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UNIVERSITÀ TELEMATICA PEGASO

Corso di Laurea in
Economia Aziendale

Insegnamento di
Storia Economica

Il divario nord-sud nell’Italia preunitaria

CANDIDATO:
RELATORE:
Francesco Meringolo
Prof. Vincenzo Camuso

Anno Accademico

2020 – 2021

1
Indice
Introduzione p. 3

Capitolo 1. L’Economia nell’Italia preunitaria


1.1 Il regno sabaudo e il lombardo veneto p. 5
1.2 I granducati p. 8
1.3 Lo stato pontificio p. 10
1.4 Il regno delle due sicilie p. 12

Capitolo 2. Lo stato delle infrastrutture nell’italia preunitaria

2.1 Le infrastrutture nel regno sabaudo e nel lombardo veneto p. 15

2.2 Strade, ferrovie e porti nei granducati p. 18

2.3 Le infrastrutture nello stato pontificio p. 20

2.4 Il sistema infrastrutturale nel regno delle due sicilie p. 22

Capitolo 3. Cenni sull'economia e le infrastrutture italiane dopo


l'Unità - La seconda rivoluzione industriale

3.1 Il nord Italia p. 25

3.2 Il centro Italia p. 28

3.3 Il sud Italia p. 30

3.4 La rivoluzione industriale nel Regno d’Italia p. 33

Bibliografia p. 38

Sitografia p. 41
Introduzione

Obiettivo di questa tesi è di fornire un’istantanea delle condizioni economiche e sociali del

Paese nel momento unitario, un periodo storico particolarmente discusso e revisionato in

tempi recenti. Il lavoro è stato fatto studiando fonti storiche e documentali di carattere

scientifico e/o riconosciuti dalla comunità scientifica e in cui non hanno trovato spazio

opinioni precostruite, ma solo il tentativo di descrivere, oltre ai dati statistici disponibili,

anche il clima politico e il sentire diffuso delle classi dirigenti negli Stati italiani preunitari. A

questo si è aggiunto uno sguardo, seppur breve, al contesto estero e al momento storico e

politico generale di riferimento.

Nel primo capitolo si è tentato di indagare, suddividendo in quattro parti la Penisola, quelle

che erano le condizioni degli Stati pre-unitari, il loro progresso economico, la condizione

sociale, la visione politica dei rispettivi Regni e governi. Sembra emergere che la condizione

di tutta la penisola fosse abbastanza arretrata e non ancora coinvolta nella Rivoluzione

industriale che aveva interessato l’Europa del Nord e l’Inghilterra. In Italia, tra nord e sud le

classi dirigenti avevano visioni differenti sulle novità che avevano interessato il mondo sia da

un punto di vista tecnologico, che politico, infrastrutturale, sociale ed economico. Esempio

emblematico di differenze all’unità, è il sistema bancario che passava da rete diffusa sul

territorio nel nord a un sistema bancario obsoleto al sud, dove non circolava la carta-moneta.

3
Il secondo capitolo è servito a mettere a fuoco la condizione infrastrutturale della penisola

italiana ed è emerso il contributo dato dal “clima politico” (che caratterizzava la visione delle

èlite locali e delle autorità di governo e che si differenziava soprattutto dall’apertura o dalla

chiusura alle novità) al divario esistente già il 1861. Nell’Italia prenuitaria si passava

dall’idea che le ferrovie fossero un volano di sviluppo industriale e commerciale del nord alla

paura del Papato e dei Borboni che queste potessero essere un mezzo di diffusione di idee

liberali. E stessa sorte era toccato allo sviluppo del telegrafo.

Nel terzo capitolo si è fatto il tentativo di osservare il Paese provando a concentrare

l’attenzione su quello che è stato il contesto e le difficoltà entro cui si muoveva il nuovo

Regno, sulla diversità dei problemi che vi erano tra il nord e il sud del Paese e si è indagata la

Rivoluzione industriale nel Regno d’Italia che, raggiunta in secondo momento, ne ha

migliorato le condizioni socio-economiche. Emblema delle differenze nord-sud sono la scuola

e l’istruzione, dove il divario sui tassi di alfabetizzazione che c’era tra nord e sud del Paese a

metà ‘800 si è colmato solo nel XXI secolo.

Qualora si intendesse provare a trarne delle conclusioni, bisognerebbe approfondire, nello

studio delle condizioni di partenza dei diversi territori, il ruolo e l’influenza che ha avuto la

mentalità riformista o conservatrice delle classi dirigenti e delle èlite locali, negli squilibri

territoriali. Al sud, per esempio, colpisce la tendenza dei ceti nobiliari e dei latifondisti, anche

dopo l’unità a preoccuparsi di come conservare i privilegi e gli agi a spese dei contadini e dei

braccianti che lavoravano nelle loro terre. Tendenza che precluse lo sviluppo di nuove

tecniche agricole che migliorassero la produttiva del lavoro (solo durante la parentesi

bonapartiana fu abolito il feudalesimo in tutto il sud Italia). Manca all’analisi e alla tesi, ma

meriterebbe una tesi a parte e non un semplice capitolo, il ruolo che hanno avuto,

nell’affermare il divario nord-sud, le mafie.


Capitolo 1

L'economia nell'Italia preunitaria

1.1 Il Regno Sabaudo e il Lombardo Veneto

Il Regno Sabaudo e il Lombardo-Veneto rappresentano in qualche modo l’Italia del nord e,

"raccontare" la condizione economica dell'Italia del nord, è in realtà un artificio linguistico

considerato che si parla, nel periodo preunitario, di due stati differenti, il primo sotto la

sovranità della famiglia Savoia e il secondo sotto l’Impero austro-ungarico.

La prima cosa che colpisce, nella ricerca delle informazioni, è la poca disponibilità di dati

affidabili antecedenti al 1861 nonostante vi siano numerosi lavori degli storici dell'economia e

degli statistici, anche diversi nel tempo e nell'approccio.

Di certo, sappiamo che la rivoluzione industriale nel 1848 (un anno abbastanza

significativo per comprendere quello che avvenne in Europa e quindi anche in Italia) era in

una fase avanzata sia in Inghilterra che in Francia e totalmente assente o di scarsa rilevanza in

Italia, basti pensare, ad esempio, che bisognerà arrivare agli anni '30 del XX secolo affinchè il

contributo totale dell'agricoltura al reddito nazionale risulti minore di quello dell'industria1.

Nel 1848 in Europa vi erano numerosi tumulti e moti, ma a seconda di dove ci si trovava,

cambiavano le rivendicazioni. Se in Inghilterra e Francia si rivendicavano diritti sociali

attraverso i primi movimenti operai e nel frattempo Marx ed Engels pubblicavano il

Manifesto del Partito Comunista, negli stati italiani le richieste provenienti dalle insurrezioni

1 V. Giura, Lezioni di storia economica, Edizioni scientifiche italiane, 1987

5
“popolari” (definite insurrezioni borghesi) riguardavano la Costituzione e quindi il desiderio

di una monarchia costituzionale con un parlamento eletto dal popolo, un governo che

rispondesse al parlamento e non al sovrano e l’indipendenza della penisola.

Erano richieste che trovavano forza tra la borghesia più colta e illuminata, intellettuali,

studenti e, a differenza di quanto avveniva in Francia o Inghilterra, non vi era ancora traccia

delle richieste sugli orari e le condizioni di lavoro nelle fabbriche.

In seguito ai moti del 1848 Carlo Alberto concesse lo Statuto e, complice l’avvento al

potere di Cavour, la situazione economica nel Regno di Sardegna ebbe una decisa svolta.

Seppur tra mille contraddizioni, battute d’arresto e crisi di governo, sostanzialmente gli anni

50 dell’800 videro il Regno Sabaudo impegnato in un’importante opera di modernizzazione e

riformatrice. Con Cavour, migliorarono le infrastrutture economiche e sociali (ferrovie e

istruzione), fu varata la riforma del commercio e si favorì la modernizzazione dell'agricoltura.

Nel nord Italia, sin dall’inizio dell’800 si diffusero le prime casse di risparmio e dalla metà del

XIX secolo, nel territorio dominato dai Savoia, grazie soprattutto alla visione strategica di

Cavour, sorsero le prime banche sotto forma di società per azioni 2. Nel solo Regno di

Sardegna si contavano 22 casse di risparmio, considerati, all’epoca, moderni istituti di credito

per le piccole attività3.

Da segnalare, nel biellese, sin dai primi dell’800 le prime industrie tessili che, però, a

differenza di quelle più moderne in uso in Inghilterra non utilizzavano il vapore, ma venivano

azionate dalla forza idraulica favorita, peraltro, dalla notevole presenza di acqua.

Eccetto che in Pianura Padana, dove vi erano i primi insediamenti agricoli cosiddetti

razionali e dove si iniziavano ad adoperare le tecniche di coltivazione più moderne, il resto

delle proprietà fondiarie erano nelle mani dei ceti nobiliari che, però, vivevano nelle città e si

2 V. Zamagni, La situazione economico-sociale del Mezzogiorno negli anni dell’unificazione, in <<Meridiana


73/74>>, 2012, pp 267-281
3 E. Felice, Perché il sud è rimasto indietro, Il Mulino, 2013
servivano di braccianti o coloni che, nella coltivazione delle terre, utilizzavano delle tecniche

scarsamente moderne e meccanizzate. Di fatto, mancava la figura dell’imprenditore agricolo

che, attraverso degli investimenti, avrebbe avuto interesse a far fruttare la terra.

Insediamenti tessili con forza idraulica vi erano anche in Lombardia e in Veneto, da

ricordare il primato del Veneto con la prima filatura meccanica ad opera di Francesco Rossi a

Schio (VI) nel 1819 e Marzotto a Valdagno nel 1836 che poi diverrà un marchio abbastanza

famoso e, sempre nel Lombardo Veneto, grazie a imprenditori tedeschi e svizzeri, iniziava ad

assumere importanza l’industria del cotone.

Anche sotto il governo dell’Impero austro-ungarico era stata avviata un’opera di

modernizzazione del territorio dove, grazie a governi di natura tutto sommato riformatrice, si

promuovevano ad esempio le autonomie locali.

Nel Lombardo Veneto vi era anche una modesta presenza di quella che era la più diffusa

industria Italiana: l’industria serica, avvantaggiata dalla notevole domanda di filati di seta in

Europa e Americhe e che, comunque, vedeva nel Regno di Sardegna il maggior produttore di

filati di seta nella penisola italiana4. Bisogna tenere in considerazione che l’industria tessile,

così come quella serica, rappresentava comunque un’attività marginale, visto che il 1861,

anno dell’Unità d’Italia, l’esportazione di filati italiani era di 100 tonnellate5.

Complicato parlare del reddito o del Pil prima dell’Unità d’Italia per mancanza di dati.

Tuttavia si sono susseguiti diversi studi, alcuni che hanno fatto discutere il mondo accademico

per il metodo utilizzato, altri che sono stati ritenuti più affidabili. Tra questi c’è il lavoro fatto

da Emanuele Felice e Giovanni Vecchi attraverso la rielaborazione dei lavori riguardanti “le

serie regionali” di Ciccarelli e Fenoaltea riguardo al Pil pro-capite nel 1871 (dieci anni dopo

l’Unità d’Italia) dove si evince che, fatta 100 la media Italiana di Pil pro-capite, nel centro-

4 A. De Angeli, Il commercio della seta tra Italia e Cina, 1850-1915, Queen’s University Belfast, 2017
5 V. Giura, Lezioni di Storia Economica, Edizioni scientifiche italiane, 1987

7
nord la quota era pari a 106 con punte di 139 in Liguria. La quota pro-capite “rallentava” in

Lombardia a 111 e poi seguivano il Piemonte a 103 e il Veneto a 1016.

Chi sapeva leggere, scrivere e far di conto era il 50% della popolazione in Lombardia e

Piemonte e il 35% in Liguria7.

La scuola, in Lombardia, aveva conosciuto, già dalla presenza francese, una notevole

crescita tant’è che risale al 1797 l'istituzione di una commissione incaricata di formulare un

"Piano generale di pubblica istruzione per la Repubblica Cisalpina" il quale prevedeva, tra

l'altro, l'accentramento allo Stato di ogni attività di pubblica istruzione; mentre durante il

dominio austriaco, venne esteso al Lombardo Veneto il sistema scolastico prussiano8.

Diede importanza all’istruzione anche il Regno di Sardegna visto che, a partire dalla fine

della dominazione francese, il nuovo regno potenziò il sistema scolastico al punto che

diventerà l’ossatura principale di quella che sarà la scuola dopo l’Unità d’Italia9.

Da segnalare nel nord-ovest e la cui importanza la valuteremo in seguito, i dati del servizio

postale sul numero delle lettere ricevute per abitante nel 1862 (un anno dopo l’Unità d’Italia)

che era pari a 5,3 lettere per ogni abitante in Lombardia e 6,1 in Piemonte e Liguria10.

1.2 I Granducati

Quando Pietro Leopoldo il 1790 si apprestava a lasciare la Toscana vi era stato un notevole

impulso riformatore. “In Toscana erano stati eliminati i dazi interni e vi era piena libertà di

6 E. Felice, Perché il sud è rimasto indietro, Il Mulino, 2013


7 G. Vecchi, In ricchezza e in povertà. Il benessere degli Italiani dall’Unità ad oggi, Il Mulino, 2011
8 F. Luini, Istruzione pubblica (1837-1897), in www.lombardiabeniculturali.it
9 P. Bianchini, Le origini delle materie. Discipline, programmi e manuali scolastici in Italia, SEI, 2011
10 E. Felice, Perché il sud è rimasto indietro, Il Mulino, 2013
commercio, erano state abolite le corporazioni e fu adottata la personale libertà d'impresa e di

attività economiche e produttive. Furono abrogati gli appalti dell'esazione fiscale e avocato in

capo allo Stato il potere di riscossione dei tributi che ebbe la conseguenza di sostituire la

miriade di tassazioni eterogenee esistenti, quasi esclusivamente con la tassa sulla proprietà

fondiaria e quindi fu necessario provvedere ad un catasto generale, contro il quale la protesta

sarà aspra. A fianco di queste iniziative, Pietro Leopoldo, promosse la piena disponibilità della

proprietà mediante l'eliminazione o l'attenuazione dei vincoli di manomorta e di

fedecommesso e cercò di creare nuove proprietà terriere piccole o medie tramite le

allivellazioni con la suddivisione dei beni della corona e degli enti pubblici o ecclesiastici”11.

A dare l’idea del piglio con cui Pietro Leopoldo governò il Granducato di Toscana,

possono essere utili le parole dello storico Riccardo Nencini nella prefazione de “Le scuole e

le comunità nella Toscana” scritto da Teresa Calogero: “La finalità più alta era il consapevole

e partecipe coinvolgimento di tutti i sudditi”.

Questo clima di concordia e la stagione delle riforme si arrestò in seguito ai tumulti politici

e alla dominazione napoleonica e riprese dopo la Restaurazione con Ferdinando III di Toscana

e, poi, Leopoldo II.

Nei granducati (Toscana, Modena, Parma) la condizione economica non era diversa da

quella del nord Italia e le modernizzazioni riguardavano tutti i settori d’attività, ma erano

ancora carenti le industrie eccetto una parentesi tessile nel territorio di Prato e, l’attività

prevalente, era quella agricola. L’economia era sostanzialmente ferma dunque, ma

particolarmente fervente anche nei “Granducati o Ducati” era l’attività politica con fermenti

“risorgimentali” tra gli studenti e la borghesia colta. A Modena, Francesco IV il 1831 aveva

11 L. Lotti, Introduzione in T. Calogero, Scuole e comunità nella Toscana di Pietro Leopoldo, Consiglio
Regionale della Toscana, 2010

9
fatto arrestare il patriota Ciro Menotti resosi colpevole di aver cospirato e dato il via ai moti

nei ducati padani.

Di notevole importanza, da un punto di vista storico, è il deciso aumento demografico che

da molti anni coinvolgeva tutta l’Europa e che se da una parte aumentava il fabbisogno di

derrate alimentari, dall’altro era fattore chiave che aveva fatto aumentare la crescita

economica considerato anche l’aumento della forza lavoro e quindi di braccia per i lavori in

agricoltura in tutta la penisola e da cui non erano esenti nemmeno i “Granducati”.

Diffuso e moderno il sistema bancario, basterebbe ricordare il Monte dei Paschi di Siena

arrivato sino ai giorni nostri o la Banca Toscana. Importanza non secondaria ebbero poi la

Banca di Parma e la Banca delle quattro Legazioni di Bologna, che, il 1867 confluiranno nella

Banca Nazionale degli stati Sardi; dalla quale, dalla fusione con la Banca di Toscana, con la

Banca Toscana di Credito e con la Banca Romana (nonostante fosse in liquidazione), nel 1893

nacque la Banca d’Italia12.

In totale, la distribuzione delle Casse di Risparmio tra i Granducati era di 5 casse di

risparmio a Parma e Modena e 27 in Toscana13.

Più basso, rispetto al dato che abbiamo già incontrato del nord Italia, il Pil per abitante,

infatti fatta 100 la media italiana, nel 1871 il Pil pro-capite in Toscana era pari a 105 e in

Emilia Romagna a 9514.

1.3 Lo Stato Pontificio

12 L. Conte, La banca nazionale formazione e attività di una banca di emissione 1843-1861, Edizioni
scientifiche italiane, 1990
13 E. Felice, Perché il sud è rimasto indietro, Il Mulino, 2013
14 E. Felice, G. Vecchi, Quaderni del Dipartimento di Economia Politica e Statistica, Università di Siena, 2012
Nella ricerca spassionata di ciò che è stato lo Stato Pontificio fino all’Unità d’Italia, ad un

osservatore, anche distratto, risalta la visione del Papa Gregorio XVI (Sovrano dello Stato

Pontificio) riguardo alla ferrovia, l’infrastruttura che più di ogni altra aveva stravolto o stava

per stravolgere lo sviluppo e le prospettive del mondo intero, definita “Satana su rotaia”15.

Sin dal 1815, anno in cui venne restaurata l’autorità papale, nello Stato Pontificio la vita

politica generale e la vita civile erano fortemente depressi. La gestione dello stato era

refrattaria ad ogni tipo di innovazione e l’attività economica era prevalentemente agricola. Lo

stato attraverso politiche protezionistiche aveva di fatto favorito il contrabbando delle merci,

contrabbando che aveva avuto anche l’effetto di moltiplicare i prezzi.16

A partire dal 1830, sotto il pontificato di Pio VIII furono stimolate nuove piantagioni di

olivi e gelsi, ma non si era compreso ancora il fatto che, attraverso la coltivazione dei gelsi e

la conseguente attività serica, si potesse letteralmente creare quella che ai nostri giorni

chiamiamo filiera, tant’è che nel 1840 la Delegazione di Spoleto inviava una supplica al Papa

in cui sosteneva che l’industria serica era “sorgente di dovizia” e che sarebbe stato opportuno

trasformare i pascoli in nuove piantagioni di gelsi ed evitare di esportare la seta greggia e

rimportarla lavorata17. Il settore entrò in crisi negli anni successivi (come nel resto d’Italia e

soprattutto in Piemonte) a causa della pebrina una malattia del baco da seta. Tuttavia, in

seguito a canali commerciali aperti con l’oriente per l’acquisto di bachi da seta, sul finire

degli anni 70 dell’800, la penisola italiana unita divenne il primo produttore in Europa di seta

greggia.18

Anche sotto il papato i terreni agricoli erano prevalentemente nelle mani dei latifondisti e

dei grandi possidenti cosa che rappresentò un forte problema per lo sviluppo dell’agricoltura

razionale. L’economia restava quindi pressochè fatta di agricoltura e pastorizia e qualsiasi


15 S. Rizzo, G. A. Stella, Come il «Satana su rotaia» ha unito (e disunito) l’Italia, www.corriere.it
16 A. Quaquarelli, Annali di scienze politiche vol. 13, n. 3/4, Rubbettino editore, Settembre - Dicembre 1940
17 A. Quaquarelli, Annali di scienze politiche vol. 13, n. 3/4, Rubbettino editore Settembre - Dicembre 1940
18 A. De Angeli, Il commercio della seta tra Italia e Cina, 1850-1915, Queen’s University Belfast, 2017

11
attività industriale in tutta Italia e non solo a Roma, era rallentata dalla mancanza di carbone

e, nel sud della penisola, anche da un sistema creditizio abbastanza fragile.19

Abbastanza diversa tra il Lazio e l’Umbria e le Marche è la distribuzione del PIL pro-

capite nel 1871. Infatti, fatta 100 la media italiana, il PIL pro-capite nel Lazio era pari a 146,

pari a 99 in Umbria e ben sotto la media le Marche che dovevano accontentarsi di 82.20

1.4 Il Regno delle due Sicilie

Come abbiamo già avuto modo di notare c’è un anno simbolo (1848) che aiuta a decifrare

quanto avvenuto nella penisola e in tutta Europa. Dopo le insurrezioni e i moti del ‘48, in tutti

gli

stati italiani era stata concessa la Costituzione. Nel Regno Borbonico le cose andarono

diversamente, tant’è che l’anno successivo alla concessione della Costituzione, la monarchia

borbonica tornò ad essere una monarchia assoluta. Vi fu una pesante repressione e tanti

liberali e patrioti vennero incarcerati.

Sul piano economico il Regno Borbonico si presentava più o meno come gli altri stati, con

un’economia prevalentemente agricola e dazi doganali. Con l’intervento statale era stato

creato il Reale Opificio Borbonico dove, però, la manodopera non andava oltre il migliaio di

addetti (tra militari e non)21. L’agricoltura era compressa dal latifondo, nelle mani pressochè

del ceto nobiliare, e si coltivava soprattutto grano, mentre nelle aree interne l’attività

prevalente era la pastorizia22. Evento fondamentale, per comprendere come Garibaldi con un

19 G. Pescosolido, La costruzione dell’economia unitaria, www.Treccani.it


20 E. Felice G. Vecchi, Quaderni del Dipartimento di Economia Politica e Statistica, Università di Siena, 2012
21 F. Giordano, L’industria del ferro in Italia:relazione per la commissione delle ferriere ist. Dal Ministero
della marina, Torino, Tipografia Cotta e Capellino, 1864
22 G. Pescosolido, La costruzione dell’economia unitaria, www.Treccani.it
esercito di 1000 uomini sia riuscito a conquistare il Regno dei Borboni, è il sostegno dei

contadini, dai quali ricevette aiuto sin dalla battaglia di Calatafimi e che coltivavano la

speranza di poter ricevere un pezzo di terra che era tutta nelle mani dei grandi possidenti,

sostegno che, all’Unità d’Italia con la delusione dei contadini e di Garibaldi, culminò con

l’abolizione della tassa sul macinato che pesava soprattutto sui contadini stessi. Presenti

coltivazioni di olivo e vite, ma sostanzialmente le produzioni agricole avevano nelle politiche

protezioniste dei Borboni il loro problema principale.

Presente, come nel resto d’Italia, l’industria serica che, però, aveva già perso il primato a

favore dell’industria serica piemontese nel XVII secolo. Tra l’altro, l’industria serica era

molto arretrata visto che esistono tracce che, nel 1755, arrivarono a Napoli i disegni del

piemontese Carlo Fogliarino che rappresentavano un filatoio per la seta idraulico, tecnologia

che fu utilizzata nel Regno di Napoli almeno trent’anni dopo23. Qualche innovazione inizia

negli anni 30 dell’800 in Campania e nel resto del sud Italia, ma il settore venne affossato

anche qui dalla pebrina, una malattia del baco da seta che ne decimò gli allevamenti.

A differenza di quanto avvenuto nel resto d’Italia, nel sud l’opera riformatrice dello stato

era pressoché ferma ed è opinione comune tra gli storici che la ragione principale sia stata nel

timore dei Borboni di suscitare malcontenti tra la popolazione, in un contesto politico

abbastanza tumultuoso in tutta Europa. Qualora fosse stata varata la riforma fiscale, ci si

sarebbe potuto permettere di cantierizzare opere pubbliche e si sarebbe aperta una stagione di

riforme e (quasi) certamente si sarebbe modernizzato il mezzogiorno d’Italia o se ne

sarebbero gettate le basi future. Al contrario, il Regno delle due Sicilie, divenne una

monarchia costituzionale il 1860 e accumulò, quindi, un ulteriore ritardo di dieci anni rispetto

al resto del Paese non solo da un punto di vista delle libertà civili, ma anche di sviluppo

economico e infrastrutturale.
23 R. Parisi, La seta nell’Italia del Sud. Architettura e tecniche per la produzione serica tra Sette e Ottocento,
in <<Meridiana 47/48>>, 2003, pp. 245-274

13
Pressoché inesistente il mondo bancario con due sole banche e a proprietà pubblica: Il

Banco di Napoli e il Banco di Sicilia con potere di emissione moneta metallica e fedi di

credito. Assente, quindi, in tutto il sud Italia la carta moneta antenata delle moderne

banconote. Presenti nel sud Italia, circa 1200 monti frumerari24, ma che non possono

minimamente essere paragonate a delle casse di risparmio visto che la loro attività consisteva

nel prestare sementi. Nel Regno Borbonico vi era una sola cassa di risparmio operante

all’Unità d’Italia25.

Arretrato anche il mondo dell’istruzione, nel 1861 gli analfabeti nel Regno delle due Sicilie

erano l’86% e nessuna donna sapeva leggere e scrivere. I dati del servizio postale, inoltre, ci

dicono che la media delle lettere ricevute per abitante era solo di 1,6.26

Ben sotto la media, eccetto che per la Campania, la quota pro-capite di PIL che nel 1871 al

Sud e nelle isole, fatta 100 la media italiana, si fermava a 90. La distribuzione regione per

regione era pari a 69 e 67 per Calabria e Basilicata, 80 Abbruzzo e Molise, 89 Puglia, 78

Sardegna, 94 Sicilia e 107 la Campania27.

Di fatto, all’Unità d’Italia, il Regno delle due Sicilie si trovava già in ritardo

economicamente rispetto al resto del Paese e le ragioni sembrano trovarsi nell’incapacità o

nella mancanza di volontà dei Borboni di rimuovere le antiche strutture feudali (che spesso

sostituivano l’autorità dello stato) e avviare una stagione di riforme e modernizzazioni.

24 E. Felice, Perché il sud è rimasto indietro, Il Mulino, 2013


25 E. Felice, Perché il sud è rimasto indietro, Il Mulino, 2013
26 E. Felice, Perché il sud è rimasto indietro, Il Mulino, 2013
27 E. Felice, G. Vecchi, Quaderni del Dipartimento di Economia Politica e Statistica, Università di Siena, 2012
Capitolo 2

Lo stato delle infrastrutture nell’Italia preunitaria

1.1 Le infrastrutture nel Regno Sabaudo e nel Lombardo Veneto

A dare l’idea della condizione economica e infrastrutturale della penisola italiana nel

periodo risorgimentale può essere utile quanto sosteneva Saverio Nitti nel 1902:

«Prima del 1860 non era quasi traccia di grande industria in tutta la penisola. La

Lombardia, ora così fiera delle sue industrie, non avea quasi che l'agricoltura; il Piemonte era

un paese agricolo e parsimonioso, almeno nelle abitudini dei suoi cittadini. L'Italia centrale,

l'Italia meridionale e la Sicilia erano in condizioni di sviluppo economico assai modesto.

Intere province, intere regioni eran quasi chiuse ad ogni civiltà.»

Bisogna tenere presente che le condizioni di partenza dell’Italia unita, che apparivano

abbastanza arretrate rispetto a Francia o Inghilterra, avevano risentito degli effetti delle

dominazioni precedenti le quali, attraverso l’approccio “politico” sostenuto, avevano creato le

condizioni per le disuguaglianze territoriali degli anni successivi che, al momento dell’unità,

seppur in maniera meno marcata di oggi, apparivano in tutte le loro evidenze. Nei decenni

precedenti all’unificazione, alcune aree della Penisola avevano conosciuto notevoli

modernizzazioni (almeno al confronto con altre aree dell’Italia le quali, comunque, non erano

modernizzazioni paragonabili ad esempio con quanto già avvenuto in Inghilterra o in Francia)

e, in Piemonte, vi era stato un discreto sviluppo infrastrutturale. Durante il periodo

risorgimentale, l’attenzione sulla ferrovia aveva assunto centralità, soprattutto in alcuni ceti

15
sociali, in considerazione dell’impulso che aveva dato in Inghilterra alla Rivoluzione

Industriale28 e, accanto ai vantaggi economici, quelle che Denis Mack Smith definiva “élite

liberali”, aggiunsero la convinzione che potesse essere un sistema attraverso cui unire i vari

stati italiani tra di loro, prima ancora che da un punto di vista politico, da un punto di vista

infrastrutturale, di vie di comunicazione e di commerci.

La prima vera sfida tecnica in tema di ferrovie, in quella che poi divenne l’Italia unitaria, si

ebbe nel 1846, con i lavori della Torino-Genova che fu progettata da Ignazio Porro, il quale si

avvalse dell’aiuto di uno degli ingegneri ferroviari più importanti dell’epoca, Isambard

Kingdom Brunel che fu l’artefice di alcune delle principali linee Inglesi.28

Tra il 1850 e il 1859 la rete ferroviaria italiana era passata da circa 700 chilometri di strade

ferrate a 2238 chilometri, due terzi dei quali nell’Italia del centro-nord.29

Il 1859 il nord Italia poteva contare su 1372 km di strada ferrata divisi tra Piemonte

(850km) e Lombardo Veneto (522 km).30

Se si paragona questo dato all’estensione territoriale degli stati emerge che in Piemonte e

Liguria per ogni chilometro quadrato di territorio vi erano 25 metri di linee ferroviarie, mentre

in Lombardia e Veneto 10,6 metri.31

Nella sola Lombardia vi erano circa 21000 chilometri di strade e, in Piemonte e Liguria,

16500 chilometri32. Per ogni chilometro quadrato nel nord ovest della penisola vi erano 645

metri di strade33.

A questo quadro di “avanguardia” di Piemonte e Liguria, si contrappone la condizione

della Sardegna (facente parte del Regno dei Savoia) nella quale “mancava una viabilità di

28 A. Giuntini, La nascita del sistema ferroviario e il ruolo della tecnica, in www.Treccani.it


29 A. Giuntini, La nascita del sistema ferroviario e il ruolo della tecnica, in www.Treccani.it
30 S. Jacini, Lamministrazione dei Lavori Pubblici in Italia 1860-1867, Ministero dei Lavori pubblici, 1869
31 E. Felice, Perché il sud è rimasto indietro, Il Mulino, 2013
32 V. Zamagni, Dalla periferia al centro, Il Mulino, 1990
33 E. Felice, Perché il sud è rimasto indietro, Il Mulino, 2013
sufficiente larghezza da consentire la circolazione dei carri, nonostante una presenza teorica di

strade nazionali superiore a quella delle altre zone”.34

La costruzione delle ferrovie (e la crescita demografica) ebbe effetti benefici, come

avvenne del resto, nel resto d’Europa, sull’economia dal 1846 al 1873 e portò nel Paese una

grande quantità di capitali stranieri. Inoltre causò un forte indebitamento statale, prima negli

Stati preunitari e poi, in maggiori proporzioni, nel nuovo Stato nazionale.35

Poco sviluppata in tutta Italia, la rete ferroviaria intesa come sistema di collegamento tra le

varie tratte, il 1860 vi erano i seguenti collegamenti: nei pressi di Magenta all’altezza del

ponte sul Ticino le ferrovie lombarde erano allacciate con quelle piemontesi e non vi era alcun

contatto con l’Emilia e la Romagna. Da Torino si arrivava a Venezia e a Bologna, ma non a

Firenze, e Firenze non era collegata a Roma, mentre Roma non aveva raccordo con Napoli. I

binari raggiungevano Vietri sul Mare fra Napoli e Salerno, ma al di sotto non vi era traccia di

treni e di ferrovie.36

Lo sviluppo della ferrovia portò al miglioramento del servizio postale e allo sviluppo delle

linee telegrafiche che, al momento dell’unificazione, erano abbastanza disomogenee in quanto

i governi dei vari stati, a seconda se di spirito riformista o conservatore, avevano sviluppato le

linee telegrafiche in maniera differente. Da un lato avevamo “la Savoia” e la Toscana che

avevano costruito delle reti a ragnatela, dall’altra gli altri stati che, al contrario, temendo la

diffusione di idee liberali lo intendevano più come uno strumento di controllo politico e

quindi aveva una diffusione meno capillare. Fino a metà Ottocento, le attività postali erano

limitate alla raccolta e al trasporto della corrispondenza con carrozze trainate da cavalli, e il

servizio era concentrato verso le città, i porti, i monasteri e non rappresentava un sistema

omogeneo sul territorio.37 Un’ulteriore innovazione riguardò il sistema postale e arrivò a


34 S. Maggi, Trasporti e comunicazioni, in www.Treccani.it
35 S. Maggi, Trasporti e comunicazioni, in www.Treccani.it
36 S. Maggi, Trasporti e comunicazioni, in www.Treccani.it
37 S. Maggi, Trasporti e comunicazioni, in www.Treccani.it

17
partire dal 1850 nel Lombardo-Veneto che poi si estese in tutti gli stati preunitari e fu

l’introduzione del francobollo il quale rappresentò una semplificazione notevole degli

adempimenti e consentiva di saldare in partenza le spese di spedizione.38

Da un punto di vista “marittimo”, la marina mercantile eredita dal Regno d’Italia, vedeva

una prevalenza delle navi provenienti dal Regno delle Due Sicilie, ma a livello tecnico

spiccava la marina piemontese che, oltre a godere di tecnologie più moderne, aveva una

maggiore presenza percentuale dei piroscafi, concentrati, la maggior parte, al porto di

Genova.39

2.2 Strade, ferrovie e porti nei granducati

Le ferrovie rappresentarono, durante tutto il XIX secolo, lo strumento attraverso cui

misurare la capacità di modernizzazione dei propri stati da parte dei regnanti. In Toscana i

risultati furono importanti anche grazie alla capacità di Leopoldo II di coinvolgere due

finanzieri, Ubaldino Peruzzi e Pietro Bastogi capaci di attrarre capitali esteri, soprattutto

dall’Austria e dall’Inghilterra. Di lieve entità furono i capitali locali.40

La prima ferrovia nei territori che oggi conosciamo come Toscana ed Emilia Romagna fu

inaugurata nel 1844 fra Pisa e Livorno41 a cui fece seguito un “tronco” da Pisa a Pontedera

seguito, poi, da altri tronchi che raggiunsero Empoli, Firenze e Siena. La ferrovia ebbe

importanti ripercussioni sullo sviluppo delle città ed a Siena, per esempio, contribuì a spostare

verso nord il centro vitale della città.41

38 S. Maggi, Trasporti e comunicazioni, in www.Treccani.it


39 S. Maggi, Trasporti e comunicazioni, in www.Treccani.it
40 A. Giuntini, La nascita del sistema ferroviario e il ruolo della tecnica, in www.Treccani.it
41 G Catoni, Un Treno Per Siena - La Strada Ferrata Centrale Toscana Dal 1844 Al 1865, 2009 Betti editore
Il 30 aprile 1859, nel Granducato di Toscana vi erano 257 chilometri di ferrovie 42 che

rappresentavano oltre il doppio dei chilometri di ferrovie presenti in tutto il mezzogiorno.43

Nel 1849 nel Granducato di Toscana veniva costruito quello che all’epoca era il tunnel più

lungo d’Italia con 1516 metri di estensione che collegò Siena ed Empoli. 44 Importante fu il

contributo scientifico e tecnico allo sviluppo delle ferrovie da parte della Toscana e del

Piemonte che, attraverso l’impegno sulla ferrovia in epoca preunitaria, avevano di fatto

formato gran parte degli ingegneri che poi si sarebbero occupati di ingegneria ferroviaria nel

periodo unitario.45

Il 1850 il Granducato di Toscana era lo stato con la più alta densità di ferrovie con 119

chilometri di strada ferrata, 115 chilometri erano presenti nel Lombardo-Veneto e 91 nel

Regno di Sardegna.46

Poco sotto la media del nord Italia i chilometri di strade in Toscana con una media di 538

metri per ogni chilometro quadrato di territorio47.

Già alla Restaurazione, grazie all’azione della dominazione napoleonica, nei Ducati vi era

una discreta presenza di strade e infrastrutture come ponti o viadotti. Napoleone, infatti, era

convinto che una serie di infrastrutture quali porti, gallerie, mezzi di collegamento erano

fondamentali per la sua “guerra di movimento” 48 e questo condizionò, negli anni a venire, di

molto la vivibilità e le prospettive dei territori che aveva attraversato. Tuttavia, è necessario

notare che seppur lo stato delle infrastrutture aveva avuto una crescita considerevole, negli

anni successivi alla Restaurazione tutti gli stati avevano adottato politiche economiche

42 S. Maggi, Trasporti e comunicazioni, in www.Treccani.it


43 E. Felice, Perché il sud è rimasto indietro, Il Mulino, 2013
44 G Catoni, Un Treno Per Siena - La Strada Ferrata Centrale Toscana Dal 1844 Al 1865, 2009 Betti editore
45 A. Giuntini, La nascita del sistema ferroviario e il ruolo della tecnica, in www.Treccani.it
46 A. Giuntini, La nascita del sistema ferroviario e il ruolo della tecnica, in www.Treccani.it
47 E. Felice, Perché il sud è rimasto indietro, Il Mulino, 2013
48 A. De Luca, Linee di sviluppo delle manifatture nel parmense durante l'età napoleonica (1802-1814),
Università degli Studi di Parma, 2012

19
protezionistiche e nel paragone con altri paesi europei, comunque le vie e i mezzi di

comunicazione oltre ad apparire carenti49 apparivano anche scarsamente collegate tra loro.

Centrale, per il Ducato di Parma, fu la strada che la congiungeva con Spezia, la quale ebbe

un impulso positivo sui commerci della città.50

Riguardo ai porti, nonostante l’antica tradizione “marinara” della Toscana (basti ricordare

Pisa e Livorno) di fatto il Granducato aveva scontato il blocco marittimo degli inglesi quindi

la maggior parte degli investimenti erano stati concentrati nella manutenzione di strade e della

costruzione di nuove vie di comunicazione51 che rappresentarono per gli anni successivi un

diverso punto di partenza rispetto ad altre parti d’Italia.

2.3 Le infrastrutture nello Stato Pontificio

Papa Gregorio XVI, pontefice dal 1831 al 1846, fu contrario ad introdurre nei territori del

papato le infrastrutture ferroviarie nonostante la presenza di una borghesia attenta e vivace e

che richiedeva a gran voce di raccogliere le grandi novità che avanzavano nel continente.

L’atteggiamento cambiò in minima parte con Pio IX che, sopratutto con le pressioni dalle

Legazioni, aprì alla ferrovia. Tuttavia, è da sottolineare che sotto il governo della chiesa, la

ferrovia fece una gran fatica ad attecchire.52

49 V. Giura, Lezioni di Storia Economica, Edizioni scientifiche italiane, 1987


50 A. De Luca, Linee di sviluppo delle manifatture nel parmense durante l'età napoleonica (1802-1814),
Università degli Studi di Parma, 2012
51 A. De Luca, Linee di sviluppo delle manifatture nel parmense durante l'età napoleonica (1802-1814),
Università degli Studi di Parma, 2012
52 A. Giuntini, La nascita del sistema ferroviario e il ruolo della tecnica, in www.Treccani.it
Le ferrovie nello Stato Pontificio vennero costruite con poco entusiasmo e nel 1857, vi

erano due società ferroviarie, la Pio Latina e la Pio Centrale 53. Al 30 aprile 1859, vi erano 101

km di ferrovie54 pari a 2,6 metri di strada ferrata per chilometro quadrato55

Papa Pio IX in accordo con le autorità dei “Ducati”, a partire dal 1859 e fino al 1864 fece

costruire la tratta Piacenza-Bologna, la tratta Bologna-Ancona e la tratta Bologna–Porretta.56

Le strade, rispetto al centro-nord dell’Italia, erano in una condizione peggiore e comunque

limitavano la possibilità di muoversi limitando di conseguenza i commerci. A dare ulteriore

idea dello stato delle infrastrutture in tutta la penisola, a qualche anno di distanza dal

Risorgimento e dell’importanza che esse rivestivano per lo sviluppo dei commerci e di nuove

attività, può essere utile il Giornale del Genio Civile che, il 1869, scriveva: <<In parecchie

province del Regno il bisogno delle strade rotabili sta forse al di sopra d’ogni altro. In tali

province non si potrà mai raggiungere quello stato di floridezza che è il fattore principale di

benessere per le popolazioni e di ricchezza per la nazione, finché non si abbia una rete di

comunicazioni la quale valga a fecondare ogni sorta di industria e di transazioni

commerciali.>>

Il sistema di strade, di cui l’Impero Romano fu abile costruttore, al momento dell’Unità

d’Italia, nei territori sotto l’egida della chiesa, era abbastanza precario.

In generale, l’idea che aveva attraversato il Rinascimento erano sistemi stradali a “sistema

radiale” intorno alla capitale e lasciavano isolati interi territori e, comunque, nella migliore

delle ipotesi si trattava di mulattiere che, nell’800, erano strade trasformate in discrete

“carrozzabili”57.

53 P. Negri, Le ferrovie nello stato Pontificio (1849-1870), Archivio storico dell’unificazione italiana, 1967
54 S. Maggi, Trasporti e comunicazioni, in www.Treccani.it
55 E. Felice, Perché il sud è rimasto indietro, Il Mulino, 2013
56 A. Bucchi, La storia delle strade, Università di Bologna, 2014

21
A ulteriore riprova, del ritardo con cui i governi degli stati preunitari avevano compreso

l’importanza di un sistema di vie di comunicazione per lo sviluppo economico, può essere

utile l’esempio della storica strada consolare romana Aurelia che fu ricostruita solo a metà del

XIX secolo e collegava Roma con Livorno, unica strada che costeggiava tutta la costa

tirrenica in direzione nord.57

2.4 Il sistema infrastrutturale nel Regno delle due Sicilie

Per parlare compiutamente del Regno delle due Sicilie, della sua economia e del suo

sviluppo infrastrutturale sarebbe necessario dividere l’argomento in Napoli e nel resto del

Regno.

Napoli era una delle città importanti dell’epoca e sarebbe abbastanza azzardato pensare che

fosse ciò che ha rappresentato e che continua a rappresentare per merito dei Borboni. Lo

storico Giuseppe Galasso a proposito dei Borboni, a conferma del fatto, qualora vi siano

ancora dei dubbi, che la dominazione degli spagnoli di fatto ha creato le condizioni delle

disuguaglianze territoriali del Paese non essendo capace di immaginare, durante il suo

governo, lo sviluppo delle aree a sud di Napoli, nella sua opera “Napoli capitale. Identità

politica e identità cittadina” così si esprime a proposito dei reali delle Due Sicilie: <<non

furono i sovrani borbonici a rendere grande la Napoli del settecento, bensì, al contrario, fu

questa Napoli a dare ad essi la possibilità di giocare un ruolo anche superiore alle loro

capacità e a conseguire una fama superiore ai loro meriti.>>

57 A. Bucchi, La storia delle strade, Università di Bologna, 2014


A livello infrastrutturale la prima ferrovia costruita sul territorio che poi diventerà del

Regno d’Italia, fu la tratta ferroviaria Napoli-Portici, lunga 9 chilometri e fatta costruire dai

Borboni il 1839. Al 30 aprile 1859 nel Regno delle due Sicilie di contavano 99 chilometri di

ferrovia58 pari a 0,9 metri di ferrovia per ogni chilometro quadrato di territorio 59. Ben dopo

l’Unità d’Italia fu inaugurata la prima ferrovia in Sicilia che collegava Palermo con Bagheria

che fu costruita il 1863.60

I chilometri di strade che incidevano sul territorio del regno borbonico erano 13787 e, la

media dei metri di strade per ogni chilometro quadrato di territorio, in Italia, nel 1863 (data a

partire dalla quale abbiamo dati affidabili), erano pari a 645 metri di strade nel nord-ovest,

130 metri nel sud Italia e 538 metri in Toscana. È necessario sottolineare che, trattandosi di un

territorio collinare e montagnoso e con vaste aree interne, i tratti stradali che dovevano

aggirare i rilievi, per collegare una località con l’altra, erano più lunghi rispetto ai tratti

stradali della pianura padana e lungo le coste esisteva la piccola navigazione di cabotaggio.

Tuttavia, sono le differenze sull’incidenza della ferrovia sul territorio (visto che le strade si

costruivano da qualche millennio) i segnali che, realmente, i Borboni avevano considerato in

maniera molto superficiale l’importanza che le infrastrutture e le vie di comunicazione

avevano per lo sviluppo dell’economia e dei commerci.61

Nel Regno dei Borboni vi erano 1848 comuni e solo 227 erano collegati da strade, gli altri

162162 (come in zone di montagna del nord Italia) 63 erano raggiungibili attraverso sentieri

usati per gli spostamenti del bestiame64. La situazione peggiore si viveva in Calabria e

Basilicata, dove la maggior parte dei paesi era raggiungibile esclusivamente dai percorsi del

58 S. Maggi, Trasporti e comunicazioni, in www.Treccani.it


59 E. Felice, Perché il sud è rimasto indietro, Il Mulino, 2013
60 C. Brunetto, Anno 1863, da Palermo a Bagheria: così la città scoprì il treno, in www.Repubblica.it
61 E. Felice, Perché il sud è rimasto indietro, Il Mulino, 2013
62 A, D’Ambra, Inadeguatezza delle infrastrutture nelle Due Sicilie, in www.Historiaregni.it
63 E. Felice, Perché il sud è rimasto indietro, Il Mulino, 2013
64 A. D’Ambra, Inadeguatezza delle infrastrutture nelle Due Sicilie, www.Historiaregni.it

23
bestiame e situazione non migliore si viveva in Sicilia dove, tra le altre cose, vi era un gran

numero di strade di cui erano iniziati i lavori e non erano mai stati completati.65

65 S. Maggi, Trasporti e comunicazioni, in www.Treccani.it


Capitolo 3

Cenni sull'economia e le infrastrutture italiane dopo l'Unità - La

seconda rivoluzione industriale

1.3 Il nord-Italia

Parlare dell’economia italiana e delle sue infrastrutture a partire dal 1861 significa fare i

conti con uno Stato che non aveva ancora completato la sua unità nazionale. Mancavano,

infatti, Roma, il Veneto e Trieste e Trento.

L’Italia unita ebbe a che fare con problemi nuovi e di fatto con un Paese diverso, diviso e

da integrare.

Indicativa riguardo alle differenze tra Nord e Sud Italia, al momento dell’unità, è la qualità

della vita. Nel 1871 l’aspettativa di vita nazionale era pari a 33 anni, mentre nel nord Italia era

pari a 34 e nel sud e nelle isole a 32. Diverso anche l’indice della mortalità infantile italiana

che negli anni 1874-75 era al 204,7 per mille, mentre nel centro-nord era pari al 203,4 per

mille e nel centro-sud al 206,2 per mille.66

L’obiettivo degli anni immediatamente seguenti l’unità, dunque, fu quello di dover mettere

insieme diversi i sistemi amministrativi e fiscali, i debiti pubblici, le tariffe, i codici e gli

eserciti.

66 V. Tanzi Le condizioni economiche e sociali in Italia intorno al 1861, in <<Il Politico Vol. 76 N° 3,
settembre-dicembre, 2011, pp 327-334

25
Le monete locali furono a mano a mano sostituite, venendo ritirate dalla circolazione, dalla

“nuova” Lira italiana. Il sistema monetario che si consolidò nel Paese fu un sistema

bimetallico con 1 parte di oro contro 15,5 d’argento e a partire dal 1865, il Regno d’Italia,

entrò a far parte dell’Unione monetaria latina 67 – che nacque da una convenzione tenuta a

Parigi l’anno stesso – dove gli stati membri si impegnavano a tenere il rapporto da tra oro ed

argento 1 a 15,5. L’esperienza terminò il 1878 a causa della svalutazione dell’argento sui

mercati mondiali.68

Allo scopo di evitare polemiche e nuovi malcontenti, inoltre, il Regno d’Italia evitò di

concentrare il potere di emissione nelle mani di una sola banca e di conseguenza, ebbero il

potere di emettere moneta, la Banca Nazionale Sarda, la Banca Nazionale Toscana e la Banca

Toscana di Credito (che il 1893, in seguito ad una fusione, dettero vita al Banca d’Italia) e il

Banco di Napoli e il Banco di Sicilia che conservarono il potere di emissione fino al 192669.

Debole, all’unità, nel nord-Italia l’industria meccanica e siderurgica che eccetto l’Ansaldo

di Genova era pressoché un’industria artigianale.70

E’ a partire dal 1901 che inizia a svilupparsi il “Triangolo Industriale” in cui, attraverso

l’asse Genova, Torino, Milano, si espande in forma industriale il settore tessile,

l’abbigliamento, l’alimentare e prendono vita i primi insediamenti industriali moderni in cui si

tratta la meccanica più avanzata, la chimica, la gomma e l’elettricità71 e che passerà alla

storia come il “decollo” giolittiano, cioè una spinta alla crescita economica e allo sviluppo

industriale che si protrarrà fino alla prima guerra mondiale. E’ questo, anche, il momento in

cui l’Italia del nord inizia a “staccare” l’Italia del sud riguardo allo sviluppo, divario che

continuerà ad aumentare fino al 1951.

67 Enciclopedia online, Bimetallismo, in www.Treccani.it


68 V. Giura, Lezioni di Storia Economica, Edizioni scientifiche italiane, 1987
69 V. Giura, Lezioni di Storia Economica, Edizioni scientifiche italiane, 1987
70 V. Giura, Lezioni di Storia Economica, Edizioni scientifiche italiane, 1987
L’industria tessile (come abbiamo avuto modo di vedere nel primo capitolo) iniziò a

svilupparsi e a meccanizzarsi soprattutto in Piemonte, Lombardia e Veneto, facilitata dalla

presenza di acqua e dal minor costo dei trasporti del carbone di cui l’Italia era carente.

Lombardia e Piemonte furono anche le due regioni dove si ebbe la più consistente nascita di

cotonifici agevolati durante la crisi del 1873-96 dai dazi doganali visto che diventarono di

fatto “monopolisti” nel mercato nazionale. Il Piemonte aveva il 28% dei fusi e il 25% dei telai

di tutta Italia e la Lombardia possedeva ben il 44% dei primi e il 55% dei secondi.71

L’Industria alimentare, tuttavia, fu importantissima per tutto il Paese e fino al 1920

contribuì al reddito nazionale più di qualunque altro settore.72

Con lo sviluppo dell’industria metallurgica e meccanica, nacquero, la Breda, la Franco

Tosi, e le famose Bianchi e Legnano che contribuirono a sviluppare un altro filone

dell’industria meccanica come quello dei cuscinetti a sfera, settore in cui si affermò

immediatamente la RIV di Villar Perosa. Seguirono la nascita della Olivetti, della Fiat,

dell’Alfa Romeo e della Lancia.73

Da ricordare, le industrie chimiche della Montecatini e della Pirelli e C; di fondamentale

importanza fu lo sviluppo dell’elettricità grazie all’uso della forza idraulica.74

Fino al 1951 è da constatare che la Liguria, grazie al primato creatosi al finire dell’età

liberale, fu la regione più ricca d’Italia a livello del PIL pro-capite, seguita dalla Lombardia e

dal Piemonte.75

Descrittivo della direzione intrapresa dal Paese è il dato sulle importazioni e sulle

esportazioni che fino al 1890 erano cresciute rispettivamente del 61% e del 92%.76

71 V. Giura, Lezioni di Storia Economica, Edizioni scientifiche italiane, 1987


72 V. Giura, Lezioni di Storia Economica, Edizioni scientifiche italiane, 1987
73 V. Giura, Lezioni di Storia Economica, Edizioni scientifiche italiane, 1987
74 V. Giura, Lezioni di Storia Economica, Edizioni scientifiche italiane, 1987
75 E. Felice, Lo sviluppo economico delle regioni: dalle tre Italie alle due Italie, in www.Treccani.it
76 V. Giura, Lezioni di Storia Economica, Edizioni scientifiche italiane, 1987

27
Particolarmente colpito, dal fenomeno delle migrazioni, il Veneto (unica regione in tutto il

nord-Italia) che gli anni che vanno dal 1876 al 1900, ha rappresentato il 17,9% delle

migrazioni italiane.77

2.3 Il centro Italia

A partire dai dati del PIL pro-capite già trattati nel primo capitolo, nell’Italia centrale (che

secondo l’ISTAT comprende Lazio, Marche, Toscana e Umbria), a partire dal 1871, anno di

cui come abbiamo visto, abbiamo il primo dato affidabile, la condizione reale vedeva il

“vantaggio” nella ricchezza pro-capite del Lazio, trainata dalla città di Roma, a cui faceva

seguito la Toscana che, però, fino al 1911 ebbe un calo dell’indice del PIL pro-capite. È

necessario sottolineare che, al di là del calo della ricchezza pro-capite, la Toscana è sempre

stata al di sopra della media della ricchezza italiana. Ultime, riguardo al PIL pro-capite, le

Marche e l’Umbria che, insieme, fino al 1981 sono state le regioni dell’Italia centrale più

povere.78

Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, in Toscana era particolarmente attivo il

sistema bancario le cui banche (due) avevano partecipato alla nascita della Banca d’Italia e sin

dai tempi di Leopoldo II vi era un’ampia rete di casse di risparmio. In tutta Italia, inoltre,

iniziarono a nascere le banche popolari e le casse postali.

Nel Lazio (nella Valle del Liri)79 iniziano a formarsi le prime industrie sopratutto quella

tessile e cartaria, ma è sempre da tenere in debita considerazione che, le industrie, avevano un

ruolo ampiamente marginale in quella che era l’economia italiana, seppur al nord, come

77 G. Rosoli, Un secolo di emigrazione italiana 1876-1976, Roma, Cser, 1978.


78 G. Vecchi, In ricchezza e in povertà. Il benessere degli Italiani dall’Unità ad oggi, Il Mulino, 2011
abbiamo visto, erano iniziate a sorgere industrie importanti. In Italia, in base a quelli che sono

i dati disponibili, una vera e propria crescita della produzione industriale inizia ad aversi a

partire solo dall’ultimo decennio dell’800.

In realtà, sarebbe necessario dividere il periodo dello sviluppo industriale in tre periodi

storici differenti.

Nel primo periodo, quello immediatamente successivo all’Unità d’Italia, il problema che

affrontarono le classi dirigenti constavano principalmente nella necessità di dover completare

l’unità e integrare tutto il Paese che, come abbiamo esaminato, si presentava differente

territorialmente, dal punto di vista di organizzazione dello Stato, dalle condizioni economico-

sociali e infrastrutturali. Inoltre, si dove’ fare i conti con il nuovo problema del brigantaggio al

sud che, insieme alla mancanza di vie di comunicazione e alle questioni sopra esposte, furono

le priorità di cui si occuparono i primi governi unitari.

L’industrializzazione del Regno come obiettivo principale del governo, arriva a partire dal

1876 con la sinistra storica che, grazie ad un corposo investimento in infrastrutture, fece da

stimolo, attraverso le commesse pubbliche, alla nascita e al consolidamento dell’industria

siderurgica chimica e meccanica.

Il centro-Italia, che nel periodo preunitario era passato dal governo del Granducato di

Toscana e del papato all’autorità di “casa Savoia”, al momento dell’unità vedeva una

differenza di infrastrutture tra i territori che erano stati degli Asburgo-Lorena e i territori della

Chiesa con questi ultimi che, dal punto di vista delle infrastrutture ferroviarie, scontavano le

opinioni di chiusura delle gerarchie cattoliche e del Papa riguardo alla modernizzazioni i

quali, con molta riluttanza, avevano investito in qualche tragitto ferroviario.

29
A partire dal 1863 (tab. 1) fu inaugurata la linea ferroviaria che collegava Roma con

Napoli; il 1865 nacque la linea Bologna Ancona, Bari, Brindisi; l’anno successivo la linea che

collegava Roma con Firenze; il 1874 la Genova-Pisa-Roma.

3.3 Il sud Italia

Abbiamo visto, nel corso dei capitoli precedenti, che lo sviluppo passa da alcune direttrici

e che per misurarlo, oltre alla ricchezza, sono da prendere in considerazione altri fattori tra i

quali le infrastrutture o i livelli di istruzione che, oltre ad essere indicativi del progresso

sociale ed economico, nel caso italiano, spiegano (forse ancora oggi) anche le differenze di

qualità della vita tra il sud e il nord della penisola.

I Borboni erano sempre stati refrattari di fronte alle innovazioni e, come riporta Pietro

Bevilacqua in “Breve storia dell’Italia Meridionale”, fu Giuseppe Bonaparte in un piccolo

frangente in cui il Regno di Napoli non era nelle mani borboniche ad “abolire la feudalità del

Regno di Napoli” il 2 agosto del 1806.


Al momento dell’Unità d’Italia, in base a quelli che sono i dati disponibili, spesso frutto

del lavoro e della ricerca degli economisti e degli storici dell’economia, abbiamo visto che di

fatto, esisteva un divario Nord-Sud. Eccetto la città di Napoli, che come si è detto era una

delle grandi città d’Europa, il sud Italia si presentava abbastanza arretrato da tutti i punti di

vista. In tutto il sud, per esempio, l’unità è coincisa con l’introduzione delle prime carta-

moneta ed esibì un sistema del credito che si presentava totalmente inadeguato.

Dal punto di vista infrastrutturale, il sud presentava scarsa densità di ferrovie. Il 25

febbraio 1863 fu inaugurata la ferrovia che collegava Napoli con Roma; la Bologna Ancona

Bari Brindisi fu aperta il 1865; la Bari-Taranto-Crotone-Reggio Calabria il 1875; nel luglio

del 1880 fu aperta definitivamente la prima ferrovia nelle isole: la Sassari-Cagliari e, il 1885,

sorse la prima ferrovia in Sicilia, la Catania-Palermo (via Caltanissetta) alla quale, dieci anni

dopo, si aggiunse la Palermo-Messina (via Milazzo). Ultima in ordine di tempo la Napoli-

Reggio Calabria. (Tab. 1)

Il momento unitario mise in luce anche le cattive condizioni dei lavoratori agricoli del

mezzogiorno che facilmente sfogavano le loro difficoltà e i loro malumori, nei tumulti e nei

disordini fomentati dai briganti che rappresentavano il problema nuovo dell’Italia unita e

dietro cui si nascondeva la resistenza borbonica con a capo il barone Achille Cosenza79.

Con l’Unità venne estesa a tutto il Regno la Legge Casati che prevedeva due anni di

istruzione obbligatoria e nei fatti ci si scontrò con le classi dirigenti meridionali degli enti

locali dell’epoca che investivano molto poco nell’istruzione. Curioso è il fatto che, tra il 1871

e il 1911, le regioni che migliorarono meno il sistema scolastico, furono proprio le due regioni

che avevano il più alto tasso di analfabetismo: la Calabria e la Basilicata.80

79 M. A. L., R. Ci., Brigantaggio, in www.Treccani.it


80 E. Felice, Perché il sud è rimasto indietro, Il Mulino, 2013

31
Molti non sapevano leggere e scrivere e al sud, ancora il 1911, gli analfabeti erano il 59%

della popolazione, mentre nel nord ovest il 13%. Il divario sarà colmato parzialmente solo nei

40 anni successivi, e nel 1971 gli analfabeti, che in Italia erano il 5% della popolazione, al sud

diminuirono all’11%. Fu solo il 2007 che il divario nord-sud riguardo all’analfabetismo

assunse contorni marginali e dalle percentuali irrilevanti.81

Le pessime condizioni sociali, di qualità della vita e di arretratezza, portarono in tutto il

meridione il fenomeno migratorio e risulteranno particolarmente colpite Calabria, Abruzzo e

Molise, Basilicata e Campania le quali condividevano, come abbiamo visto, il triste primato

con il Veneto.82

Al momento dell’unità l’industria era pressoché artigianale e nel sud Italia faceva

eccezione l’industria siderurgica di Pietrarsa a Napoli a cui si aggiunse l’acciaieria di Bagnoli

nel 1904.

Grazie alle commesse militari, nacquero il cantiere metallurgico Armstrong e il cantiere

navale Pattison83. Da segnalare, nei primi anni unitari, l’avvio di nuove industrie del cotone

nella provincia di Salerno. Prevalentemente artigianale la seta; nei primi anni di vita del

nuovo Regno vi erano in tutta Italia 250 telai meccanici (e 12 mila telai artigianali) che

diventarono 3.000 il 1898 salvo scendere a 2.600 nel 1908 (quando i telai a mano

aumentarono a circa 14 mila).83

Da segnalare la grave crisi edilizia partita con la crisi economica iniziata nel 1887 e che

causò l’implosione del sistema bancario in seguito ai grandi investimenti edilizi fatti da alcune

banche (tra cui si ricorda la Banca Romana) nella “nuova” Roma capitale e a Napoli per le

opere di risanamento dopo il colera.84

81 E. Felice, Perché il sud è rimasto indietro, Il Mulino, 2013


82 V. Giura, Lezioni di Storia Economica, Edizioni scientifiche italiane, 1987
83 V. Giura, Lezioni di Storia Economica, Edizioni scientifiche italiane, 1987
84 V. Giura, Lezioni di Storia Economica, Edizioni scientifiche italiane, 1987
A partire, dalla fine del XIX secolo inizia a porsi la “questione meridionale” che portò a

constatare definitivamente come, nonostante il Regno d’Italia avesse compiuto dei progressi

notevoli, vi era sullo sfondo un grave squilibrio territoriale tra le condizioni economico-sociali

del nord e del sud.85

I dati sul PIL pro-capite dimostrano, inoltre, la particolare tendenza di tutto il sud Italia a

staccarsi “insieme” dallo sviluppo del resto del Paese (complice anche la fine del

protezionismo degli Stati preunitari che mandò in crisi quelle poche attività che in maniera

scarsamente produttiva riuscivano a stare sul mercato). A riguardo fanno riflettere i dati della

Campania (che il 1871 aveva una media di PIL pro-capite pari a 107,2) e della Sicilia, che

ebbero una decrescita costante fermatasi solo il 196186.

Ma quali sono i momenti in cui il divario nord sud cresce e si consolida? Per rispondere a

questa domanda ci vengono in soccorso gli studiosi Emanuele Felice e Giovanni Vecchi che

in “Italy’s Modern Economic Growt”, nel grafico dei divari regionali per macro-aree, mettono

in evidenza che, a partire dal 1871 e fino al 1951, la quota di PIL pro-capite in tutto il sud

Italia decresce in maniera costante e proporzionale a quanto cresce la ricchezza al nord.

Divario che, nel 1951, raggiunge il suo massimo storico.

Nel 1865/66 in Sicilia e nel napoletano entrò in crisi l’industria cotoniera che fu

definitivamente affossata dalla fine della guerra di secessione americana che riportò il cotone

d’oltreoceano sul mercato87.

85 V. Giura, Lezioni di Storia Economica, Edizioni scientifiche italiane, 1987


86 E. Felice, Perché il sud è rimasto indietro, Il Mulino, 2013
87 V. Giura, Lezioni di Storia Economica, Edizioni scientifiche italiane, 1987

33
3.4 La rivoluzione industriale nel Regno d’Italia

La rivoluzione industriale nella penisola italiana, rispetto al nord Europa e soprattutto

all’Inghilterra, arriva in ritardo tanto da inserire il nostro paese tra i cosiddetti second comers,

cioè quei paesi che “inseguivano” l’industrializzazione.

Partita in Inghilterra a cavallo tra il XVIII e il XIX la Rivoluzione industriale aveva già

interessato la Francia e il nord dell’Europa. Nello specifico, quando la rivoluzione industriale

si affaccia nel nostro Paese, lo fa con estremo ritardo e avviene nel periodo della cosiddetta

seconda rivoluzione industriale e tuttavia non portò immediatamente il Paese al centro del

sistema economico. L’Italia per lungo tempo fu un paese periferico riguardo ai grandi processi

di industrializzazione, nonostante qualche piccolo insediamento tessile in Piemonte e

Lombardia e il sostegno statale per lo sviluppo della siderurgia a Napoli, l’Italia passò -

utilizzando le parole di Vera Zamagni - “dalla periferia al centro del sistema economico” solo

a partire dagli anni ‘70 del XX secolo.

Il Regno d’Italia all’unità si presentava a prevalenza agricola e, l’agricoltura, contribuiva

per il 58% al prodotto privato lordo, con il 20% dell’industria e il 22% del terziario.88 Solo

nel “decennio giolittiano” (tra il 1901 e il 1913) l’Italia compie un primo balzo in avanti tra i

Paesi più industrializzati che di fatto coincide con il termine delle opere infrastrutturali

avviate dopo l’unità.

I primi atti di politica economica del Regno riguardarono l’unione di tutti i debiti degli stati

preunitari accollandoli al nuovo bilancio nazionale. Il debito pubblico ammontava a 2.444

milioni di lire, che aumentò (anche a causa della debolezza della finanza statale) a dismisura

fino al 1865 quando il deficit raggiunse i 2.178 milioni di lire e il debito pubblico aumentò di

2.660 milioni di lire88.

88 V. Giura, Lezioni di Storia Economica, Edizioni scientifiche italiane, 1987


Il 1866, a causa di voci insistenti di una imminente guerra tra Prussia e Italia contro

l’Austria, le quotazioni dei titoli pubblici nazionali crollarono e l’Italia fu costretta a decretare

il corso forzoso della Lira e quindi la sua inconvertibilità in oro. Inoltre si dovette procedere al

risanamento del bilancio e fu di fondamentale importanza riportare il bilancio in pareggio,

necessità che comportò l’introduzione di nuovi tributi tra i quali la più discussa: la tassa sul

macinato. Ricorrendo a un prestito estero di 644 milioni di lire in oro e argento, nel 1883 fu

reintrodotta la convertibilità delle banconote e l’evento ebbe effetti benefici che portarono a

una rivalutazione della lira del 10%89.

Il nuovo Regno investì molto sulle ferrovie e sulla marina e nonostante le difficoltà

economico-finanziarie, che abbiamo già avuto modo di affrontare, l’avessero costretto a

vendere le ferrovie, queste furono riacquistate il 1905. A partire dal 1861, l’investimento in

infrastrutture ferroviarie era stato pari a 12.600 milioni, una cifra pari al reddito nazionale

italiano del 1900. Gli investimenti importanti non si fermarono solo alle strade ferrate e

avevano coinvolto anche la marina mercantile che riuscì a quasi raddoppiare il tonnellaggio

dal 1862 al 1870 e nello stesso periodo triplicò il tonnellaggio delle navi a vapore. Un

problema nuovo sorse sul principio degli anni ‘70, quando i velieri (che in maggior parte

componevano le flotte italiane) furono sostituiti con le navi a vapore, momento in cui

emersero con forza le debolezze del sistema industriale italiano e l’assenza di tecniche

innovative che si unirono alla debolezza storica dell’assenza di materie prime e che portarono

gli armatori ad acquistare le navi a vapore soprattutto all’estero visto che quelle prodotte in

loco, non erano del tutto soddisfacenti90.

Il cotone ben presto diventò il ramo principale dell’industria tessile. Indicativi i dati delle

importazioni di cotone greggio che passarono dalle 12.500 tonnellate del 1861 alle 200 mila

tonnellate del 1910, mentre le esportazioni passarono da 300 a 49 mila tonnellate dal 1861 al
89 V. Giura, Lezioni di Storia Economica, Edizioni scientifiche italiane, 1987
90 V. Giura, Lezioni di Storia Economica, Edizioni scientifiche italiane, 1987

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1913. Nel 1914, in Italia c’erano 4 milioni e 600 mila fusi e 120 mila telai 91. Molto meno

rilevante l’industria laniera presente soprattutto in Veneto, Piemonte e Lombardia.

Come abbiamo avuto modo di vedere, notevole impulso all’industria meccanica e

metallurgica lo diede la crescita degli investimenti in costruzioni ferroviarie e marittime, ma

non deve ingannare quanto abbiamo visto, in realtà nel 1901 in Italia i settori metallurgico e

meccanico contribuivano per il 12% alla manifattura del paese, mentre in Germania per

esempio, alla stessa data, il settore metallurgico e meccanico contribuiva del 26%92.

Il 1861, anno simbolo dell’unità, il Regno d’Italia produceva 26.551 tonnellate di ghisa

d’altoforno e 30.000 tonnellate di ferro laminato, mentre solo l’Inghilterra, il 1860, aveva

prodotto 3.890.000 tonnellate di ghisa d’altoforno. Alla base di queste differenze tra l’Italia e

altri paesi europei, vi era l’arretratezza della tecnica e, soprattutto, la mancanza di materie

prime come ferro e carbone. Indicativa è la produzione di minerali di ferro il 1914 che in

Italia era pari a 700 mila tonnellate, quando la Germania ne produceva 220 milioni e

l’Inghilterra 300 milioni di tonnellate93.

Ulteriore contributo all’industria venne dal settore edilizio dovute al “nuovo” urbanesimo

che portò città come Roma, Torino e Milano a raddoppiare la loro popolazione.

Importanza non secondaria, nel processo di industrializzazione del Paese, ebbe la forza

idraulica che servì a produrre energia elettrica che passò dai 3 milioni di kilovattore del 1881-

1900 a 752 milioni di kilovattore del 1901-1094 dove, accanto alle industrie di produzione di

energia, sorsero la Compagnia Generale di Elettricità e la Ercole Marelli divenuta, poi,

Magneti Marelli.

Nel primo decennio unitario aumentarono, come già evidenziato, le importazioni del 61% e

le esportazioni del 92%. I primi vedevano protagonisti il carbone, il ferro, l’acciaio, il cotone,

91 V. Giura, Lezioni di Storia Economica, Edizioni scientifiche italiane, 1987


92 V. Giura, Lezioni di Storia Economica, Edizioni scientifiche italiane, 1987
93 V. Giura, Lezioni di Storia Economica, Edizioni scientifiche italiane, 1987
il frumento e la gomma, mentre i secondi riguardarono soprattutto i prodotti agricoli che poi

cedettero il passo ai prodotti industriali intorno ai primi anni dieci del ‘900.94

94 V. Giura, Lezioni di Storia Economica, Edizioni scientifiche italiane, 1987

37
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