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Sociologia della musica (fine ‘800 – Francia) Etnomusicologia (fine ‘800 – Germania/Gran Bretagna)
Fra i più importanti sociologi della musica troviamo Max Weber. Sociologo tedesco, si occupò di
economia, diritto, metodologia delle scienze sociali. Per quanto riguarda la sociologia della musica
egli pose principalmente la sua attenzione sul sistema tonale, ed è stato l'unico a definire i
rapporti fra questo e il sistema socio-culturale. Le considerazioni weberiane sulla musica si trovano
espresse principalmente in un breve saggio, pubblicato postumo, intitolato I Fondamenti razionali
e sociologici della musica (1921). La domanda fondamentale che Weber si pose è dunque perché il
sistema tonale si è sviluppato soltanto in Europa e non in altri paesi. A questo quesito vi fornisce
alcune spiegazioni. Innanzitutto nota che il sistema tonale - in particolar modo la divisione
dell'ottava, da cui risulta la scala diatonica - è un tipo di sistema molto razionale perché,
paragonato, ad esempio, alla scala pentatonica, esso è più articolato. Inoltre, quello che colpisce
molto Weber, è la grande razionalità dei principi che regolano l'andamento melodico, validi allo
stesso modo per l’andamento armonico. Nell'andamento melodico del sistema tonale, infatti, si
attribuisce un significato diverso alla tonica, alla dominante, alla sottodominante, o alla sensibile.
Così come in una melodia ciascun grado ha un significato diverso, così anche dal punto di vista
armonico l'accordo di tonica, di dominante, di sottodominante e di sensibile acquistano diverse
funzioni. Oltre a ciò anche la scrittura (notazione) secondo Weber è un'ulteriore volontà di
razionalizzare, perché significa inserire qualcosa che ha un decorso temporale all'interno dello
spazio. Quindi, un'operazione, che a noi può sembrare scontata come mettere simboli su carta,
per Weber corrisponde con ciò che egli definisce un'<<azione sociale razionale>>. Inoltre è un
sistema che in altre culture non esiste. Nel suo testo parla poi della razionalità legata alla
costruzione degli strumenti musicali, sempre più tecnicamente elaborati e, soprattutto, sempre
più omologati. Secondo Weber tutto ciò è accaduto in Europa come diretta conseguenza
dell'Illuminismo, corrente che ha attribuito alla razionalità e al progresso un'enorme importanza e,
non a caso, come lo stesso autore fa notare, nel 1722 nacque il trattato di Rameau sul sistema
tonale (Traitè de l’harmonie). Con esso Rameau codificò certe prassi che però oramai erano già
fissate nella cultura comune del tempo.
Va infine ricordato che Weber, nei suoi scritti, non predilige mai un sistema di un paese rispetto ad
un altro, anzi, egli, essendo un grande viaggiatore, sosteneva addirittura che spesso, le persone
extra-europee, avevano un orecchio molto più sviluppato di noi europei. Questo è, probabilmente,
una conseguenza del tipo di sistema musicale da loro adottato.
Altro importante sociologo della musica è John Henry Mueller. Sociologo tedesco-americano,
Mueller si occupa invece della ricezione delle opere musicali, in particolar modo del gusto
musicale. Egli si pone domande come: Che gusto musicale hanno gli americani? quali sono gli
autori che preferiscono? Infatti scrive The American Symphony Orchestra: A Social History of
Musical Taste (1951), prendendo undici tra le più importanti orchestre sinfoniche d’America come
riferimento e facendo delle vere e proprie statistiche sul loro repertorio, diventando il primo
sociologo ad impiegare strumenti statistici nell’ambito della sociologia musicale. Dalla sua analisi
deduce che, molto spesso, la ricezione musicale è influenzata dalla politica. Nel 1850 ad esempio,
negli Stati Uniti, c'era una buona programmazione musicale tedesco-austriaca (80%); invece,
durante la prima guerra mondiale fino agli anni '50, diminuisce molto (50%). Ciò per motivi
decisamente politici. Mueller nota inoltre che, inizialmente, la musica italiana non veniva molto
ascoltata in America, ma fra il 1939 e il 1957, quando Toscanini risiedette in America come
direttore, l'ascolto di musica italiana salì moltissimo. La causa era ovviamente la sua grande
diffusione grazie alla figura di Toscanini, che dirigeva molta musica italiana. In conclusione
Mueller, nel suo studio, nel cercare di capire quali sono gli aspetti che influenzano la
programmazione musicale di un teatro, individua fra le principali cause la politica.
Il terzo celebre sociologo è Theodor Adorno. Filosofo e musicista tedesco nato a Francoforte, fu
allievo di composizione di Alban Berg. Egli fu in stretto rapporto con Thomas Mann, al quale diede
suggerimenti per la composizione delle parti di argomento musicale del romanzo Doctor Faustus
(1947). Naturalmente Adorno adorava la musica, oltre che di Berg, di Shönberg e di Webern.
Adorno, fu costretto, durante le leggi razziali, all’esilio negli Stati Uniti per ritornare poi, negli anni
'50 in Germania. Fra i suoi scritti principali troviamo la “Filosofia della musica moderna” (1949),
dove si sofferma sull'analisi della musica a lui contemporanea parlando fondamentalmente di due
compositori, che per lui rappresentano due diversi modi di vivere quel momento storico: essi sono
Arnold Shönberg e Igor Stravinskij.
Per Adorno colui che interpreta, nella maniera più corretta, la crisi del momento (Novecento) è
Shönberg, mentre Stravinskij viene definito come colui che ha voltato le spalle alla realtà e ha
trovato una sorta di evasione; naturalmente Adorno si riferisce al suo periodo neoclassico. Adorno
li pone in antitesi fra di loro e si esprime in maniera molto negativa nei confronti di Stravinskij che,
secondo lui, rappresenta la restaurazione, una sorta di ritorno al passato. Invece Shönberg
rappresenta colui che guarda in avanti, colui che si rende conto che la nostra civiltà sta
attraversando un periodo di crisi e reagisce ad esso con della musica autentica e coerente.
Adorno, almeno come punto di partenza, concorda con Max Weber nel riconoscere che, nella
società occidentale, sta avendo luogo una progressiva razionalizzazione.
La società attutale, per lui incarnazione di una fase del capitalismo avanzato, è conseguenza
dell’Illuminismo e del progresso tecnologico. Ciò si esprimerebbe nella produzione e nel consumo,
messo in moto da quella che egli definisce l’“industria culturale”, termine usato per designare il
complesso tecnologico-industriale che rende possibile, tramite i mass-media, la produzione, la
riproduzione e la distribuzione dei prodotti artistici.
Ecco allora che, all’inizio del Novecento, l’arte (quella “vera” per Adorno) si isola e tende a
estraniarsi dalla società. Egli sostiene che la vera musica costituisce un “bene” sui generis, dotato
di “valore d’uso”, ma non di “valore di scambio”, vale a dire il valore commerciale che la musica ha
nel mercato della cosiddetta “industria culturale”. Adorno, infine, dilata le argomentazioni
presenti nella “Filosofia della musica moderna” in un saggio intitolato “Invecchiamento della nuova
musica” (1954), che verrà poi inserito nel volume “Dissonanze”, del 1958.
Ascolto di: - A. Shönberg – Farben da Cinque pezzi per orchestra (1909)
- I. Stravinskij – Ottetto per fiati (Sinfonia, Tema con variazione e Finale) (1922-23)
Altro celebre testo di sociologia musicale di Adorno è Introduzione alla sociologia della musica, il
risultato di alcune lezioni che Adorno impartì a Francoforte dopo il suo ritorno in Europa negli anni
'60 (1961-62). Adorno, qui, si rivolge quasi esclusivamente a due soli termini di riferimento: la
società di massa consumistica degli Stati Uniti e le società europee nel loro periodo fascista e
nazista. Di entrambi i tipi di società Adorno aveva un’esperienza diretta e sofferta perché nel 1933,
a causa delle leggi razziali in Germania, egli dovette, come numerosi altri intellettuali tedeschi,
emigrare negli Stati Uniti. Nel testo egli parla dei tipici comportamenti dell’ascolto musicale degli
individui, etichettando alcuni tipi di ascoltatori caratteristici della società occidentale, cercando
anche di relazionare la loro modalità di ascolto alla "classe sociale" di appartenenza.
Troviamo poi il buon ascoltatore, colui cioè che ascolta in maniera musicale anche se non è
totalmente consapevole di ciò che ascolta, ignorando la struttura e gli elementi costitutivi della
musica. In sostanza è colui che, pur ascoltando attentamente, non è del tutto conscio di ciò che
ascolta, mancandogli un’adeguata competenza tecnica. L'ambiente sociale nel quale Adorno
colloca il buon ascoltatore è l'alta aristocrazia.
Il terzo viene definito come l'ascoltatore colto, o il consumatore di cultura, per il quale Adorno non
ha nessuna pietà. Coincide con tutti coloro che vanno frequentemente a teatro per sentire i
concerti, sanno tutto di Storia della musica, sull'interprete e la sua biografia. In genere queste
persone collezionavano tanti dischi, libri sulla musica, oltre a parlare ore ed ore di essa. Il rapporto
diretto con la musica è sostituito quindi da un’accumulazione, più vasta possibile, di nozioni
musicali. Secondo Adorno questo ascoltatore non ascolta in maniera adeguata perché, pur
padroneggiando tutto il contorno musicale non riesce realmente ad entrare dentro la musica.
Egli colloca questo ascoltatore nell'alta e media borghesia.
Poi c'è l'ascoltatore emotivo: quello che vede nella musica una funzione liberatrice e che,
attraverso di essa, riesce a provare determinate emozioni; generalmente, quindi, esso predilige
musica sentimentale. Adorno li definisce "professionisti ottusi", persone cioè calate così tanto nel
loro lavoro da non riuscire a provare molte emozioni; la musica è quindi un qualcosa che li fa
sentire vivi.
Troviamo poi l'ascoltatore risentito o astioso. Questi, per Adorno, sono coloro che amano solo J. S.
Bach o i pre-bachiani. Hanno quindi scelto un settore musicale, giudicando tutto il resto come
spazzatura. Naturalmente sono molto attenti all'esecuzione filologica e, quando vanno ad un
concerto di Bach ad esempio, se esso non viene eseguito al clavicembalo bensì al pianoforte
(esecuzione non filologica), inorridiscono. L’incapacità di questi ultimi a un ascolto adeguato
consiste nel fatto che vengono ignorati interi settori musicali che invece sarebbe importante
conoscere. Inoltre, l'ascoltatore risentito, detesta il jazz.
L'ambiente in cui esso viene collocato è quello della piccola borghesia, che mira ad ascendere nella
scala sociale.
Abbiamo poi l'esperto di jazz o <<fan>> del jazz. Adorno deduce i tipi di ascoltatori soprattutto
dalle città americane poiché, per molto tempo, egli risiedette negli Stati Uniti, dove il jazz andava
molto. Gli ascoltatori di musica jazz sono in disaccordo tra loro e ogni gruppo coltiva le sue varietà
specifiche. Ad Adorno non piaceva questo genere musicale, afferma infatti che i l'ascoltatore di
jazz si crede all'avanguardia anche se in realtà non lo è.
Troviamo inoltre l'ascoltatore di musica per passatempo. Questo è, per Adorno, il miglior oggetto
dell'industria culturale. Questo perché, l'ascoltatore per passatempo, ascolta musica solo per
distrarsi, per riempire il vuoto. Esso, secondo il sociologo, viene fagocitato dall'industria culturale,
che gli propina tutto ciò che essa ritiene sia giusto fargli ascoltare. Egli non sceglie, perché accende
la radio e ascolta senza fare scelte ben precise. Adorno afferma che è facile incontrare tale
ascoltatore prevalentemente in realtà provinciali, tuttavia non lo colloca in un determinata classe
sociale, ma, sicuramente, non può esser definito come un uomo di cultura.
Ad ogni modo, oltre alla lista delle varie tipologie di ascoltatori, l'atteggiamento critico di Adorno
non è soltanto nei confronti della musica ma anche, più in generale, della società. Questo
soprattutto perché, vivendo per molto tempo negli Stati Uniti, toccò con mano un'industria
culturale molto più potente di quella europea, rimanendone letteralmente schifato.
Egli esprime quindi una netta posizione contro la mercificazione e il Capitalismo, e da ciò risulta
chiaro il suo evidente risentimento per certe musiche e, allo stesso tempo, l'esigenza di
valorizzarne altre che hanno scelto come via quella dell'isolamento, come i componenti della
Seconda Scuola di Vienna (Shönberg, Berg e Webern). Al contrario Stravinskij, secondo Adorno, ha
cambiato stile (neoclassico) con l'intenzione di ottenere più consenso, al contrario di Shönberg o
Webern. Tra i componenti della “seconda scuola di Vienna”, tuttavia, quello che ebbe più
consenso fu Berg, probabilmente perché si cimentò sia nell'opera che in un recupero della musica
del passato.
Fra alcuni approfondimenti di sociologia musicale nel presente articolo, il sociologo Mahling
(1932-2012), si chiede se nell'opera lirica, al pari del teatro di prosa, ci possa essere una vera
denuncia sociale e se l'opera lirica possa svolgere la funzione di autorappresentazione della
società.
Con autorappresentazione egli intende il trasferimento sulla scena dell’opera della quotidianità
della società. Quindi il pubblico cerca di identificarsi con quanto viene rappresentato, rendendo
così possibile un’autorappresentazione. È inoltre necessario puntualizzare che la società non viene
rappresentata nella sua totalità, ma solo per coloro che, in base alla loro posizione, hanno il diritto
di assistere all’opera. Di conseguenza, se si dà uno sguardo a tutta la storia dell’opera, si osserverà
che non si può parlare di autorappresentazione dell’intera società.
Egli tratta inizialmente dell'opera di corte (1600), la quale rappresentava sulla scena soprattutto la
società, molto limitata, di chi fruiva realmente di questa opera: i cortigiani, i nobili, gli aristocratici.
Oltre all'opera di corte cita anche il grand-opéra, rappresentata in Francia nella seconda metà
dell'800, riguardante situazioni e personaggi della borghesia, che a sua volta si riconosce in questo
tipo di spettacolo, molto sfarzoso, con grande uso di balli e scenografie molto lussuose.
Mahling sostiene che, in tutte le opere della Storia della musica, non si può parlare di una vera e
propria "rappresentazione" ma, semmai, di un’“illustrazione di situazioni” e comportamenti con
l’ausilio di soggetti storici. Viene definita un'illustrazione quando, ad esempio, viene rappresentato
un popolo soppresso attraverso un'opera lirica, ambientata però in un periodo storico diverso
rispetto a quello degli ascoltatori. Quindi viene sì rappresentata la stessa problematica, però in
periodi storici diversi da quelli attuali. A tal proposito egli porta come esempio Nabucco di Verdi e
il Boris Godunov di Musorgskij o il Fidelio di Beethoven (l’uomo che soffre ingiustamente).
Se il comparire di personaggi di ceti inferiore è una cosa ovvia già negli intermezzi e poi nell’opera
buffa, da questo va distinta la successiva introduzione programmatica del “popolo” e dei suoi
rappresentanti. Non si può quindi parlare di autorappresentazione della società nell’opera, ma di
una semplice possibilità di riconoscersi e di identificarsi con essa. Nel melodramma non è insolita
la rappresentazione di rapporti sociali o l’illustrazione di condizioni sociali e Le nozze di Figaro e il
Don Giovanni sono spesso stati addotti come esempi di critica sociale per il diciottesimo secolo.
Ma c’è, nell’opera, una reale critica della società?
Nel suo scritto inoltre, Mahling, porta come esempi di denuncia sociale due sole opere della Storia
della musica: Le nozze di Figaro (soprattutto) e Il Don Giovanni di Mozart. Mahling si chiede se
possiamo affermare che, ne Le nozze di Figaro di Mozart, ci possa essere una denuncia sociale
oppure no. Esse hanno come soggetto il dramma teatrale Mariage de Figaro (Il matrimonio di
Figaro - 1784) dello scrittore e drammaturgo francese Beaumarchais (Parigi, 1732-1799). Divenne
poi un'opera grazie anche al libretto di Lorenzo Da Ponte. Naturalmente nella stesura del libretto,
molto spesso, possono essere tagliate delle scene, cambiate alcune situazioni. Inizialmente il
Mariage de Figaro di Beaumarchais, opera molto provocatoria, era in 5 atti e venne rappresentato
nel 1784 a Parigi. Il sovrano, all'epoca, era Luigi XVI, che mostrò tutto il suo sdegno verso di essa,
anche se venne comunque rappresentata ed ebbe molto successo. Questo perché in quel periodo,
in Francia, c'era la consuetudine da parte dell'aristocrazia di divertirsi a veder rappresentati i loro
stessi difetti.
Per quanto riguarda Le Nozze di Figaro di Mozart (1756-1791), venne rappresentata nel 1786 a
Vienna dopo che il librettista, Da Ponte, dovette chiederne il permesso al sovrano. Il sovrano
acconsentì, a patto che venissero tagliate le scene più provocatorie, che, infatti, furono tolte.
Mozart non era particolarmente attratto da problematiche sociali e la scelta de Le nozze di Figaro
fu dovuta più al fatto che il barbiere di Siviglia di Paisiello (1782), sempre su testo di Beaumarchais,
aveva avuto tanto successo. Si crede quindi che Mozart lo avesse scelto più per utilizzare un
libretto di successo e non per il suo interesse verso problemi sociali. Da Ponte, nella stesura del
libretto d'opera, accorperà il terzo e il quarto atto (Le nozze di Figaro sono in 4 atti mentre il
Mariage de Figaro in 5) oltre ad eliminare il monologo del quinto atto, oggetto di denuncia sociale.
Nel 5° atto dell’opera teatrale di Beaumarchais c'è infatti un monologo che venne tagliato perché
qui Figaro si esprime facendo palesi critiche anche nei confronti degli aristocratici denunciando un
mondo aristocratico corrotto e elogiando la libertà di stampa. (Vedi fotocopia monologo Le nozze
di Figaro). Mentre Figaro attende la contessa Susanna in giardino, recita un lungo monologo,
difficile da ripresentare all'interno di un opera, dove sono presenti recitativi e arie. Forme come il
recitativo o l’aria infatti non si adattano all’enunciazione di principi di critica sociale. Viene perciò
sostituito, nell'opera di Mozart, da un aria che non ha alcuna denuncia sociale. Qui troviamo
Figaro che se la prende con le donne, questo perché Susanna ha fatto degli intrighi, tuttavia non
c’è una denuncia sociale. Inoltre non vi è presente la stessa carica sociale che c'era nel monologo
di Beaumarchais e Mahling giustifica ciò in questo modo: oltre al fatto che sicuramente il sovrano
non avrebbe gradito una denuncia sociale, afferma anche che l'opera è costruita in maniera tale
da non poter esporre molti concetti, creare un dialogo come nel teatro di prosa, in quanto, l'opera
settecentesca, è strutturata in un'alternanza di recitativi e arie, che oltre ad essere scritte in versi
hanno spesso ripetizioni. Quindi il taglio del monologo non è stato imposto solamente dalla
volontà del re. Mozart inserisce inoltre nell'opera un'altra aria che è stata vista spesso come una
piccola denuncia; si tratta di “Se vuol ballare signor contino”, aria però quasi scherzosa, dunque,
anche in questo caso, è difficile vederci una vera denuncia sociale.
L'altra opera che è stata citata da Mahling come esempio di contestazione sociale è il Don
Giovanni (1787) di Mozart. Qui una sorta di denuncia sociale avviene soltanto in alcune scene, fra
cui quella iniziale. Coincide con l'aria di Leporello che si lamenta della sua posizione sociale:
<<Notte e giorno a faticar...>>; questa, però, non è una vera e propria denuncia sociale, perché il
personaggio, pur denunciando il benessere dell'aristocrazia, vorrebbe vivere anch'egli nell'agio
(“...Voglio fare il gentiluomo”). Perciò denuncia sì la sua posizione, ma, allo stesso tempo,
smentisce la sua critica, ambendo a voler essere come il padrone (Don Giovanni), elemento,
questo, che emerge in tutta l'opera.
C'è un'altra scena del Don Giovanni in cui abbiamo una rappresentazione di tre classi sociali, anche
in questo caso però, senza alcuna critica. Si tratta della scena dei balli, dove il protagonista invita
tutti al suo palazzo per una festa. Dal punto di vista musicale le differenze sociali all’interno
dell’opera vengono elaborate in modo evidente solo in questa scena.
Nello specifico Don Ottavio e Donna Anna ballano il minuetto, Don Giovanni e Zerlina una
contraddanza, mentre Masetto e Leporello ballano una danza rustica (Deutscher Tanz).
È qui da evidenziare un particolare effetto ritmico; infatti, fra le danze collegate fra di loro, emerge
un'asimmetria ritmica con un forte spostamento di accenti.
Ad ogni modo la conclusione di Mailing, dopo l'analisi di tutti questi esempi operistici, è che,
nell'opera lirica, soprattutto a causa della sua forma e struttura, in particolar modo delle arie e dei
recitativi, oltre al fatto che la musica necessità di più tempo rispetto al parlato per frasi complete,
non può esserci alcuna denuncia sociale, poiché ne risulterebbe alleggerita. Nell’opera teatrale (di
prosa) infatti l’argomento risulta attuale, stimolante e rivoluzionario, mentre nell’opera risulta
come “distanziato”, con un effetto smussante. Questi pochi esempio dovrebbero aver mostrato
che nell’opera lirica, tanto l’autorappresentazione quanto la critica della società sono difficili, se
non sostanzialmente impossibili.
Max Weber – La fortuna storica del pianoforte e le sue motivazioni sociali (1921)
Ulteriore approfondimento sullo stretto rapporto fra musica e società riguarda l’evoluzione del
pianoforte e le motivazioni del suo enorme successo.
Innanzitutto il pianoforte ha due origini storiche tecnicamente molto differenti. Da una parte esso
nasce dal clavicordo, strumento poi sacrificato dalla concorrenza del pianoforte a martelletti
quando, a decidere il destino degli strumenti musicali non era più unicamente la richiesta di una
ristretta cerchia di musicisti e di dilettanti raffinati, ma erano le condizioni di mercato di una
produzione degli strumenti su base capitalistica.
La seconda fonte del pianoforte è il clavicembalo, le cui corde pizzicate non danno possibilità di
controllo della forza e del timbro, ma danno grande libertà e uniformità nel tocco. Gli organisti
erano generalmente, fino al XVIII secolo, i costruttori dei pianoforti, quindi anche i primi
compositori di una letteratura per pianoforte. Il suo pubblico era costituito però essenzialmente
da dilettanti, e in primo luogo dalle comunità più legate alla casa, favorendo così l’esecuzione di
melodie e danze popolari.
Il XVI secolo era ancora essenzialmente vincolato al liuto per l’accompagnamento del canto,
tuttavia il clavicembalo guadagnò terreno e diventò lo strumento caratteristico per
l’accompagnamento della musica vocale, e poi per l’opera. Gli organisti e i pianisti si sentivano
perciò gli esponenti dello sviluppo della musica armonica, soprattutto in antitesi agli strumenti ad
arco. Dapprima l’influenza della danza sulla musica strumentale francese e poi l’esempio del
virtuosismo violinistico, emancipò la musica del pianoforte dallo stile organistico.
Domenico Scarlatti fu il primo, all’inizio del ‘700, a utilizzare virtuosisticamente lo strumento.
Questo inizio del virtuosismo pianistico, insieme con il sorgere di una grande industria del
clavicembalo basata sulla crescente richiesta di parte delle orchestre dei dilettanti, arrecarono le
ultime grandi modificazioni tecniche dello strumento. Lo sviluppo del pianoforte a martelletti si è
perfezionato attraverso diverse tappe, in parte sul suolo italiano (con Cristofori) e in parte su
quello tedesco. Il centro più importante della produzione e dell’ulteriore sviluppo tecnico del
pianoforte si trovò però nella regione della Sassonia. Al centro dell’interesse vi erano, tra i pregi, la
possibilità di smorzare e rafforzare i suoni e il loro prolungamento.
Johann Sebastian e Carl Philipp Emanuel Bach si tennero neutrali nei confronti del pianoforte e
specialmente il primo scrisse una parte notevole delle sue opere migliori per il clavicembalo e il
clavicordo. Soltanto con Mozart, accanto al bisogno crescente di un rendimento di mercato e di
massa da parte degli editori musicali, degli organizzatori di concerti e del grande consumo
musicale, portarono alla definitiva vittoria del pianoforte a martelli.
Dapprima in Inghilterra (Broadwood), poi anche in America (Steinway), dove l’eccellente ferro da
costruzione tornò utile per le intelaiature di ferro, venne rafforzata la produzione dello strumento
su larga scala industriale. Già all’inizio del XIX secolo esso era divenuto un regolare oggetto di
commercio, e veniva prodotto in grandi quantità. La sfrenata concorrenza fra le fabbriche ha
aperto la strada verso quella perfezione tecnica dello strumento utile a soddisfare le sempre
crescenti esigenze tecniche dei compositori. In aggiunta, le opere per orchestra possono essere
rese accessibili ad un uso domestico grazie ad una riduzione per pianoforte.
La sua posizione al giorno d’oggi consiste nella sua utilità alla scopo di appropriarsi di quasi tutti i
tesori della letteratura musicale oltre che strumento universale per l’accompagnamento e per lo
studio musicale, basandosi, la nostra educazione all’armonia, sostanzialmente sul pianoforte.
Alla sua nascita, all’inizio del diciassettesimo secolo, il melodramma era una festa di corte, un
intrattenimento fastoso che un sovrano offriva per celebrare la propria magnificenza. Anche quando
è divenuto accessibile al pubblico pagante esso si è sviluppato sotto la protezione dei re e dei principi
fino alla fine del ‘700, continuando a rappresentare per loro la più prestigiosa manifestazione del
lusso. Con le macchine, le scenografie, i solisti, i coristi, il corpo di ballo e l’orchestra, poteva esistere
solo grazie ai finanziamenti privati dei principi e dei re.
Ad esempio, la preoccupazione principale dell’arte di un compositore come Lully era di piacere al
re, perché ciò rappresentava il criterio stesso del valore dell’opera. Ovunque in Europa la situazione
è identica: l’opera si sviluppa sotto la protezione di principi con la funzione di celebrare la loro gloria.
Da ciò ne conseguono molte opere mediocri, ma anche un buon numero di capolavori ancora capaci
di affascinarci. In ogni caso, scrivendole, i compositori si adattavano ai precisi desideri di coloro che
“servivano”.
Per quanto riguarda il grand-opéra, la borghesia, che nel corso dell’800 secolo si sarebbe
trasformata in classe dominante, ha preteso che l’opera svolgesse per sé lo stesso ruolo
precedentemente svolto presso i sovrani. Il grand-opèra borghese, quale si è venuto configurando
intorno al 1830 con Rossini e Meyerbeer ha caratteristiche di debolezza legate alle condizioni
economiche e sociali borghesi. Lo stato borghese, infatti, non ha potuto sostituirsi ai vecchi
monarchi nella pratica del mecenatismo. I teatri lirici sono stati perciò condannati da sovvenzioni
pubbliche sempre troppo modeste per vivere degli incassi e del pubblico. L’opera, da quel momento,
ha dovuto dipendere dal successo commerciale delle rappresentazioni. Non ha quindi smesso di
essere un grande spettacolo, tuttavia non ha più lo scopo di esaltare la grandezza dei re, ma quello
di convalidare il trionfo della borghesia.
Le opere di Meyerbeer esemplificano bene questo grand-opèra romantico che, per accrescere i
propri incassi, ha voluto sedurre un pubblico sempre più esteso, sacrificando, senza esitazioni, il
valore estetico a favore dell’apparenza: per guadagnare il favore delle folle gli allestimenti pieni di
orpelli accanto gli effetti tecnici, hanno spesso acquistato un peso maggiore rispetto a quello della
musica stessa.
Il grand-opéra dell’Ottocento è un’espressione significativa di quella scissione dell’arte che si è
verificata nel momento in cui si è registrata la tendenza della democrazia a diffondersi in tutta la
società. Un’arte di massa che, dando valore all’appagamento estetico del pubblico più esteso, si
“commercializzava”, accettando di svalutarsi, separandosi da un’arte che, invece, rifiutava ogni
seduzione e non voleva più tener conto dei gusti e delle esigenze del pubblico: ciò che possiamo
definire un’“arte per artisti”. È nell’odierna società industriale che si è presa chiaramente coscienza
di questo dualismo. Gli intellettuali e gli stessi artisti oggi danno importanza solo ad un’arte che si
può definire “alta cultura” e disprezzano quella di massa. Ma in realtà questa frattura cominciò a
mostrarsi all’inizio dell’800. Nel campo della musica essa si manifestò nella contrapposizione tra una
“musica leggera”, costruita per piacere alle masse, ed una “musica seria”, una “grande musica”, che
dichiaratamente non intende rivolgersi che ad un’èlite, a coloro che compiono lo sforzo di
comprendere il suo linguaggio. L’opera dell’Ottocento è stata quindi un’arte di massa, non
presentando tuttavia i requisiti di quella che Adorno, e altri dopo di lui, hanno definito industria
culturale. Con l’opera, per la prima volta nella nostra civiltà occidentale, la musica ha raggiunto il
“grande pubblico”. Non è ancora la “massa” dei nostri giorni, ma è costituito quasi completamente
di borghesi. Se frequentare l’opera era un indice di distinzione sociale, l’ambizione del piccolo-
borghese e presto del proletario sarà quella di recarsi all’opera. Così l’opera del diciannovesimo
secolo prefigura l’odierna arte di massa. Come questa, è stata sottomessa, prima di tutto, a degli
imperativi commerciali. Tuttavia ciò non significa che, per natura, tutte le sue produzioni siano state
condannate alla mediocrità. Vi sono numerosi esempi che provano come, pur accettando le
limitazioni imposte da un’arte di massa, alcuni artisti siano giunti a trarne vantaggio, riuscendo a
dominarle per creare dei prodotti di qualità. Pur adattandosi a tutti i limiti dell’opera come arte di
massa secondo i gusti borghesi del tempo, con intrecci melodrammatici, allestimenti fastosi e
belcanto, Bellini, Verdi, Bizet o Puccini hanno potuto scrivere capolavori che occupano un posto
fondamentale nella storia della musica.
La distinzione tra un’arte di massa e un’arte colta si è incarnata, nell’Ottocento, nella separazione
tra l’opera e la musica pura (specie la musica strumentale, le sinfonie, i concerti, la produzione
cameristica). L’opera era un’arte per i borghesi, la musica strumentale un’arte per gli artisti. L’opera
è rimasta un genere “funzionale”, asservito a un pubblico sempre più vasto; tutti gli altri generi sono
divenuti “musica pura”, musica che ha sempre rifiutato qualsiasi “funzione” e che non si è posta
altro scopo che quello di soddisfare la coscienza del compositore.
All’interno del contesto in cui lo spirito che animò le grandi riforme dell’imperatore Giuseppe II e le
concomitanti trasformazioni socioeconomiche della società austriaca, lo studioso Sombart ha
tracciato l’utile distinzione tra lusso quantitativo e qualitativo. Adottando questi ultimi come
categorie fondamentali della condotta culturale determinata da fattori socioeconomici, Sombart
afferma che il lusso quantitativo è caratteristico della nobiltà europea post-rinascimentale, mentre
quello qualitativo riflette il ricorrente desiderio di prodotti migliori piuttosto che numerosi,
desiderio particolarmente radicato nella borghesia in ascesa della fine del diciottesimo secolo e
dell’inizio del diciannovesimo.
La musica settecentesca rifletteva la smania per il lusso quantitativo non solo nella proliferazione
senza precedenti dell’attività musicale, specie nel campo dell’opera, ma anche in termini
intrinsecamente musicali. Un caso del genere era la grande aria italiana che, nella prima metà del
diciottesimo secolo, dominava la scena musicale grazie ad una eccezionale esibizione vocale.
La nascita del virtuosismo strumentale rappresentava, ovviamente, un fenomeno correlato.
Il regno di Giuseppe II durò non più di dieci anni, ma quel decennio, dal 1780 al 1790, sconvolse la
struttura della società austriaca. L’imperatore ed i suoi aristocratici collaboratori non desideravano
abolire il lusso come tale, né in senso artistico; piuttosto, cercarono di incoraggiare la qualità anziché
la quantità, l’individuo invece che la massa. Non era quindi una semplice coincidenza che spingeva
Mozart, esasperato dalle concezioni quantitative profondamente radicate, a stabilirsi
definitivamente a Vienna proprio nel 1781, il primo anno di quel periodo che la storia politica è
giunta ad identificare come “età di Giuseppe II”. Nei discorsi e attraverso la stampa Giuseppe II
stimolava vigorosamente la nazione a compiere i suoi doveri verso la patria e provvedeva al suo
popolo con generosità e magnanimità. Ha creato ospedali ben attrezzati per molte migliaia di
persone, ha istituito scuole di medicina e di veterinaria in tutti i suoi possedimenti ereditari italiani
e tedeschi. Ha abbellito la capitale (Vienna), e insieme con essa i grandi sobborghi che crescevano
giorno per giorno, adornandola con eleganti edifici ed arricchendola di innumerevoli manifatture;
ha aperto al popolo tutti i castelli ed i parchi. Infine ha richiamato alcuni dei più famosi artisti per
abbellire i teatri pubblici. Ogni arte, ogni scienza trovava in lui un protettore. Non ultimo, tra i
numerosi modi in cui la musica trasse vantaggio dall’atmosfera liberale e cosmopolita della Vienna
di Giuseppe II, fu l’incremento dell’attività musicale nelle ricche dimore nobiliari delle città, non
appena si risentirono gli effetti della riduzione del mecenatismo di corte. Poiché le condizioni
materiali – legate al tempo stesso ai luoghi fisici ed alle situazioni finanziarie (teatro) – teoricamente
escludevano le rappresentazioni di opere liriche anche nelle più lussuose residenze aristocratiche,
la musica strumentale poté accrescere il suo prestigio in misura senza precedenti.
Nell’inverno del 1782 il principe Galitzin assunse Mozart per tutti i suoi concerti, e durante la
stagione successiva il compositore lavorò regolarmente per i conti Esterhàzy. Mozart in cinque
settimane suonò cinque volte per Galitzin e nove per gli Esterhàzy. Queste serate aristocratiche
rappresentavano per lui la maggior fonte di reddito. Inoltre, i concerti estivi dell’Augarten (parco
viennese), che cominciarono nel 1782 e fin dall’inizio utilizzarono il talento compositivo ed esecutivo
di Mozart, attrassero un uditorio sempre più vasto, costituito dai settori superiori della borghesia,
come avveniva per tutti i concerti che si svolgevano nel luogo pubblico.
Al tempo di Giuseppe II, quando il potere pubblico compì il primo tentativo di porsi al servizio della
collettività, Mozart riunì sulla scena tre diversi strati sociali, ma tutti intenti a divertirsi nella stessa
sala da ballo all’invito di un aristocratico che accoglieva i suoi ospiti in nome della libertà.