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Musica e società

(ma vedi anche e per intero: http://www3.unisi.it/ricerca/prog/musica/Index.htm)

Le questioni che emergono quando si osservano le relazioni tra fenomeni musicali e i contesti sociali in cui essi si
manifestano sono sostanzialmente tre: il concetto di musica è costruito socialmente? Qual è la funzione sociale della
musica? La musica è in grado di influenzare l’organizzazione sociale o, viceversa, l’organizzazione sociale determina forme,
contenuti e strumenti dell’esperienza musicale? Malgrado si tratti di problematiche determinanti per una maggiore
comprensione del ruolo della musica nelle comunità umane, lo studio delle relazioni tra musica e società ha faticato a
imporsi nel dibattito musicologico, condizionato dalla prevalenza di un’inclinazione storica e analitica.
La stessa area di ricerca che dovrebbe indagare tali aspetti – la sociologia della musica – non solo si è costituita come
disciplina soltanto a partire dai primi decenni del Novecento, ma ha anche trovato difficoltà nel difendere la propria
autonomia e nel trovare strumenti culturali adatti a sviluppare i propri studi. Identificata come ramo minore della
sociologia o come filone poco ortodosso degli studi musicologici, la sociologia della musica ha visto disperdere molte
energie nei tentativi di circoscrivere il proprio campo d’indagine, a lungo compressa tra lo scetticismo dei formalisti – per
cui le opere musicali sono regolate da leggi e istanze autonome rispetto alla società in cui vengono prodotte e recepite – e il
meccanicismo della prospettiva contenutista, che tende a stabilire stringenti rapporti di causa-effetto tra strutture sociali e
pratica musicale. Solo a partire dagli anni ottanta del secolo scorso gli studi sulle relazioni tra musica e società hanno
assunto una dimensione più ricca e organica grazie all’incontro tra sociologia della musica, etnomusicologia e cultural
studies.

MUSICA E SOCIETÀ PRIMA DELLA SOCIOLOGIA DELLA MUSICA. LE RAGIONI DI UN RITARDO


L’idea che sussistano importanti relazioni tra musica e società non è, ovviamente, una scoperta del XX secolo;
l’interpretazione di tali relazioni nella storia del pensiero occidentale, tuttavia, è forse la causa principale del ritardo con cui
la sociologia della musica si è affermata come disciplina.
Nel pensiero antico, e per lunghi secoli in seguito, è la seconda domanda – qual è la funzione sociale della musica? – a
costituire l’oggetto di riflessione; da Platone in poi, è la musica che può determinare – obbedendo a precise prescrizioni
etiche – la formazione di una buona società. Ciò riflette una concezione di musica a lungo dominante nella filosofia
occidentale, che si disinteressa della sua dimensione pratica e la interpreta come combinazione di proporzioni matematiche
che riflettono l’ordine del cosmo (o, nella prospettiva cristiana, del creato). Quando tale paradigma verrà messo in crisi –
prima dall’Illuminismo e poi, con più decisione, dal Romanticismo – si assisterà a un progressivo cambio di atteggiamento,
seppure in una direzione che ancora non favorirà lo studio della musica in una prospettiva sociale. Se infatti Rousseau
(1712-1778) – identificando nella società organizzata l’allontanamento dallo stato di natura e parallelamente
nell’evoluzione del linguaggio un progressivo allentamento dell’originale forza comunicativa della musica – seppure in una
luce negativa coglie una relazione tra dinamiche sociali e musica, nel pensiero romantico lo sbilanciamento verso
l’esperienza musicale individuale (compositiva o performativa) confina la società nei ruoli passivi di spettatrice, seguace o
oppositrice della volontà di potenza dell’artista.

I PIONIERI – MUSICA E SOCIETÀ IN GEORG SIMMEL, MAX WEBER E ALFRED SCHUTZ


Solo nel Novecento, quando la musica abbandona i circuiti elitari aristocratici prima e borghesi poi per diventare – con
l’avvento dei mezzi di riproduzione – prodotto e fenomeno di massa, emergono le prime riflessioni di carattere
autenticamente sociologico sulla musica. Si tratta di esperienze isolate e frammentarie, legate prevalentemente alle
inclinazioni musicali individuali di sociologi e filosofi.
Georg Simmel (1858-1918) evidenzia da un lato la socialità dell’esperienza dell’ascolto, capace di sintonizzare molte
persone sullo stesso brano musicale, sottolineando dall’altro come la musica esprima sotto diversi aspetti gli elementi
costituitivi di una comunità. Non senza qualche semplificazione, Simmel identifica nella melodia il parametro musicale che
esprime il carattere di un gruppo sociale, nell’armonia l’indicatore del grado di complessità di una società e nell’evoluzione
del ritmo – presenza forte e ripetitiva già in età preistorica, che nella società moderna diventa realtà frenetica e irregolare –
uno degli elementi di spersonalizzazione della contemporaneità. Compito del buon compositore è, per Simmel, far
emergere nel modo più autentico la “voce” della comunità di cui fa parte.
Max Weber (1864-1920) inserisce la riflessione sulla musica nel quadro complessivo del suo pensiero, dominato dall’idea
che l’affermazione della società moderna sia il risultato di un processo di razionalizzazione e di crescente dominio tecnico
sulla realtà. La musica non fa eccezione ed è anzi uno dei motori di tale processo; Weber ricostruisce così una storia del
linguaggio musicale che muove dal perfezionamento tecnico degli strumenti e delle pratiche esecutive e compositive. In
questa prospettiva, ad esempio, la diffusione del pianoforte facilita sia lo sviluppo del virtuosismo che la pratica dei
dilettanti, rispondendo così alle esigenze differenziate della società di massa. Al perfezionamento degli strumenti
corrisponde, nella visione sin troppo meccanica e normativa di Weber, l’evoluzione del linguaggio compositivo, che
progressivamente si libera delle regole della tonalità, per aprirsi a una libertà creativa priva di direzione che trova
corrispondenza in una società in cui il dominio tecnico formale ha il sopravvento sui contenuti.
Alfred Schutz (1899-1959) sviluppa le sue considerazioni sociologiche a partire da posizioni fenomenologiche. Cogliendo
soprattutto la dimensione temporale dell’oggetto musicale (v. Tempo), identifica due livelli comunicativi nell’esperienza
dell’esecuzione, uno più generale e l’altro più specifico. Il primo riguarda il solo interprete: Schutz suggerisce che ogni
esecuzione sia guidata da una forma di precomprensione del brano, precomprensione determinata dagli insegnamenti
ricevuti, dagli ascolti fatti, dalle proprie esecuzioni, dal periodo storico in cui vive, ecc. Una precomprensione socialmente
derivata e socialmente approvata, che consente al musicista di adeguare la propria esecuzione particolare a dei tipi ideali
generali (con il termine tipi Schutz intende le forme dell’apriori della conoscenza). Per descrivere il secondo livello di
comunicazione dell’esperienza musicale, Schutz prende in esame la situazione del concerto, rilevando come la natura
temporale della musica renda possibile che un avvenimento del tempo esterno quale l’esecuzione consenta all’interprete di
ricostruire il flusso interno di coscienza del compositore e renderne partecipe l’ascoltatore. In tal modo la musica agisce
come forza sincronizzante delle singole durate (la durée bergsoniana) dei partecipanti al concerto, fa sì che essi invecchino
insieme, cioè condividano il medesimo tempo. Si instaura quindi una relazione di simultaneità tra esecutore e ascoltatore e
di quasi-simultaneità tra ascoltatore e autore. La musica consente perciò di stabilire una relazione intersoggettiva che,
estranea al linguaggio, possiede tutte le caratteristiche della relazione di mutua sintonia, una situazione di condivisione
pre-comunicativa. Secondo Schutz si può dimostrare che ogni forma di comunicazione è derivata da questa interazione
sociale esemplare.

THEODOR W. ADORNO E LA SOCIOLOGIA DELLA MUSICA


Le riflessioni appena riportate sono frammentarie o occasionali all’interno del sistema di pensiero degli autori citati. Il
primo contributo organico allo studio delle relazioni tra musica e società viene sviluppato da Theodor Wiesengrund
Adorno (1903-1969). Muovendo da posizioni marxiste, Adorno sostiene l’esistenza di un rapporto di causa-effetto tra
l’organizzazione delle strutture sociali e quella delle strutture musicali; così, ad esempio, la musica di Beethoven e la
peculiare organizzazione della forma sonata sono riflessi dell’affermazione della borghesia, mentre la musica di Chopin è il
prodotto dei salotti in cui viene pensata ed eseguita.
Uno dei tratti che caratterizzano la società moderna, in cui il mercato ha acquisito una forza dominante crescente, è
secondo Adorno la progressiva trasformazione della musica in prodotto di consumo di massa, in maniera più evidente
nella forma del jazz e delle canzonette. A questa “falsa coscienza”, il filosofo contrappone quella autentica della musica colta,
capace di esprimere – anche attraverso sperimentazioni radicali – le contraddizioni e le aporie del sistema sociale in cui si
dispiega.
Di questa impalcatura concettuale – che tuttavia, nella caratteristica struttura “a costellazioni” del pensiero adorniano, si
arricchisce di punti di vista diversi e a volte contraddittori – Adorno si serve per prendere in esame numerosi aspetti della
pratica musicale – dall’opera lirica alla direzione d’orchestra, dalla critica musicale ai rituali di consumo – pervenendo a una
classificazione delle tipologie di ascoltatori – dagli esperti che padroneggiano la tecnica agli a-musicali, passando per gli
ascoltatori sentimentali e i consumatori di musica.
L’esteso lavoro di analisi serve ad Adorno per delineare gli obiettivi della sociologia della musica, che nella sua prospettiva
corrispondono in primo luogo a una descrizione delle relazioni tra potere politico-economico e prassi musicale in un dato
quadro sociale, evidenziando come l’ideologia dominante manipoli le coscienze attraverso la deformazione dei sistemi di
produzione musicale e quali forze si oppongano a simili tendenze.
I MONDI DELL’ARTE E LA CRITICA SOCIALE DEL GUSTO
La sociologia della musica di Adorno – anche per stessa ammissione del filosofo coincidente con la sua visione estetica – ha
costituito un termine di confronto irrinunciabile per il dibattito successivo, scatenando tuttavia anche molte opposizioni.
La sociologia empirica americana, che predilige l’approccio interazionista, con il suo più autorevole rappresentante
Howard Becker (n. 1928) ha messo in discussione i presupposti della sociologia adorniana, giudicando semplicistico
interpretare meccanicamente le relazioni tra struttura sociale e musica, sia perché la struttura sociale è un’astrazione che
spesso corrisponde a un’indistinta generalizzazione, sia perché è erroneo considerare il significato musicale come
immanente al fenomeno e immodificabile.
L’approccio suggerito da Becker considera al contrario il significato musicale come determinato socialmente, nella
concreta collaborazione tra soggetti coinvolti nella pratica musicale e contesto culturale di riferimento. È la teoria
dei “mondi artistici”: ogni gruppo sociale produce e si riconosce in istituzioni e pratiche musicali precise, dotate di
significato relativo in una prospettiva assoluta, ma assoluto nella sua relatività. Non ha quindi alcun senso, in tale
prospettiva, giudicare un repertorio, un genere o una prassi musicale più o meno artistici di altri in generale; ciascun
fenomeno musicale si può valutare solo in rapporto al mondo artistico in cui vede la luce.
Ulteriori elementi di riflessione critica sulla prospettiva adorniana emergono, seppure indirettamente, nell’opera di Pierre
Bourdieu (1930-2002), che attraverso un’imponente indagine statistica giunge a dimostrare come i gusti musicali – e i
giudizi estetici che da essi derivano – siano il prodotto delle differenze sociali esistenti: l’alta borghesia, ad esempio,
apprezza Bach, mentre la classe operaia è gratificata dai valzer degli Strauss. È un passo ulteriore rispetto a Becker: non solo
il significato della musica è costituito socialmente, ma anche la formulazione dei giudizi estetici è determinata
dall’appartenenza a una classe sociale. La posizione di Adorno, con la sua pretesa che esista una musica autentica che riflette
le contraddizioni del reale e si oppone a prodotti sonori di massa, non è dunque antisistemica come pretenderebbe, ma anzi
non fa che rafforzare le differenze sociali esistenti.
A partire dagli anni settanta, infatti, soprattutto in ambito anglosassone, gli esiti del pensiero di Becker e Bourdieu
alimentarono gli studi di una nuova generazione di musicologi, che criticò ancor più duramente le posizioni di Adorno.

ETNOMUSICOLOGIA, POPULAR MUSIC, GENDER STUDIES: VERSO UNA NUOVA SOCIOLOGIA DELLA MUSICA
L’affermazione dell’etnomusicologia suggerì una crescente diffidenza nei riguardi di ogni astratto concetto di musica d’arte,
privilegiando lo studio e la descrizione dei fenomeni musicali in azione all’interno di un determinato gruppo sociale; di più,
lo stesso esercizio della sociologia della musica prese sempre più a connotarsi come strumento politico. Testi come il
celebre How Musical Is Man? (Com’è musicale l’uomo?) di John Blacking (1928-1990), muovendo da posizioni marxiste ma
ribaltando la prospettiva adorniana, utilizzano gli esiti degli studi etnomusicologici per corrodere alle fondamenta le
gerarchie estetiche della musica occidentale, mostrando come i rapporti di potere abbiano trasformato in leggi semplici
convenzioni sociali, snaturando la percezione e la descrizione dell’esperienza musicale.
Autori come John Shepherd (n. 1947) e soprattutto Simon Frith (n. 1946) misero in discussione l’idea che la popular
music potesse essere considerata una categoria indistinta e degradata complessivamente a prodotto commerciale. I loro
studi, al contrario, erano tesi a dimostrare come il rock esprimesse musicalmente le istanze di gruppi sociali avversi
all’ordine costituito, interpretando proprio quella funzione di critica del potere che Adorno riteneva appannaggio esclusivo
della musica colta.
L’atteggiamento critico nei confronti dello strapotere concettuale della teoria musicale mutuato da Blacking
dall’osservazione delle pratiche musicali di gruppi sociali non-occidentali, caratterizza negli anni ottanta anche riflessioni e
contributi polemici sui rapporti tra musica e società interni alla musica occidentale, in particolare nell’ambito della New
Musicology. Susan McClary (n. 1946) – così come, in maniera più o meno polemica, Eva Rieger, Marcia J. Citron, Ellen
Koskoff e altre studiose che hanno animato il dibattito musicologico a partire dalla fine degli anni ottanta – da una
prospettiva femminista studia storia, forme e generi musicali del repertorio colto come dispiegamento dell’impianto
maschilista della società occidentale. In questa scia si svilupperanno i cosiddetti gender studies, che descrivono le connessioni
tra identità – sessuale soprattutto, ma anche etnica e religiosa – e pratiche musicali e rappresentano uno dei filoni più ricchi
e complessi della recente sociologia della musica.
È interessante osservare come approcci simili – pur sviluppandosi da presupposti concettuali del tutto diversi e persino in
aperta contrapposizione con il modello di sociologia musicale delineato da Adorno, di cui intendono mostrare la
dipendenza pregiudiziale da un sistema di valori arbitrario e ideologico – finiscano paradossalmente per confermare l’idea
adorniana di una connessione profonda tra strutture e dinamiche sociali e produzione musicale.
PENSARE MUSICA E SOCIETÀ OGGI
Dopo gli anni novanta, la sociologia della musica si nutre sempre più di contaminazioni con altre aree del sapere come
antropologia, psicologia, filosofia, statistica e, negli ultimi decenni, il vasto settore dei cultural studies. Si può quindi parlare di
una natura liquida di questo ambito di studi, di un atteggiamento che interessa ormai gran parte del dibattito musicologico.
I temi più discussi e studiati negli ultimi anni sono l’identità, la differenza e la globalizzazione, in uno sguardo duplice che
tende a considerare sia la specificità delle singole culture che il loro relazionarsi all’interno di uno scenario mondiale
composito e in trasformazione. In questa prospettiva ha e avrà sempre più in futuro un ruolo determinante la diffusione dei
nuovi media, che se da un lato produce mutazioni delle pratiche musicali ancora da descrivere e valutare, dall’altro pongono
in maniera del tutto nuova il problema del controllo sociale e della libertà dell’individuo, con riflessi significativi
sull’organizzazione delle istituzioni musicali e sulla produzione e diffusione della musica. (AF)

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
Antonio Serravezza, La sociologia della musica, Torino: EDT, 1980.
Veniero Rizzardi, Musica, politica, ideologia, in Enciclopedia della musica, diretta da Jean-Jacques Nattiez, vol. I, “Il
Novecento”, Torino, Einaudi, 2001, pp. 67-83.
Simon Frith, L’industrializzazione della musica e il problema dei valori, in Enciclopedia della musica, diretta da Jean-Jacques
Nattiez, vol. I, “Il Novecento”, Torino, Einaudi, 2001, pp. 953-965.
Theodor W. Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, Torino: Einaudi, 2002.
Howard S. Becker, I mondi dell’arte, Bologna, Il Mulino, 2004.
Simon Frith, Sociologia del rock, Milano, Feltrinelli, 1982.
John Blacking, Come è musicale l’uomo?, Milano, LIM, 2000.
Susan McClary, Feminine Endings: Music, Gender, and Sexuality, Minnesota, University of Minnesota Press, 1991.
Le funzioni della musica
“La musica non è mai sola”, diceva il compositore Luciano Berio. Essa nasce e si articola in molteplici forme e con diverse
funzioni ovunque esiste vita e comunicazione umana. Perché la musica, anche quando non trasmette un messaggio
specifico e traducibile in parole, è una forma di comunicazione, che riflette e interagisce con il contesto sociale nel quale è
generata e agita. Alla polisemia del termine “musica” corrisponde un’analoga pluralità di funzioni che variano da una cultura
all’altra e si mutano in seno a culture la cui evoluzione è segnata dall’idea di progresso. Il sapere e la prassi musicale in
occidente si sono istituzionalizzati nel corso dei secoli in un sistema di istruzione, documentazione e diffusione, basato sul
concetto di musica come arte e scienza e regolato sempre più marcatamente da criteri di mercato. Questa rete, con le sue
diramazioni di “musica seria” (o “classica” come di solito la si denota con una sineddoche che attribuisce a tutta la musica
colta occidentale la nozione di classicismo legata allo stile musicale della seconda metà del Settecento), “musica leggera” e
altre, ha assimilato nel corso della sua evoluzione molteplici idiomi di musica popolare che, nel processo di
modernizzazione e di acculturazione delle masse, ha perso la propria funzione originaria di accompagnamento delle attività
quotidiane degli individui e delle comunità. La globalizzazione socio-economica e le tendenze transculturali in atto da
alcuni decenni hanno reso i prodotti della musica occidentale fruibili ovunque nel mondo mettendo in crisi la funzione e a
rischio la sopravvivenza di culture musicali di millenaria tradizione, e ponendo in primo piano la complessa questione
di identità culturale e il ruolo della musica nella sua definizione.
Un tentativo di riassumere in pochi capi le funzioni della musica nei suoi molteplici contesti è destinato a essere carente ed
eccessivamente schematico. È necessario un ragionamento fortemente dialettico nella definizione delle finalità di un
fenomeno che abbraccia la sfera individuale e collettiva e che implica al tempo stesso un’attività naturale e artificiale,
istintiva e disciplinata, fisica e intellettuale. L’etnomusicologo Francesco Giannattasio, partendo da un elenco di dieci
funzioni individuate da Allan P. Merriam, le articola in tre categorie principali:
1) funzioni di organizzazione e supporto delle attività sociali;
2) funzioni di induzione e coordinamento delle reazioni sensorio-motorie;
3) funzioni espressive.
Alla prima appartengono le attività musicali relative ai riti religiosi e sociali, alle cerimonie, celebrazioni, ricorrenze, alle
occasioni di lavoro e d’intrattenimento collettivo, in cui la musica funge una funzione di stimolo e di organizzazione. La
seconda categoria isola in effetti un aspetto fondamentale ma non esclusivo di ogni esperienza musicale: la componente
cinetica implicata nell’esecuzione vocale e strumentale nonché nella danza, ma anche nell’ascolto passivo e “nei modi in cui
la musica interagisce con i meccanismi automatici e volontari del corpo umano, concorrendo fra l’altro a reazioni
cinestetiche ed emotive” che possono “contribuire all’induzione di stati di alterazione della coscienza” (Giannattasio) -
stati che si manifestano in molte culture con fenomeni di trans, estasi e catarsi terapeutica. Alla terza categoria appartiene
l’intera sfera dell’espressione individuale, la comunicazione di idee attraverso forme simboliche codificate all’interno di una
cultura musicale, e il godimento estetico. È in questo ambito che si pone in primo piano e con tutti i suoi risvolti la dialettica
tra l’autonomia della musica in quanto organismo artistico che trae senso dalle proprie strutture trascendendo le
circostanze in cui è realizzato, e la sua eteronomia in quanto prodotto e rappresentazione di una determinata realtà sociale e
storica. Il dibattito sulla capacità della musica di comunicare e di trasmettere emozioni e concetti, e sul rapporto tra evento
musicale, realtà extramusicale e la sfera dell’inconscio sono intrisi di questa dialettica.
La funzione terapeutica della musica, nota fin dall’antichità e vagamente implicita tra le tre categorie elencate sopra, ha
avuto negli ultimi decenni un riconoscimento e un’applicazione di notevole profondità e diffusione nella musicoterapia
come campo specifico di studio e di attività professionale. L’importanza della musica nell’educazione fin dalle primissime
fasi della vita è riconosciuta universalmente, ma la sua applicazione varia molto tra le diverse culture e da un paese all’altro.
Mentre nelle società di tradizione orale la partecipazione del bambino alle attività musicali è parte integrante della sua
formazione in quanto membro della comunità, nelle culture occidentali il compito della formazione musicale è delegato a
professionisti e a istituzioni specializzate e ciò comporta spesso una netta carenza nell’introduzione naturale del bambino ai
segreti e ai piaceri della musica.
L’apporto di discipline quali l’antropologia, la psicologia, le scienze cognitive e la semiologia - con le quali lo studio
tradizionale della storia e delle prassi musicali interagisce intensamente negli ultimi decenni - è stato fondamentale per
allargare gli orizzonti e approfondire la comprensione delle dinamiche universali che accomunano l’esperienza musicale in
culture diverse.
“COM’È MUSICALE L’UOMO?”
Uno dei contributi più originali allo studio della musica come linguaggio universale è stato quello dell’etnomusicologo
irlandese John Blacking, che ha esposto le sue idee nel libro “How musical is man?” (Com’è musicale l’uomo, 1973). La
musica è definita da Blacking suono umanamente organizzato e la sua funzione profonda secondo lui è quella di
incrementare la qualità dell’esperienza individuale e delle relazioni umane all’interno della comunità: le strutture della
musica riflettono modi e moti dell’esperienza umana, e il valore di un brano musicale in quanto musica è inseparabile dal
suo valore in quanto espressione di tale esperienza. Blacking fonda la sua analisi della musicalità dell’uomo sulla natura
sociale delle funzioni, delle strutture e del valore della musica. L’aspetto rivoluzionario di questa idea (al tempo della sua
proclamazione molto dibattuta) è la considerazione che tutta siano come forme d’espressione umana e sociale, e quindi
ugualmente "popolari" e ugualmente comunicative. Secondo Blacking i termini "folk" (o "popular") e "arte" dovrebbero
essere, se non proprio aboliti, riferiti non al prodotto musicale bensì ai processi e ai modi di articolazione dell’esperienza che
l’hanno prodotto. Culture di tradizione orale “popolare” possono avere musica "d’arte" anche se tecnicamente parlando essa
è più semplice della musica prodotta in una cultura basata sulla scrittura e sul progresso scientifico e materiale.
Nel postulare una relazione tra musica e società Blacking volge l’attenzione non tanto al grado di sviluppo di una data
società quanto al suo ethos e ai processi socio-culturali che l’hanno generato. Egli ritiene che molti dei processi attivi nelle
relazioni umane in una società sono gli stessi che vengono utilizzati per “organizzare i suoni musicali disponibili” a quella
società. La musica, in tutte le sue manifestazioni, riflette secondo lui l’interazione tra fattori universali legati alla natura
musicale dell’uomo, e fattori sociali e culturali. I prodotti artistici e musicali di una società non sono espressioni astratte o
“rituali” di fenomeni culturali: essi sono dei commenti consapevoli sulla condizione umana, esprimono i rapporti dinamici
tra natura e umanità, e tra le persone nella loro esistenza in diverse culture in diversi momenti. La creatività collettiva di una
comunità nutre la vita interiore dell’individuo che ne fa parte, la creatività individuale si nutre del patrimonio espressivo
della comunità e lo rianima. Nella musica “popolare” il riferimento al contesto sociale è più esplicito ed essenziale; nella
musica “d’arte” il riferimento diventa più allusivo e astratto e il commento risiede nella musica stessa che attraverso dei
procedimenti più o meno complessi acquisisce vari gradi di emancipazione estetica rispetto al proprio contesto sociale.
Dagli esempi più complessi ed evoluti di musica di antica tradizione orale (come quella dei Pigmei Aka dell’Africa
Centrale, studiata dall’etnomusicologo Simha Arom, o da quella della tribù dei Venda del Sudafrica, studiata da Blacking)
emerge una straordinaria fusione di schematicità formale e libertà espressiva; gli eventi musicali che ne risultano sembrano
al tempo stesso improvvisati e costruiti, spontanei ed elaborati, ripetitivi e variati. La musica sembra allora emanciparsi dalla
propria funzionalità che tuttavia ne rimane la fonte imprescindibile.

ASPETTI MORALI DELL’ESPERIENZA MUSICALE


Lo studio delle culture musicali tradizionali e contemporanee rappresenta oggi una corrente importante delle discipline
musicologiche ed etnomusicologiche. La posizione critica nei confronti di un atteggiamento eurocentrista verso le
musiche extraeuropee è oggi largamente condivisa. Il rispetto della diversità e il riconoscimento del valore intrinseco del
patrimonio culturale altrui costituiscono la base degli studi etnologici e antropologici odierni e in campo musicale
rappresentano, almeno idealmente, una salvaguardia contro gli effetti negativi di una globalizzazione che tende a fondere e
commercializzare idiomi lontani tra loro sotto l’etichetta di una “world music” buona per tutte le occasioni. Tale rispetto e
tale riconoscimento significano anche un’attenzione verso i valori extramusicali della tradizione musicale occidentale. I
principi costruttivi ed estetici della musica d’arte europea non possono e non devono diventare una pietra di paragone e un
criterio di giudizio su altri modi di “organizzazione del suono” presso altre culture e altri costumi musicali; ma all’interno
della nostra società essa ha un valore che va ben oltre il diletto estetico. Come abbiamo visto nelle sezioni dedicate al
linguaggio e all’espressione, non è possibile esaurire in parole il senso di questo valore, ma un suo aspetto fondamentale può
essere indicato nella funzione morale dell’ascolto – facoltà che la musica intesa come arte e scienza valorizza ed esplora in
tutte le sue potenzialità.
Il mondo di oggi è invaso da suoni la cui funzionalità non è sempre facilmente definibile. I rumori della civiltà
industrializzata sono dei “by products” dei motori e dei prodotti dell’industria stessa e non hanno alcuna funzione
comunicativa. Specularmente, fenomeni come il “muzak” – i sottofondi sonori diffusi in ambienti pubblici di lavoro,
consumo, trasporto o svago – non hanno altra funzione che quella, presumibile, di attenuare lo stress dell’uomo moderno e
di ridurre l’eccitazione nervosa prodotta da quei rumori. Tali flussi sonori, contraddistinti per lo più da una patina armonica
e melodica dolciastra e indistinta, vanificano l’idea stessa di ascolto e il presupposto che la musica, a prescindere dal genere e
dal grado di complessità e astrattezza, sia sempre, come si è detto, una forma di comunicazione. Ecco perché, per dirla di
nuovo con Blacking, “un madrigale di Gesualdo o una passione di Bach, una melodia di sitar indiana o un canto africano, il
Wozzeck di Berg o il War Requiem di Britten, un gamelan balinese, un’opera cantonese o una sinfonia di Mozart,
Beethoven o Mahler, possano essere profondamente necessari alla sopravvivenza umana”.

MUSICA E IDENTITÀ
Generata com’è all’interno di contesti sociali e comunitari specifici, l’esperienza musicale svolge un ruolo importante nella
formazione e nell’affermazione di identità individuali e collettive distinte e a volte contrapposte. Le forme e le modalità di
questa funzione della musica sono molteplici e corrispondono ai molteplici livelli della vita dell’individuo nella comunità.
Che si tratti di appartenenza sociale, politica, etnica, nazionale, religiosa, linguistica, generazionale, di gender e altre ancora -
a ognuno di questi ambiti corrisponde ovunque un patrimonio di musiche emblematiche che s’investono di un valore
simbolico profondo ed efficace. Gli inni nazionali, le marce militari, le canzoni di protesta e i canti religiosi sono gli esempi
più ovvi di un fenomeno assai più vasto e complesso. La “musica classica” europea, per secoli retaggio della chiesa e
privilegio delle corti aristocratiche, è diventata nell’Ottocento un rito sociale della borghesia. Le canzoni di una patria
lontana mantengono vivi il sentimento di appartenenza degli emigrati. Il grande movimento del rock statunitense negli
anni Cinquanta e Sessanta del Novecento da voce alla rottura di un’intera generazione con i valori della società dei padri. Le
tendenze musicali del mondo giovanile negli ultimi decenni illustrano il peso che può avere l’adozione simbolica ed
effettiva di una corrente musicale nella definizione d’identità dell’individuo e del gruppo. Ascoltare, ballare e magari
eseguire musica punk piuttosto che techno, metal o trans rappresenta lo stile di vita e i valori del giovane non meno e forse
più del suo abbigliamento, del mezzo di trasporto che usa o delle letture che fa.
Forse è questo il segreto della grande forza dell’arte dei suoni: la musica può unire le anime ovunque esse siano attraverso
un elemento non- o metalinguistico che trascende le singole realtà e si rende condivisibile senza altre mediazioni, ma al
tempo stesso essa è capace di costituirsi come mezzo di espressione concreto e inconfondibile di impulsi, correnti e gusti
specifici dell’individuo e delle comunità. (TPB)

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
John Blacking, How Musical Is Man? (1973), trad. it. di F. Giannattasio, Com’è musicale l’uomo?, Milano, Unicopli, 1986.
Francesco Giannattasio, Il concetto di musica: contributi e prospettive della ricerca etnomusicologica, La Nuova Italia Scientifica,
1992.
Marcello Sorce Keller, La rappresentazione e l’affermazione dell’identità nelle musiche tradizionali e le musiche occidentali,
in Enciclopedia della Musica, diretta da J.-J. Nattiez, vol. V: L’unità della musica, Torino, Einaudi, 2005, pp. 1116-1139.

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