una volta finito il conflitto, a causa
degli enormi problemi economici che tutti i paesi coinvolti nella guerra furono costretti ad affrontare. Le
associazioni degli ex combattenti interpretarono quindi il senso di acuto risentimento provato dai reduci
per le promesse mancate. Finita la guerra, la classe dirigente liberale si trovò ancor più contestata e isolata,
non riuscì a gestire i fenomeni di mobilitazione di massa che il conflitto mondiale aveva suscitato e finì col
perdere l’egemonia di cui aveva goduto fino ad allora. Risultarono favorite quelle forze socialiste e
cattoliche che si consideravano estranee alla tradizione dello Stato liberale, che non erano compromesse
con le responsabilità della guerra e che, inquadrando larghe masse, potevano gestire meglio le nuove
dimensioni “di massa” assunte dalla lotta politica.
Desiderio comune alla gran parte delle classi popolari era che all’interno dei singoli stati si concretizzassero
nuovi assetti sociali e politici che fossero in grado di offrire una risposta alle richieste di salari più alti, di
abitazioni salubri e a buon mercato, di terre da coltivare.
3) Cosa si intende per biennio rosso?
Il “biennio rosso” :1919- 1920
Negli anni successivi alla guerra i partiti socialisti e le organizzazioni sindacali in tutta Europa registrarono
un enorme incremento nel numero di iscritti e nei consensi elettorali tanto che a molti parve il segnale
dell’avvio di un nuovo corso rivoluzionario. I lavoratori, organizzati nei sindacati, ma anche in maniera
spontanea, furono i protagonisti di un’intensa fase di rivendicazione con la quale in generale gli operai non
solo furono capaci di difendere le proprie retribuzioni e anzi di migliorarle, ma addirittura di ottenere la
riduzione dell’orario di lavoro a otto ore al giorno, cioè di ottenere una “storica rivendicazione” del
movimento operaio che da più o meno trent’anni era inserita nella piattaforma programmatica dei partiti e
dei sindacati socialisti. L’obiettivo delle otto ore lavorative fu raggiunto in quasi tutti i principali paesi
europei nel dopoguerra. L’enorme suggestione esercitata sul movimento operaio a livello internazionale
dagli eventi della Rivoluzione Russa radicalizzò in generale gli orientamenti del movimento operaio e in
particolare l’azione dei gruppi socialisti più estremi, così all’insegna del motto “Fare come in Russia” si
formarono in molti paesi europei i soviet , i consigli operai sul modello dei soviet russi, col proposito di
mettere in discussione non solo la questione della gestione e dell’organizzazione del potere nelle fabbriche
ma addirittura nello Stato. Questi organismi, formatisi spontaneamente, si ponevano in maniera
antagonistica rispetto alle tradizionali organizzazioni dei lavoratori: come i soviet in Russia volevano
costituire delle rappresentanze dirette del movimento operaio e proletario e degli organi dirigenti e di
governo della futura società socialista. L’intensa fase di rivendicazione del 1919- 1920 investì i vari stati
europei in modo diverso. Nei due principali paesi vincitori la Gran Bretagna e la Francia la mobilitazione fu
meno intensa e i governi riuscirono a fronteggiare abbastanza agevolmente la pressione rivendicativa degli
operai. In Germania, in Austria e in Ungheria, cioè in alcuni dei paesi sconfitti, dove al clima di agitazione
sociale diffusa si aggiunsero i problemi legati alla sconfitta nella guerra e alla modifica degli assetti
istituzionali, si verificarono invece dei veri e propri moti rivoluzionari che furono tuttavia prontamente
tacitati. Il motivo di questi fallimenti è da ricercarsi nei diversi contesti esistenti in Russia e negli altri Stati
europei: in Russia la rivoluzione intervenne in un quadro connotato da un sistema di economia capitalistica
agli inizi del suo sviluppo, dove la classe borghese era poco numerosa e il movimento operaio aveva
maggiore consuetudine con forme di lotta di tipo cospirativo; in Europa la classe borghese era numerosa,
anche se danneggiata dalla guerra, il sistema capitalistico era una realtà consolidata, anche se indebolita e
trasformata dagli anni di guerra, e il movimento operaio aveva ormai sviluppato una prassi di azione legale
all’interno delle istituzioni. Gli eventi e il mito della rivoluzione d’ottobre ebbero l’effetto di approfondire il
distacco tra le frange più radicali e rivoluzionarie del movimento operaio e il settore più ampio di esso, che
invece agiva nell’ambito dei partiti socialdemocratici e nelle affini organizzazioni sindacali, che operavano
nella sfera economica, non politica, ma d’intesa e in maniera complementare coi partiti socialisti di
riferimento, attivi in ambito politico. Il confronto fra le due correnti del movimento operaio era relativo a
questioni di tattica ma anche a questioni centrali che riguardavano ad esempio il tema del rapporto tra
democrazia e socialismo, e, in relazione ad esso la questione dell’azione nell’ambito delle istituzioni
rappresentative. La separazione fra le due correnti, socialdemocratica e comunista, del movimento operaio,
sancita già nel 1919 con la costituzione dell’Internazionale Comunista, fu decisa e venne realizzata nella
prospettiva dell’apertura di un corso rivoluzionario che ad una parte del movimento operaio stesso (quella
più radicale ed estrema) pareva imminente (atteso da un giorno all’altro). Nei fatti tuttavia, questa
prospettiva, cioè l’avvio di un processo rivoluzionario su scala internazionale, molto evocata nelle parole e
nella propaganda dei partiti socialisti e comunisti di quel periodo ebbe l’unico effetto concreto di innescare
e favorire la controffensiva da parte delle forze e delle classi che agivano per la conservazione, allarmate
dal pericolo che veniva profilandosi.
4) Quali problemi si trovò ad affrontare la neonata Repubblica di Weimar?
Dopo la violenta repressione del tentativo spartachista, sempre nel 1919, si tennero le elezioni per
l’Assemblea Costituente che avrebbe dovuto redigere la costituzione; ad esse non presero parte i comunisti
per protesta, così i socialdemocratici risultarono il partito più forte. Ebert fu eletto alla presidenza della
Repubblica, si formò un governo di coalizione a direzione socialdemocratica e fu varata la nuova
Costituzione Repubblicana.
L’Assemblea Costituente iniziò i lavori a Weimar nel 1919 (da qui il nome della Repubblica nata nel 1919) ed
elaborò una costituzione connotata in senso profondamente democratico: al nuovo Stato tedesco si dette
una struttura repubblicana federale (17 lander regionali) con un governo centrale responsabile di fronte al
Parlamento, dotato di ampi poteri in materia finanziaria, militare, e nel settore delle comunicazioni. Il
potere legislativo venne affidato al Reichstag (il Parlamento del Reich tedesco) eletto a suffragio universale,
maschile e femminile, e con un sistema di tipo proporzionale; al Reichsrat (Consiglio Federale) costituito dai
rappresentanti dei singoli Stati regionali (i lander ) venne riconosciuto solo un potere di veto sulle leggi.
Come capo dello Stato si prevedeva un Presidente eletto a suffragio universale e diretto che rimaneva in
carica per sette anni; a lui spettava il comando delle forze armate e il potere di sottoporre a referendum
popolare ogni legge. L’altro titolare del potere esecutivo era un “cancelliere” nominato dal Presidente ma
responsabile di fronte al Reichstag. La carta costituzionale elaborata a Weimar dava vita ad una repubblica
parlamentare con un certo sbilanciamento in senso presidenziale, ma a lungo il sistema creato a Weimar è
stato considerato un modello di democrazia dal punto di tecnico-politico e dottrinario. La Carta
costituzionale riconosceva i diritti fondamentali di libertà e risultava indiscutibilmente ispirata ad alti
principi di democrazia e di liberalismo. La appena nata Repubblica di Weimar si rivelò tuttavia debole sin
dal suo primo sorgere e la sua fragilità era da ricondursi al fatto che nacque sprovvista di basi reali nella
società civile e politica tedesca dove mancava quasi completamente una classe media di tradizione liberale
democratica che potesse offrire un supporto alle istituzioni repubblicane neonate. Mentre grande peso
continuarono ad avere nella società tedesca le forze ostili alla democrazia e alla Repubblica: cioè i grandi
proprietari prussiani, la burocrazia, l’esercito, tutti quei soggetti che in sostanza erano stati i pilastri della
tradizione imperiale. A determinare il fallimento della Repubblica fu comunque anche la durezza morale e
materiale delle clausole imposte del Trattato di Versailles alla Germania (mentre l’Assemblea Costituente a
Weimar elaborava la Carta Costituzionale, gli alleati resero note le condizioni di pace imposte alla
Germania, decise a Versailles, che furono vissute dai Tedeschi come una grande umiliazione
5) A cosa fa riferimento il mito della “pugnalata alla schiena”?
Questo sentimento di grande umiliazione che animava i Tedeschi diede forza a quei settori di nazionalismo
autoritario, antiparlamentare e antisocialista che fecero leva sulla voglia di riscatto dei Tedeschi stessi. A
farsi portavoce di questa destra nazionalista furono i generali Ludendorff e Hindenburg (ai quali erano
affidati il comandi dell’esercito durante la guerra) che in realtà portavano la più grande responsabilità
politica della sconfitta e che più avevano spinto le autorità politiche a concludere rapidamente l’armistizio
nel 1918; proprio loro iniziarono a diffondere la leggenda della “pugnalata alla schiena” , secondo la quale,
dato che l’esercito non era stato battuto militarmente, la Germania aveva perso la guerra per la resa del
Fronte Interno, cioè del tradimento delle forze antinazionali che avevano agito all’interno della Germania
stessa. A determinare la sconfitta, secondo questa interpretazione, sarebbe stata la rivoluzione scoppiata
nel novembre del 1918 (a guerra ancora in corso) e l’accettazione, operata dagli esponenti
socialdemocratici, delle condizioni durissime imposte alla Germania con l’armistizio, che veniva giudicata
ora troppo frettolosa. Questa rappresentazione era priva di fondamento (dato che se era vero che l’esercito
tedesco non era stato sconfitto militarmente altrettanto vero era che alla fine del 1918 non era comunque
più in grado di continuare a combattere) ma contribuì lo stesso a mettere in cattiva luce la classe dirigente
socialdemocratica che si era assunta la responsabilità di firmare la pace e le stesse istituzioni repubblicane
che ben presto iniziarono ad essere considerate come il prodotto della sconfitta, mentre Ludendorff e
Hindenburg assurgevano nell’opinione pubblica al ruolo di autentici eroi nazionali e le correnti nazionaliste
riacquistarono vigore. In occasione delle elezioni del 1920 la SPD registrò un netto calo nei consensi per cui
fu costretta a cedere la guida del governo ai cattolici del Centro.
Esercitazione lezione n. 23
1) Cosa prevedeva il piano Dawes? Quali paesi interessava?
Questa disposizione ad un’effettiva collaborazione mostrata dalla Germania fu alla base di una serie di
importanti novità tra il 1924 e il 1929: la prima di esse fu il cosiddetto Piano Dawes, sulla base del quale la
Germania e le altre potenze nel 1924 trovarono un accordo sul problema delle riparazioni. Il piano,
elaborato dall’economista e uomo politico americano Charles Dawes, stabiliva che per consentire il
pagamento delle riparazioni da parte della Germania, si dovesse garantire la ripresa produttiva della
Germania stessa; stabiliva quindi una riduzione e un graduale pagamento delle rate delle riparazioni e
prevedeva una serie di prestiti allo Stato tedesco, soprattutto da parte statunitense. La Germania riottenne
inoltre la Ruhr; grazie ai prestiti,in breve tempo, l’industria tedesca ripartì , ricollocandosi sul piano
internazionale ai primi posti per i livelli di produttività. Nonostante la ripresa economica, la democrazia
tedesca non riuscì a consolidarsi veramente: la grande coalizione guidata da Strasemann si spezzò già sul
finire del 1923.
2) Chi fu Gustav Stresemann? Quale fu la sua importanza politica all’interno della Repubblica di
Weimar?
Nell’agosto del 1923, nella fase culminante della crisi, si formò un governo di “grande coalizione” con il
coinvolgimento di tutti i partiti dell’arco costituzionale guidato da Gustav Stresemann, esponente di spicco
del Partito Tedesco Popolare (considerato l’interprete degli interessi della grande industria), che nella
gestione della crisi agì secondo la ferma convinzione che per portare la Germania fuori dalla crisi si dovesse
comunque portare avanti una politica di accordo con le potenze vincitrici del conflitto. Egli si adoperò per
ristabilire l’autorità dello Stato e ricreare così una situazione di equilibrio interno e poi per “normalizzare”
la posizione della Germania sul piano internazionale: per prima cosa pose fine alla resistenza passiva e
cercò di riallacciare i contatti con la Francia. Stresemann si impegnò nella ricostruzione dell’economia e
della finanza tedesca: nel 1923 fu emessa una nuova moneta, il cosiddetto Rentenmark e il governò avviò
una politica deflazionistica consistente in una serie di drastici tagli alla spesa pubblica e sull’innalzamento
delle tasse. A prezzo di non pochi sacrifici per la popolazione, tale linea politica condusse al risanamento
della moneta e al ritorno della stabilità monetaria. Sul piano della politica estera Stresemann, come detto,
mutò radicalmente l’atteggiamento della Germania nei confronti degli Stati vincitori e soprattutto della
Francia, mostrandosi disponibile ad un’apertura nei loro confronti, per cercare di giungere ad un accordo
sulle riparazioni.
3. Cosa stabilirono gli accordi di Locarno?
La politica estera francese a partire dal 1924, e quindi dal comune consenso francese-tedesco al Piano
Dawes, iniziò a mutare: si aprì una fase di distensione e di collaborazione tra Francia e Germania, entrambe
erano convinte di dover superare il clima di ostilità stabilitosi fra i due paesi dopo il conflitto e ciò anche
come premessa per una prospettiva di pace duratura in Europa. Il prodotto più importante di questo nuovo
corso di relazioni franco – tedesche furono gli accordi di Locarno del 1925. Con essi Germania, Francia e
Belgio riconoscevano le frontiere comuni tracciate a Versailles e Gran Bretagna e Italia si facevano garanti
contro l’ipotesi di eventuali violazioni di questo ordine. La Francia ottenne così una garanzia internazionale
rispetto ai suoi confini. La Germania accettava la perdita dell’Alsazia – Lorena ma evitava di impegnarsi in
tal senso per quanto atteneva i suoi confini ad est e per la prima volta dopo la fine del conflitto vedeva
riconoscersi un ruolo di parte attiva e non di mero oggetto di un trattato internazionale. La posizione della
Germania sul piano internazionale si rafforzò inoltre ulteriormente quando nel 1926 fu ammessa a far parte
della Società delle Nazioni.
Nel 1929 fu approvato un nuovo piano elaborato da un finanziere americano, che ridussse ulteriormente
l’entità delle riparazioni e ne graduò il pagamento in sessanta anni.
Esercitazione lezione n. 24
1) Qual era la situazione politica ed economica dell’Italia nel primo dopoguerra?
L’Italia dopo la vittoria nella guerra si trovò ad affrontare una situazione di grave difficoltà, per molti
aspetti comune a tutti gli altri paesi usciti dal conflitto come vincitori, ma che presentava tratti di
peculiarità: l’assetto dell’economia presentava i problemi tipici dei periodi postbellici con alcuni comparti
industriali ampliati enormemente e da riconvertire, le relazioni di scambio commerciale erano stravolte,
l’inflazione pareva inarrestabile. La società si configurava in uno stato di grande agitazione e di
mobilitazione: i lavoratori erano animati da una forte aspirazione al cambiamento e al rinnovamento, la
classe operaia colpita dalla partecipazione diretta alla guerra e suggestionata dagli eventi della Rivoluzione
Russa appariva cambiata, risultava animata da una determinata volontà di lotta e di rivendicazione mirata
ad ottenere non solo miglioramenti economici ma anche cambiamenti nell’organizzazione del lavoro in
fabbrica dove voleva contare di più. I contadini, in virtù dei sacrifici sopportati, chiedevano maggiori diritti e
il rispetto delle promesse che la classe dirigente durante il conflitto aveva fatto loro. Le classi medie, le più
danneggiate economicamente dagli effetti del conflitto, mostravano un’attitudine ad organizzarsi e a
mobilitarsi in nome della salvaguardia non solo del proprio interesse economico ma anche dei propri ideali
patriottici in virtù dei quali avevano mostrato una convinta adesione alla causa della guerra.
l’Italia non solo aveva conosciuto un’ industrializzazione differita rispetto alle altre potenze europee ma
qualche ritardo si registrava anche sul piano della democratizzazione della vita politica, basta pensare che il
modo attraverso il quale era stata decisa l’entrata in guerra era esemplare: la decisione dell’intervento era
stata presa dal Re e dal Governo contro l’orientamento delle classi popolari e dei partiti che se ne facevano
interpreti (il Partito Socialista) e soprattutto, sostanzialmente, contro la maggioranza in Parlamento
(neutrale). Finita la guerra la classe dirigente liberale perse il ruolo egemone esercitato fino ad allora sulla
scena politica, soprattutto perché non si dimostrò in grado di interagire con la massificazione della politica
che la guerra aveva innescato. Ad emergere con un ruolo di nuovi protagonisti furono invece i socialisti e i
cattolici che comunque si presentavano come soggetti sostanzialmente estranei alla tradizione dello Stato
liberale; erano le uniche forze che si erano opposte alla guerra, interpretando l’umore prevalente fra le
classi popolari, e che proprio perché il loro riferimento erano le classi popolari (il Partito Socialista era sorto
proprio per organizzare politicamente le masse lavoratrici) possedevano maggiori capacità di interpretare e
gestire il carattere di massa che la politica aveva assunto dopo il conflitto.
- Nasce il Partito Popolare Italiano (PPI)- 1919, il cui primo segretario fu Don Luigi Sturzo. Il PPI aveva un
programma di impianto democratico, si dichiarava aconfessionale anche se il suo riferimento era la dottrina
cattolica e soprattutto era strettamente legato alla Chiesa. La sua stessa nascita era avvenuta per volere
delle gerarchie ecclesiastiche che con la fine del conflitto, al fine di frenare l’espandersi del socialismo,
avevano deciso di mutare il tradizionale atteggiamento di disinteresse. Nel PPI finirono quindi per
raccogliersi tutte le correnti del mondo cattolico che fino ad allora avevano agito nella società senza
prendere parte attiva alla vita delle istituzioni. L’enorme crescita degli aderenti al Partito Socialista che si
verificò nel dopoguerra e che rese evidente come il PSI rappresentasse la forza politica sicuramente più
consistente. Anche in quello italiano, ad imporsi all’interno del Partito fu la corrente più a sinistra e più
estrema, la massimalista, (fautrice del cosiddetto “programma massimo”) a scapito di quella riformista, che
comunque rimaneva maggioritaria all’interno del Gruppo Parlamentare e nelle organizzazioni sindacali. In
questo periodo la personalità più influente tra i massimalisti era Giacinto Menotti Serrati, il direttore
dell’“Avanti!”.
2) Quali erano i punti di riferimento dei massimalisti e quali erano i programmi da loro promossi?
Nel dicembre del 1918 la Direzione del Partito, espressa dalla frazione massimalista giudicò superato dagli
avvenimenti il programma per la pace e per il dopoguerra, elaborato nel marzo del 1917 con la
collaborazione della CGdL e del Gruppo Parlamentare Socialista, lanciò un nuovo programma nel quale si
proponeva come obiettivo “l’istituzione della Repubblica socialista e la dittatura del proletariato, con lo
scopo di realizzare la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio (…)”. I massimalisti aveva come
riferimento la Rivoluzione bolscevica e si chiamavano così proprio in quanto fautori del programma
“massimo” consistente nell’instaurazione della Repubblica socialista fondata sulla dittatura del proletariato.
In questo periodo, tuttavia più a sinistra dei massimalisti, anzi proprio con intenti di forte critica nei loro
confronti, si costituirono, all’interno del PSI, dei gruppi ancora più estremi, formati da giovani, che
accusavano i massimalisti di evocare tanto a parole la Rivoluzione Russa ma di non tradurre tali intenzioni
in fatti concreti.
3) Cosa erano i fasci di combattimento? Quali erano i principali sostenitori? Quale era il
programma promosso dal movimento nelle sue prime fasi?
Fra i movimenti che si facevano interpreti e “difensori dei valori della patria” traditi, si distinse soprattutto il
movimento dei Fasci di combattimento che era stato fondato a Milano nel 1919 da Benito Mussolini. Da un
punto di vista politico e programmatico il movimento dei Fasci presentava dei caratteri che potremmo
definire “di sinistra”( si dichiarava favorevole alla Repubblica, chiedeva l’istituzione della proporzionale e
l’estensione del diritto di voto alle donne, l’abolizione del Senato, la formazione di un’Assemblea
costituente, la partecipazione dei lavoratori al funzionamento delle aziende, la giornata lavorativa di 8 ore,
l’introduzione di una forte imposta progressiva sul capitale, la revisione di tutti i contratti per le forniture di
guerra e il sequestro dell’85% dei relativi profitti, la confisca di tutti i beni delle congregazioni religiose,
la valorizzazione della nazione italiana nel mondo). Contemporaneamente il movimento dei Fasci di
combattimento si faceva portatore di posizioni di nazionalismo molto forti e soprattutto fu connotato fin
dall’inizio da uno spiccato orientamento antisocialista. Da subito il movimento si segnalò per il suo
atteggiamento e il suo linguaggio politico violento e aggressivo, per l’indifferenza verso le posizioni
dottrinarie e per la sua spiccata propensione verso l’azione diretta. Durante il loro primo congresso, svoltosi
a Firenze nel 1919, Mussolini durante il suo intervento affermò significativamente: “Noi fascisti non
abbiamo dottrine precostituite, la nostra dottrina è il fatto!”.
Ancor più eloquente sulla rapida evoluzione già in atto nel movimento dei Fasci, fu il fatto accaduto a
Milano nel 1919, quando alcuni esponenti del movimento stesso furono i protagonisti di uno scontro con
alcuni socialisti durante uno sciopero socialista indetto per protestare contro un massacro compiuto pochi
giorni prima ai danni di un operaio. Per la prima volta questo sciopero fu accompagnato da una
controdimostrazione organizzata in Piazza del Duomo da circa un migliaio di nazionalisti seguaci di
Mussolini. Nonostante le raccomandazioni degli organizzatori socialisti del comizio a non raccogliere le
provocazioni, non si era riusciti ad evitare lo scontro tra alcuni proletari, soprattutto anarchici, e i
controdimostranti, capitanati da arditi armati di pistole e revolver. Nella colluttazione vi furono morti e
feriti. I controdimostranti aderenti ai Fasci inoltre decisero di dirigersi verso la sede dell'“Avanti!” che
devastarono, saccheggiarono e incendiarono. L'episodio rappresentò la prima manifestazione della guerra
civile agli esordi e comunque fu l'ennesimo segnale di un processo di alterazione delle condizioni politiche
generali in corso, la manifestazione preoccupante di una radicalizzazione e di un imbarbarimento in atto del
costume politico che era destinato ad aggravarsi nei mesi successivi, in seguito all’intensificarsi delle lotte
sociali e alle polemiche suscitate dall’esito della conferenza di pace di Versailles.
4) Perché si può dire che la delegazione italiana mantenne un atteggiamento contraddittorio
durante le trattative di pace della Conferenza di Versailles?
Sul piano internazionale, l’Italia era uscita dalla guerra in posizione di forza: era appagata per il
raggiungimento dei confini naturali, inoltre il suo antagonista principale, l’Impero asburgico, tra le potenze
sconfitte, risultava fortemente ridimensionato. Tuttavia, proprio la sostanziale dissoluzione dell’Impero di
Austria – Ungheria aprì una serie di questioni non previste quando l’Italia aveva sottoscritto il Patto di
Londra: il documento prevedeva che la Dalmazia, con una popolazione prevalentemente slava, che dopo la
guerra fu richiesta dal nuovo Stato della Jugoslavia, venisse annessa all’Italia, mentre invece prevedeva che
la città di Fiume, abitata in prevalenza da Italiani, rimanesse entro i confini dell’Austria Ungheria.
Di fronte a questa situazione il governo italiano avrebbe dovuto compiere una scelta : o continuare ad agire
secondo i principi che tradizionalmente avevano ispirato la diplomazia, e quindi, in base ad essi, esigere il
rispetto del Patto di Londra; oppure sposare le tesi espresse da Wilson con i 14 punti, basate sul principio di
autodeterminazione dei popoli e sulla politica delle nazionalità, e conseguentemente rinunciare alla
Dalmazia, magari provando a rivendicare, proprio in nome della politica delle nazionalità, la cessione di
Fiume (porto croato a maggioranza italiana ma circondata da una periferia slava, sebbene non prevista dal
Patto di Londra). La delegazione italiana alla Conferenza di Pace di Versailles, guidata dal presidente del
Consiglio Vittorio Emanuele Orlando e dal ministro degli Esteri Sidney Sonnino, in realtà non fece una scelta
precisa e assunse un atteggiamento contraddittorio al tavolo delle trattative: rivendicò infatti la città di
Fiume, sulla base del principio di autodeterminazione dei popoli, pretese però anche che venisse rispettato
il Patto di Londra e quindi ad esempio, contro la politica delle nazionalità, chiese che le venisse assegnata la
Dalmazia. Tali richieste, soprattutto per volontà di Wilson (che non era impegnato in alcun modo al Patto di
Londra che gli Americani non avevano firmato), furono respinte al tavolo delle trattative, provocando la
reazione sdegnata degli Italiani che, per protesta, abbandonarono la Conferenza, facendo ritorno in Italia in
un clima di viva esaltazione patriottica. Questo comportamento fu controproducente, non dette nessun
risultato e infine la delegazione italiana, dopo un mese, fece ritorno a Parigi.
Questo fallimento sancì la fine del governo Orlando, al quale subentrò Francesco Saverio Nitti (giornalista,
economista, meridionalista di orientamento liberale democratico), che si trovò ad intervenire in circostanze
difficili: quanto era successo al tavolo delle trattative di pace aveva ulteriormente esasperato gli animi della
piccola e media borghesia che, già colpita dagli effetti economici della guerra, era ora animata da un
sentimento di malanimo nei confronti delle potenze alleate che accusavano di voler privare l’Italia delle
legittime conquiste di guerra, ma anche di diffidenza verso la classe dirigente liberale alla quale veniva
imputato di non saper difendere gli interessi del paese.
6) Cosa si intende con l’espressione “vittoria mutilata”?
Fu soprattutto il poeta Gabriele D’Annunzio, già autore di audaci e teatrali imprese durante la guerra, ad
alimentare e a dare voce a questo sentimento di malcontento diffuso nell’opinione pubblica italiana,
coniando l’espressione di “vittoria mutilata”.
Esercitazione lezione n. 25
1) Cosa stabilisce il trattato di Rapallo?
Giolitti tornò quindi al potere nella situazione politica surriscaldata del dopoguerra. Il paese viveva una fase
di estrema tensione sociale e politica che si traduceva in ricorrenti e specifici episodi di alterazione
dell’ordine pubblico : si susseguivano gli scioperi che coinvolgevano i braccianti come gli operai
metalmeccanici, e soprattutto gli addetti ai servizi pubblici, i ferrovieri come i postelegrafonici; si
registravano anche episodi di occupazione di fabbriche, di aggressione ai parlamentari e tutti questi fatti
nel loro insieme mantenevano il paese in uno stato di disordine permanente rispetto al quale si
concretizzavano reazioni rivelatrici di uno stato d’animo, della percezione di un imminente pericolo
rivoluzionario che andava conquistando settori sempre più ampi della borghesia e della società italiana. Per
esempio frequente era l’intervento di volontari civili che si incaricavano di sostituire gli scioperanti per far
funzionare i trasporti urbani, oppure gli assalti messi in atto da studenti e arditi mirati a distruggere le sedi
di giornali o associazioni proletarie, mentre anche le forze della destra economica e politica cercavano di
organizzarsi per opporsi non tanto al pericolo rivoluzionario quanto per cercare di contenere più
efficacemente l’avanzata riformista e perfettamente legale del proletariato industriale e agricolo e delle
lotte di rivendicazione che animavano. Nel 1920 si costituì la Confederazione Generale dell’Industria e la
Confederazione Generale dell’agricoltura. Giolitti intanto cercò innanzitutto di risolvere la questione
adriatica che appariva il problema più urgente sul piano della politica estera. Giolitti scelse la strada delle
trattative dirette con la Jugoslavia e riuscì a conseguire un importante risultato con la firma, nel 1920, del
Trattato di Rapallo in base al quale l’Italia mantenne la sovranità su Trieste, Gorizia e tutta l’Istria mentre la
Jugoslavia ebbe la Dalmazia, eccetto la città di Zara, che fu assegnata all’Italia. Fiume veniva dichiarata città
libera (sarebbe divenuta italiana nel 1924 in seguito ad un nuovo accordo con la Jugoslavia). La notizia della
firma del trattato fu salutata con favore da tutte le forze politiche mentre D’Annunzio proclamò la volontà
di una resistenza ad oltranza che tuttavia si dissolse rapidamente non appena le truppe dell’esercito
italiano, il giorno di Natale del 1920, iniziarono ad attaccare la città.
2) Quali problemi di politica interna si trovò ad affrontare Giolitti durante il suo quinto governo?
Più difficile per Giolitti fu operare sul piano della politica interna: per risanare il bilancio dello Stato Giolitti
abolì il prezzo politico del pane (mantenuto basso a spese delle finanze statali fin dall’inizio della guerra),
suscitando la protesta dei socialisti, ma non riuscì a concretizzare i provvedimenti di tassazione dei titoli
azionari e dei profitti di guerra che poi sarebbero stati definitivamente accantonati dai governi successivi.
Giolitti per fronteggiare la concitata congiuntura, cercò di contenere e moderare le istanze rivoluzionarie
espresse da una parte ormai consistente del movimento operaio, attraverso la recezione di alcune
aspirazioni di riforme proprie invece della componente riformista del movimento operaio stesso, che
seppure in minoranza all’interno del PSI, continuava tuttavia ad esprimere la dirigenza del movimento
sindacale (i vertici della CGdL e della FNLT) e a costituire la maggioranza del Gruppo Parlamentare
socialista. Giolitti, come era avvenuto all’inizio del secolo, aveva capito che per allontanare il pericolo
rivoluzionario, salvaguardare l’autorità dello Stato e al tempo stesso la democrazia e lo stato liberale era
indispensabile evitare il ricorso alla semplice repressione violenta, riteneva opportuno piuttosto fare
parziali concessioni alle richieste del movimento operaio, trattando e confrontandosi con quella parte di
esso che aveva il controllo delle organizzazioni sindacali e che comunque rimaneva su posizioni legalitarie
(la CGdL, la Fiom – Federazione Italiana Operai Metallurgici- la FNLT che inquadravano a livello sindacale la
maggioranza dei lavoratori e che avevano dirigenze saldamente attestate su posizioni riformiste) a dispetto
della dirigenza massimalista del PSI, che continuava a rilanciare le parole d’ordine rivoluzionarie senza
sostanza, senza che alle parole facessero seguito azioni coerenti, ma solo per assecondare l’umore, il
sentire rivoluzionario delle masse che nel clima esasperato del primo dopoguerra erano particolarmente
sensibili alla suggestione e al fascino dell’esempio russo. Al di là e oltre ai timori suscitati dalle quotidiane e
verbose dichiarazioni rivoluzionarie della dirigenza del Partito, ciò che spaventò realmente i ceti
imprenditoriali e i proprietari terrieri italiani furono i successi travolgenti, gli avanzamenti inesorabili che le
organizzazioni sindacali e politiche socialiste realizzavano sul terreno della lotta legalitaria, lottando quindi
con i mezzi leciti.
2) Cosa stabilisce il concordato Paglia-Calda del 1920? Qual è la sua importanza?
Infatti le conquiste ottenute dai lavoratori furono effettivamente significative. Dal punto di vista dei
mezzadri (contadino) il concordato firmato nel 1920 tra Calisto Paglia (dell’Associazione degli agricoltori
bolognesi) e Alberto Calda (consulente legale della Federterra) è riconosciuto come il più avanzato
capitolato colonico fra quelli ottenuti nello stesso periodo nel resto dell’Italia mezzadrile (Umbria e
Toscana).
Esso modificò profondamente l’istituto mezzadrile spezzando il legame di soggezione che teneva legato il
mezzadro al proprietario, attraverso l’assicurazione della durata pluriennale del contratto, e anche del
principio di una sostanziale, anche se non esplicitamente riconosciuta partecipazione del mezzadro alla
direzione aziendale. Il concordato prevedeva inoltre notevoli miglioramenti economici per i mezzadri, per
cui si stabiliva che le somme per le attrezzature e per i lavori di coltivazione del fondo venissero anticipate
dal proprietario, che era tenuto a fornire anche la casa, dotata di determinati requisiti igienici, oltre al
fondo da coltivare. Il carattere di questo confronto fra agrari e lavoratori, nel clima di aspettativa e al
tempo stesso di allarmato timore rivoluzionario, fu di contrapposizione frontale e da entrambe le parti ci
furono episodi di violenza e di intimidazione, nonostante le raccomandazioni degli organizzatori sindacali di
evitare il ricorso a questi mezzi. I proprietari terrieri di fronte alla compattezza e alla combattività delle
organizzazioni dei lavoratori della terra furono costretti a cedere ma si attivarono immediatamente per
tradurre concretamente i loro propositi di rivalsa sui lavoratori.
3) Illustrare le fasi che portarono alla nascita del Partito Comunista Italiano
Nel 1920 si tenne infatti a Mosca il II Congresso dell'Internazionale Comunista, con la partecipazione di 69
partiti operai da tutto il mondo, nel corso del quale Lenin fissò, in un documento di 21 punti, le condizioni
per cui i partiti dovevano necessariamente uniformarsi per poter aderire al Comintern stesso, tra le quali
compariva l’obbligo di ispirare l'organizzazione interna dei vari movimenti proletari aderenti al modello
sovietico, tendente ad accentrare nel partito ogni potere di direzione e di guida del processo rivoluzionario,
l'obbligo per i partiti di cambiare la denominazione assumendo quella di Partito Comunista e di espellere gli
elementi gradualisti e riformisti. Alla riunione di Mosca aveva preso parte anche la delegazione italiana
composta da Serrati, Bordiga e Graziadei che si adeguarono alle decisioni, salvo Serrati che prese posizione
contro due punti delle 21 condizioni: quella relativa all'espulsione dei riformisti e quella riguardante
l'obbligo del cambio di nome al Partito da Socialista a Comunista. In sede di Direzione del PSI prevalse la
tesi della piena adesione ai 21 punti. Al Congresso del partito del 1921, tuttavia i riformisti non furono
espulsi. Ad abbandonare il PSI furono invece le frazioni di estrema sinistra del Partito che intendevano
adeguarsi completamente alle condizioni dell’Internazionale. Le correnti di sinistra estrema vistesi in
minoranza, si riunirono per costituire un nuovo partito: il Partito Comunista d’Italia (PCdI) nel quale insieme
a tutto il gruppo di “Ordine Nuovo” confluirono anche i seguaci di Amedeo Bordiga, schierato su posizioni
astensioniste, che implicavano una totale astensione da parte del movimento operaio dalla partecipazione
a qualsiasi attività parlamentare. Questo partito adottò un programma leninista, sebbene fosse ormai
evidente che le prospettive rivoluzionarie stessero ormai rivelandosi illusorie in tutta Europa.
Esercitazione lezione n. 26
1) Illustrare i caratteri che contraddistinsero il fascismo agrario. Quando si sviluppò? Qual era il
suo programma?
L’episodio dell’occupazione delle fabbriche con la scissione di Livorno, dal quale nacque il PCdI, decretò la
fine del cosiddetto “biennio rosso”. La classe operaia, molto divisa al suo interno, dovette confrontarsi con
le conseguenze di una crisi recessiva che investiva l’Italia e più in generale l’Europa mentre proprio in Italia
iniziò ad affermarsi nelle campagne un fenomeno che fu una realtà peculiare del nostro paese: il fascismo
agrario (il fascismo fino al 1920 non aveva nessuna rilevanza sulla scena politica nazionale). Gli agrari, che
da sempre si distinguevano per il loro conservatorismo, iniziarono a coltivare sentimenti di sorda rivalsa
verso i lavoratori che andarono a sommarsi al generale orientamento antisocialista condiviso in generale
dai ceti medi e dall’opinione pubblica moderata, stanca dei continui scioperi e dello stato di agitazione
sociale che aveva caratterizzato il paese negli ultimi anni. Mussolini intuì questo umore antisocialista
diffuso, si fece interprete dell’ansia di rivalsa degli agrari e del ceto imprenditoriale che si sentiva non
tutelato dal governo. Proprio nelle campagne ,dove appunto più significative erano le conquiste sindacali
ottenute dai lavoratori, si ebbero le prime manifestazioni del fascismo agrario, la cui data di avvio viene
indicata nei fatti di Palazzo d’Accursio a Bologna, nel 1920, quando alcune squadre di fascisti si dettero
appuntamento proprio per ostacolare il regolare svolgimento della cerimonia di insediamento della nuova
amministrazione comunale socialista e del neo eletto sindaco (dirigente sindacale e rappresentante della
corrente massimalista del PSI). Durante i festeggiamenti elettorali si verificarono dapprima scontri tra le
Guardie Regie e le squadre di fascisti presenti dalla mattina in città, con evidente atteggiamento
provocatorio, e poi ebbero luogo gravi incidenti con colpi di arma da fuoco fra squadre di fascisti armati e
“le guardie rosse”(gruppi di armati comunisti e massimalisti), che presidiavano il palazzo. Durante questi
scontri ci furono morti e feriti. Questi eventi furono usati contro i socialisti e determinarono l’ascesa al
potere dei fascisti. I proprietari terrieri iniziarono a sovvenzionare le squadre fasciste, che si ingrandirono
rapidamente. In pochi mesi lo squadrismo si diffuse significativamente nelle zone dove si riscontrava la
presenza di una consistente realtà organizzativa sindacale, quindi soprattutto in tutta la Valle padana, nelle
aree in Toscana e in Umbria dove era diffusa la forma di conduzione mezzadrile, mentre minore fu la sua
presenza nelle grandi realtà urbane dell’Italia settentrionale e nel Sud, con la sola eccezione della Puglia, a
causa della presenza di un’articolata rete di leghe socialiste. Le squadre avviarono un piano organico di
assalto e distruzione delle organizzazioni socialiste. Le modalità operative dello squadrismo fascista
ovunque erano le stesse: le squadre partivano dalle città, generalmente in camion e si dirigevano verso le
campagne. Gli obiettivi delle loro spedizioni erano le sedi delle leghe socialiste, le camere del lavoro, le case
del popolo, le cooperative, le sedi dei giornali socialisti, gli stessi militanti socialisti, gli organizzatori
sindacali, gli esponenti delle amministrazioni comunali e provinciali socialisti ecc. che divennero oggetto di
ripetute azioni di terrorismo anche individuale, consistente in bastonature con il manganello, in violenze
umilianti, in minacce. Molti esponenti socialisti furono costretti a lasciare i loro paesi, molte
amministrazioni socialiste furono indotte a dimettersi, quasi tutte le leghe furono dissolte e i lavoratori
aderenti furono costretti con la forza ad iscriversi a nuove organizzazioni fasciste, di tipo corporativo, che
iniziarono a costituirsi per sostituire quelle socialiste.
2) Quale fu l’atteggiamento tenuto dagli apparati statali nei confronti dello squadrismo fascista?
Per quali motivi?
L’azione squadrista, soprattutto in questo primo periodo, fu agevolata dalla condotta parziale e complice da
parte della classe dirigente e degli apparati dello Stato. Le autorità locali preposte alla tutela dell’ordine
pubblico, e in generale la forza pubblica e la stessa magistratura, adottarono nei confronti dei fascisti,
considerati in questa fase quasi degli alleati nella lotta contro i “rossi”, un atteggiamento benevolo e
comunque diverso da quello adottato nei confronti dei sovversivi di sinistra.
Giolitti pensò in questa fase di utilizzare il fascismo e la violenza che connotava in maniera peculiare lo
sviluppo di questi fenomeni, come mezzi per contenere le richieste di socialisti e popolari, per orientare in
qualche modo il loro atteggiamento verso posizioni più moderate. In un secondo tempo Giolitti contava di
poter orientare l’evoluzione del movimento fascista in senso più moderato, in modo tale da depurarlo degli
elementi di violenza e di illegalità che lo caratterizzavano, rendendolo “costituzionalizzabile”, cioè
assimilabile nello schieramento liberale. In questa ottica si inserì la decisione di Giolitti stesso di indurre lo
scioglimento della Camera e di arrivare alle nuove elezioni del 1921, in vista delle quali, proprio per
arginare la crescita dei partiti di massa (socialista e popolare) , si adoperò per agevolare la formazione dei
cosiddetti “blocchi nazionali” , liste di coalizione formate dai gruppi “costituzionali”( conservatori, liberali e
democratici) all’interno dei quali volle che fossero inclusi anche i fascisti, convinto della sostanziale
irrilevanza di questo movimento e soprattutto fiducioso nella progressiva “costituzionalizzazione”
dell’azione fascista. In realtà in tal modo Giolitti e la classe dirigente liberale offrirono ai fascisti
un’occasione di legittimazione senza pretendere nulla in cambio. Proprio in occasione delle elezioni le
violenze fasciste, al fine di condizionarne gli esiti, si intensificarono.
4) Descrivere le fasi che portarono alla nascita del PNF.
Il risultato delle elezioni del 1921 deluse le attese di Giolitti e di quanti avevano voluto andare al voto: i
socialisti diminuirono di poco il loro consenso elettorale. Il dato più significativo era il fatto che 35
deputati fascisti facevano il loro esordio in Parlamento alla guida di Mussolini.
Il risultato delle elezioni, che assicurò al governo un sostegno troppo scarso, condusse Giolitti alle
dimissioni. Gli successe alla guida del Governo Ivanoe Bonomi (socialista riformista) che cercò di contenere
e arginare la “guerra civile cercando di mitigare lo scontro tra fascisti e socialisti. Grazie all’impegno di
Bonomi, si giunse alla firma di una sorta di tregua teorica fra fascisti e socialisti, alla firma di un Patto di
pacificazione in virtù del quale le parti in lotta si impegnavano genericamente a non fare ricorso alla
violenza: da parte fascista si rinunciava all’azione squadrista, i socialisti, per parte loro, accettarono di
sconfessare le formazioni degli Arditi del popolo (dei gruppi che i militanti di sinistra costituirono
spontaneamente per difendersi dallo squadrismo). Il consenso accordato da Mussolini alla firma di questo
patto si collocava nell’ambito di una precisa strategia che mirava a dare l’impressione che il fascismo stesse
evolvendo verso l’assunzione di un volto più “legalitario” e verso modalità più legalitarie di conquista del
potere politico. Mussolini temeva che il dilagare della violenza squadrista potesse indurre infine una sorta
di reazione popolare contro lo squadrismo stesso, e che il potere crescente e poco controllabile dei Ras, i
capi locali dello squadrismo agrario. Questi ultimi non condividevano la scelta strategica di Mussolini, non
rispettarono il patto di pacificazione, finendo anche per minacciare il ruolo di guida assunto da Mussolini.
La riconciliazione fra le parti avvenne in occasione del Congresso dei Fasci tenutosi a Roma durante il quale
Mussolini, che aveva ormai acquisito piena consapevolezza della forza d’urto dello squadrismo agrario, e
dell’impossibilità di poterne fare a meno, smentì apertamente il Patto di pacificazione. I ras riconobbero in
Mussolini la loro guida politica e quindi ne accettarono la decisione di trasformare il movimento in Partito
politico. A Roma si costituì dunque nel 1921 il Partito Nazionale Fascista (Pnf)
5) Cosa si intende per “Caporetto socialista”? Quali conseguenze ebbe?
l Gruppo Parlamentare socialista, con in testa Turati e Prampolini, decise di contravvenire alla linea
intransigente imposta dalla Direzione del PSI e si dichiarò disponibile a collaborare a un governo di
coalizione democratica in alleanza a componenti anche “borghesi”.
Al tempo stesso i vertici delle organizzazioni sindacali proclamarono per il 1 agosto di quell’anno uno
sciopero generale legalitario in difesa delle libertà costituzionali (quindi delle libertà politiche e sindacali) .
Questa scelta si rivelò purtroppo disastrosa, in quanto i fascisti sfruttarono questa situazione per
presentarsi e accreditarsi nella veste di difensori dell’ordine pubblico messo sotto attacco dai “rossi” ribelli
e quindi sferrarono un nuovo e più forte attacco contro il movimento operaio e socialista e le sue
organizzazioni.
Città come Milano, Genova, Ancona, Livorno subirono veri e propri attacchi in armi. Solo la città di Parma
riuscì a resistere e a rispondere alla violenza fascista. Il movimento operaio registrò in questa occasione una
pesante sconfitta: quella che avrebbe dovuto configurarsi come una manifestazione di pressione al fine di
dar vita ad un governo che ponesse fine alla violenza fascista si trasformò in una disfatta socialista, ma ad
essere colpito era soprattutto lo Stato e la legalità liberale. Anche sul piano politico, la decisione dei
riformisti di ribellarsi dalla Direzione portò il Partito ad un’altra scissione: al congresso del PSI tenutosi a
Roma nel 1922, i riformisti guidati da Filippo Turati, lasciarono il PSI per costituire un nuovo partito
socialista: il Partito Socialista Unitario (PSU) che scelse come suo segretario Giacomo Matteotti.
Mussolini, una volta sconfitto nei fatti il movimento socialista e operaio, mirava apertamente alla conquista
dello Stato e del potere centrale; aveva intuito che su questo piano doveva affrettare i tempi: temeva che le
forze moderate, che lo avevano appoggiato in funzione antisocialista, considerando praticamente raggiunto
l’obiettivo, avrebbero potuto emarginarlo; si affrettò così ad agire in più direzioni: avviò contatti con i più
autorevoli esponenti liberali, consentendo ad una partecipazione fascista ad un nuovo governo; negò le sue
originarie aspirazioni repubblicane al fine di tranquillizzare la monarchia; tentò di guadagnare il favore degli
industriali dichiarandosi favorevole ad incoraggiare l’iniziativa privata imprenditoriale.
Esercitazione lezione n. 27
1) Quale atteggiamento adottarono le alte cariche del Regno nei confronti della marcia su Roma?
E quali furono le conseguenze?
Mussolini pensava ad una prova di forza con il fine della conquista del potere centrale. L’idea era quella di
organizzare una sorta di mobilitazione di tutte le squadre fasciste con l’obiettivo di farle convergere verso
Roma in modo da esercitare una pressione sul re, riuscendo così a condizionarne le scelte. Mussolini era
consapevole che la forza dell’esercito era superiore a quella delle squadre, ma decise ugualmente di
procedere all’organizzazione di questa manifestazione pensando di poter contare su un atteggiamento di
benevolenza da parte del re e delle forze armate. L’avvio della mobilitazione fascista fu il 27 ottobre. Facta
reagì dando l’ordine di interrompere le comunicazioni ferroviarie, si dimise quello stesso giorno,
proponendo al re di firmare il decreto che dichiarava lo stato di assedio, il re, forse per evitare l’eventualità
dello scoppio di una guerra civile, forse perché consigliato da alcuni membri dell’esercito, rifiutò la firma al
decreto sullo stato di assedio. Le squadre intanto, il 28 ottobre 1922 entrarono a Roma, dando inizio alla
loro dimostrazione di forza per le strade della capitale senza incontrare alcuna resistenza. Mussolini non si
ritenne però ancora appagato dalla soluzione auspicata dal re e dai moderati della partecipazione fascista
ad un governo presieduto da una personalità politica liberale, pretese di essere nominato lui alla guida del
Governo. Il 30 ottobre Mussolini fu ricevuto dal re che lo nominò a capo di un governo di coalizione che,
oltre a cinque membri fascisti, comprendeva la partecipazione di esponenti liberali, sia giolittiani, sia
conservatori, di esponenti democratici e popolari. La crisi ebbe quindi una soluzione ambigua: i fascisti si
presentarono come vincitori, dichiarando avviata la “rivoluzione fascista” anche se in realtà Mussolini
poteva cantare vittoria grazie ad una progressiva abdicazione del movimento fascista agli interessi di gran
parte della vecchia classe dirigente. Il fascismo infatti aveva ottenuto il via libera verso la conquista del
governo solo in quanto aveva accettato di farsi garante di un “ordine” che soddisfaceva le classi agrarie e
industriali, gli ambienti della finanza e dell’esercito.
3) Cosa era il Gran Consiglio del Fascismo? Quando nacque?
Nel 1922 fu istituito il Gran Consiglio del Fascismo, un organo che doveva elaborare le direttive generali
della politica fascista e servire da raccordo fra il partito e il governo.
3) Quale fu l’atteggiamento tenuto da Mussolini nei confronti della Chiesa una volta salito al
potere?
Anche la Chiesa, con il pontificio di Pio XI, interprete di un cattolicesimo che si attestava su posizioni più
conservatrici, si dimostrò più conciliante verso Mussolini, che, per un settore consistente del mondo
cattolico rappresentava comunque colui che era riuscito a scongiurare la minaccia di una rivoluzione
socialista, restaurando l’ordine pubblico. Mussolini stesso attenuò il forte anticlericalismo del fascismo
delle origini e dimostrò la sua disponibilità verso la Santa Sede, anche attraverso atti politici concreti, tra i
quali la decisione, nel 1923, di dar corso ad una riforma scolastica elaborata dall’allora Ministro della
Pubblica Istruzione, che per vari aspetti doveva risultare gradita ai cattolici. Questa riforma si basava sul
riconoscimento dell’istruzione classica come fondamento primario del percorso di istruzione e formazione
della classe dirigente; introduceva l’insegnamento della religione nelle scuole elementari e anche un esame
di stato alla chiusura di ogni ciclo di studi. Questa misura era stata già esplicitamente e ripetutamente
richiesta dai cattolici in quanto rappresentava il mezzo per giungere ad un’equiparazione fra scuole
pubbliche e private. A fare le spese di questa prima convergenza fra Stato e Santa Sede fu il Ppi che gli
ambienti ecclesiastici consideravano ormai un ingombro sulla strada del riavvicinamento tra Stato e Chiesa
e che lo stesso Mussolini era intenzionato ad emarginare, anche perché, il Congresso del Ppi avvenuto a
Torino in quei giorni, si era chiaramente espresso per una collaborazione governativa condizionata (i
popolari auspicavano la fine delle violenze squadriste, che invece ancora imperversavano, e soprattutto
erano favorevoli al mantenimento del sistema elettorale proporzionale). Fecce eliminare Sturzo (segretario
del PPI) dalla scena politica anche grazie all’intervento della chiesa, Mussolini ottenne la maggioranza in
Parlamento.
4) Quali furono le conseguenze dell’omicidio Matteotti?
Le elezioni del 1924 si erano svolte in un clima di violenza fascista dilagante. Le violenze proseguirono
anche nei giorni successivi alle elezioni. Una volta riaperta la Camera, Giacomo Matteotti, segretario del
Partito Socialista Unitario, denunciò dai banchi del Parlamento le violenze e le illegalità che avevano
accompagnato tutta la campagna elettorale e le stesse consultazioni elettorali, contestandone, proprio alla
luce di questi fatti la validità. Un mese dopo Matteotti fu rapito da un gruppo di squadristi, caricato a forza
su un’auto e ucciso a pugnalate. Il suo cadavere fu ritrovato solo due mesi dopo, abbandonato in un bosco
poco distante da Roma. Questo gravissimo fatto, sostanzialmente l’uccisione del segretario della più
consistente forza politica di opposizione, sollevò l’indignazione dell’opinione pubblica contro il fascismo.
L’uccisione di Matteotti rappresentava l’ultimo e il più clamoroso di una lunga serie di gravi atti di violenza
che in questa fase coinvolsero anche altri esponenti più in vista dell’opposizione, come Nitti e il liberale
Giovanni Amendola. A prescindere dalla responsabilità personale e diretta, quello che emergeva
chiaramente era che Mussolini aveva la responsabilità quantomeno morale e politica di ciò che era
accaduto e che le speranze di una normalizzazione, di un’evoluzione costituzionale del fascismo, coltivate
anche da numerosi esponenti della classe liberale si erano rivelate illusorie: il fascismo mostrava di non
voler rinunciare all’uso della violenza, rivelandosi parte costitutiva del fascismo. Il delitto Matteotti
rappresentò un momento di vera e propria crisi per l’ascesa, fino ad allora inarrestabile, di Mussolini al
potere: Mussolini procedette a sostituire il capo della polizia, ordinò alcuni arresti di esponenti fascisti e
rinunciò egli stesso alla carica di Ministro degli Interni, che deteneva, chiamando al suo posto il nazionalista
Luigi Federzoni, uomo che godeva della fiducia della Corona. Per protestare contro questo atto gravissimo i
deputati socialisti (unitari e massimalisti), popolari, comunisti, repubblicani, liberali seguaci di Amendola,
nel corso di una riunione svoltasi a Montecitorio, decisero di non prendere più parte ai lavori della Camera
fino a quando non fossero ristabilite condizioni di effettiva legalità, rimarcando il fatto che prendere parte
ai lavori parlamentari in quelle circostanze di legalità democratica gravemente compromessa non aveva
senso.
5) Cosa prevedevano le leggi Fascistissime?
Tra la fine del 1925 e l’inizio del 1926 il fascismo raggiunge l’obiettivo dell’occupazione dello Stato,
approvando una serie di leggi, dette “fascistissime”, che chiusero ogni residuo margine di libertà politica e
sindacale, abolirono il regime parlamentare e cambiarono in maniera radicale la fisionomia dello stato
liberale.
-una legge ristabilì la regola, per cui il governo era responsabile solo nei confronti del re e non doveva ricevere
alcun voto di fiducia per esistere e per governare.
-una legge per cui i poteri del presidente del Consiglio dei Ministri venivano enormemente accresciuti,
rispetto al Parlamento e agli altri ministri: innanzitutto la carica venne trasformata in quella di capo del
Governo nominato e revocato dal re, responsabile verso il re dell’indirizzo generale politico del governo; i
ministri vennero dichiarati responsabili verso il re e verso il capo del governo; venne stabilito che nessun
argomento poteva essere messo all’ordine del giorno in Parlamento senza il consenso preventivo del capo
del governo. Di fatto venne abolito il regime parlamentare.
-una legge fece del Gran Consiglio del fascismo un organo costituzionale (stilare le liste elettorali, esprimere
pareri su tutte le questioni di carattere costituzionale. Il Gran Consiglio era presieduto di diritto dal Capo del
Governo e composto di membri nominati con decreto reale, dotati di immunità rispetto ad ogni azione
penale. Le sedute del Gran Consiglio erano segrete).
-Due leggi abolirono le amministrazioni comunali e provinciali elettive che furono sostituite da organismi di
nomina governativa (i podestà e le consulte);
-prendendo a pretesto quattro falliti attentati alla vita di Mussolini, una legge reintrodusse la pena di morte
per chi attentava alla vita dei regnanti o del “capo del governo”; con la stessa legge venivano inasprite le
leggi previste per i reati politici, cioè quelli finalizzati ad attentare alla vita del regime; i processi per reati di
carattere politico venivano affidati alla competenza di un Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato,
composto non da giudici ordinari ma da ufficiali delle forze armate e della MVSN, cioè le ex- squadre
d’azione fasciste, cosa che rendeva il Tribunale una sorta di emanazione istituzionale del PNF.
- sui rapporti di lavoro era stato siglato il Patto di Palazzo Vidoni con il quale la Confindustria (la
Confederazione generale dell’industria, l’associazione che riuniva a livello nazionale gli imprenditori)
riconosceva come controparte solo la Confederazione delle Corporazioni fasciste (l’organizzazione sindacale
nazionale fascista) e viceversa.
-una legge sulla disciplina giuridica dei rapporti di lavoro ammetteva l’esistenza solo delle associazioni
sindacali riconosciute legalmente dal governo, cioè quelle fasciste, abolendo il sindacalismo libero, il diritto
di sciopero e anche le serrate;
-una legge dichiarò decaduti tutti i deputati dell’opposizione, dando inizio all’effettivo scioglimento di tutti i
partiti con l’eccezione del PNF;
-la nuova legge elettorale approvata nel 1928, infine, introdusse il sistema della lista unica (stabilendo il
numero dei candidati secondo quanti erano i seggi da occupare) predisposta dal Gran Consiglio del Fascismo
e sottoposta agli elettori che dovevano solo approvarla o respingerla nella sua totalità. Queste leggi
approvate tra il 1925 e il 1926 ponevano fine allo Stato liberale nato nel 1861 con l’Unità d’Italia e davano
vita ad un regime dittatoriale a partito unico che non prevedeva la separazione dei poteri piuttosto la sua
concentrazione nelle mani di un solo uomo a capo del regime stesso.
Esercitazione lezione n. 28
1) Cosa si intende per “anni ruggenti”?
Gli SUA uscirono dal primo conflitto mondiale come una maggiore forza economica e militare. Il dollaro
diventa moneta forte e il mercato finanziario di NY si affianca per importanza a quello di Londra. Per tutti gli
anni venti (anni ruggenti) la storia americana conosce una fase di grande espansione economica e di
consumo di beni materiali liberi da ogni forma di controllo politico e sociale, divenendo un modello per le
società europee travolte dalla crisi del dopoguerra.
2) Illustrare la teoria del Taylorismo.
Durante questo periodo di grande prosperità si diffuse il taylorismo (tecniche di standardizzazione o
pianificazione scientifica del lavoro in fabbrica ideate dall’ingegnere Taylor). Si basava sul principio secondo
il quale la migliore produzione si ottiene quando si assegna ad ogni lavoratore un compito specifico da
svolgere in un determinato tempo e modo. Questa ide conduce alla specializzazione delle mansioni dei
lavoratori. Sulla base di questi principi nasce la catena di montaggio.
3) Quali furono le conseguenze provocate dal crollo della Borsa del 1929 sia a livello nazionale sia a
livello internazionale?
L’espansione economica degli “anni ruggenti” era caratterizzata da un elemento innovativo: la disponibilità
di credito. La duplice combinazione di capitali disponibili e facilità di credito toccarono il culmine nel
vertiginoso aumento della speculazione in Borsa. A questo si aggiungeva l’eccesso di produzione. Per
risolvere la situazione occorreva trovare altri mercati. A questo scopo dovevano servire i piani di Dawes e
Young. Tuttavia, il mercato europeo era troppo povero per assorbire il sovraccarico del mercato
statunitense. Il repentino crollo della Borsa di NY nel 1929 era soprattutto frutto indiretto della prima
guerra mondiale. Le conseguenze della crisi si avvertirono presto anche in Europa dove si rivelò la fragilità
del sistema dei debiti interalleati e l’assurdità delle riparazioni inflitte alla Germania. In Germania ed Austria
si giunse al collasso del sistema bancario ed una conseguente crisi monetaria. Anche la valuta inglese fu
svalutata. Il devastante risultato fu che tra il 1929 e 1932 la produzione del ondo diminuì del 40%. La
conseguenza fu la chiusura degli scambi tra i paesi e l’introduzione di elevati dazi doganali.
Esercitazione lezione n. 29
1) Descrivere gli effetti che ebbe la crisi del 1929 in Germania, Francia e Inghilterra.
I governi in Europa di fronte alla crisi aumentarono le tasse e diminuirono drasticamente la spesa pubblica,
abbassando gli stipendi dei pubblici dipendenti e tagliando le misure di assistenza sociale dispensate dallo
Stato. Queste decisioni tuttavia ottennero come unico effetto l’abbassamento ulteriore della domanda
interna e quindi l’aggravarsi della recessione. La ripresa dell’economia fu lenta e iniziò a manifestarsi solo
alla fine degli anni ’30, in seguito all’aumento delle spese militari dovuto al riesplodere delle tensioni
internazionali. Furono la guerra e il riarmo di fatto a far uscire l’Europa dalla depressione. In Germania gli
effetti della crisi furono più gravi che negli altri paesi europei per via della stretta interdipendenza che si era
creata tra l’economia tedesca, gravata dalle riparazioni, e quella americana con il sistema dei prestiti
internazionali. La crisi provocò la caduta del governo di coalizione guidato dai socialdemocratici che
entrarono in contrasto con partiti di centro-destra che volevano ridimensionare i servizi sociali. Nel 1930 il
governo attuò una politica di tagli, imponendo gravi privazioni alla popolazione anche con l’obiettivo di
rendere evidente all’opinione pubblica internazionale quali sacrifici la Germania doveva sopportare per
onorare il pagamento delle riparazioni. In parte questa strategia dette risultati perché nel 1932 una
conferenza interalleata decise di ridurre molto l’ammontare complessivo delle riparazioni e ne sospese il
pagamento per tre anni (al termine dei quali la Germania non riprese mai a pagare). La crisi in Germania
creò una situazione di disperazione (6 milioni furono i lavoratori disoccupati) che agevolò l’ascesa del
nazismo.
In Francia la crisi arrivò più tardi (nel 1931) ma si prolungò più a lungo, fino al 1938, soprattutto perché i
governi si attestarono in maniera intransigente sull’obiettivo della difesa del franco, ricorrendo alla
svalutazione della moneta solo nel 1937. Anche in Francia la recessione economica si accompagnò
all’instabilità politica con ben diciassette governi fra centro-destra e centro-sinistra che si succedettero fra il
1929 e il 1936. In Gran Bretagna, si affrontò la crisi con l’adozione di una politica che prevedeva drastici
tagli ai sussidi per i disoccupati ma a contrastare duramente questa decisione furono le Trade Unions che
rappresentavano una componente fondamentale del movimento laburista. Sotto il “governo nazionale” si
prese la storica decisione di svalutare la sterlina e di abbandonare la tradizione del libero scambio a favore
dell’adozione di una serie di tariffe doganali che prevedevano scambi privilegiati con i paesi del
Commonwealth. L’Inghilterra intorno al 1933-34 fu il primo paese industrializzato a mostrare segnali di
ripresa economica.
2) Illustrare le misure di emergenza attuate da Roosevelt nei primi cento giorni di mandato.
Nel 1932 si svolsero negli Stati Uniti le elezioni presidenziali. Il presidente uscente, che non aveva
conseguito significativi successi nel fronteggiare la crisi fino ad allora, venne battuto dal candidato
democratico, il governatore dello Stato di New-York, Roosevelt.
Roosevelt era un cinquantenne carismatico che proveniva da un’agiata famiglia. Egli si presentò agli elettori
senza alcun programma preciso su come affrontare la crisi, tuttavia riuscì a conquistare gli elettori grazie
alla fiducia e alla speranza di ripresa che seppe comunicare con il suo nuovo stile politico che aveva un tono
di familiarità. Molto popolari divennero ad esempio le sue “chiacchierate al caminetto” cioè delle
conversazioni radiofoniche che teneva frequentemente per spiegare agli americani la politica e le decisioni
che progressivamente veniva adottando. Nel 1933 annunciò la rifondazione del patto tra governanti e
governati sulle basi di un nuovo accordo, appunto il "New Deal" (“nuovo patto” o “nuovo corso”). Il New
Deal non identificò uno specifico programma di governo piuttosto una nuova linea di governo che si
sarebbe distinta per un maggiore e più energico intervento dello Stato nella vita economica. Questo “patto”
o “nuovo corso” tradusse in strategia politica le tesi dell'economista J. M. Keynes- già tra gli acuti
osservatori delle conseguenze economiche implicite nei Trattati di pace. Secondo l'economista il principio
da cui ripartire era l'ammissione dell'incapacità del mercato di autoregolarsi, principio che invece era stato
alla base della bolla speculativa che aveva condotto al disastro del 1929. Quale poteva allora essere il
correttivo in grado di rimettere in funzione il mercato?
In estrema sintesi, si può dire che toccava allo Stato essere il fattore determinante e regolatore della vita
economica non solo incentivando direttamente la domanda di beni e servizi ma anche fungendo da
redistributore di redditi a sostegno della domanda globale.
Nei “primi cento giorni” della sua presidenza Roosevelt adottò una serie di misure di emergenza per
arrestare la crisi: si procedette ad una ristrutturazione del sistema creditizio dopo che circa 5000 fallimenti
bancari avevano cancellato i risparmi di milioni di americani; il dollaro fu svalutato per facilitare le
esportazioni; furono incrementati i sussidi di disoccupazione e furono concessi prestiti per permettere ai
cittadini indebitati di estinguere le ipoteche sulle case. Roosevelt ricorse poi a nuovi strumenti di intervento
statale per risolvere la crisi: l’Agricultural Adjustment Act (Aaa), che aveva lo scopo di contenere l’eccesso di
produzione nel settore agricolo, era un piano che prevedeva il pagamento anche di somme in denaro a chi
si fosse impegnato a diminuire le coltivazioni e gli allevamenti; il National Industrial Recovery Act (Nira)
imponeva “codici di comportamento” alle aziende appartenenti ai diversi settori attraverso i quali si
tendevano ad evitare gli effetti di una concorrenza troppo dura e a salvaguardare i diritti e le paghe dei
lavoratori; si istituì la Tennessee Valley Authority (Tva) cioè un ente con l’obiettivo di regolare e gestire lo
sfruttamento delle risorse idroelettriche del bacino del Tennessee in modo da fornire energia a costo
contenuto per gli agricoltori. La presidenza di Roosevelt si impegnò inoltre a proporre un programma
consistente di riforme sociali: una riforma fiscale; una legge sulla sicurezza sociale , il Social Security Act
(1935), con il quale si garantiva a gran parte dei lavoratori la pensione di vecchiaia e veniva introdotto negli
USA un efficace sistema di assistenza alla disoccupazione, di distribuzione di aiuti sociali ai bisognosi che
preludevano alla nascita del Welfare State , lo Stato del benessere, che troverà ampia realizzazione nel
secondo dopoguerra; si introduceva inoltre una nuova legislazione sui rapporti di lavoro che consentiva e
incoraggiava l’attività dei sindacati salvaguardando il diritto dei lavoratori alla contrattazione collettiva. Il
movimento sindacale negli anni della presidenza Roosevelt riuscì a crescere e a guidare tutta una serie di
lotte operaie molto intense mai viste prima nella storia americana.
Il Presidente con l’esperienza de New Deal sicuramente riuscì a smentire quelle certezze tipiche del
liberismo, assurte a verità assolute, secondo le quali il mercato si autoregolava da solo ed era in grado di
autoristabilire il suo equilibrio anche in tempi di crisi, dimostrando invece che l’intervento statale era
indispensabile correttivo delle storture prodotte dagli eccessi del libero mercato.
Gli Stati Uniti raggiunsero gli obiettivi della piena occupazione e della ripresa economica autentica solo
durante la II guerra mondiale, in seguito alla rimessa in moto del sistema di produzione in tempo di guerra.
3) Quale fu il nuovo ruolo assunto dallo Stato americano in campo economico a seguito della crisi
del 1929?
La crisi del ‘29 un po’ in tutti i paesi indusse delle risposte per cui lo Stato assunse un ruolo nuovo in campo
economico: lo Stato mise in campo forme specifiche e dirette di intervento in campo economico che
definirono forme di cosiddetto “capitalismo diretto”.
Sia in Europa che negli Stati Uniti la presenza dello Stato nel settore economico si era già manifestata sia
allo scopo di promuovere i processi di industrializzazione, sia per smorzare e contenere i conflitti di classe
sia per gestire e dettare i ritmi della produzione in tempo di guerra. Tuttavia, prima dello scoppio della crisi
del ’29, la cultura economica delle classi dirigenti era orientata sui principi classici del liberismo, che, in
linea di massima, ammetteva l’intervento statale in economia solo in occasione di circostanze eccezionali
specifiche ma che postulava che il mercato fosse una realtà economica dotata di una capacità di espansione
autonoma e di capacità di autoregolamentazione. La crisi del ’29 compromise queste certezze, rivelando
l’incapacità delle forze economiche individuali di recuperare in maniera autonoma. Fu lo Stato a mettere in
piedi nuove forme di intervento nel settore economico: quando con un ruolo di sostegno esterno alle
attività produttive (l’adozione ad esempio delle misure doganali), quando assumendo compiti di controllo
(relativamente ai prezzi, ai cambi, ai salari, al livello di produzione), quando in funzione di soggetto attivo
dell’espansione economica. L’intervento dello Stato si manifestò in maniera diversa nei vari contesti
nazionali: negli Stati Uniti, ad esempio, si ricorse ad un grande aumento della spesa pubblica al fine di
accrescere la domanda interna; In Italia lo Stato assunse la gestione di imprese industriali in crisi; in Gran
Bretagna e nei paesi scandinavi vennero definiti dei programmi di sviluppo che fissarono alcune priorità
nella produzione e nei consumi in modo da dirigere, ricorrendo al credito e alla manovra fiscale, l’attività
economica verso il raggiungimento di alcuni fini stabiliti dalle classi dirigenti. I modelli di sviluppo del
capitalismo liberale, che prevedevano l’iniziativa autonoma di soggetti privati, subirono una modifica:
furono in parte mutati a vantaggio dell’affermarsi di forme di capitalismo diretto che prevedevano
l’esistenza di alcuni limiti all’azione e alle scelte operate dai privati. Tali limitazioni imposte ai privati furono
tuttavia bilanciate dalla messa in campo di forme di aiuto statale per far fronte ai problemi creati dalla crisi
e non furono tali da compromettere il perseguimento del fine del profitto, che quindi identificava ancora
l’obiettivo finale e il motivo principale dell’attività economica. Quasi tutti i governi, con quello americano in
testa, rafforzarono la presenza statale nell’economia, per far fronte alle emergenze del momento.
3) Quali erano le teorie sostenute da John Maynard Keynes?
Keynes, nel corso degli anni ’20, si era già messo in luce per aver espresso perplessità riguardanti la teoria
economica liberista. La crisi del ‘29 gli consentì di smentire alcune linee di base della teoria economica
classica e soprattutto il principio, in base al quale, il mercato tenderebbe ad autoregolare spontaneamente
l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, portando verso il raggiungimento dell’obiettivo della piena
occupazione delle unità di lavoro disponibili. Keynes sosteneva che i meccanismi spontanei di
funzionamento del capitalismo non consentivano un utilizzo ottimale delle risorse disponibili e
conseguentemente ciò rendeva il capitalismo soggetto a crisi ricorrenti. Keynes criticava scelte di politica
deflazionistica che, attraverso misure di diminuzione della spesa pubblica e la restrizione del credito,
conducevano ad una riduzione del potere d’acquisto dei privati e quindi della domanda complessiva. Allo
Stato, secondo Keynes, competeva attraverso l’allargamento della spesa pubblica, fare in modo di
aumentare la domanda, e soprattutto si doveva rinunciare al dogma del pareggio del bilancio. Keynes
sosteneva con la politica del deficit spending che la spesa pubblica avrebbe potuto sostenersi anche
attraverso il ricorso ai deficit di bilancio e facendo in modo di far circolare maggiore quantità di moneta. Le
conseguenze inflazionistiche di queste manovre sarebbero state compensate dai benefici che l’aumento
della spesa statale avrebbe portato ai redditi e alla produzione. Questa linea di intervento, tradotte sul
piano della teoria economica, riflettevano quelle che Roosevelt stava seguendo negli Stati Uniti. Questa
direttiva di politica economica, fondata sulla manovra della spesa pubblica, avrebbe ispirato le scelte
economiche di quasi tutti i governi occidentali dopo il secondo conflitto mondiale.
Esercitazione lezione n. 30
1) Quali sono i caratteri distintivi dei “fascismi”?
Tra le due guerre si affermarono un po’ ovunque in Europa i regimi autoritari, anche nei paesi dove si
mantennero forme di governo e istituzioni democratiche crebbero i movimenti che si ispiravo a ideali e
orientamenti filofascisti. Si diffuse anche nell’opinione pubblica un senso di sfiducia nella democrazia e nei
sistemi democratici considerati inefficaci ai fini della tutela degli interessi nazionali e del benessere
generale mentre si affermava la convinzione che la scelta fosse tra regimi autoritari di sinistra (il
comunismo sovietico di Stalin) o di destra. I regimi autoritari si affermarono negli anni trenta sia nelle
forme di dittature reazionarie di tipo tradizionale, sia nelle forme più “moderne” del fascismo italiano e in
seguito del nazismo tedesco.
I caratteri dei fascismi
Sebbene non esista un modello univoco di fascismo né di una dottrinaria univoca, i regimi che definiamo
fascisti, si caratterizzarono tutti per il fatto di presentarsi con il proposito di dar corso ad una rivoluzione e
non solo ad una controrivoluzione, di costituire un nuovo ordine politico e sociale diverso da quelli
realizzati fino ad allora. Sotto il profilo dell’organizzazione politica il fascismo si caratterizzava per
l’accentramento dei poteri in capo ad una sola persona, per la struttura di tipo gerarchico che assumeva lo
Stato, per l’inquadramento forzato in organizzazioni di massa cui era soggetta la popolazione, per la stretta
vigilanza che si stabiliva sugli organi di informazione e sulla cultura. Sotto il profilo economico e sociale il
fascismo pretendeva di rappresentare e proporre una “terza via” fra capitalismo e comunismo anche se in
realtà non si configurò mai come una reale alternativa, traducendo in realtà un sistema caratterizzato
dall’accresciuto e generalizzato intervento statale nell’economia e dall’abolizione del libero confronto
sindacale.
Il fascismo come proposta di “terza via” esercitò una grande forza di attrazione soprattutto sui settori
sociali intermedi, sui cosiddetti “ceti medi”: le classi popolari si assoggettarono forzatamente ai regimi
autoritari, la grande borghesia dette sostegno ai fascismi per convenienza e non tanto per convinzione,
furono invece proprio i ceti medi ad aderire al fascismo con slancio e partecipato convincimento. Il fascismo
ottenne inoltre l’appoggio dei giovani desiderosi di placare la loro ansia di avventura, di alcuni intellettuali,
dei piccolo borghesi disillusi nella democrazia, terrorizzati dallo spettro comunista che aleggiava sull’Europa
che si illusero di individuare nel fascismo una soluzione nuova che comunque consentiva di sentirsi parte di
una comunità, di avere un riferimento e di immedesimarsi in un capo, di contrapporsi e di poter identificare
un nemico, di avere la possibilità di essere inseriti per proprie doti e non per privilegio di nascita o per
censo, in una organizzazione gerarchica. Queste possibilità che i fascismi proponevano offrivano una forma
di compensazione al senso di annullamento e di impersonalità provocato dai processi di “massificazione” in
corso in quegli anni. Se tuttavia i fascismi rappresentarono una reazione contro la società di massa al tempo
stesso configurarono anche un’esaltazione di alcuni aspetti della società di massa stessa. Il fascismo a ben
vedere fu uno dei maggiori interpreti della società di massa: di essa seppe cogliere e tradurre i motivi
violenti e aggressivi che la percorrevano, seppe impiegare e usare le tecniche, gli strumenti, i mezzi di
propaganda (radio, cinema ecc.), di informazione, le strutture giovanili della società di massa. Questa
peculiare capacità di interpretazione, di adattamento, e di controllo della società di massa connotò
specificamente i regimi come il fascismo, il nazismo, il regime sovietico nell’età dei Stalin (regime che ebbe
una matrice ideologica e sociale opposta), tutti animati dall’identica volontà di dominare in modo “totale”
non solo lo Stato ma la società nel suo complesso e nei suoi singoli componenti (i cittadini) e per questo
definiti totalitari.
2) Descrivere la genesi del PartitoNazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi.
La crisi della Repubblica di Weimar e l’affermarsi del nazismo
Nei difficili anni del dopoguerra in Germania dove dilagava la crisi politica, economica e sociale si intensificò
l’attività reazionaria delle forze nazionaliste. In questa fase si mise in luce Adolf Hitler (1889- 1945)
austriaco che aveva partecipato alla grande guerra, arruolandosi nell’esercito tedesco: convinto
nazionalista e antisemita, dopo la guerra era tornato a Monaco dove, in un primo tempo aveva aderito al
Partito dei Lavoratori Tedeschi. Questo partito aveva un orientamento nazionalista e antisemita, era però
fautore di programmi di politiche sociali per i lavoratori e voleva caratterizzarsi come una formazione a
contatto sia con le masse che con i nazionalisti, a differenza dei partiti del ceto medio. Hitler, a capo di un
gruppo di ex-combattenti e nazionalisti, riuscì ad imporsi all’interno del partito al quale nel 1920 cambiò
nome, costituendo così il Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi. Nel 1921 il partito si dotò delle
S.A (“ i reparti d’assalto”), cioè di squadre armate di partito guidate dal capitano dell’esercito Ernst Rohm.
Le S.A., essendo come le squadre fasciste corpi armati a disposizione di un partito, rappresentavano con la
loro stessa esistenza un grave elemento di alterazione della legalità costituzionale in Germania. Fino al 1929
il Partito Nazionalsocialista o nazista configurò una formazione minoritaria, a metà tra il partito e il gruppo
paramilitare che si collocava al di fuori della legalità repubblicana sia perché faceva ricorso in maniera
sistematica alla violenza per contrastare gli avversari politici, sia perché disponeva in maniera permanente
e organica di un’organizzazione armata. A chiarire la natura eversiva del partito e i propositi del suo capo fu
significativo anche il colpo di Stato di cui Hitler stesso nel 1923 fu tra i protagonisti. Il colpo di Stato,
cosiddetto “della birreria”, avvenne in Baviera, dove molti gruppi politici nazionalisti si erano dati
appuntamento per contestare la decisione del governo centrale di mettere fine alla resistenza passiva per
l’occupazione francese della Ruhr. In questa circostanza Hitler prese contatti con il generale Ludendorff,
uno dei capi dell’esercito tedesco durante la guerra, e si convinse di riuscire a convincere i locali
responsabili dell’esercito e le principali autorità politiche bavaresi a cooperare con lui ad un colpo di stato
antirepubblicano. Viste le indecisioni dei suoi interlocutori, decise di procedere da solo. Il colpo di stato fallì
e Hitler si fecce 9 mesi di carcere, dove scrisse “ Mein Kamf” (pubblicato nel 192, divenne il vero e proprio
testo sacro del nazismo)
3) Quali furono le idee espresse da Hitler nel Mein Kampf?
In questo volume Hitler definì il patrimonio ideologico e gli obiettivi politici del nazismo. Già da queste
pagine emergeva ad esempio quello che poi sarà un aspetto centrale del nazismo-il mito della razza: Hitler
coltivava un disegno utopico, nazionalista e razzista . Egli fin da giovanissimo era animato da un sentimento
di antisemitismo radicale, condivideva una concezione della vita che potremmo definire rozzamente
darwiniana, nel senso che secondo lui la vita identifica una lotta continua in cui solo i forti erano destinati a
vincere e primeggiare. Hitler credeva che esistesse una razza superiore e conquistatrice, quella ariana, che
tuttavia progressivamente si era alterata nella purezza della sua integrità per via della mescolanza con razze
e popoli che Hitler considerava inferiori. Dato che solo i popoli nordici, e soprattutto il popolo tedesco,
conservava i caratteri ariani puri per questo era destinato a dominare il mondo. I Tedeschi per realizzare
questo piano di dominio sul mondo dovevano dapprima eliminare i “nemici interni” e per primi gli Ebrei, “il
popolo senza patria” in cui Hitler identificava i responsabili di tutti i mali: dal declino della morale, alle
nefandezze del bolscevismo e del capitalismo finanziario; gli ebrei rappresentavano ai suoi occhi la causa e
l’emblema del declino della civiltà europea. La Germania, dopo essersi sbarazzata dei nemici, avrebbe
dovuto ricostituire la sua unità in un nuovo Stato che avrebbe dovuto darsi come capo e guida un uomo in
grado di interpretare le aspirazioni profonde del popolo tedesco; successivamente, per prima cosa, avrebbe
dovuto respingere le clausole imposte alla Germania dal Trattato di Versailles, recuperare le terre perdute e
cercare di espandersi verso est, quindi recando offesa alle popolazioni slave, considerate popoli inferiori. La
ricerca dello spazio vitale a est avrebbe consentito a Hitler di giustificare i progetti di espansionismo
territoriale con la campagna ideologica contro il comunismo. Un programma così estremista quale era
quello delineato da Hitler nel Mein Kampf non riscosse larghi consensi nella Germania di Stresemann del
Partito Tedesco Popolare. Tra le elezioni del 1924 e quelle del 1928 il Partito Nazionalsocialista di Hitler
ottenne infatti consensi insignificanti. Fu chiaramente dopo il tracollo causato dalla crisi del ‘29 che la
situazione cambiò molto rapidamente: la gran parte dei Tedeschi, ridotti sul lastrico, perse fiducia nelle
istituzioni repubblicane e nei partiti più rappresentativi di essa. A destra le varie forze che esprimevano la
conservazione (l’esercito, gli agrari, la grande industria e la burocrazia) manifestarono più chiaramente
l’intenzione di voler sovvertire l’assetto istituzionale e presero ad appoggiare apertamente i nazisti.
Esercitazione lezione n. 31
1) Quali effetti ebbe la crisi del ’29 sull’ascesa al potere di Hitler?
Fu chiaramente dopo il tracollo causato dalla crisi del ‘29 che la situazione cambiò molto rapidamente: la
gran parte dei Tedeschi, ridotti sul lastrico, perse fiducia nelle istituzioni repubblicane e nei partiti più
rappresentativi di essa. A destra le varie forze che esprimevano la conservazione (l’esercito, gli agrari, la
grande industria e la burocrazia) manifestarono più chiaramente l’intenzione di voler sovvertire l’assetto
istituzionale e presero ad appoggiare apertamente i nazisti. Fu infatti dopo la crisi del ‘29 che Hitler poté
trarre profitto dagli enormi sconvolgimenti sociali che si produssero e si avviò alla conquista del potere.
Hitler ottenne l’appoggio dei grandi gruppi industriali e finanziari, sfruttò la disperazione e il risentimento
dei ceti medi e dei disoccupati e al tempo stesso intensificò l’opera di agitazione politica, ricorrendo alla
violenza esercitata anche attraverso le S.S. (Shutz – Staffeln) le “squadre di difesa”-una sua milizia
personale che aveva provveduto a costituire. Fu dunque profittando di precise circostanze storiche che
Hitler potè affermare il proprio potere in Germania. Come ha efficacemente notato lo storico A.J.P. Taylor il
programma nazionalsocialista offriva a una comunità che aveva già perduto qualsiasi unità e fiducia nuove
certezze: ai lavoratori offriva lavoro, alle classi medie inferiori un nuovo rispetto di sé e una nuova
importanza; ai capitalisti più ingenti profitti e libertà dai controlli dei sindacati; ai capi militari un grande
esercito; a tutti i tedeschi la prospettiva di un ritorno alla supremazia della Germania ma anche svariati capi
espiatori ai quali ricondurre le responsabilità delle sciagure del paese. La crisi della Repubblica di Weimar
entrò nella sua fase acuta quando il cancelliere Bruning, nel settembre del 1930, indisse nuove elezioni
nella speranza di poter ottenere una maggioranza favorevole alla sua politica di austerità. I nazisti
ottennero un’affermazione incredibile.
Nel 1932 la crisi economica raggiunse la sua fase più acuta: la produzione industriale calò del 50% rispetto
al 1928, i disoccupati raggiunsero la cifra di sei milioni mentre i nazisti acquisivano crescenti consensi. Le
città erano divenute lo scenario di manifestazioni e cortei nazisti ma anche di sempre più frequenti scontri
violenti tra nazisti e comunisti, di scorribande punitive sanguinose, con un centinaio di morti. Hitler non
esitò a porre alle elezioni presidenziali la sua candidatura rimanendo sconfitto, comunque ottenne una
notevolissima affermazione personale.
2) Descrivere le fasi dell’ascesa di Hitler.
Ormai era chiaro che i nazisti avevano ottenuto il consenso delle tradizionali forze conservatrici tedesche
(finanza,industria, esercito). Il Presidente convocò Hitler e gli affidò il compito di presiedere un esecutivo
composto dalle forze più significative della destra, all’interno del quale i nazisti avevano solo tre ministeri
su undici: come era successo ai liberali in Italia con Mussolini, solo qualche anno prima, i conservatori si
illusero di poter usare Hitler per perseguire i loro fini di conservazione e di restaurazione di equilibri politici
alterati ma le cose andarono diversamente. Una volta insediatosi alla guida dell’esecutivo, Hitler, in tempi
brevissimi, riuscì a esercitare una forma di potere più totalitario di quanto mai fosse riuscito a realizzare lo
stesso Mussolini, al quale servirono ben quattro anni per mutare lo Stato liberale italiano in uno Stato
dittatoriale a partito unico. Fu subito chiaro quali fossero le intenzioni di Hitler. Prendendo a pretesto un
ambiguo episodio di incendio appiccato nella notte del 27 febbraio del 1933 al Reichstag, il Parlamento
nazionale, di cui fu accusato un comunista olandese con problemi mentali, Hitler scatenò una violenta
opera di repressione contro i comunisti la cui esecuzione venne affidata alle forze di polizia.
Dirigenti e militanti comunisti furono arrestati e il Partito Comunista fu dichiarato fuori legge; a seguire
vennero approvate le 28 leggi eccezionali che praticamente annullavano le libertà politiche e civili del
popolo tedesco (libertà di riunione, di stampa, di espressione ecc. ).
Alle elezioni nel 1933 il Partito Nazista ottenne la maggioranza dei consensi, ma non ottenne la
maggioranza assoluta; Hitler oramai puntava più in alto, direttamente all’abolizione del Parlamento: così
riuscì a far approvare al Reichstag, una legge praticamente suicida, che affidava al governo i pieni poteri,
compreso quello di legiferare e di modificare la costituzione. In Parlamento, in assenza dei comunisti (tutti
arrestati o latitanti), votarono contro la legge solo i socialdemocratici. La SPD fu accusata del reato di “alto
tradimento” e fu dichiarata sciolta, mentre poco prima la Confederazione dei sindacati liberi, affine alla
socialdemocrazia, era stata soppressa con un atto di polizia. Con poche rapide mosse Hitler era riuscito a
mettere fuori gioco quello che era stato il partito operaio più forte d’Europa, quello che era stato il
riferimento organizzativo e ideologico di quasi tutti i partiti operai europei più forti. Anche la SPD non era di
fatto riuscita ad esprimere una resistenza organizzata di rilievo. Hitler si sbarazzò poco dopo anche di quei
partiti che non avevano ostacolato l’affermarsi del nazismo: Il Partito Tedesco nazionale indotto dai nazisti
ad autosciogliersi e il Centro Cattolico, costretto alla stessa sorte. Nel 1933 una legge dichiarava il Partito
Nazionalsocialista Tedesco l’unico ammesso In Germania. Nel novembre del 1933 si tennero infine nuove
elezioni, questa volta a carattere plebiscitario: agli elettori si presentò una lista unica che si chiedeva di
approvare o rifiutare; il risultato fu schiacciante, con il 92% di voti favorevoli al nazismo. Hitler, per
completare il suo piano e rimuovere i possibili ostacoli al suo progetto di impadronirsi ed esercitare un
potere assoluto, dovette confrontarsi con altri due interlocutori che considerava troppo ingombranti: l’ala
estremista del nazismo, rappresentata dalle S.A. di Rohm, che appariva troppo autonoma, e una parte della
vecchia destra impersonata da Hindenburg e dagli alti vertici militari, che comunque avevano chiesto
esplicitamente a Hitler di interrompere il susseguirsi di atti di violenza estremistica e soprattutto che Hitler
stesso si impegnasse a salvaguardare e rispettare le tradizionali prerogative di autonomia delle forze
armate. Per annientare le S. A. ricorse alle sue personali squadre armate, le S. S., che sterminarono
letteralmente i componenti delle S.A. durante la famosa notte “dei lunghi coltelli”: Hitler in persona
intervenne per arrestare Rohm. Rohm e i suoi più stretti collaboratori furono poi assassinati dalle S. S.
Come compenso per aver eliminato l’ala più estrema del nazismo, Hitler ottenne l’appoggio dell’esercito
alla sua candidatura come cancelliere e capo dello Stato. Ciò comportava che gli ufficiali giurassero fedeltà
a Hitler, perciò al nazismo, e questo fatto decretava la fine di quelle prerogative di autonomia dal potere
politico di cui fino ad allora avevano sempre goduto i generali e che sempre erano stati pronti e attenti a
difendere. ll cerchio dei fedelissimi di Hitler si andava stringendo (rimanevano solo le S.S.) per formare
quell' élite gerarchizzata tipica di un governo totalitarista.
3) Illustrare l’ideologia alla base del nazismo.
Con l’assunzione da parte di Hitler della presidenza spariva ogni sopravvivenza del sistema repubblicano.
Nasceva il Terzo Reich, il terzo Impero. Da questo momento, infatti, nel nuovo regime si realizzava in modo
totale la subordinazione della vita sociale all'autoritario e gerarchico "principio del capo" (Fuhrerprinzip)
che costituiva un principio base della dottrina nazista. Si inaugurava l'epoca del totalitarismo nazista. Il capo
(Fuhrer era l’equivalente di duce) si configurava non solo come colui che prendeva le decisioni più
importanti, ma anche come la fonte del diritto, come l’interprete insuperabile e non fallibile delle
aspirazioni più profonde del popolo. Il Fuhrer in poche parole era dotato di un potere che Max Weber
all’inizio del 900 aveva definito come carismatico, in quanto basato sul possesso di una prerogativa
straordinaria il carisma, che derivava al capo dalla coscienza di avere una missione particolare da portare
avanti per conto di tutto il popolo.
Il rapporto che si prevedeva dovesse instaurarsi fra capo e popolo doveva essere diretto non mediato
istituzionalmente, l’unico termine di collegamento ammesso era dato dal partito unico e dai vari organismi
ad esso collaterali: ad esempio il Fronte del Lavoro che aveva preso il posto dei sindacati liberi soppressi, o
le organizzazioni giovanili che facevano riferimento alla Hitlerjugend (gioventù hitleriana). Queste
organizzazioni dovevano servire a trasformare i cittadini in una “comunità di popolo” solidale e disciplinata,
dal quale dovevano essere assolutamente esclusi gli elementi antinazionali, cioè i cittadini che avevano
origini straniere “non ariane” e prima di tutto gli ebrei che furono identificati come vero e proprio mito
negativo, condannati ad assolvere ad un ruolo di capro espiatorio, al quale imputare ogni tipo di colpa e
contro il quale sfogare ogni motivo di insoddisfazione. Gli ebrei in Germania rappresentavano una
minoranza (500.000 su una popolazione di oltre 60 milioni di abitanti), abitavano prevalentemente le grandi
città e anche se esclusi da ruoli politici dirigenziali, erano comunque parte delle sfere medio alte della scala
sociale. Per lo più gli Ebrei svolgevano le libere professioni, quelle del commercio, quelle intellettuali e
artistiche, e molti erano esponenti della grande industria e dell’alta finanza (Nel 1935 con le leggi di
Norimberga essi vennero ufficialmente discriminati, privati di tutti i diritti di cittadinanza e ridotti allo
status di razza inferiore). L’idea della salvaguardia dell’integrità razziale del popolo eletto ispirò la teoria e la
pratica del nazismo. Il concetto stesso dello Stato, che era basilare nella dottrina del fascismo italiano,
aveva invece nel nazismo una funzione secondaria rispetto a quella della razza. Il carattere crudele e
diabolico del nazismo è forse da individuare proprio nella perseverante e assoluta volontà di perseguire il
mito della purezza razziale.
Oltre a questo elemento, poi, il nucleo centrale dell'ideologia nazista era costituito da motivi anche
caratteristici del pensiero e della tradizione culturale tedesca. Questo, secondo molti storici, spiega la
risonanza delle teorie hitleriane nel pensiero del popolo tedesco e la disponibilità di quest'ultimo a forzare
anche i limiti dell'azione criminale per seguirne i dettami. Partendo da queste considerazioni un importante
storico, come George Mosse è giunto alla conclusione che il nazismo non abbia in realtà inventato niente
ma abbia solo riutilizzato, ricorrendo a metodi e liturgie più moderne, un intero apparato di riferimenti
culturali tipici della tradizione germanica.
In questo senso, alcuni elementi hanno una particolare importanza: I principi del nazismo
-il concetto di popolo (Volk o comunità di popolo) come fattore di identità collettivo, globale non
riconducibile ad una semplice comunanza di sangue. Di qui quel processo di "nazionalizzazione delle
masse", cioè di pieno coinvolgimento del popolo nell'idea di nazione, che è stato la forza motrice del
nazismo
- il concetto di Impero (Reich) che riprendeva l'idea evocatrice e gloriosa del Sacro Romano Impero
Germanico di età medioevale e l'Impero guglielmino possibile grazie alle solide basi nazionali costruite
dall'azione bismarckiana. Per questo l'impero nazista, visto in ideale continuità con essi, era definito
Terzo Reich.
-L’idea di “spazio vitale” del Nazismo aveva invece origine diversa, essendo riconducibile certamente al
classico pensiero espansionista tedesco, anche se questa idea-nella congiuntura temporale che vide
nascere il nazismo- trovò ricco alimento nello scontento per le dure condizioni imposte alla Germania dai
trattati di pace. Una frustrazione tale da far affermare ad Hitler nelle pagine del Mein Kampf: " Soltanto
il possesso di uno spazio vitale sufficientemente vasto su questa terra assicura ad un popolo la libertà
dell'esistenza. [...]Noi facciamo definitivamente cessare la politica coloniale e commerciale
dell'anteguerra e passiamo alla politica del suolo dell'avvenire". Se le linee future di espansione del
nazismo parevano definite, in quanto come scriveva Hitler stesso “- se noi parliamo oggi di terra nuova e
suolo nuovo in Europa possiamo pensare soprattutto e solo alla Russia e agli Stati ad essa sottoposti", la
quantità di spazio vitale necessario era ancora un'incognita. Quale era infatti il significato di quel
sufficientemente vasto cui si riferiva il Mein Kampf? La risposta sarebbe arrivata all'Europa con la seconda
guerra mondiale.
Esercitazione lezione n. 32
1) Descrivere la situazione economica e politica dell’Unione Sovietica nel periodo intercorso tra
le due guerre mondiali.
Nel periodo fra le due guerre, gli anni della depressione e dell’espandersi del fascismo in tutta Europa,
molti lavoratori e intellettuali antifascisti intravedevano nell’Unione Sovietica una speranza: infatti proprio
in Unione Sovietica si tentava di dare vita ad un sistema sociale politico ed economico ispirato a principi
nuovi e socialisti che come tale poteva rappresentare un’alternativa sia del fascismo che del capitalismo.
Mentre infatti gli stati capitalistici erano coinvolti da una crisi dal quale stentavano a venire fuori, l’URSS
proprio grazie alla sua condizione di isolamento anche economico, non solo rimaneva immune dalla crisi
ma addirittura si avviava a compiere un percorso impegnativo che l’avrebbe portata all’industrializzazione e
a colmare quindi il divario che la separava dalle altre potenze.
La decisione di procedere con tempi accelerati verso lo sviluppo industriale fu presa da Stalin tra il ’27 e il
’28, dopo la sostanziale sconfitta dell’opposizione di sinistra che all’interno del Partito bolscevico aveva
insistito proprio sull’urgenza di procedere all’industrializzazione. La Nep era stata adottata da Lenin come
soluzione temporanea, ma era sempre stata viva in lui come in tutto il partito la consapevolezza che
l’industrializzazione era la premessa necessaria per costruire una società socialista, così come soprattutto
Stalin era profondamente convinto che solo sviluppando l’industria pesante anche l’Urss avrebbe potuto
divenire una grande potenza militare, in grado di concorrere e confrontarsi con le altre potenze
capitalistiche.
Stalin era consapevole che per raggiungere questo fine rapidamente era necessario che lo Stato fosse in
grado di imporre un controllo completo sui processi economici, realizzando una realtà economica
collettivizzata. Per la realizzazione di questo obiettivo Stalin individuò un ostacolo nell’esistenza del ceto dei
Kulaki, i piccoli e medi proprietari terrieri, “i contadini benestanti” che vennero accusati di arricchirsi a
danno del popolo e di ridurre alla fame le città per il fatto di rifiutarsi di consegnare le quote stabilite di
prodotto allo Stato. Dapprima Stalin adottò contro i Kulaki provvedimenti di requisizione forzata e altre
misure repressive, in un secondo momento, nel 1929, data la resistenza opposta dai Kulaki, che
rallentarono per protesta la produzione, Stalin impose la collettivizzazione forzata del settore agricolo e
l’eliminazione dei kulaki come classe. A contraddire questa linea fu Nikolaj Bucharin, l’esponente bolscevico
più importante dopo Stalin, sostenitore convinto della Nep e della necessità di preservare l’alleanza sociale
fra il ceto operaio e quello contadino. Bucharin e i suoi sostenitori furono liquidati da Stalin come
“deviazionisti di destra” e la maggioranza del partito si schierò con Stalin. La traduzione concreta della
collettivizzazione forzata significò l’avvio di un’opera di repressione contro i contadini ricchi ma anche
contro tutti coloro che resistevano ai provvedimenti di requisizione forzata e ai trasferimenti nelle fattorie
collettive (kolchoz). Moltissimi contadini, indicati come “nemici del popolo”, furono fucilati, altri arrestati,
altri ancora vennero deportati con le loro famiglie in Siberia o nella parte nord della Russia e rinchiusi in
campi di lavori forzati. Durante questa fase di repressione, fra il 1932-33, si verificò in Russia anche una
grave carestia che a lungo venne tenuta nascosta all’opinione pubblica mondiale (causata anche dalla
resistenza tenace opposta in qualche caso dai contadini che preferivano macellare il bestiame o distruggere
i raccolti prima di consegnare i beni allo Stato o alle fattorie collettive) ma che fece moltissime vittime e che
non distolse i bolscevichi dal perseguimento dei loro fini e prima di tutto dalla determinazione di eliminare
ogni possibile focolaio di resistenza alle decisioni prese dall’alto. Fra il ’29 e il’33 i Kulaki, che
ammontavano a circa 5 milioni in URSS, furono eliminati come persone e come classe. Il numero di
vittime della carestia fu spaventoso e anche il bilancio economico di queste iniziative fu all’inizio
un disastro e solo sul finire degli anni Trenta la produzione in agricoltura, attraverso il largo ricorso ai
concimi e ai macchinari, potè riavvicinarsi ai livelli della Nep. Le deportazioni, i morti per carestia, i
trasferimenti di molti contadini nelle città risolsero il problema del sovraffollamento delle campagne,
mentre il 90% dei contadini, ancora alla fine degli anni Trenta, risultò impiegata nelle fattorie collettive. La
svolta voluta da Stalin, e da lui stesso definita come “una rivoluzione dall’alto”, mirava a cambiare
radicalmente il volto del paese trasferendo risorse economiche e energie umane in modo massiccio dal
settore agricolo a quello industriale. Iniziava così un percorso a tappe forzate verso l'affermazione del
paese come grande potenza industriale, anche a prezzo di enormi sacrifici e di pesanti ricadute sul tessuto
sociale
3) Cosa prevedevano i piani quinquennali promossi da Stalin?
La crescita industriale del paese a tappe forzate fu predisposta e realizzata da Stalin attraverso degli
strumenti di intervento e di pianificazione statale dell’economia che furono detti Piani. Il I Piano
quinquennale (1928 – 1932) si pose una serie di obiettivi ambiziosissimi, in gran parte raggiunti. La crescita
che venne registrata nei cinque anni di svolgimento del piano avvenne a ritmi mai verificatisi in nessun
paese capitalistico fino ad allora: la produzione industriale era aumentata del 50%, arrivando addirittura al
200% per il carbone e l’acciaio, mentre il numero degli impiegati nell’industria era passato da tre milioni a
oltre cinque milioni. Con il II Piano quinquennale (1933 – 1937) la produzione crebbe ancora del 120%
mentre gli addetti all’industria arrivarono ai 10 milioni. Il raggiungimento di questi incredibili successi fu il
risultato di vari fattori: l’enorme concentrazione di risorse realizzata per perseguire questo fine che a sua
volta fu resa possibile dal prelievo di ricchezza operata a danno della popolazione e specie di quella rurale;
dalla capacità di Stalin di motivare ideologicamente e dal punto di vista dell’orgoglio patriottico i lavoratori
verso il raggiungimento degli obiettivi del piano. Nelle industrie furono imposti una disciplina e ritmi di
lavoro serratissimi, ai quali gli operai riuscirono a far fronte proprio perché fortemente convinti dal punto di
vista ideologico e anche motivati da incentivi materiali e da gratificazioni morali (i lavoratori più produttivi
venivano premiati con promozioni e con onorificenze la più ambita delle quali era il titolo di “eroe del
lavoro”). Tutto questo contribuì a creare il mito dell’Urss in Occidente: i comunisti individuarono in questi
successi la previsione di un sicuro affermarsi del comunismo anche in Occidente, ma anche intellettuali ed
esponenti democratici e socialdemocratici, fino ad allora lontani dagli ideali comunisti, guardarono all’URSS
con ammirazione e crescente interesse, d’altro canto non poteva ignorarsi il fatto incredibile e davvero
senza precedenti di un paese che in soli dieci anni riusciva nell’intento di triplicare il volume della
produzione industriale e addirittura a quadruplicare il numero degli occupati nell’industria e ciò avveniva in
una stessa fase durante la quale tutto il resto dei paesi industrializzati e già avviati al capitalismo si
dibattevano in una crisi gravissima che vedeva ovunque calare la produzione e aumentare la
disoccupazione . In realtà per molto tempo rimasero oscuri e furono volutamente tenuti nascosti gli enormi
costi umani di questa operazione diretta da un regime che veniva ancora più rivelando i suoi caratteri di
totalitarismo, e all’interno del quale Stalin rafforzava sempre più il suo potere assoluto. Il potere di Stalin
era anch’esso sorretto dalla presenza di un rigido apparato burocratico e poliziesco ma anche dal
consenso spontaneo che molti lavoratori conferivano a Stalin in quanto erede di Lenin e vero e proprio
artefice dell’industrializzazione. Stalin acquisì in Urss un ruolo di capo carismatico uguale a quello che, nello
stesso periodo, si erano dati i dittatori di opposto orientamento ideologico. Stalin divenne il grande padre
del suo popolo, l’autorità politica più alta, ma anche l’unico interprete autorizzato della cosiddetta dottrina
“marxista – leninista” nonché il garante dell’applicazione corretta di questa dottrina.
4) Quale fu l’atteggiamento adottato da Stalin nei confronti dei suoi oppositori politici?
Stalin non si limitò a mettere fuori gioco politicamente i suoi rivali (cioè tutti i principali esponenti
bolscevichi) ma li volle deliberatamente uccidere, così come volle eliminare fisicamente migliaia di quadri
dirigenti di partito e di semplici cittadini macchiatisi a suo dire del “crimine” del “deviazionismo”, o del
“tradimento di classe”. Il terrore staliniano era già iniziato all’epoca del primo piano quinquennale e i
contadini, i tecnici, i commercianti erano stati le prime vittime di esso; le cosiddette “grandi purghe”
furono avviate invece a partire del 1934, con l’assassinio (sembra ordinato da Stalin stesso) di un
importante esponente e dirigente comunista che fu la giustificazione per dar corso ad una serie di arresti
che coinvolsero molte figure dirigenziali del partito stesso. Le purghe negli anni seguenti si intensificarono,
furono condotte sulla base di motivi sempre assolutamente arbitrari, coinvolsero un numero crescente di
persone incolpevoli tanto che furono creati vari campi di lavori forzati, o “lager”, in tutto il territorio russo,
e soprattutto nelle zone più impervie e proibitive di esso, dove i presunti “colpevoli” o “traditori” vennero,
deportati, rinchiusi, torturati e uccisi, spesso senza neppure conoscere i motivi delle crudeltà di cui erano
vittime. Questa terribile realtà fu descritta dallo scrittore Aleksandr Solzenicyn che dette ai campi di lavoro,
dove lui stesso venne rinchiuso, il nome di “Arcipelago Gulag” (Gulag era una sigla burocratica che
significava “Amministrazione centrale dei lager”). Solzenicyn fu deportato in uno dei campi di lavoro e qui
rinchiuso dal 1945 al 1953; successivamente fu vittima anche di un periodo di confino, infine, liberato,
descrisse nel 1962 la sua esperienza in un racconto; dal 1966 gli fu vietato di pubblicare in URSS; nel 1970
gli venne conferito il Nobel per la letteratura ma non si recò a ritirare il premio a Stoccolma; nel 1974 fu
arrestato, espulso dall’URSS e privato della cittadinanza , quindi visse successivamente in Svizzera e negli
USA; la proibizione di pubblicare in URSS le sue opere fu revocata nel 1989 e nel 1994 lo scrittore poté
tornare a vivere in patria) . Molti oppositori furono i protagonisti di processi pubblici, che dal punto di vista
formale venivano svolti regolarmente, ma che in realtà erano fondati su confessioni che erano state
ottenute con le torture degli imputati, che stremati “confessavano” puntualmente di ordire trame oscure in
collaborazione con “trotzkisti” o con spie del fascismo internazionale. Secondo questo stesso copione
furono eliminati tutti gli oppositori di Stalin (fucilati, caduti in disgrazia agli occhi del dittatore; lo stesso
Trotzkij, in esilio dal 1929, e dall’estero instancabile oppositore di Stalin, fu ucciso in Messico nel 1940,
raggiunto da un sicario mandato da Stalin). La repressione non risparmiò alcun settore della società e nel
1937 colpì anche i quadri delle forze armate, con lo sterminio di circa 20.000 ufficiali e in testa del
maresciallo Tuchacevskij, capo dell’Armata Rossa. È stato calcolato che le vittime dello stalinismo nel
periodo compreso fra la collettivizzazione e l’avvio della II g. m. furono circa 10- 11 milioni. Le grandi
purghe, le deportazioni di massa e i processi, che ebbero luogo negli anni Trenta, destarono impressione in
Occidente ma ebbero scarsa attenzione in alcuni ambienti democratici e socialisti, e comunque non
destarono le reazioni di scandalo che avrebbero dovuto suscitare, ciò fu dovuto in parte alla scarsità di
notizie complete e disponibili ma anche a ragioni di carattere ideologico (era diffusa l’idea di marca
giacobina per cui un periodo di terrore fosse necessario al compimento di grandi rivoluzioni) e politico
(l’aiuto irrinunciabile che dall’Urss e dal comunismo internazionale poteva giungere nella lotta al fascismo).
Esercitazione lezione n. 33
1) Quale fu la politica estera messa in atto da Hitler?
Una volta portato a termine il progetto di instaurare la dittatura in Germania, Hitler si propose di realizzare
gli obiettivi del pangermanesimo e si avviò a tradurre in pratica il suo progetto politico imperialista basato
sulla volontà di potenza e di espansione territoriale. Quali fossero le sue intenzioni in politica estera fu
evidente sin dalle sue prime iniziative: nel 1933 decise il ritiro della delegazione tedesca dalla Conferenza
internazionale di Ginevra dove le grandi potenze (Urss e Usa comprese) cercavano un accordo sulla
limitazione degli armamenti e pochi giorni dopo decise il ritiro della Germania dalla Società delle Nazioni,
dimostrando chiaramente la volontà di distaccarsi dagli accordi stabiliti a Locarno nel 1925. Altro
avvenimento significativo si verificò in Austria nel 1934 quando alcuni gruppi di nazisti, in contatto con i
nazisti in Germania, operarono un violento colpo di stato e uccisero il cancelliere per tentare di rovesciare il
governo austriaco e favorire l’unificazione tra Austria e Germania : il tentativo non andò a buon fine perché
il pericolo dell’invasione tedesca in Austria provocò l’immediato intervento di Mussolini (non ancora alleato
di Hitler), che inviò al confine con il Brennero alcune divisioni italiane pronte ad entrare in azione per
reprimere l’eventuale colpo di forza da parte della Germania. Poco dopo, nel 1935, Hitler decise di
reintrodurre in Germania la coscrizione obbligatoria, vietata dal Trattato di Versailles. Fu allora che i
rappresentanti di Italia, Francia e Gran Bretagna si riunirono a Stresa per condannare il riarmo tedesco e
confermare la validità dei Patti di Locarno.
2) Descrivere le fasi della guerra civile spagnola.
La Spagna negli anni ’20, prima della dittatura di Miguel Primo de Rivera (dal 1923 al 1930), era una
monarchia costituzionale con un Parlamento (le Cortes ) che aveva un potere marginale nella vita del
paese, afflitto da una complessiva arretratezza: la Spagna aveva un’economia a carattere prevalentemente
agricolo, con una forte presenza del latifondo, della grande proprietà terriera , una struttura sociale arcaica
controllata da un ceto dominante animato da tendenze fortemente reazionarie e composto a) dai grandi
proprietari terrieri, b)dai gruppi della grande borghesia dell’industria c) dalla Chiesa e dalle gerarchie
ecclesiastiche. Altro dato rivelatore della complessiva arretratezza che caratterizzava la Spagna era la
circostanza che vedeva le classi lavoratrici (operai e contadini), animate da forti tendenze anarchiche e
quindi sovversive e antistatali e preferire la forma di rappresentanza del sindacato più che quella del
partito. Tra il proletariato, i comunisti avevano scarse adesioni, più consistente era il consenso riscosso dai
socialisti che controllavano l’Union General de Trabajadores (UGT) e gli anarchici che invece erano
organizzati nella Confederacion Nacional de Trabajo (la CNT). Nel 1930 cade la dittatura e alle elezioni del
1931 vincono i partiti repubblicano e socialista. Con la proclamazione della repubblica, fu incaricato di
presiedere il governo il repubblicano Manuel Azaña, e la nuova costituzione spagnola ebbe un carattere
fortemente democratico (con lo Stato che ebbe il diritto di nazionalizzare i pubblici servizi, di organizzare la
produzione industriale e di socializzare i latifondi; si proclamò la separazione della Chiesa dallo Stato, fu
disposto che gli ordini religiosi potessero possedere solo quanto necessario allo svolgimento della loro
funzione, fu tolto agli ordini religiosi il monopolio nella gestione del settore dell’istruzione). I governi
democratici di Manuel Azaña tentarono di far venir fuori il paese dall’arretratezza; si avviò una riforma
agraria che implicava anche misure di esproprio dei latifondi, dietro corresponsione di relativi indennizzi;
furono stabiliti minimi salariali e la giornata di otto ore; fu avviata una riforma dell’esercito volta a renderlo
meno numeroso e più efficiente. Il peso della riforma generò un malcontento diffuso non solo fra le classi
dominanti ma anche tra i lavoratori agricoli e le classi medie. Questo senso di disagio fu aggravato dai
timori suscitati da una vera a e propria ondata di disordini provocati dagli anarchici. Nel 1932 le forze di
destra tentarono, ma fallirono, un colpo di stato, in seguito al quale si costituirono due movimenti di destra
(la CEDA e la Falange). Alle elezioni del 1933 vincono le destre (la CEDA diventa la prima forza politica). Fu
l’inizio del “biennio nero”, durante il quale le forze di destra si affrettarono a procedere con una politica di
restaurazione del precedente ordine (la riforma agraria fu sospesa, i salari operai fortemente ridotti, furono
destinati nuovi contributi statali ai sacerdoti, furono restituiti i beni agli ordini religiosi). Alle elezioni del
1936 vinsero le sinistre unite nel Fronte Popolare ottennero una larga vittoria e Manuel Azaňa tornò a capo
di un governo liberal-democratico, sostenuto dall’appoggio esterno dei socialisti. In seguito alla vittoria
elettorale, un moto di rivalsa e di collera popolare era esplosa contro i tradizionali ceti dominanti, si
susseguirono incendi alle chiese, devastazioni di sedi di giornali di destra, occupazioni di terre nel Sud della
Spagna. Le destre iniziarono a pensare che l’unica via d’uscita a quella situazione di permanente agitazione
fosse un colpo di stato messo in atto dall’esercito per restaurare, con un regime autoritario, l’ordine: il 13
luglio José Calvo Sotelo, che all’interno delle Cortes era a capo dell’opposizione di destra monarchica,
cattolica e conservatrice con il suo partito Renovacion Espaňola (Rinnovamento Spagnolo) , venne
assassinato da alcuni membri di una milizia paramilitare dei socialisti di Madrid detta La Motorizada,
insieme ad appartenenti alla Guardia de Asalto un corpo di polizia molto politicizzato creato nel 1932, come
risposta ad un precedente assassinio di un repubblicano. Questo evento fu la causa scatenante
dell’insurrezione nazionalista e militarista guidata da Francisco Franco che avrebbe avviato la guerra civile
in Spagna. La reazione della vecchia classe dominante si espresse infatti dapprima nella violenza squadrista
messa in atto dai gruppi fascisti de La Falange, quindi ci fu un pronunciamento da parte di militari, delle
truppe coloniali di stanza nel Marocco spagnolo, organizzato da una giunta di cinque generali, fra i quali
Francisco Franco, che assunse il ruolo di capo degli insorti. I ribelli acquisirono il controllo di parte della
Spagna Occidentale, ma inizialmente fu il governo repubblicano ad avere la meglio grazie all’appoggio di
una parte delle forze armate e del popolo, a cui furono distribuite le armi. Ciò che spostò gli equilibri a
favore degli insorti fu l’atteggiamento assunto dalle potenze europee con la decisione di Italia e Germania
di aiutare significativamente i nazionalisti di Franco. L’unico Stato che aiutò i repubblicani fu l’URSS, che
rifornì il governo spagnolo di materiale bellico e favorì, attraverso il Comintern, la formazione delle Brigate
Internazionali, dei corpi di volontari comunisti ma aperti ad antifascisti di tutte le tendenze.
Franco investito del titolo di Caudillo (condottiero) si guadagnò l’appoggio delle gerarchie ecclesiastiche,
dell’aristocrazia terriera e di buona parte della borghesia moderata, realizzando l’unità di tutte le destre in
un partito unico chiamato Falange nazionalista. Nel 1938 i franchisti riuscirono a spezzare in due il territorio
controllato dai repubblicani, separando Madrid dalla Catalogna.
3) Perché la guerra civile spagnola può essere vista come il preludio alla
seconda Guerra
Mondiale?
La Repubblica cade, marzo 1939. La guerra civile spagnola, preludio della guerra mondiale
Rimasta praticamente sola, e venuto meno anche l’aiuto delle Brigate Internazionali, che nell’autunno
furono ritirate, la Repubblica in Spagna riuscì a sopravvivere solo per un anno, fino all’inizio del 1939,
quando Madrid cadde nelle mani dei nazionalisti. Il bilancio dei tre anni di guerra e della successiva ondata
di dura repressione fu molto alto in termini umani ed economici. La guerra spagnola, che si chiuse nello
stesso anno dell’apertura del secondo conflitto mondiale, ne configurò per vari aspetti un prologo :a)
anticipandone gli schieramenti, con l’Urss e le democrazie occidentali da una parte e gli Stati fascisti
dall’altra, b) precorrendone il carattere di guerra ideologica , c) proponendo pratiche di guerra inedite ( ad
esempio i rastrellamenti, il bombardamento rivolto consapevolmente sui centri abitati ecc.) che sarebbero
state largamente usate anche durante la seconda guerra mondiale
Esercitazione lezione n. 34
1) Illustrare la politica dell’appeasement e quali furono le conseguenze.
Negli stessi anni di svolgimento della guerra di Spagna, il contemporaneo dispiegarsi della politica estera di
Hitler determinò un repentino aggravarsi della tensione internazionale. Hitler appoggiato dell’Italia (dopo il
comune impegno assunto nella guerra civile spagnola in appoggio a Franco e anche dopo l’impresa italiana
in Etiopia, che di fatto aveva distaccato l’Italia dal fronte delle potenze vincitrici della I guerra mondiale) e
incoraggiato anche dal comportamento cedevole di Francia e Inghilterra, decise di procedere più
speditamente allo svolgimento del suo programma pangermanista che innanzitutto si proponeva di
dissolvere l’assetto europeo stabilito dal Trattato di Versailles per riunire tutti i Tedeschi in un solo “grande
Reich”, per poi procedere con l’espansione verso est a danno della Russia. Hitler non intendeva
confrontarsi con le potenze occidentali nell’immediato e soprattutto voleva evitare a tutti i costi di doversi
scontrare con l’Inghilterra nel perseguimento dei suoi progetti di espansione verso l’Europa centro
orientale (conservatori, al potere in Inghilterra, dal 1937, andarono in qualche modo incontro alle attese di
Hitler, seguendo una linea politica che allora fu chiamata dell’appeasement: una politica che si proponeva
di salvaguardare la pace europea, cercando di placare l’ansia di dominio di Hiltler, accontentandolo nelle
richieste ritenute più “ragionevoli e accettabili”, così da ricompensare la Germania delle umiliazioni subite a
Versailles). La linea dell’appeasement consisteva cioè in un atteggiamento di politica estera, che fu
condiviso anche dalla Francia, che mirava a minimizzare i motivi di contrasto sul piano internazionale per
salvare il bene supremo della pace e che però finì per risultare una condotta poco decisa nel fronteggiare la
politica espansionista del nazismo che si rivelava progressivamente più aggressiva. Come poi emergerà in
maniera evidente al Convegno di Monaco del 1938, la condotta delle democrazie europee all’insegna
dell’appeasement, era tesa a salvare la pace anche a costo di ampi cedimenti alle richiese naziste. Questa
linea, soprattutto nei primi anni, era giustificata dal fatto che le pretese di Hitler si orientavano su territori
che per certi aspetti potevano essere considerati di “pertinenza” tedeschi, e in secondo luogo anche dal
fatto che un certo revisionismo nei confronti della pace di Versailles era stato condiviso negli anni
precedenti anche da altri paesi europei. Tale atteggiamento politico, destinato a rivelarsi un errore sin dalle
sue premesse, riscosse tuttavia l’approvazione dell’opinione pubblica e della classe politica inglese, incline
al pacifismo (anche i laburisti criticavano la linea dell’appeasement, invocando i valori antifascisti ma si
opposero con uguale determinazione a qualsiasi proposito di riarmo) e complessivamente d’accordo
sull’eccessiva durezza del Trattato di Versailles verso la Germania. L’unica opposizione all’appeasement fu
manifestata da un gruppo di conservatori guidati da Winston Churchill, convinto dell’opportunità di
arrestare subito Hitler nel perseguimento dei suoi propositi, e quindi della necessità di contrastare con
decisione e fin dall’inizio tutte le sue pretese e rivendicazioni anche al prezzo di riaprire subito un conflitto.
Hitler intanto procedette rapidamente all’attuazione dei suoi piani: nel 1938 realizzò l’annessione
dell’Austria al Reich tedesco (nel 1934 aveva già tentato questa mossa, fallendo per la reazione soprattutto
dell’Italia); poi rivendica i Sudeti (regione abitata da una maggioranza di Tedeschi, che i Trattati di pace di
Versailles avevano attribuito alla Cecoslovacchia). Nel 1938, al Convegno di Monaco, dove parteciparono
Italia, Inghilterra e Francia, le richieste di Hitler presentate da Mussolini furono accettate (a spese della
Checoslovacchia). Questo fatto indebolì la pace. In questo contesto la Russia, che non fu invitata al
Convegno, realizzò di non poter contare sulle potenze occidentali in caso di attaco di Hitler, e cambiarono
le linee di politica estera.
2) Come venne messa in atto la fascistizzazione del paese da parte del PNF?
Il PNF con le sue organizzazioni collaterali ebbe un ruolo essenziale nella fascistizzazione del pese : tra le
tante, molto significative furono l’Opera Nazionale Dopolavoro che fu istituita nel 1925 con lo scopo di
occuparsi del tempo libero dei lavoratori, attraverso l’organizzazione di attività sportive o ricreative che in
precedenza erano appannaggio delle organizzazioni di classe o della Chiesa; il Comitato Olimpico Nazionale
- CONI- che, nato nel 1914, venne potenziato al fine di promuovere le attività sportive che fino ad allora
erano gestite da organismi privati. Molto importanti furono poi le organizzazioni giovanili del PNF: i Fasci
Giovanili , i Gruppi Universitari Fascisti (GUF) e, più rilevante di tutte l’Opera Nazionale Balilla (ONB),
creata nel 1926, che inquadrava i giovani fra gli 8 e i 18 anni , distinti in base all’età fra Balilla e
Avanguardisti, che svolgeva una funzione supplementare di educazione fisica, di indottrinamento dal punto
di vista dell’ideologia e forniva elementi di istruzione militare. In un secondo momento, per i bambini di età
compresa fra i 6 e i 12 anni, venne creata un’altra organizzazione I Figli della Lupa.
Il “progetto totalitario” del fascismo, dietro a questa architettura, era quello di “occupare”, attraverso tali
organizzazioni di massa (sindacati, milizia, organizzazioni giovanili ecc.), oltre allo Stato anche la Società, di
rimodellarla a partire dalle fondamenta e quindi appunto dai giovani, ai quali erano dirette, non a caso,
specifiche organizzazioni. Le intenzioni del fascismo in tal senso erano certamente totalitarie ma tali
intenzioni non sempre e non completamente riuscirono a tradursi in realtà. Il fascismo infatti nella
realizzazione del suo progetto trovò ostacoli importanti sulla sua strada: innanzitutto la Chiesa; l’Italia era
un paese dove il 99% degli abitanti si dichiaravano di fede cattolica, dove comunque le pratiche e i riti
cattolici avevano una diffusione di massa, e dove le parrocchie, presenti su tutto il territorio nazionale,
rappresentavano spesso i soli punti di ritrovo e di socialità. Mussolini era ben consapevole che non poteva
pretendere di governare mettendosi in opposizione con la Chiesa e che sarebbe stato invece utile trovare
un modo di convivere con essa. Per questo progressivamente negli anni non solo aveva attenuato
l’accentuato anticlericalismo di certi toni della propaganda fascista delle origini, ma aveva preso precisi
provvedimenti destinati a raccogliere il favore della Chiesa e a creare con essa una sorta di consonanza
politica a svantaggio del Partito Popolare Italiano. Mussolini si pose l’ambizioso obiettivo di proporsi come
colui che avrebbe ricucito lo storico strappo tra Stato e Chiesa che aveva segnato la nascita del Regno
d’Italia, ovviamente pensando al ritorno favorevole che in termini di immagine e di legittimazione avrebbe
significato per lui la conclusione di questa operazione. Le trattative tra Governo e Santa Sede iniziarono nel
1926 e si conclusero nel 1929 con la firma dei Patti Lateranensi (dal nome dei palazzi del Laterano dove
Mussolini si incontrava con il cardinale Gasparri, Segretario di Stato Vaticano, per la firma dei Patti stessi).
3) Cosa prevedevano i Patti Lateranensi?
I Patti Lateranensi si articolarono in tre parti : - un TRATTATO INTERNAZIONALE : con il quale la Santa Sede
poneva fine alla cosiddetta “questione romana”. La Santa Sede riconosceva lo Stato italiano e la sua
capitale e il Regno d’Italia riconosceva a sua volta la sovranità della Chiesa sullo “Stato della città del
Vaticano” (molto piccolo costituito praticamente da un ristretto territorio, dalla basilica di San Pietro e dai
palazzi circostanti);
-una CONVENZIONE FINANZIARIA: con la quale il Regno d’Italia si impegnava a pagare una forte indennità
finanziaria a titolo di risarcimento per la perdita dei territori dello Stato Pontificio ai tempi dell’Unità
d’Italia;
- un CONCORDATO: che regolava i rapporti interni fra Chiesa e Regno d’Italia, compromettendo in maniera
significativa il carattere spiccatamente laico che aveva caratterizzato il Regno d’Italia fin dalla sua nascita.
Nel concordato si stabiliva ad esempio che il matrimonio religioso avesse immediati effetti civili; che
l’insegnamento della dottrina cattolica fosse considerata fondamento e coronamento dell’istruzione
pubblica; che i sacerdoti fossero esonerati dal servizio militare; che ‘l’Azione Cattolica e le organizzazioni
che da essa dipendevano potessero continuare a portare avanti le proprie attività a patto che ciò avvenisse
sotto la sorveglianza delle gerarchie ecclesiastiche e soprattutto mantenendosi al di fuori dei partiti politici
e in generale della politica.
Per il regime fu un trionfo dal punto di vista della propaganda, Mussolini infatti poté vantarsi di aver
realizzato la storica conciliazione tra Stato e Chiesa, dopo che tutti i governi liberali che avevano provato a
fare lo stesso in precedenza avevano miseramente fallito.
Le prime elezioni plebiscitarie, tenute con il sistema della lista unica, che si svolsero, certo non
casualmente, subito dopo la firma dei Patti Lateranensi, quindi nel 1929, registrarono non solo un’affluenza
altissima ( 90%) ma anche un consenso che si attestò al 98% . Il fascismo ottenne dalla firma dei patti
vantaggi consistenti in termini di immagine, la Chiesa ne ottenne in termini addirittura più concreti:
acconsente alla perdita del potere temporale, ottenne però, in virtù della posizione di rilievo che acquisì nei
rapporti con lo Stato, grande potere di influenza su materie importanti come l’istruzione e la legislazione
matrimoniale dalle quali prima era esclusa. Inoltre ottenne di rafforzare la sua presenza e la sua presa nella
società italiana anche solo per il fatto che l’unica associazione ammessa durante il ventennio, a parte il PNF,
fosse l’Azione Cattolica, spazio prezioso all’interno del quale la Chiesa e i suoi esponenti non condussero
un’attività di opposizione aperta al regime ma entro il quale ebbero l’occasione di educare le giovani
generazioni ai loro valori, di formare una classe dirigente, che eventualmente, al momento utile, avrebbe
potuto sostituire quella fascista. Nell’azione Cattolica crebbero in quegli anni molti giovani che divennero
personalità di rilievo nei partiti che si riformarono alla caduta del regime e che si imposero come
protagonisti della politica italiana negli anni della Repubblica.
4) Perché molti storici considerano il fascismo un totalitarismo imperfetto?
Lo studio del fascismo conferma l'idea che esso ebbe esplicite e dichiarate ambizioni totalitarie (si ricordi ad
esempio la creazione del Gran Consiglio del Fascismo, della MVSN, quella del 'listone', l'intenzione di
adottare leggi restrittive espressa nel 1925). Una serie di recenti studi storiografici sono concordi
nell'individuare alcune caratteristiche particolari del fascismo: la compresenza durante il Ventennio di
altre due forme di potere politico in Italia, oltre al partito fascista: la monarchia e la Chiesa. Questo
situazione di fatto avrebbe impedito al fascismo di tradurre la sua aspirazione totalitaria ad acquisire il
controllo totale della società oltre che dello Stato, e avrebbe ostacolato la completa identificazione della
massa nel dittatore, necessaria per la piena realizzazione del totalitarismo. Di qui la definizione di una nota
categoria interpretativa, quella del totalitarismo imperfetto, che adatterebbe l'idealtipo totalitario ai
caratteri peculiari dello Stato italiano. Molti storici si sono interrogati sull’appartenenza o meno del
fascismo alla categoria del totalitarismo. Solo a titolo di esempio, tra i tanti possibili, il giudizio di Renzo De
Felice ha individuato una importante differenza tra il fascismo ed il totalitarismo nel diverso uso politico
della violenza: "al regime fascista per essere veramente totalitario non solo mancava il ricorso sistematico
al terrore di massa e, quindi, al sistema concentrazionario, ma esso non mirò mai o non riuscì a realizzare
compiutamente nessuno degli aspetti caratterizzanti un regime totalitario vero e proprio [...] non mirò mai
né ad una compiuta transizione dallo Stato di diritto allo Stato di polizia né tanto meno a realizzare il
controllo totalitario del partito sullo Stato." (R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, 1969). E' solo alla
metà degli anni '30- al tempo dell'incontro del fascismo con il nazismo- che egli vede una" progressiva
totalitarizzazione" del regime fascista. Di ben altro avviso sono quanti, come Emilio Gentile, pensano che il
fascismo sia stato la via italiana al totalitarismo.
Esercitazione lezione n. 35
1) Cosa prevedeva la Carta del Lavoro emanata nel 1927 dal Gran Consiglio del Fascismo?
Tutti i movimenti fascisti si caratterizzarono per la pretesa di avanzare proposte inedite nel settore
dell’economia e del lavoro, per l’ambizione cioè di rappresentare la cosiddetta soluzione di “terza via” fra
capitalismo e socialismo. Il fascismo italiano individuò la sua soluzione di “terza via” nel cosiddetto
corporativismo. L’idea corporativa traeva le sue origini dal Medioevo, dall’idea delle corporazioni di arti e
mestieri, che durante l’Ottocento era stata l’ispirazione anche del pensiero sociale cattolico.
Corporativismo voleva significare la realizzazione di un sistema di gestione diretta dell’economia da parte
delle diverse categorie di produttori organizzate per comparti di attività. Sulla base della legge del 1926
sulla disciplina giuridica dei rapporti di lavoro, nel 1927 il Gran Consiglio del Fascismo emanò la Carta del
Lavoro, ritenuta la fonte legislativa primaria del diritto corporativo. Essa si componeva di 30 enunciazioni e
vi si affermava “Le corporazioni costituiscono l’organizzazione unitaria delle forze della produzione e ne
rappresentano integralmente gli interessi”. Dato che gli interessi della produzione erano nazionali le
corporazioni erano dichiarate organi dello Stato. Le corporazioni furono oggetto di diverse interpretazioni
da parte dei legislatori fascisti, quella che prevalse definiva le corporazioni “organi di collegamento tra le
organizzazioni sindacali dei vari fattori della produzione”; nelle corporazioni erano infatti presenti
contemporaneamente i rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori. All’interno delle corporazioni
non vi era alcun legame fra le rappresentanze dei lavoratori e i lavoratori stessi, in quanto non erano questi
ultimi ad eleggere i loro rappresentanti ma questi venivano loro imposti dall’alto. All’interno delle
corporazioni quindi il potere contrattuale dei lavoratori era annullato, i lavoratori non avevano canali per
influire nella vita dello Stato e con la soluzione corporativa non si superava neanche il contrasto di classe,
semplicemente, attraverso la corporazione e il sindacato unico, i cittadini venivano inquadrati in organismi
di Stato.
2) Illustrare la politica estera del fascismo.
La politica estera fu il settore in cui il fascismo mantenne più a lungo un atteggiamento di continuità con
la politica liberale. Si può dire che il lungo periodo che va dal 1922 al 1935 fu contraddistinto da un
atteggiamento collaborativo con il fine generalmente condiviso di mantenere la pace. Perchè questa
anomalia? Bisogna ricordare che l'Italia era stata una potenza vincitrice nella prima guerra mondiale e che
aveva contribuito alla fondazione del nuovo equilibrio internazionale pur se in misura minore. Il ruolo
dell'Italia nel nuovo sistema fu particolarmente evidente in occasione degli accordi di Locarno (1925) dove
l'Italia fece da garante con l'Inghilterra al reciproco venirsi incontro di Francia e Germania. Si può dire che il
prevalere dello "spirito di Locarno" nelle relazioni internazionali coincidesse con la svolta autoritaria del
fascismo in politica interna. Mussolini aspirava al raggiungimento di un certo prestigio internazionale che lo
spingeva ad un atteggiamento ambivalente che coltivava indirizzi revisionistici dei trattati di pace e
ambizioni espansionistiche nell'Europa centro- orientale:
- Nel 1923 la pretestuosa occupazione dell'isola di Corfù e il successivo Trattato di Roma (1924) tra Italia e
Jugoslavia sancirono l'ingombrante presenza italiana nel Mediterraneo orientale con anche il passaggio di
Fiume sotto sovranità italiana.
- L'ambivalenza di questo momento sta nel fatto che prevalsero comunque atteggiamenti di rigorosa
applicazione dei trattati soprattutto sulle frontiere austro tedesche
- Dal 1926, invece, prevalse un indirizzo revisionistico unito a mire espansionistiche verso i Balcani le cui
frontiere venivano considerate più fluide.
- Seguirono a questa intenzione alcune significative mosse diplomatiche: nel 1926 venne firmato un trattato
di amicizia e collaborazione con l'Albania e in un secondo momento furono conclusi accordi con la Romania
e la Bulgaria. Nel 1927 fu la volta del trattato di amicizia tra Italia e Ungheria
- Prevalse insomma alla fine degli anni '20 un atteggiamento di sostegno alle nazioni sconfitte dell'est,
motivato in gran parte dal fatto che in questi paesi si erano andati affermando governi conservatori
filofascisti.
- L'ultimo momento di questa oscillante politica fu, nell'aprile del 1933, la promozione di un accordo con
Germania, Francia e Gran Bretagna noto come "patto a quattro" dove veniva affermato un punto
importante: Pur nel generale interesse ed impegno al mantenimento della pace, si rendeva necessaria
una revisione dei trattati di pace. Con questa iniziativa, l'equilibrato atteggiamento dell'Italia nelle relazioni
internazionali cedette il posto ad una sempre più esplicita affermazione di un espansionismo italiano
nell'Europa dell'est e della sognata egemonia nel Mediterraneo. La ragione principale di questa svolta sta,
come vedremo, nell'incontro del fascismo con il nazismo emergente in Germania.
3) Quali furono le cause della guerra d’Etiopia?
Il passo successivo di Mussolini fu l’aggressione all’Impero etiopico, l’unico grande stato indipendente del
continente africano. Mussolini fu spinto a questo passo da motivi di politica interna e internazionale: con la
guerra all’Etiopia Mussolini voleva tradurre la vocazione nazionalistica e imperialista che aveva connotato il
fascismo fin dalle origini; intendeva vendicare l’umiliazione subita dall’Italia nel 1896, con la sconfitta di
Adua, e dimostrare che lui sarebbe riuscito dove i liberali avevano fallito miseramente; con la guerra voleva
tuttavia anche proporre un momento intorno a quale suscitare nuovamente la mobilitazione popolare per
distrarre l’attenzione dai gravi problemi di tipo economico e sociale che affliggevano il paese e prima di
tutto la disoccupazione. Mussolini voleva inoltre sfruttare il clima di minaccia creato da Hitler per ottenere
concessioni da Francia e Inghilterra, dal momento che proprio l’amicizia dell’Italia era in quel momento
troppo utile per le potenze occidentali. Tuttavia Francia e Inghilterra non potevano permettere che uno
Stato indipendente, e anche membro della Società delle Nazioni, fosse impunemente oggetto di
aggressione, così, quando l’Italia iniziò l’invasione dell’Etiopia nel 1935, entrambe le nazioni condannarono
il gesto e proposero al Consiglio della Società delle Nazioni l’adozione di sanzioni economiche consistenti
nel divieto di esportare in Italia merci necessarie all’industria di guerra.
4) Come si organizzò il fronte antifascista? Da chi era composto?
Dal 1925- 26 in Italia il divieto di condurre attività di opposizione politica e di manifestare dissenso fu
imposto anche dal punto di vista legislativo (repressione fascista). Non tutti gli “antifascisti” subirono le
esperienze del carcere, del confino politico, dell’esilio e della clandestinità. Molti si ritirarono dalla politica
attiva e si limitarono a svolgere un lavoro di tipo culturale, avvalendosi degli spazi residui lasciati
sopravvivere dal fascismo purché non si trasformassero in ambiti di azione politica. Questo fu il caso ad
esempio del filosofo Benedetto Croce che rappresentò il punto di riferimento di tutti i liberali durante il
fascismo; Croce fu salvaguardato in parte dalla sua fama di livello internazionale, fu infatti una precisa
scelta del regime di non attuare un intervento repressivo su di lui per via dei contraccolpi di immagine in
negativo che ciò avrebbe potuto comportare al regime stesso. Croce poté dunque continuare, per tutto il
ventennio, a far pubblicare la sua rivista “La Critica” che servì a mantenere viva la tradizione dell’idealismo
liberale contrapposta a quella dell’idealismo- totalitario che aveva come massimo rappresentante Giovanni
Gentile. Va sottolineato però che Croce fu tollerato dal fascismo perché di fatto evitò sempre di superare i
confini che separavano il campo culturale da quello apertamente politico. Chi invece volle proseguire ad
opporsi attivamente al fascismo si trovò a scegliere fra due alternative: la scelta dell’esilio all’estero oppure
il lavoro di opposizione clandestina condotto in patria. A scegliere di proseguire l’attività clandestina in
patria furono soprattutto i comunisti e ciò per varie ragioni: 1) data la struttura organizzativa del loro
partito, nato come partito di rivoluzionari di professione, erano i più preparati a svolgere un’attività di tipo
cospiratorio, per questo per tutti i venti anni del regime riuscirono a tenere in piedi una rete di
organizzazioni clandestine in Italia che alimentarono dall’interno e dall’esterno; 2) riuscirono a diffondere in
Italia giornali e opuscoli di propaganda contrari al regime 3) e ad infiltrare loro iscritti e militanti nei
sindacati e nelle organizzazioni giovanili fasciste. Questa attività venne portata avanti dai comunisti seppure
con modesti risultati e a prezzo di grandissimi rischi. Anche le altre forze di opposizione, e quindi i socialisti
delle due correnti (i riformisti che i massimalisti), i repubblicani, i liberali democratici eredi di Giovanni
Amendola, tentarono di far sopravvivere qualche piccola organizzazione clandestina in Italia ma colsero
minori risultati; queste forze politiche infatti svolsero all’estero la loro ugualmente intensa attività di
opposizione al fascismo e soprattutto dalla Francia, il paese dove la maggiore parte degli esponenti di
queste forze trovarono rifugio durante il ventennio. In Francia si trasferirono infatti i vecchi capi del
socialismo italiano come Filippo Turati e Claudio Treves, ormai anziani, ma anche i nuovi protagonisti della
storia socialista, come Pietro Nenni e Giuseppe Saragat. In Francia tra il 1925 e il 1926 si trasferirono i due
partiti socialisti (quello riformista e quello massimalista) il Partito repubblicano e anche la Confederazione
Generale del Lavoro e in terra francese ricostituirono i loro organi dirigenti; nel 1927 inoltre queste forze si
riunirono in un’organizzazione unitaria a carattere federale, la Concentrazione Antifascista che svolse
un’importante attività di antifascismo ottennendo con la stampa dei loro giornali, che pubblicarono
dall’estero, di far sentire sul piano internazionale la voce dell’Italia contraria al fascismo, la voce cioè dell’
“altra Italia”, quella non fascista, proseguirono inoltre l’attività di elaborazione, di discussione ideale e
politica sulle cause della sconfitta subita ad opera del fascismo e sulle vie da intraprendere per il ritorno
della democrazia in patria. I socialisti soprattutto avviarono un dibattito al loro interno di profonda
autocritica e di ricerca delle cause che avevano determinato la sconfitta del movimento operaio italiano che
essi avevano guidato nel percorso di formazione, di costituzione delle sue principali strutture organizzative,
di crescita e di significative affermazioni dei primi dieci anni del secolo. Tale lavoro di discussione e di
confronto fra le diverse anime del socialismo italiano portò nel 1930 alla celebrazione di un Congresso,
svoltosi a Parigi, durante il quale avvenne la riunificazione delle due principali correnti in un unico Partito
Socialista sotto la guida di Ugo Coccia, nuovo segretario del PSI riunificato.
Un’attività di opposizione concreta al fascismo venne svolta anche dal movimento di “Giustizia e Libertà”
(GL) che era stato fondato nel 1929 da Carlo Rosselli ed Emilio Lussu (Carlo Rosselli era un intellettuale
socialista e antifascista che aveva svolto un lavoro di elaborazione critica sull’esperienza del socialismo
italiano e che aveva assunto posizioni apertamente critiche verso il movimento socialista e il suo gruppo
dirigente proprio al fine di promuovere una rinascita e una ripresa del movimento una volta caduta la
dittatura (Carlo e il fratello Nello Rosselli, anch’egli intellettuale e studioso di storia delle origini del
movimento operaio italiano, furono entrambi assassinati nel 1937 in Francia da sicari fascisti); secondo le
linee indicate da Carlo Rosselli nel libro Socialismo Liberale, libro di revisione teorica del marxismo ma che
si proponeva una finalità concreta, di immediata traduzione pratica : con questo saggio, egli, prendendo le
mosse dalla sconfitta subita dal socialismo ad opera del fascismo, si era proposto di portare avanti una
riflessione sulle premesse morali e teoriche del socialismo italiano proprio ai fini di una rinascita del
movimento operaio e della creazione di un nuovo soggetto politico, di ispirazione socialista e democratica,
che del movimento operaio stesso avrebbe dovuto farsi interprete politico, una volta caduta la dittatura.
Sul fronte antifascista erano poi attivi i comunisti, anch’essi polemici verso la Concentrazione ma
altrettanto contrari alla linea portata avanti da GL; i comunisti, oltre a mantenere nuclei di attività
clandestina in Italia, erano presenti anche nell’emigrazione ma, fino al 1934 – 1935 (cioè fino alla svolta dei
“fronti popolari”), rimasero attestati su una posizione di isolamento. Essi avevano un centro estero con
sede a Parigi che però seguiva le direttive indicate dai dirigenti comunisti che risiedevano a Mosca dove vi
erano i vertici dell’Internazionale, con i quali erano in costante contatto. Si deve sempre ricordare infatti
che Togliatti, che aveva preso il posto di Antonio Gramsci (arrestato dai fascisti nel 1926) alla guida del Pci,
era anche un dirigente del Comintern tra i più significativi. In questo periodo dunque il Pci si allineò
fedelmente alle formulazioni che venivano da Mosca e allo stesso culto di Stalin. Le riflessioni critiche sulla
linea ufficiale del partito sviluppate in carcere da leader come Gramsci e Terracini rimasero oscure ai
militanti e lo stesso successe per le osservazioni sparse scritte in carcere da Gramsci, relative alla storia
d’Italia e alla strategia seguita dal Pci. Circa a metà degli anni Trenta, la svolta dei “fronti-popolari” aprì una
fase nuova anche nell’ambito dell’antifascismo: grazie ad essa il Pci poté riallacciare i contatti con le altre
forze antifasciste e fu infatti nel 1934 che concluse un Patto di unità d’azione con i socialisti. Questa fase di
collaborazione antifascista ebbe il suo momento culminante durante la guerra di Spagna ma ebbe una
durata effimera: da un lato infatti il fallimento sostanziale dell’esperienza di “fronte-popolare” in Francia, le
divisioni interne allo schieramento repubblicano spagnolo , le notizie sempre più insistenti che provenivano
dall’est sulle grandi purghe staliniane, la frattura che venne a determinarsi tra l’URSS e le democrazie
occidentali che poi nel 1939 trovarono il momento finale nella conclusione del patto di non aggressione
tedesco-sovietico, ebbero dei riflessi molto negativi sul complesso del movimento antifascista italiano che
all’aprirsi della II guerra mondiale si trovò diviso al suo interno e senza riferimenti . Valutando
complessivamente l’esperienza antifascista si può affermare che, stando ai risultati concreti, l’efficacia
dell’azione antifascista si rivelò praticamente quasi nulla ( allo scoppio della guerra gli antifascisti si
trovarono a vivere la condizione di chi si doveva augurare la sconfitta del proprio paese e solo nell’ultima
fase della guerra, quando si aprì il periodo più duro per l’Italia, ormai battuta, gli antifascisti ebbero
l’occasione di poter combattere il fascismo direttamente e sul territorio italiano). Tra il 1926 e il 1943
tuttavia la funzione dell’antifascismo si rivelò insostituibile ed importante dal punto di vista politico e
morale: solo per il fatto di esistere l’antifascismo italiano dette voce ad un’altra Italia, quella non fascista;
l’attività condotta dagli antifascisti fece in modo che dopo il 1943, quando cadde Mussolini, potesse
nascere quasi contestualmente un movimento di resistenza armata al nazifascismo che invece fu del tutto
assente in Germania; gli antifascisti inoltre, sia in patria che nell’emigrazione, con le loro attività di
elaborazione teorica-intellettuale, pubblicistica, di interrogazione autocritica e di ricerca sulle cause che
avevano determinato l’affermarsi del regime, svolsero un lavoro che servì da alimento insostituibile per il
risorgere della democrazia nel nostro paese.
Esercitazione lezione n. 36
1) Quali furono le cause che portarono allo scoppio della II guerra mondiale?
- La tensione generata in Europa dalla politica aggressiva nazista e il clima di generale esasperazione dovuto
al proliferare dei regimi dittatoriali esplosero irrimediabilmente agli inizi del settembre del 1939 quando le
truppe di Hitler varcarono il confine della Polonia, dopo aver rivendicato a lungo la cessione del corridoio di
Danzica, con evidenti mire espansionistiche. Fu questo il momento in cui Gran Bretagna e Francia
dichiararono finalmente guerra alla Germania
-Per molti aspetti era stata proprio la guerra di Spagna la prova generale del nuovo, terribile conflitto
mondiale. E questo non solo perché fu nella guerra civile che si anticiparono gli schieramenti che si
fronteggiarono anche nella guerra mondiale ma anche perché quella fu l’occasione di una serie di accordi
diplomatici che compromisero definitivamente l’equilibrio europeo.
-Oltre all’avvicinamento tra Italia e Germania, altrettanto gravida di conseguenze fu l’intesa tra Germania e
Gran Bretagna e questa ultima e l’Italia di Mussolini che condusse nel 1937 al gentlmen’s agreement con il
quale, sorvolando sugli interventi armati dell’asse nazifascista in Etiopia e in Spagna, si garantiva lo status
quo nel Mediterraneo
-Tuttavia, come si è accennato, le origini del conflitto erano tutte europee. Molti vedono la causa
immediata dello scoppio della guerra nell'alleanza tra la Germania hitleriana e l'URSS staliniana attraverso il
notissimo patto Molotov- Ribentropp (23 agosto del 1939). Si trattava di un patto decennale di non
aggressione in virtù del quale Hitler poteva invadere la Polonia sicuro di non incontrare opposizioni ad est.
2) Cosa si intende per “guerra parallela”? Come si sviluppò?
Fu sempre nei concitati giorni dell'assedio di Parigi che l'Italia decise di entrare in guerra (10 giugno
1940). La scelta del momento è piuttosto significativa e tutt'altro che casuale. Lo schiacciamento del fronte
degli Alleati, infatti, offriva a Mussolini la prospettiva di una guerra in via di rapida conclusione, ipotesi
confermata dall'isolamento inglese e dall'intenzione hitleriana di sferrare un attacco risolutivo. Per questo
motivo, l'ingresso in guerra era visto più come formale che come sostanziale, un modo cioè per sedere al
tavolo delle trattative al fianco dell'alleato senza pagare grossi prezzi. Tuttavia l'estate del 1940 vide la
strenua resistenza dell'Inghilterra e un brusco capovolgimento di posizioni che riequilibravano le
prospettive del conflitto. Falliva, infatti, il disegno hitleriano di una guerra lampo, seguita da una pace in
grado di assicurare alla Germania il controllo di tutto il continente e si apriva invece la prospettiva di una
guerra di lunga durata che non avrebbe tardato ad allargarsi ad una dimensione mondiale. Fu in questa
prospettiva che l’Italia fascista pianificò di combattere una ‘guerra parallela ’ autonoma da quella
dell’alleato per conseguire obiettivi nelle aree di interesse del paese e cioè principalmente nei balcani e
nel bacino mediterraneo. A livello militare, questa ambizione significava un immediato confronto con
l’Inghilterra, soprattutto nelle operazioni africane. Qui, l’obiettivo principale dell’Italia era la conquista
dell’Egitto partendo dalla Libia. Gli Italiani stentarono fin dal primo momento ad imporsi nelle offensive
mosse dalla Libia. Per questo, tra il marzo e l’aprile del 1941, i Tedeschi inviarono rinforzi per tentare di
risollevare le sorti di un confronto che stava già portando alla perdita dell’intera Africa orientale italiana.
Ma la parziale riconquista della Libia non servì ad impedire, nell’ottobre del 1942, la decisiva controffensiva
inglese che respinse, con gravi perdite, le truppe dell’asse dall’Egitto e dalla Cirenaica: era la fine
dell’impero coloniale italiano. Parallelamente all’impresa africana, Mussolini, spinto da motivi di prestigio
e dal desiderio di controbilanciare l’influenza nazista nei Balcani, tentò una campagna contro la Grecia
muovendo dai territori albanesi. Ma l’invasione della Grecia si rivelò subito un clamoroso insuccesso poiché
i Greci, appoggiati dall’aviazione inglese, conquistarono senza difficoltà un terzo dell’Albania. Ancora una
volta però, la completa disfatta degli Italiani fu evitata dagli aiuti inviati dai Tedeschi.
3) Cosa prevedeva la Carta Atlantica?
Nel corso del 1941, alcuni segnali prelusero ad un diretto coinvolgimento americano nella guerra:
- Nel gennaio del 1941 in un messaggio diretto al Congresso USA Roosevelt proclamò le "Quattro libertà"
fondamentali: libertà di culto, parola, libertà dal bisogno e dalla paura, che costituirono la base ideologica
dell'intervento (6 gennaio 1941)
-La legge degli " affitti e prestiti" che autorizzava il presidente a fornire materiale bellico agli Alleati anche
senza pagamento in denaro (11 febbraio 1941).
Come a rappresentare l'evoluzione di queste premesse nella ricerca di un punto comune, nell'agosto del
1941 Churchill e Roosevelt fecero confluire le reciproche posizioni nella stipula della Carta Atlantica. I
principi cardine di questa Carta, che guideranno anche il dopoguerra possono essere così sintetizzati:
- rinuncia a guadagni territoriali dopo il conflitto e mutamento dei confini solo se d'intesa con i paesi
interessati
- diritto all'autodeterminazione per tutti i popoli
- partecipazione di tutti gli Stati al commercio mondiale
- cooperazione internazionale, libertà dei mari
- "libertà dalla paura e dal bisogno"
- rinuncia all'uso della forza dopo il conflitto
Dopo l'entrata in guerra degli USA, questo patto ideologico fu cementato dal patto di Washington (1942)
con il quale le 26 nazioni in guerra contro l'Asse si impegnavano a non concludere armistizi separati.
Esercitazione lezione n. 37
1) Descrivere gli eventi che portarono alla caduta di Mussolini.
Se gli Alleati decisero per lo sbarco in Italia fu soprattutto per le notizie che giungevano dal Paese riguardo
il deterioramento del rapporto fascismo/opinione pubblica, esasperato anche dall'andamento della guerra
e dallo sfinimento dei combattenti e della popolazione civile sottoposta a duri sacrifici. L'attacco alla
penisola italiana ebbe inizio nel giugno del 1943 con la conquista dell'Isola di Pantelleria. Circa un mese
dopo (10 luglio) gli alleati sbarcarono in Sicilia e in poche settimane riuscirono a conquistarla, non trovando
praticamente resistenza in un esercito che, dotato di scarsi mezzi, si era in gran parte ormai di fatto arreso
anche moralmente, ritenendo la sconfitta ormai certa. Anche la popolazione siciliana accolse gli alleati con
manifestazioni di simpatia, salutandoli come dei liberatori che portavano la fine della guerra. La
conseguenza politica dello sbarco alleato in Sicilia fu la caduta del fascismo che tuttavia non fu decretata
soltanto dagli insuccessi militari. Nel corso di quell'anno infatti i segnali di crisi del regime si erano andati
moltiplicando: una manifestazione significativa di malcontento popolare furono, nel marzo del 1943, i
grandi scioperi operai che, partendo da Torino, si allargarono a tutti i grandi centri industriali del Nord, fino
a configurare la prima vera e propria protesta di massa contro il regime. Gli operai e la popolazione civile
era infatti sempre più fiaccata dalla mancanza di approvvigionamenti, dal caro viveri, dai bombardamenti
aerei alleati, che dall'inverno '42 – 43 si effettuarono con maggiore frequenza sui centri cittadini, con effetti
destabilizzanti decisivi sul morale dei civili.
Cresceva intanto negli ambienti di corte, e nelle sfere interne allo stesso Partito fascista l'opposizione a
Mussolini, mentre nel paese si registrava una più decisa ripresa dell'iniziativa da parte dei gruppi clandestini
comunisti. A decretare la caduta di Mussolini fu tuttavia una sorta di “congiura”, “di colpo di stato” ordito
dalla Corona, unico centro di potere formalmente rimasto indipendente dal fascismo, sul quale giunsero a
convergere diverse componenti “moderate” del regime - ceti industriali, alti gradi dell'esercito, gerarchi
schieratisi su posizioni filo monarchiche e conservatrici – nonché vecchi superstiti del liberalismo
prefascista, con l'obiettivo prioritario di portare l'Italia fuori da una guerra ormai irrimediabilmente
perduta, e di salvare la monarchia.
Il pretesto per l'intervento del Re fu la riunione del Gran Consiglio del Fascismo che Mussolini convocò nella
notte tra il 24 e il 25 luglio del 1943, dopo che la precedente assemblea del massimo organo del regime si
era tenuta nel 1939. Durante quella riunione, Mussolini venne duramente criticato da alcuni gerarchi, tra i
quali Dino Grandi, Galeazzo Ciano, e i due superstiti quadrumviri della Rivoluzione fascista Emilio De Bono e
Cesare M. De Vecchi. Dino Grandi presentò un Ordine del giorno, che venne approvato a maggioranza, con
il quale si chiedeva al Re di riassumere le sue funzioni di comandante supremo delle forze armate,
suonando come un atto esplicito di sfiducia nei confronti di Mussolini. Il 25 luglio Mussolini fu costretto alle
dimissioni dal Re che lo fece arrestare dai carabinieri, mentre nominava il maresciallo Badoglio, nuovo Capo
del Governo. La notizia dell'arresto di Mussolini suscitò nella popolazione gioia ed entusiasmo, la gente si
riversò nelle strade esprimendo il proprio disprezzo contro i simboli del regime e le sedi delle organizzazioni
fasciste. Il crollo del regime che per venti anni aveva prevaricato lo spazio politico con tutto il suo enorme
apparato organizzativo e repressivo si segnalò per la sua inaspettata e ingloriosa rapidità. La contentezza
della popolazione era dovuta non solo al ritorno della libertà ma era in primo luogo determinata da un
desiderio di pace, dalla speranza di un'imminente fine della guerra. L'uscita dell'Italia dalla guerra avvenne
in maniera più terribile di quanto gli avvenimenti bellici si fossero rivelati fino ad allora.
2) Come si organizzò il movimento partigiano sorto dopo l’armistizio dell’8 settembre?
Settembre 1934 Mussolini fu liberato e dà vita alla Repubblica Sociale Italiana, con un nuovo Partito
Fascista Repubblicano e un nuovo esercito. Questa repubblica non fu credibile in quanto completamente
dipendente dai Tedeschi. Il principale obiettivo della RSI era di reprimere il movimento partigiano formato
per opporsi ai nazisti occupanti.
Le zone del Centro-nord del territorio italiano divennero così lo scenario di una guerra civile, quindi
combattuta tra Italiani, che andava ad aggiungersi e a sovrapporsi alla guerra che si combatteva tra eserciti
stranieri. Le prime formazioni partigiane si raccolsero sulle montagne subito dopo l’8 settembre, erano
costituite da gruppi di militanti antifascisti e da militari sbandati che non avevano voluto consegnarsi ai
Tedeschi. I partigiani agivano per lo più lontano dai centri abitati, organizzando azioni di sabotaggio rivolte
ai reparti tedeschi. Gli antifascisti erano tuttavia presenti anche nelle città con i Gruppi di Azione Patriottica
(GAP), nuclei che realizzavano attentati contro militari o personalità tedesche o repubblichine. Il
movimento partigiano si organizzò in bande che presero il nome di brigate, distinte per orientamento
politico: si ebbero così le Brigate Garibaldi (PCI), le Brigate Matteotti (PSI), i gruppi di Giustizia e Libertà (dal
movimento che si era formato nel 1929 grazie a Carlo Rosselli e ad altri antifascisti) alcune formazioni
cattoliche e liberali e anche delle bande autonome, composte da militari monarchici.
3) Cosa è il CNL? Da chi era composto?
Il movimento di resistenza fu con evidenza legato alla rinascita dei partiti politici in Italia, che si
ricostituirono tra la caduta di Mussolini (25 luglio 1943) e l’8 settembre: si era già costituito il Partito
D’Azione (PDA), nato nel 1942, prima della fine del fascismo, per la confluenza del movimento di “Giustizia
e Libertà” con i gruppi liberalsocialisti e repubblicani col fine di combattere il fascismo e di superare
l’antitesi tra liberalismo e socialismo; alcuni esponenti cattolici, appoggiati dalle gerarchie ecclesiastiche,
avevano messo in cantiere la formazione della Democrazia Cristiana (DC) che si presentava come erede del
vecchio PPI. Dopo il 25 luglio 1943 era nato il Partito Liberale Italiano e si erano ricostituiti in Italia il Partito
repubblicano italiano (PRI) e quello socialista con il nome d Partito Socialista di Unità Proletaria (PSIUP); il
Partito Comunista Italiano (PCI). Subito dopo l’8 settembre i rappresentanti di 6 partiti – il PSIUP, il PDA, il
PCI, la DC, il PLI, la Democrazia del Lavoro (formazione appena fondata da Ivanoe Bonomi vecchio e
prestigioso esponente del riformismo socialista) si incontrarono a Roma per fondare il Comitato di
Liberazione Nazionale (CLN), incitando la popolazione “alla lotta e alla resistenza (…) per riconquistare
all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni”. Il CLN fu presieduto da Ivanoe Bonomi.
Il CLN e i partiti antifascisti che lo componevano si proponevano come guida dell’Italia democratica che
rinasceva, si ponevano in alternativa agli occupanti tedeschi e ai fascisti loro collaboratori, allo stesso re,
che consideravano responsabile della dittatura e della guerra, e al governo Badoglio, di cui il CLN chiedeva
la sostituzione. Si creò una sorta di situazione di dualismo istituzionale fra il CLN, che derivava il prestigio di
cui godeva dal fatto di essere il rappresentante dell’Italia antifascista, dell’Italia democratica che rinasceva,
e lo stesso governo Badoglio, più forte perché godeva della fiducia degli alleati in quanto garante degli
impegni che l’Italia aveva assunto con la firma dell’armistizio, e quindi considerato dagli Anglo-Americani
come interlocutore istituzionale legittimo. Nell’ottobre del 1943 l’Italia dichiarò guerra alla Germania e
ottenne la qualifica di cobelligerante;
Esercitazione lezione n. 38
1) Quali furono le premesse che portarono alla pace di Yalta?
Sinteticamente si può affermare che i punti principali del nuovo ordine mondiale furono:
- Il declino della posizione europea nel mondo
- La nuova egemonia mondiale delle due superpotenze: USA e URSS
- La progressiva liquidazione dei grandi imperi coloniali (il cosiddetto fenomeno della decolonizzazione)
- La costruzione di nuove potenze politico-economiche extraeuropee ( es. Cina e India)
- La realizzazione di un processo di integrazione europea culminato nella nascita dell'UE
Una politica internazionale retta dall'evoluzione interna e di relazione dei due sistemi contrapposti, quello
liberal democratico e quello comunista. In parte i principi che avrebbero orientato la politica degli Alleati
in caso di vittoria furono stabiliti già a conflitto ancora in corso. Nel febbraio del 1945 alla Conferenza
svoltasi a Yalta, in Crimea, Roosevelt, Stalin e Churchill non si erano solo coordinati per sferrare l'attacco
decisivo alla Germania ma avevano già cercato di individuare i capisaldi della nuova pace. Tra di essi, di
cruciale importanza era la dichiarazione secondo la quale l'Europa si intendeva libera e si auspicavano
elezioni democratiche in tutti i territori liberati dal nazismo; si espresse inoltre l'intenzione di creare un
nuovo organismo internazionale a difesa e garanzia del mantenimento della pace mondiale. Sul piano più
immediatamente politico, poi, il disarmo e la smilitarizzazione della Germania furono considerati come '
prerequisiti' per la pace futura. Come se non bastasse, accanto a queste misure- del resto già prese dopo la
Grande Guerra- si decideva per lo smembramento del territorio tedesco. La Conferenza di Yalta, insomma,
fu molto di più di una normale conferenza strategica interalleata poiché, al di là delle importanti indicazioni
politiche per gli Alleati in guerra, voleva essere un momento di reale confronto anche etico ed ideale. A ciò
spingeva particolarmente il presidente americano Roosevelt che, convinto sostenitore di idee democratiche
e di giustizia sociale, vedeva di buon occhio una possibile alleanza e cooperazione su obiettivi comuni tra le
potenze democratiche e il comunismo sovietico. In questo senso, l'ordine mondiale poteva essere garantito
da una collaborazione tra le potenze vincitrici (USA, URSS, Inghilterra e Francia), a prescindere da qualsiasi
differente orientamento ideologico. Era la cosiddetta teoria dei "quattro poliziotti" che, in una visione
ottimistica e democratica, proponeva una gestione paritaria della politica da parte di tutti i vincitori.
Tuttavia, la morte di Roosevelt privò questa prospettiva anche abbastanza realistica del suo principale
sostenitore e segnò il prevalere di una linea oppositiva nei confronti dell'alleato sovietico.
Del resto, che i veri protagonisti della nuova pace fossero le due superpotenze era evidente dalla
marginalizzazione degli alleati europei: alla conferenza di Yalta non fu invitato il generale De Gaulle per
parte francese e, finché fu in vita Roosevelt, l'Inghilterra di Churchill fu costretta a soprassedere sulla sua
diffidenza per Stalin.
2) Cosa prevedeva la dottrina Truman?
Le mire espansionistiche dell'Unione sovietica, tra il 1947 ed il 1948 con l'imposizione del sistema sovietico
in tutti i paesi orientali occupati, preoccupavano gli USA e gli alleati occidentali, soprattutto quando il
tentativo di affermazione da parte di regimi filocomunisti andò a toccare paesi non soggetti ad
occupazione sovietica. Furono i casi esemplari di Turchia e Grecia ad ispirare al nuovo presidente
americano la linea politica enunciata in un discorso al Congresso nel 1947 e passata alla storia come
"Dottrina Truman". Con essa veniva messa fine ad ogni eccessiva accondiscendenza alle mire espansioniste
staliniane e si annunciava il nuovo obiettivo della politica americana, quello di "sostenere i popoli liberi
che resistano ai tentativi di costrizione da parte di minoranze armate o di pressioni esterne".
Le conseguenze immediate di questa politica furono le evoluzioni in senso filo occidentale di due
importantissimi paesi mediterranei (Grecia e Turchia).
Aveva inizio così la politica del "contenimento" dell'espansione comunista che mirava anche alla
progressiva emarginazione dei comunisti dalle coalizioni ministeriali in quei paesi occidentali (es.
Francia e Italia) dove il partito comunista aggregava forti consensi.
Il discorso di Truman si presentava, insomma, come vero e proprio spartiacque tra una politica tesa al
collaborazionismo e un'altra in cui l'ex alleato comunista diventava il nemico contro cui battersi. Aveva
inizio la " guerra fredda".
3) Cosa prevedeva il piano Marshall?
Per creare un fronte compatto di alleati vincolati agli Stati Uniti, accanto alla Dottrina Truman e a
rafforzamento di essa, fu varato un piano di aiuti economici per la ricostruzione dei paesi europei
conosciuto come " piano Marshall" (1947) che avrebbe sostituito gli iniziali aiuti che erano stati
essenzialmente di prima assistenza. In una iniziale versione, questo piano economico era rivolto
indifferentemente ai paesi dell'Europa occidentale e a quelli dell'est e alcuni di questi- Polonia e
Cecoslovacchia, ad esempio- si dimostrarono anche favorevoli ad accoglierli. Fu a questo punto che
l'opposizione intransigente dell'URSS all'adesione dei paesi dell'est costituì un altro elemento di attrito tra i
due nuovi protagonisti della politica mondiale. Le preoccupazioni di Stalin non erano infondate: accettare
un aiuto economico avrebbe certamente comportato una futura sudditanza politica di quei paesi al loro
creditore. Così inteso, dunque, il "piano Marshall" si trasformò in uno strumento della guerra fredda che
contribuì ad esaltare la dimensione dello scontro politico. Il "piano Marshall" fu invece entusiasticamente
accolto dai partiti democratici occidentali che vi leggevano la possibilità di uscire più velocemente dalla crisi
del dopoguerra. Nasce il muro di Berlino (1948-1949) come misura di Stalin per impedire il rifornimento da
parte di USA della Berlino ovest (sotto occupazione sovietica).
3) Cosa si intende per decolonizzazione? Quando e come avvenne?
Come conseguenza del secondo conflitto mondiale, che aveva assunto una dimensione planetaria, la
contrapposizione in blocchi divenne il modello delle relazioni internazionali a livello planetario, finendo così
per coinvolgere anche i paesi extraeuropei. Se è vero che nel secondo dopoguerra questi ultimi furono
interessati da un processo autonomo e spesso indipendente dalla guerra fredda, vale a dire la
decolonizzazione, è anche da considerare che proprio queste aree, che da svariati decenni vedevano al loro
interno la presenza coloniale- Medio Oriente, India, sud-est asiatico, Cina- furono in questi anni il teatro di
radicali modifiche dei propri assetti interni che ebbero spesso dei riflessi sulla loro collocazione
internazionale. La decolonizzazione, dunque, fu quel processo, quasi mai pacifico, attraverso il quale le
colonie europee si emanciparono dalle madripatrie acquisendo la forma di stati nazione indipendenti.
Nell'ambito del più generale processo di decolonizzazione si colloca la controversa situazione del Medio
Oriente ed in particolare la questione della Palestina dove alla popolazione araba ( 1 200 000 persone) si
contrapponeva una presenza all'interno dello stesso territorio di circa mezzo milione di ebrei desiderosi di
veder nascere il proprio stato esigenza che venne in qualche modo legittimata e resa più urgente dal
genocidio nazista e dal senso di colpa europeo per le sofferenze patite dal popolo ebraico.
4) Illustrare le fasi che portarono alla nascita dello stato di Israele.
Dopo la I guerra mondiale fu stabilito che la Palestina fosse mandato britannico; spettava dunque
all'Inghilterra proporre una soluzione alla difficile questione che vedeva protagonisti due popoli ed un solo
territorio. Dopo vari episodi violenti che portarono ad un inasprimento dei rapporti tra le due parti, e alla
dichiarata volontà dei gruppi ebrei di imboccare la via della lotta armata, vista l'impossibilità di imporre un
piano di spartizione (strada già tentata nel 1937), l'Inghilterra rinunciò al mandato che passò all'ONU. Fu
quest'ultima a stabilire il piano di spartizione oggetto di contesa nel primo conflitto arabo- israeliano. Esso
comportava la divisione della Palestina in due parti con Gerusalemme città libera sotto controllo
internazionale. All’atto di ritiro delle truppe britanniche dalla Palestina, nel maggio del 1948 gli ebrei
proclamarono unilateralmente la nascita dello stato di Israele, gesto che spinse i palestinesi- sostenuti dai
vicini Stati arabi- a prendere le armi. Iniziava così la I guerra arabo- israeliana, che nel giro di poco coinvolse
anche le due superpotenze. La nascita di Israele, infatti, venne riconosciuta sia dagli Usa che dall’URSS, cosa
che ne assicurava l’assoluta legittimità internazionale. Questo atto portò naturalmente la reazione dei paesi
arabi che si decisero alla guerra impegnando contingenti di Egitto, Libano, Siria e Giordania. Nonostante
questo coordinamento però, Israele, con l’appoggio occidentale, ebbe rapidamente la meglio. La
conclusione della I guerra arabo-israeliana decretava un nuovo assetto della regione, rimettendo in
discussione quanto stabilito dall’Onu. Nel 1949 Israele occupava un territorio doppio rispetto alle
dimensioni decise dall’ONU, mentre i Palestinesi avviarono l’emigrazione verso la Giordania, in seguito alla
cospicua perdita di territori da essi abitati. Era il primo atto di una questione dalla difficile risoluzione, che
avrebbe condizionato per decenni gli equilibri internazionali.
5) Quali furono le cause che portarono allo scoppio della guerra di Corea?
Il caso della guerra di Corea, territorio occupato durante la guerra dai sovietici nella parte settentrionale (N)
e dagli americani nella parte meridionale (S). Da questo nacquero due diverse repubbliche attestatesi sul
confine del 38° parallelo. Nel 1950, tuttavia, questo ordine precario fu rotto dalla Corea del Nord che,
appoggiata da Russi e Cinesi, tentarono di portare a compimento l'unificazione di tutta la penisola. La
reazione statunitense non si fece attendere e così pure la condanna dell'ONU alla Corea del Nord. Il
conflitto- che in maniera indiretta coinvolgeva anche USA e URSS- si trascinò per tre anni senza risparmiare
la popolazione civile e le risorse produttive, concludendosi poi con l'armistizio di Pnamunjon (1953) che
confermò il confine tra le due Coree al 38° parallelo. Al di là di questo, la guerra di Corea fu emblematica
perchè rappresentò un esempio di quella localizzazione dei conflitti che impedì sempre uno scontro
diretto tra le due superpotenze che, soprattutto a partire dal 1954 sarebbe stato indubbiamente
caratterizzato dall'utilizzo delle armi nucleari con conseguenze devastanti per tutto il mondo. Per questo, a
fronte di un immobilismo di posizioni dei protagonisti della guerra fredda, i decenni del dopoguerra furono
comunque caratterizzati da guerre condotte con armi convenzionali e in zone circoscritte. E questo
perchè nè USA nè URSS rinunciarono mai ad allargare le rispettive aree di influenza o a difenderle nel caso
di un attacco avversario.
Esercitazione lezione n. 39
1) Illustrare le ripercussioni che ebbe la decolonizzazione sulla situazione economica e politica
francese.
Più lacerante al confronto di quella inglese fu l'esperienza della decolonizzazione in Francia, aggravata dalla
forte instabilità politico istituzionale dello Stato francese. Sebbene paese vittorioso, infatti, la Francia era
visibilmente minata dalle esperienze dell'occupazione tedesca, del collaborazionismo e del crollo dello
Stato- la Terza Repubblica- per molti versi simile a quello subito da Italia e Germania con la caduta del
fascismo e del nazismo. Si era in una fase di piena ridiscussione delle basi politico- morali dello Stato
culminata nella redazione di una nuova Costituzione e destinata a dar vita alla Quarta Repubblica. La vita
del nuovo Stato incontrò presto le difficoltà della decolonizzazione (dapprima la sconfitta militare in
Indocina, poi quella di Suez e infine l'esplodere della questione algerina) che misero in luce l'incerta
condotta dei governi di coalizione e l'intrinseca debolezza istituzionale della Repubblica.
Fu proprio la decolonizzazione dell'Algeria, anzi, che decretò la fine della Quarta Repubblica.
La violenta lotta per l'indipendenza dell'Algeria può essere considerato uno degli esempi più incisivi di come
il processo di decolonizzazione abbia avuto delle ricadute significative sulla vita politica delle ex
madrepatrie. L' Algeria, infatti, era l'unica vera colonia di popolamento della Francia dai lontani tempi di
Carlo X. In essa vivevano ormai un milione circa di francesi (i cosiddetti pieds noir) che conservavano un
rapporto assai stretto con la Francia. Per questa peculiarità, la questione del riconoscimento
dell'indipendenza algerina, sebbene inserita nel quadro più vasto del processo di decolonizzazione,
assunse la forma di un violenta guerra (1954- 1962) che se arrivò alla piena indipendenza dell'Algeria,
provocò anche un radicale cambiamento istituzionale in Francia.
2) Cosa si intende per sovietizzazione?
Tra il 1945 ed il 1948, si può collocare tuttavia una fase moderata dell’occupazione sovietica dell’Europa
dell’est, con obiettivi simili a quelli che gli alleati avevano in Europa occidentale e che è possibile ricondurre
alle esigenze della ricostruzione. Al contrario degli obiettivi fissati dal piano Marshall, però, qui l’obiettivo
economico principale era la nazionalizzazione delle terre e una graduale industrializzazione. Fu il 1947
l’anno di svolta quando Stalin proibì ai governi dei paesi dell’Europa orientale di partecipare a Parigi alla
discussione sul piano Marshall. D’altronde fu un anno cruciale anche sul piano internazionale con il
passaggio dalla politica di Roosevelt alla durezza della “dottrina Truman” e l’inizio di una irriducibile
contrapposizione dei due blocchi. Fu in seguito a questa esasperazione del confronto sul piano
internazionale che nei paesi dell’Europa orientale si venne a concretizzare quel fenomeno conosciuto come
sovietizzazione che consisteva nell’importazione pecoresca del modello politico e sociale sovietico nei
differenti contesti. Questo provocò una massima uniformità dei caratteri delle società dell’Europa orientale
e anche una nuova comunanza di obiettivi politici tra l’URSS e questi paesi. In questo senso si può dire che
in tutti i paesi la strategia sovietica per il controllo dell’Europa orientale si sviluppò secondo linee simili:1)
Iniziale assunzione di posizioni chiave nei governi di coalizione con gli altri partiti borghesi; 2) Capillare
controllo della vita pubblica; 3) Epurazione politica e creazione del consenso popolare; 4) Successiva
instaurazione di sistemi a partito unico 5) Furono adottati provvedimenti di nazionalizzazione e
collettivizzazione e furono lanciati dei piani di sviluppo che sul modello sovietico, privilegiavano l’industria a
danno dell’agricoltura; le economie dei paesi- satelliti erano subordinate a quelle dello Stato – guida. Gli
obiettivi di produzione erano scelti in modo che fossero complementari a quelli dell’URSS. In seguito alla
sovietizzazione, dunque, in tutti i paesi dell’Europa orientale il sistema democratico venne sostituito da
quello a partito unico. Gli Stati orientali, insomma, si preparavano a diventare in tutto e per tutto società
comuniste. Per questo, al momento dell’apogeo del sistema staliniano, essi arrivarono a condividere anche
gli obiettivi ideologici del comunismo: 1) Produrre una ricchezza più abbondante e equamente distribuita;
2) Eguaglianza nel benessere sociale; 3) Libertà acquistata attraverso la giustizia.
3) Quale fu la particolarità che caratterizzò la Jugoslavia all’interno del blocco sovietico?
Un caso davvero a sé fu invece la Jugoslavia dove l’Armata rossa era giunta tardi e la liberazione del paese
era stata principalmente opera della Resistenza e della lotta partigiana. Questa anomalia poneva le
premesse per uno sviluppo diverso del rapporto tra Jugoslavia e URSS perché rendeva impossibile la
simultaneità dell’occupazione con la liberazione. Di questo si fece forte il capo della Resistenza e poi leader
dei comunisti jugoslavi Tito, allorché Stalin cercò di imporre anche qui la subordinazione sia politica che
economica del paese all’URSS. Da questa situazione derivò nel 1948 uno strano compromesso in virtù del
quale la Jugoslavia, pur rimanendo un paese ad economia socialista e uno stato a partito unico, non
entrava a far parte del sistema sovietico. Questo allontanamento dal modello stalinista, però, non
significò mai la prospettiva dell’uscita della Jugoslavia dal patto ma piuttosto una forma di pacifica
autonomia dal rigore della sovietizzazione.
4)Perché il 1956 rappresentò un anno importante sul piano internazionale? Illustrare quali
ripercussioni ebbero gli eventi del 1956 negli assetti interni ai singoli paesi.
Dopo la morte di Stalin (1953), con Kruscev si inizia la destalinizzazione. In Polonia e in Ungheria il rapporto
Kruscev fece emergere l’illusione che l’egemonia e il controllo dell’Urss sui suoi paesi satelliti potesse
assumere forme più mitigate o addirittura progressivamente annullarsi. Nel 1956 la smentita delle speranze
suscitate dalla destalinizzazione condusse in questi paesi all’esplosione della rivolta popolare. Sia la Polonia
che l’Ungheria erano dei paesi più industrializzati, maggiormente legati da vincoli culturali all’Occidente e,
non ultimo, con dei leader comunisti nazionali indipendenti dall’URSS e fautori di politiche liberalizzatrici.
Tuttavia, una differenza sostanziale divise le due esperienze contemporanee: mentre in Polonia le
sommosse sviluppatesi dallo sciopero degli operai di Poznan e sostenute dalla Chiesa cattolica, ancora
molto forte nonostante le persecuzioni subite, si risolsero con un compromesso pacifico ( la nomina
dell’antistaliniano Gomulka a segretario del partito con il consenso dei sovietici), in Ungheria alla rivolta
anti- sovietica e soprattutto all’annuncio dato dal capo del governo, il “dissidente comunista” Imre Nagy, di
voler uscire dal Patto di Varsavia, URSS rispose con la repressione dei tumulti popolari ,dimostrando il volto
intransigente degli alleati anche oltre l’esperienza staliniana. L’invasione dei carri armati sovietici per le vie
di Budapest e la lotta dei soldati con la popolazione civile scossero anche l’Occidente aprendo una vera e
propria crisi ideologica e politica del comunismo e dei partiti comunisti attivi in occidente. Molti militanti e
intellettuali comunisti europei dopo questo episodio traumatico uscirono dai rispettivi partiti per protesta.
Esercitazione lezione n. 40
1) Qual era la situazione economica e politica in cui si trovò l’Italia al termine della seconda
Guerra Mondiale?
Italia visse nel dopoguerra uno dei suoi periodi più felici. E' vero che l'Italia era uscita dal conflitto in
gravissime condizioni materiali che avevano aggiunto nuovi problemi a quelli secolari non risolti dello Stato
e della società, tuttavia, è anche vero che il crollo del fascismo e le nuove prospettive aperte dal
dopoguerra avevano infuso grande entusiasmo e un' insolita passione ideale e morale nella società italiana
che, oltre al problema della collocazione nel nuovo sistema mondiale, aveva anche il problema più
immediato e vicino di dover prendere una serie di decisioni fondamentali per il nuovo Stato. Il corso della
vita politica italiana presentò un duplice aspetto: da un lato rimase ferma l'adesione alle alleanze con i
paesi occidentali e dall'altro, sul piano interno, vi fu un consistente settore della società italiana che si
orientava a sinistra, riconoscendosi nelle due principali forze di sinistra che avevano avuto un ruolo
significativo nella lotta di resistenza.
Gli aspetti difficili della situazione in Italia dopo la Liberazione: a) sul piano economico, perché, se nel
settore industriale le distruzioni erano state limitate (la produzione che era calata solo di 1/3 rispetto a
quella dell’anteguerra), i danni nel settore agricolo registrarono una diminuzione di ben il 60% rispetto alla
capacità produttiva dell’anteguerra. L’inflazione cresceva progressivamente mentre i salari vedevano calare
a vista d’occhio il loro valore reale; le vie di comunicazione avevano subito danni enormi con la distruzione
di ponti, strade, ferrovie che creavano difficoltà anche ai traffici commerciali. Un altro problema
significativo era la mancanza di alloggi dato che i bombardamenti avevano pesantemente colpito città e
zone abitate, costringendo buona parte della popolazione in abitazioni di fortuna. Il problema della scarsità
di alloggi, i disagi alimentari, la disoccupazione erano emergenze che contribuivano ad alimentare una
situazione di tensione sociale. Il clima di violenza e di esasperazione generato da ogni guerra unito alle
circostanze particolari della lotta di resistenza aveva contribuito ad alimentare le contrapposizioni sociali a
risvegliare l’ansia di rivendicazione dei partiti di sinistra che dopo la vittoria sul fascismo si sentivano
legittimati a coltivare attese di grande cambiamento; i dirigenti dei partiti di sinistra faticavano a tenere a
bada i loro militanti e a moderarne i comportamenti, con il problema aggiuntivo di alcuni partigiani che si
dimostravano restii a consegnare le armi e a risolvere con il facile ricorso alla violenza le contrapposizioni e i
contrasti inevitabili con gli ex- fascisti e i repubblichini ormai sconfitti. Nelle regioni del Centro e del Sud, a
partire dal 1944, si erano ripetuti episodi di occupazione di terre incolte e di latifondi da parte dei contadini,
ma soprattutto erano tornati a manifestarsi fenomeni malavitosi: in Sicilia si era rafforzata l’organizzazione
mafiosa anche per effetto della circostanza che aveva visto le forze alleate, al momento dello sbarco in
Sicilia, avvalersi della mafia italo americana stessa e dei legami da essa stabiliti con la popolazione per
facilitare il loro arrivo nel paese
3) Quali furono i partiti protagonisti della vita politica italiana del secondo dopoguerra?
Dopo la consultazione emergeva che la DC aveva sostituito definitivamente i liberali nella rappresentanza
della parte moderata del paese; le sinistre si affermavano come soggetto importante ma non maggioritario,
i partiti antifascisti in generale erano riusciti a conquistarsi il consenso degli Italiani che mostravano di voler
davvero inaugurare una nuova stagione politica senza nostalgie per il passato. Dopo le elezioni del 2 giugno
del 1946 la DC, il PSIUP e il PCI – le tre forze di massa- proseguirono la loro esperienza di governo comune,
tutte e tre trovarono l’accordo sul nome del giurista liberale Enrico De Nicola come primo e provvisorio
Presidente della Repubblica; dettero inoltre vita ad un secondo governo presieduto da De Gasperi (che si
reggeva sulla stessa formula governativa e quindi sul sostegno dei partiti che avevano preso parte al CLN).
4) Come si arrivò alla scissione di Palazzo Barberini? Cosa comportò?
Da un parte vi era la DC, interprete di un settore sociale più moderato e che si proponeva chiaramente
l’obiettivo di schierare l’Italia nel blocco delle potenze occidentali; dall’altra i partiti di sinistra – PSIUP e PCI
– i portavoce delle classi lavoratrici soprattutto operaie e contadine e quindi delle loro rivendicazioni che
vertevano su questioni appunto attinenti al lavoro (l’occupazione, gli aumenti salariali, le terre da coltivare).
Il partito che risentì di più di questa situazione radicalizzata fu il PSIUP, all’interno del quale si aprì una
divaricazione in due correnti: vi era infatti una corrente maggioritaria, guidata da Pietro Nenni, che voleva
mantenere rapporti di collaborazione politica con il PCI, voleva conservare alla strategia seguita dal partito i
caratteri di classe e rivoluzionari e, per quanto riguardava il riferimento internazionale, guardava all’URSS
ma pensava possibile che si potessero stabilire rapporti di collaborazione fra l’Urss e le forze di sinistra
dell’Occidente; l’altra corrente era guidata invece da Giuseppe Saragat, un esponente della giovane
generazione socialista, tra i più attivi antifascisti e animatori della resistenza, che voleva invece
interrompere i rapporti di collaborazione con il PCI e soprattutto non riconosceva come riferimento
internazionale l’URSS . Egli non riteneva che la politica portata avanti da Stalin nell’Europa dell’est potesse
conciliarsi con la storia e la tradizione del Partito socialista italiano che fin dalla sua costituzione (nel 1892)
aveva compreso nel suo patrimonio ideale e di valori quello della libertà oltre che quello della giustizia
sociale. Il PSIUP si scisse poco dopo, durante il Congresso di Roma, il XXV del partito, nel gennaio 1947: i
sostenitori di Saragat decisero di uscire dal PSIUP (che riassunse allora il nome di PSI) e fondarono un nuovo
partito il PSLI (Partito Socialista dei Lavoratori Italiani) che non a caso prendeva il nome che il PSI aveva
adottato al momento della sua nascita nel 1892, cioè proprio per rimarcare che il nuovo PSLI nasceva
riallacciandosi a quella tradizione e si proponeva di farsi continuatore di quella storia improntata da sempre
alle idee di giustizia e di libertà.
La scissione del PSIUP provocò la caduta del II governo De Gasperi di unità nazionale, a causa del ritiro dei
rappresentanti del PSLI , si formò così un nuovo governo De Gasperi tripartito (DC- PCI- PSI) che tuttavia
ebbe ben presto fine, visti i contrasti tra le forze di governo. De Gasperi venne incaricato di formare un
successivo governo, formando un governo di soli democristiani con la presenza di alcuni tecnici di area
moderata. Le sinistre erano state di fatto escluse dal governo, finiva così il tempo della collaborazione
governativa fra le grandi forze di massa che avevano preso parte alla lotta di resistenza.
4) Perché il 2 giugno 1946 rappresenta una data importante nella storia dell’Italia repubblicana?
Il Governo De Gasperi fu anche quello che fissò la data del 2 giugno 1946 come la data del referendum
istituzionale con il quale gli Italiani tutti- uomini, ma per la prima volta anche le donne- sarebbero stati
chiamati ad esprimersi sulla forma istituzionale che l’Italia avrebbe dovuto assumere, se mantenere la
monarchia o dar vita alla repubblica; in quella stessa data però gli Italiani avrebbero dovuto eleggere anche
i propri rappresentanti da inviare all’Assemblea Costituente , organo che avrebbe avuto il compito di
redigere la nuova carta costituzionale.
Esercitazione lezione n. 41
1) Quale dibattito l’aprì l’art. 7 della Costituzione?
Un forte contrasto tra i partiti venne a configurarsi quando la DC propose, nel marzo del 1947 , di inserire
nella Costituzione l’Art. 7, in cui si stabiliva che i rapporti fra Stato e Chiesa sarebbero stati regolati dal
Concordato concluso nel 1929 fra Santa Sede e regime fascista con i Patti Lateranensi. A tale ipotesi erano
naturalmente contrarie le forze laiche e di sinistra, tuttavia, fra lo stupore generale ,Togliatti comunicò che
il PCI avrebbe votato a favore della proposta DC, con la motivazione del rispetto dovuto al sentimento
religioso diffuso fra le masse e anche perché dichiarò la precisa volontà di non alimentare il determinarsi di
nuovi motivi di divisione fra le classi popolari. L’articolo 7 venne quindi approvato, secondo gli auspici dei
democristiani, nonostante l’opposizione dei socialisti e delle altre forze politiche laiche. Dopo l’entrata in
vigore della Costituzione tutti i partiti politici si trovarono impegnati in una competizione elettorale
intensissima in vista delle elezioni politiche fissate per la data del 18 aprile 1948 che avrebbero dato
all’Italia il primo Parlamento della sua storia Repubblicana.
2) Cosa stabilì per l’Italia il Trattato di Pace firmato a Parigi nel 1947?
Altra questione importante che vide impegnati fin da subito i governi del dopoguerra fu il Trattato di Pace
fra l’Italia e gli alleati che venne firmato a Parigi nel febbraio del 1947 e ratificato dalla Costituente in luglio.
Sotto molti aspetti l’Italia venne considerata nel trattato come una nazione sconfitta: fu quindi obbligata a
pagare una somma di riparazioni agli Stati ai quali aveva recato offesa (Russia, Grecia, Jugoslavia, Albania e
Etiopia), a ridimensionare il suo esercito, a cedere tutte le colonie che del resto aveva già perduto durante
la guerra. Queste imposizioni non furono percepite dalla popolazione come un’umiliazione o come un
eccesso vessatorio o punitivo; il popolo italiano seguì invece con particolare attenzione la questione relativa
alla ridefinizione dei confini nazionali italiani. Sul versante occidentale l’Italia non fu penalizzata, a parte la
cessione di Briga, Tenda e il Moncenisio a favore della Francia; sul versante settentrionale l’Italia, per
mantenere l’Alto Adige, potè sfruttare la situazione subalterna dell’Austria, sebbene con gli accordi De
Gasperi-Gruber, firmati nel 1946, si fosse impegnata a garantire alla provincia di Bolzano un’ampia
autonomia dal punto di vista amministrativo e linguistico. Spinosa si rivelò invece la vicenda del confine
orientale, dove l’esercito di liberazione jugoslavo, guidato dal maresciallo Tito, aveva già provveduto ad
occupare l’Istria e avanzava rivendicazioni anche su Trieste. La situazione di occupazione fece riemergere i
contrasti tra Italiani e Sloveni (Sloveni e Croati) che negli anni del fascismo era stato riacutizzato dalle
politiche di repressione adottate dal regime verso le minoranze etniche.
4) Cosa stabilì il Trattato di Osimo del 1975?
In seguito al Trattato di pace di Parigi, secondo il quale l’Italia cedeva all’Jugoslavia gran parte di Venezia
Giulia e la creazione del Territorio libero di Trieste. La successiva cessione del potere di amministrazione
civile del TLT all’Italia (zona A) e alla Jugoslavia (zona B), a causa di una mancata costituzione di organi
costituzionali del TLT, portarono al trattato di Osimo, nel 1975 quando le due contendenti si riconobbero
reciprocamente la sovranità sui rispettivi territori.
5) Cosa si intende per “centrismo”?
Dal 1948 al 1953 si inaugurò e si svolse la fase politica detta del “centrismo”, gli anni del massimo potere
della DC sulla vita politica italiana. Il “centrismo” era una formula politica che vedeva la Dc occupare il
centro dello schieramento politico (con i partiti minori, Psdi, Pli, Pri) ed escludere le sinistre (Pci e Psi) e le
destre dall’area di governo (Msi, monarchici e altre formazioni di destra). Altro elemento fondamentale del
centrismo era il ricorso ad una politica di riformismo sociale moderato che comunque servisse alla Dc a
mantenere il consenso fra le classi popolari.
6) Cosa accadde nel 1956? Perché quest’anno risulta di particolare importanza?
Il processo di allontanamento del PSI dal PCI accade in seguito agli avvenimenti del 1956. Durante questo
anno cruciale si verificarono infatti due fatti importantissimi sul piano internazionale che ebbero delle
ricadute significative sugli equilibri politici italiani: nel 1956 si svolse il XX Congresso del Partito Comunista
Sovietico, il PCUS, nel corso del quale Nikita Krusciov (il segretario del PCUS e primo ministro sovietico),
presentando il suo famoso “rapporto segreto” (cioè un documento che era destinato a rimanere all’interno
del Partito e che invece venne diffuso anche all’esterno) ammise le degenerazioni del sistema staliniano, ne
denunciò il fenomeno delle “purghe staliniane”, della sistematica pratica di limitazioni della libertà e il culto
della personalità che ispiravano intimamente il regime staliniano stesso. Krusciov non mise in discussione la
validità di fondo del modello sovietico e la linea di Lenin ma attribuì gli errori alle deviazioni compiute da
Stalin; avviò così la fase della “destalinizzazione” che alimentò le attese di cambiamento di molti paesi che
facevano parte del blocco dei cosiddetti paesi satelliti dell’URSS che sperarono cioè che a breve si sarebbe
inaugurato un nuovo corso politico che avrebbe garantito loro una maggiore e progressiva autonomia
dall’Urss. Gli effetti del XX Congresso, sommati a quelli della destalinizzazione e dell’aprirsi della lotta per il
potere in URSS, riaprirono il confronto politico anche all’interno del Partito Comunista Ungherese, mentre
gli scarsi risultati della politica economica, il livello basso dei salari e ai sistematici abusi dell’apparato
repressivo che agiva in Ungheria acuirono l’insoddisfazione e il malcontento fra le classi popolari.
Nell’ottobre 1956 a Budapest una manifestazione di solidarietà con la rivolta di Poznan in Polonia degenerò
in scontri armati con le forze di polizia. Durante la notte il governo, guidato da esponenti stalinisti, venne
sostituito dal governo di Imre Nagy, comunista dell’ala “liberale” già espulso dal Partito comunista, mentre
la situazione interna volgeva verso l’instaurarsi di una situazione di vera e propria guerriglia che coinvolse la
popolazione contro i reparti militari sovietici presenti nel paese, evolvendo di ora in ora in una vera e
propria insurrezione popolare antisovietica che coinvolse Budapest e tutto il paese. Nagy tentò di assumere
un ruolo di mediazione tra i sovietici e la popolazione che era insorta e che aveva dato vita
spontaneamente, nel corso dell’insurrezione, alla creazione di consigli di operai e di contadini dai quali fu
avanzata la richiesta della formazione di un governo di coalizione che avrebbe dovuto condurre il paese
fuori dalla situazione di guerriglia, imporre il ritiro dei sovietici, l’abolizione della polizia segreta, l’indizione
di consultazioni elettorali libere e il ritiro dell’Ungheria dell’adesione al Patto di Varsavia.
Intanto Kadar, segretario del Partito Comunista, segretamente aveva preso le distanze da Nagy per timore
che le aperture mostrate nei confronti della popolazione mettessero in serio pericolo la vita stessa della
Repubblica popolare in Ungheria e aveva quindi richiesto l’intervento dei sovietici. Durante i giorni della crisi
internazionale di Suez, che catalizzarono l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale distogliendola
dall’Ungheria, la Russia decise di intervenire con i carri armati, procedendo a stroncare con le armi la
rivoluzione in Ungheria e la forte resistenza messa in atto dagli Ungheresi che nei mesi successivi dettero vita
ad un esodo clandestino in più di 200.000. Imre Nagy fu fucilato e Kadar assunse la guida del paese.
Le speranze di libertà suscitate dal XX Congresso del PCUS vennero brutalmente smentite: l’Urss
confermava il suo ruolo di sostanziale controllore dei paesi satelliti . I partiti comunisti di tutto il mondo, in
seguito agli eventi di Ungheria e alle precedenti rivelazioni del XX Congresso del PCUS, furono investiti da
una crisi interna che registrò momenti di confronto molto intenso.
I fatti d’Ungheria, sommandosi alle rivelazioni e alle ammissioni di Kruscev al XX Congresso del PCUS,
ebbero conseguenze importanti anche sulla situazione politica interna dell’Italia e innanzitutto sulle forze di
sinistra. Il PSI condannò in maniera netta la condotta dei Sovietici in Ungheria, recidendo ogni legame con
l’esperienza russa e il modello sovietico. Il PSI mantenne comunque l’obiettivo di realizzare per via
parlamentare una radicale trasformazione della società e delle sue strutture economiche e sociali in senso
più democratico e favorevole alla ricezione delle istanze di giustizia sociale delle classi popolari. Pietro
Nenni il segretario del PSI, dopo i fatti di Ungheria, restituì per protesta il “Premio Stalin” che aveva
ricevuto come partigiano della pace. Il Pci invece fu investito da un vero e proprio terremoto politico e
scosso da un dilacerante dissidio interno che giunse addirittura a mettere in discussione la linea di Togliatti.
Togliatti a differenza di Nenni fece parziali ammissioni riguardo alle degenerazioni dello stalinismo messe in
luce dal XX Congresso, rimanendo in sostanza fedele al modello sovietico e astenendosi dalla condanna dei
gravi fatti di Ungheria. La vaghezza di Togliatti rispetto alle rivelazioni del XX Congresso del PCUS e
l’appoggio accordato alla politica di repressione adottata dall’URSS nei confronti della popolazione
ungherese aprì un contrasto interno allo stesso PCI: 101 intellettuali del PCI elaborarono infatti un
documento, che viene ricordato come “il manifesto dei 101”, nel quale esprimevano la loro protesta contro
l’invasione comunista in Ungheria e si dissociavano dalla linea ufficiale adottata dal partito ispirata ad un
inaccettabile conformismo. Gli eventi del ‘56 svolsero un ruolo determinante nell’accelerare il processo di
evoluzione in senso “autonomista” del PSI dal PCI e quindi la svolta di centro-sinistra che coinvolse l’intero
sistema politico italiano.
Esercitazione lezione n. 42
1) Cosa si intende per “equilibrio del terrore”?
La minaccia incombente derivante dal possesso dell'arma atomica da parte di entrambe le potenze aveva di
fatto creato una condizione di equilibrio (il cosiddetto “equilibrio del terrore”). La situazione di coesistenza
si fondava quindi non tanto sulla fiducia reciproca fra i due paesi, quanto sulla situazione di raggiunto
equilibrio fra le armi nucleari di cui erano in possesso le due superpotenze e quindi sulla conseguente presa
di coscienza da parte di entrambe le parti che ogni sforzo di prevalere sull’avversario facendo ricorso alle
armi avrebbe minacciato seriamente la sopravvivenza dell’intero genere umano. La situazione di “equilibrio
del terrore” che venne istaurandosi nel secondo dopoguerra ha garantito vari decenni di pace preservando
dallo scoppio di un nuovo conflitto mondiale tuttavia i momenti di tensione fra le due maggiori potenze si
sono susseguiti manifestandosi attraverso scenari di conflitto locale che hanno coinvolto varie aree come il
Medio Oriente e il Sud- est asiatico.
2) Illustrare la politica estera attuata da Kennedy.
Volendo schematizzare, nella difficile situazione dei primi anni '60 due furono le crisi di fronte alle quali la
politica di Kennedy si rivelò inefficace: 1- La crisi di Berlino e 2- La Crisi di Cuba. In questo ultimo caso,
Kennedy si attivò per mettere in difficoltà il governo comunista di Fidel Castro sia ricorrendo al boicottaggio
economico sia appoggiando una spedizione armata di esuli anticastristi che effettivamente si verificò in una
località chiamata Baia dei Porci e che nelle intenzioni degli Americani sarebbe stata funzionale a suscitare
una rivolta contro Castro ma che ebbe esiti fallimentari, finendo anche per compromettere la credibilità
della politica dell' Alleanza e Progresso lanciata da Kennedy nel 1961 e il cui obiettivo era di favorire il
decollo economico dei paesi latino-americani attraverso una profonda riconsiderazione dei tradizionali
metodi e forme di controllo degli USA sulla vita economica e politica dei paesi dell'America Latina.
La spedizione della Baia dei porci, tuttavia, non era destinata a rimanere un episodio isolato nella difficile
relazione tra il nuovo governo comunista di Fidel Castro a Cuba e gli USA. Nel 1962, infatti,
l'amministrazione Kennedy si trovò di fronte ad una crisi ancor più grave perché minacciava di turbare
l'intero equilibrio delle relazioni internazionali. Nelle complicate relazioni fra Usa e Cuba intervenne ad un
certo punto l’Unione Sovietica che garantì aiuti economici e militari ai Cubani avviando addirittura
l’istallazione a Cuba di basi di lancio per missili nucleari. Nell’ottobre 1962 alcuni aerei spia americani
riuscirono a scoprire le basi missilistiche, Kennedy allora seguendo un modus operandi estremamente
distante dai presupposti della distensione, decise per una linea di assoluta fermezza annunciando il blocco
navale di Cuba per impedire il previsto arrivo di nuovo materiale bellico sovietico.
Tanto l'intenzione sovietica quanto la reazione di Kennedy rischiavano a quel punto di compromettere
l'equilibrio della coesistenza competitiva e di realizzare il timore di un conflitto nucleare. Di fronte a
questa realistica minaccia, però, Kruscev si impegnò al ritiro dei missili ricevendo in cambio dagli USA la
garanzia di non appoggiare più alcun tentativo militare contro il governo di Castro. Fu in seguito a questa
circostanza che Usa e URSS decisero di comune accordo di installare una linea diretta di telescriventi (la
linea rossa) fra la Casa Bianca e il Cremlino che doveva servire a evitare il rischio dello scoppio di una guerra
“per errore”. Come ha efficacemente commentato il grande storico francese Duroselle: " La data del 22
ottobre [cioè il ritiro sovietico] ci appare come una svolta essenziale nella storia del mondo. A partire da
esse ci si potè avviare in maniera discreta ma efficace verso la distensione e una certa forma di
coesistenza pacifica." La soluzione della cosiddetta crisi dei missili, insomma, fu inaspettatamente l'avvio di
una nuova fase del confronto bipolare, quello della coesistenza pacifica.
3) Quali furono le caratteristiche del colonialismo francese?
L'avvio della distensione coincise anche con una nuova fase di decolonizzazione, destinata a mutare
profondamente la fisionomia del pianeta e le forme dei rapporti internazionali. Questo secondo processo di
decolonizzazione, avvenuto nel passaggio tra gli anni '50 e gli anni '60, interessò prevalentemente il
continente africano. Il processo di decolonizzazione dell'Africa, iniziato nel 1922 con l'indipendenza
egiziana, giunse così a termine nel corso degli anni '70 interessando anche la parte del continente sub
sahariano. Si può dire che generalmente la maggior parte delle indipendenze fu negoziata con la
dominazione britannica e con quella francese.
Se la prima avvenne più o meno facilmente fermo restando i profondi contrasti tra popolazione nera e
minoranze bianche in vari stati, quella francese fu generalmente preceduta da una complessa attività
politica e un forte dibattito ideologico. Le discussioni cui si è accennato rispecchiavano i particolari caratteri
assunti nel corso del tempo dal colonialismo francese che si basavano su una forte integrazione delle
popolazioni coloniali nella vita politica ed istituzionale francese (nella IV Repubblica era prevista la
regolare elezione di rappresentanti delle colonie all'Assemblea nazionale francese.) Con la costituzione
della V Repubblica (1958) il presidente De Gaulle volle che le popolazioni delle colonie si pronunciassero su
una concreta possibilità politica: il sistema di Comunità. Secondo questa ipotesi, la Francia concedeva ai
vari paesi africani una completa autonomia interna conservando però le competenze comuni in politica
estera ed economica. Si trattò di una soluzione transitoria benché accettata da tutte le colonie eccetto la
Guinea che si dichiarò subito per l'indipendenza totale. Nel corso degli anni '60, sulla scia del più generale
processo di decolonizzazione, tutte le colonie francesi chiesero e ottennero l'indipendenza.
Al di là dei singoli e numerosissimi casi di indipendenza dei paesi africani in questo decennio, l'esperienza
francese presentò problemi di linea generale. Non era facile, ad esempio, creare sistemi economici
autosufficienti dopo un lungo periodo di integrazione coloniale, così come non era facile creare una nuova
classe dirigente in grado di interpretare in maniera originale le esigenze politiche e culturali del proprio
paese. Ma un problema ancor più serio era rappresentato dai confini dei nuovi Stati ritagliati su antiche
esigenze di conquista europee piuttosto che seguendo le realtà etniche e politiche dei differenti paesi.
Soprattutto questo elemento rendeva le nazioni ex coloniali politicamente instabili ed economicamente
fragili ed esposte alle influenze delle grandi potenze. A dare la misura del cambiamento geopolitico
prodotto da questa nuova ondata di decolonizzazione può servire un dato: nel settembre del 1960 ben 17
nuovi stati africani vennero ammessi all'ONU.
4) Quali furono le cause che portarono allo scoppio della guerra dello Yom Kippur? Come
terminò?
Sulla questione arabo- israeliana sentì il dovere di pronunciarsi anche l'ONU con la nota risoluzione 242
che se da una parte sanciva il diritto di Israele ad esistere, dall'altra le imponeva il ritiro dai territori
occupati con la “guerra dei sei giorni”. Pochi anni dopo, dunque, fu proprio il problema dei territori
occupati ad essere alla base di un nuovo scontro che vide di nuovo protagonista l'Egitto.
Dopo la morte di Nasser (1970) il nuovo presidente Sadat cercò la via del compromesso con Israele e della
collaborazione con gli USA. Tuttavia, di fronte all'intransigenza di Israele sulla risoluzione 242, Sadat prese
la decisione di intraprendere una nuova offensiva contro Israele, per recuperare il Sinai, che si trasformò
nella quarta guerra arabo-israeliana, la guerra del Kippur (nome dovuto al fatto che la guerra iniziò il giorno
dell'omonima festività ebraica). L'attacco a sorpresa egiziano riuscì in quell'occasione a mettere in difficoltà
Israele che solo a distanza di un mese riuscì a ripristinare le condizioni di partenza anche grazie agli aiuti
giunti da parte americana. Il corso di questa guerra ebbe risvolti politici e psicologici: si incrinò il mito
dell’invincibilità israeliana e gli egiziani ebbero l’occasione per dire di aver vendicato l’offesa subita con la
guerra del ’67. Gli Stati arabi (tra i quali figuravano alcuni tra i maggiori produttori di petrolio a livello
mondiale come il Kuwait, l’Arabia Saudita, l’Iraq) decisero di attuare un blocco petrolifero per colpire i paesi
occidentali vicini a Israele facendo si che la crisi assumesse proporzioni globali con riflessi di tipo economico
e di alterazione degli equilibri mondiali.
5) Quali furono le cause che portarono allo scoppio della guerra in Vietnam? Quali effetti ebbe
sulla società americana?
L'impossibilità di giungere ad uno scontro diretto tra USA e URSS, soprattutto a causa della minaccia
atomica, fece in modo che il confronto tra le due superpotenze avvenisse prendendo a pretesto questioni
circostanziate e conflitti circoscritti a piccole aree periferiche. All'inizio degli anni '50, un caso del genere
era stato rappresentato dalla guerra di Corea. Ora, a distanza di più di dieci anni, questo modello di
confronto si riproponeva nel caso specifico della guerra del Vietnam (1963-1974).
Il colpo di scena in una situazione che ormai si trascinava sempre uguale a se stessa avvenne il 1° novembre
1963, poche settimane prima della morte di Kennedy, quando un colpo di stato eliminò l'ormai screditato
presidente sudvietnamita (Kennedy forniva il Vietnam del Sud dagli anni ‘50) Diem aprendo una fase di
manifesta instabilità politica.
A giustificare l'interessamento degli USA per la questione vietnamita, fu piuttosto la contemporanea
evoluzione della politica internazionale della Cina a convincere gli Stati Uniti della necessità di riprendere
la guerra contro i "rossi" e di dover fare della questione dell'indipendenza del Vietnam del Sud una
battaglia in nome della libertà contro i pericoli del comunismo. L'anticomunismo era diventato il principio
ispiratore della politica americana sia all'esterno che all'interno.Sebbene già con Kennedy si fosse avuto
un decisivo attenuarsi di questo fenomeno, fu in questo clima politico che maturò la decisione di
intervenire in Vietnam. Dominio francese fin dal 1847 e incluso nell' Unione indocinese nel 1887, il Vietnam
mantenne durante tutto il periodo coloniale forti aspirazioni all'indipendenza che, nel corso del
Novecento, si manifestarono in diverse occasioni:
- dopo la prima guerra mondiale il vietnamita Ho Chi Minh, futuro leader della resistenza nel Vietnam del
Nord, aveva già tentato di presentare un piano per l'indipendenza del Vietnam a Wilson durante la
Conferenza di Versailles. Tentativo fallito
-una nuova occasione si ebbe in seguito alla seconda guerra mondiale e al rafforzamento del partito
comunista guidato da Ho Chi Minh al nord del paese. Ma i francesi riuscirono a riprendere almeno
formalmente il controllo del paese
- nel 1954 la guerra di decolonizzazione contro i francesi (guerra di Indocina) rappresentò una nuova
occasione per affermare l'indipendenza ma gli accordi di pace (Conferenza di Ginevra) determinarono
invece una situazione molto diversa.
La Conferenza di Ginevra (1954), voluta per negoziare la fine della guerra franco-vietnamita, prese atto
della nuova situazione del paese che appariva profondamente diviso tra un nord, sotto diretta influenza del
partito comunista e di Ho Chi Minh, e un sud ancora legato agli ex coloni.
Fu questa situazione, oltre alle pressioni dei paesi occidentali, a determinare la temporanea spartizione del
Vietnam in due zone all'altezza del 17° parallelo prevista per un periodo di 300 giorni in seguito al quale,
nel 1956, il paese avrebbe dovuto autonomamente decidere il suo destino con delle elezioni politiche.
Veniva così a determinarsi una divisione de facto del Vietnam in due diversi stati: la filocomunista
Repubblica Democratica del Vienam del Nord, guidata da Ho Chi Minh, e la Repubblica del Vietnam del Sud,
governata da Diem e gravitante nell'orbita dell'alleanza occidentale.
Il conflitto sembrava destinato a prolungarsi all'infinito mentre si andava affermando l'immagine della più
grande potenza americana tenuta in scacco da un piccolo paese asiatico.
Verso la fine degli anni '60, la situazione della guerra in Vietnam, così come era andata configurandosi,
rischiava non solo di mettere in difficoltà il prestigio internazionale della nazione americana ma anche di
spaccarne la società al proprio interno.
Il malcontento, che da subito aveva accompagnato le operazioni militari, infatti, si trasformò in pochi anni
in aperta contestazione. I campus universitari furono il centro di questa protesta che, come vedremo, diede
avvio alla più grande agitazione sociale mai vista dalla fine della seconda guerra mondiale, la rivoluzione
culturale del 1968. La protesta poi dilagò velocemente nei ghetti neri, unendo al pacifismo anche
l'insofferenza per le condizioni di povertà e abbandono in cui la popolazione di colore era costretta a vivere
alle periferie delle grandi città.
L'insieme di questi motivi (manifestazioni studentesche, proteste sociali, malcontento delle classi medie)
indussero Johnson a non ricandidarsi alle elezioni politiche del 1968 lasciando il paese disorientato ad
affrontare una campagna per le presidenziali dominata dal tema della guerra in Vietnam con un'insanabile
spaccatura tra quanti volevano un rapido disimpegno e quanti al contrario volevano un'intensificazione
decisiva dello sforzo bellico. La protesta sociale contro la guerra in Vietnam coincise con il culmine
dell’attivismo e della mobilitazione del movimento per l'emancipazione dei neri, che da anni, sotto la guida
del carismatico leader Martin Luther King, era impegnato nell'importante battaglia sociale a favore della
parità di diritti tra neri e bianchi all'interno della società americana.
Nel 1968, la decisione di Johnson di non ricandidarsi fu seguita nel giro di poco tempo dall'assassinio del
leader del movimento nero e, a distanza di due mesi, dall'assassinio di Robert Kennedy, fratello di John e
candidato democratico alle future elezioni.
L'inasprimento del confronto sociale, espresso anche attraverso queste forme violente, fece sì che ad
imporsi alle elezioni presidenziali fosse invece il candidato repubblicano Richard Nixon, espressione della
cosiddetta middle America (i ceti moderati) contraria al dilagare della cultura alternativa e progressista
incarnata prima da Kennedy e poi dal movimento del '68.
Benchè espressione dei conservatori, il nuovo presidente Nixon ebbe tuttavia l'intelligenza di capire che il
paese era di fatto spaccato in due e che non si poteva pensare ad un ritorno all'epoca pre- kennedyana.
Esercitazione lezione n. 43
1) Quali furono le caratteristiche del movimento del ’68? Quali particolarità ebbe in Italia?
Negli anni '60 la politica europea vide un netto predominio dell'influenza francese e soprattutto del suo
presidente, il generale De Gaulle. Secondo De Gaulle era venuto il momento di fare dell'Europa ( con la
Francia al suo centro) un forte soggetto delle relazioni internazionali capace di far valere la propria
autonomia nei confronti degli Stati Uniti e dell'URSS. Il provocatorio frutto di questa politica fu nel 1966
l'abbandono della NATO da parte della Francia. Si trattava di una presa di posizione importante nei
confronti degli USA perché, pur ribadendo la fedeltà politica all'alleanza atlantica, la Francia si riappropriava
della propria iniziativa militare. Al di là di questo importante caso politico, l'Europa si presentava negli anni
'60 come un composito mosaico, una realtà perennemente in evoluzione. Alcuni punti importanti per i
successivi sviluppi storici:
- il decennio '60 fu caratterizzato dalla fine del cosiddetto boom economico e da una recessione che
condizionò negativamente lo sviluppo dei singoli paesi.
- Tale crisi indusse una certa instabilità politica nelle nazioni più industrializzate: Gran Bretagna e Germania
- Se da un lato l'Europa viveva un momento molto positivo con i progressivi allargamenti della CEE ( nel
1973 entrarono Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca), c'erano anche nazioni dove perduravano dei regimi
autoritari come la Spagna e il Portogallo ai quali nel 1967 si aggiunse anche la Grecia con l'instaurarsi del
regime dei colonnelli.
- L'Europa subì considerevoli ripercussioni dovute alle crisi internazionali, soprattutto la guerra del Vietnam
e la crisi di Cuba.
Nella primavera del 1968 giunse anche in Europa il movimento di contestazione giovanile del ‘68 che ebbe
una rapida e inarrestabile diffusione. L'anno passato alla storia come " il Sessantotto" (come prima altri
spartiacque epocali come il 1789, l'" Ottantanove" o il 1948 il "Quarantotto“) si caratterizzò subito come
una protesta giovanile in cui la componente generazionale giocava un ruolo essenziale. Il movimento aveva
avuto origine e sviluppo nei campus universitari degli Stati Uniti, aveva visto una vasta mobilitazione degli
studenti che rivendicavano un nuovo protagonismo e soggettivismo giovanile sulla scena politica e in
generale nella società. Le istanze alla base del movimento in America, dove il marxismo era scarsamente
diffuso, erano state il pacifismo e la protesta contro la guerra in Vietnam, l’antiautoritarismo, la lotta alla
discriminazione razziale e la speranza in un mondo ispirato a ideali di fratellanza e solidarietà. In Francia, in
Germania e soprattutto in Italia, dove invece vi era una forte tradizione culturale marxista ad ispirare alcuni
fra i maggiori soggetti partitici protagonisti sulla scena politica, il movimento ebbe in generale una
connotazione ideologica più marcata in senso marxista e rivoluzionario e le agitazioni studentesche
avanzarono una serie di rivendicazioni egualitarie e di trasformazione sociale che andavano ad
incontrarsi con le proteste del movimento operaio: studenti e lavoratori si ritrovavano a manifestare
insieme per le strade delle più importanti città europee. Alla radice della contestazione, che colpiva
l'impianto della società europea sotto tutti i punti di vista, c'erano motivi di insoddisfazione culturale ancor
prima che economica e politica. L'episodio più significativo del '68 europeo fu il "maggio francese" ( da lì il
famoso slogan che caratterizzò l'intero movimento "la fantasia al potere"), momento in cui la contestazione
sembrò essere espressione di una generazione nuova che intendeva partire dalle libertà democratiche della
tradizione occidentale dando ad esse un senso e una pratica decisamente più ampie di quanto non
avessero fino ad allora conosciuto.
L'altro paese in cui la contestazione sociale ebbe particolare vigore fu la Germania occidentale dove la
critica all'intero impianto della società del dopoguerra fu particolarmente radicale tanto da sfiorare
l'anarchismo.Il punto più importante è però comprendere la serie di complessi motivi che erano alla base
della protesta.
Essi possono così schematicamente essere individuati:
1- contestazione al sistema scolastico e universitario: critica ai contenuti 'tradizionali' degli insegnamenti,
critica alle discriminazioni 'classiste' per quanto riguardava l'accesso all'istruzione
2- critica al capitalismo: i fattori degenerativi venivano individuati nell'esasperazione dell'individualismo e
del consumismo
3- rifiuto dei valori tradizionali e alla società borghese con i suoi istituti: critica alla religione e alla Chiesa,
critica alla famiglia e alle tradizioni
4- proteste pacifiste: critica alla guerra in Vietnam, antiamericanismo, internazionalismo
Il movimento del Sessantotto, emerso prima negli Stati Uniti e poi giunto anche in Europa, ebbe immediati
riflessi anche in Italia. Qui i principali motivi di contestazione (antibellicismo, l’antimperialismo,
antiautoritarismo, critica al consumismo, alla società borghese, ai valori tradizionali, alla rigidità del sistema
educativo, la critica all’autoritarismo accademico e al principio della selezione scolastica) riprendevano
quelli generali anche se contestualizzate nella realtà italiana. In primo luogo, in Italia una forte tradizione
marxista aveva caratterizzato soprattutto nel secondo dopoguerra la cultura della sinistra italiana: da qui
l'impronta socialista della rivolta studentesca (in parte riconducibile anche alla seduzione del maoismo)
fu più netta. In secondo luogo, e forse questa è la conseguenza più importante e duratura, il movimento
studentesco non si esaurì con l'inizio degli anni '70 ma diede luogo alla formazione di gruppi organizzati
extraparlamentari che furono particolarmente attivi nell'animare la protesta e che, negli anni seguenti,
mostrarono, in alcuni casi, la tendenza a degenerare spesso in esperienze terroristiche dei cosiddetti "anni
di piombo". Infine, va sottolineato il forte legame in Italia tra protesta studentesca e movimento operaio.
La contestazione giovanile fece sentire i suoi effetti anche al di là della cortina di ferro, nei paesi dell'Europa
orientale. Qui, sebbene le società fossero più statiche e meno libere, esigenze di democratizzazione della
politica si erano manifestate già dai primi anni '60.
2) Cosa si intende per Ostpolitik? Quando e da chi venne attuata?
Gli anni della distensione in Europa furono giustamente simboleggiati da un riavvicinamento tra le due
Germanie. Proprio la Primavera di Praga era stato il motore del processo di riavvicinamento. I fatti di Praga
confermarono infatti che sul piano internazionale le aree di influenza stabilite in Europa dopo la seconda
guerra mondiale non erano al momento modificabili. Questa considerazione indusse nel 1969 il nuovo
cancelliere della Germania occidentale, il socialdemocratico Willy Brandt, a farsi promotore di una nuova
politica estera conosciuta sotto il nome di Ostpolitik (politica orientale) che si pose l’obiettivo di giungere
ad una normalizzazione dei rapporti fra la Germania federale e i paesi del blocco comunista e che pur
rimanendo fedele all’alleanza e ai principi atlantici introduceva indirettamente il problema di una futura
riunificazione fra le due germanie con un graduale superamento della divisione in blocchi. L’Ostpolitik si
tradusse nello stabilirsi di rapporti diplomatici tra la Germania federale e i paesi comunisti, nel
riconoscimento dei confini stabiliti dopo la II guerra mondiale, sanciti da trattati con l'URSS e la Polonia e
nell’avvio di contatti ufficiali con la Germania Est.
Al di là del suo inestimabile valore politico, la Ostpolitik aveva anche significative implicazioni economiche
in quanto apriva la via ad importanti relazioni commerciali tra l'industria occidentale e gli arretrati
mercati dell'est europeo. Restava comunque il profondo disappunto di una popolazione appartenente ad
una stessa nazione costretto a dividersi in due Stati politicamente ed ideologicamente differenti.
Vale ancora la pena sottolineare che, come abbiamo detto, un punto importante legato alla questione
della Germania era il riconoscimento della nuova frontiera con la Polonia. Anche sotto questo aspetto
l'azione di Brandt fu significativa con la firma nel 1970 di un trattato, prima ricordato, che sanciva il
definitivo riconoscimento delle reciproche frontiere sul fiume Oder-Neisse.
3) Perché gli Stati Uniti optarono per una politica d’intervento nella politica dei paesi sudamericani?
Per quanto riguarda il Sud America, la morte di Kennedy portò ad un rapido declino del suo disegno di
nuovi rapporti politici ed economici con le nazioni dell'America latina. Nei loro confronti l'amministrazione
Johnson si caratterizzò per una profonda discontinuità con quella del suo predecessore, fornendo un po'
ovunque il supporto e l'appoggio militare ed economico a colpi di stato tendenti a rovesciare con la forza i
governi moderati che si erano andati affermando nei dieci anni precedenti. Questo era reso possibile dalla
forte arretratezza sudamericana che aveva prodotto con il tempo una vistosa dipendenza economica.
Le cause principali di questo stato di cose erano da una parte la bassa redditività dell'agricoltura a causa
dell’esistenza dei grossi latifondi e dall'altro lo sfruttamento delle risorse agricole e minerarie da parte delle
compagnie straniere. La condizione di grave miseria e arretratezza sociale non poteva che tradursi in una
radicalizzazione dei conflitti soprattutto ispirati al modello della rivoluzione cubana.
La cosiddetta guerriglia (guerra condotta senza mezzi ed esperienza professionale dal popolo armato alla
meglio) fu condotta in varie nazioni dell'America latina personalmente dall'amico e collaboratore di Fidel
Castro, Ernesto "Che" Guevara, divenuto ben presto (seguito alla sua morte in uno scontro in Bolivia) una
delle figure più leggendarie della forza rivoluzionaria dei paesi non sviluppati.
Tra gli esempi più significativi di rivolta popolare possono annoverarsi quello dell'Uruguay e del Messico
dove le agitazioni sociali furono presto evidenti agli occhi del mondo in seguito al massacro a Città del
Messico degli studenti che manifestavano contro l'apertura degli imminenti giochi olimpici.
La complessa situazione del continente sudamericano trova solo in parte conferma nell'immagine data dal
diffondersi della guerriglia.
A partire dalla presidenza Johnson, infatti, gli Stati Uniti inaugurarono una nuova politica di
interventismo teso ad instaurare nei singoli paesi governi 'amici' attraverso colpi di stato (golpe). I casi
più emblematici di questa nuova politica furono sicuramente il Cile e l'Argentina. In Cile, il governo
guidato dal socialista Salvador Allende, eletto democraticamente dai cittadini e protagonista di un
programma radicalmente riformatore (es. nazionalizzazione delle miniere e delle banche) fu rovesciato nel
1973 da un colpo di stato militare portato avanti dal generale Pinochet, con l'appoggio degli USA. La
dittatura così insediatasi si distinse subito per il suo carattere particolarmente repressivo che condusse in
breve all'abolizione di qualsiasi forma di democrazia. Questo fatto esercitò una grande suggestione anche
in Europa; in Italia contribuì alla parziale modifica degli equilibri politici. Sorte simili toccò all'Argentina di
Peron dove una gravissima crisi economica fu il pretesto per l'instaurarsi del regime militare di Videla
(1976). La repressione della democrazia non fu da meno di quella cilena portando tra l'altro al tristemente
noto fenomeno dei desaparecidos, i giovanissimi oppositori spariti nel nulla.
4) Cosa si intende per “rivoluzione culturale”?
Nel 1965, con l'obiettivo di riprendere in pieno il potere, Mao lanciò una grande mobilitazione di massa
contro il regime e le tendenze a suo dire borghesi e occidentalizzate della cultura cinese. Nacque così il
fenomeno conosciuto come 'rivoluzione culturale'. Il primo passo fu una campagna di indottrinamento
condotta dai militari attraverso le massime di Mao contenute nel cosiddetto libretto rosso. Ben presto,
poi, questo si trasformò in una persecuzione dei ceti intellettuali e dei quadri medi accusati di essere
reazionari e seguaci del capitalismo. Le ripercussioni di questa rigidità furono notevoli anche in economia.
La produzione fu seriamente messa a rischio, numerose fabbriche vennero fermate.
Nonostante la sua ferocia, l'elaborazione ideologica che guidò l'azione di Mao ebbe un forte impatto in
Occidente dove si immaginava che la rivoluzione culturale potesse produrre un modello non schematizzato
di uomo. Per questo motivo, il maoismo divenne uno dei principali riferimenti ideali delle rivolte
studentesche del 1968. Sul piano politico, il ritorno al potere di Mao coincise con un forte sviluppo del
ruolo della Cina sul piano internazionale, guidato dall'aspirazione ad una posizione egemone sulle aree
decolonizzate dell'Asia e dell'Africa e quindi alla rottura del bipolarismo mondiale.
Esercitazione lezione n. 44
1) Quali furono i fattori che determinarono il boom economico?
“Miracolo economico” giunto all’apice tra il 1958-1963 grazie:
-allo sviluppo produttivo (industria manifatturiera, siderurgica, meccanica e chimica grazie alla tecnologia
avanzata)
-eventi come le Olimpiadi di Roma, ’61 i festeggiamenti del centenario dell’Unità d’Italia
-linea politica improntata sul liberismo e liberizzazione degli scambi; l’entrata nella CEE
-pressione fiscale bassa e compressione (salari non troppo diversi tra i qualificati e i non qualificati)
2) Illustrare il programma del governo Fanfani del ’62.
Il governo di centrosinistra di Fanfani del ’62 aveva nel suo programma: -la riforma della scuola con
l’istituzione della scuola media unica (ne consegue l’introduzione dell’obbligo scolastico fino a 14 anni)
-l’attuazione dell’ordinamento regionale previsto dalla Costituzione ma non ancora concretizzato
-la nazionalizzazione dell’energia elettrica (nasce l’ENEL)
-l’imposizione fiscale nominativa sui titoli azionari (fu poi revocato nel ‘64)
Queste ultime due erano l’obiettivo dei socialisti - “la programmazione economica”- intervento dello Stato
sull’economia.
3)Cosa prevedeva la politica dei redditi? Da chi fu promossa?
I repubblicani, con Ugo la Malfa (ministro del bilancio) alla guida, erano i fautori della “politica dei redditi”,
che si proponeva di proporzionare i livelli di crescita dei salari con la crescita della produzione in maniera da
evitare fenomeni di inflazione. Questa politica, teorizzata da La Malfa, fu applicata in parte dai governi di
Fanfani degli anni ’60. Consistette nella promozione di un accordo tra associazioni degli imprenditori e
sindacati dei lavoratori, mediata dal governo, per arginare l’aumento dei prezzi attraverso la limitazione dei
salari, nel rispetto delle dinamiche del mercato.
4)Quali partiti componevano la coalizione di Centro – Sinistra?
Le forze che componevano l’alleanza dei governi di centrosinistra sono: DC, PS, PRI e PSDI.
Esercitazione lezione n. 45
1) Quali connotati prende il movimento del ’68 in Italia?
Era arrivato in Italia e in Europa il cosiddetto “movimento del ‘68”, un movimento di protesta giovanile nato
nei campus universitari degli Stati Uniti per esprimere il desiderio dei giovani americani di acquisire un
maggiore protagonismo sulla scena politica, di far sentire la propria voce in merito a questioni importanti
che li vedevano coinvolti in prima persona. I giovani americani protestavano infatti contro la guerra in
Vietnam, che vedeva protagonista il loro paese, esprimevano il loro desiderio per una politica che fosse più
sensibile e contemplasse maggiormente il problema dei diritti civili contro ogni discriminazione e in special
modo contro la discriminazione razziale. Questi motivi furono ripresi dai giovani europei e in particolare dai
giovani italiani quando (antimperialismo, pacifismo e protesta contro la guerra del Vietnam, condanna
dell’autoritarismo che caratterizzava il sistema educativo, dell’organizzazione e del tipo di istruzione che si
impartiva nelle università italiane) l’ondata di contestazione investì anche il vecchio continente. In Italia
tuttavia il movimento acquisì sin da subito anche caratteri particolari: ebbe ad esempio, come in altri paesi
europei (la Francia, la Germania ecc.) una forte connotazione ideologica in senso marxista e rivoluzionario.
I giovani italiani condannavano il sistema capitalistico e la cultura borghese, criticavano la politica e il modo
tradizionale di fare politica, esaltando lo spontaneismo, il momento assembleare, l’egualitarismo e la
democrazia di base, per giunta in questo loro rifiuto coinvolgevano anche i partiti della sinistra tradizionale.
I giovani oltre alla ricerca di un modo nuovo di far politica esprimevano anche il desiderio per una società
più aperta, meno autoritaria e organizzata secondo istanze di maggiore democrazia, una società dove
venissero rimessi in discussione i ruoli e le figure tradizionali anche all’interno della famiglia e in primo
luogo quella della donna. A determinare queste istanze influivano anche i cambiamenti indotti dal miracolo
economico che avevano investito anche la sfera sociale, gli istituti sociali come quello della famiglia, il
rapporto fra i sessi e le relazioni interpersonali. Il movimento del ‘68 all’inizio era sorto come fenomeno
ristretto che coinvolgeva gruppi limitati di giovani, per lo più di estrazione sociale borghese o altoborghese,
a poco a poco invece si estese e interessò settori sociali sempre più ampi: dapprima si diffuse fra gli
studenti medi fino a che si saldò con il movimento dei lavoratori e degli operai e assunse un carattere
“operaista”, ideologico, legato ad istanze marxiste e di classe. Questo carattere ideologico e marxista, più
forte rispetto alla connotazione che il movimento aveva avuto negli Stati Uniti, era legato a ragioni storiche
e culturali.
2) Cosa si intende per “autunno caldo”
La volontà dei giovani del ‘68 di stabilire un collegamento organico con la classe operaia coincise con l’avvio
nel 1969 di un’importante stagione di lotte sindacali che videro impegnati i lavoratori. Le lotte sindacali si
avviarono in maniera spontanea in alcune grandi fabbriche del nord ed ebbero come soggetto protagonista
la cosiddetta figura dell’“operaio massa”, cioè il lavoratore dotato di un profilo scarsamente qualificato,
poco pagato, proveniente per lo più dal sud, quindi emigrato, poco inserito nel tessuto sociale urbano e che
quindi pativa più degli altri l’assenza dei servizi sociali utili a favorirne la progressiva integrazione. Proprio
perché i lavoratori risentirono delle influenze e degli echi del movimento del ‘68 connotarono le loro lotte
di questi anni con istanze e motivi propri o assonanti a quelli che alimentavano la contestazione giovanile.
Le lotte di rivendicazione sindacale ebbero quindi alla base un’istanza egualitaria marcata, adottarono
l’assemblea come principale momento di partecipazione e di decisione, improntarono le loro richieste ad
un forte radicalismo che giunse a mettere in discussione perfino le forme di organizzazione del lavoro e le
forme di rappresentanza degli operai in fabbrica. Sulle prime le organizzazioni sindacali tradizionali furono
colte di sorpresa dallo sviluppo del movimento che nelle sue frange più radicali era giunto a contestare
anche i vertici sindacali, tuttavia progressivamente riuscirono ad interpretare le esigenze dei lavoratori e a
prendere la guida del movimento che condussero verso la conquista di importanti conquiste, dal momento
che, una volta esaurita la lotta, i lavoratori ottennero riduzioni di orario lavorativo e cospicui aumenti
retributivi ( in media si parla di un aumento dei livelli retributivi di circa il 18%) . I buoni risultati raggiunti
dalle tre principali organizzazioni sindacali nelle lotte del lavoro portò alla costituzione di una federazione
unitaria (CGIL- CISL- UIL) che tuttavia ebbe una durata limitata alla fine degli anni ‘70. I sindacati, grazie
all’impegno nella lotta del ‘69, furono indotti ad un generale rinnovamento: modificarono la loro struttura
organizzative e adottarono nuove forme di rappresentanza diretta dei lavoratori – i consigli di fabbrica. Si
inaugurò una nuova fase politica che vide i sindacati emergere come nuovo protagonismo sulla scena
politica. I sindacati si affermarono infatti nel ruolo di stabili interlocutori del governo che da allora in avanti
mostrò di cercare un confronto non solo con i soggetti partitici ma anche con i sindacati stessi e anche su
temi più generali, che non coinvolgevano specificamente le questioni del lavoro.
3) Quali importanti riforme vennero attuate fra il 1968 e il 1970?
Le riforme degli anni 70: -nel 1975 venne approvata la riforma del diritto di famiglia che stabiliva la parità
giuridica fra i coniugi e venne introdotto l’abbassamento della maggiore età da 21 a 18 anni, al quale si
collegava anche il diritto di voto;
-nel 1978 ancora un fronte di forze laiche e di sinistra, contrapposto ad uno schieramento capeggiato dalla
DC, votò l’introduzione di una legge che rendeva legale e regolava l’interruzione volontaria della
gravidanza.
4) Cosa si intende per “compromesso storico”?
Negli anni ‘70 dunque spirava un vento di rinnovamento e fu soprattutto il PCI a interpretare queste istanze
di cambiamento e ad avvantaggiarsi di questo generale clima che pareva volgere al progresso. Il PCI era
inoltre riuscito a proporre una nuova immagine di se stesso, sia condannando l’intervento sovietico in
Cecoslovacchia, sia per le scelte nuove intraprese dal suo segretario Enrico Berlinguer, che aveva proposto
dal 1973 la necessità di seguire una politica di “compromesso storico” cioè la necessità di perseguire una
politica che promuovesse l’incontro e la collaborazione fra le tre principali forze politiche, il PCI, la DC e il
PSI, in maniera tale da costruire una base più larga a sostegno delle azioni di riforma che si contava di
intraprendere e in modo da allontanare derive autoritarie. Il segretario comunista era stato indotto a
prospettare la necessità del “compromesso storico” perché molto suggestionato dalle vicende politiche che
in quegli anni avevano coinvolto il Cile con l’esito catastrofico che aveva avuto l’esperimento di governo
democratico di Allende. Berlinguer parlò in quegli anni anche di “eurocomunismo” cioè di un nuovo
orizzonte politico entro il quale i comunisti italiani, in collaborazione con le altre forze comuniste europee
(francesi e spagnole), avrebbero dovuto collocare la loro azione da connotarsi con caratteristiche più
occidentali e comunque diverse da quelle riconducibili alla proposta tradizionale di comunismo sovietico. La
linea di Berlinguer conciliava motivi di moderazione con caratteri controversi che comunque rimandavano
alla tradizionale posizione di adesione verso il comunismo sovietico e all’origine di formazione
rivoluzionaria del partito, nato come organizzazione di rivoluzionari di professione con il preciso scopo di
promuovere la rivoluzione. Queste peculiari connotazioni resero il PCI in questa fase l’interprete più
indicato delle diverse istanze di cambiamento che emergevano dalla società e soprattutto dai settori
giovani di essa. Questo fu chiaro nel 1975, quando si svolsero le elezioni regionali e locali alle quali, per la
prima volta, parteciparono i diciottenni e che videro un aumento dei voti ottenuti da parte del Pci, che dal
27 % passò al 33,4% dei consensi.
Esercitazione lezione n. 46
1) Descrivere il modo di agire dei gruppi terroristici di destra e di sinistra.
Il fenomeno terroristico acquisiva dimensioni sempre più preoccupanti, trovando motivazioni e ispirazioni
connotabili come di destra e di sinistra. In principio il terrorismo fu sottovalutato e che invece condizionò
per molti anni la storia del paese, rappresentando un serio rischio per la stabilità delle istituzioni
democratiche.
Il terrorismo di diversa ispirazione ideologica, quello “rosso” e quello “nero”, si distinguevano anche nel
modo di agire. Il terrorismo di destra operava attraverso l’organizzazione in luoghi pubblici di attentati con
esplosivi che mietevano molte vittime in maniera indifferenziata e che avevano il solo fine di terrorizzare il
paese, di diffondere sfiducia e insicurezza verso le istituzioni democratiche in maniera tale da assecondare
l’affermarsi di soluzioni autoritarie. Altre gravi stragi si susseguirono negli anni seguenti: nel maggio del
1974 alcune bombe esplosero in Piazza della Loggia a Brescia, in agosto dello stesso anno, altri ordigni
esplosero sul treno Italicus, e ancora nell’agosto del 1980 ben ottanta furono le vittime causate dallo
scoppio di bombe alla stazione di Bologna.
La classe dirigente e politica di quel periodo non si dimostrò in grado di rimediare a evidenti fenomeni di
deviazione dei servizi segreti italiani, avvalorando nell’opinione pubblica l’idea di un’intrinseca debolezza
dello Stato che si rivelò determinante anche per l’emergere del terrorismo di sinistra.
Il diffondersi e la progressiva pericolosità e intensità assunta dal terrorismo di destra, a cui lo Stato pareva
incapace di porre un argine, contribuì ad alimentare in tutta la sinistra la paura di un colpo di stato e quindi,
in contrapposizione, finì per legittimare un eventuale ricorso a metodi violenti. Questa paura si rivelò un
elemento che ebbe grande influenza nella nascita del terrorismo di sinistra. È comunque da sottolineare
che il concetto della lotta armata era una componente importante di molte delle ideologie rivoluzionarie ed
estremiste che anche il movimento del ‘68 per certi versi aveva esaltato. Agli occhi di molti giovani gli
esempi di lotta portati avanti in America Latina o da formazioni terroristiche in Palestina acquisirono una
forza di attrazione crescente cosicché per la prima volta si formarono gruppi pronti a mettere in atto
concretamente quelle forme di lotta. A fare la scelta della lotta armata e della militanza in clandestinità
furono soprattutto molti giovani che avevano preso parte all’esperienza del ’68, o a quelle dei gruppi
extraparlamentari ma alcuni venivano anche dalla militanza in partiti della sinistra tradizionale che
interpretarono questa scelta giustificandola come un atto di dedizione nei confronti della classe proletaria
che intendevano guidare alla distruzione dello Stato borghese e del sistema capitalistico.
Le prime manifestazioni del terrorismo di sinistra si ebbero tra il 1972 e il 1975 con il verificarsi di episodi di
sequestro di dirigenti industriali e di magistrati, in particolare si segnalò il sequestro del giudice Sossi nel
1974; in un crescendo di violenza, nel 1976, si ebbe il primo assassinio pianificato con l’uccisione del
procuratore generale di Genova Coco e della sua scorta. Il più risoluto e intraprendente gruppo di terroristi
di sinistra fu quello delle Brigate Rosse operativo fino al 1988, al quale si aggiunsero, già à metà degli anni
’70, i Nuclei Armati Proletari e Prima Linea. Negli stessi anni di emergenza creata dal terrorismo di sinistra
anche la situazione economica del paese venne peggiorando e si aprì una fase di crisi con una riduzione del
prodotto interno del 3,6%; successivamente si verificò il problema dell’inflazione. Questo problema era
sicuramente riconducibile all’aumento del prezzo del petrolio ma dipendeva anche da un fenomeno di
espansione dei consumi e della spesa pubblica che fu aggravato anche dall’adozione di un meccanismo
detto “di scala mobile” nel 1975, che si configurò come il frutto di un accordo fra sindacati e Confindustria
che garantiva automaticamente l’adeguamento dei livelli salariali all’aumento del costo della vita.
2) Come reagirono i partiti politici al rapimento di Aldo Moro?
Negli anni ’70 (caratterizzati da crisi economica, inflazione, disoccupazione ecc) si vide l’aggravarsi del
fenomeno terroristico in Italia. L’episodio più grave avvenne il 16 marzo del 1978, giorno della
presentazione alle camere di un nuovo governo monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti,
che vantava l’appoggio di una maggioranza ampia, comprendente anche il PCI: in quella stessa data
avvenne infatti il rapimento, da parte di un commando brigatista, del presidente della DC Aldo Moro che
era stato il più fervente fautore della politica della “solidarietà nazionale”. I cinque uomini della scorta di
Moro furono trucidati e il presidente Dc fu tenuto lungamente in ostaggio. Mentre il paese seguiva con
incredulità e angoscia le tragiche vicende, per 55 giorni successivi al sequestro, la classe politica si
confrontò in maniera accesa sulla strategia da seguire per far fronte alla situazione: alcune forze politiche,
tra le quali si distinse il PSI e il gruppo dei radicali di Marco Panella, erano favorevoli, per ragioni umanitarie
e anche politiche, a seguire la via della trattativa con i terroristi per ottenere la liberazione di Moro, mentre
un altro fronte di forze politiche, comprendente la Dc e il PCI, che risultò maggioritario, sostenne una linea
dura di intransigente rifiuto alla trattativa con i terroristi, ritenuta inammissibile e pericolosamente
compromettente la forza e l’autorità stessa delle istituzioni statali. Il 9 di maggio infine Moro fu ucciso dai
terroristi e il suo corpo fu fatto ritrovare all’interno di un’auto parcheggiata in una via centrale di Roma.
Questo fatto che rappresentò il momento culminante dell’attacco allo Stato da parte delle Brigate Rosse, al
tempo stesso fu anche l’episodio che proprio per la sua estrema gravità contribuì ad innescare una rapida
presa di distanza da posizioni di eversione da parte di molte componenti e settori di sinistra che fino ad
allora avevano mantenuto posizioni di ambigua affinità e vicinanza agli ambienti del terrorismo rosso.
3) Quali provvedimenti mise in atto il governo di solidarietà nazionale?
La presa di coscienza che si verificò in larghi settori della sinistra, dopo l’uccisione di Aldo Moro, unita a
provvedimenti di potenziamento delle forze dell’ordine che furono adottati dalla classe politica,
consentirono allo Stato di riportare le prime vittorie nella lotta al terrorismo. Intanto il nuovo governo di
“solidarietà nazionale” procedette a mettere in atto provvedimenti che miravano al risanamento
dell’economia di fronte ai quali anche il PCI mostrò un atteggiamento responsabile e di moderazione
persino sul fronte delle rivendicazioni sindacali, fornendo quindi un sostegno alla politica di austerità
avviata dal governo che diede qualche risultato: -nel ‘78 l’inflazione scese
-Il deficit finanziario fu in parte sanato dagli effetti positivi della riforma fiscale varata nel 1974, che aveva
riorganizzato secondo criteri di maggiore efficienza il sistema di tassazione diretta.
Le riforme che avrebbero dovuto essere realizzate, anche per controbilanciare gli effetti della politica di
austerità, ebbero invece efficacia: -La legge varata nel 1978 sull’equo canone, col fine di calmierare il
mercato degli affitti, non ebbe i risultati sperati, creando difficoltà al mercato delle abitazioni specialmente
nelle città grandi
-Fu approvata in questi anni anche un’importante riforma sanitaria che stabiliva il principio del diritto per
tutti ad accedere a cure gratuite e che procedeva ad una generale riorganizzazione della sanità pubblica,
incentrata sulla creazione di nuovi organismi – le USL, Unità Sanitarie Locali, che dipendevano dalle regioni.
In generale comunque le speranze di risanamento della politica, coltivate da settori dell’opinione pubblica
di sinistra, che confidavano nei risultati che in tal senso si sarebbero prodotti con l’ingresso del PCI nell’area
di governo, andarono deluse. Continuarono infatti a verificarsi numerosi casi di corruzione che coinvolsero
addirittura il Presidente della Repubblica, il democristiano Giovanni Leone, che fu costretto a dare le
dimissioni nel 1978 in seguito ad accuse di complicità con alcuni gruppi di affari.
Esercitazione lezione n. 47
1) Quali furono le conseguenze dei risultati delle elezioni politiche del 1979 e del 1983?
Sia le elezioni del 1979, sia quelle anticipate del 1983 registrarono dei significativi cambiamenti sulla scena
politica: il PCI subì una perdita di consensi a partire dal 1979. Questo dato deluse le attese del PCI che
confidava proprio su consensi via via crescenti per accreditarsi stabilmente in un ruolo di governo. La DC
confermò il sostegno del suo elettorato nel ‘79 ma registrò una sconfitta netta nell’83 quando invece
furono le formazioni laiche minori a cogliere consensi crescenti. Anche il PSI, nonostante il nuovo corso
politico avviato da Craxi e dal nuovo gruppo dirigente, non ottenne i risultati sperati, attestandosi su
percentuali che non gli consentivano di accreditarsi come soggetto in grado di innescare dinamiche nuove e
di cambiamento del sistema politico. Sulla base di questi risultati, considerata ormai chiusa la fase della
“solidarietà nazionale”, rimaneva come unica soluzione quella di una riedizione dell’alleanza di centro –
sinistra fra la DC, il PSI, il PRI e il PSDI che, a partire dal 1981, si aprì anche all’ingresso dei liberali (PLI). La
riproposizione del centro-sinistra fu però questa volta connotata anche da un’altra novità importante e
significativa: per la prima volta a partire dal 1945 infatti la Dc cedette il ruolo di guida del governo,
dapprima-fra l’81 e l’82 al segretario del PRI Giovanni Spadolini e successivamente, nell’83 a Bettino Craxi, il
segretario del PSI.
2) Cosa si intende per “economia sommersa”?
L’economia fece registrare una certa ripresa, a partire dal 1984, con un deciso aumento delle esportazioni e
un con un impiego consistente di nuove tecnologie che furono di grande utilità per il progresso
dell’industria, specialmente nel settore automobilistico. Progressi importanti furono compiuti anche nella
grande industria pubblica (siderurgica, meccanica, chimica) che venne riorganizzata e razionalizzata e
quindi resa più competitiva, anche se molto spesso i costi di questi provvedimenti furono sostenuti dallo
Stato e dalla collettività: crebbe infatti la disoccupazione e crebbero anche le spese sostenute dallo Stato
per pagare la cassa integrazione (istituzione che assicurava un salario ai lavoratori che perdevano il lavoro
per un certo periodo). Sebbene attraversato da fasi di crisi, il sistema economico negli anni ’80-’90 poteva
comunque definirsi vitale, vivo anche oltre quanto veniva registrato dai dati ufficiali e questo soprattutto
perché persisteva un fenomeno di “economia sommersa”, vale a dire si era strutturata un’esperienza
economica importante costituita da molteplici piccole imprese che si erano sviluppate in diverse località
di provincia del centro-nord grazie a turni di lavoro imposti ai dipendenti molto duri, all’assenza di
controlli sindacali, ad una elevata evasione fiscale e in parte anche all’impiego di tecnologie innovative e
avanzate e a una qualità che queste imprese possedevano indubitabilmente, cioè una grande capacità di
adattamento al modificarsi del mercato e alle esigenze mutevoli della produzione.
Anche il settore terziario conobbe un grande sviluppo in questi anni, articolandosi in una crescente varietà
di figure professionali; Questo dato insieme ad altri fattori indicavano una crescita complessiva del paese
che pareva destinata a durare a lungo e a raggiungere livelli più elevati.
3) Quali furono le conseguenze delle elezioni del 1987?
Nell’87 si aprì la crisi del lungo Ministero Craxi con lo scioglimento anticipato delle camere che si verificò
per la quinta volta. Le elezioni sancirono una crescita dei voti del PSI, una diminuzione di quelli del PCI e un
avanzamento della DC; si affermarono inoltre alcune formazioni politiche diverse dalle consuete: una novità
erano per esempio il gruppo ambientalista dei Verdi e le Leghe regionali, che ebbero successo soprattutto
in Lombardia ma anche in altre aree del Nord. Le Leghe peraltro confermarono un buon risultato anche alle
elezioni amministrative successive che si svolsero appena un anno dopo, facendo leva su motivi quali il
federalismo e la contestazione del centralismo statale, la condanna verso la corruzione politica e
l’insistenza sulla fiscalità, infine cavalcando posizioni antimeridionalistiche che sfioravano la xenofobia.
In seguito alle elezioni, il pentapartito ricostituì la sua maggioranza sulla base di un cosiddetto “accordo di
programma” e si giunse alla formazione di due governi guidati nuovamente da esponenti democristiani. Il
primo esecutivo fu presieduto da Giovanni Goria (luglio ‘87- marzo ‘88) mentre il secondo fu presieduto da
Ciriaco De Mita, segretario della Dc. I due governi tuttavia non concretizzarono gli obiettivi che si erano
posti cioè quello di procedere al risanamento finanziario e al varo di riforme istituzionali. Relativamente a
quest’ultimo obiettivo furono solo modificati i regolamenti parlamentari nel senso di rendere più difficile il
voto segreto così da assicurare maggiore solidità agli esecutivi. Il governo guidato da De Mita si trovò a
scontrarsi anche con problemi dovuti ai contrasti interni alla DC stessa. Al Congresso Dc di Roma, nel
febbraio ’89, de Mita si dimise dalla segreteria Dc per cedere il posto a Arnaldo Forlani, capo della corrente
“moderata” della DC. Poco dopo, nel maggio, De Mita fu costretto a dimettersi anche dalla guida del
Governo, soprattutto per i continui contrasti con i socialisti. Si aprì allora una lunga crisi che si chiuse con
l’ennesima ricostituzione del pentapartito e la formazione di un governo a guida Dc, presieduto da Giulio
Andreotti, che tuttavia non ebbe esiti diversi dai precedenti a causa delle persistenti divisioni fra le
componenti della coalizione di governo. Nel 91 si aprì così una crisi ed il PRI uscì dall’alleanza che sempre
più debole si rivelò inadatta in modo palese a gestire quella fase di evidente crisi della Repubblica.
Esercitazione lezione n. 48
1) Quali erano gli elementi di crisi del blocco occidentale? E quali quelli del blocco orientale?
Gli anni ’80 furono l’ultimo decennio di confronto e scontro tra le due superpotenze. Essi furono
caratterizzati in politica estera da una volontà sempre crescente di moderare i toni del confronto ed in
politica interna- per entrambi i blocchi- da una crisi delle proprie strutture portanti. Volendo sintetizzare, si
può dire che gli elementi di crisi per i due blocchi fossero:
1- Sistema occidentale: i contraccolpi delle due differenti crisi energetiche (1971 e 1979) avevano
generato la necessità di una forte reazione economica, con pesanti ricadute sociali che incrinarono
il sistema del welfare conquistato dalle società occidentali nel secondo dopoguerra.
2- Sistema orientale: l’arretratezza del sistema produttivo unita alla chiusura del sistema economico nel
blocco sovietico diedero luogo ad una profonda crisi del sistema che, fatalmente, portò ad un
indebitamento con i paesi occidentali. Accanto a questo, lo scontento sociale per la degenerazione del
sistema politico comunista sempre più traditore delle promesse rivoluzionarie del 1917, creava i
presupposti per una seria contestazioni.
2) Illustrare gli elementi caratterizzanti il neoliberismo? Da chi fu promosso?
Con l’elezione del repubblicano Ronald Reagan alla presidenza (1980), l’America voltò decisamente pagina
rispetto ai due precedenti decenni cercando di ridare peso alla presenza americana nel mondo e, al
contempo, di reagire alla crisi economica. La politica di Reagan si basò allora sul presupposto che il
confronto con i sovietici andasse risolto dimostrando una netta superiorità militare determinata dalla
ripresa degli investimenti negli armamenti soprattutto investendo in tecnologie innovative.
Ma la grande e più incisiva novità della politica reaganiana fu quella delle scelte economiche di indirizzo
rigorosamente liberista. Per affrontare la crisi in cui versava da tempo l’economia americana, egli inaugurò
una politica di tagli alla spesa pubblica sociale, di sgravi fiscali alle imprese e di riduzione delle tasse per i
redditi elevati con il fine di stimolare l’iniziativa privata. Questa politica, conosciuta con il nome di
neoliberismo, conobbe anche una versione europea di particolare rigore, quella del governo di Margaret
Thatcher, giunta al potere in Inghilterra nel 1979. Il thatcerismo fu la variante europea della politica
economica americana ma con una importante differenza, il terreno sociale. Il neoliberismo in Inghilterra,
infatti, non interveniva su una società tradizionalmente ispirata a valori liberisti e individualistici come
quella americana ma, in una società in cui il welfare (e quindi le forti dimensioni della spesa pubblica)
avevano una grandissima tradizione. Questo determinò un grave scontento sociale come risposta alle
applicazioni del neoliberismo che fu letale per la stabilità del sistema sociale inglese. D’altro canto, sia la
Francia di Mitterrand (1981) sia la Germania di Khol furono piuttosto prudenti nell’avvicinarsi al modello
neoliberista comprendendo come l’indirizzo eccessivamente liberista potesse essere controproducente per
le società europee, estremamente diverse da quella americana.
3) Quali furono gli effetti della caduta del muro di Berlino?
La caduta dei regimi sovietici costituiva l’inizio di un processo per molti versi irreversibile e innovativo:
1- Il crollo della Germania orientale portò inevitabilmente alla riunificazione delle due Germanie
dove il 2 dicembre 1990 si tennero le prime elezioni politiche unitarie.
2- La crisi del modello comunista investì anche la Cina dove nell’aprile del 1989 una straordinaria
partecipazione popolare caratterizzò le proteste degli studenti cinesi contro il regime (tristemente
noto è l’episodio del massacro di piazza Tienanmen).
Ma la conseguenza forse più grave nell’ambito della politica internazionale fu il progressivo
indebolimento del governo di Gorbaciov dovuto a un combinarsi di lotte politiche interne e di spinte
nazionalistiche della composita popolazione dell’URSS.
L’URSS cominciò ad essere investita da un processo di disgregazione (che iniziò con l’indipendenza delle
repubbliche baltiche) che portò alla sua disgregazione (1990-1991). La scomparsa del blocco comunista
metteva fine al confronto bipolare e all’età che impropriamente si indica come della “guerra fredda”. Per
molti, il venir meno di questo ordine significava anche la fine del secolo e l’aprirsi di una nuova epoca
caratterizzata da un confuso multipolarismo.
4) Illustrare la politica estera di Gorbaciov.
In politica estera, poi, il disegno di Gorbaciov si basava su un mutamento delle relazioni
internazionali che consentisse all’URSS di diminuire le spese militari. Per questo, egli lavorò ad
un’intesa con gli USA e, parallelamente, ad un allentamento del controllo e della pressione sui paesi
del blocco orientale. Tra il 1985 e il 1987, gli incontri tra Gorbaciov e Reagan portarono allo
smantellamento dei missili tattici europei, preludio di una nuova epoca di distensione. Tuttavia, il
risultato ottenuto dall’opera di Gorbaciov andò probabilmente contro le sue intenzioni e le sue
aspettative dal momento che portò al crollo sovietico e alla fine del bipolarismo.
Con l’affermarsi di Gorbaciov in URSS il processo di trasformazione delle società comuniste subì
un’accelerazione improvvisa che portò in breve al crollo del sistema socialista in Europa Orientale:
Nel 1987 in Polonia, con il consenso di Gorbaciov, si svolsero le prime elezioni politiche libere
Nel 1989, in forme praticamente pacifiche si assisteva alla scomparsa delle strutture socialiste in
Ungheria, Cecoslovacchia e Bulgaria
Nel novembre del 1989, la dissoluzione della DDR diede luogo all’evento più simbolicamente significativo
del crollo del comunismo e cioè l’abbattimento del muro di Berlino.

Potrebbero piacerti anche